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ISBN: 978-88-7615-590-1
I edizione: giugno 2011
© 2011Alberto Castelvecchi Editore Srl
Via Isonzo, 34
00198 Roma
Tel. 06.8412007 - fax 06.85865742
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Cover: Sandokan Studio
Luca Iezzi
FUGA
DAL NUCLEARE
QUALE FUTURO SENZA L’ATOMO?
1. L’apocalisse a Fukushima
Sembrava «solo» un disastro
L’11 marzo 2011 il battito cardiaco dell’attività umana procedeva
regolare: l’Oriente del mondo si avviava a chiudere la propria giornata, mentre l’Occidente era sul punto di svegliarsi. L’elettrocardiogramma globale era ben visibile attraverso i satelliti, i network d’informazione, i flussi di energia elettrica, il tam tam delle Borse valori, le
rotte intercontinentali degli aerei.
Alle 14:46, in un oscuro punto del fondale dell’Oceano Pacifico
a settanta km dalla più vicina costa del Giappone e a cinquecento
km dalla capitale Tokyo, la terra sussulta con una forza mai registrata persino nella storia di uno dei Paesi più sismici del mondo: 9 gradi della scala Richter, vale a dire una quantità di energia liberata, diranno i sismologi americani, pari a 480 bombe da un megatone.
Numeri troppo vaghi per comprendere l’enormità dell’evento, soprattutto in un Paese costruito per resistere alle continue sollecitazioni della faglia sotterranea.
I grattacieli di Tokyo fanno onore all’antica credenza giapponese
che per resistere alle tempeste peggiori bisogna sapersi piegare come
bambù. Le case ondeggiano per più di un minuto, scaffali e controsoffitti cedono, crollano i pali della luce, ma l’opera dell’uomo resiste magnificamente alla prova del sisma.
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Va diversamente nella costa Nord-Est, nelle prefetture di Miyagi,
Iwate e Fukushima, dove le strade sono sventrate da lunghe crepe, le
linee ferroviarie si interrompono e i crolli tra gli edifici non mancano. Il mondo assiste in diretta e si illude che sia una «tragedia normale», per di più affrontata dal Paese meglio attrezzato al mondo. Le
stime affrettate parlano di un numero contenuto di morti.
Invece è solo l’inizio: nove minuti dopo la scossa è già scattato l’allarme tsunami. Il primo bersaglio è lo stesso Giappone, ma la lista
comprende praticamente tutte le coste del Pacifico: Russia, Taiwan, Filippine, Indonesia, Papua Nuova Guinea, Fiji, Messico, Guatemala, El
Salvador, Costa Rica, Nicaragua, Panama, Honduras, Cile, Ecuador,
Colombia e Perù. Dopo circa un’ora le onde raggiungono il porto di
Sendai, di Fukushima e altri duecento km di costa, l’altezza è tra i dieci e i trenta metri. La marcia dell’acqua è lenta quanto inesorabile: vengono travolti ponti, case, strade, fabbriche per decine di chilometri all’interno. La corsa verso luoghi elevati o la fuga dalla città non basterà
a salvare gli abitanti. Le immagini televisive, per lo più amatoriali o da
telecamere fisse, mostrano la forza devastante del mare che avanza senza bisogno di fragore: l’inesorabilità dell’acqua è ben più terrificante
del terremoto. L’incapacità di concepire una simile distruzione come
reale fa scaturire ovunque il commento: «Sembra un film». L’industria
culturale giapponese ha rappresentato la propria distruzione nelle maniere e per le cause più svariate, e nel farlo ha fornito al resto del mondo gli strumenti per visualizzare una catastrofe di tale portata. L’arcipelago è quasi lo scenario naturale per quelle immagini di case in fiamme che galleggiano in pieno oceano, aerei trasformati in navi alla deriva e barche arenate su qualche collina o sul tetto di un edificio.
Invece non solo è tutto reale, ma è anche drammaticamente parziale rispetto allo svolgersi degli eventi dei giorni successivi.
All’alba del 12 marzo il Giappone è un Paese paralizzato, quelli rimasti senza casa si contano in centinaia di migliaia, l’energia elettrica
è assente nell’isola principale di Honshu, quella di Tokyo, e i blackout affliggono l’intero territorio nazionale. Le strade, distrutte e inta-
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sate, rendono i soccorsi lenti e scoordinati. Il capo del governo Naoto Kan appare in Tv nella tuta blu, obbligatoria in casi di emergenza,
e spiega che trecento aerei e quaranta navi sono già dirette nelle aree
colpite e circa 8mila uomini delle forze di autodifesa (l’esercito giapponese) si stanno muovendo.
Le scosse di assestamento sono forti ma gestibili. L’orgoglio nipponico, che chiederà immediatamente di contingentare le offerte di aiuti che arrivano da ottanta Paesi di tutto il mondo, mostra subito la volontà di concentrarsi sulla ricostruzione. I media di tutto il mondo si
preparano a scioccare i propri spettatori con storie di devastazione e a
rassicurarli con episodi di coraggio, fortuna e profonda umanità. Un
copione ben conosciuto e aggiornato dai recenti terremoti di Haiti e
della Nuova Zelanda. Le storie, sempre uguali e sempre appassionanti, di uomini comuni alle prese con una disgrazia epocale, dovranno
invece lasciare il passo a qualcos’altro: una minaccia dimenticata, invisibile e per questo ancora più terribile.
Qualcosa bolle a Fukushima.
L’altra scossa
Seppur di potenza non paragonabile a quella di ventiquattro ore
prima, la scossa delle 15:36 del 12 marzo è quella che trasforma il
terremoto giapponese in un’«apocalisse», come si dirà spesso nelle
ore successive. Milioni di metri cubi di acqua si sono appena riversati dall’oceano sulla terraferma e il mondo è terrorizzato dalla semplice esplosione di un tetto, per di più provocata deliberatamente.
Si tratta però del tetto dell’edificio a tre piani che contiene il reattore numero 1 della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi. Quando i tecnici optano per la misura estrema di «liberare» l’idrogeno accumulato per evitare che la pressione, già 2,5 volte superiore al massimo previsto, faccia danni peggiori, nella centrale hanno già esaurito tutte le opzioni previste in caso di terremoto.
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Le ore immediatamente successive al terremoto le racconterà settimane dopo Hiroyuki Nishi, alla Reuters e ai media nipponici. Nishi è un operaio edile che alle 14:46 dell’11 marzo si trovava nell’edificio del reattore 3: «Ho sentito che tutto tremava e da allora è stato il caos, eravamo duecento, io urlavo: “Basta! Basta!”. Poi le luci si
sono spente. Non ci sono finestre lì dentro e l’unica cosa che si vedeva erano spie rosse lampeggianti». Durante la scossa un uncino di
una gru da venti tonnellate cade a pochi passi da Nishi, ma il terrore s’impadronisce di lui solo quando la stanza si riempie di vapore e
fumo: «Tutti hanno iniziato a tossire e siamo corsi verso le porte, che
si erano chiuse automaticamente». Dopo interminabili minuti di urla gli addetti Tepco tentano di ristabilire la calma, pretendendo che
ognuno venga esaminato per le radiazioni. «Urlavamo di sbrigarsi
perché uno tsunami sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro, ne avranno analizzati una ventina, ma poi siamo scappati tutti».
In Occidente sono le prime ore della mattina, e l’esplosione trasforma il sisma in una minaccia globale. Fukushima abbraccia il destino che la porterà a contendersi la fama con Chernobyl. La fissione nucleare, non più ingabbiata dal controllo umano, è l’unica cosa
in grado di oscurare il timore atavico delle viscere della terra che si
muovono. Anche lo scenario da incidente nucleare è degno di un
film: morti per contaminazione, deserto provocato dalle radiazioni,
venti e piogge che spargono elementi nocivi in tutto il mondo.
L’incidente comincia a delinearsi nella sua gravità mentre le acque
dello tsunami si stanno ancora ritirando. La scossa, di molto superiore al sesto grado della scala Richter, fa scattare il meccanismo di
blocco automatico nei tre reattori funzionanti dei sei che compongono l’impianto. Quello che non funziona è il sistema di raffreddamento ausiliario. L’acqua deve essere pompata nei reattori per abbassare progressivamente la temperatura, ed è impossibile farlo senza l’elettricità prodotta dalla stessa centrale e con gli elettrodotti crollati che tagliano fuori dalla rete nazionale. L’energia dovrebbe arrivare dalle batterie di riserva e poi da generatori diesel. Le batterie si
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esauriscono nel giro di qualche ora e i gruppi elettrogeni non entrano nemmeno in funzione, spazzati via o resi inservibili dall’inondazione. I rappresentanti dell’Agenzia di Sicurezza del governo, la Nisa, che si trovano all’interno della centrale per una riunione di routine, alle 15:37 comunicano a Tokyo che la centrale è completamente priva di energia, un evento considerato impossibile in qualsiasi protocollo di sicurezza.
Privi del sistema di raffreddamento, la pressione e l’idrogeno prodotto dalle alte temperature si accumulano velocemente negli edifici dei reattori 1, 2 e 3. Si prova a far uscire del vapore e dell’idrogeno direttamente all’esterno, accettando l’idea di un’inevitabile fuga
di fumo leggermente radioattivo. Ma i numerosi tentativi fatti all’alba di sabato non producono un abbassamento sufficiente della pressione. Finché si perde definitivamente il controllo, fino all’esplosione del tetto del reattore 1. Per la prima volta i sensori segnalano la
contaminazione dell’aria fuori dalla centrale. È anche il segnale che
ogni protocollo di sicurezza è saltato, e le mosse dei tecnici della Tepco (la Tokyo Electric Power Company) e degli uomini del governo
da questo momento in poi saranno dettate da una buona dose d’improvvisazione. I comandamenti da seguire sono due: limitare i danni ed evitare il verificarsi di uno scenario peggiore di quello in cui ci
si trova a operare. Si cerca qualsiasi fonte di energia, comprese le batterie della auto. I generatori di emergenza arrivano alle undici di sera, ma è impossibile collegarli all’impianto elettrico dei reattori perché i cavi sono troppo corti.
Il governo chiede di evacuare i residenti in un raggio di tre km la
sera dell’11 marzo, mentre per chi si trova nel raggio di dieci km l’indicazione è di rimanere il meno possibile all’aperto. Nel giro di qualche ora lo sgombero diventa obbligatorio fino a venti km dalla centrale, per un totale di 70-80mila persone interessate. Solo due mesi
dopo la Tepco rivelerà che già quella notte, all’una e mezza, Kan aveva richiesto di aprire le valvole per liberare l’idrogeno; ordine eseguito solo sette ore dopo, la mattina del 12, che porterà alla prima
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esplosione. Nelle conferenze stampa successive i dirigenti raccontano, mentendo, che avevano ritardato la depressurizzazione del nocciolo per organizzare l’evacuazione dell’area.
Alle 20:43, tre ore dopo l’esplosione e quasi un giorno dopo aver
perso l’effettivo controllo dell’impianto di raffreddamento, la Tepco
prende la decisione più sofferta: usare delle pompe esterne per irrorare con acqua di mare tutti i reattori. L’acqua salata distruggerà gli
impianti in maniera irreparabile, ma almeno dovrebbe evitare la cosiddetta «sindrome cinese», una palla incandescente di acciaio e uranio che «cola» nel sottosuolo, fondendo con i suoi quattro-cinquemila gradi tutto ciò che incontra.
Cosa sta rischiando il mondo? La domanda riecheggia nelle case,
nei bar, negli uffici, negli studi televisivi e nelle redazioni. Il network
dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, l’Aiea, è in pieno
funzionamento. L’agenzia giapponese (Nisa) è tenuta a informare in
tempo reale il quartier generale di Vienna, in modo che i dati raccolti in loco dalla Tepco e nei vari centri di ricerca sparsi per il mondo vengano condivisi da tutti. Ma il problema è alla fonte: il livello
delle radiazioni rende impossibile (e sarà così per diverse settimane)
avvicinarsi al reattore numero 1 e agli altri. Le informazioni sono in
realtà solo indirette: le letture della temperatura dei sensori ancora in
funzione, le rilevazioni sui livelli di radioattività intorno alla centrale, nell’acqua o nell’atmosfera (spesso fatte con mezzi di fortuna).
Quindi gli ingegneri si muovono con due priorità: capire i reali danni all’interno dei reattori e ridurre al massimo la fuga di radioattività
verso l’esterno.
Il Fukushima Dai-ichi 1 è stato costruito dalla General Electric alla fine degli anni Sessanta, il primo reattore è entrato in funzione nel
1971 e i suoi vicini, costruiti nel corso del decennio, hanno una concezione simile. Si tratta di una tecnologia di seconda generazione di
tipo Bwr (Boiling Water Reactor). Il meccanismo è relativamente
semplice: l’uranio arricchito viene inserito in una serie di barre metalliche lunghe qualche metro; queste sono immerse in acqua puri-
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ficata (detta «leggera»); la fissione nucleare sprigiona energia e fa bollire l’acqua; il movimento continuo del liquido permette il passaggio
del calore verso un circuito secondario contenente a sua volta acqua.
Questa, trasformata in vapore, corre fino alle turbine che con il loro
movimento producono effettivamente l’elettricità.
L’acqua, a contatto con le barre (il cosiddetto «nocciolo»), non
esce mai dal sistema di contenimento (detto «vessel»), una sorta di
calderone in lega di acciaio. Le barre sono rivestite di una lega di zirconio, elemento poco sensibile alla radioattività e resistente alla corrosione dell’acqua. Intorno al vessel c’è una base di cemento armato
e una struttura in cui sono posti i vari circuiti idraulici (quella che
serve per la reazione e per iniettare i liquidi di raffreddamento). Il
principio generale di sicurezza consiste nel mettere il maggior numero di barriere, ognuna con le giuste proprietà, tra il punto in cui
avviene la fissione e l’ambiente esterno.
I reattori a Fukushima sono contenuti in palazzine di tre piani costruite in cemento, le prime a cedere per il sisma e le esplosioni successive. Il vessel è sottoposto a temperature altissime, ed è su questa
struttura che si concentrano i timori di tutta la comunità nucleare
internazionale. L’interruzione del circuito dell’acqua ha sicuramente
lasciato le barre a contatto con l’aria. La sola esposizione produce un
surriscaldamento e la fusione delle barre stesse. Questo è lo scenario
peggiore: barre e vessel si fondono trasformandosi in un unico elemento radioattivo senza più barriere verso l’esterno. Il meltdown, almeno parziale, viene sospettato sin da subito per il reattore numero
1, rendendo urgente il raffreddamento con ogni mezzo disponibile.
Di qui la decisione di usare cannoni ad acqua alimentati dal mare.
Epidemia nucleare
La fuga di radiazioni all’esterno viene certificata la mattina del 13
marzo dall’Aiea, che classifica l’incidente a livello 4 su una scala di
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7. Il livello massimo è stato toccato solo a Chernobyl, dove non solo ci fu la fusione, ma l’assenza di barriere tra il nocciolo e il cielo
amplificarono i danni. L’esplosione e l’incendio successivo «spararono» i radionuclidi prodotti dalla fissione a migliaia di metri di altezza. Il confronto con il precedente ucraino appare sin dall’inizio fuorviante, perché in Giappone l’elemento del tutto nuovo è la crisi diffusa su più centrali: a dieci km di distanza, l’impianto gemello di
Fukushima Dai-ni presenta gli stessi problemi all’impianto di raffreddamento. Nei reattori 1, 2 e 4 si procede, per fortuna senza ulteriori esplosioni, al rilascio di idrogeno per ridurre la pressione. A
Onagawa i tre reattori sono spenti, ma il terremoto ha prodotto una
serie d’incendi; a Tokai, dopo un black-out informativo di diverse
ore, l’unico reattore è stato raffreddato con successo. L’epicentro di
tutte le preoccupazioni rimane ancora Fukushima Dai-ichi. Una seconda esplosione fa saltare anche l’edificio del reattore n. 3, creando
un’ulteriore fuoriuscita di materiale radioattivo. Ma è il n. 2 il vero
osservato speciale: il terremoto ha causato dei crolli, l’acqua è sicuramente uscita dal nocciolo, lasciando esposte le barre e provocando
una fusione parziale. È una corsa contro il tempo per far scendere la
temperatura il più velocemente possibile e contenere le fuoriuscite.
All’acqua di mare viene aggiunto l’acido borico in grado di inibire le
radioattività.
Il direttore generale dell’Aiea, Yukiya Amano, anche lui giapponese, sembra rincorrere l’emergenza da Vienna con frasi rassicuranti: «Gli impianti sono stati scossi, allagati e tagliati fuori dalla rete
elettrica, ma i vessel hanno tenuto e il rilascio radioattivo è limitato». Il rating 4 indica un incidente grave ma che ha effetti circoscritti
all’ambiente immediatamente circostante. Una scelta troppo conservativa che non tiene conto nemmeno dei pericoli già evidenti. L’agenzia per la sicurezza francese pronostica negli stessi giorni una promozione a livello 5 o 6. Anche così quello di Fukushima è un caso
senza precedenti: mai tre reattori diversi sono stati interessati contemporaneamente da incidenti di livello 4.
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I primi giorni sono quelli in cui i rischi sono maggiori. Propriamente raffreddato, un reattore impiega circa una settimana per scendere a una temperatura non pericolosa e scongiurare ogni rischio di
fusione; poi, sempre in condizioni normali, ci vogliono mesi perché
le barre possano essere rimosse e poste in altre piscine di raffreddamento lontano dal reattore. Senza raffreddamento, invece, anche il
reattore «spento» continua a produrre calore, fino a far evaporare
tutta l’acqua del nocciolo e poi a fondere le barre.
Il problema urgente rimane sottrarre calore dal nocciolo con qualsiasi mezzo. L’acqua di mare, spiegano dalla Tepco il lunedì sera, non
sta ottenendo i risultati sperati. Le condutture sono danneggiate e
l’acqua non arriva nel nocciolo, per ben due volte l’acqua scende sotto le barre e le lascia scoperte per ore: si teme che l’uranio prenda fuoco, buchi il vessel ed esca all’esterno. La crisi sembra raggiungere il
suo punto massimo quando anche il reattore numero 4 provoca una
fuga radioattiva: era spento al momento del terremoto. Le barre di
combustibile sono state rimosse nel novembre 2010 e spostate nelle
piscine che si trovano all’ultimo piano dell’edificio del reattore per attendere il loro ulteriore raffreddamento. I malfunzionamenti a catena hanno provocato un’esplosione: la prima ipotesi è che l’acqua utilizzata per il raffreddamento del reattore 3 sia entrata nel circuito del
reattore 4, visto che sono collegati. A questo punto potrebbe essere
stata innescata la reazione chimica fra il vapore e le barre di zirconio,
con conseguente liberazione d’idrogeno. L’esplosione ha svuotato la
piscina e il nuovo contatto con l’aria ha incendiato le barre.
«È un’apocalisse, e potrebbe andare peggio»
Le continue fuoriuscite di fumo e vapore da Fukushima, nonché
le letture fuori scala delle radiazioni nella zona sgomberata, creano
velocemente una psicosi mondiale: c’è una nube che dal Giappone
si sta allargando al resto del mondo? Dove si dirige? Quanto è peri-
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colosa? Le ricostruzioni meteo e i rassicuranti pareri degli esperti sull’estrema diluizione che ogni elemento pericoloso subirà mischiandosi con i venti oceanici non cambia l’umore di fondo: l’opinione
pubblica viene catapultata indietro di venticinque anni. Un’altra
Chernobyl sembrava impossibile, per di più nell’ipertecnologico
Giappone; il sentimento di paura e ripulsa verso l’atomo è immediato ancor prima che il conto delle vittime di Fukushima sia certo,
o che il terremoto presenti il suo. Ad alimentare le insicurezze ci
pensano le rappresentanze diplomatiche in Giappone: gli ambasciatori organizzano rimpatri di massa, e qualcuno sposta la sua sede da
Tokyo alla più sicura Osaka.
Diversamente dal 1986, l’industria nucleare sta vivendo un periodo di «rinascimento», come lo chiamano gli esperti. A guidare le rosee prospettive del settore ci sono i programmi di nuove costruzioni
di Stati Uniti e Cina, ma arrivano ordini anche da Brasile, Italia ed
Emirati Arabi: il mercato si sta addirittura allargando.
La domanda se ha ancora senso intraprendere la strada dell’atomo
civile diventa il tema politico in tutto il mondo. Una prima immediata risposta arriva dal governo americano e da quello tedesco. Washington e Berlino approdano però a conclusioni opposte. «Continuiamo a vedere l’energia nucleare come un elemento molto importante del nostro armamentario per costruire un futuro di energia pulita», è la risposta ufficiale della Casa Bianca dopo solo due giorni di
emergenza, e questo nonostante gli americani siano in prima linea a
Fukushima. La portaerei Ronald Reagan e altre corazzate della flotta a
stelle e strisce si sono avvicinati nelle acque antistanti alla centrale e
hanno poi ripiegato per il rischio contaminazione. È ancora l’esercito
americano a rifornire di liquido refrigerante di emergenza la Tepco.
In patria invece impazza il dibattito sull’eccessiva anzianità degli
impianti statunitensi: dei 104 impianti funzionanti la gran parte è
precedente al 1979, quando l’incidente di Three Mile Island bloccò
le nuove costruzioni, riducendo l’intera industria a manutenzione e
sostituzione dell’esistente. L’amministrazione Obama ha stanziato
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nove miliardi di dollari in garanzie pubbliche per una serie di nuovi
impianti in Georgia, Texas, North Carolina. Cantieri che stentano a
partire per motivi economici e politici, ma che ora rischiano di essere del tutto cancellati. E poi c’è il problema della sicurezza nelle zone
sismische: simbolo delle preoccupazioni diventa la centrale di Diablo
Canyon, in California. Lo Stato famoso per i suoi terremoti ha visto
fisicamente infrangersi nei propri porti le onde dello tsunami dell’11
marzo. Diablo Canyon ha due reattori perfettamente funzionanti,
che dovrebbero essere chiusi solo nel 2024: la società che li gestisce,
la PG&E, ha già chiesto un’ulteriore deroga di vent’anni. Solo che nel
frattempo la forza potenziale dei terremoti della zona sembra essere
stata sottovalutata in fase di progettazione e di localizzazione. Il compromesso trovato è di procedere a nuovi studi, e tra qualche anno decidere sull’allungamento. Nel frattempo la centrale non smetterà di
funzionare.
Se a Washington il sostegno è totale, a Berlino l’incidente giapponese ha il potere in sole quarantotto ore di ribaltare la politica nucleare della maggioranza di governo.
Il 12 marzo a Stoccarda era già in programma una marcia contro la
decisione del governo di allungare la vita delle centrali esistenti in
Germania. Le notizie dal Giappone hanno convinto decine di migliaia di persone a unirsi alla manifestazione, catalizzando un consenso per i temi ecologisti e per il partito dei Verdi che monta da diversi
mesi. In tutti gli altri Paesi occidentali, in cui il nucleare è argomento politicamente ed elettoralmente delicato, la prima reazione è cauta: si fanno diversi distinguo sulla situazione locale e quella giapponese (pricipalmente basati su due variabili: età della tecnologia e sismicità del territorio). In Germania le decisioni vengono prese in fretta:
sette tra i reattori più vecchi vengono spenti, e appare chiaro che per
loro non ci sarà più possibilità di una riattivazione: ora si guarda a un
futuro nuclear free.
Nel 2009 Angela Merkel fu eletta con un programma che prevedeva la sospensione della legge per il progressivo spegnimento delle
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centrali; poi, l’anno successivo, il governo ha concesso a E.On, Rwe,
EnBw and Vattenfall di allungare la vita dei diciassette reattori esistenti da dodici anni. Ma dopo Fukushima la disponibilità nucleare
dei tedeschi viene più che dimezzata: due erano fermi già al momento del terremoto, sette si avviano ad essere chiusi per sempre.
In Spagna l’attenzione degli ambientalisti si concentra su Garona,
vecchio impianto nucleare che doveva essere spento già nel 2011 e
che ha ottenuto il permesso per continuare fino al 2013, permesso
confermato sin dalle prime ore post-Fukushima.
Nella più solenne delle sedi, il Parlamento europeo, il commissario all’energia Günther Oettinger fa un’analisi devastante: «Si parla
di apocalisse e credo che il termine sia particolarmente appropriato.
Praticamente tutto è fuori controllo, non escludo il peggio nelle
prossime ore». L’Austria, uno dei Paesi da sempre più avverso al nucleare, chiede e ottiene che nell’Unione Europea si proceda a una serie di stress test volontari sull’intera flotta atomica dei Paesi membri,
per verificare il reale stato dei sistemi di sicurezza.
Appena fuori dall’Ue, decisamente critica è la situazione della
Svizzera, che ottiene dalle sue quattro centrali il 40% dell’elettricità,
ma i suoi reattori hanno anche un’età media elevata, ben trentasei
anni con punte superiori ai quaranta. Situazione simile per il Regno
Unito, che avrebbe già deciso di affidarsi a una nuova generazione di
centrali per dare all’elettricità fornita dalla fissione un peso maggiore che in passato. Progetto in ritardo per colpa della crisi economica, ma che viene ulteriormente congelato.
Un colpo definitivo al morale dell’industria dell’atomo lo dà la
Cina, che ferma il suo programma, che da solo rappresenta il 50%
delle nuove costruzioni a livello mondiale. Nessuno mette in dubbio
che nell’Impero di Mezzo ci saranno decine di reattori nel giro di
vent’anni, ma anche quella che sembra una miniera inesauribile di
ordini dimostra di non essere al riparo da ripensamenti e soprattutto da un aumento dei costi in nome della sicurezza.
Fuga dal nucleare 17
La lotta contro il mostro
L’uso dell’acqua di mare è solo la prima delle tante trovate improvvisate che si succederanno nella prima settimana di crisi. L’incendio del combustibile esaurito nel reattore 4 viene spento con un
cannone ad acqua dei Vigili del Fuoco, usato normalmente per i roghi nei boschi.
Mercoledì 16 un elicottero militare tenta di sorvolare il reattore
numero 3 per scaricare un carico di acqua e acido borico, ma deve
rinunciare per l’alto livello di radiazioni. Le letture sono altamente
instabili e la centrale deve essere evacuata per qualche ora. Circa settecento persone lavorano quotidianamente nelle sale controllo e intorno agli edifici dei reattori, si cerca di farli ruotare e nei momenti
più pericolosi ne rimangono circa cinquanta. La stima dei danni dice che il 70% delle barre nel reattore 1 sono fuse, almeno un terzo
di quelle del reattore 2 sono danneggiate e in questo caso si teme che
anche il contenimento sia danneggiato. La messa in sicurezza del
reattore n. 3 «è la priorità», chiarisce il portavoce del governo, Yukio
Edano, poco dopo l’intervento degli elicotteri. Il reattore poi viene
inondato con gli idranti fino al tardo pomeriggio.
Tanta attenzione è dovuta al mox, una miscela di uranio e plutonio usata da qualche anno per ridurre il costo del combustibile. Il
plutonio, sottoprodotto della fissione delle centrali a uranio, è largamente disponibile sul mercato perché sempre meno usato in campo
militare. Il mox è più instabile del solo uranio arricchito, potrebbe
facilmente fondersi e inoltre, se disperso nell’aria, il plutonio è estremamente più velenoso.
È in quelle ore che si pensa a una soluzione estrema, alla Chernobyl:
nel caso ci fosse una fusione totale di uno o più noccioli un sarcofago
di cemento sarebbe l’ultima soluzione possibile, lasciando che sotto il
metallo radioattivo continui a sprigionare la propria energia.
In realtà nelle stesse ore si lavora per un parziale ritorno alla normalità, ossia riattaccare la centrale alla rete elettrica: circa 1,5 km di
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cavo vengono stesi con mezzi di fortuna. La corrente viene riattivata prima nei reattori 1-2 e poi nei 3-4, ma non mancano i cortocircuiti o i malfunzionamenti del sistema delle pompe, danneggiato dal
terremoto e dalle esplosioni successive. Il ritorno della corrente si
manifesta con nuovi scoppi e pennacchi di fumo dagli edifici.
Gli idranti con l’acqua di mare hanno ridotto la temperatura, anche se nel numero 1 si rimane oltre i trecento gradi, cioè la soglia
massima durante il normale funzionamento. Un successo che allontana il rischio di ulteriori fusioni e fa crollare la produzione di idrogeno che alza la pressione e tende a deflagrare. Ma le radiazioni sono alte intorno ai reattori, e questo rende impossibile intervenire per
verificare e porre rimedio a danni strutturali. Per collegare l’ultimo
tratto di cavo nel reattore 2-3 alcuni operai in tute isolanti devono
andare fisicamente nell’epicentro del disastro. Il resto delle informazioni sullo stato della centrale arriva da foto aeree, da robot con sensori e dai droni che sorvolano la centrale.
Il rischio di fuoriuscite di materiale radioattivo è ancora ben presente, come dimostrano le rilevazioni del 22 marzo. Da cinque giorni gli elicotteri sorvolano i reattori, quel che resta del sistema di raffreddamento sta funzionando e le temperature nei reattori stanno
scendendo lentamente. I livelli di radiazione rimangono alti, specie
in mare: lo iodio-131 è 126 volte più alto dei limiti e il cesio circa
25 volte. Nessuno sembra capire dove sia realmente la «falla» che
permette questa contaminazione.
Vittime ed eroi
Dopo una settimana il bilancio ufficiale delle vittime del terremoto della regione del Tohoku supera con i suoi oltre 7mila morti
quello di Kobe del 1995, che si fermò a 6.434 (cifra resa definitiva
solo dieci anni dopo). A questo parziale conteggio si aggiungeranno
gli oltre 10mila dispersi ancora da rintracciare. Inoltre ci sono 410mi-
Indice
1. L’apocalisse a Fukushima
2. Fallout
3. La sicurezza
4. Economia
5. Politica
6. Ambiente
5
40
45
62
84
110