Il concetto di cultura
Per gli approfondimenti: U. Fabietti, Elementi di antropologia
culturale, pp. 3-46
– Tratto specifico delle discipline etno-antropologiche, il concetto di cultura va
problematizzato e discusso a fondo, prima di procedere a ulteriori analisi. In primo luogo
perché connota, specifica e diversifica gli ambiti scientifici della disciplina oggetto del nostro
studio. In secondo luogo, perché ci consente un approccio preliminare sgombro da pregiudizi
e luoghi comuni. Cosa si intende comunemente per cultura?
– Le origini socratiche e platoniche della nozione di cultura (concetti che operano nella mente
umana; la paideia ) La prima comparsa dell’etimo nel diciassettesimo secolo come aggettivo
(colto, cultivée, dal latino colere), la sua traduzione in sostantivo in Samuel Pufendorf, giurista
e filosofo (1632-1694), che usa il termine cultura non solo in relazione all’individuo, ma in
rapporto a un sapere collettivo.
– Uso del termine progressivamente: in Herder (1744-1803), che distingue la forma che la
cultura assume nel singolo, diversificandola, anche terminologicamente (bildung, formazione
culturale) dalla cultura (Kultur) intesa come patrimonio sociale; in Alexander Von Humboldt
(1769-1859), geografo e viaggiatore, che per primo usa il termine non solo come generico
singolare, ma come plurale, ad indicare la varietà delle culture e la loro diversità; in Gustav
Klemm, che prima di Taylor, nel 1843, ne intuisce un’accezione di tipo etnologico,
individuandone l’insieme di “costumi, informazioni e tecniche, vita domestica e pubblica,
religione, arte, scienza”
– Nascita e codificazione del concetto etno-antropologico di cultura, ad opera di Edward
Burnett Taylor, nel 1871, in Primite Culture, dove
«la cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso
che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi
altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società.»
– Il dibattito conseguente una simile definizione: annullamento della distinzione tra cultura
materiale e cultura spirituale (Gordon Childe), se si considera che ogni oggetto materiale
prodotto da una determinata società è frutto di una serie di esperienze culturali relative al
modo di costruirlo e al suo uso, ed è quindi anch’esso prodotto spirituale, nella misura in cui si
fa segno, messaggio culturale, al pari di un’opera d’arte o di qualsiasi genere.
– Di qui in poi, concetto antropologico di cultura definisce un insieme di modelli di
comportamento che orientano l’uomo di fronte alla realtà della natura e dei suoi simili,
all’interno di qualsiasi fenomeno sociale; mentre la società sarà costituita e retta da quei
comportamenti umani che assurgono a modelli culturali, che per consenso collettivo
presiedono all’organizzazione dei rapporti sociali, quindi delle istituzioni e pratiche nelle
quali tali rapporti si concretano. Così, la distinzione fra cultura e società cessa di essere una
distinzione fra “cose”, e diventa piuttosto una distinzione fra prospettive di analisi di un’unica
realtà, nella quale tanto la cultura quanto la società sono compenenti essenziali.
– Cultura e società, in questa prospettiva sono due nozioni interdipendenti e afferenti a uno
stesso universo concettuale, mentre un discorso diverso va fatto a proposito della distinzione
fra cultura e civiltà. Con quest’ultimo termine si intende una precisa formazione storicosociale, dotata di prerogative riconducibili a vicende spazio-temporali, in qualche modo
uniche, originali, non ripetibili, e che rendono indispensabile l’aggiunta di un aggettivo di
collocazione storiografica (greca, sumerica, indiana, ecc.): la nozione di civiltà, pertanto,
comprende tanto una data cultura quanto la corrispondente struttura sociale, che è stata
propria di una data congiuntura storica.
– Primo orientamento sulla triplice distinzione disciplinare che ne è conseguita nella
collocazione delle discipline etnoantropologiche: antropologia culturale (privilegia lo studio
delle culture), antropologia sociale (privilegia quello delle società), etnologia (dovrebbe
privilegiare l’approccio comparativo allo studio delle singole culture; in una lunga vicenda
culturale che ha caratterizzato questa disciplina, ha sottomesso questo obiettivo a un
impianto storicistico, volto a connettere reciproche influenze tra culture e civiltà); demologia
La cultura, le culture il lessico di base.
Etnocentrismo: termine coniato dal sociologo G. W. Summer all'inizio del '900, per indicare
la tendenza, spesso istintiva e irrazionale, a valutare culture e società diverse in base ai criteri
della propria cultura, proiettando nozioni mutuate dal proprio gruppo di riferimento
(evoluzione, progresso, sviluppo, alfabetizzazione, produzione, ecc..), con una implicita
sopravvalutazione dell'io collettivo (ethnos) che si assume centralità osservante e valutativa. È
presupposto ideologico e politico dell'intolleranza e del razzismo.
Relativismo culturale: è la modalità di confronto teorico che si oppone all'etnocentrismo,
riconoscendo tutto il potenziale "plurale" del concetto di cultura e predisponendosi al
riconoscimento della diversità culturale come presupposto di molteplicità irriducibili, ma al
tempo stesso comparabili. Alla base della comparazione vi è l'assunto che ogni cultura
possiede un proprio sistema di razionalità e di coerenza, e che ogni manifestazione culturale
va sottratta a qualsiasi criterio di valutazione o validazione estraneo al contesto nel quale si
esprime.
La cutura è "operativa"
Ovvero è un sistema complesso che consente di fronteggiare le sfide dell'ambiente e della vita
associata e mette l'individuo integrato nel gruppo in condizioni di agire il relazione ai propri
obiettivi: cosicchè tra un istinto primario (nutrirsi, riprodursi) e la sua soddisfazione si situa
la cultura, che incanala il cibo nella prescrizione, scelta, lavorazione (cultura alimentare) e la
riproduzione nelle regole sociali, nei tabu, nelle regole matrimoniali (parentela come pratica
sociale)
La cultura è selettiva
Ovvero è un complesso di modelli tramandati, acquisiti e selezionati: le generazioni che
ereditano questi modelli, infatti, li riadattano progressivamente in base alle esperienze e alle
esigenze di un mondo in mutamento (vedere esempi sul manuale)
La cultura è dinamica
Se è vero infatti che le società non sono entità statiche, le culture che le rappresentano sono il
risultato di prodotti storici, prestiti, cessioni, selezioni che derivano dai processi di contatto e
diffusione dei diversi modelli culturali e quindi dalla dialettica tra dinamica interna ed esterna
ad una singola cultura. Uno dei pregiudizi etnocentrici più diffusi tende invece a considerare
le culture "altre" (denominate in passato "primitive", "arcaiche") come culture statiche sul
piano temporale, chiuse a ogni influenza esterna. In realtà ogni cultura ha una sua storia e una
sua intrinseca dinamicità, anche in contesti non attraversati dalla scrittura.
La cultura è stratificata
Infatti, all'interno di una comunità esistono forme e modelli di comportamento che rinviano
alle diversità interne (ai dislivelli interni) di ordine sociale, lavorativo, politico, religioso, ecc.
Lo sguardo antropologico deve quindi affinarsi di fronte a una "società complessa", che
prevede diverse stratificazioni culturali: Gramsci, in relazione all'Italia post-unitaria, coniò le
espressioni "cultura egemonica" e "cultura subalterna" proprio per indicare la cultura di ceti
sociali dominanti e dominati: è una distinzione ancora funzionale.
La cultura è olistica
Se è vero infatti che in ogni contesto culturale i singoli modelli interagiscono in modo
funzionale gli uni agli altri, la cultura va intesa come un'entità olistica (dal greco olos, intero),
ovvero formata da elementi che stanno in rapporto di interazione e interdipendenza
reciproca. Ciò pone l'antropologo nella necessità di studiare qualsiasi fenomeno culturale
come parte di un "sistema" integrato, come elemento che vive in funzione di altri: ad esempio
non si potrà affrontare uno studio sulle caste indiane senza considerare le rappresentazioni
religiose e le implicazioni economiche del fenomeno nella cultura che lo applica; non si potrà
studiare come "sindrome psicotica" un comportamento che pure presenta gli stessi sintomi
che la nostra cultura psichiatrica riconosce ad esso, ma che si radica in un sistema sociale,
affettivo, identitario e religioso diverso dal nostro.
Quando si adotta una prospettiva olistica, si è obbligati a considerare ogni aspetto di una
cultura in relazione agli altri suoi aspetti, quindi a definire i contesti in cui si collocano i
fenomeni studiati.
– Rapido accenno preparatorio al confronto interdisciplinare tra antropologia culturale e
scienze dell’uomo, tenendo conto che in una simile prospettiva possiamo consentirci di
istituire una quasi identificazione, per lo meno di metodo e di quadri teorici di riferimento, tra
l’etnologia e l’antropologia.
a) Etno-antropologia e Sociologia
Ambito di studio della sociologia è l’organizzazione politico-economica della società, nonché
la conoscenza teorica dell’insieme dei fenomeni della vita associata. Pertanto i rapporti tra le
due discipline sono intrinseci, sul piano di un dialogo teorico, e ci possono indurre a ricordare
come in alcune scuole (quella britannica, ad esempio) la sociologia e l’etnologia abbiano
conosciuto momenti di quasi identificazione (basti ricordare Max Weber o Emile Durkheim,
fra le prime figure che aprono il fecondo dibattito tra la sociologia e le scienze etnoantropologiche, con conseguenze teoriche e contestuali ricche e profonde (l’indagine
nomotetica, lo sganciamento dalla soggezione storica, la nascita dell’antropologia sociale).
Vanno tuttavia diversificate e tenute distinte le rispettive metodologie di indagine: uso dei
questionari, campioni quantitativi, dinamiche di approccio spesso pre-costituite nelle indagini
sociologiche non trovano – o non dovrebbero trovare – riscontro nel quadro dell’indagine
etno-antropologica. La “ricerca sul campo” in questo caso diventa invece occasione di radicale
verifica anche dell’impianto teorico di una ricerca, oltre che di rimessa in discussione critica
delle ipotesi di lavoro condotte precedentemente “a tavolino”.
b) Etno-antropologia e psicologia
Comunemente contraddistinta dal prevalente riferimento a fenomeni di carattere individuale,
in realtà la psicologia, specie nei suoi settori più specialistici (la psicologia sociale,
l’etnopsicologia, la più moderna psicolinguistica) offre frequenti ragioni e occasioni di
confronto con l’etnologia. Specie all’interno della tradizione americana (R.Benedict, M.Mead)
le due discipline hanno conosciuto occasioni e momenti di profondo e reciproco
arricchimento. Frequenti inoltre – e non sempre del tutto ortodossi – i tentativi di spiegazione
dei fatti folklorici in termini psico-sociologici, specie nel quadro evoluzionistico (cfr.
W.Wundt, spesso citato da De Martino ne Il mondo magico, che scrisse tra il 1900 e il 1920 la
poderosa opera Völkerpsychologie). Momenti più rigorosi – o meglio meno compromessi
dalle tensioni storico-evoluzionistiche – si riscontrano anche negli studi di antropologi inglesi
(valga per tutti R.Marret) e negli orientamenti di francesi quali L.Lèvy-Bruhl (la “mentalità
pre-logica”).
c) Etno-antropologia e psicanalisi
Tale dialogo si intuisce e si inquadra già nelle teorizzazioni freudiane di Totem e Tabu (1912),
scritto in diretto rapporto con l’opera di Frazer Totemism and exogamy (1910). Nel saggio di
Freud si ipotizza la nascita della società tribale a seguito dell’uccisione primordiale e
paradigmatica della figura del padre. A partire da tale proposta di lettura si apre un dibattito
che investe le sfere più significative del campo di studi etnologici (la lettura del rito, del mito,
della vita sessuale, dei rapporti matrimoniali…), che conosce momenti di grande riflessione
all’interno della scuola americana (Kardiner, Roheim) e che in seguito trarrà nuovi spunti di
confronto anche con la teoria psicoanalitica yunghiana (valga come esempio l’intenso lavoro
comune di Yung e Kérenyi sul mito)
d) Etno-antropologia , storia delle religioni, paletnologia e geografia antropica
Il legame tra etnologia e storia delle religioni si può dire sia intrinseco alla storia di entrambe
le discipline, se si considera che i lavori di Taylor o di Frazer (padri tradizionali della
disciplina) si impiantano sull’esigenza di connettere magia e religione e aprono il lungo
dibattito sulle origini della religione, destinato ad avere riverberi teorici profondi nelle
discipline antropologiche (divisione tra evoluzionisti e diffusionisti, tra teorie di Durkheim
sulle forme religiose e di Mauss sulla magia). Figure come Pettazzoni (che non a caso invoca lo
studio delle “scienze religiose”), Eliade, Van der Leeuw e De Martino, del resto, attestano e
testimoniano anche l’ampio debito che gli studi storico-religiosi contraggono con le discipline
etno-antropologiche.
Quanto alla paletnologia, il contatto con tale disciplina si apre in piena fase evoluzionistica e
continua ancor oggi – sgombro ormai dai pregiudizi evoluzionisti – a conservare la sua
importanza nel quadro degli scambi di informazioni descrittive relative a fenomeni e prodotti
di cultura materiale del presente e del passato.
Il rapporto con la geografia antropica, infine, si situa nell’ampio orizzonte di riferimento che
l’ambiente naturale rappresenta per gli studi inerenti la vita associata di un dato popolo. Da
tale dibattito conseguono confronti estremamente ricchi di conseguenze teoriche (cfr.M.Pidal
e, di rimando, Vidossi e Bartoli, in Cirese, pp.287-288).
e) Etno-antropologia e linguistica
Se si accetta di distinguere nello sviluppo degli studi linguistici il progressivo succedersi di
due indirizzi, quello diacronico e quello sincronico, sarà più facile individuare più da vicino i
motivi di confronto e di dibattito fra le due discipline. All’orientamento diacronico si richiama
tutto il filone della mitologia comparata (Max Müller ne è il caposcuola, per un
approfondimento, cfr. Cassirer, Linguaggio e mito). In ambito italiano, la problematica del
“sostrato etnico” avviata da Nigra e quella delle “norme areali” proposta da Bartoli aprono una
ricca stagione di scambi e di confronto tra linguisti, dialettologi e demologi. Meno diretto in
ambito italiano è invece il contatto tra antropologia e linguistica sincronica, contatto che
invece ha segnato profondamente gli studi e il pensiero antropologico in Francia. In tale
quadro è d’obbligo richiamarsi alla linguistica saussuriana e alla “scuola di Praga” (Jakobson e
Bogatirëv), nonché ai concetti di langue e parole, che sono ricaduti direttamente nelle maglie
teoriche delle discipline antropologiche.
f) Etno-antropologia e filosofia: l’ordine di convergenze interdisciplinari fra questi due campi
di studio affonda in qualche modo radici più profonde nella nostra tradizione italiana, dove la
nascita delle scienze demo-etno-antropologiche e lo sviluppo del pensiero riflessivo in questi
ambiti hanno contemplato ampi debiti teorici con la tradizione filosofica. Una tradizione
troppo ampia per essere riconducibile in questo quadro riassuntivo a un dialogo
interdisciplinare, ma che saremo spesso obbligati a richiamare: basti per tutti l’esempio
speculativo di Ernesto de Martino.