capitolo iii Vicende 76 davide daolmi capitolo iii. Vicende 77 capitolo iii Vicende Raccontare una trama è operazione nient’affatto scontata. Perché una storia la si può dire solo per intero: qualunque sintesi è un tradimento. Una storia è quello che vogliamo o possiamo cogliere, e pertanto è nuova e diversa per ognuno che sa ascoltarla. È per questo che un riassunto in genere non lascia traccia, è per questo che le trame d’opera liofilizzate sono indigeste e incomprensibili, è per questo che le tolleriamo in programmi di sala, dischi, dizionari, prime radiofoniche, e quasi non abbiamo il coraggio di ammettere di essere di fronte a un muro di noia e incomprensibilità (qualcuno ancora ricorderà l’obnubilamento che le ormai dismesse Signorine Buonasera riuscivano a provocare prima della «buona visione», chessò, di una giornata del Ring). Ma non se ne esce: anch’io sono obbligato a proporre un riassunto e, perché il lettore sia in grado di seguirmi con sicurezza, ho bisogno che non si distragga. Farò così (e mi si perdonerà l’ardire): per meglio delineare le intricate vicende di Armi e amori, mi gioverò di qualche espediente da sussidiario scolastico, un po’ ripercorrendo i propositi rappresentativi di Camillo, cui accennavo nel primo capitolo, giovandomi dell’immagine quasi più per offrire una lettura parallela che semplicemente voler spiegare il testo scritto. La storia, all’osso della vicenda, racconta di due coppie di amanti – Laura ed Enrico, Ippolita e Fabio – e le sorti avverse che loro percorrono prima di poter celebrare le nozze (meccanismo non troppo originale, d’accordo, ma i Promessi sposi erano ancora da scrivere). I personaggi 3i. Le due coppie principali attorno cui ruota la trama di Armi e amori. Pur nella simmetria che i duplici affari sentimentali potrebbero far presagire (e ritornerò su quanta parte hanno le geometrie nella costruzione di questa storia) è opportuno distinguere i caratteri dei due amori: entrambi, corrisposti, cominciano male per cause esterne: a) Enrico non può amare Laura perché la crede, a torto, infedele e Laura non può amare Enrico perché lui pretende un’ammissione di colpa o un pentimento che lei ovviamente non può offrirgli; b) Fabio s’innamora di una donna che non ha mai visto e la donna, che si chiama Ippolita, usa incontrarlo 78 davide daolmi velata perché non vuol essere riconosciuta. Cominciamo da qui: perché lo stratagemma di non volersi rivelare al proprio amato? La spiegazione non è immediata. Alla domanda esplicita della serva Spinetta, Ippolita risponde in buona sostanza che suo fratello Alvaro è il più caro amico di Fabio, e ciò è motivo sufficiente perché il suo amore possa rischiare di compromettere la bella amicizia dei due uomini. I.vii, vv. 68-74 1. È questo il nodo che è alla base della celeberrima commedia di Calderón, Casa con dos puertas mala es da guatar, di cui parlerò nel prossimo capitolo. Ma, per esempio, su questioni di ospitalità e di sorelle da marito si ritorna anche in El mayor emposible di Lope de Vega che riadatta il precedente No puede ser di Moreto. El mayor fu poi tradotto in francese da Boisrobert come La folle gageure (1655), commedia la cui prefazione fomentò la rivalità con Thomas Corneille proprio in merito all’adattamento di testi spagnoli (v. qui Circolazione, p. 138 e segg). 4ii. Due pagine della partitura di Marazzoli dal Prologo di Armi e amori (I-Rvat, Chig. q.viii.184, cc. 15v-16r) con le correzioni autografe per la rappresentazione del 1656. [ippolita] e in favellar con lui misto agli accenti su le labra talor venne un sospiro ma lo repressi al seno, poiché l’esser don Fabio amico tanto di don Alvaro, il freno pose in modo alla lingua che proferir non seppe il mio martiro. Ragione alambiccata quanto mai, per non dire del tutto inconsistente. In realtà qui si manifesta uno dei primi topoi narrativi a cui rimanda di frequente la vicenda e che il pubblico già conosce. In breve, tanto per non deludere la curiosità del lettore, il presupposto è che un amore può compromettere un’amicizia quando l’amato (in questo caso Fabio) è ospite dell’amico (Alvaro). Ospite nel senso comune, ovvero provvisoriamente accolto in famiglia: le eventuali sorelle del padrone di casa saranno tenute in disparte perché nessuno possa insinuare che dall’accoglienza l’ospite tragga illeciti vantaggi con le stesse.1 Questo snodo chiave diventa talmente ovvio nella riproposizione che opera la tradizione letteraria e drammaturgica che non ha nemmeno bisogno del contorno per esplicitarsi: un fratello e una sorella e un terzo incomodo sono sufficienti a mettere in moto la macchina. Fabio non è nemmeno più ospite di Alvaro e questi può ormai evitare di segregare la sorella. Ma Ippolita sa, perché donna a modo (e con lei lo sa il pubblico), che deve evitare ogni coinvolgimento sentimentale con l’amico, pena il disonore per lei e per il fratello. Complicato questo modo di pensare, ma tuttavia coerente con le regole dell’onore. Ci ritornerò. È entrato in gioco un nuovo personaggio: Alvaro. Un po’ per amor di simmetria, un po’ perché non si dà una donna nubile senza una prote- capitolo iii. Vicende 79 zione maschile, se Ippolita ha un fratello anche Laura deve avere un referente, che nel caso è il padre Alonso (amico di Enrico, come Alvaro è amico di Fabio). Possiamo così perfezionare la distribuzione dei ruoli, sempre perfettamente speculare: 4iii. Distribuzione simmetrica dei sei personaggi principali (seri) di Armi e amori. Con uno schema così strutturato il rischio che le due storie procedano indipendentemente è fugato da quello che è un ulteriore elemento di complicazione (e non l’ultimo), ovvero l’amore non corrisposto di Alvaro per Laura, amore che scatenerà una serie infinita di equivoci. Il vero ruolo tragico è quello di Laura, vittima incolpevole che fino in ultimo conserva la sua dignità. Ippolità è un po’ più sciocchina, sta sempre a cantare ariette (mentre Laura si concede solo la grande scena del lamento) e se anche si trova coinvolta in mille situazioni pericolose dobbiamo ammettere che se le è andate a cercare. I tre giovani, Enrico Fabio e Alvaro, hanno caratteri molto diversi. Enrico è il classico ragazzotto sano, di buoni principi, forse un po’ ingenuo e costretto suo malgrado nelle regole dell’onore (che poco le capisce e le asseconda perché così si fa). Fabio è il romantico per eccellenza, che s’innamora d’un tramonto e della dama sconosciuta forse solo perché non riesce a vederla in volto. Alvaro è invece il maschio senza incertezze; quel tanto sciupafemmine che gli permette di correre dietro a Laura anche quando la sa promessa ad altri. Il padre Alonso è l’ansia e la preoccupazione fatta persona: per i suoi cari ma soprattuto per il suo buon nome; solo apparentemente giudizioso lo scopriremo capace, in un momento di panico, preferir uccidere la figlia piuttosto che saperla disonorata. A questi sei ruoli principali si aggiungono quelli di quattro servi che completano il cast. Il buffo-zanni-arlecchino, ovvero il gracioso di tradizione spagnola, è Bruscolo, servitore di Fabio, che al solito sempre si lagna come Leporello, rifugge ogni eroismo, eppur prende le sue bastonate di rito (ciò malgrado non perde occasione per lazzi e battute); Lisardo invece, cameriere di Enrico, è tutto l’opposto, forse meno simpatico ma sempre attento alle esigenze del prossimo, in prima linea quando bisogna affrontare i problemi anche a discapito della sua incolumità. Tranquilla, la serva di Laura, preferisce non avere grane, è caustica sugli amorazzi dei suoi padroni e se può trar vantaggio da qualche lassismo non si tira indietro. Infine Spinetta è la tipica pettegola, sempre dietro ai colpi di testa della padrona Ippolita (e forse più di questa giudiziosa) ama gli intrighi e origliare dietro le porte. Possiamo così completare la foto di gruppo. 80 davide daolmi 3iv. Distribuzione e organizzazione di tutti i ruoli di Armi e emori. n.b. Mi rendo perfettamente conto che la scelta di queste immagini (trat- te da celebri dipinti di Goya, Velásquez e Zurbarán) impongono di soppiatto una chiave interpretativa del personaggio e del suo ruolo: l’abito, la postura, l’espressione, il referente pittorico, le stesse interferenze con il quadro da cui sono tratte, tutto influisce a delinearne il carattere. Non si tratta di una conseguenza accidentale, è invece un’interpretazione parallela a quella che opero in queste pagine; un modo insomma (Camillo, ancora una volta, docet) per dichiarare come vedo questi personaggi attraverso i caratteri che i volti qui selezionati credo suggeriscano. Tuttavia valgano due avvertenze: la relazione dei figurini con il quadro d’origine si limita all’ambientazione storica (altre interpretazioni sarebbero fuori luogo) e soprattutto si sappia distinguere, come si è in grado di valutare la fondatezza di un’analisi, fra le troppe informazioni subliminali, spesso assorbite acriticamente, che offrono le figure: se anche m’immagino Tranquilla grassoccia e pacioccona, ciascuno pretenda di essere regista del suo Armi e amori e distingua i suggerimenti che poesia e musica offrono nel delineare i personaggi dalle mie personali interpretazioni (anche quando mediate da quegli stessi suggerimenti). Oltre a questi ruoli vi sono anche i personaggi del Prologo: Nise Clori Tirsi e Lidoro. Questi fingono un ‘dietro le quinte’ dove, come attori della commedia che si andrà a rappresentare, discutono su cosa sarà opportuno mettere in scena. È facile supporre che i quattro interpreti svolgano un doppio ruolo, soluzione oltretutto coerente alla natura metateatrale del Prologo: qui ciascun attore finge di essere colui che poi vestirà i panni di uno dei personaggi della commedia. Attraverso il confronto dei registri vocali della partitura è possibile identificare i possibili doppi ruoli. 4v. Ipotesi di corrispondenza di ruoli fra prologo e commedia vera e prorpia. prologo nise clori —› —› tirsi —› lidoro —› commedia laura ippolita spinetta tranquilla fabio enrico alvaro lisardo bruscolo alonso soprano soprano soprano mezzosoprano contralto tenore tenore tenore baritono basso capitolo iii. Vicende 81 È improbabile che Nise o Clori abbiano vestito i panni di Laura, proprio per il carattere tragico che in qualche modo la distingue da tutti gli altri interpreti. Nise/Ippolita hanno una scrittura un po’ più acuta rispetto a Clori/Spinetta, quindi è escluso che si scambino i ruoli. Incrociando questo elenco con una nota del 1656* per il pagamento di alcuni musici che presero parte ad Armi e amori è possibile, pur con qualche lacuna, ricostruire il cast dell’opera: musico Checchino Federici di San Pietro Checchino del Barbiere Girolamo del Pallonaro —?— FrancescoMariaManfredidettoilGenovesino(?) —?— Francesco Volpi Alessandro Borgianni —?— Don Francesco del principe di Gallicano registro soldo soprano s. 40 soprano s. 40 soprano s. 12 mezzosoprano ? contralto s. 12 tenore ? tenore s. 25 tenore s.15 baritono ? basso s. 50 commedia laura ippolita spinetta tranquilla fabio enrico alvaro lisardo bruscolo alonso prologo – nise clori – tirsi – – – lidoro – 4vi. Possibile distribuzione degli interpreti di Armi e amori sulla scorta della nota di spesa conserva in I-Rvat, Arch. Barb., Cardinal Francesco, Registro de’ mandati 16551659 (vol. 961), p. 124; cit. in Murata 1975, p. 370. L’assenza dei nomi di Tranquilla, Enrico e Bruscolo forse suggersce l’utilizzo di musici di cappella stipendiati (d’altra parte la nota prevede una cifra complessiva di scudi 224:50, ovvero con un disavanzo di s. 30:30 forse da destinare ai tre interpreti non nominati). Francesco Maria Manfredi non è identificato con il nome del suo ruolo, come avviene per gli altri musici, ma con la sola specificazione «Prologo»; ho pertanto preferito ricondurlo a Fabio, piuttosto che a Bruscolo perché questi ha un ruolo caratteristico, riconoscibile come tale, mentre Tirsi è il personaggio chiave proprio del prologo. È però solo un’ipotesi; è anche possibile, seppur meno probabile, che il Genovesino abbia partecipato al solo prologo in un ruolo imprecisato e che gli interpreti del prologo fossero diversi da quelli della commedia. Per introdurre in dettaglio la trama dell’opera varrà la pena osservare che l’elemento portante dell’intreccio ruota soprattuto intorno alla coppia Laura–Enrico. Tre sono gli snodi principali della vicenda, uno per atto: a) Enrico intercetta un servo che porta una lettera d’amore alla sua amata; b) Alonso pretende uccidere la figlia Laura credendola disonorata; c) Ippolita è creduta Laura, finché un accidente non l’obbliga a rivelarsi. Il primo caso, quello della lettera, provocherà un doppio duello di Enrico con Alvaro e Fabio; il secondo, la furia del padre da tutti condannata, non permetterà al duello di giungere a compimento; e il terzo, oltre a rivelare a Fabio il volto d’Ippolita, fugherà tutti gli equivoci riappacificando gli umori di tutti, padre compreso, e permettendo di celebrare le doppie nozze. prologo «Tutto è pieno il teatro» e gli attori non sono ancora pronti. La protagonista s’aggiusta l’acconciatura e Nise chiede a Clori di provare la loro canzonetta a due «perché non ben la so». Teatro nel teatro secondo un uso non estraneo alle scene barocche, ma questa volta l’espediente àltera il decorso della vicenda. Lidoro dubita che la commedia prevista potrà La trama 82 davide daolmi piacere al pubblico. Lo spettacolo che si vuol mettere in scena, che scopriamo intitolarsi Galatea, e che tanto entusiasma le due fanciulle è troppo languidamente amoroso per aver l’approvazione di Lidoro. Tirsi è della stessa opinione: Prologo, vv. 52-57 2. Vittori 1639 e 1655. 3. Sulle citazioni della Galatea riscontrabili nella partitura di Armi e amori v. oltre. 4. Ancora nel 1735 Metastasio inscena una situazione simile e se possibile più radicale con le Cinesi, dove l’annoiata corte femminile di Lisinga, che ricerca inutilmente qualche passatempo, deve aspettare l’arrivo del fratello Silango per scoprire un nuovo gioco di società. Prologo, vv. 74-77 [tirsi] Quali applausi, quai vanti attender mai potrà forma sì vecchia? È già stanca ogn’orecchia d’ascoltar su le scene affanni e pianti di mal graditi amanti, e di cruda beltà ripulse e sdegni. La Galatea – dedicata ad Antonio Barberini (libretto e musica di Loreto Vittori) – aveva avuto successo dalla fine degli anni Trenta; vantava la stampa della partitura (1639) e, poco dopo la stesuara di Armi e amori, sarà ricordata da una ristampa spoletina del libretto (1655).2 Non so dire quanto il riferimento metta in luce rivalità personali o piuttosto non voglia semplicemente esemplificare un genere ormai invecchiato, tipico del ventennio precedente.3 Noto invece come l’esigenza di novità sia tutta al ‘maschile’: sono Lidoro e Tirsi ad argomentare i vantaggi di un soggetto che «accoppiasse in un tempo Amore e Marte». Solo parzialmente la virilità di Lidoro e Tirsi diventa necessaria a giustificare l’innesto delle «armi» sugli «amori». È invece proprio il concetto di novità a esibire in qualche modo un’identità sessuale, o meglio a scaturire dalla contrapposizione dei generi.4 La prima ipotesi è che il nuovo sia correlato alla virilità (è l’uomo, il maschio, che fa la storia); la seconda che l’incontro dei sessi sia procreativo (metafora artistica della riproduttività). Se per noi oggi è più facile sposare la seconda ipotesi, quella riproduttiva, per le culture antiche doveva valere assi più la prima, quella sessista. Per altro se Tirsi, per giustificare la novità – non la presenza dell’elemento marziale, ma la compartecipazione di due soggetti tanto palesemente opposti – ha bisogno di rifarsi a una tradizione consolidata come quella di Ariosto, in quel momento sembra rivendicare un’anacronistica parità sessuale. tirsi Già per antica usanza godono eguali onori, in nobile adunanza di donne e cavalier, l’arme e gl’amori. Ma la novità del soggetto – un’azione contemporanea al quotidiano degli spettatori – non è cosa da poco; e se anche simile soluzione era già stata felicemente sperimentata in Dal male il bene, evidentemente patisce ancora qualche resistenza, tanto da esplicitare le proprie dipendenze spagnole, quasi a conforto di qualche arditezza, oltre che doverosa ammissione di paternità: Prologo, vv. 81-86 lidoro D’un cigno peregrino che scioglie in riva al Manzanaro il canto, mortal no ma divino, con italiche note or s’oda il vanto, e trasporti Ippocrene in toschi carmi un nodo ch’ei formò d’amore e d’armi. Il Manzanarre è il subaffluente del Tago che attraversa Madrid e quindi metafora della Spagna. A Ippocrene, la personificazione della sorgente greca che nasce sull’Elicona (monte caro alle muse e pertanto ‘fonte’ d’ispi- capitolo iii. Vicende 83 razione dei poeti), si chiede di trasformare «in toschi carmi», quindi nell’italiano più nobile, il «nodo», ovvero il soggetto del «cigno peregrino». Non possiamo essere certi che il «cigno» sia proprio Calderón: anche se l’edizione di riferimento per l’adattamento italiano aveva attribuito Los empeños a Calderón;5 non è improbabile che Rospigliosi avesse scelto la commedia perché vista in Spagna a teatro, in un contesto quindi dove il legame con Montalbán poteva essersi preservato. 5. Si leggano le premesse all’edizione del libretto qui in Appendice. Mi preme ancora osservare che la componente di forte originalità di questo prologo è ribaltata rispetto all’impianto proposto. Il pubblico di allora non rimase turbato dall’improvviso cambio di rotta di Tirsi e Lidoro che a pochi minuti dall’andare in scena cassano la Galatea; l’elemento destabilizzante è nel far credere per un attimo che si stia allestendo proprio la Galatea. Non solo perché opera vecchia e già nota ma perché in contraddizione con l’aspettativa di chi era preparato ad assistere a una nuova commedia dal titolo L’arme e gl’amori. Come già accennato tutta l’opera subì una serie di adattamenti per andare in scena nel Carnevale del 1656 di fronte alla regina di Svezia. Nel prologo furono aggiunti 14 versi in omaggio a Cristina appena prima del grandioso doppio coro conclusivo. Il confronto con la prima versione del codice Ottoboniano e gli altri libretti, confronto che trova conferma nelle correzioni in partitura, restituisce la doppia fase di lavoro. La versione originale, quella del ’55, terminava il recitativo con questa quartina: nise Dunque al teatro o mai drizziamo i passi. clori Di valor, di beltà, drappello eletto che quivi accolto stassi gradirà se non l’opra, al men l’affetto. Prologo, vv. 87-90 Si intuisce che qui è stato operato l’innesto-omaggio a Cristina per la presenza di una cadenza melismatico-conclusiva in sol sulla parola «affetto» (a cui sarebbe dovuto seguire il doppio coro sempre in sol). È invece inserita una mezza carta fra il recitativo e il coro, dove si completa l’intonazione dei 14 versi aggiunti. Un’ulteriore correzione è proprio nel doppio coro, dove sono cassate tutte la parti esclusivamente strumentali, imitative rispetto all’uno o all’altro coro. Non so spiegare con certezza il motivo della modifica. Forse si è trattato di un semplice ripensamento (la ripetizione sistematica parendo ridondante); o forse l’organico disponibile per quell’allestimento, dichiaratamente di contorno rispetto alla Vita umana (la cui partitura prevede invece un’orchestra a cinque parti), avrebbe reso l’imitazione miserella. Ma il dato più spiccatamente appariscente del prologo è l’impegno della scrittura musicale, fino a tredici parti (si veda la trascrizione del testo e della musica in appendice a questo capitolo). Strutturato in quattro parti – sinfonia, duetto, recitativo e coro – è una vera summa dell’abilità compositiva di Marazzoli, che non solo rivela una maestria contrappuntistica da grande scuola (le tredici parti sono reali, ovvero senza raddoppi) ma ci obbliga a retrodatare la nascita di quello stile luxurians – dove contrappunto e continuo si fondono – che Bukofzer faceva comparire certamente a Roma ma solo con i concerti corelliani di un quarto di secolo dopo.6 6. Bukofzer 1947, cap. vii. 84 7. Profeti 1989A, [1996] p. 101 nota 9; il passo della Galatea è in Vittori 1639, p. 12 e segg. (atto I, scena i); un edizione del solo duetto è in Goldschmidt 1901, i, p. 274. davide daolmi Il duetto in particolare è un piccolo gioiello. Finge di essere un numero di quella Galatea che originaraiamente i protagonisti del prologo sembravano voler mettere in scena. È detta la «canzonetta della scena del mare» e l’ipotesi che sia veramente una parafrasi o una parodia di un momento della Galatea di Vittori balza all’occhio. Profeti aveva già individuato una qual assonanza fra l’incipit del duetto rospigliosiano («Chi non ama d’amor gli strali») e i primi due versi del duetto della Galatea («Chi di noi più fortunati | stral d’amor già mai ferì»), che effettivamente è cantanto in riva la mare.7 La musica tuttavia non ha alcuna attinenza con la versione di Marazzoli che potrebbe semmai voler riprendere, almeno nella figurazione dell’incipit, il terzetto, anch’esso «per mare», di Aci, Galatea e Proteo che conclude l’opera. 4vii. Incipit del terzetto conclusivo della Galatea («Amorosi venticelli», V.v) in Vittori 1639, p. 140. 4viii. Incipit della parte di Nise nel duetto del Prologo di Armi e amori (v. in appendice a questo capitolo); forse un ammiccamento all’esempio sopra trascritto. Ma l’ipotesi che Marazzoli voglia adottare, in questa particolare circostanza, uno stile antiquato per confermare la tesi di Tirsi e Lidoro («quai vanti | attender mai potrà forma sì vecchia?») decade al primo ascolto della musica. Marazzoli sembra invece voler sfruttare il gioco dell’inesperienza dichiarata di Nise, che non è sicura della sua parte, per esibire arditezze armoniche. Qui si hanno infatti momenti ricercati di contrappunto che non possono essere considerati – alla stregua del Musikalischer Spass mozartiano – errori a bella posta (è corretta la condotta delle parti e aderente al testo l’intenzione musicale), ma un divertito abbandono dello stile severo per mostrare originalità raffinatissime al limite della regola. Un esempio: 4ix. Marazzoli, frammento dal duetto del prologo di Armi e amori (v. l’intero prologo in appendice a questo capitolo) I sol IV [V] V IV V I mi capitolo iii. Vicende 85 Dopo aver cadenzato in sol, a partire dal secondo tempo della prima emiolia (la al basso) comincia una concatenazione a mi che segue il classico percorso iv–v–i di una moderna cadenza composta. Ma su quest’impianto apparentemente innocuo le originalità non si contano: la fase cadenzante che apre con un improvviso do alzato (in maggiore per intenderci) ritorna sul iv grado; un apparente ritardo del do # sul si al basso s’innesta del tutto non-preparato (in realtà il re # è di passaggio anche se l’orecchio già lo sente come terza della successiva triade di si maggiore); l’attacco del passaggio esordisce poi con quella che Rameau chiamerà sesta aggiunta (fa #) che, tuttavia, privata inizialmente della quinta sembra un improbabilissimo primo rivolto sul iii grado di re; e infine c’è una settima (sol naturale) non preparata che anticipa il ritardo (non è un gioco di parole) di 6 su 5 del si (ovvero sol su fa #). Tutto questo in due battute. Si coglie forse la civetteria di intonare quei versi («onde ammiri l’alto splendore») non solo per stupire l’ascoltatore ma anche per impressionare il musicista che avesse analizzato quelle note. Che tuttavia le arditezze non siano elemento insolito in Marazzoli appare in più punti dell’opera: si ritrova ad esempio un uso disinvolto del ritardo di nona in urto con ottava e decima anche nella Sinfonia prima 9 che precede il Prologo – momento in cui l’originalità compositiva non si può giustificare con occasionali madrigalismi. 9. Che ci possano essere altre sinfonie (seconda, terza…) lo si deduce solo da qui: mancano del tutto altri brani strumentali nella partitura. 3x. Marazzoli, conclusione della Sinfonia prima di Armi e amori (v. l’intero brano in appendice a questo capitolo) Non voglio con questo dire che l’uso spregiudicato della dissonanza sia di per sè indice di raffinetezza compositiva. Sembra spesso che il giudizio estetico di un compositore antico sia direttamente proporzionale alla capacità di precorrere i tempi; giacché la dissonanza è sempre indice di modernità. Non è questo l’intento (e allora in quest’ottica Marazzoli è assai più reazionario della maggior parte dei suoi colleghi veneziani); l’intenzione è solo di restituire a Marazzoli il mestiere, la consapevolezza e l’originalità della sua opera, contro quell’ottusità un po’ codina che la lettura distratta di pochi suoi lavori ha propagandato. Comincia l’opera. La successione degli episodi della commedia è abbastanza complessa e vorrei organizzarla per «mutazioni» – quattro nei primi due atti e due nel terzo, per un totale di dieci complessive – che, pur di durata variabile (in alcuni casi coincidono con una singola scena in altri ne accolgono ben undici), offrono suddivisioni interne assai più significative che non le entrate e le uscite dei personaggi. 86 davide daolmi atto i mutazione 1 Presso la casa di Alonso ALVARO ENRICO ALONSO 6xi. Presenza dei personaggi nella prima scena di Armi e amori; il colore più chiaro indica che il personaggio tace, il verde identifica una controscena, il rosso un numero chiuso (in questo caso l’arietta di Tranquilla). Il tempo di scorrimento è legato al numero dei versi; la proporzione fra l’aria e il recitativo segue i criteri elaborati per la tav. iv del cap. v. scena i. È notte, la notte precedente alla giornata in cui si svolgerà la commedia: quasi un antefatto. Sotto le finestre di Laura, l’amante e il pretendente della fanciulla, Enrico e Alvaro, combattono per lei. Alonso, il padre della giovane, esce a sedare lo scontro. Alvaro fugge non riconosciuto ed Enrico giustifica lo scontro come un alterco di carte. Alonso, vista l’ora tarda si offre di riaccompagnarlo a casa e, rientrato a prendere un mantello, dà agio a Enrico di esternare la sua gelosia nei confronti di Laura e accusarla di tradirlo con il rivale appena fuggito. Laura sgomenta non comprende le ragioni di quella sfuriata. Chi ha riconosciuto Alvaro è Tranquilla, la domestica, che aveva preso accordi con lui perché quella notte le consegnasse una lettera d’amore da recapitare alla padrona; ora, passato il trambusto, si distrae cantando un’arietta sugli sciocchi languori degli innamorati. La commedia esordisce in medias res con gusto sapiente per la sorpresa. L’attacco è di grande effetto e pieno d’inquietudini: è notte, il pubblico vede un alterco fra due uomini subito degenerato in duello, le luci di un palazzo vicino che si accendono incuriosite dai rumori della strada, il padrone di casa che esce semidiscinto per sedare lo scontro, figlia e domestica che inutilmente tentano di fermarlo, la fuga colpevole di uno dei duellanti. Insomma, un esordio non solo irruento ma anche complesso, con due piani d’azione (esterno e interno) che si ricompattano in un ‘fuori’ (la soglia di casa) in cui convergono tutti i ruoli di questa travolgente prima scena. LAURA Azione unica eppur complessa (tanto da coincidere con l’intera «mutazione»). Se si dovesse ipotizzare una scansione interna in relazione all’entrata/uscita dei personaggi qui si potrebbero individuare ben sette scene: capitolo iii. Vicende 87 Bentivoglio, nella sua successiva traduzione (ca. 1665),9 cambia scena alla fine del duello (1.) e poi di nuovo quando Enrico e Alonso si allontanano (3.). L’indeterminatezza della scansione delle scene si lega ovviamente all’antecedente spagnolo che, non prevedendone alcuna, concede maggior libertà e permette di far entrare e uscire i personaggi senza troppe rigidità. Rospigliosi si rende conto che ha di fronte un unico grande arco formale che poco senso avrebbe frammentare. In effetti questo esordio è una sorta di microcosmo drammaturgico che propone, in successione, a) un attacco ad effetto con motivi di apprensione, b) una spiegazione solo apparentemente rassicurante, c) una scena di gelosia piena d’interrogativi senza risposta, d) l’apparente riappacificazione che si conclude con il commento sarcastico e in fondo rasserenante della serva. A prima vista un ricorrere ciclico di tensione-riposo-tensione-riposo, in realtà una struttura tripartita dove a, sorta di protocollo fàtico – quasi i colpi che annunciano l’ingresso in sala degli ospiti attesi – è separato dalla curva gaussiana creata dalla successione di b c d, vero nucleo della scena, che ha in c (le accuse di infedeltà a Laura) il suo momento più intenso. 9. Sulla trad. degli Empeños nella prosa di Ippolito Bentivoglio v. cap. iv, p. 148 e segg. L’arietta collocata in fine scena sembrerebbe in più: rispetto al modello spagnolo, ma soprattutto in ragione dell’economia drammatica. Ha in effetti una giustificazione puramente formale: solo apparentemente posta a conferma di un genere, quello dell’opera in musica, che si nutre degli edonistici siparietti di canzonette slegate dal contesto, in realtà chiude la scena con un peso strutturale equiparabile all’esordio, e pertanto necessario. Speculare, per capacità di coinvolgimento, al duello Alvaro-Enrico, l’assolo di Tranquilla lo si può considerare insomma sorta di escatocollo utile a bilanciare l’equilibrio formale della scena. Il rischio di apparire, come per gli atti pubblici, semplice «formula di rito», è fugato dalla qualità della scrittura musicale che fra le molte originalità restituisce l’onomatopea curiosa di un pianto ironico che si contrappone a una divertita risata. 3xii. Marazzoli, Le armi e gli amori, miss. 21-30 dell’aria Se veggo un amante, I.i; trascrizione dlla partitura manoscritta in I-Rvat. scena ii. La notte è trascorsa e la scena si apre su una campagna fiorita dove Fabio cerca invano di convincere una giovane velata a mostrare il suo volto. Ormai sono giorni che s’incontrano in questo modo, lei accetta le attenzioni di lui purché non la obblighi a rivelarsi. I servi Spinetta e Bruscolo fanno il verso ai loro padroni e al loro curioso corteggiamento. mutazione 2 Giardino fuoriporta scena iii. Giunge Alvaro, caro amico di Fabio, gettando la donna nello sconforto. Scopriamo, negli a parte con Spinetta, che è Ippolita, la sorella di Alvaro e che sarebbe per lei sciagura esser riconosciuta dal fratello in solitaria conversazione con un uomo. Con la complicità di Fabio, Ippolità e Spinetta riescono ad allontanarsi senza che Alvaro le riconosca. scena iv. Alvaro, solo con Fabio, ora ha modo di raccontare all’amico i suoi crucci amorosi per la bella Laura a cui non gli è riuscito la sera precedente di IPPOLITA FABIO ALVARO 88 davide daolmi far recapitare una lettera. Chiede così a Fabio di prestargli il servo per svolgere l’incarico. La scena si chiude con Bruscolo, punto contento dell’incombenza, che si lamenta sulle note di un’arietta. In questo secondo spazio – il giardino – non si sviluppa un unico tempo drammatico, com’era stato precedentemente. Le durate sono diverse – ai complessivi 200 versi di prima ora se ne contrappongono 326 – ma non è il solo motivo. Seppur un’arietta conclude nuovamente la mutazione, dobbiamo ammettere che alla fine della scena iii, quando Ippolita e Spinetta riescono ad allontanarsi, c’è un primo calo di tensione. Si enucleano così due tempi drammatici: un primo (scene ii e iii) che ci aspetteremmo sentimentale (Fabio che corteggia Ippolita), in realtà si rivela nettamente ‘di situazione’, con le curiosità suscitate da una donna velata, la parodia dei servi, gl’intimoriti controscena all’arrivo di Alvaro; il secondo (scena iv) è invece dedicato agli struggimenti di Alvaro che la cornice vegetale certamente esalta. Scena ampia dunque, forse anche troppo, tanto che sono eliminati, in seconda istanza, una trenti di versi. 10. Anche il teatro spagnolo non offre, che io sappia, esempi in questo senso. L’intervento dei due ambasciatori nel Principe costante di Calderón, l’esempio più vicino a una simile sperimentazione, propone la sovrapposizione di due discorsi, non di due scene indipendenti. mutazione 3 Presso la casa di Alonso Ha qualche motivo d’interesse, seppur del tutto aderente al testo spagnolo, lo sdoppiamento della scena ii fra Fabio-Ippolita e Bruscolo-Spinetta: più che l’aspetto parodistico è il modo per presentare due azioni contemporanee. L’intreccio parallelo delle due scene (sul modello, per esempio, del quartetto di Rigoletto: già intuito da Piave ma forzato in un contrappunto serratissimo da Verdi) sarebbe soluzione efficace ma improponibile in questi anni; qui infatti le due azioni si limitano a succedersi l’una all’altra.10 Tuttavia non si giustappongono a caso; il quadretto dei servi s’inserisce in un’apparente interruzione della conversazione dei padroni, quando cioè Fabio vuole qualche minuto per meditare sulla proposta di Ippolita. Si coglie in questo espediente il disagio di dover risolvere l’incongruenza di un continuum temporale: un’attenzione alla verosimiglianza che, seppur prerogativa raramente riconosciuta dalla critica moderna, si rivela, attravero questa e altre sollecitazioni, elemento sensibile del teatro barocco. scena v. Siamo di nuovo di fronte al portone della casa di Alonso e della figlia Laura, ma ora è giorno. Bruscolo si accinge a consegnare la lettera a Tranquilla ma viene intercettato da Enrico che dal foglio trae conferme ai suoi sospetti. Estorce a Bruscolo il nome del suo padrone, convinto sia il mittente delle inopportune avances, e lo colpisce in segno di sfida quale tramite con il rivale. scena vi. Il tafferuglio fa uscire Laura in strada che di nuovo è oggetto delle accuse di tradimento di Enrico. Lei gli tiene testa, anche coraggiosamente, ma lui non le crede. ENRICO BRUSCOLO Di abile costruzione teatrale, la scena della consegna della lettera si articola su più livelli. L’attenzione su Bruscolo, che tremebondo si accinge a recapitare il foglio, è preceduta da una breve inquadraLAURA tura di Enrico che, incontrato il domestico Lisardo, accenna di nuovo ai propri crucci amorosi. Sei versi in tutto che, oltre a presagire la minaccia, frammentano la scena: Bruscolo al portone di Laura da una parte, Enrico e Lisardo dall’altra. Il bussare di Bruscolo mette poi in gioco la figura di Tranquilla che entra in scena in tre fasi distinte creando altrettanti spazi rappresentativi: dapprima si sente la sola voce della serva (v. 35 e segg.); quindi Tranquilla s’affaccia alla finestra (v. 41 e segg.) e Bruscolo le chiede di scendere – si delinea una casa a due piani con quello superiore capitolo iii. Vicende 89 apparentemente praticabile; nel tempo che Tranquilla ha modo di scendere Bruscolo medita sui suoi casi (v. 50 e segg.); e finalmente i due s’incontrano sull’uscio di casa (v. 60 e segg.). Poche righe dopo apparirà inatteso Enrico a strappare la lettera dalla mani di Bruscolo. Lo spazio scenico, così articolato – a) un luogo separato da cui giunge Enrico e in cui poi sosta Lisardo, b) la strada con il portone per Bruscolo, c) Tranquilla all’interno della casa che d) ha un piano superiore – non è delineato dalle descrizioni che potrebbero offrire i protagonisti (come per esempio avviene in quegli stessi anni nel teatro elisabettiano) ma lo si deduce dalle azioni necessarie agli attori per giustificare alcuni dialoghi. Similmente agisce il modello spagnolo che tuttavia non prevede frasi che obblighino ad un impianto scenico così rigido. Rospigliosi ha evidentemente in mente le potenzialità del teatro dei Barberini e le sfrutta al meglio a vantaggio della coerenza del dramma, molto rivelandoci di quella pratica teatrale.11 Le successive accuse di Enrico a Laura, se si vuole un inutile déjà-vu della prima scena (seppur questa volta corroborate da un’apparente prova), servono in realtà a dare sfogo a sottili diverbi in punta di fioretto, virtuosismi retorici tanto cari al teatro spagnolo. Non sono proprio un momento di forza dell’opera italiana ma Rospigliosi non si tira indietro, e soprattutto non si tira indietro Marazzoli che contrappunta un recitativo capace di restituire le emozioni e i rapidi cambiamenti d’umore di questo contrasto amoroso. Valgano a esempio gli ultimi sette versi della scena (e dell’intera mutazione), una tipica sticomitia, che l’intonazione un po’ ingessata del recitativo avrebbe potuto rendere inefficace: laura enrico laura enrico laura enrico laura Ingiusta pena a l’amor mio tu dai. Oh tradita mi fede. Oh che premio ha l’affetto, oh che mercede! Ingannevol bellezza… Infelice mio stato… …che far poss’io se la mia fé disprezza? …che far poss’io se mi contrasta il Fato? 11. Sulla disposizione scenica v. le annotazioni del cap. v. Le armi e gli amori, I.vi, vv. 101-107; cfr. qui l’edizione in Appendice. Quasi a simboleggiare la contrapposizione tra i due, Marazzoli, malgrado lo scambio serrato del dialogo, differenzia le tonalità, e in questo senso i caratteri: Enrico in bemolle, Laura in bequadro; che qualcosa ci dice sull’atteggiamento proprio di ciascuno, deluso Enrico che si sente tradito; dignitosa e combattiva Laura che è innocente. 3xiii. Marazzoli, Le armi e gli amori, I.vi, conclusione. 90 davide daolmi E che sia un’astrazione tutta speculativa questa della tonalità ben lo si coglie osservando come poi sia necessità correggere l’alterazione al basso di «Ingannevol bellezza» e al canto di «Infelice mio stato». Eppure le armonie non sono affatto artificiali. L’attacco di «Oh tradita mia fede» impone un salto di ‘regione’ tonale che ben realizza la finta indifferenza di Enrico agli argomenti di Laura (sottolineato dall’uso successivo della terza persona che nega l’esistenza dell’interlocutore). Un vero capolavoro di psicologia è operato proprio sugli ultimi quattro versi, dove l’imitazione di una formula ripetitiva esalta la veemenza. Il primo incalzare sprezzante di Enrico (v. 104) è sottolineato dal cromatismo ascendente dell’armonia (si b –› si n). Laura lo imita – come a dire: posso tenerti testa – con simile melodia e stesso incalzare cromatico dell’armonia (da maggiore a minore: mi b –› mi n). Enrico, che a questo punto potrebbe ribadire il botta e risposta con l’enfasi ulteriore di un simile approccio, preferisce invece lusingarla adeguandosi all’armonia di fa (mentre, nella necessità di concludere la frase, dovrebbe riprendere il suo do minore). Laura, che persiste nel gioco di fargli il verso, asseconda la lusinga (anche lei si appoggia all’accordo conclusivo di Enrico) ma ne esaspera ironicamente i toni, così «mi contrasta il Fato» sale assai più di quanto non faccia «la mia fé disprezza» e divarica ulteriormente il salto discendente conclusivo che trasforma una dolorosa quinta diminuita in una sarcastica settima maggiore. L’arditezza del tutto inaspettata di quest’ultima cadenza – nient’affatto conclusiva, anzi improvvisa e bisognosa d’ulteriori conferme – si giustifica con l’insolita collocazione: al termine non solo della scena ma dell’intera mutazione, è un espediente raffinato per dirci insieme che quello è un dialogo tra sordi che non avrà mai fine e che, malgrado ora si cambi impianto e luogo dell’azione, continuerà in questi modi, in un immaginario ‘dietro le quinte’. mutazione 4 Casa di Alvaro scena vii. Un nuovo ambiente accoglie le ultime tre scene del I atto. È la casa di Alvaro e Ippolita. Dopo l’incontro con Fabio e il rischio di essere risconosciuta dal fratello, Ippolita, con la cameriera Spinetta, è tornata di corsa a casa, s’è cambiata d’abito e ora attende l’arrivo di Fabio e Alvaro fingendo di aver trascorso tutta la mattina nelle sue stanze. In questo frangente ha modo di dare qualche spiegazione a Spinetta sul perché non voglia farsi riconoscere dall’amico del fratello. scena viii. Giungono quindi Alvaro e Fabio; questi ha modo, alla presenza d’Ippolita, di raccontare il suo tormentato amore per questa «beltà non veduta». Per qualche minuto Ippolita e Fabio rimangono soli ma lui non è nemmeno punto dal dubbio che possa essere la stessa persona. IPPOLITA SPINETTA FABIO ALVARO BRUSCOLO scena ix. Bruscolo trafelato ritorna dalla sua missione. Mostra la testa rotta e riferisce della sfida ricevuta. Alvaro e Fabio pretendono accogliere la provocazione e scendere in campo: il primo come vero mandante, il secondo quale padrone del servo ferito. Ippolita ormai ritiratasi ha sentito tutto (con lei Spinetta) e vuole impedire lo scontro. Introduce quest’ultimo cambio di scena un’aria di Ippolita aggiunta all’ultimo momento. Non è un’arietta spensierata ma un’aria ampia e malinconica che palesa sanza attenuanti una forzatura alla coerenza drammatica. Non so dire se si sia voluto sfruttare la bella voce di Checchino del Barbiere o semplicemente abbiano spaventato i quasi 660 versi, più di metà dell’at- capitolo iii. Vicende 91 to, privi totalmente di numeri chiusi. Non è improbabile si temesse di mettere a dura prova l’attenzione della regina di Svezia, forse non ancora ferratissima con la lingua italiana (l’ipotesi muove dal numero di arie e ariette, nonché cori e balletti, di cui trabocca La Vita umana, opera scritta espressamente per quell’occasione). Fatto sta che qui un’aria non era prevista e la sua immissione c’entra pochissimo. È evidente che fra una mutazione e l’altra l’inserimento è meno traumatico, ma se il diverbio lasciato in sospeso fra Laura ed Enrico della scena precedente non poteva trasformarsi in alcun cantabile; altrettanto evidente è che l’arrivo trafelato di Ippolita e Spinetta con tanto di cambio d’abito, poco lascia spazio allo slancio lirico. Oltretutto l’aria dà peso e spessore a una scena, il rientro di Ippolita e Spinetta, del tutto funzionale, pensata per essere breve – tanto che si sorvola anche sull’unica spiegazione che c’interessa, ovvero perché Ippolita non voglia farsi riconoscere. Breve perché i momenti forti di questa fine d’atto sono altri: l’estatica descrizione di Fabio della fanciulla velata, e lo snodo cruciale della sfida a duello che d’improvviso raddoppia. Sapientemente, quest’ultima, è posta in conclusione d’atto, secondo un procedimento tipico che interrompe il discorso nell’accadere del momento cruciale; qualcosa tipo il «ma…» con cui concludevano molti episodi dei romanzi d’appendice, o il fermo immagine sugli occhi sbarrati (a seguito di ferale notizia) con «fine dell’episodio» in sovrimpressione, che occupano le ultime inquadrature delle soap televisive. Ma se la fine d’atto è in sospeso, la chiusa vera e propria ossequia il formalismo solito in questi casi. Ovvero un insieme affidato a Ippolita e Spinetta che origliavano dietro la porta: una specie di commiato strappa applausi che informa, quasi l’accendersi delle luci di sala, che l’atto è finito. Anche ora l’omaggio all’uso oppone qualche controindicazione, a cominciare dall’obbligo di far uscire di scena chi non ne avrebbe avuto motivo, ovvero Alvaro, Fabio e Bruscolo, e contemporanemente creare uno slittamento dei piani che solo una moderna regia sarebbe in grado di gestire. Se infatti prima le due donne erano in un controscena ignote agli uomini di casa, ora, come per una magica traslazione dello spazio (sfruttando idealmente le potenzialità, chessò, dei piani rotanti di Aggiungi un posto a tavola), il pubblico si ritrova a curiosare nella stanza attigua dove le due fanciulle se la cantano su (quando, visti i presagi di morte dell’incombente duello, non avrebbero motivo alcuno per farlo). Gualdo Priorato c’informa che l’opera fu rappresentata con «intermezzi balletti»12 di cui non resta altra notizia. Mi piace pensare che queste chiuse d’atto, sempre assai pretestuose, siano da intendere soprattutto come ‘apertura’ alle danze che seguono; per altro un ternario assai ballabile caratterizza infatti la musica del duetto conclusivo. atto ii Il secondo atto è assai meno regolare nella sua scansione interna. Di ciò non si può che essere infinitamente grati a Rospigliosi che pur seguendo il modello spagnolo sa, se necessario, prendersi le sue libertà. Appariscente è l’aggiunta di un’intera mutazione e la collocazione delle arie con finalità diverse rispetto al primo atto. In dettaglio: 12. Gualdo Priorato 1656, p. 300 dell’ed. romana. 92 davide daolmi mutazione 5 Presso la casa di Enrico SPINETTA scena i. Come nell’atto precedente la prima mutazione coincide con la prima scena, che però è brevissima, solo 34 versi ridotti a 14 nella versione definitiva; il tempo necessario ad inquadrare Ippolita e Spinetta sulla strada per la casa di Enrico. Ippolita vuol mettere il giovane in guardia dal duello annunciato (e in questo modo preservar le sorti di Fabio e di suo fratello). Spinetta cerca invano di dissuaderla. Ippolita la ritroveremo nuovamente nel successivo cambio scena. In pratica una presenza senza soluzione di continuità: l’avevamo vista in casa sua ad origliare i discorsi del fratello, ora in strada e quindi sarà in casa di Enrico. Successione, questa di rincorrere con un ideale occhio narrativo un unico personaggio, contro ogni sano principio drammaturgico. Già la stessa idea di movimento – Ippolita che si sposta da casa sua a quella di Enrico – è anomala (l’on the road, anche oggi, rimane una prerogativa cinematografica) e solo si concede perché frammentata prima dal cambio d’atto e poi dal ‘primo piano’ sull’aria di Enrico che apre la scena successiva, tempo necessario per poter ritornare su Ippolita. Ciò malgrado questa apertura in movimento è non solo originale ma anche di grande forza (è noto che una delle difficoltà di ogni inizio d’atto è quello di riagganciare l’attenzione del pubblico distratto dall’intervallo). Ipotizzo, anche per il numero limitato di versi, che le due donne compiano un completo attraversamento del palco coincidente con i tempi dell’intero recitativo, senza le scansioni solite della scena che sanno un po’ di didascalico (sortita, posizione, dialogo, rientro); quasi il taglio che può offrire una telecamera fissa (per esempio quelle a circuito chiuso delle banche) puntata su uno scorcio pedonale. IPPOLITA Se questa mutazione è la più corta di tutta l’opera, quella che segue, la casa di Enrico, un interno quindi, è in assoluto la più ampia, ben 11 scene per una durata di quasi tre quarti d’atto. mutazione 6 Casa di Enrico IPPOLITA ENRICO scena ii. Enrico si strugge per il suo infelice amore con Laura mentre Lisardo, il cameriere, cerca di consolarlo. scena iii. Accompagnata dalla fida Spinetta giunge Ippolita, sempre coperta, che pretende parlargli da solo. Lisardo se ne va e lei, riferendogli l’imminente pericolo del duello gli propone di sparire per qualche giorno. Enrico, è ovvio, garbatamente LAURA rifiuta ma vorrebbe sapere chi è la donna che, sotto il velo, tanto si preoccupa della sua vita. scena iv. Da fuori giungono delle voci. È Laura, inutilmente fermata da Lisardo, che ancora turbata dalle accuse di tradimento è venuta al capezzale di Enrico a chiarire queste calunnie. Ippolita fugge via. FABIO ALVARO ALONSO scena v. La presenza inaspettata della donna coperta, di cui Enrico non sa dare giustificazione, permette a Laura di riversare su di lui le medesime accuse di gelosia che Enrico le aveva rivolto nell’atto precedente. Laura forse in cuor suo sa di usare argomenti pretestuosi ma vuole dimostrare a Enrico l’inLISARDO fondatezza delle accuse di lui. L’orgoglio di entrambi ha la meglio: Laura nulla ottiene e se ne va sdegnata – con i servi che, istruiti a dovere, inventano vani pretesti per trattenerla. scena vi. Appare Fabio sulla porta di casa (con Bruscolo tremante al seguito) che sfida a duello Enrico per l’accaduto. Enrico capisce di aver colpito il servo sbagliato ma accetta la sfida. O starebbe per farlo. scena vii. L’arrivo di Alvaro e la pretesa di un ulteriore duello obbliga Enrico a dover decidere a chi dare la precedenza. Neanche fosse il carnet di ballo a corte, la scelta getta Enrico nell’imbarazzo. capitolo iii. Vicende 93 scena viii. Lasciato solo, Enrico non sa che fare e sfoga i suoi dubbi in una canzonetta. scena ix. L’arrivo del vecchio Alonso è l’occasione per chieder consigli in merito. Enrico però non gli dice la verità e prosegue la finzione della rissa di carte inventandosi una storia solo simile a quanto è veramente accaduto e tacendo del coinvolgimento di Laura. Alonso non ha dubbi: «chi sfidò pria | convien che primo alla battaglia sia». Enrico va ad incontrare Fabio. scena x. Rimasto solo, Alonso s’accorge che il suo aiuto non può limitarsi alle parole. scena xi. Chiede così a Lisardo di portargli da scrivere: vuol redigere una lettera che porteranno entrambi ai duellanti (che piano ha in mente?). scena xii. Intento Alonso a scrivere, con Lisardo andato a prendere cappa e spada, Laura e Tranquilla tornano sul posto: l’intenzione è di affrontare di nuovo Enrico. Alonso, non ancora riconosciuto, ne coglie involontariamente i discorsi e improvvisamente comprende che non solo Laura è la causa del duello ma oltretutto la verginissima figlia è domestica della casa d’un uomo. Accecato dall’ira e dalla vergogna per il disonore vorrebbe uccidere la fanciulla, ma Lisardo lo trattiene, prima con la spada poi rinchiuden- 6xiv. La successione degli interventi di tutti e dieci i personaggi di Armi e amori nella seconda mutazione del secondo atto. 94 davide daolmi dolo in casa. Rimasto solo, Alonso, ormai fugate le prime remore, decide di prendere la finestra e saltare giù dal balcone. 13. Così fa o pretende di fare il teatro francese che in genere fa coincidere i 5 atti, prima che con le mutazioni di scena, con altrettanti momenti forti dello spettacolo. Uno degli accorgimenti messi solitamente in atto nella scrittura teatrale è quello di creare una successione di episodi con un motivo d’interesse proprio.13 Una catena di momenti efficaci, pur per motivi diversi, crea lo spettacolo. La possibilità di organizzare gerarchicamente questi episodi permette di avere due, tre, quattro punti di forza nella commedia, in genere uno per atto, su cui lo spettatore pone i cardini delle sue reazioni. Ritornerò a parlare di come Armi e amori gestisce questi episodi all’interno della narrazione della commedia, per ora è sufficiente individuare la tenuta drammatica e saggiarne la resa teatrale. Uno degli elementi più semplici, utili all’efficacia di un episodio è la durata, che può variare molto in relazione alla natura di ogni ‘arco’ narrativo (a volte può coincidere con una sola scena, altre con l’intera muazione). Certo, i 50 minuti circa (quasi tre quarti d’atto) approssimativamente previsti per l’azione che si svolge in casa di Enrico non possono in nessun modo reggere come episodio ininterrotto. Non lo possono a prescindere dai contenuti: una scena che superi la ventina di minuti è già troppo lunga, l’attenzione viene meno, l’interesse si esaurisce. E infatti i nuclei rappresentativi di questa mutazione sono ben tre, nettamente distinti, eppure, per la necessità scaturita dall’unità del luogo, organizzati unitariamente. Il primo episodio è quello dell’entrata successiva d’Ippolita e Laura (scene ii-v). Il vero momento d’interesse non è nella presenza d’Ippolita in casa d’Enrico – già sappiamo quello che gli vuol dire – ma nello scontro verbale con Laura. Tutta la tensione è spostata sulla v scena e quindi al termine del primo episodio. La sezione che segue (scene vi-vii) sfrutta lo stesso principio: ecco l’entrata successiva dei due rivali, Fabio e Alvaro, ed ecco l’elemento di tensione messo in gioco solo nella seconda parte dell’episodio, quando cioè Enrico si trova non tanto a dover ripondere a due sfide, ma a non saper quale scegliere. Che i motivi d’interesse siano spostati alla fine appartiene alla ‘biologia’ emozionale dello spettatore che, perseguendo quello che è un dettato morale, anticipa e dilata il martirio per esaltare la gratificazione («prima il dovere poi il piacere»), sebbene nell’artificiosità dell’invenzione teatrale il momento di disagio coincida con quello del ‘piacere’. Il terzo episodio invece, pur disponendo in fine il pathos drammatico (il padre che vuol uccidere la figlia), preferisce sfruttare un altro tipico meccanismo, il cosiddetto ‘colpo di scena’. Invece di accumulare tensione, sapientemente la dirada: prima un’arietta che enuncia dubbi (scena viii), poi il rasserenante consiglio di un padre (ix) e il solitario meditare di Alonso (x) sembrano apparentemente concludere una serie serrata di vicissitudini, quando in realtà esplodono nell’inaspettato ritorno della figlia e nel furore di Alonso. Ma la svolta inattesa di questo terzo episodio è ben più che una trovata drammatica: serve a tenere in piedi e chiudere l’intero ciclo. Mi spiego. Il primo ‘arco’ narrativo, per durata e compiutezza, è una scena già finita in sé, sufficientemente complessa e ricca di sollecitazioni. L’episodio che segue è strutturato sugli stessi canoni: due elementi di disturbo (prima le capitolo iii. Vicende due donne ora i due uomini) che recano altrettanti motivi di tensione, ulteriormente esasperati dallo scontro dei rispettivi argomenti, scontro che produce un terzo ulteriore elemento di disagio. Ma l’episodio di Fabio e Alvaro è meno complesso e meno intenso del precedente. In questo senso la sua funzione è ridondante rispetto a quello che è il vero episodio principale e benché lo si possa concepire ‘in accumulo’ (ulteriori problemi per Enrico), in realtà per la dilatazione dei tempi e per la natura diversissima degli accadimenti tende a disperdere la tensione. A questo punto viene in soccorso l’ultima sezione (scene ix-xii) che sfrutta il ritorno impensato di Laura e la reazione scomposta di Alonso per offrire un’improvvisa nuova causa scatenante utile a rimettere la macchina in movimento. In pratica l’ultimo episodio risolleva le sorti della direzione involutiva presa dagli eventi. Il meccanismo dell’intera mutazione, schematizzando, è quindi il medesimo a ‘colpo di scena’ che si completa nella singola ultima sezione ‘diversiva’. Ma è anche in qualche modo la colonna portante di tutta la mutazione e dell’intero atto (4xiv). Privato di questo elemento diversivo il secondo atto si sgonfia come soufflé riuscito male, l’impegno richiesto allo spettatore non trova adeguato risarcimento, la storia perde d’interesse. Il procedere così sapientemente organizzato è già nel testo spagnolo, e viene da chiedersi quanto un’episodio come questo del padre impazzito fosse già previsto o invece sia scaturito durante la redazione proprio per esigenze di tenuta drammatica della scrittura. La traduzione non aggiunge nulla, ma nemmeno compromette l’impianto. (Noto infatti come l’inserimento delle arie, che in nessun caso mira a esaltare la direzione drammatica, ancora una volta si colloca nei punti di minor disturbo.) Non si tratta, evidentemente, né per Montalbán né per Rospigliosi, di un processo costruttivo pianificato a tavolino. Appartiene invece a una sensibilità propria di una cultura partecipe di un’esperienza teatrale smaliziata. In Armi e amori non c’è quindi un ripensamento del modello teatrale attraverso le peculiarità dello spettacolo operistico ma il rivestimento, attento e minuzioso, di caratteristiche dell’opera in musica adattate, come un bell’abito, su un testo recitato. Si potrebbe parlare di un’operazione rinunciataria solo se i drammi rospigliosiani, a prescindere da chi ne sia stato l’estensore, si fossero sempre comportati in questo modo; invece, proprio per l’improvviso cambio di rotta che prende tale drammaturgia dopo il Palazzo d’Atlante, diventa un coraggioso esperimento. Anche supponendo limiti redazionali nell’abilità di Iacopo Rospigliosi, lo zio non può non aver messo in conto i problemi che sarebbero sorti in un adattamento come questo. È proprio la serenità con cui si affronta una simile operazione a farmi credere che debba essere stata sapientemente pianificata. Le due arie che canta Enrico esaltano la struttura descritta, creando delle cornici capaci di meglio esplicitare le intenzioni costruttive, ma per la prima volta non sono solo un diversivo, raccontano uno stato d’animo. Le ariette di Tranquilla e Bruscolo del primo atto descrivevano eventualmente il personaggio, le sue idee, il suo modo di confrontarsi con il mondo. Con «Ahi speranza disleale» Enrico non si presenta per quello che è tout court (abbiamo già avuto modo di conoscerlo), ma canta il suo essere in 95 96 davide daolmi capitolo iii. Vicende 97 quel momento, le sue ansie, i suoi dolori. Un’aria non solo malinconica (v. l’edizione nella pagina a fianco) ma anche inquieta, complessa, con frequenti cromatismi e una continua instabilità tonale. L’uso dei due bemolli in chiave, con le frequenti oscillazioni la/la b, re/re b, esplicitano un «umor nero» che sfrutta l’allentamento dell’accordatura, proprio del bemolle, come rappresentazione, se non vera e propria mimesi, del rilascio muscolare e psicologico dello stato malinconico (addirittura il lamento di Laura nel terzo atto prevederà prima tre e poi quattro bemolli in chiave) e insieme l’incertezza, l’instabilità e gli scatti umorali di chi patisce sentimenti di gelosia, seppur infondati. 3xv. [nell’altra pagina] Marazzoli, Le armi e gli amori, aria di Enrico «Ahi speranza disleale», II.iv (numerazione del continuo come sempre aggiunta). Che l’uso delle alterazioni in chiave sia strettamente legato al carattere e all’inflessione umorale, piuttosto che al moderno concetto di tonalità, s’era già presagito nel precedente esempio tratto dal primo atto (conclusione della scena vi). Sempre nel primo atto era un altro caso assai significativo, quando Alvaro racconta a Fabio dell’incidente occorsogli la sera prima con Enrico (scena iv): [alvaro] Per un piccol balcone che cade del suo portico all’entrata, celando me d’oscura notte il manto, all’ora destinata darle pensai la carta; et ecco in tanto là sopragiunse un cavallier cruccioso ch’in suono minaccioso proferì queste note a me rivolto: «Oh chiunque tu sia in queste soglie accolto, a scoprirti m’invita forza di gelosia. Dichiara il nome o perderai la vita!» I.iv, vv. 45-57 Le parole di Alvaro, evidentemente meste e preoccupate, sono intonate con un bemolle in chiave, ma quando riporta le frasi d’Enrico anche la musica restituisce il tono arrogante con un improvviso cambio di armatura: due diesis in chiave (con il fa sottinteso): L’uso espressivo dell’alterazione in chiave ritorna nella scena dell’ingresso delle due donne in casa di Enrico (II atto, scena iii). Un bemolle caratterizza tanto il suo recitativo quanto quello di Ippolita, ma quando giunge Laura che rilancia la carta della gelosia, Enrico per tenere testa al 5xvi. Marazzoli, Le armi e gli amori, I.iv, miss. 70-89. 98 davide daolmi bequadro della fidanzata adegua l’armatura, mentre Ippolita, intimorita, persevera nel bemolle. Anche l’a solo di Alonso (scena x) scolora improvvisamente in bemolle a sottolineare la mestizia di quella parentesi meditativa. La lunghissima azione qui descritta, distribuita su ben 11 scene è, più che altrove, il luogo dell’incertezza. È qui che, forse per la prima volta, Enrico si rende conto che Laura potrebbe essere sincera. Qualche scena dopo si troverà a dover decidere con chi combattere per primo, Fabio o Alvaro, incertezza tanto pressante da fargli intonare la canzonetta Che risolvo, che fo? La stessa Laura non saprà decidersi ad abbandonare sdegnata la casa di Enrico ovvero restare e sentire le sue ragioni sulla donna velata prima apparsa nonché su tanta insensata gelosia. E più di tutti tormentato dal dubbio è Alonso che dopo aver consigliato Enrico teme di non aver fatto abbastanza per lui e si chiede come potrebbe ancora aiutarlo. Ma qui il dubbio, assai più di quanto non suggerisca il modello spagnolo, si eleva dal caso contingente, e allora tutto un sistema di valori sembra sgretolarsi. Di fronte alla follia delle leggi dell’onore si mettono in crisi i principi cardine della società in cui si muovono gli uomini e le donne di Armi e amori. I 44 versi della scena x sono tutti dedicati a minare i valori di una società cavalleresca, ovvero di una società che poggia la sua affermazione sulle esibizioni di forza. Il duello qui condannato è rappresentazione di valori primitivi e feudali che non sanno servirsi della ragione, ovvero di Dio. Si potrebbe ribattere che la ragione non è Dio e che anzi proprio la cavalleria poggia le basi su una tensione morale che parte da Dio e vi ritorna. Ma Rospigliosi si confronta con un concetto di cavalleria ormai secolarizzato e che altro non è che il residuo di valori superati, sedimentati in una società cortigiana e per molti aspetti protoborghese: valori che sono da un lato la supremazia fisica e dall’altro la difesa dell’onore. Entrambi ancora propri del quotidiano e tollerati, solo tollerati, fin tanto che servono a smovere le emozioni ma, nelle circostanze concrete, condannati dal pensiero religioso di Rospigliosi. In questo senso la spiritualità cattolica postridentina, dove l’entusiasmo razionalista tipico del Seicento diventa manifestazione di Dio, esibisce la sua ‘modernità’ rispetto ai valori cavallereschi: alla forza si contrappone la ragione (ovvero Dio), all’onore la morale (ovvero, ancora una volta, Dio). II.x, vv. 6-8 [alonso] Cura indegna è il cercar con tanta cura che decida ogni punto la punta della spada. L’artificio retorico del verso («cura/cura», «punto/punta») diventa espressione di un’eleganza speculativa e intellettuale che implicitamente si contrappone alla volgarità degli argomenti di uno scontro armato. Non meno drasticamente condannata è la tradizione che regola i valori dell’onore : II.x, vv. 10-13. Chi non sa che ben spesso legge d’errore è quella che d’onor legge il cieco mondo appella? Ancora, nel proseguimento poi cassato (ma per ragioni di scorrevolezza, non per autocensura), si contrappone esplicitamente il prestigio di una capitolo iii. Vicende 99 vita mossa da princìpi religiosi («la vita e l’alma e la pietade e il Cielo») a quella violenta delle regole cavalleresche (il «duro agone»): E qual famosa palma, qual mai trionfo spera chi disprezzando in un la vita e l’alma e la pietade e il Cielo, in duro agone solo nel sangue i vanti suoi ripone? II.x, vv. 20-24. E qui, nell’atteggiamento propagandistico, riaffiora l’insegnamento gesuitico che dispensa argomenti a piene mani a chi volesse farsi paladino di una campagna contro le azioni di forza («ove d’ingiusta sorte | trofeo riman talora anche il più forte») e insieme elabora soluzioni per riciclare l’esubero di testosterone (per esempio indirizzandolo contro l’arabo infedele, «il superbo scita»): Quanto meglio saria, che funestar di civil sangue il piano, rivolger questi e quello la generosa mano contra il superbo scita a Dio rubello? Rospigliosi insomma, oltre a mettere a nudo i valori propri delle storie di cappa e spada contrapponendovi la lungimiranza della morale cristiana, premia la capacità di potersi opporre al sistema antico – e tale opposizione diventa una manifestazione laica del Libero Arbitrio – trasformando Alonso, dal vecchio bonaccione di Montalbán, in un saggio assennato. L’incongruenza con l’azione estrema e folle di voler uccidere la figlia obbliga però a corregere il tiro. Se l’ira cieca di Alonso diventa nel modello spagnolo la fanfaronata incontrollata al limite del grottesco, di un padre in fondo vile e codardo; qui si trasforma in un momento di patente improvvisa demenza che si giustifica proprio perché altro rispetto alla saggezza dimostrata dal vecchio. Ma sulle alterazioni dei caratteri subite nell’adattamento italiano ritornerò in seguito.14 scena xiii. Nuova inquadratura su Ippolita e Spinetta da poco allontanatesi dalla casa di Enrico. Ippolita spera che i suoi avvertimenti potranno aver più fortuna con Fabio, che vorrebbe incontrare a breve, e intanto canta un’arietta sulle delusioni d’amore, contrappuntata da Spinetta che invece ne esalta piaceri e speranze. II.x, vv. 31-35. 14. Cfr. qui cap. v (Differenze) in part. il § 3. Caratteri. mutazione 7 Strada Scena del tutto pretestuosa nell’economia del dramma, eppure il suo inserimento si giustifica in una strategia della concatenazione delle scene che proprio dal confronto con il testo spagnolo offre importanti motivi di riflessione (v. capitolo v). SPINETTA IPPOLITA scena xiv. Fabio, sul luogo del duello, attende Enrico incerto se questi lo preferirà ad Alvaro e insieme preoccupato per le sorti del suo amore con la dama velata. scena xv. Giunge finalmente Enrico: stanno per combattere ma l’arrivo di Lisardo li trattiene. scena xvi. Lisardo narra della sorte di Laura e di suo padre che la vuole uccidere. Enrico, con l’approvazione di Fabio, abbandona il campo per salvarla. I tre si mettono alla sua ricerca. mutazione 8 Campo del duello 100 davide daolmi LISARDO FABIO La singolare concentrazione di numeri chiusi di questa fine atto – un duetto (sc. xiii), un’aria (sc. xiv) e un madrigale (sc. xv) – ha ragioni che soddisfano le singole situazioni ma che non sembrano riconducibili a un’esigenza unitaria. Anzi la sensazione è che si sia un po’ persa di vista la tenuta complessiva. Se l’aria di Fabio in qualche modo esprime un’attesa piena di tensioni, succede tuttavia a un duetto, quello d’Ippolita e Spinetta, di cui forse non c’era necessità. Non è però da escludere che l’atto scelleENRICO rato di Alonso, forse eccentrico rispetto ai canoni operistici dell’epoca – poco aduso a veder cantare tentati omicidi in abiti contemporanei – potesse necessitare di una doppia dose di distrazioni. Il madrigale che chiude l’atto in funzione di commiato anche in questo caso oppone qualche resistenza alla verosimiglianza. Il senso corale che suggerisce rende l’idea di una ritrovata unità per le sorti di Laura, ma qui mal sembra collocarsi un coretto, quando ci aspetteremmo vedere i tre correre in cerca della giovane. È vero che l’opera ci ha abituato a simili contraddizioni (a cominciare dalla Pira verdiana con Manrico che pensa ai suoi da capo invece di andare a togliere dal fuoco Azucena), ma qui, dove Rospigliosi costantemente s’è preoccupato di evitare inutili interruzioni all’azione di arie e ariette, tanto ingombrante madrigale un po’ stona. Si deve ammettere che l’esigenza formale in alcuni momenti, e già s’è visto che i fine atto sono uno di questi casi, abbia ragioni più forti di quanto non richieda la coerenza drammatica. atto iii Il terzo atto prevede solo due mutazioni di otto scene ciascuna e complessivamente di pari durata: la prima metà in esterno e la seconda in casa di Fabio. mutazione 9 Strada FABIO ENRICO scena i. Enrico Fabio e Lisardo sono sempre alla ricerca di Laura. Lisardo propone di cercarla a casa di Enrico; l’idea è accolta e Lisardo corre avanti per scongiurare eventuali minacce. ALVARO scena ii. Sulla strada i due incontrano Alvaro che, atteso invano Enrico per il duello, si stupisce vederli insieme. Enrico vuole raggiungere in fretta casa sua e demanda le spiegazioni a Fabio; quindi si allontana. scena iii. Fabio racconta ad Alvaro come stanno le cose e questi, preoccupato per l’amata Laura, decide di cercare Tranquilla per avere notizie; parte lasciando che Fabio raggiunga Enrico. BRUSCOLO IPPOLITA TRANQUILLA SPINETTA LISARDO scena iv. Fabio incontra il servo Bruscolo che lo informa che Laura e Tranquilla si sono rifugiate a casa sua, che le ha soccorse e quindi è sceso in strada per cercarlo e sapere l’esito del duello. Fabio ordina allora a Bruscolo di avvertire Enrico mentre lui andrà a raggiungere Laura. scena v. Bruscolo informa Ippolita e Spinetta, incontrate sulla strada, che il suo padrone è tornato a casa, senza precisare l’esito del duello e la presenza di Laura. scena vi. Ippolita è decisa a raggiungere Fabio ma, scorgendo Tranquilla (l’aveva già incontrata quando era andata ad avvisare Enrico del duello) chiede a Spinetta d’intrattenersi con lei per sapere se Enrico ha combattutto, con chi e con qual sorte. scena vii. Spinetta e Tranquilla si mettono a chiacchierare e dopo qualche reticenza Tranquilla racconta quanto accadde a Laura, ma nulla sull’esito del duello. scena viii. All’arrivo di Lisardo Spinetta si allontana e Tranquilla gli riferisce dove sia Laura. I due intendono avvertire Enrico. capitolo iii. Vicende 101 Come per l’attacco del secondo atto anche qui la prima scena si ricollega all’ultima dell’atto precedente. Ora però il perdurare dell’azione in una strada imprecista, forse limitrofa, o forse no, al campo del duello, crea un sostanziale arco ininterrotto, tutto esterno, dalla scena xiv del secondo atto (la prima nel «Trapiglio», il nome del campo) all’viii del terzo. L’indeterminatezza dello spazio – dove, a parte Laura e suo padre, riappaiono tutti i personaggi in un continuum d’incontri e separazioni – pone da un lato una questione di coerenza (ovvero: tutti questi spostamenti si reggono su un meccanismo verosimile, oppure no?), dall’altro un interrogativo sulla sua realizzazione pratica: in altre parole, fino a che punto la scena deve adattarsi a spazi diversi o addirittura in movimento (visto che tutti i personaggi stanno andando da qualche parte), o non siamo invece di fronte a una scrittura pensata per concentrare tutti gli incontri in uno stesso luogo, per esempio una piazza? Provo a ricostruire i movimenti, riferiti o ipotetici, che si svolgono esternamente alla scena, ipotizzando una planimetria capace di collegare gli spazi dell’azione secondo i percorsi operati dai personaggi. Cinque sono i luoghi a cui si fa riferimento: la casa di Enrico (x), quella di Fabio (y), quella di Alonso (z), il primo campo del duello o «Trapiglio» (t1) e il secondo, detto «Toccia» (t2), dove Alvaro ha atteso invano Enrico per il duello. Per il momento non so come questi luoghi siano collegati, ma so, più o meno, quali siano i percorsi che i personaggi seguono (suppongo, ovviamente, che questi percorsi siano diretti, ovvero privi di deviazioni: avrebbe poco senso che chi andasse da x a y faccia il giro turistico della città). schema 1. Nella scena i Enrico Fabio e Lisardo non sono più nel «Trapiglio» (t1) ma in un punto qualunque di una strada (a). I tre decidono di andare alla casa di Enrico (x) e pertanto da quel momento percorreranno la strada a—x. Nella scena ii, poco più avanti (b), Enrico e Fabio incontrano Alvaro che arriva dalla «Toccia» (t2) e subito riparte per la casa di Alonso (z) dove crede di poter trovare Tranquilla e avere notizie di Laura (ignorando che la cameriera ha accompagnato Laura nella fuga). schema 2. Fabio, rimasto solo (Lisardo ed Enrico erano già corsi avanti), incontra Bruscolo che arriva dalla casa del suo padrone (y): siamo nella scena iv e in un ipotetico punto c ulteriormente avanzato rispetto al precedente. A questo punto Fabio e Bruscolo si scambiano le direzioni: Fabio devierà per casa sua (y) e Bruscolo andrà verso la casa di Enrico (x) per dare notizia delle sorti di Laura. schema 3. L’inquadratura è ora su Bruscolo (scena v) che, poco più avanti (d), è avvicinato da Ippolita e Spinetta, apparentemente di ritorno dalla casa d’Enrico (x): le due donne avranno anche incontrato Lisardo ed Enrico sulla strada, ma essendo sempre coperte non sono state riconosciute. Ippolita viene a sapere da Bruscolo che Fabio è a casa e decide di raggiungerlo (percorso previsto: d—c—y). Nella scena vi Ippolita e Spinetta incontrano Tranquilla che evidentemente si è allontanata dalla casa di Fabio (y) per cercare aiuto. Posso supporre s’incrocino nel punto c giacché entrambe percorrono la stessa strada ma in direzione opposta. Perché però questo sia vero devo ammettere che il collegamento x—d—c—y sia diretto. schema 4. Se tutte queste relazioni fra personaggi si rivelano coerenti bisogna però ammettere che questo è possibile perché le scene si collocano in almeno quattro punti diversi (a b c d), soluzione che contrasta con la staticità di un’unico impianto scenico. Si può però provare a fare un’altra ipotesi, ovvero che i quattro punti vengano in sostanza a coincidere, siano cioè sovrapponibili in un ideale incrocio a cinque vie dove il collegamento x—y, fra le case di Enrico e Fabio, s’intenda asse portante della scena, identificato dalle uscite laterali del palco, in questo modo: schema 1 T1 — a | T2 — b — Z | X schema 2 T1 — a | T2 — b — Z | X — c — Y schema 3 T1 — a | T2 — b — Z | X — d — c — Y schema 4 T1 — a | T2 — b — Z | X — d — c — Y ovvero: Z T1 T2 | X ––––– O ––––– Y 102 davide daolmi 4xvii. Ipotesi di disposizione scenica ideale per la prima mutazione dell’atto terzo. Si tratta di verificare fino a che punto la struttura permetta non solo di evitare inconguenze ma insieme di rendere comprensibile lo svolgimento dell’azione. In altre parole: fino a che punto lo spazio teatrale condiziona la costruzione del dramma; ovvero accoglie quei compromessi che lo spettatore tollera perché sa di confrontarsi con una finzione. In dettaglio: 3xvii.1. Nella prima scena, Enrico Fabio e Lisardo (che nel secondo atto si erano incontrati al «Trapiglio») non sanno dove andare a cercare Laura. Laura, con Tranquilla, è stata accolta da Bruscolo in casa di Fabio, ma questo lo spettatore lo saprà solo alla scena iv. Lisardo, erroneamente, ipotizza che sia tornata a casa di Enrico e corre avanti a cercarla. 3xvii.2. Enrico e Fabio stanno per seguire Lisardo quando giunge Alvaro di ritorno dalla «Toccia». Enrico ha fretta di seguire Lisardo mentre Fabio s’intrattiene e gli dice di Laura. Alvaro pensa fra sé di chiedere notizie a Tranquilla che crede essere a casa sua, ovvero di Alonso, e lascia solo Fabio. Questi vorrebbe raggiungere Enrico ma sopraggiunge Bruscolo (che nel frattempo ha lasciato Laura alle cure di Tranquilla). 3xvii.3. Bruscolo riferisce a Fabio dov’è Laura. Fabio ordina allora a Bruscolo di raggiungere Enrico per avvertirlo mentre lui ritorna a casa sua. capitolo iii. Vicende 4xvii..4. Quando Fabio è ormai fuori scena Bruscolo è fermato da Ippolita e Spinetta che cercano appunto Fabio. Poiché le due donne venivano dalla casa di Enrico si deve ammettere che non abbiano seguito un percorso diretto (d’altra parte le avevamo trovate intente a canticchiare in II.xiii). Anche Tranquilla è uscita a cercare aiuto ma la incontreremo solo la scena successiva (certo incontrerà Fabio sulla strada ma i due non si conoscono e Tranquilla non gli potrà chiederà aiuto). Ormai raggiunto da Enrico, Lisardo deve essere già arrivato a casa e, non trovando Laura, ha pensato di uscire in strade a cercarla ancora. 4xvii.5. Bruscolo esce di scena proseguendo verso la casa di Enrico (non sappiamo se incontra Lisardo, certo è che non gli dice dove sia Laura). Arriva Tranquilla che invece di tirare dritto (per esempio per cercare Enrico) s’intrattiene in chiacchiere con Spinetta, allo scopo istruita da Ippolita affinché tragga notizie su Fabio. Ippolita intanto non si ferma e prosegue. Fabio è poco più avanti, fuori scena, che torna a casa sua. 4xvii.6. L’arrivo di Lisardo interrompe le chiacchiere fra le due camerierere. Spinetta si allontana e Tranquilla riferisce a Lisardo dove sia Laura. I due decidono di ritornare a casa di Enrico per dargli la buona nuova. Meccanismo assai complicato, come si vede, che riesce a tenere sotto controllo gli ingranaggi solo fino a un certo punto. In effetti il primo cedimento si ha con l’apparizione di Tranquilla. Possiamo veramente credere cha lasci sola Laura in casa di un estraneo, quando già Bruscolo era andato a cercare qualcuno? Ma supponendo anche che Tranquilla sia uscita per cercare Enrico è assai improbabile che s’intrattenga con Spinetta e che poi canti con lei anche un duetto. Terzo elemento di incogruenza è l’apparizione di Lisardo. Bisogna infatti supporre che torni dalla casa di Enrico e che quindi abbia percorso la stessa strada di Bruscolo in senso inverso. Ma come è possibile che Bruscolo (che conosce Lisardo e sta cercando il suo padrone) non gli chieda dove sia e soprattutto non lo informi sulle sorti di Laura? Bisogna osservare a questo punto che la scena vi è altamente rielaborata nella versione italiana e la vii e l’viii sono aggiunte integralmente. I problemi che si vengono a creare sono quindi tutti del riadattamento operistico: il testo spagnolo conserva per tutti i tre atti una più rigorosa coe- 103 104 davide daolmi renza. Ma ad un’osservazione più attenta queste discrepanze si possono sanare elaborando un retroscena meno ovvio. Si può per esempio supporre che Laura stessa, poco fidandosi di Bruscolo, abbia mandato Tranquilla a cercare Enrico. Tranquilla infatti è tutt’altro che contenta, inizialmente, di avere incontrato Spinetta, evidentemente perché ha ben più gravi incombenze da assolvere, lei va «per un negozio urgente» che tanto fa rima con «non so niente», ripetuto ben quattro volte: III.vii, vv. 1-14 spinetta Dove, Tranquilla, a sì gran passi, dove? tranquilla Vado così per un negozio urgente. spinetta Tanta furia. Che nuove? Che si fa? Dove vai? tranquilla Non so niente. spinetta Parlasti a don Enrico di Toledo? tranquilla Non so niente. spinetta Come? Non lo credo. Non uscisti poco ha dal suo ricetto? tranquilla Non so niente! spinetta Un che t’ha visto uscire or ora me l’ha detto; a che serve il mentire in cosa sì patente? tranquilla Non so niente! Tante dimande chi le può soffrire: come? chi? quando? dove? Tengo forse il registro delle nuove? Poi si lascia prendere dal gusto per il pettegolezzo. E qui Rospigliosi elabora una tipica scenetta di comari molto gustosa che sfocia in un un divertito duetto. Forse la comicità è anche nella situazione esasperata ma è innegabile che il librettista molto abbia concesso alla convenzione (il che non è di per sé un male). Il rientro in scena di Lisardo è sostanzialmente inutile e obbliga, per giustificare il mancato incontro con Bruscolo, a credere che questi, ancora temendo il colpo che Enrico gli aveva precedentemente inferto, preferisca evitare di reincontrarlo, prendendo altre strade e disubbedendo così al suo padrone. In questo senso avremmo una ulteriore caratterizzazione di Bruscolo come persona inaffidabile (ma non so dire quanto consapevole). La scena tuttavia è finalizzata a far tornare Lisardo in gioco. Dato che si è inserito, un po’ a forza, il duetto di Tranquilla e Spinetta per ristorare il pubblico dopo ben sette scene senza arie o ariette, qui serve una preparazione alla scena successiva, quella tragica del lamento di Laura. Scena clou che non può arrivare all’improvviso. Lisardo infatti, servo «ben nato», restituisce sobrietà alle risate delle due donne e chiude l’episodio con una severa considerazione, tutta morale, utile a predisporre lo spettatore all’imminente pianto di Laura: III.viii, vv. 28-34 lisardo Oh, come hai pronto a precipizi il core gioventù male accorta; in qual confuso errore non cadi ad ogni passo, mentre guida il piè lasso un cieco Amore; su l’orme sue coi vacillanti piedi segui il tuo peggio e ’l proprio mal non vedi. capitolo iii. Vicende 105 È poi anche possibile che il ritorno di Lisardo sia una concessione agli equilibri fra le parti dei servi giacché da questo momento in poi spariranno dalla scena: Lisardo, l’unico senza un proprio assolo, è certamente quello più sacrificato. Ma questa è solo un’ipotesi. scena ix. Sola, in una stanza della casa di Fabio, Laura si dispera: è convinta di non essere amata da Enrico e suo padre la vuole morta. mutazione 10 Casa di Fabio scena x. Arriva Fabio. Laura vorrebbe raccontargli il suo caso ma lui sa già tutto. scena xi. All’ingresso di Ippolita, sempre velata, Laura si nasconde in una stanza attigua. L’inattesa presenza della donna di cui è innamorato mette Fabio a disagio. scena xii. L’arrivo di Alvaro getta Ippolita nel panico. Alvaro cerca Laura e crede sia la donna velata. A questo punto Ippolita si rivela a Fabio e chiede la sua complicità perché la difenda da suo fratello. scena xiii. Entra in scena anche Enrico. Fabio vorrebbe mettere in salvo Ippolita consegnandola a Enrico e spacciandola per Laura. Ma la vera Laura esce dal suo rifugio e, nello stupore generale, se ne va con Enrico. LAURA FABIO IPPOLITA ALVARO ENRICO ALONSO scena xiv. Ora però Alvaro pretende sapere chi sia la donna coperta. Un rumor di spade che viene da fuori li distrae. Alvaro e Fabio escono e Ippolita si nasconde nella stanza dove prima era Laura. scena xv. Laura rientra in casa fuggendo da qualcuno che la insegue e, trovando chiusa la stanza dove prima si era nascosta, si occulta altrove. scena xvi. Irrompe in casa Alonso, spada in mano, a cercar la figlia. È trattenuto da Enrico, con cui stava combattendo (dietro di loro Fabio e Alvaro). Enrico per chetarlo promette di sposare Laura. Alonso accoglie la proposta. Si forza la porta della stanza attigua pensando che vi sia Laura ma appare Ippolita. Alvaro va su tutte le furie. Fabio lo tranquilizza chiedendogli la mano della sorella. Enrico rende così le armi a Fabio (ovvero si considera perdente) e Laura stabilisce che il duello fra Enrico e Alvaro non ha ragion d’essere in quanto lei, oggetto del contendere, ha già scelto Enrico. Per come è organizzato quest’atto si deve ammettere che il lamento di Laura (scena ix), nel trascorrere degli eventi, non sia successivo all’incontro fra Lisardo e Tranquilla (scena viii) ma avvenga precedemente. È come se la mutazione permetta una didascalia del tipo: «intanto, in casa di Fabio…». In effetti i personaggi spariti di scena nella prima parte hanno il tempo necessario per ricomparire nella seconda anche supponendo che il suo inizio anticipi, e di molto, la fine della mutazione precedente, venendo a coincidere all’incirca con l’inizio della scena v. 6xviii. Schema della sovrap- posizione temporale che s’innesta fra le due mutazioni del terzo atto di Armi e amori; n.b. le parti chiare corrispondono ai tagli della versione definitiva e quelle scure ai numeri chiusi. 106 davide daolmi Come mostra il grafico, Fabio parte per raggiungere Laura alla fine della scena iv e ha tutto il tempo di ricomparire all’inizio della x. Ippolita, che lascia Spinetta con Tranquilla all’inizio della vii scena, raggiunge la casa di Fabio poco dopo di lui. Enrico, avvertito da Lisardo e Tranquilla al termine della prima parte ha modo anche lui di fare la sua ricomparsa dopo un tempo ragionevole. La sovrapposizione della seconda parte in coincidenza con la scena v potrebbe cadere anche altrove, a causa della durata dell’aria di Laura (che è ovviamente in più rispetto al modello spagnolo). L’attacco della scena in casa di Fabio coinciderebbe quindi grosso modo con la metà della scena vi, ovvero proprio nel punto in cui comincia la sezione aggiunta da Rospigliosi (parte della scena vi e le intere scene vii e viii). È chiaro pertanto che questa ‘imbricatura temporale’ è tutta rospigliosiana, non appartiene cioè al testo spagnolo ed è una soluzione elaborata dalla versione operistica; espediente raffinato che dimostra, quando le esigenze lo richiedono, un uso smaliziato delle strategie drammaturgiche; pratica affatto moderna, al limite delle regole consentite e che, come nei ‘retroscena’ meno immediati della prima mutazione, testimonia l’estrema perizia e disinvoltura del librettista. 15. V . qui la parte conclusiva del cap. v. Della straordinaria scrittura musicale del lamento dirò altrove.15 Qui mi preme osservare come Marazzoli faccia propria una tensione all’accumulo drammatico, già prevista dallo sviluppo del soggetto a partire dalla distribuzione delle entrate, che, pur sperimentalmente, rasenta l’idea di concertato. 5xix. Ingressi dei sei perso- Dallo schema si coglie a colpo d’occhio come si attui, in questo finale un procedimento tipico del teatro (e in particolare dell’opera) che usa concludere lo spettacolo con tutti i personaggi in scena (qui mancano solo i servi). L’operazione non punta soltanto a giungere al sestetto vocale completo ma sfrutta questi successivi ingressi ‘ad accumulo’ per far crescere naggi ‘seri’ nel finale di Armi e amori. capitolo iii. Vicende 107 4xx. Un’altra pagina della partitura di Armi e amori relativa ai vv. 49-53 (II.xiii) di cui parlo più sotto. la tensione. Il grafico esplicita anche la formula di doppio finale con un’apparente prima risoluzione alla fine della scena xiii (Laura portata in salvo da Enrico). Chiunque si aspetterebbe, visto il tono conciliante ormai assunto, che anche Fabio ed Ippolita trovino il modo per unirsi in matrimonio. Invece, prima le questioni d’onore puntigliosamente pretese da Alvaro, poi la tumultuosa irruzione di Alonso che, armi alla mano, insegue la povera Laura, tutto concorre a creare nuovi motivi per compromettere una fine serena. Il doppio finale è ovviamente un sapiente espediente di cui il teatro spagnolo aveva già potuto verificare l’efficacia (le strategie psicologiche, per usare un riferumento musicale, sono le stesse che mette in atto, nella microforma, una cadenza d’inganno che anticipa la risoluzione conclusiva), ma qui tale soluzione si rivela necessaria per diluire l’accumulo straordinario di bisticci e incomprensioni. Con tecnica consapevole si esaspera gradualmente la situazione già a partire dalla versificazione che sul finire della scena xiii arriva a frastagliare gli interventi di ciascuno per esprimerne le preoccupazioni attraverso l’incastro sempre più rapido e serrato degli interventi (quasi il testo per un concertato rossiniano): alvaro L’ira m’accende. fabio In nuovi dub‹b›i involto, che fo? ippolita Tremante ho il piede. laura Il core ho mesto. alvaro Qual fiamma provo in me? laura Come or mi celo? ippolita Io pavento. laura Io languisco. alvaro Io ardo. laura Io gelo. fabio Ambiguo pendo. enrico Omai l’alma è serena. alvaro Oh sdegno. ippolita Oh tema. fabio Oh dub‹b›i. enrico Oh sorte. laura Oh pena. III.xiii, vv. 46-52. 108 davide daolmi Marazzoli in questo finale ‘d’inganno’ si adegua al suggerimento e non fa altro che intonare i vari frammenti in modo da mantenere il senso della continuità senza compromettere il carattere delle varie esclamazioni (per esplicitare meglio i tempi ‘rappresentativi’ ho preferito eliminare le indicazioni ritmiche e disporre la musica in partitura). 5xxi. Messa in partitura del recitativo corrispondente ai versi sopra citati (omesse le indicazioni ritmiche). I sei versi del frammento sono accorpati in due gruppi cadenzanti di 4 + 2 versi con una coerenza armonica interna. Questo senza compromettere i caratteri specifici: Laura ha un bemolle in chiave a sottolineare il suo caso pietoso (armatura che manca a tutti gli altri), e contemporaneamente si operano scarti armonici (a), mutamenti di modo (b), alterazioni cromatiche (c), armonie ardite (d), pur di rendere al meglio i contrasti affettivi. Dove invece Marazzoli forza il testo, l’unico caso in tutta la partitura, è nel punto corrispondente al secondo e ultimo finale (quello vero). La poesia ora non offre più la ‘deflagrazione’ del verso di prima: la tensione dell’episodio dovrà essere resa dall’enfasi degli attori. Ma la musica non sembra accontentarsi e, per la prima volta, tenta di organizzare la ‘regia’ di quegli interventi, suggerendo ripetizioni e definendo con precisione i tempi d’attacco: III.xvi, vv. 27-42. alonso Fermate cavalieri! fabio Onde tanta doglianza? alvaro Sotto amica sembianza inganni così fieri! Ma farò sì ch’il temerario eccesso d’una cieca arroganza impunito non vada. capitolo iii. Vicende 109 fabio Sosterrò con la spada che non son rei d’inganno i miei pensieri. alonso Fermate cavalieri! Troppo il furor s’avanza. enrico I nuovi sdegni alteri deh non consenta in voi l’affetto antico. ippolita Che veggo? Ahi lassa! A respirar la strada appena omai ritorna il cor oppresso. alonso Fermate cavalieri! Scrittura decisamente ardita, tanto ardita che nella versione definitiva è addirittura cassata. In effetti non si tratta di uno «stile concertato», che peraltro Marazzoli usa abbondantemente nella musica sacra e che ricorre negli ensemble di fine atto delle sue opere (significativo quello del finale di Dal male il bene); siamo di fronte al tentativo di dare un’ordine musicale ad una tipica situazione teatrale in cui gli attori, presi dalla foga del momento, parlano uno sull’altro, prevaricandosi. Se fino a questo momento la preoccupazione del musicista sul come dire i recitativi si 5xxii. Recitativo ‘a sovrappo- sizione’ usato da Marazzoli nel finale di Armi e amori. 110 davide daolmi riduceva all’andamento melodico (non certo a quello ritmico, ma di questo dirò poi) ora per rendere la complessità metrica di un ‘parlarsi addosso’ Marazzoli deve improvvisarsi capocomico. E lo fa con competenza; sa calibrare l’accumulo delle parti già prima degli accavallamenti – credo sia ragionevole intendere le pause (qui delimitate da parentesi quadre) necessarie a esaurire la battuta, non a ‘spaziare’ gli interventi – sa gestire le ripetizioni, e soprattutto lascia ad Alonso un esasperato «Fermate cavalieri!» in sedicesimi che fa tacere la brigata. Anche in questo caso l’accento vien fatto coincidere con la battuta ma certamente l’intervento deve essere anticipato in modo da interrompere i discorsi degli altri; Marazzoli avrebbe potuto scriverlo in ottavi, come usa di solito, ma in questo caso era più importante sottolineare la velocità e la veemenza della frase, utile a far punto, piuttosto che collocarlo correttamente. Un’ultima osservazione potrei farla sulla sbrigatività con cui si sanciscono e si accolgono dai rispettivi parenti i due matrimoni. Credo tuttavia che questa sia una percezione tutta moderna: le titubanze, i ripensamenti, l’introspezione sulle unioni sentimentali sono attenzione assai ottocentesca. Probabilmente l’uomo del Seicento pativa anch’egli le sue insicurezze affettive ma il matrimonio era soprattutto un contratto dove, una volta accordate le parti, poco c’era da aggiungere. E a ben guardare per decenni ancora sarà così: che tanti matrimoni facciano finire opere, romanzi e racconti in genere è un altro punto fermo della nostra tradizione che in qualche modo avvalora l’inquietante identità che Kierkegaard elaborava fra matrimonio e morte: una volta sposati ben poco rimane da dirsi. appendice L’armi e gli amori Prologo Nise, Clori, Tirsi, Lidoro I-Rvat, Ms. Chigiani q.viii.186, cc. n.n. 2r-18v, a confronto con I-Rvat, Vat. lat. 10243, cc. 3r-4v [rv1]; per i criteri di edizione oltre alla Prefazione a questo studio v. le pagine introduttive dell’Appendice (Sinossi). lidoro Tutto è pieno il teatro, e dalle genti d’indugio impazienti il principio si chiede. tirsi All’opre ognuno accinto omai si vede. Galatea, che la prima uscir dee fuora, nella vicina stanza compone il velo e l’aureo crine infiora ond’in punto sarà senza tardanza. nise Proviamo, se vi pare, la canzonetta intanto della scena del mare, che sempre ch’io la canto, perché non ben la so, temo d’errare. 5 10 capitolo iii. Vicende nise, clori 111 aria a 2 Chi non ama d’Amor li strali che n’avventa ciglio sereno non ha core dentro al suo seno ond’ammiri l’alto splendore: non ha core no, non ha core. Son soavi d’Amor le pene, senza pena son i suoi danni, innocenti le sue catene: stringon l’alme ma senz’affanni. Se ferisce, se il petto accende, la sua face mai non offende, le sue piaghe non sono mortali. Chi non ama d’Amor li strali che n’avventa ciglio sereno non ha core dentro al suo seno ond’ammiri l’alto splendore: non ha core no, non ha core. Amor] rv1 Amore 15 Amor] rv1 Amore 20 25 Amor] rv1 Amore 30 lidoro Dunque da voi già stabilito è qui ch’oggi si rappresenti la Galatea ? clori, tirsi Sì. lidoro Che contiene il soggetto? clori D’Amor vari accidenti. 35 lidoro Temo non porterà un intero diletto. clori Ma perché? lidoro Chi non sa che l’udir si frequenti quei pianti, quei sospiri, quei dogliosi lamenti, fa lamentar le genti? Mentre ogni ninfa, ogni pastore, espressi facendo i suoi martìri quasi ne’ modi istessi, par che non sappia articolar parola che non risuoni Amore, dardi, lacci, bellezza unica e sola, alma accesa, occhi vaghi, afflitto core. tirsi Lungi non va dal parer vostro il mio, ciò bene spesso ho ponderato anch’io. Quali applausi, quai vanti attender mai potrà forma sì vecchia? È già stanca ogni orecchia d’ascoltar su le scene affanni e pianti di mal graditi amanti e di cruda beltà ripulse e sdegni. Ove non apparecchia sagace novità, curiosi oggetti, non che i grandi intelletti anche i vulgari ingegni, quell’orme che sen vanno per la calcata via, pregiar non sanno. clori Dal musico apparato è vostro intento ch’Amor vada in disparte? 40 45 50 55 60 65 112 davide daolmi lidoro Ciò non dich’io: vorrei che l’argomento accoppiasse in un tempo Amore e Marte. armi] rv1 arme istrumenti] rv1 instrumenti nise Misti col suon dell’armi la soave armonia perdono i carmi. lidoro Anzi, mentre sonar s’ode ogni parte di bellici istromenti ben sapranno spiegar sensi di Marte anche i canori accenti. tirsi Già per antica usanza godono eguali onori in nobile adunanza di donne e cavalier l’armi e gl’amori. 70 75 nise L’approvo. clori 1. Il Manzanarre è il subaffluente del Tago che attraversa Madrid e quindi metonimia della Spagna. 2. Sorgente che nasce sull’Elicona (Grecia), sgorgata secondo il mito da un copo di zoccolo di Pegaso. Sacra alle muse, ha il potere di offrire ispirazione ai poeti. Anch’io l’approvo. Or qual soggetto sarà da noi per la comedia eletto? 80 lidoro D’un cigno peregrino che scioglie in riva al Manzanaro1 il canto, mortal no ma divino, con italiche note or s’oda il vanto; e trasporti Ippocrene2 in toschi carmi un nodo ch’ei formò d’amore e d’armi. 85 nise Dunque al teatro omai drizziamo i passi. clori Di valor, di beltà, drappello eletto che quivi accolto stassi gradirà se non l’opra, almen l’affetto. 90 lidoro Anche l’alta presenza a cui l’onde festose il Tebro inchina v’onorerà della real Cristina. nise Sveglieran le sue glorie in noi temenza. forse] rv1 certo tirsi Quel sì sovrano ingegno prenderà forse opra sì bassa a sdegno. lidoro No, ché somma clemenza con ogn’altra virtù in lei risiede. Udì con dubia fede Roma sì chiari vanti, quasi che raro o pur non mai ricetto abbian pregi cotanti in un sol petto, et or confessa e vede che la Fama il più tacque, il meno ha detto. coro 95 100 Per un trito sentiero con novello argomento si muove oggi il pensiero ad intrecciare intento col mansueto il fiero. 105 Su su dunque, su su l’aria rimbombe or di cetre festose ora d’audaci trombe con note armoniose con minacciosi carmi. Agl’amori agl’amori, all’armi all’armi. 110 115