UPO, Corso di Diritto parlamentare, in corso di pubblicazione

LUIGI GIANNITI – N. LUPO, Corso di Diritto parlamentare, in corso di pubblicazione
CAPITOLO I
La politica e i suoi limiti: il diritto parlamentare e il diritto costituzionale
In questo capitolo introduttivo si propone una definizione del diritto parlamentare, ponendola a confronto con
altre denominazioni pure utilizzate per inquadrare le regole dei Parlamenti e delle altre assemblee elettive. Si
esamina poi il rapporto con il diritto costituzionale, del quale il diritto parlamentare si ritiene essere una parte:
quella forse di più difficile “tenuta” sul piano prescrittivo, in quanto particolarmente vicina al potere politico.
I.1. Una definizione di “diritto parlamentare”
Con il termine “diritto parlamentare” si fa tradizionalmente riferimento al complesso di norme che
disciplinano l'organizzazione interna delle Camere, l'esercizio delle loro funzioni e i rapporti con gli altri
organi (costituzionali e di rilevanza costituzionale) e con i soggetti terzi. La definizione, pur risalendo
sostanzialmente a quella proposta da Vito Miceli, nel 1910, può ritenersi tuttora valida; con la consueta
avvertenza – comune invero a tutte le materie giuridiche – che tale termine vale altresì a caratterizzare la
scienza, nata quasi esclusivamente con fini pratici ma in Italia consolidatasi anche in ambito accademico a
partire dalla seconda metà del XX secolo, che tale complesso di norme si propone di studiare.
Non mancano denominazioni simili, che includono almeno in parte le stesse norme.
Si parla spesso, ad esempio, di “procedura parlamentare”, mettendosi così in rilievo come larga
parte di queste norme riguardino i procedimenti attraverso cui le Camere esercitano le proprie funzioni:
tuttavia, benché quelle procedurali siano le norme quantitativamente e fors’anche qualitativamente più
rilevanti della nostra disciplina, esse non le esauriscono di certo: in parte perché vi è anche una dimensione
organizzativa, evidenziata nella definizione prima proposta; in secondo luogo, perché – analogamente al
percorso che, nel XX secolo, sono andate compiendo le discipline relative al processo civile e penale e,
ancor più recentemente, quelle relative al processo amministrativo e costituzionale – il riferimento alla sola
procedura tende a privilegiare il carattere descrittivo delle norme, a danno di quello prescrittivo, e comunque
ad oscurare il riferimento a princìpi di ordine più generale.
Un discorso in un certo senso opposto deve farsi, invece, per denominazioni quali “diritto delle
assemblee elettive” o “diritto delle assemblee rappresentative”: esse appaiono evidentemente più
comprensive rispetto a quella di “diritto parlamentare”, in quanto vi includono il riferimento ad altri organi
elettivi o rappresentativi, posti a livello subnazionale (dai consigli circoscrizionali fino a quelli regionali), o a
livello sovranazionale e internazionale (fino, perciò, alle assemblee delle organizzazioni internazionali, ove
abbiano carattere elettivo o comunque rappresentativo).
L’estensione può ovviamente proseguire, fino a scolorare in un “diritto degli organi collegiali”, che ha
una certa fortuna, pur senza alcuna dignità accademica, nei paesi anglosassoni, ove esistono manualetti
(costantemente aggiornati) di regole ritenute utilizzabili per qualsiasi assemblea deliberativa (i più usati sono
il Mason’s Manual of Legislative procedure, edito dal 1935 e curato dalla conferenza nazionale dei
Parlamenti degli Stati; e il Robert’s rules of order, la cui prima edizione risale al 1876). Qui, però, al di là
dell’eccessiva vastità ed eterogeneità degli organi collegiali cui si fa riferimento, è la dimensione prescrittiva
a diventare davvero troppo labile, trattandosi, in sostanza, di forme di regolamentazione a carattere
generalissimo e residuale, alle quali i titolari di tali organi collegiali possono decidere di fare di volta in volta
ricorso, non essendovi però in alcun modo giuridicamente obbligati. Il diritto parlamentare, benché abbia alle
sue radici anche fenomeni di auto-regolamentazione di questo tipo (che talora si riaffacciano in alcuni
istituti), sembra però chiaramente differenziabile rispetto ad essi (anche nell’esperienza statunitense, come
mostra il Manual of Parliamentary Practice Composed for the Use of the Senate of the United States, redatto
da uno dei padri della Costituzione americana, Thomas Jefferson, nel 1801).
Nell’ordinamento italiano, la nozione di “diritto parlamentare” può perciò a buon titolo essere
utilizzata per riferirsi alle due Camere in cui si articola il Parlamento repubblicano. Tanto più alla luce della
giurisprudenza della Corte costituzionale che ha ritenuto la dizione di Parlamento non estensibile ai Consigli
regionali, dal momento che, per un verso, “il nomen Parlamento non ha un valore puramente lessicale, ma
possiede anche una valenza qualificativa, connotando, con l’organo, la posizione esclusiva che esso occupa
nell’organizzazione costituzionale”; e considerato che, per altro verso, “solo il Parlamento è sede della
rappresentanza politica nazionale (art. 67 Cost.), la quale imprime alle sue funzioni una caratterizzazione
tipica ed infungibile” (Corte cost. n. 106 del 2002).
FINESTRA
L’importanza di chiamarsi Parlamento
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Con la sentenza n. 106 del 2002, la Corte costituzionale, decidendo su un conflitto di attribuzioni sollevato dallo Stato, ha
annullato una delibera del Consiglio regionale della Liguria, la quale stabiliva che “in tutti gli atti dell’assemblea regionale,
alla dizione costituzionalmente prevista ‘Consiglio regionale della Liguria’” fosse “affiancata la dizione ‘Parlamento della
Liguria’”.
La pronuncia della Corte ha esplicitamente evitato di accogliere l’approccio suggerito nel ricorso dell’Avvocatura dello
Stato, secondo cui, in sostanza, potrebbe denominarsi “Parlamento” solo un organo partecipe della sovranità, mentre la
denominazione “Consiglio regionale” sarebbe quella corretta per organi rappresentativi di soggetti autonomi, ma non
sovrani.
In senso contrario, la Corte ha riconosciuto l’esistenza del “legame Parlamento-sovranità popolare”, ma ha negato che
esso possa descriversi come “una relazione di identità”; e ha osservato che, alla luce dell’art. 1 Cost., che “non è il
principio di sovranità popolare a poter fondare un’attribuzione costituzionale all’uso esclusivo della denominazione
‘Parlamento’”, a meno che non si voglia racchiudere lo stesso principio di sovranità “entro uno schema troppo angusto e
ormai storicamente inattendibile”. La motivazione della sentenza si è appoggiata invece essenzialmente sul dato
lessicale e sul “valore deontico degli articoli 55 e 121 della Costituzione, che si traduce in un vero e proprio divieto per i
Consigli regionali di appropriarsi del nome Parlamento”.
Proprio facendosi leva sulla denominazione ufficiale del Parlamento europeo – invalsa, come è noto,
prima per prassi, a partire dal 1962, ed adottata nei trattati comunitari solo con l’Atto unico europeo,
sottoscritto nel 1986, ossia ben sette anni dopo la prima elezione diretta di tale organo, avvenuta nel 1979 –
si può ormai a pieno titolo parlare anche di un “diritto parlamentare dell’Unione europea”: tanto più dopo che
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto il Parlamento europeo idoneo ad essere qualificato come
“corp legislatif” o “legislature” ai sensi dell’art. 3 del protocollo n. 1 alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo del 1950, in quanto tale organo, pur non essendo dotato di pieni poteri legislativi, costituisce, oggi,
il principale strumento di controllo democratico e di responsabilità politica nel sistema comunitario (Matthews
vs. United Kingdom del 18 febbraio 1999). Al diritto parlamentare dell’Unione europea non dedicheremo,
peraltro, specifica attenzione all’interno di questo Corso (cfr. comunque Lupo-Manzella, 2006), se non
laddove – come tende ad accadere sempre più spesso, in coerenza con la natura composita propria
dell’ordinamento costituzionale europeo – di tale diritto parlamentare diventano parte i Parlamenti nazionali
(cfr. infra, il cap. IX).
I.2. Il diritto parlamentare come avanguardia del diritto costituzionale?
Nella chiave che qui si è adottata, il diritto parlamentare deve considerarsi una branca del diritto
pubblico (Negri, 1968) e, più specificamente, del diritto costituzionale (Tosi, 1974).
Il legame tra diritto parlamentare e diritto costituzionale è evidente anzitutto se ci si pone in chiave
storica. Sin dalla fine del XVIII secolo la rivendicazione di organi denominati assemblee elettive o parlamenti
è andata di pari passo con la richiesta di carte costituzionali, la cui disciplina è perciò un loro contenuto
necessario. In assenza delle assemblee rappresentative, le costituzioni ottocentesche, infatti,
mancherebbero i principali obiettivi a cui esse sono ispirate: vale a dire, la limitazione del potere assoluto del
sovrano e la presenza decisiva della classe borghese nella decisione delle questioni ritenute di maggiore
importanza, e quindi anzitutto quelle che riguardano i diritti di libertà e il diritto di proprietà. Viene dunque
naturale che tutte le carte costituzionali del XIX secolo fissino, anche con un certo grado di dettaglio, i
caratteri strutturali delle assemblee rappresentative e ne definiscano i poteri fondamentali Non a caso, tutte
le Costituzioni del XIX secolo dedicano una specifica attenzione alla disciplina dei caratteri delle assemblee
elettive: è attraverso tali assemblee che si pongono concretamente in essere quei principi della democrazia
rappresentativa (o democrazia “dei moderni”) che le dottrine politiche avevano teorizzato come l’unica forma
di democrazia compatibile con la dimensione dello Stato moderno, facendo leva sulla cruciale ancorché
controversa nozione di rappresentanza politica (enunciata anch’essa nelle carte costituzionali, attraverso il
divieto di mandato imperativo).
Il legame del diritto parlamentare con il diritto costituzionale emerge con chiarezza anche se si guarda ai
caratteri contenutistici propri del costituzionalismo e dello Stato di diritto. Se si ritiene infatti, con l’art. 16
della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che per l’esistenza di una Costituzione
occorranno la garanzia dei diritti e la separazione dei poteri (per tutti, Onida, 2007), ecco allora che i
Parlamenti concorrono sia alla prima, mediante la disciplina legislativa, sia alla seconda, costituendo
evidentemente un limite all’azione del sovrano e del suo esecutivo. Nell’architettura dello Stato liberale di
diritto si ritiene inoltre necessario che all’elaborazione della legge, incaricata di disciplinare in concreto i diritti
dei cittadini, partecipi, in modo determinante, ancorché non esclusivo, un organo rappresentativo dei cittadini
medesimi.
Una volta inquadrato nel diritto costituzionale, si comprende a maggior ragione come mai debba
essere rigettata la lettura del diritto parlamentare volta a considerarlo come una mera forma di autoorganizzazione delle assemblee parlamentari.
Certo, la prescrittività del diritto parlamentare non può dirsi acquisita una volta per tutte: ma ciò
sembra discendere dal fatto che il diritto parlamentare va, per definizione, a pretendere di porre regole che
limitano il potere politico nelle sedi che esso è abituato a considerare come proprie. Si tratta perciò di un
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diritto che, come spesso si osserva, è assai vicino alla politica, la quale considera il Parlamento come la sua
“casa” (anche dal punto di vista simbolico, come mostrano le immagini di Palazzo Montecitorio che
accompagnano quasi sempre ogni discorso sulla politica).
In effetti, come si vedrà meglio nel corso del lavoro (Cap. III), quelle del diritto parlamentare sono
regole che raramente hanno un giudice esterno rispetto alle Camere (almeno nel nostro ordinamento) e che
comunque sono caratterizzate dall’esistenza di una clausola di flessibilità (consuetudine nemine
contradicente). Sussiste inoltre uno spazio notevole per le fonti non scritte, che sta a testimoniare l’esigenza,
da un lato, di flessibilità, dall’altro la necessità di un ancoraggio al passato e alla tradizione. Ma ciò non può
portare ad affermare che in Parlamento viga solo la legge del più forte, non mancando, nella maggior parte
dei casi, soggetti e meccanismi, sia interni all’ordinamento parlamentare, sia esterni ad esso, in grado di
rilevare le violazioni delle regole dettate dalla Costituzione, dalle leggi e dai regolamenti parlamentari.
Appunto in questa ottica, il diritto parlamentare può considerarsi, almeno in potenza, come una sorta
di “avanguardia” del diritto costituzionale: una disciplina della quale – come è a lungo accaduto per lo stesso
diritto costituzionale – è particolarmente arduo cogliere il carattere prescrittivo, ma proprio per questo di
grande interesse per misurare quanto tiene e fino a che punto si spinge il principio dello Stato di diritto. Il
dato, del resto, è stato da tempo ed efficacemente rilevato: quando si è parlato (Tosi, 1974) del diritto
parlamentare come di una “clinica costituzionale”, nel quale la statica costituzionale può essere confrontata
con la dinamica dei fatti politici, come “un campo di esperienze costituzionali continue e sempre
rinnovantesi”.
Proprio questi caratteri del diritto parlamentare fanno sì che per esso sia necesario utilizzare spesso
gli approcci della scienza politica (per esempio, quanto al funzionamento dei sistemi elettorali) e della storia
costituzionale (anzitutto, nel ripercorrere l’evoluzione degli equilibri della forma di governo).
Forse, in proposito, se si guarda al panorama fornito dal diritto comparato, può individuarsi una
tendenza di lungo periodo nel senso di una progressiva giuridicizzazione delle regole della vita
parlamentare, affidandone sempre più spesso la tutela al giudice costituzionale: e a spostare quindi più in
avanti la sfera di applicazione dello Stato (costituzionale) di diritto. Ciò non toglie, però, che si tratti di un
processo mai definitivamente acquisito e che non manchino momenti di arretramento: probabilmente, in
Italia, si sta assistendo ad uno di questi, a seguito delle leggi elettorali ad impostazione maggioritaria e per
effetto del mancato adeguamento ad esse dei regolamenti parlamentari. Arretramento che, invero, appare
particolarmente grave, dal momento che in un sistema ad impostazione maggioritaria e bipolare, le regole
del diritto costituzionale (e parlamentare) dovrebbero essere condivise da ambedue i poli e, soprattutto,
dovrebbero divenire più pervasive e più stringenti: la politica, infatti, diversamente da quel che accade nei
sistemi ad impostazione proporzionale e consociativa, non trova più al suo interno un limite efficace e rischia
perciò più facilmente di perdere l’equilibrio, degenerando nella tirannide della maggioranza o, al contrario,
finendo vittima dei veti incrociati. Invece, i dibattiti sullo statuto dell’opposizione e, ancor prima, sulla tenuta
delle garanzie in un sistema maggioritario, pur trascinandosi ormai da oltre un decennio, sembrano ben
lontani dall’essere pervenuti a risultati concreti anche parzialmente soddisfacenti.
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