Dispensa di diritto amministrativo

Dispensa di diritto amministrativo
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ENTI PUBBLICI, SOCIETÀ PUBBLICHE, AUTORITÀ INDIPENDENTI,
PUBBLICO IMPIEGO. BENI PUBBLICI ED ESPROPRIAZIONE ART. 42
BIS T.U.E.
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Indice
1) DALL'OCCUPAZIONE
APPROPRIATIVA
ALL'ESPROPRIAZIONE
INDEBITA:
Cass. S.U. n. 1464/1983;
Corte Cost. n. 71 del 30.04.2015;
Ad. Plen. Cds n. 2 del 2016
2) AUTORITÀ
INDIPENDENTI.
STRAORDINARIA
DELL'AUTORITÀ
LA
LEGITTIMAZIONE
ANTITRUST
AI
SENSI
DELL'ART. 21 BIS L. 287/90:
Tar Lazio Sez. III n. 2720/2013;
Cds Sez. V 30.04.2012 n. 2246;
Corte Cost. 14.02.2013 n. 20
3) LE FUNZIONI PRECONTENZIOSE DELL’ANAC: Regolamento del 5
ottobre 2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19 ottobre 2016
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Selezione giurisprudenziale
1) DALL'OCCUPAZIONE
APPROPRIATIVA
ALL'ESPROPRIAZIONE
INDEBITA:
Cass. S.U. n. 1464/1983;
Le Sezioni Unite, muovendo dall'inammissibilità della coesistenza di due distinti diritti di proprietà, uno del
privato sul suolo e l'altro della P.A. sull'opera, a fronte di un bene nuovo ed unitario, hanno attribuito la
titolarità di questo nuovo bene (e pertanto sia del suolo, che dell'opera realizzatavi) alla P.A., quale soggetto
portatore dell'interesse prevalente, alla stregua di una valutazione di ordine economico-sociale correlata al
grado di sviluppo della società civile.
L'illecito della P.A. si consuma al momento dell'irreversibile trasformazione del fondo, che diventa parte
integrante dell'opera pubblica realizzata e partecipe della natura di questa. È da questo momento quindi che
decorre il diritto al risarcimento del danno del proprietario spogliato dei suoi poteri di godimento, diritto che è
assoggettato
alla
prescrizione
quinquennale
ai
sensi
dell'art.
2947
c.c.
La pretesa del proprietario alla restituzione dell'area viene ad essere cosí impedita dalla intervenuta
trasformazione irreversibile dell'area stessa per il completamento dell'opera pubblica o comunque da una
modifica delle sue caratteristiche cosí incisiva da rendere impossibile un ritorno allo status quo ante.
L'acquisto della proprietà in capo alla P.A. si giustifica sulla base della prevalenza dell’'interesse pubblico al
mantenimento dell'opera su quello del privato alla restituzione del bene.
Con
tale
pronuncia
le
Sezioni
Unite
hanno
dunque
creato
un
nuovo
modo di acquisto a titolo originario della proprietà da parte della P.A., denominato occupazione
appropriativa od acquisitiva.
Corte Cost. n. 71 del 30.04.2015;
Con sentenza n. 71 del 2015 la Corte Costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 42 bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), sollevate in riferimento agli artt.
42, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni
unite civili; in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost., dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili; in
riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, Cost., dal
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda.
(omissis)
6.4.– È dunque opportuno che lo scrutinio della norma censurata nel presente giudizio di legittimità
costituzionale sia preceduto da un suo raffronto con l’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, dovendosi,
dapprima, stabilire se il nuovo meccanismo acquisitivo risulti disciplinato in modo difforme rispetto a
quello previsto dal precedente art. 43, e successivamente valutare la consistenza delle censure mosse
dalle ordinanze di rimessione.
6.5.– L’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni ha certamente reintrodotto la possibilità, per l’amministrazione
che utilizza senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario
(e/o la riduzione in pristino stato), attraverso un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile.
Tale atto sostituisce il regolare procedimento ablativo prefigurato dal T.U. sulle espropriazioni, e si pone, a sua
volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di
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pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento,
in presenza dei presupposti indicati dalla norma.
Come evidenziato dalla difesa erariale, tuttavia, il nuovo meccanismo acquisitivo presenta significative
differenze rispetto all’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni.
La nuova disposizione, risolvendo un contrasto interpretativo insorto in giurisprudenza sull’art. 43
appena citato, dispone espressamente che l’acquisto della proprietà del bene da parte della pubblica
amministrazione avvenga ex nunc, solo al momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione (ciò che
impedisce l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al
privato).
Inoltre, la norma censurata impone uno specifico obbligo motivazionale “rafforzato” in capo alla pubblica
amministrazione procedente, che deve indicare le circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione
dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio.
La motivazione, in particolare, deve esibire le «attuali ed eccezionali» ragioni di interesse pubblico che
giustificano l’emanazione dell’atto, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, e deve, altresì,
evidenziare l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione.
Ancora, nel computo dell’indennizzo viene fatto rientrare non solo il danno patrimoniale, ma anche
quello non patrimoniale, forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene. Ciò
costituisce sicuramente un ristoro supplementare rispetto alla somma che sarebbe spettata nella vigenza della
precedente disciplina.
Il passaggio del diritto di proprietà, inoltre, è sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento delle somme
dovute, da effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione.
La nuova disciplina si applica non solo quando manchi del tutto l’atto espropriativo, ma anche laddove
sia stato annullato – o impugnato a tal fine, nel qual caso occorre il previo ritiro in autotutela da parte
della medesima pubblica amministrazione – l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio,
oppure la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera oppure, ancora, il decreto di esproprio.
Non è stata più riproposta la cosiddetta acquisizione in via giudiziaria, precedentemente prevista dal
comma 3 dell’art. 43, ed in virtù della quale l’acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione
poteva realizzarsi anche per effetto dell’intervento di una pronuncia del giudice amministrativo, volta a
paralizzare l’azione restitutoria proposta dal privato.
Non secondaria, nell’economia complessiva del nuovo istituto, è infine la previsione (non presente nel
precedente art. 43) in base alla quale l’autorità che emana il provvedimento di acquisizione ne dà
comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.
Si è, dunque, in presenza di un istituto diverso da quello disciplinato dall’art. 43 del T.U. sulle
espropriazioni.
Occorre ora esaminare partitamente le censure mosse dalle ordinanze di rimessione, con riferimento ai singoli
parametri evocati.
6.6.– La prima censura attiene al supposto contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.
Il parametro di cui all’art. 3 Cost. viene invocato dai giudici rimettenti sotto il duplice versante della violazione
del principio di eguaglianza – con profili involgenti anche la violazione dell’art. 24 Cost., sub specie di
compressione del diritto di difesa – e dell’intrinseca irragionevolezza della norma impugnata.
La questione non è fondata.
6.6.1.– Quanto al primo versante della questione così posta, i giudici rimettenti rilevano che la norma
riserverebbe un trattamento privilegiato alla pubblica amministrazione rispetto a qualsiasi altro soggetto
dell’ordinamento che abbia commesso un fatto illecito, pur in mancanza di un pregresso effettivo esercizio di
funzione amministrativa e, dunque, sulla base della sola qualifica soggettiva dell’autore della condotta.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, la violazione del principio di
eguaglianza sussiste solo qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo
ingiustificatamente diverso, ma non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non
assimilabili (ex plurimis, sentenza n. 155 del 2014; ordinanze n. 41 del 2009 e n. 109 del 2004), sempre con il
limite generale dei principî di proporzionalità e ragionevolezza (sentenza n. 85 del 2013).
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Nel caso di specie, i giudici rimettenti omettono di considerare che, se pure il presupposto di applicazione della
norma sia «l’indebita utilizzazione dell’area» – ossia una situazione creata dalla pubblica amministrazione in
carenza di potere (per la mancanza di una preventiva dichiarazione di pubblica utilità dell’opera o per
l’annullamento o la perdita di efficacia di essa) – tuttavia l’adozione dell’atto acquisitivo, con effetti non
retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla stessa
pubblica amministrazione. Con l’adozione di tale atto, quest’ultima riprende a muoversi nell’alveo della legalità
amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione
degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni
del privato cittadino.
Sotto questo punto di vista, trascurato dai rimettenti, la situazione appare conforme alla giurisprudenza di questa
Corte, secondo cui «[…] la P.A. ha una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto
soggetto, ma in quanto esercita potestà specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro
proprie. In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la funzione, ed è alle singole manifestazioni della P.A. che
è assicurata efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati» (così la sentenza n. 138 del
1981).
Di conseguenza, neppure potrebbe dirsi violato l’art. 24 Cost., come sostengono i rimettenti. Tale norma
costituzionale è infatti posta a presidio del diritto alla tutela giurisdizionale (ordinanza n. 32 del 2013), assumendo
così una valenza processuale (ordinanze n. 244 del 2009 e n. 180 del 2007).
In particolare, l’art. 24, come pure il successivo art. 113 Cost., enunciano il principio dell’effettività del diritto di
difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica
amministrazione, ed entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti
a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti, operando esclusivamente sul piano processuale
(in tal senso, ex plurimis, sentenza n. 20 del 2009).
Ne deriva che la violazione di tale parametro costituzionale può considerarsi sussistente solo nei casi di
«sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione» (sentenza n.
237 del 2007) o di imposizione di oneri tali da compromettere irreparabilmente la tutela stessa (ordinanza n. 213
del 2005) e non anche nel caso in cui, come nella specie, la norma censurata non elimini affatto la possibilità di
usufruire della tutela giurisdizionale (sentenza n. 85 del 2013). Tale tutela viene bensì parzialmente “conformata”,
in modo da garantire comunque un serio ristoro economico, prevedendosi l’esclusione delle sole azioni
restitutorie; ma queste ultime non sarebbero congruamente esperibili rispetto ad un comportamento non più
qualificato in termini di illecito.
In definitiva, il diritto alla tutela giurisdizionale, a presidio del quale la norma costituzionale invocata è
posta (sentenza n. 15 del 2012), non risulta violato dalla disposizione censurata.
6.6.2.– Sotto altro aspetto, sempre secondo i giudici rimettenti, la violazione del principio di eguaglianza
risulterebbe dal fatto che l’indennizzo previsto dalla norma censurata sarebbe ingiustificatamente inferiore nel
confronto con l’espropriazione in via ordinaria dello stesso immobile.
In realtà, la norma attribuisce al privato proprietario il diritto ad ottenere il ristoro del danno patrimoniale nella
misura pari al valore venale del bene (così come accade per l’espropriazione condotta nelle forme ordinarie), oltre
ad una somma a titolo di danno non patrimoniale, quantificata in misura pari al 10 per cento del valore venale del
bene. Si è perciò in presenza di un importo ulteriore, non previsto per l’espropriazione condotta nelle forme
ordinarie, determinato direttamente dalla legge, in misura certa e prevedibile. E deve sottolinearsi che il privato,
in deroga alle regole ordinarie, è in tal caso sollevato dall’onere della relativa prova.
Quanto all’indennità dovuta per il periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di
acquisizione, è vero che essa viene determinata in base ad un parametro riduttivo rispetto a quello cui è
commisurato l’analogo indennizzo per la (legittima) occupazione temporanea dell’immobile, ma il terzo comma
della norma impugnata contiene una clausola di salvaguardia, in base alla quale viene fatta salva la prova di una
diversa entità del danno.
6.6.3.– Sollecitano i giudici rimettenti un ulteriore vaglio di conformità al principio di eguaglianza, in quanto nel
sistema delineato dalla norma censurata il bene privato detenuto sine titulo sarebbe sottoposto in perpetuo al
sacrificio dell’espropriazione, mentre nel procedimento ordinario di espropriazione l’esposizione al pericolo
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dell’emanazione del provvedimento acquisitivo è temporalmente limitata all’efficacia della dichiarazione di
pubblica utilità.
La norma impugnata, in effetti, non prevede alcun termine per l’esercizio del potere riconosciuto alla pubblica
amministrazione. Ma i rimettenti non hanno preso in considerazione le molteplici soluzioni, elaborate dalla
giurisprudenza amministrativa, per reagire all’inerzia della pubblica amministrazione autrice dell’illecito: a seconda
degli orientamenti, infatti, talvolta è stato posto a carico del proprietario l’onere di esperire il procedimento di
messa in mora, per poi impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto dell’amministrazione; in altri casi, è stato
riconosciuto al giudice amministrativo anche il potere di assegnare all’amministrazione un termine per scegliere
tra l’adozione del provvedimento di cui all’art. 42-bis e la restituzione dell’immobile.
È dunque possibile scegliere – tra le molteplici elaborate – un’interpretazione idonea ad evitare il
pregiudizio consistente nell’asserita esposizione in perpetuo al potere di acquisizione, senza in alcun
modo forzare la lettera della disposizione (per tutte, tra le più recenti, sentenza n. 235 del 2014).
6.6.4.– I rimettenti lamentano, infine, l’intrinseca irragionevolezza dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni,
con presunta violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto questo profilo.
Secondo i giudici rimettenti, in primo luogo, la norma avrebbe trasformato il precedente regime risarcitorio in un
indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assumerebbe natura di debito di valuta, non
automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria.
Lamentano, inoltre, i rimettenti che il ristoro economico assicurato resterebbe pur sempre inferiore nel
confronto con l’espropriazione per le vie ordinarie dello stesso immobile, in quanto: a) ove il fondo abbia
destinazione edificatoria, non è riconosciuto l’aumento del 10 per cento di cui all’art. 37, comma 2, del T.U. sulle
espropriazioni, non richiamato dalla norma impugnata; b) se il terreno è agricolo, non è applicabile il precedente
art. 40, comma 1, che impone di tener conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e «del valore dei
manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola».
È noto che lo scrutinio di ragionevolezza, in ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, impone alla
Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con
modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto
incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla
proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze
obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni
concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988).
Orbene, alla luce di tali premesse, anche queste censure non sono fondate.
Quanto a quella relativa alla mutata natura del ristoro, la norma prevede bensì la corresponsione di un
indennizzo, ma determinato in misura corrispondente al valore venale del bene e con riferimento al
momento del trasferimento della proprietà di esso, sicché non vengono in considerazione somme che
necessitano di una rivalutazione.
Quanto alle restanti censure, è appena il caso di sottolineare che l’aumento del 10 per cento previsto dal comma
2 dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni non si applica a tutte le procedure, ma solo nei casi in cui sia stato
concluso l’accordo di cessione (o quando esso non sia stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato,
ovvero perché a questi è stata offerta un’indennità provvisoria che, attualizzata, risulta inferiore agli otto decimi
di quella determinata in via definitiva), senza contare che ai destinatari del provvedimento di acquisizione spetta
sempre un surplus pari proprio al 10 per cento del valore venale del bene, a titolo di ristoro del danno non
patrimoniale.
Va, ancora, considerato che l’inapplicabilità del comma 1 dell’art. 37 del T.U. sulle espropriazioni (pure non
richiamato dalla norma censurata per i terreni a vocazione edilizia) esclude anche la riduzione del 25 per cento
dell’indennizzo – prevista invece per le espropriazioni legittime – imposta quando la vicenda è finalizzata ad
attuare interventi di riforma economico-sociale.
Infine, i giudici rimettenti – basandosi sul solo dato letterale e trascurando una visione di sistema − non hanno
sperimentato la praticabilità di un’interpretazione che, facendo riferimento genericamente al «valore venale del
bene», consenta di ritenere riconducibili ad esso anche le somme corrispondenti al valore delle colture
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effettivamente praticate sul fondo e al valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione
all’esercizio dell’azienda agricola, previsti dall’art. 40 del T.U. sulle espropriazioni.
La stessa obiezione può essere mossa alla censura secondo cui la norma impugnata non contemplerebbe l’ipotesi
di espropriazione parziale e non consentirebbe, per questo motivo, di tener conto della diminuzione di valore del
fondo residuo, invece indennizzata fin dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di
utilità pubblica» (art. 40, ora trasfuso nell’art. 33 del T.U. sulle espropriazioni).
6.7.– I giudici rimettenti dubitano della compatibilità della norma censurata con l’art. 42 Cost.
In particolare, ritengono che l’art. 42 Cost. – disciplinando la potestà espropriativa come avente carattere
eccezionale, esercitabile solo nei casi in cui sia la legge a prevederla e nella necessaria ricorrenza di «motivi di
interesse generale» – imponga che questi ultimi siano predeterminati dall’amministrazione ed emergano da un
apposito procedimento, anteriormente al sacrificio del diritto di proprietà. L’emersione del pubblico interesse,
culminante nell’adozione della dichiarazione di pubblica utilità, dovrebbe perciò risultare da una fase preliminare,
autonoma e strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso stretto, cioè in un momento
in cui sia possibile un’effettiva comparazione tra l’interesse pubblico e l’interesse privato, al fine di evidenziare la
scelta migliore, quando eventuali ipotesi alternative all’espropriazione non siano ostacolate da una situazione
fattuale ormai irreversibilmente compromessa.
La questione, così posta, non è fondata, nei sensi qui di seguito indicati.
Da una parte, la norma censurata delinea pur sempre una procedura espropriativa, che in quanto tale non può
non presentare alcune caratteristiche essenziali. Ma non si deve trascurare, dall’altra parte, che si tratta di una
procedura “eccezionale”, che ha necessariamente da confrontarsi con la situazione fattuale chiamata a
risolvere, in cui la previa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera sarebbe distonica rispetto ad
un’opera pubblica già realizzata. La norma censurata presuppone evidentemente una già avvenuta
modifica dell’immobile, utilizzato per scopi di pubblica utilità: da questo punto di vista, non è congrua
la pretesa che l’adozione del provvedimento di acquisizione consegua all’esito di un procedimento
scandito in fasi logicamente e temporalmente distinte, esattamente come nella procedura espropriativa
condotta nelle forme ordinarie.
Si è, invece, in presenza di una procedura espropriativa che, sebbene necessariamente “semplificata” nelle forme,
si presenta “complessa” negli esiti, prevedendosi l’adozione di un provvedimento «specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione».
L’adozione del provvedimento acquisitivo presuppone, appunto, una valutazione comparata degli
interessi in conflitto, qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale
procedimento espropriativo. E l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione del provvedimento
acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse
pubblico richiamate dalla disposizione in esame, da considerare in comparazione con gli interessi del
privato proprietario. Non si tratta, soltanto, di valutare genericamente una eccessiva difficoltà od onerosità delle
alternative a disposizione dell’amministrazione, secondo un principio già previsto in generale dall’art. 2058 cod.
civ. Per risultare conforme a Costituzione, l’ampiezza della discrezionalità amministrativa va delimitata alla luce
dell’obbligo giuridico di far venir meno l’occupazione sine titulo e di adeguare la situazione di fatto a quella di
diritto, la quale ultima non risulta mutata neppure a seguito di trasformazione irreversibile del fondo. Ne deriva
che l’adozione dell’atto acquisitivo è consentita esclusivamente allorché costituisca l’extrema ratio per la
soddisfazione di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico”, come recita lo stesso art. 42-bis del T.U.
delle espropriazioni. Dunque, solo quando siano stati escluse, all’esito di una effettiva comparazione con i
contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita, e
non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al
privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà.
Soltanto sotto questa luce tornano ad essere valorizzati – pur in assenza di una preventiva dichiarazione di
pubblica utilità o in caso di suo annullamento o perdita di efficacia – i «motivi di interesse generale» presupposti
dall’art. 42 Cost., secondo il quale il diritto di proprietà può essere compresso «sol quando lo esiga il limite della
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“funzione sociale” […]: funzione sociale, la quale esprime, accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario
nel suo interesse, il dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, nel che si sostanzia la nozione
stessa del diritto di proprietà come viene modernamente intesa e come è stata recepita dalla nostra Costituzione»
(sentenza n. 108 del 1986).
Soltanto adottando questa prospettiva ermeneutica, l’attribuzione del potere ablatorio (in questa forma
eccezionale) può essere ritenuta legittima, sulla scia della giurisprudenza costituzionale che impone alla legge
ordinaria di indicare «elementi e criteri idonei a delimitare chiaramente la discrezionalità dell’Amministrazione»
(sentenza n. 38 del 1966).
6.8.− Si lamenta, inoltre, dai giudici rimettenti che l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni violerebbe il principio
del giusto procedimento, desumibile dall’art. 97 Cost. Ciò perché il provvedimento acquisitivo consentirebbe il
trasferimento della proprietà in assenza di una sequenza procedimentale partecipata dal privato. Il principio di
legalità dell’azione amministrativa sarebbe leso anche sotto il profilo della tutela giurisdizionale effettiva di cui
all’art. 113 Cost.
Anche tale questione non è fondata.
Bisogna, innanzitutto, ricordare che il principio del “giusto procedimento” (in virtù del quale i soggetti privati
dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che vengano adottati provvedimenti limitativi
dei loro diritti), non può dirsi assistito in assoluto da garanzia costituzionale (sentenze n. 312, n. 210 e n. 57
del 1995, n. 103 del 1993 e n. 23 del 1978; ordinanza n. 503 del 1987).
Questa constatazione non sminuisce certo la portata che tale principio ha assunto nel nostro ordinamento, specie
dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), e successive modifiche, in base alla quale «il
destinatario dell’atto deve essere informato dell’avvio del procedimento, avere la possibilità di intervenire a
propria difesa, ottenere un provvedimento motivato, adire un giudice» (sentenza n. 104 del 2007).
Del resto, proprio in materia espropriativa, questa Corte ha da tempo affermato che i privati interessati devono
essere messi «in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela del proprio interesse, sia a titolo di
collaborazione nell’interesse pubblico» (sentenza n. 13 del 1962; sentenze n. 344 del 1990, n. 143 del 1989 e n.
151 del 1986).
Per parte sua, il provvedimento disciplinato dalla norma in esame non potrebbe, innanzitutto, sottrarsi
all’applicazione delle ricordate, generali, regole di partecipazione del privato al procedimento amministrativo,
come, infatti, è riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, che impone la previa comunicazione di avvio
del procedimento.
Ma, soprattutto, in virtù della effettiva comparazione degli interessi contrapposti richiesta dalla norma in
questione, il privato sarà ulteriormente sempre posto in grado di accentuare il proprio ruolo partecipativo,
eventualmente facendo valere l’esistenza delle «ragionevoli alternative» all’adozione dell’annunciato
provvedimento acquisitivo, prima fra tutte la restituzione del bene.
6.9.– I giudici rimettenti dubitano, ancora, della conformità della norma impugnata all’art. 117, primo comma,
Cost., in quanto la norma sarebbe in contrasto con i principi della CEDU, secondo l’interpretazione fornitane
dalla Corte di Strasburgo, sotto due distinti profili.
In primo luogo, l’art. 42-bis violerebbe la norma interposta di cui all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla
CEDU, rispetto al quale il fenomeno delle cosiddette “espropriazioni indirette” si porrebbe «in radicale
contrasto».
In secondo luogo, l’art. 42-bis violerebbe la norma interposta di cui all’art. 6 CEDU, avendo la Corte EDU
ripetutamente considerato lecita l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti soltanto in presenza
di «ragioni imperative di interesse generale».
La norma risulterebbe anche in contrasto con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui,
disponendo la propria applicabilità ai giudizi in corso, violerebbe i principi del giusto processo, con particolare
riferimento alla condizione di parità delle parti davanti al giudice.
6.9.1.– Le doglianze possono essere esaminate congiuntamente, per concludere nel senso della loro
infondatezza, nei sensi della motivazione che segue, per le ragioni già esposte, sia pur in relazione al diverso
parametro di cui all’art. 42 Cost., al precedente punto 6.7.
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È vero, infatti, che la norma trova applicazione anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, per i quali siano
pendenti processi, ed anche se vi sia già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o
annullato. Ma è anche vero che questa previsione risponde alla stessa esigenza primaria sottesa all’introduzione
del nuovo istituto (così come del precedente art. 43): quella di eliminare definitivamente il fenomeno delle
“espropriazioni indirette”, che aveva fatto emergere quella che la Corte EDU (nella sentenza 6 marzo 2007,
Scordino contro Italia) aveva definito una “défaillance structurelle”, in contrasto con l’art. 1 del Primo Protocollo
allegato alla CEDU.
Né si deve trascurare che con l’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni − come peraltro già accadeva con il
precedente art. 43 − l’acquisto della proprietà da parte della pubblica amministrazione non è più legato ad un
accertamento in sede giudiziale, connotato, come tale, da margini di imprevedibilità criticamente evidenziati dalla
Corte EDU. Soprattutto, come già rilevato (supra punto 6.5), rispetto al precedente art. 43, l’art. 42-bis contiene
significative innovazioni, che rendono il meccanismo compatibile con la giurisprudenza della Corte EDU in
materia di espropriazioni cosiddette indirette, ed anzi rispondente all’esigenza di trovare una soluzione definitiva
ed equilibrata al fenomeno, attraverso l’adozione di un provvedimento formale della pubblica amministrazione.
Le differenze rispetto al precedente meccanismo acquisitivo consistono nel carattere non retroattivo dell’acquisto
(ciò che impedisce l’utilizzo dell’istituto in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene
al privato), nella necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a
disporre l’acquisizione e, infine, nello stringente obbligo motivazionale che circonda l’adozione del
provvedimento.
Anche alla luce dell’asserita violazione degli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost.,
questo obbligo motivazionale, in base alla significativa previsione normativa, che richiede «l’assenza di
ragionevoli alternative alla sua adozione», deve essere interpretato, come già chiarito al punto 6.7., nel senso che
l’adozione dell’atto è consentita – una volta escluse, all’esito di una effettiva comparazione con i contrapposti
interessi privati, altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita – solo quando
non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al
privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà.
Solo se così interpretata la norma consente infatti:
− di riconoscere, per le situazioni prodottesi prima della sua entrata in vigore, l’esistenza di «imperativi motivi di
interesse generale» legittimanti l’applicazione dello ius superveniens in cause già pendenti. Tali motivi consistono
nell’ineludibile esigenza di eliminare una situazione di deficit strutturale, stigmatizzata dalla Corte EDU;
− di prefigurare, per le situazioni successive alla sua entrata in vigore, l’applicazione della norma come extrema
ratio, escludendo che essa possa costituire una semplice alternativa ad una procedura espropriativa condotta «in
buona e debita forma», come imposto, ancora una volta, dalla giurisprudenza della Corte EDU;
− di considerare rispettata la condizione, posta dalla stessa Corte EDU nella citata sentenza Scordino del 6
marzo 2007, secondo cui lo Stato italiano avrebbe dovuto «sopprimere gli ostacoli giuridici che impediscono la
restituzione del terreno sistematicamente e per principio»;
− di impedire alla pubblica amministrazione – ancora una volta in coerenza con le raccomandazioni della Corte
EDU − di trarre vantaggio dalla situazione di fatto da essa stessa determinata;
− di escludere il rischio di arbitrarietà o imprevedibilità delle decisioni amministrative in danno degli interessati.
Va, infine, valorizzata nella giusta misura la previsione del comma 7 dell’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni,
in base alla quale «[l]’autorità che emana il provvedimento di acquisizione […] ne dà comunicazione, entro trenta
giorni, alla Corte dei conti». Questo richiamo alle possibili conseguenze per i funzionari che, nel corso della
vicenda espropriativa, si siano discostati dalle regole di diligenza previste dall’ordinamento risponde, infatti, ad un
invito della stessa Corte EDU (sempre sentenza 6 marzo 2007, Scordino contro Italia), secondo cui «lo Stato
convenuto dovrebbe scoraggiare le pratiche non conformi alle norme degli espropri in buona e dovuta forma,
adottando misure dissuasive e cercando di individuare le responsabilità degli autori di tali pratiche».
10
Ad. Plen. Cds n. 2 del 2016
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è di recente intervenuta sul controverso istituto di cui all’art. 42bis T.U.Espr., soffermando la propria attenzione sul ruolo che nella dinamica esecutiva del provvedimento, in
sede di ottemperanza, riveste la figura del commissario ad acta. Nella decisione n. 2 del 2016 il massimo
organo di giustizia amministrativa precisa che l'art. 42 bis, D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 configura un
procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura ( uno
actu perficitur ), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e
non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall'Amministrazione (perché
altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle
ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose
esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera
dell'infrastruttura realizzata sine titulo; operata tale premessa, l’Adunanza Plenaria afferma che il
commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva previsto dall’art. 42 bis : a) se
nominato dal g.a. a mente degli art. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma, 4, lett. d), c. proc. amm., qualora
tale adempimento sia stato previsto dal giudicato “de quo agitur”; b) se nominato dal g.a. a mente dell’art.
117, comma 3, c. proc. amm., qualora l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che
abbia sollecitato l’esercizio del potere di cui al menzionato art. 42-bis.
1. L’ OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO.
1.1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dal provvedimento reso dal commissario ad acta - nominato in
sede di esecuzione di un giudicato - recante, nella sostanza, l’emanazione di un decreto di acquisizione ex art. 42bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità – (in prosieguo t.u. espr.), in danno della odierna ricorrente.
(omissis)
2. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO.
(omissis)
3. IL GIUDIZIO DI APPELLO DAVANTI ALLA IV SEZIONE DEL CONSIGLIO DI STATO.
(omissis)
4. L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CAUSA ALL’ADUNANZA PLENARIA ED I SUCCESSIVI
SVILUPPI PROCESSUALI.
(omissis)
5. LA NATURA GIURIDICA, I PRESUPPOSTI APPLICATIVI E GLI EFFETTI DELLA
ACQUISIZIONE EX ART. 42-BIS T.U. ESPR.
5.1. Si riporta per comodità di lettura il più volte menzionato art. 42 - bis, t.u. espr. - Utilizzazione senza titolo di
un bene per scopi di interesse pubblico – come introdotto dall’art. 34, comma 1, d.l. n. 98 del 2011 convertito
con modificazioni nella l. n. 111 del 2011: (omissis)
5.2. Prima di procedere alla risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria, è indispensabile ricostruire
(limitandosi a quanto di interesse) il quadro dei condivisibili principi che, successivamente all’ordinanza di
rimessione della IV Sezione, sono stati elaborati dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 71 del 2015 cit.), dalle
Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. decisioni n. 735 del 19 gennaio 2015 e n. 22096 del 29 ottobre 2015)
e dal Consiglio di Stato (cfr. sentenze Sez. IV, n. 4777 del 19 ottobre 2015; n. 4403 del 21 settembre 2015; n.
3988 del 26 agosto 2015; n. 2126 del 27 aprile 2015; n. 3346 del 3 luglio 2014), all’interno della consolidata
cornice di tutele delineata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per contrastare il deprecato fenomeno delle
<<espropriazioni indirette>> del diritto di proprietà o di altri diritti reali (…).
5.3. In linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa,
occupazione acquisitiva), la condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà non può
11
comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. – con la conseguente
decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione
contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene - che viene a cessare
solo in conseguenza:
a) della restituzione del fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del
proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della
irreversibile trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo
scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti
sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione
dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu (Sez. IV, n. 3988 del 2015 e n. 3346 del 2014); dunque a
condizione che:
I) sia effettivamente configurabile il carattere non violento della condotta;
II) si possa individuare il momento esatto della interversio possesionis;
III) si faccia decorrere la prescrizione acquisitiva dalla data di entrata in vigore del t.u. espr. (30 giugno 2003)
perché solo l’art. 43 del medesimo t.u. aveva sancito il superamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e
dunque solo da questo momento potrebbe ritenersi individuato, ex art. 2935 c.c., il <<….giorno in cui il diritto
può essere fatto valere>>;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis t.u. espr.
5.4. Chiarito che l’acquisizione ex art. 42-bis cit. costituisce una delle possibili cause legali di estinzione
di un fatto illecito e che essa trova legittima applicazione anche alle situazioni prodottesi prima della
sua entrata in vigore (§ 6.9.1. della sentenza della Corte cost. n. 71 del 2015 cit., che ha così definitivamente
fugato i dubbi adombrati dalle Sezioni unite al § 4 della sentenza n. 735 del 2015 cit.), giova evidenziare che:
a) la disposizione introduce una norma di natura eccezionale; tale conclusione è coerente con l’impostazione
tradizionale che considera a tale stregua le norme limitatrici della sfera giuridica dei destinatari, con particolare
riguardo a quelle che attribuiscono alla P.A. un potere ablatorio.
Un atto definibile come espropriazione in sanatoria stricto sensu, e basato sulla illiceità dell’occupazione di un
bene altrui, infatti, segnerebbe una interruzione della consequenzialità logica della disciplina generale (europea e
nazionale) di riferimento in materia di acquisizione coattiva della proprietà privata, ponendosi in contrasto con
essa attraverso una discriminazione – pure sancita dalla legge - del trattamento giuridico di situazioni soggettive
che altrimenti sarebbero destinatarie della disciplina generale; da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel.
c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme al sistema di tutela della
proprietà privata disegnato dalla CEDU ma rispettosa del valore costituzionale della funzione sociale della
proprietà privata sancito dall’art. 42, co. 2, Cost. (che costituisce il fondamento del potere attribuito alla P.A.),
secondo un approccio metodologico basato su una visione sistemica, multilivello e comparata della tutela dei
diritti, a sua volta incentrata sulla considerazione dell’ordinamento nel suo complesso, quale risultante dalla
interazione fra norme (interne e internazionali) e principi delle Corti (interne e sovranazionali);
b) l’art. 42-bis, invece, configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base
legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e
comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato
dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì
quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella
soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione
di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo;
c) un tale obbiettivo istituzionale, inoltre, deve emergere necessariamente da un percorso motivazionale rafforzato, stringente e assistito da garanzie partecipativo rigorose – basato sull’emersione di ragioni attuali ed
eccezionali che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come extrema ratio (perché non
sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative e che tale assenza di alternative non può mai consistere
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nella generica <<…eccessiva difficoltà ed onerosità dell’alternativa a disposizione dell’amministrazione..>>), per
la tutela di siffatte imperiose esigenze pubbliche;
d) sono coerenti con questa impostazione:
I) le importanti guarentigie previste per il destinatario dell’atto di acquisizione sotto il profilo della misura
dell’indennizzo (avente natura indennitaria secondo Cass. civ., Sez. un., n. 2209 del 2015 cit.), valutato a valore
venale (al momento del trasferimento, alla stregua del criterio della taxatio rei, senza che, dunque, ci siano somme
da rivalutare ma, in ogni caso, tenuto conto degli ulteriori parametri individuati dagli artt. 33 e 40 t.u.espr.),
maggiorato della componente non patrimoniale (dieci per cento senza onere probatorio per l’espropriato), e con
salvezza della possibilità, per il proprietario, di provare autonome poste di danno;
II) la previsione del coinvolgimento obbligatorio della Corte dei conti in una vicenda che produce
oggettivamente (e indipendentemente dagli eventuali profili soggettivi di responsabilità da accertarsi nelle
competenti sedi) un aggravio sensibile degli esborsi a carico della finanza pubblica;
e) per evitare che l’eccezionale potere ablatorio previsto dall’art. 42-bis possa essere esercitato sine die in
violazione dei valori costituzionali ed europei di certezza e stabilità del quadro regolatorio dell’assetto dei
contrapposti interessi in gioco, la disciplina ivi dettata è inserita in (ed arricchita da) un più ampio contesto
ordinamentale che - in ragione della sussistenza dell’obbligo della P.A. di valutare se emanare un atto tipico
sull’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto - prevede per il proprietario strumenti adeguati di
reazione all’inerzia della P.A., esercitabili davanti al giudice amministrativo, sia attraverso il c.d. “rito silenzio”
(artt. 34 e 117 c.p.a.), sia in sede di ordinario giudizio di legittimità avente ad oggetto il procedimento ablatorio
sospettato di illegittimità (o altro giudizio avente ad oggetto la tutela reipersecutoria, come verificatosi nel caso di
specie), secondo le coordinate esegetiche esplicitamente stabilite dalla sentenza n. 71 del 2015 (in particolare §
6.6.3.);
f) assume un rilievo centrale (in particolare ai fini della risoluzione del quesito sottoposto all’Adunanza plenaria,
come si vedrà meglio in prosieguo) un ulteriore elemento caratterizzante l’istituto in esame, ovvero l’impossibilità
che l’Amministrazione emani il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la
restituzione del bene al proprietario; tale elemento – valorizzato dalla sentenza n. 71 del 2015 in coerenza coi
principi elaborati dalla Corte di Strasburgo - si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42bis nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad
oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di
ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma
anche esplicitamente restitutorio (come meglio si dirà in prosieguo);
g) ne consegue che la scelta che l’amministrazione è tenuta ad esprimere nell’ipotesi in cui si verifichi una delle
situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42-bis, non concerne l’alternativa fra l’acquisizione
autoritativa e la concreta restituzione del bene, ma quella fra la sua acquisizione e la non acquisizione, in quanto
la concreta restituzione rappresenta un semplice obbligo civilistico — cioè una mera conseguenza legale della
decisione di non acquisire l’immobile assunta dall’amministrazione in sede procedimentale — ed essa non
costituisce, né può costituire, espressione di una specifica volontà provvedimentale dell’autorità, atteso che,
nell’adempiere gli obblighi di diritto comune, l’amministrazione opera alla stregua di qualsiasi altro soggetto
dell’ordinamento e non agisce iure auctoritatis;
h) per concludere sul punto utilizzando un argomento esegetico caro all’analisi economica del diritto, può dirsi
che la nuova disposizione, in buona sostanza, ha evitato che si riproducesse il vulnus arrecato dal superato art. 43
t.u. espr., ovvero la possibilità, accordata dalla norma all’epoca vigente, di far regredire la property rule (che
dovrebbe assistere il privato titolare della risorsa), a liability rule (con facoltà della pubblica amministrazione di
acquisire a propria discrezione l’altrui bene con il solo pagamento di una compensazione pecuniaria),
introducendo pragmaticamente una regola di second best, da un lato, riducendo al minimo l’ambito applicativo
dell’appropriazione coattiva, dall’altro, evitando che tale strumento divenga di uso routinario – causa maggiori
costi, responsabilità erariale, impossibilità di far valere l’onerosità della restituzione quale giusta causa di
acquisizione del bene, partecipazione rafforzata del proprietario alla scelta finale, motivazione esigente e rigorosa
sulla impossibilità di configurare soluzioni diverse - configurandosi come una normale alternativa
all’espropriazione ordinaria: in quest’ottica la procedura prevista dall’art. 42-bis non rappresenta più (per usare il
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linguaggio della Corte di Strasburgo) il punto di emersione di una defaillance structurelle dell’ordinamento
italiano (rispetto a quello europeo) ma costituisce, essa stessa, espropriazione adottata secondo il canone della
<<buona e debita forma>> predicato dal paradigma europeo.
6. IL POTERE SOSTITUTIVO DEL COMMISSARIO AD ACTA E L’ADOZIONE DEL
PROVVEDIMENTO EX ART. 42 –BIS T.U. ESPR.
6.1. La possibilità di emanazione del provvedimento ex art. 42-bis in sede di ottemperanza, da parte del
giudice amministrativo o per esso dal commissario ad acta, non può essere predicata a priori e in
astratto ma, al contrario, come bene testimonia il caso di specie, postula una risposta articolata che
prenda necessariamente le mosse dal contesto processuale in cui è chiamato ad operare il giudice (ed il
suo ausiliario) e lo conformi ai principi dianzi illustrati (in particolare al § 5.4.).
6.2. Si è visto in precedenza (retro § 5.4., lett. f), che l’effetto inibente (all’emanazione del provvedimento di
acquisizione) del giudicato restitutorio costituisce elemento essenziale dell’istituto disciplinato dall’art. 42-bis nella
lettura costituzionalmente orientata che ne ha fatto il giudice delle leggi in armonia con la CEDU:
conseguentemente in presenza di un giudicato restitutorio il provvedimento di acquisizione non può essere
emanato.
Si pone il problema della individuazione del giudicato restitutorio: nulla quaestio nel caso in cui il giudicato
(amministrativo o civile) disponga espressamente, sic et simpliciter, la restituzione del bene, con l’unica
precisazione che una tale statuizione restitutoria potrebbe sopravvenire anche nel corso del giudizio di
ottemperanza. Si tratta di una conseguenza fisiologica della naturale portata ripristinatoria e restitutoria del
giudicato di annullamento di provvedimenti lesivi di interessi oppositivi d’indole espropriativa (cfr. Cons. Stato,
Ad. plen. 29 aprile 2005, n. 2; Ad. plen., 4 dicembre 1998, n. 8; Ad. plen., 22 dicembre 1982, n. 19).
In tutti questi casi è certo che l’Amministrazione non potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis.
6.3. Tuttavia, costituisce fatto notorio che, sovente, durante la pendenza del processo avente ad oggetto la
procedura espropriativa, il fondo subisce alterazioni tali da rendere necessario il compimento, ai fini della sua
restituzione, di rilevanti attività giuridiche o materiali; a fronte di una situazione di tal fatta si possono verificare le
seguenti evenienze:
I) il privato potrebbe non avere un interesse reale ed attuale alla tutela reipersecutoria – preferendo evitare di
essere coinvolto in attività spesso defatiganti - e dunque non propone una rituale domanda di condanna
dell’Amministrazione alla restituzione previa riduzione in pristino, secondo quanto previsto dal combinato
disposto degli artt. 30, co. 1, e 34, co. 1, lett. c) ed e), c.p.a.; in questo caso il giudicato si presenterebbe come
puramente cassatorio, per scelta (e a tutela) del proprietario, ma non si produrrebbe l’effetto inibitorio
dell’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis;
II) il proprietario ha interesse alla restituzione e propone la relativa domanda ma il giudice non si pronuncia o si
pronuncia in modo insoddisfacente; in tal caso il rimedio è affidato ai normali strumenti di reazione processuale,
in mancanza (o all’esito) dei quali se il giudicato continua a non recare la statuizione restitutoria, comunque
l’Amministrazione potrà emanare il provvedimento ex art. 42-bis non sussistendo la preclusione inibente dianzi
richiamata.
6.4. A diverse conclusioni deve giungersi allorquando, come verificatosi nella vicenda in trattazione, il
giudicato rechi, in via esclusiva o alternativa, la previsione puntuale dell’obbligo dell’Amministrazione
di emanare un provvedimento ex art. 42-bis.
In realtà è bene precisare subito che non esiste la possibilità, tranne si versi in una situazione processuale
patologica, che il giudice condanni direttamente in sede di cognizione l’Amministrazione a emanare
tout court il provvedimento in questione: vi si oppongono, da un lato, il principio fondamentale di
separazione dei poteri (e della riserva di amministrazione) su cui è costruito il sistema costituzionale della
Giustizia Amministrativa, dall’altro, uno dei suoi più importanti corollari processuali consistente nella tassatività
ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a. fra i quali non si rinviene tale
tipologia di contenzioso (cfr. negli esatti termini Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5).
A maggior ragione in una fattispecie in cui vengono in rilievo sofisticate valutazioni sulla ricorrenza delle
circostanze eccezionali che giustificano l’acquisizione coattiva, cui si possono eventualmente riconnettere gravi
ricadute in termini di responsabilità erariale.
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Se del caso, dovrà essere cura delle parti evitare che si formi un giudicato di tal fatta su domande il cui petitum ha
proprio ad oggetto l’emanazione di un provvedimento ex art. 42–bis, attraverso la proposizione di specifiche
eccezioni (o mezzi di impugnazione all’esito della sentenza di primo grado).
6.5. Come si è testé rilevato è ben possibile, invece, che il giudice amministrativo, adito in sede di
cognizione ordinaria ovvero nell’ambito del c.d. rito silenzio, a chiusura del sistema, imponga
all’amministrazione di decidere - ad esito libero, ma una volta e per sempre, nell’ovvio rispetto di tutte
le garanzie sostanziali e procedurali dianzi illustrate - se intraprendere la via dell’acquisizione ex art. 42bis ovvero abbandonarla in favore delle altre soluzioni individuate in precedenza (retro § 5.3.).
In questo caso non vi è ragione di discostarsi dai principi recentemente enucleati dall’Adunanza plenaria di
questo Consiglio (cfr. sentenza 15 gennaio 2013, n. 2) in sintonia con la Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr.
sentenza 18 novembre 2004, Zazanis), alla stregua dei quali l’effettività delle tutela giurisdizionale e il carattere
poliforme del giudicato amministrativo, impongono di darvi esecuzione secondo buona fede e senza che sia
frustrata la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale:
in tali casi, la totale inerzia dell’autorità o l’attività elusiva di carattere soprassessorio posta in essere da
quest’ultima, consentiranno al giudice adito in sede di ottemperanza di intervenire, secondo lo schema disegnato
dagli artt. 112 e ss. c.p.a., direttamente o (più normalmente) di nominare un commissario ad acta che procederà,
nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti dianzi illustrati, a valutare se esistono le eccezionali condizioni
legittimanti l’acquisizione coattiva del bene ex art. 42-bis.
7. L’Adunanza plenaria restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1,
ultimo periodo, e 4, c.p.a., affinché si pronunci sull’appello in esame nel rispetto del seguente principio di diritto:
<<Il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva previsto dall’articolo
42-bis d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità -:
a) se nominato dal giudice amministrativo a mente degli artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma, 4, lett.
d), c.p.a., qualora tale adempimento sia stato previsto dal giudicato de quo agitur;
b) se nominato dal giudice amministrativo a mente dell’art. 117, comma 3, c.p.a., qualora
l’amministrazione non abbia provveduto sull’istanza dell’interessato che abbia sollecitato l’esercizio del
potere di cui al menzionato art. 42-bis>>.
(omissis)
2) AUTORITÀ
INDIPENDENTI.
LA
LEGITTIMAZIONE
STRAORDINARIA
DELL'AUTORITÀ ANTITRUST AI SENSI DELL'ART. 21 BIS L. 287/90:
Tar Lazio Sez. III n. 2720/2013;
“…la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 bis può essere dichiarata manifestamente infondata,
considerata, con valore assorbente, la necessaria correlazione dei poteri giurisdizionali riconosciuti dall’art.
103 al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa con il valore primario che
l’ordinamento costituzionale e dell’Unione riconoscono alla concorrenza, cui si correla la responsabilità dello
Stato per la violazione delle norme UE: in questo quadro, infatti, si colloca la coerente attribuzione ad un
organo pubblico come l’AGCM del potere di agire anche in sede giurisdizionale in caso di violazione delle
norme che tutelano tale valore”.
(omissis)
La questione rimanda, innanzi tutto, al tema generale dei presupposti di procedibilità o di ammissibilità del
ricorso proposto dall’Autorità ai sensi dell’art. 21 bis citato, e al problema più specifico della
15
configurabilità del parere reso in via preliminare dall’Autorità come presupposto necessario per la
procedibilità e l’ammissibilità del ricorso giurisdizionale.
L’attribuzione della legittimazione a ricorrere direttamente in capo all’Autorità, in seno alla previsione di cui al
primo comma dell’art. 21 bis, e prima che, soltanto al secondo comma, venga disciplinato lo speciale
procedimento di interlocuzione con l’Amministrazione interessata, e nel quale si inserisce il parere preliminare
dell’Autorità, potrebbe essere letta infatti come possibilità generale dell’Autorità di proposizione diretta del
ricorso, senza necessità di previa esplicazione del procedimento di cui al secondo comma come presupposto di
procedibilità o ammissibilità dell’iniziativa giurisdizionale.
L’opzione interpretativa, fondata sull’articolazione normativa della disposizione nelle due previsioni di cui al
primo e al secondo comma dell’art. 21 bis, e per la quale dunque il secondo comma introdurrebbe, rispetto alla
principale previsione del primo comma di immediata impugnabilità degli atti, solo una possibilità alternativa e
secondaria di procedere, rimessa al prudente apprezzamento della stessa Autorità, pur garantendo una piena
flessibilità degli strumenti di azione e, quindi, anche una maggiore duttilità delle iniziative riservate all’AGCOM,
tale da assicurare risposte differenziate anche a seconda della maggiore o minore complessità delle questioni o
dell’urgenza del ricorso alla tutela giurisdizionale, non sembra coerente con l’effettiva intenzione del
legislatore, quale è possibile evincere da una doppia considerazione.
In primo luogo non vi sono argomenti letterali tali per ritenere che la norma, letta nel suo complessivo
insieme, abbia voluto introdurre e disciplinare due modalità alternative del procedere, piuttosto che limitarsi a
regolamentare nel secondo e nel terzo comma le modalità con cui il ricorso di cui al primo comma debba essere
proposto.
La norma infatti, secondo una piana e ragionevole considerazione del suo dato letterale, disciplina l’esercizio della
legittimazione al ricorso dell’AGCOM avverso atti amministrativi che assuma essere distorsivi della concorrenza,
prevedendo al primo comma la stessa attribuzione della legittimazione, specificando al secondo comma, in
rapporto di perfetta coincidenza oggettiva con il primo comma, le modalità di proposizione del ricorso e
dettando, al terzo comma, le regole processuali applicabili.
In secondo luogo, sembra al Collegio che la scelta normativa di condizionare la proposizione del ricorso
giurisdizionale al previo espletamento della procedura di cui al comma secondo sia espressione della
volontà di assicurare un momento di interlocuzione preventiva dell’Autorità con l’amministrazione
emanante l’atto ritenuto anticoncorrenziale, allo scopo di stimolare uno spontaneo adeguamento della
fattispecie ai principi in materia di libertà di concorrenza.
In altri termini, la configurazione della legittimazione dell’Autorità al ricorso giurisdizionale si pone,
nell’attuale dato normativo, come extrema ratio, anche in considerazione del fatto che dà luogo ad un giudizio
fra pubbliche amministrazioni; privilegiando piuttosto il legislatore modalità preventive di perseguimento
dell’obiettivo di garanzia della libertà concorrenziale riconducibili, nella specie, al rapporto di leale
collaborazione fra pubbliche amministrazioni.
Del resto, la previsione di un termine speciale dimezzato , di trenta giorni, per la proposizione del ricorso –
come anche l’applicazione di un rito processuale speciale accelerato - si giustifica proprio in considerazione del
fatto che l’iniziativa giurisdizionale è preceduta dalla fase procedimentale di interlocuzione con l’amministrazione
emanante l’atto oggetto di contestazione.
Ciò chiarito, si pone però il problema del regime dei motivi aggiunti, in assenza di specifica previsione
normativa.
E tuttavia, ove si consideri che con il ricorso per motivi aggiunti sono impugnabili atti che si pongono in
rapporto di sicura connessione oggettiva e soggettiva con quello oggetto del gravame principale ( cfr. tra le tante,
Cons. Stato, Sez. V, 21 novembre 2003 n. 7632), e quindi, in sostanza, atti che si inseriscono nella medesima
sequenza procedimentale di quello già gravato, non vi è motivo di ritenere che anche la proposizione dei motivi
aggiunti debba essere preceduta dalla reiterazione del procedimento interlocutorio di cui al secondo comma
dell’art. 21 bis citato.
Se infatti la caratterizzazione funzionale di quel procedimento è quella di consentire una previa
interlocuzione sulle possibili lesioni dei principi concorrenziali implicati dall’azione amministrativa
esaminata, con fissazione nel parere dell’Autorità degli specifici profili delle violazioni contestate, allorquando
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l’atto successivo o consequenziale si ponga in linea di continuità con quello originariamente gravato, inserendosi
nella medesima sequenza procedimentale, ed evidenziando analoghi profili di lesività rispetto all’interesse tutelato
dall’AGCOM, la reiterazione del preventivo modulo procedimentale potrebbe risultare inutile ed
antieconomica.
Va osservato, peraltro, che lo strumento del ricorso per motivi aggiunti, nel processo amministrativo, risponde a
finalità di economicità, celerità e non aggravamento per un verso, e per altro verso alla prioritaria esigenza di
garantire un simultaneus processus per la definizione di fattispecie o vicende sostanzialmente unitarie o
strettamente connesse. Finalità che si evidenziano anche , e con maggior forza, nei riti speciali , alla cui disciplina
l’art. 21 bis terzo comma rimanda espressamente.
Il richiamo di cui al terzo comma citato ai riti speciali vale, quindi,a ribadire la priorità, anche nel procedimento
de quo, delle esigenze di celerità e buon funzionamento; evidenziando uno dei principi ispiratori della normativa
in esame alla luce dei quali l’interprete è tenuto a risolvere anche eventuali dubbi ermeneutici.
(omissis)
2.1 Viene poi eccepita la decadenza dell’Autorità dal potere di azione giurisdizionale, per effetto della tardività del
parere rispetto al termine di sessanta giorni previsto dal secondo comma dell’art. 21 bis.
Si assume in particolare che detto termine decorra dal momento in cui può essere ritenuta certa la conoscenza da
parte dell’Antitrust di situazioni suscettibili di violazione dei principi concorrenziali e che, nel caso di specie, detta
conoscenza può essere ricondotta quanto meno al tempo delle segnalazioni effettuate dall’Autorità al Ministero
Infrastrutture e Trasporti e al Parlamento sulle medesime questioni sollevate poi con il parere (luglio 2010 e
dicembre 2011), con conseguente tardività del parere emesso in data 5 marzo 2012.
L’assunto non può essere condiviso dal Collegio.
Dalla formulazione letterale della norma di cui al secondo comma dell’art. 21 bis emerge infatti con chiarezza che
il decorso del termine di sessanta giorni per l’emissione del parere è riferito alla conoscenza dello
specifico atto, ritenuto anticoncorrenziale, e che sarà oggetto dell’eventuale ricorso giurisdizionale
all’esito della fase precontenziosa.
Inoltre, secondo i principi generali del processo amministrativo, la parte che eccepisce la tardività deve fornire
quanto meno un principio di prova in ordine alla data della piena conoscenza.
(omissis)
In disparte la superiore considerazione, il Collegio osserva peraltro, per quanto interessa ai fini del presente
giudizio, che, pur costituendo l’espletamento della fase precontenziosa condizione per l’esercizio dell’azione
giurisdizionale, non sembra potersi ritenere, in mancanza di espressa previsione normativa in tal senso, che
l’eventuale tardività del parere rispetto alla scadenza del termine di sessanta giorni previsto possa implicare la
decadenza del potere di azione e la conseguente inammissibilità del ricorso giurisdizionale proposto direttamente
avverso l’atto anticoncorrenziale.
Ciò anche in quanto oggetto del giudizio, come appresso si chiarirà meglio, è in maniera diretta l’atto
ritenuto anticoncorrenziale.
3. (omissis)
L’eccezione rimanda alla questione più generale relativa all’individuazione dell’oggetto del ricorso
dell’Autorità ex art. 21 bis, trattandosi preliminarmente di stabilire se l’iniziativa giurisdizionale debba essere
indirizzata contro l’atto originario, e considerato dall’Autorità lesivo di principi in materia di libertà di
concorrenza e buon funzionamento del mercato, ovvero proprio contro l’atto con il quale l’Amministrazione
decida di non conformarsi al parere interlocutorio ( e , quindi, in caso di inerzia, avverso il silenzio).
Osserva in proposito il Collegio che il primo comma dell’art. 21 bis stabilisce in maniera espressa che il ricorso
dell’AGCM è proposto avverso “ gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi
pubblica amministrazione che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
La norma, già secondo il suo dato letterale, sembra indicare chiaramente che l’atto impugnabile è l’atto
ritenuto lesivo della concorrenza, e non l’atto successivo con il quale l’Amministrazione decida di non
conformarsi al parere interlocutorio dell’Autorità; sembra quindi escludere la sussistenza di un onere di
contestazione generalizzato degli ulteriori atti della fase precontenziosa.
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Il secondo comma, che fa riferimento al parere e concede all’Amministrazione un tempo per adeguarsi ad esso,
non individua l’oggetto del giudizio, limitandosi, come sopra menzionato, a dettare le regole procedimentali per
l’esercizio del potere di azione in sede giurisdizionale.
La conclusione resta avvalorata dalla considerazione dell’elemento funzionale della disposizione.
Come già accennato, il parere dell’Autorità, che si inserisce nella fase preliminare in termini di necessarietà,
venendo a costituire un presupposto indefettibile per l’azione giurisdizionale, mira solo a consentire un momento
di interlocuzione preventiva dell’Autorità con l’amministrazione emanante l’atto ritenuto anticoncorrenziale, allo
scopo di stimolare uno spontaneo adeguamento della fattispecie ai principi in materia di libertà di concorrenza in
esito ad un confronto dialettico che costituisca espressione del principio di leale collaborazione fra pubbliche
amministrazioni.
Le determinazioni che l’Amministrazione viene ad assumere, a seguito di detta interlocuzione, sia nel senso della
conformazione al parere (con conseguente ritiro o modifica dell’atto), sia nel senso della conferma della
soluzione originaria, non costituiscono estrinsecazione di un potere di autotutela strictu sensu inteso, non
implicando alcun apprezzamento di natura tipicamente discrezionale orientato secondo i parametri tradizionali
dell’autotutela.
In particolare, ove l’Amministrazione ravvisi l’effettività o la fondatezza dei rilievi di cui al parere dell’Autorità,
ha l’obbligo di conformare la propria azione alla salvaguardia dei principi in materia di concorrenza, non
potendosi certo ipotizzare che, secondo i parametri propri dell’autotutela, rifiuti di modificare o ritirare l’atto
lesivo della libertà di concorrenza solo per la mancanza dei presupposti dell’annullamento d’ufficio.
L’Amministrazione non potrà, quindi, pur riconoscendo la violazione delle norme a tutela della concorrenza,
decidere di non rimuovere o di non modificare l’atto originariamente adottato in ragione dell’asserito difetto dei
presupposti di cui all’art. 21 nonies della legge n. 241/90.
Ciò in ossequio alla primazia della tutela della libertà di concorrenza, espressione di valori costituzionali e
comunitari e strumento di attuazione del benessere sociale.
Ne consegue che anche le determinazioni adottate dall’Amministrazione in esito al parere reso
dall’Autorità nella fase precontenziosa rimangono attratte al momento dell’interlocuzione di cui al
secondo comma dell’art. 21 bis, senza assumere una valenza provvedimentale esterna come atti di
autotutela; e non può quindi configurarsi un onere di impugnativa specifica da parte dell’Autorità, una
volta che questa decida di esercitare l’iniziativa giurisdizionale ex comma 1 avverso l’atto ritenuto
anticoncorrenziale.
4. Sotto diverso profilo, poi, si contesta la tardività del ricorso principale rispetto alla scadenza del termine di
trenta giorni, fissato dal comma 2 dell’art. 21 bis citato, assumendosi che, nel caso in cui intervenga una
determinazione negativa dell’Amministrazione, rispetto alle indicazioni del parere reso dall’Autorità, prima della
scadenza del termine di sessanta giorni all’uopo previsto, il termine di trenta giorni per la proposizione del
ricorso inizierebbe a decorrere già dalla data di comunicazione della predetta determinazione anziché dalla data di
scadenza dei sessanta giorni.
La tesi non è condivisa dal Collegio in considerazione del fatto che, come sopra ricostruito, il ricorso non ha ad
oggetto l’atto adottato ( o il silenzio tenuto) dall’Amministrazione in esito al parere, in quanto esso non
costituisce estrinsecazione di un potere di riesame.
Tutta la fase precontenziosa prevista dal comma 2 ha una finalità di interlocuzione , preliminare all’eventuale
contenzioso, e ispirata al principio di leale collaborazione, tendente a consentire l’acquisizione e la ponderazione,
da parte delle varie amministrazioni procedenti, degli elementi di cognizione espressi dall’Autorità nell’esercizio
di una competenza tecnica specialistica e nell’ottica della salvaguardia del bene primario della concorrenza.
La scansione temporale di detto procedimento risponde , nel suo complesso, al fine di garantire una sollecita
conformazione dell’azione amministrativa alla preminente esigenza di garanzia e tutela dei principi
concorrenziali.
In particolare, la determinazione adottata dall’Amministrazione, entro il termine di sessanta giorni
successivi al parere non assume valenza provvedimentale autonoma, e non comporta la consumazione
di un potere ( nello specifico di un potere di autotutela e riesame). Conseguentemente, è ben possibile che,
anche a seguito dell’adozione di una determinazione negativa, nel termine di sessanta giorni possano intervenire
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ulteriori diverse determinazioni della stessa amministrazione, all’interno di un processo di confronto dialettico
con l’Autorità.
Per tale ragione il Collegio ritiene che il termine di trenta giorni decorra soltanto dalla scadenza del
termine di sessanta giorni che segna la conclusione della fase precontenziosa.
5. (omissis)
6. Viene infine eccepita l'illegittimità costituzionale dell’art. 21 bisdella legge n. 287/1990 per violazione degli artt.
24, 103,113 e 95 Cost.
La disposizione introdurrebbe, secondo gli intervenienti, una legittimazione al ricorso dell’Autorità Antitrust del
tutto disancorata da "interessi strutturalmente propri e fondamentalmente privati'', la sussistenza dei quali
soltanto consentirebbe, secondi i principi generali, l'accesso alla giurisdizione amministrativa. Il ricorso, come
delineato dalla norma, finirebbe con l’atteggiarsi come una sorta di "azione d'ufficio", estranea alle previsioni
costituzionali ed in violazione del principio di separazione dei poteri.
La tesi non è condivisa dal Collegio e il timore di illegittimità costituzionale della norma in esame è destituito di
fondamento alla luce delle considerazioni che seguono.
La disposizione, lungi dall’introdurre una ipotesi eccezionale di giurisdizione amministrativa di diritto
oggettivo, in cui l’azione giurisdizionale mira alla tutela di un interesse generale e non di situazioni
giuridiche soggettive di carattere individuale, che porrebbe problemi di compatibilità specie con l’art
103 Cost. ( secondo il quale gli organi della giustizia amministrativa hanno giurisdizione in materia di interessi
legittimi e, nei soli casi previsti dalla legge, di diritti soggettivi), delinea piuttosto un ordinario potere di
azione, riconducibile alla giurisdizione a tutela di situazioni giuridiche individuali qualificate e
differenziate, benché soggettivamente riferite ad una autorità pubblica.
L’interesse sostanziale, alla cui tutela l’azione prevista dall’art. 21 bis in capo all’Autorità Antitrust è
finalizzata, assume i connotati dell’interesse ad un bene della vita: il corretto funzionamento del
mercato, come luogo nel quale trova esplicazione la libertà di iniziativa economica privata, intesa come
“pretesa di autoaffermazione economica della persona attraverso l’esercizio della impresa” (cfr. Cass.
Sez. un. 4.2.2005 n. 2207), tutelato a livello comunitario e costituzionale, costituisce il riferimento
oggettivo di una pretesa, giuridicamente rilevante e meritevole di salvaguardia, ad un bene sostanziale.
Un bene della vita, dunque, che non si risolve nel mero interesse generale al rispetto delle regole ed alla legalità
dell’azione amministrativa ( rispetto ai parametri di legge che regolano il funzionamento del libero mercato), ma
che assume una specifica dimensione sostanziale , che si concretizza e si specifica nelle diverse fattispecie
nelle quali trovano applicazione le norme a tutela del buon funzionamento del libero mercato.
Le norme sulla libertà di concorrenza disciplinano fattispecie nelle quali si muovono interessi individuali, concreti
e qualificati, e quindi fondano situazioni giuridiche soggettive in capo a tutti coloro che agiscono sul mercato,
imprese e consumatori, la cui violazione consente l’attivazione dei rimedi giurisdizionali ( ivi compresi quelli di
tipo risarcitorio).
L’Autorità AGCM , per la sua stessa caratterizzazione normativa, diventa soggetto primario della
salvaguardia dell’interesse al corretto funzionamento del mercato: essa è per legge l’affidataria
dell’interesse alla concorrenza, in quanto effettivamente portatrice di un interesse sostanziale protetto
dall’ordinamento (nella specie, nella forma dell’interesse legittimo), che si soggettivizza in capo ad essa
come posizione differenziata rispetto a quella degli altri attori del libero mercato.
E la titolarità di detto interesse ad un bene della vita dipende dalla scelta del legislatore di affidamento
alla stessa Autorità dei compiti di tutela del corretto funzionamento del mercato.
L’interesse di cui l’Autorità è portatrice è interesse pubblico, benché individuale e differenziato rispetto
all’interesse generale o all’interesse diffuso in maniera indistinta sulla collettività: e si specifica come
interesse pubblico alla promozione della concorrenza e alla garanzia del corretto esplicarsi delle dinamiche
competitive, come condizione e strumento per il benessere sociale.
Lo stesso interesse rispetto al medesimo bene della vita, dunque, viene ad atteggiarsi come pubblico o privato, a
seconda del soggetto che ne è portatore nelle diverse fattispecie in cui viene in rilievo l’esigenza primaria di
garanzia della concorrenza; e proprio detto interesse, che è pubblico nella tutela apprestata dalle norme che
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fissano i poteri e le attribuzioni dell’AGCM, vale a fondare la legittimazione processuale di cui all’art. 21 bis
citato.
Il nuovo potere dell’AGCM, più che come potere di azione nell’interesse generale della legge in uno specifico
settore, effettivamente di difficile riconduzione all’interesse legittimo, diventa così, per scelta del legislatore, uno
degli strumenti volti a garantire l’attuazione dell’interesse pubblico, ma pur sempre particolare e
differenziato, alla migliore attuazione del valore “concorrenza”, di cui è specifica affidataria l’Autorità.
E ciò anche in possibile rapporto di contrapposizione o diversità con gli ulteriori interessi, pubblici o privati, di
altri soggetti che operano sul mercato, come interesse comunque leso dalla mera violazione delle norme a tutela
della libertà di concorrenza, e dunque direttamente soddisfatto dal ripristino della legalità violata.
Un interesse che, proprio perché comunque leso per la mera violazione delle norme sulla concorrenza, pone
un’esigenza di tutela, e di attivazione dei rimedi anche giurisdizionali di tutela, pure quando, e anche sebbene, la
lesione del mercato non si traduca in una lesione particolare di posizioni giuridiche soggettive di privati ( imprese,
consumatori, associazioni di categoria).
Proprio la peculiarità della dimensione ontologica del bene della vita “concorrenza”, e la primazia della
sua rilevanza nel quadro dei valori costituzionali e comunitari, impone che la”giustiziabilità”
dell’interesse al libero mercato sia garantita anche quando la violazione delle norme sulla concorrenza
non evidenzi una lesione concreta di interessi di operatori privati e non sussistano quindi posizioni
giuridiche soggettive private legittimanti l’attivazione dei rimedi di reazione nell’ordinamento.
La scelta del legislatore di introduzione di un potere di azione giurisdizionale dell’Autorità a tutela di tale
interesse, pubblico ma diverso dall’interesse generale al rispetto della legge affidato al potere giurisdizionale, è
dunque una scelta di stretto diritto positivo, che non è condizionata dal vigente quadro costituzionale; ma che,
anzi, si inserisce nell’ambito degli strumenti di garanzia di effettività del corrispondente valore costituzionale,
garantendone una tutela completa.
Una scelta che completa la gamma delle attribuzioni e dei poteri che il legislatore attribuisce all’Autorità AGCM
individuata come soggetto, altamente qualificato, portatore del bene della vita (la concorrenza, appunto) e quindi
titolare del relativo interesse pubblico, soggettivo e differenziato rispetto all’interesse generale, da un parte, e
dall’altra rispetto agli interessi particolari dei soggetti privati che possono, nelle singole fattispecie in cui venga in
gioco l’attuazione della concorrenza, trovarsi in una situazione differenziata rispetto alla generalità dei consociati.
Tale forma di speciale legittimazione costituisce, per un verso, il completamento del potere già riconosciuto
all’AGCM dall'art. 15 del Reg. CE n. 3/2001; per altro verso, la trasposizione interna di un procedimento
previsto dalla normativa dell’Unione quale il ricorso per inadempimento promosso dalla Commissione europea
dinanzi alla Corte di Giustizia contro lo Stato che violi gli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione (art. 258
TFUE).
Ed invero, l'art. 15, comma 3, del Reg. (CE) n. 1/2003 prevedeva già che le Autorità degli Stati membri potessero
intervenire in un giudizio pendente dinanzi alle giurisdizioni nazionali, presentando osservazioni scritte o, previa
autorizzazione del giudice, anche orali, in applicazione degli art. 101 e 102 TFUE.
L'art. 21-bis , dunque, implementa il ruolo dell'AGCM, trasformandola da mera interveniente che
svolge osservazioni a parte processuale che agisce in giudizio, per poter così assicurare la piena
effettività delle regole preordinate alla tutela della concorrenza.
Il quadro legislativo e giurisprudenziale offre, del resto, sempre più frequenti esempi di aperture alla
legittimazione di soggetti pubblici e di associazioni ad agire a tutela di interessi superindividuali.
Si pensi in primo luogo alle due ipotesi di legittimazione delle associazioni di categoria ad agire a tutela degli
interessi collettivi e degli interessi diffusi previste dall’art. 4 della legge n. 180 del 2011 ( legittimazione delle
associazioni rappresentate in almeno cinque camere di commercio e delle loro articolazioni territoriali e di
categoria ad agire in giudizio sia a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria
professionale, sia a tutela di interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti; legittimazione delle associazioni di
categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale, regionale e provinciale ad impugnare gli atti
amministrativi lesivi degli interessi diffusi).
Una significativa anticipazione della progressiva apertura della legittimazione ad agire era però rinvenibile già nel
d. lgs. n. 198 del 2009, che, in attuazione dell’art. 4 della legge 4 marzo 2009 n. 15, in materia di ricorso per
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l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, aveva riconosciuto la possibilità di agire
in giudizio per «ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio», oltre
che ai singoli titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori,
alle “associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati”.
In questa stessa prospettiva, la giurisprudenza amministrativa si era già spinta a riconoscere la configurabilità di
una legittimazione ad agire correlata «per un verso, all’esistenza di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei
per una pluralità di utenti e consumatori, per altro verso, alla riferibilità di tali interessi ad un soggetto titolare, ed
infine, all’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi» riconoscendo, per esempio,
all’Ente locale territoriale, ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della propria comunità nelle materie
di competenza istituzionale, una più ampia legittimazione per «altre materie non direttamente conferitegli dalla
legge». ( cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 9 dicembre 2010, n. 8683).
7. Conclusivamente, dunque, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 bis può essere dichiarata
manifestamente infondata, considerata, con valore assorbente, la necessaria correlazione dei poteri giurisdizionali
riconosciuti dall’art. 103 al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa con il valore primario
che l’ordinamento costituzionale e dell’Unione riconoscono alla concorrenza, cui si correla la responsabilità dello
Stato per la violazione delle norme UE: in questo quadro, infatti, si colloca la coerente attribuzione ad un organo
pubblico come l’AGCM del potere di agire anche in sede giurisdizionale in caso di violazione delle norme che
tutelano tale valore.
(omissis)
Cds Sez. V 30.04.2012 n. 2246;
Anche in considerazione della sostanziale unicità ed unitarietà del bene giuridico protetto (libertà della
concorrenza e del mercato), sia pur nelle differenti prospettive di cui ai commi 1 e 2, secondo la V sezione del
Consiglio di Stato l’art. 21 bis della legge n. 287 del 1990 non prevede due distinte forme di tutela del predetto
bene giuridico, l’una con accesso diretto ed immediato al giudice e l’altra mediata alla fase pre- contenziosa.
Essa si sofferma sul ruolo del parere di cui al comma 2 dell’articolo citato confermando la decisione di prime
cure che aveva dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 21-bis, co. 2, L. 10 ottobre 1990 n. 287 dell’AGCM
non preceduto da detto parere motivato.
“Secondo l’intenzione del legislatore, così come si ricava dall’esame della norma, il fondamentale e innovativo
ruolo attribuito all’Autorità circa il controllo sull’effettivo ed efficace dispiegarsi della libertà della concorrenza
e del mercato impone che il potere di agire in giudizio contro gli atti lesivi di tali principi sia preceduto da una
fase pre – contenziosa, caratterizzata dall’emissione, da parte dell’Autorità, di un parere motivato rivolto alla
pubblica amministrazione, parere in cui ragionevolmente sono segnalate le violazioni riscontrate e sono
indicano i rimedi per eliminarli e ripristinare il corretto funzionamento della concorrenza e del mercato.
La funzione del predetto parere motivato è in realtà duplice: esso mira innanzitutto a sollecitare la pubblica
amministrazione a rivedere le proprie determinazioni e a conformarsi agli indirizzi dell’Autorità, attraverso
uno speciale esercizio del potere di autotutela giustificato proprio dalla particolare rilevanza dell’interesse
pubblico in gioco, in tal modo auspicando che la tutela di quest’ultimo sia assicurata innanzitutto all’interno
della stessa pubblica amministrazione e restando pertanto il ricorso all’autorità giudiziaria amministrativa
l’extrema ratio (non essendo stata d’altra parte dotata l’Autorità di poteri coercitivi nei confronti
dell’amministrazione pubblica che non intenda conformarsi al predetto parere motivato); d’altro canto, la fase
pre – contenziosa e il relativo parere, in coerenza con i principi comunitari, sono stati ragionevolmente
concepiti anche come significativo strumento di deflazione del contenzioso, potendo ammettersi che il legislatore
guardi con disfavore le situazioni in cui due soggetti pubblici si rivolgano direttamente (ed esclusivamente) al
giudice per la tutela di un interesse pubblico”.
21
(omissis)
5.1. L’art. 21 bis della legge n. 287 del 1990, aggiunto dall’art. 35, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, convertito
con modificazioni dalla legge n. 214 del 2011, significativamente rubricato “Poteri dell’Autorità Garante della
concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza”, ha previsto al
comma 1 che “L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti
amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le
norme a tutela della concorrenza e del mercato”.
Al successivo secondo comma è poi stabilito che “L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene
che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norma a tutela della concorrenza e
del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni
riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del
parere, l’autorità può presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni”,
mentre il terzo comma aggiunge infine che “Ai giudizi instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di
cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”.
5.2. Come si ricava agevolmente dal loro stesso tenore letterale, ognuna delle ricordate disposizioni assolve
ad una specifica funzione, individuando e tutelando uno specifico interesse pubblico.
5.2.1. Il primo comma infatti, attribuisce una peculiare legitimatio ad causam all’Autorità nei confronti degli atti
amministrativi generali, dei regolamenti e dei provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le
norme a tutela della concorrenza e del mercato, in tal modo evidenziando la natura di speciale interesse pubblico
generale della tutela della concorrenza e del mercato, quale condizione essenziale per l’ordinato sviluppo
economico e sociale e per il progresso della collettività, in armonia del resto con i principi comunitari (non è del
resto un caso che l’articolo 21 bis sia stato introdotto dall’art. 35, comma 1, del D.L. n. 201 del 2011, come
modificato dalla legge n. 241 del 2011, recante disposizione urgenti per la crescita e lo sviluppo economico).
E’ coerente con il bene giuridico protetto dalla norma (la libertà di concorrenza ed il corretto funzionamento del
mercato) e con le finalità che con esse si intende perseguire (la crescita e lo sviluppo economico) la previsione
che l’accertamento della violazione delle nome in questione e il loro ripristino, per un verso, trascenda l’interesse
specifico del singolo operatore del mercato e sia pertanto sottratto alla libera disponibilità dell’interessato (il che
giustifica la disposizione nella parte in cui ammette sostanzialmente una legittimazione ad agire concorrente,
dell’Autorità e dei singoli interessati, quanto ai provvedimenti lesivi del predetto bene giuridico), e, per altro
verso, la tutela debba avviarsi per quanto possibile immediatamente, in tal modo dovendo essere intesa la
legittimazione ad agire dell’Autorità nei confronti dei regolamenti e dei provvedimenti generali (atti che, secondo
i principi generali, in quanto in genere non immediatamente lesivi, possono essere impugnati solo unitamente ai
provvedimenti di cui costituiscono applicazione).
5.2. Il secondo comma, coerentemente con il principio di legalità predicato dall’articolo 97 della Costituzione,
cui è improntata tutta l’attività della pubblica amministrazione, disciplina (e delimita, procedimentalizzandolo) il
potere attribuito alla Autorità in relazione agli atti amministrativi generali, ai regolamenti e ai provvedimenti
amministrativi, dalla stessa ritenuti violativi delle norme a tutela della concorrenza e del mercato.
Secondo l’intenzione del legislatore, così come si ricava dall’esame della norma, il fondamentale e innovativo
ruolo attribuito all’Autorità circa il controllo sull’effettivo ed efficace dispiegarsi della libertà della concorrenza e
del mercato impone che il potere di agire in giudizio contro gli atti lesivi di tali principi sia preceduto da
una fase pre – contenziosa, caratterizzata dall’emissione, da parte dell’Autorità, di un parere motivato
rivolto alla pubblica amministrazione, parere in cui ragionevolmente sono segnalate le violazioni
riscontrate e sono indicano i rimedi per eliminarli e ripristinare il corretto funzionamento della
concorrenza e del mercato.
La funzione del predetto parere motivato è in realtà duplice: esso mira innanzitutto a sollecitare la pubblica
amministrazione a rivedere le proprie determinazioni e a conformarsi agli indirizzi dell’Autorità, attraverso uno
speciale esercizio del potere di autotutela giustificato proprio dalla particolare rilevanza dell’interesse pubblico in
gioco, in tal modo auspicando che la tutela di quest’ultimo sia assicurata innanzitutto all’interno della stessa
pubblica amministrazione e restando pertanto il ricorso all’autorità giudiziaria amministrativa l’extrema ratio (non
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essendo stata d’altra parte dotata l’Autorità di poteri coercitivi nei confronti dell’amministrazione pubblica che
non intenda conformarsi al predetto parere motivato); d’altro canto, la fase pre – contenziosa e il relativo parere,
in coerenza con i principi comunitari, sono stati ragionevolmente concepiti anche come significativo strumento
di deflazione del contenzioso, potendo ammettersi che il legislatore guardi con disfavore le situazioni in cui due
soggetti pubblici si rivolgano direttamente (ed esclusivamente) al giudice per la tutela di un interesse pubblico.
5.2.3. Con il terzo comma infine è stato stabilito che alle controversie azionate dall’Autorità ai sensi del comma
uno trovino applicazione le disposizioni concernenti i riti abbreviati.
In presenza di una previsione di rinvio così generale, all’intero titolo V del libro IV, del codice del processo
amministrativo, e in considerazione del bene giuridico tutelato, deve ragionevolmente ritenersi allo stato, anche
per la mancanza di diversi elementi di valutazione, che il legislatore non abbia inteso sottoporre le controversie in
questione al solo rito abbreviato dell’art. 119, fermo restando la necessità di verificare in concreto l’applicabilità
delle altre specifiche disposizione del titolo V alla fattispecie sottoposta all’esame del giudice.
5.3. Ciò posto, la Sezione, condividendo le conclusioni cui sono pervenuti i primi giudici, è dell’avviso che
l’esaminato articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990, anche in considerazione della sostanziale unicità
ed unitarietà del bene giuridico protetto (libertà della concorrenza e del mercato), sia pur nelle
differenti prospettive di cui ai commi 1 e 2, non preveda due distinte forme di tutela del predetto bene
giuridico, l’una con accesso diretto ed immediato al giudice e l’altra mediata alla fase pre- contenziosa.
5.3.1. A favore di tale ricostruzione propugnata dall’appellante non vi è del resto nessun argomento, né di ordine
letterale, né di carattere logico – sistematico, essendo invero del ragionevole che il legislatore, dopo aver fissato al
primo comma il principio della legittimazione straordinaria dell’Autorità ad agire nei confronti degli atti
amministrativi generali, regolamenti e provvedimenti violativi delle norme a tutela della concorrenza e a tutela del
mercato, abbia poi, al secondo comma, stabilito le modalità di concreto esercizio di tale legittimazione
straordinaria, con ciò volendo evitare che una norma, astrattamente concepita quale (ulteriore) strumento per la
ripresa e lo sviluppo economico, potesse dar luogo in concreto a nuove e diverse situazioni di confusione e
contraddittorietà dell’azione amministrativa.
E’ in tal senso priva di autonoma rilevanza la circostanza, su cui pure indugia l’appellante, che il terzo comma
dell’articolo in esame faccia riferimento, ai fini di stabilire la disciplina processuale da applicare, ai soli giudizi
instaurati ai sensi del comma 1, da ciò non potendo desumersi l’esistenza di altri giudizi (instaurati ai sensi del
comma 2, successivamente cioè all’espletamento della fase pre – contenziosa): infatti il riferimento operato dal
legislatore (ai giudizi di cui al comma 1), lungi dall’essere equivoco o fonte di dubbi, è del tutto coerente e
ragionevole, anche sotto il profilo dell’interpretazione letterale, solo nel comma 1 si prevede la legittimazione
straordinaria dell’Autorità ed il potere di quest’ultima di introdurre giudizi, di cui non vi è invece alcuna
menzione nel comma 2 (per le ragioni sopra già esposte e alle quali pertanto si rinvia).
5.3.2. Né alla predetta ricostruzione dell’unicità dei giudizi instaurabili dall’Autorità può opporsi che in tal modo,
dovendo cioè gli stessi essere necessariamente preceduti dalla fase pre – contenziosa, potrebbero verificarsi in
concreto e nell’immediato proprio quegli effetti negativi ed eventualmente irreversibili, derivanti dalla efficacia di
regolamenti, atti generali e provvedimenti emessi in violazione delle norme poste a tutela della concorrenza e del
mercato, che la stessa norma vuole invece scongiurare: è sufficiente rilevare al riguardo che, fermo restando la
generale disciplina delineata dal secondo comma dell’art. 21 bis in esame, non vi è alcuna ragione logico –
sistematica che possa ragionevolmente escludere, ricorrendone i presupposti, la richiesta da parte dell’Autorità
delle misure cautelari antecausam di cui all’art. 61 c.p.a.
5.3.3. Per completezza occorre infine segnalare che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 20 del 14 febbraio
2013, nel dichiarare inammissibili le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 21 bis della legge n. 287 del
1990 promosse in via principale dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 3, 97, primo comma, 113, primo
comma, 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, della Costituzione, alla legge costituzionale n. 3 del
2001 ed al principio di leale collaborazione, ha osservato che detta norma, piuttosto che introdurre un “nuovo e
generalizzato controllo di legittimità” in capo all’Autorità nei confronti degli atti delle pubbliche amministrazioni,
ha soltanto integrato “…i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti
della legge n. 287 del 1990”, prevedendo “…un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa
tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato …e, comunque, certamente non
23
generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi che violino le norme a tutela della
concorrenza del mercato”, precisando quindi che tale potere “…si esterna in una prima fase a carattere
consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una
seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si
conformi al parere stesso”.
Trova pertanto autorevole conforto la tesi della eccezionalità della legittimatio ad causam riconosciuta
all’Autorità in funzione del bene giuridico tutelato e l’unicità e unitarietà dell’azione giudiziaria dalla stessa
proposta, ancorché preceduta da una necessaria fase pre – contenziosa.
Corte Cost. 14.02.2013 n. 20
Con sentenza n. 20 del 2013, la Corte Costituzionale dichiara inammissibile le questioni di legittimità
costituzionale dell’articolo 35 del d.l. n. 201 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del
2011.
Secondo la Corte la norma censurata, introducendo l’art. 21 bis alla legge n. 287 del 1990 non ha finito per
sottoporre gli atti regolamentari e amministrativi regionali a nuovo e generalizzato controllo di legittimità su
iniziativa di un’autorità statale i violazione degli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.
ed infatti, osserva la Corte “è inesatto parlare di nuovo e generalizzato controllo di legittimità in quanto la
norma prevede un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e
del corretto funzionamento del mercato e, comunque, certamente non generalizzato, perché operante soltanto in
ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato» (norma
censurata, comma 1). Esso si esterna in una prima fase a carattere consultivo (parere motivato nel quale sono
indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una seconda (eventuale) fase di impugnativa in
sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si conformi al parere stesso”. La disposizione
in esame, conclude la Corte, ha un perimetro circoscritto alla materia della concorrenza, materia appartenente
alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), concernente anche
la potestà regolamentare, ai sensi dell’art. 117, sesto comma, primo periodo, Cost.
1.— La Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe, ha promosso, tra l’altro, questioni di legittimità
costituzionale dell’articolo 35 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.
214, per contrasto con gli articoli 3, 97, primo comma, 113, primo comma, 117, sesto comma, e 118, primo e
secondo comma, della Costituzione, nonché con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo
V della parte seconda della Costituzione) e con il principio di leale collaborazione.
(omissis)
2.— Le questioni sono inammissibili.
2.1.— La norma censurata – aggiungendo alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della
concorrenza e del mercato), l’articolo 21-bis ( la cui rubrica è «Poteri dell’Autorità garante della concorrenza e
del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza») – così dispone: «1.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi
generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela
della concorrenza e del mercato. 2. L’Autorità garante, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia
emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni,
un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se la pubblica
amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l’Autorità può
24
presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni. 3. Ai giudizi instaurati ai
sensi del comma 1 si applica la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n.
104».
Va ancora premesso che, per costante giurisprudenza di questa Corte, alle Regioni è preclusa la possibilità di
impugnare le leggi statali adducendo la violazione di un qualsiasi parametro costituzionale, in quanto ad esse è
riconosciuta soltanto la possibilità di far valere eventuali violazioni di competenze alle Regioni medesime
costituzionalmente attribuite.
Tali enti possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovraintendono al riparto di attribuzioni
solo quando «la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare un vulnus alle attribuzioni
costituzionali delle regioni e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una “possibile
ridondanza” della predetta violazione sul riparto di competenze» (ex plurimis: sentenze n. 199, n. 151 e n. 80 del
2012; n. 128 e n. 33 del 2011; n. 325 e n. 278 del 2010).
3.— Orbene, quanto alla prima censura, secondo cui la disposizione denunziata finirebbe «col sottoporre gli atti
regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo di legittimità, su iniziativa di
un’autorità statale», così travalicando i limiti desumibili dalla sentenza di questa Corte n. 64 del 2005 e violando
gli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., si deve osservare che è inesatto parlare di
«nuovo e generalizzato controllo di legittimità», là dove la norma – integrando i poteri conoscitivi e
consultivi già attribuiti all’Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della legge n. 287 del 1990 – prevede un
potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto
funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque, certamente non
generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi «che violino le norme a tutela
della concorrenza e del mercato» (norma censurata, comma 1). Esso si esterna in una prima fase a carattere
consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una
seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non
si conformi al parere stesso.
La detta disposizione, dunque, ha un perimetro ben individuato (quello, per l’appunto, della concorrenza),
compreso in una materia appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo
comma, lettera e, Cost.), concernente anche la potestà regolamentare, ai sensi dell’art. 117, sesto comma, primo
periodo, Cost.
(omissis)
4.— (omissis)
5.— Ad avviso della ricorrente, «non mancano, poi, nella disposizione, vari elementi sintomatici di
irragionevolezza e di lesione del principio di certezza del diritto». In particolare, farebbe difetto una disciplina in
ordine alla decorrenza del termine di sessanta giorni entro i quali l’Autorità può formulare il proprio parere
motivato, prodromico all’eventuale proposizione del ricorso giurisdizionale entro i successivi trenta giorni. Tale
incertezza sul menzionato dies a quo si rifletterebbe sulla stabilità degli atti regolamentari e provvedimentali
regionali, «con ulteriore lesione – per difetto di ragionevolezza, censurabile anche ai sensi dell’art. 3 della
Costituzione e ai sensi dell’art. 97 sul buon andamento della pubblica amministrazione – della sfera di autonomia
regionale costituzionalmente garantita».
Inoltre, la legittimazione ad agire dell’Autorità non risulterebbe coordinata con la legittimazione propria delle
parti private, sicché il ricorso della prima potrebbe risolversi in un intervento di supplenza o surrogazione in
favore di parti private decadute dal termine per proporre l’impugnativa ordinaria. Palese, poi, sarebbe
l’incongruenza che si determinerebbe quando l’Autorità, tenuta ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello
Stato, impugni atti di un’amministrazione statale tenuta a sua volta ad avvalersi della detta Avvocatura.
Anche tali censure sono inammissibili.
Esse riguardano, per la maggior parte, questioni di diritto processuale, che non hanno alcuna attinenza
col riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e sono, invece, demandate alla cognizione
dei giudici comuni che le decideranno secondo le norme dei rispettivi ordinamenti. L’unico aspetto, che
potrebbe assumere qui rilievo, concerne il presunto riflesso sulla stabilità degli atti regionali, conseguente alla
(asserita) incertezza della decorrenza dei termini disciplinati dalla norma de qua. Tuttavia, si tratta di doglianza
25
avente carattere meramente eventuale, che non può trovare ingresso in questa sede. Peraltro, i parametri evocati
esulano dalle norme comprese nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione e non si rivelano
potenzialmente idonei a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione.
6.— Infine, quanto alla dedotta violazione del principio di leale collaborazione, va rilevato che esso non può
trovare applicazione con riferimento all’attività legislativa; del resto nessuna adeguata motivazione risulta addotta
sul punto.
(omissis)
3)LE FUNZIONI PRECONTENZIOSE DELL’ANAC: Regolamento del 5 ottobre 2016,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19 ottobre 2016
Art. 1 Oggetto
Il presente Regolamento disciplina il procedimento precontenzioso di cui all’art. 211, comma 1, del decreto
legislativo 18 aprile 2016, n. 50.
Art. 2 Soggetti richiedenti
La stazione appaltante, o una o più parti interessate, nonché i soggetti portatori di interessi collettivi costituiti in
associazioni o comitati, possono rivolgere all’Autorità istanza di parere per la formulazione di una soluzione delle
questioni controverse insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara degli appalti pubblici di lavori,
servizi e forniture.
Sono legittimati a presentare istanza le persone fisiche deputate ad esprimere all’esterno la volontà del soggetto
richiedente.
Art. 3 Modalità di presentazione dell’istanza singola
Quando l’istanza è presentata singolarmente dalla stazione appaltante o da una parte interessata, il parere reso è
da intendersi non vincolante.
La parte istante è tenuta a dare comunicazione della presentazione dell’istanza a tutti i soggetti interessati alla
soluzione della questione controversa oggetto della medesima.
Qualora l’istante abbia manifestato la volontà di attenersi a quanto stabilito nel parere, le altre parti possono
aderirvi, tramite comunicazione del proprio assenso all’Autorità, entro il termine di 10 giorni dalla ricezione della
comunicazione di avvenuta presentazione dell’istanza. In tal caso il parere reso ha efficacia vincolante per le parti
che vi hanno aderito.
L’istanza è presentata secondo il modulo allegato al presente Regolamento e trasmessa tramite posta elettronica
certificata, unitamente a una eventuale memoria e alla documentazione ritenuta utile. L’istanza contiene una
sintetica indicazione degli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini del parere, identifica i vizi dell’atto
contestato e illustra il quesito o i quesiti di diritto per i quali è richiesto il parere stesso.
Nell’istanza le parti specificano se, in sede di pubblicazione del parere, debbano essere esclusi i dati sensibili
espressamente segnalati.
L’istanza reca l’impegno a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione fino al
rilascio del parere.
Quando l’istanza è presentata da una parte diversa dalla Stazione appaltante, con la comunicazione di avvio
dell’istruttoria, l’Autorità formula alla stazione appaltante l’invito a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini
della risoluzione della questione fino al rilascio del parere.
26
Art. 4 Modalità di presentazione dell’istanza congiunta
Quando l’istanza è presentata congiuntamente dalla stazione appaltante e da una o più parti interessate e le parti
esprimono la volontà di attenersi a quanto sarà stabilito nel parere di precontenzioso, il parere stesso è vincolante
per le parti che vi hanno acconsentito.
Le parti sono tenute a dare comunicazione della presentazione dell’istanza a tutti i soggetti interessati alla
soluzione della questione controversa oggetto della medesima.
Qualora gli istanti abbiano manifestato la volontà di attenersi a quanto stabilito nel parere, i soggetti cui l’istanza
è comunicata ai sensi del comma 2, possono aderirvi, tramite comunicazione del proprio assenso all’Autorità,
entro il termine di 10 giorni dalla ricezione della comunicazione di avvenuta presentazione dell’istanza. In tal caso
il parere reso ha efficacia vincolante anche nei loro confronti.
L’istanza è presentata secondo il modulo allegato al presente Regolamento e trasmessa tramite posta elettronica
certificata, completa di eventuale memoria e documentazione ritenuta utile. L’istanza contiene una succinta
indicazione degli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini del parere, identifica i vizi dell’atto contestato e
illustra il quesito o i quesiti di diritto per i quali è richiesto il parere.
Nell’istanza le parti specificano se, in sede di pubblicazione del parere, debbano essere esclusi i dati sensibili
espressamente segnalati.
L’istanza reca l’impegno a non porre in essere atti pregiudizievoli ai fini della risoluzione della questione fino al
rilascio del parere.
Art. 5 Ordine di trattazione delle istanze
Nella trattazione delle istanze pervenute, viene data priorità:
alle istanze con manifestazione di volontà di due o più parti di attenersi a quanto stabilito nel parere;
alle istanze concernenti appalti di importo superiore alla soglia comunitaria;
alle istanze presentate dalla stazione appaltante;
alle istanze che sottopongono questioni originali o di particolare impatto per il settore dei contratti pubblici;
alle istanze concernenti appalti di importo superiore a 40.000 euro.
Art. 6 Inammissibilità e improcedibilità delle istanze
Non sono ammissibili le istanze:
in assenza di una questione controversa insorta tra le parti interessate;
non presentate dai soggetti indicati all’art. 2, comma 2 del presente Regolamento;
manifestamente mancanti di interesse concreto al conseguimento del parere;
interferenti con esposti di vigilanza e procedimenti sanzionatori in corso di istruttoria presso l’Autorità;
di contenuto generico o contenenti un mero rinvio ad allegata documentazione e/o corrispondenza intercorsa tra
le parti;
volte ad un controllo generalizzato dei procedimenti di gara delle amministrazioni aggiudicatrici;
in caso di esistenza di un ricorso giurisdizionale avente contenuto analogo, che le parti hanno l’obbligo di
comunicare all’Autorità.
Le richieste dichiarate inammissibili, se riguardano, comunque, questioni giuridiche ritenute rilevanti, sono
trattate ai fini dell’adozione di una pronuncia dell’Autorità anche a carattere generale.
Le istanze divengono improcedibili in caso di:
sopravvenienza di un ricorso giurisdizionale avente contenuto analogo, che le parti hanno l’obbligo di
comunicare all’Autorità;
di sopravvenuta carenza di interesse delle parti;
di rinuncia al parere.
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Art. 7 Istruttoria
L’Ufficio valuta l’ammissibilità e la procedibilità delle istanze pervenute e in caso di valutazione positiva il
Presidente assegna le istanze ai singoli Consiglieri relatori.
Individuato il Consigliere relatore, l’Ufficio comunica alle parti l’avvio del procedimento e assegna un termine
non superiore a 5 giorni per la presentazione di memorie e documenti, ove mancanti.
L’Ufficio valuta, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite, la necessità di procedere
all’audizione delle parti interessate.
Il Consigliere relatore ricevuta la bozza di parere predisposta dall’Ufficio la approva o la modifica e la trasmette,
per il tramite dell’Ufficio, al Consiglio per il definitivo esame e l’ approvazione.
Art. 8 Approvazione del parere
Il Consiglio, previa relazione del Consigliere delegato, approva, anche con modifiche, il parere, entro trenta
giorni dalla ricezione dell'istanza, come risultante dal protocollo dell’Autorità.
Si applica la sospensione feriale dei termini dal 1° agosto al 31 agosto di ciascun anno.
Il termine è sospeso quando, anche su disposizione del Consiglio, è necessario acquisire documentazione
integrativa o effettuare un supplemento di istruttoria.
Art. 9 Archiviazione delle istanze
L’Ufficio provvede alle archiviazioni delle istanze inammissibili o improcedibili e comunica al Consiglio
mensilmente l’elenco delle archiviazioni predisposte.
Tutte le archiviazioni sono comunicate alle parti interessate.
Art. 10 Parere in forma semplificata
Il parere non vincolante può essere reso in forma semplificata nei casi in cui la questione oggetto dell’istanza
risulti di pacifica risoluzione, tenuto conto del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
In tali casi, l’Ufficio, in deroga all’art. 7, comma 4, predispone direttamente una bozza di parere con una
motivazione in forma semplificata anche attraverso il richiamo a precedenti pareri già adottati, che, previa
approvazione del Presidente, viene sottoposto all’approvazione del Consiglio.
Art. 11 Istanza di riesame
Il riesame, relativamente ad una questione controversa già definita con parere di precontenzioso ai sensi dell’art.
3 o ai sensi dell’art. 4, o per la quale sia stata disposta l’archiviazione, è ammesso al ricorrere di entrambe le
seguenti condizioni:
sono dedotte e documentate sopravvenute ragioni di fatto.
non è stato proposto ricorso giurisdizionale né avverso il parere di precontenzioso né avverso il provvedimento
che lo recepisce e sono scaduti i termini per proporre ricorso giurisdizionale.
Al riesame si applicano le disposizioni del presente Regolamento per quanto compatibili.
Il parere vincolante è impugnabile in via giurisdizionale ai sensi dell’art. 120 del Codice del processo
amministrativo.
Art. 12 Comunicazioni e pubblicità
Il parere approvato dal Consiglio viene comunicato alle parti interessate e successivamente trasmesso all’Ufficio
Comunicazione per la sua pubblicazione nel sito internet dell’Autorità.
Le comunicazioni tra l’Autorità e le parti interessate sono effettuate esclusivamente tramite posta elettronica
certificata ai sensi della normativa vigente.
28
Art. 13 Adeguamento al parere
La stazione appaltante e le altre parti, che abbiano manifestato la volontà di attenersi al parere, comunicano
all’Autorità – Ufficio Precontenzioso e Affari Giuridici - mediante PEC, entro 35 giorni dalla ricezione del
parere, la eventuale proposizione di ricorso avverso il parere ai sensi dell’art. 120 c.p.a. ovvero le determinazioni
adottate al fine di adeguarsi al parere stesso, ovvero l’avvenuta acquiescenza al parere.
In ogni caso le parti, anche quando non hanno manifestato la volontà di attenersi al parere, comunicano
all’Autorità – Ufficio Precontenzioso e Affari Giuridici - mediante PEC, entro 35 giorni dalla ricezione del
parere, le proprie determinazioni conseguenti al parere.
Nel caso di omissione o non veridicità delle comunicazioni di cui al presente articolo, si applica l’articolo 213,
comma 13, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, e a tal fine l’Ufficio Precontenzioso e Affari Giuridici
trasmette gli atti all’Ufficio dell’Autorità competente per l’applicazione delle sanzioni.
Art. 14 Entrata in vigore
Il presente Regolamento entra in vigore il giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale.
Introduzione
L’istituto del precontenzioso spicca tra le competenze più sensibilmente rinnovate dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione nel recente D.lgs 18 aprile 2016, n. 50[1]. Sebbene esso si presenti all’apparenza
come riproposizione di un istituto già in uso dal Codice del 2006, si tratta di un vero e proprio rilancio di
un istituto radicalmente rinnovato, a conferma della aspirazione del legislatore di offrire al mercato dei
contratti pubblici una istanza di revisione dei procedimenti in funzione deflattiva del contenzioso. Per la
prima volta, il precontenzioso compare in un autonomo articolo di legge, all’interno della parte VI, Capo
II, rubricato “Rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale” e, per la prima volta, l’istituto compare
all’interno di una disposizione autonoma, rubricata “Pareri di precontenzioso”, la quale scioglie - con una
formula sintetica - la prudentissima previsione del precedente Codice di “parere non vincolante
relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, eventualmente
formulando una ipotesi di soluzione” (art. 6, comma 7, lett. n).
Il precontenzioso odierno è, dunque, il frutto più maturo di un prudente, ma criticato e
travagliato iter legislativo e amministrativo. Dopo la fondativa e originaria previsione legale contenuta
nell’art. 6, comma 7, lett.n) del d.lgs 12 aprile 2006, n. 163, sull’impianto normativo sono intervenuti,
ancorché con effetti indiretti, numerosi interventi di legge[2]; e il Regolamento di recente pubblicazione
in Gazzetta Ufficiale - Nuovo Regolamento Anac sull’esercizio della funzione di componimento delle
controversie, d’ora in avanti Regolamento - rappresenta il quinto tentativo (il secondo nella nuova veste
di Anac) dell’Autorità di predisporre la disciplina di dettaglio al fine di regolare le condizioni di accesso al
procedimento, ammissibilità delle istanze, poteri istruttori, efficacia dei provvedimenti[3].
I regolamenti dell’Autorità hanno inciso su aspetti molto delicati e controversi, che sono stati
risolti nell’ottica di allargare quanto più possibile l’accessibilità all’istituto medesimo: tra questi, in
particolare la legittimazione attiva alla istanza di parere, nonché la previsione del potere di pronunciarsi
oltre la fase di gara. Sotto il primo profilo, l’indirizzo dei primi regolamenti dell’Autorità ha inteso
estendere l’applicazione del precontenzioso all’iniziativa, anche disgiunta, delle parti, estendendo in via
interpretativa la lettera della legge. In tal senso, il d.lgs 163/2006, ove prevedeva che l’iniziativa potesse
essere “della stazione appaltante e di una o più delle altre parti” (art. 6, comma 7, lett. n), D.lgs
163/2006), è stato interpretato nel senso di voler dare accesso all’elenco dei soggetti interessati, sia la
29
stazione appaltante sia una o più delle altre parti; inoltre, nella procedimentalizzazione della funzione, è
stato chiarito che il potere della iniziativa non si arresta alla intervenuta aggiudicazione, ma – purché sia
relativo le procedure di gara – potrebbe essere attivato anche durante la fase di esecuzione. Peraltro,
nello stesso senso si deve osservare che l’Autorità non ha mai declinato nei propri regolamenti la
possibilità offerta dalla seconda parte dell’articolo, che la abilitava a poter erogare il servizio anche a
titolo oneroso (“si applica l’articolo 1, comma 67, terzo periodo della legge 23 dicembre 2005, n. 266”).
Con successivi regolamenti, il procedimento di precontenzioso è stato snellito nelle forme, con la
possibilità degli uffici di optare per un parere con motivazione sintetica, e semplificato nelle procedure,
con particolare riguardo alla digitalizzazione delle reciproche comunicazioni tra le parti e con l’Autorità,
nella trasmissione delle memorie e dei documenti, al fine del contenimento dei tempi per la resa del
parere. Attraverso i pareri di precontenzioso l’Autorità ha, così, potuto marcare in modo sempre più
diffuso la sua presenza nel mercato degli appalti, guadagnando autorevolezza e credibilità nelle
pronunce, pur rimanendo sempre limitata ad un effetto di moral suasion idoneo a incidere sui
provvedimenti delle stazioni appaltanti.
Di contro, la mancanza di espressa previsione della efficacia vincolante del parere ne frenava
inesorabilmente l’affermazione. In sede giurisdizionale, le pronunce amministrative affermavano infatti
che i pareri resi dalla soppressa Avcp non contenevano “alcun precetto volto a modificare
autoritativamente la realtà giuridica su cui si innesta ... non è revocabile in dubbio che l 'Autorità ... si è
limitata a segnalare la circostanza all'amministrazione appaltante, senza annullare (non avendone il
potere) i relativi atti, ma sollecitando eventualmente l'esercizio dei poteri di autotutela (tale deve essere il
significo dell'invito a mettere in atto le necessarie azioni per garantire la conformità del suo operato alle
vigenti disposizioni normative) e dunque rispettando pienamente l'autonomia dell'ente locale, senza
imporgli alcun comportamento o attività necessitata”[4]. Peraltro, laddove veniva impugnato tale
parere, la difesa dell’Autorità avanzava la mancanza di effetti lesivi del parere sulle posizioni giuridiche
soggettive dei soggetti coinvolti. Emblematica appare a tal riguardo la pronuncia di un T.A.R., secondo
cui “è fondata l’eccezione pregiudiziale dell’ANAC di inammissibilità dell’impugnazione del suo parere
che, avendo natura facoltativa e non vincolante per la stazione appaltante, è privo di carattere lesivo”
[5]. L’effetto paradossale che ne derivava attestava che ogni successo processuale, invece di difendere e
rafforzare l’istituto stesso, rischiava invero di affossarlo.
Le novità dell’istituto nel nuovo (cd) Codice dei contratti pubblici[6]
Il più decisivo smarcamento finalizzato a tale novità istituzionale deriva dall’affermato carattere
vincolante del provvedimento finale, attualmente recepito nel D.lgs 50/2016, con una collocazione
autonoma nel capo II, della parte VI, rubricato “Rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale”. Brevi
considerazioni preliminari sulla collocazione formale della norma aiutano a evidenziare le aspettative
riposte dal legislatore nell’istituto: per la prima volta, esso assume considerazione autonoma all’interno
del Codice; per la prima volta, inoltre si parla di “precontenzioso”, laddove - nella vecchia versione - si
trattava di una funzione affidata all’Autorità per il componimento delle controversie in fase di scelta del
contraente, finalizzata all’emissione di un parere non vincolante.
Peraltro, l’intenzione del legislatore di voler affermare e valorizzare l’istituto, non solo dal punto
formale, è avvalorata e accompagnata da un’intensa e copiosa attenzione del Consiglio di Stato. Il
giudice amministrativo si è espresso sul punto una prima volta attraverso l’adozione del parere sullo
schema di Codice dei contratti pubblici[7]; e, una seconda volta, con il parere sullo schema di
Regolamento del precontenzioso che l’Anac ha inteso sottoporre, in via preventiva, in considerazione dei
delicati equilibri che sono sottesi alle novità recate dal nuovo Codice[8].
Nel primo parere, il Consiglio di Stato ha evidenziato che “questo metodo alternativo di
risoluzione delle controversie pone problemi e merita approfondimenti sul piano della compatibilità con
30
la delega e sul versante dell’armonizzabilità con il principio di indisponibilità dell’interesse legittimo, da
ultimo confermato dall’art. 12 del codice del processo (che limita alle posizioni aventi la consistenza di
diritto soggettivo la compromettibilità in arbitri delle controversie devolute al giudice
amministrativo)”[9]. In tal senso, per assicurare la compatibilità con la Costituzione e con la delega, il
Consiglio di Stato – consapevole della delicatezza della classificazione dell’istituto nella definizione di
ADR - ha suggerito la necessità di “evitare la trasformazione di questa procedura in un rimedio
alternativo alla giurisdizione amministrativa” ed ha auspicato la precisazione dell’impugnabilità del
parere vincolante innanzi agli organi della giustizia amministrativa. Il problema nasce, secondo
l’adunanza della Commissione speciale appositamente convocata per il parere, dalla compatibilità con il
principio di indisponibilità dell’interesse legittimo, secondo cui – del tutto comprensibilmente – solo le
posizioni di diritto soggettivo possono formare oggetto di compromesso in arbitri e non certo quelle di
interesse legittimo (e della corrispettiva posizione di potere della pubblica amministrazione).
Nel secondo parere, più articolato e specificamente dedicato al regolamento dell’istituto, il
giudice amministrativo – insieme ad una rigorosa e puntuale ricostruzione dogmatica del regolamento di
precontenzioso e del relativo potere di adottarlo, in capo all’Anac – ha affermato, per la prima volta,
l’inquadramento del precontenzioso nel quadro delle Alternative Dispute Resolution (ADR), pur
affermandone il marcato carattere di atipicità. Con l’espressione “ADR con indiscutibili tratti di
specialità” il Consiglio di stato ha inteso sottolineare che la procedura dovrebbe riposare sulla volontà
delle parti e dovrebbe consistere in un sistema binario, sulla base della presenza o meno dell’assenso
all’efficacia vincolante del parere[10]. Da questa premessa è derivato un incisivo intervento teso a
escludere ogni assimilazione dell’istituto con ogni istanza giurisdizionale[11]. Nella pars costruens,
peraltro, la lettura del Consiglio di Stato appare particolarmente rivolta a puntellare ed accompagnare il
potere regolamentare dell’Autorità, ritenuto altrimenti mancante di base legale o di incerta solidità,
ascrivendo il regolamento esaminato alla categoria dei regolamenti di organizzazione.
Considerazioni minime
L’istituto del precontenzioso, affermatosi come descritto, sembra dunque voler consacrare la formazione
di un nuovo pianeta nell’universo delle ADR, ancorché non manchino perplessità in proposito[12].
Appare, al momento, consolidato che l’istituto svolga funzioni di deflazione del contenzioso
giurisdizionale, al fine di garantire il contenimento dei tempi e dei costi del processo; e che sia
caratterizzato dalla particolare competenza dell’organo emanante il parere, che assume caratteristiche di
terzietà rispetto alle parti. L’adesione a tale procedimento avviene su base volontaria e consensuale,
laddove le parti sono tenute ad esprimere il preventivo assenso a volersi vincolare all’esito dello stesso.
Affinché questo assuma tratti di maggiore definitività, occorre tuttavia prestare attenzione
all’evolversi di alcune criticità, non ancora del tutto sciolte, per la verità soprattutto sul piano della
normativa primaria, e sottoposte dallo stesso Consiglio di Stato e dalla dottrina più attenta ad una più
attenta meditazione.
In sintesi, le principali riguardano: l’efficacia vincolante asimmetrica del parere, la questione dei
termini procedimentali e il coordinamento con la tutela giurisdizionale
In primo luogo, si pone l’incertezza che deriverà dalla cd efficacia soggettiva variabile del parere.
Si tratta, in altri termini, di verificare quali siano le conseguenze del caso in cui una sola parte si
sottometta preventivamente all’efficacia vincolante del parere (art. 3, comma 3, Regolamento) e il parere
vincolante comprometta, di fatto o di diritto, gli interessi dell’altra parte o di un’altra parte ancora[13].
In questo caso, le combinazioni possibili sembrano numerose perché il parere potrebbe ledere tanto la
parte che non si è pronunciata per la vincolatività del parere ma era direttamente interessata dal
provvedimento iniziale, quanto un controinteressato solo coinvolto a posteriori. Si consideri, inoltre, le
questioni che potrebbero sollevarsi nel caso in cui il privato pretenda di ottenere l’ottemperanza
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dell’amministrazione al parere dell’Autorità a cui la stazione appaltante non ha acconsentito
preventivamente a vincolarsi[14]. A tal riguardo, ferme restando tutte le conseguenze valutabili in senso
sfavorevole alla parte stessa in eventuale futuro processo, si pone l’ulteriore, ma collegato, problema
della possibile sopravvenienza della revoca del consenso prestato[15].
In secondo luogo, sembrano porsi questioni intorno ai termini dell’istituto, dettati in modo
particolarmente stringente dal legislatore e, parimenti, ripresi dal Regolamento dell’Anac. Si può
astrattamente ritenere che i tempi strettissimi possano, in effetti, comprimere una attenta valutazione
delle problematiche da parte dell’Anac, vanificando ab imo le aspirazioni del legislatore. Tuttavia, le
perplessità maggiori riguardano gli effetti dello spirare di detti termini: si pensi all’inutile decorso del
termine di 30 giorni per la pronuncia dell’Autorità e alle conseguenze della decisione tardiva, favorevole
a una parte e sfavorevole all’altra[16]; si pensi, altresì, alla assenza di un termine di decadenza per la
notifica dell’istanza, che contiene il rischio di creare uno strumento per aggirare i termini decadenziali
dell’impugnazione innanzi al TAR.
Un ulteriore insieme di questioni, di non poco momento, riguarda infine il coordinamento con la
tutela giurisdizionale e il regime delle impugnazioni[17]. A dispetto delle numerose cautele espresse dal
Consiglio di stato, il rischio è quello che il precontenzioso rivesta la funzione di una terza istanza paragiurisdizionale, antecedente alla fase giurisdizionale in senso stretto. L’Anac ha correttamente inserito
tra le cause di improcedibilità la semplice “esistenza di un ricorso giurisdizionale avente contenuto
analogo” (art. 6, comma 1, lett. g, Regolamento). Tuttavia, gli scenari che si aprono e gli interrogativi
che rimangono aperti sul punto sono molti: la dottrina più attenta, ad esempio, si è domandata quali
siano le conseguenze della mancata ottemperanza al parere; se l’impugnazione della decisione possa
attenere a vizi intrinseci del provvedimento o debba riguardare nuovamente la valutazione del
provvedimento impugnato; quale sia il rapporto con il nuovo rito particolare introdotto per la fase di
ammissione; se la determinazione negativa, con cui l’Anac esclude la sussistenza i vizi del procedimento
di gara possa essere impugnabile e quale sia l’atto corretto da impugnare[18]. Ma anche come si debba
intendere il rapporto e l’apparente sovrapposizione tra il primo e il secondo comma dell’art. 211 del
Codice, atteso che nell’articolo rubricato “Pareri di precontenzioso dell’Anac” compare un potere di
raccomandazione finalizzato all’autotutela per rimuovere gli effetti degli atti illegittimi e assistito da una
sanzione amministrativa pecuniaria. Sotto questo punto di vista, non si riesce a comprendere se il parere
di precontenzioso sia il presupposto per l’esercizio della raccomandazione oppure se il potere di
raccomandazione sia un potere del tutto svincolato e autonomo dall’istituto del precontenzioso.
Il Regolamento dell’Anac non appare, neanche astrattamente, idoneo a sciogliere del tutto tali
perplessità. Tuttavia esso - forte di una sperimentazione di un decennio in cui il mercato di riferimento
ha dimostrato di apprezzare la specializzazione tecnico giuridica e la terzietà di un soggetto indipendente
quale l’odierna Anac - esso si propone, al momento, come ulteriore e definitivo consolidamento di un
istituto indubbiamente estraneo alle categorie giuridiche dell’amministrazione di diritto continentale, ma
altrettanto indubitabilmente necessario allo snellimento e alla semplificazione del copioso contenzioso
che investe e rallenta le procedure di appalti e contratti pubblici in Italia.
[1] Per una introduzione sulle nuove competenze dell’Anac con particolare riguardo al precontenzioso, cfr. A. Scacchi,
Nuove funzioni e poteri dell’Anac, in M. L. Chimenti, Nuovo diritto degli appalti e linee guida A.N.AC., Nel Diritto
Editore, 1016, 44. In particolare, sulle nuove vesti del precontenzioso, cfr. G. Veltri, Il contenzioso nel nuovo codice dei
contratti pubblici: alcune riflessioni critiche, Relazione al Convegno”Il nuovo codice dei contratti pubblici”, Aula Magna
Spisa, Bologna, 23 maggio 2016.
[2] Dal punto di vista legislativo, l’istituto non ha subito mutamenti diretti, tuttavia non si possono non considerare notevoli
effetti indiretti sul precontenzioso di provvedimenti che hanno riguardato in via diretta la giurisdizione “speciale” in materia
di appalti pubblici. Si pensi, a tal proposito, al recepimento della Direttiva 2007/66/Ce, cd direttiva ricorsi, recepita con d.
lgs 20 marzo 2010 Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 n. 53 oppure alla riforma del processo amministrativo, che ha
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introdotto il codice del processo amministrativo, Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Sul punto, cfr. gli spunti di L.
Mascali, Brevi note a margine del recepimento della direttiva 2007/66/CE. Il precontenzioso davanti all’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, XXIV, 2010, n. 3, 1015- 1046.
[3] Sul punto, il recente regolamento è Nuovo Regolamento Anac sull’esercizio della funzione di componimento delle
controversie del 13 ottobre 2016, pubblicato in G.U.R.I., Serie generale, 19 ottobre 2016, n. 245. Prima dell’attuale, si sono
succeduti, nel corso del tempo, i seguenti regolamenti: Regolamento Avcp sul procedimento per la soluzione delle
controversie del 10 gennaio 2008; Nuovo Regolamento Avcp sul procedimento per la soluzione delle controversie del 1
marzo 2012; Regolamento Avcp sul procedimento per la soluzione delle controversie del 24 aprile 2013; Nuovo
Regolamento Anac sull’esercizio della funzione di componimento delle controversie del 27 maggio 2015.
[4] Consiglio di Stato, sez. IV sentenza 12 settembre 2006, n. 5317.
[5] T.A.R. Bolzano, sent. 27 agosto 2015, n. 270.
[6] Cfr. M. Lipari, La tutela giurisdizionale e “precontenziosa” nel nuovo Codice dei contratti pubblici (D.lgs 50/2016), in
www.federalismi.it, nota 1. Sottolinea molto meticolosamente l’autore che l’oggetto del D.lgs 50/2016 non è quello di
Codice dei contratti pubblici, bensì quello di “Schema di decreto legislativo recante disposizioni per l’attuazione delle
direttive 2014/23/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure di appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il
riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”. Cfr. M. Lipari,
[7] Consiglio di Stato, Commissione speciale 21 marzo 2016, parere 1 aprile 2016, n. 855.
[8] Consiglio di Stato, Sez. normativa, Parere 14 settembre 2016, n. 1922.
[9] Consiglio di Stato, parere 1 aprile 2016, n. 855, annotazione a margine dell’art. 211 (Pareri di precontenzioso dell’Anac),
p. 214.
[10] Consiglio di Stato, Sez. normativa, Parere 14 settembre 2016, n. 1922..
[11] Con penetrante attenzione alla nomenclatura utilizzata nella bozza, il Consiglio di Stato ha indirizzato l’Anac verso la
chiarificazione di alcuni di termini e istituti ritenuti eccessivamente processuali nella bozza di Regolamento: in tal senso, è
stato proposto di adottare la nozione di “questioni insorte tra le parti” ritenuta più precisa di quella di “controversie”
(Regolamento, art. 2, comma 1); ha invitato l’Anac a sopprimere la già prevista sospensione dei “termini feriali” per
l’impugnazione; respinge i tentativi dell’Anac di proporre una sorta di selezione discrezionale delle istanze, sulla base del
valore della controversia.
[12] M. Lipari, Il pre- contenzioso, Relazione svolta al convegno di studi dell’8 luglio 2016, “Il Nuovo Codice dei Contratti
Pubblici”, organizzato a Cortina dall’Associazione Veneta degli avvocati amministrativisti, in www.giustiziaamministrativa.it, 28. La qualificazione come ADR ha sempre destato serie perplessità in dottrina e i tentativi di qualificare il
precontenzioso come tale sono stati sempre assai timidi: L. Ghezzo, M. Cozzio, La tutela cautelare ante causam nel codice
degli appalti pubblici: origini comunitarie alla base di uno strumento ancora poco utilizzato, in Informator, Rivista giuridico
amministrativa per il Trentino Alto Adige, 2, 2009, 115 ss.
[13] Consiglio di Stato, Sez. normativa, Parere 14 settembre 2016, n. 1922.
[14] G. Veltri, Il contenzioso nel nuovo codice dei contratti pubblici: alcune riflessioni critiche, Relazione al Convegno “Il
nuovo codice dei contratti pubblici”, Aula Magna Spisa, Bologna, 23 maggio 2016.
[15] Consiglio di Stato, Sez. normativa, Parere 14 settembre 2016, n. 1922, 21.
[16] M. Lipari, Il pre- contenzioso, Relazione svolta al convegno di studi dell’8 luglio 2016, “Il Nuovo Codice dei Contratti
Pubblici”, organizzato a Cortina dall’Associazione Veneta degli avvocati amministrativisti, in www.giustiziaamministrativa.it, 28.
[17] M. Lipari, Il pre- contenzioso, Relazione svolta al convegno di studi dell’8 luglio 2016, “Il Nuovo Codice dei Contratti
Pubblici”, organizzato a Cortina dall’Associazione Veneta degli avvocati amministrativisti, in www.giustiziaamministrativa.it, 22.
[18] M. Lipari, La tutela giurisdizionale e “precontenziosa” nel nuovo Codice dei contratti pubblici (D.lgs 50/2016), in
www.federalismi.it, passim.
* Le opinioni sono espresse a titolo personale e non vincolano in nessun modo l’Ente di appartenenza
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