Lectio Dom XXXIII T O A

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Domenica XXXIII del Tempo Ordinario - A
I discepoli di Gesù in veglia operosa
Pr 31, 10-31: “Una donna forte chi potrà trovarla?”
Salmo 127/128: “Beato chi teme il Signore”
1Tes 5, 1-6: “Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo”
Mt 25, 14-21: “Sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto”
Tema generale
La liturgia della XXXIII domenica del tempo ordinario ci aiuta ad entrare nel clima
spirituale dell’attesa del ritorno del Signore: vegliare in modo operoso e fecondo per accogliere il
Signore che viene! Siamo ormai alla fine dell’anno liturgico e fra due domenica entreremo nel
tempo di Avvento. La prima lettura tratta dal libro dei Proverbi presenta l’immagine di una donna
saggia ed operosa, che rende la sua casa accogliente e i suoi familiari felici. E’ forte, della fortezza
spirituale che la rende icona del discepolo che veglia in attesa del ritorno del Signore. Il salmo
127/128 canta la beatitudine di chi teme il Signore perché la sua sposa è come vite feconda e i suoi
figli come virgulti di ulivo. Paolo, nella prima lettera ai Tessalonicesi ricorda che il giorno del
Signore verrà all’improvviso, come un ladro di notte, perciò i discepoli sono sempre vigilanti e
sobri, pronti alla sua venuta. Il Vangelo di Matteo ci presenta l’ultima delle quattro parabole sulla
vigilanza, quella famosa dei talenti, che troviamo inserita nel grande discorso escatologico sugli
avvenimenti che caratterizzano gli ultimi tempi, prima del ritorno glorioso del Signore.
Il Signore se ne va consegnandoci i suoi beni, ma ritornerà
Matteo al cap 25 v 14 introduce l’ultima parabola dicendo che un uomo è partito per un
viaggio. E questo tale se ne va consegnando ai servi tutto quello che è suo. Notiamo che non fa un
deposito, ma una consegna. Il verbo παρέδωκεν, consegnare è molto significativo. Partendo per un
viaggio: “chiamò i suoi servi, consegnò loro i suoi beni”. Ha consegnato ai suoi servi quello che è
suo, lo ha messo a disposizione, lo ha donato. E la parabola precisa che a uno diede cinque talenti,
a un altro due, a un altro uno “a ciascuno secondo la sua capacità, e partì”. Questo termine
capacità, in greco δύναμις (dynamìs), esprime che in ciascuno c'è una potenza d'amore che non si
può calcolare in termini quantitativi – cinque, due, uno – con una constatazione esteriore. Il dono
che è conferito a ciascuno è sempre assoluto, come in ogni vocazione. È il dono proprio di ogni
vocazione. È il dono che riguarda ogni creatura umana nella sua particolare identità. È quel dono
per cui Dio è impegnato in una relazione unica e totale con ciascuna delle sue creature.
Questo è il tempo nel quale Il Signore se ne è andato, ma è il tempo nel quale questa
potenza d'amore è molto attiva. È una dynamìs efficace, un dono che si configura, con la particolare
identità di ciascuno di noi, che si misura con tutte le vicissitudini del nostro tempo, della nostra
condizione umana, dentro la storia. Un dono che per ciascuno di noi è il tempo della potenza
d’amore che ci è stata donata. Per ciascuna creatura umana questo tempo si svolge come un dono
d'amore ci è stato consegnato.
L’operosità dell’amore
Il versetto 19, dice: “dopo molto tempo”. Quanto è lungo questo tempo? Quanto dura? Qui
l’evangelista Matteo usa il termine kronos, che nel suo vangelo compare due volte: qui e nel
capitolo 2. Quando i Magi sono interrogati da Erode: “Quanto tempo fa è nato?”. Kronos è il tempo
delle creature, il tempo che ci viene donato. I servi della parabola siamo noi, alle prese con il dono
consegnato, per riconosce il Donatore, per accoglierlo nella nostra vita, in questo tempo.
Nel nostro tempo di creature umane siamo alle prese con quel dono che siamo noi stessi, e
ciascuno di noi è interpellato da Dio per essere quella creatura chiamata da Lui, che si presenta a
Lui, si consegna a Lui. E i servi vanno e “operano”. Chi “aveva ricevuto cinque talenti ( …. ) andò
subito a impiegarli” questo impiego dei talenti ricevuti è un'opera bella, un modo di operare che
condivide l’opera di Dio.
Operare significa apprendere la metodologia che abbiamo meditato in un'altra parabola (Mt
20, 1-15) qualche domenica fa: la parabola del padrone che è molto affezionato alla sua vigna e che
convoca continuamente operai per la sua vigna. E’ un padrone che ci tiene a far sì che tutti
lavorino nella sua vigna, anche solo un'ora, anche mezz'ora, anche un minuto: tutti nella sua vigna.
Un modo di operare che permette alla nostra vita di condividere l’operosità del padrone della
vigna, il suo amore per la vigna, il suo lavoro per la vigna. Infatti il vero lavoratore della vigna, il
vero operaio instancabile, da prima dell'alba sin dopo il tramonto, è proprio Lui.
Nella prima lettura di questa domenica si parla della donna che è sveglia prima dell'alba e
lavora sino a notte inoltrata. Essa è immagine della Sapienza, del rivelarsi di Dio nella sua opera
che conferisce bellezza al nostro vivere. Troviamo lo stesso termine nell'episodio che introduce il
racconto della Passione: a Betania, c’è la donna che versa profumo preziosissimo sul capo di Gesù.
Ma la gente presente protesta. Gesù la difende dicendo: ha fatto una opera bella per me. “Perché
infastidite questa donna? Ha compiuto un'opera (ergon kalòn) un'opera bella per me” (Mt 26, 10).
Questo modo di operare di Dio, così gratuito, rende visibile la bellezza del nostro vivere
umano: vivere da figli amati è l’opera bella. E’ l’operare in continuità con il lavoro del vignaiolo
che è Dio, è il modo di condividere la sua modalità di rivelarsi, di parlare, di comunicare, di
operare nella gratuità dell'impresa. E’ il gesto compiuto da quella donna a Betania, che viene
considerato come uno spreco. Ma è uno spreco clamoroso, perché esprime la gratuità di un'opera
d'amore che conferisce bellezza alla vita umana. E questa opera d'amore unisce la nostra vita a
quella di Cristo.
Nel vangelo di Matteo cap 11 il v 2 si parla di opere a riguardo del Messia. Troviamo
Giovanni Battista in carcere che è venuto a conoscenza di tanti fatti su Gesù e allora pone un
interrogativo ai suoi discepoli: “avendo sentito parlare delle opere del Cristo” le opere del Messia,
ἕργα τού Χριστού (erga tou Kristou), “mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: Sei tu colui che
deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” Giovanni chiede: “ma sei tu?” Si chiede se le opere
di Cristo sono opera di Dio. Il Messia compie le opere di Dio, e noi con lui possiamo operare nella
gratuità dell’amore. E così si impara a parlare con la lingua di Dio.
La parabola dei talenti ci dice che il Padrone chiama il primo servo, poi il secondo, e infine
chiama il terzo servo, che non ha capito il dono ricevuto ed ha paura. (un talento all’epoca
equivaleva a circa 43 Kg di argento) Questo servo chiude ogni cosa entro i limiti di un impegno,
perché a suo modo, è un personaggio impegnato e fa anche una bella fatica per scavare una fossa,
in cui nascondere il talento, deve anche custodirlo perché non venga rubato: lo custodisce, non lo
sperpera, non lo spreca. Si rende conto che quel talento è prezioso, che è importante, che è una
provocazione impegnativa per la sua vita, ma non comprende il dono gratuito. Svolge anche una
certa attività, anche se con un po’ di fastidio, si spreme con un po' di fatica, di sudore, ma si chiude
dentro a dei limiti, i limiti della sua ristrettezza mentale e affettiva. Il suo comportamento è un
comportamento formalmente corretto, dal punto di vista normativo, si comporta come coloro che
hanno ricevuto un deposito, ma non un dono.
Soltanto che quello che ha ricevuto non era un deposito, era una voce che parlava, voce
sconosciuta ma che parlava al cuore. E’ la voce interiore che attiva un percorso di ascolto della
Parola, un percorso che ci consente di apprendere la lingua di Dio. La lingua dell’amore che è
l'operosità della vita, è la bellezza della vita consegnata, consumata in una relazione d'amore.
Questo servo ha paura e si comporta in questo modo perché vuole mantenere le distanze.
Custodisce un deposito ma non accoglie la relazione gratuita che gli viene offerta per amore. La
sua vita è altrove rispetto a Dio, la vita è sua e la vuole gestire a modo suo, poi magari cerca anche
di fare bene il suo mestiere di depositario, s’impegna ma senza coinvolgersi.
La falsa immagine di Dio
Il dialogo del padrone con l’ultimo servo è molto interessante. Il padrone è tornato e questo
servo si presenta dicendo: “Signore io so che tu sei” (v 24). Questo servo crede di sapere: sta
dicendo al padrone: io ti conosco. “Io so che tu sei un uomo duro. Che mieti dove non hai seminato
e raccogli dove non hai sparso. Per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra. Ecco qui il
tuo” Ma che cosa vuol dire conoscere? Conosce una falsa immagine del suo Signore e di fronte a
questa immagine non ha dubbi: Dio è un padrone severo ed esigente ed io non voglio avere a che
fare con lui. Meglio stare alla larga, si, fare il proprio dovere ma non di più. Questo servo non
conosce la gratuità dell’amore. Lui sa, parla la lingua della paura, che è anche la nostra lingua, la
lingua della sfiducia. In un mondo come questo c'è poco da fidarsi, naturalmente.
Sta dicendo: Ho paura di te, non so come si metterà. Intanto io mi sono messo al sicuro
perché quello che tuo resta tuo. Questo servo non ha acquisito la potenza d'amore come un dono
che rende dinamica e creativa la sua vita. E’ stato ad osservare e poi dice: ho conservato il tuo in
quanto tuo, io non c'entro con te, non voglio avere nulla a che fare con te, ho fatto le cose in modo
tale che non voglio guai. Intanto lascia il talento sottoterra. La parabola dice che dopo molto tempo
il Signore ritorna, ma questo servo è vissuto per tutto quel lungo tempo sperando che non il
padrone non ritornasse. Anche perché se ritorna, che fastidio!
In più c'è anche un particolare grammaticale, nel versetto 24 è detto: “Colui che aveva
ricevuto un solo talento”, aveva ricevuto, in greco è un participio perfetto. Mentre negli altri casi è
un participio aoristo. Se viene usata una forma verbale diversa qualcosa significa: i primi servi
hanno ricevuto il dono e lo hanno accolto nella loro vita una volta per tutte. Questo tale invece lo
tiene lì, è come se non l'avesse mai ricevuto; si l’ha ricevuto, ma non l'ha mai accolto veramente,
non l'ha mai assunto, non si è sentito coinvolto nell’opera di Dio. Quel talento è quasi un fastidio in
più. Quella voce che l’ha convocato è rimasta insignificante perché il servo ha continuato a parlare
la sua lingua, che è la lingua della paura: ho avuto paura.
Il Signore che consegna i suoi talenti sta rivolgendo oggi a noi la sua chiamata, a me
personalmente, è la chiamata di Dio che consegna tutti i suoi doni. È il tempo nel quale sta
tornando, e noi dobbiamo imparare a riconoscerlo. È il tempo della veglia, della conversione. È il
tempo della pedagogia di Dio che interpella il nostro cuore per apprendere la lingua dell’amore
operoso. I suoi talenti sono molto preziosi, per attendere con amore il suo ritorno.
Il servo che ha sepolto il talento viene definito “malvagio e infingardo”. Cattivo e pigro.
Qui c'è di mezzo la pigrizia. Ma pigrizia fino ad un certo punto, perché in realtà lui ha anche
faticato, ha le sue ansie, i suoi affanni, non è uno spensierato, tant'è vero che è pieno di paure. Ma
la pigrizia qui viene caratterizzata come una mancanza di ascolto della voce, una sordità nei
confronti della voce. Una sordità che dev'essere guarita, che dev'essere educata, che ancora
dev'essere sintonizzata sulla lingua di Dio.
Gli altri servi della parabola sono segnalati per l’operosità e la gioia a cui sono ammessi:
“entra nella gioia del tuo padrone” .A questo punto il termine usato non è padrone ma Kyrios, è il
Signore Gesù, che è tornato e vuole raccogliere il frutto dell’amore. Perciò raddoppia il dono, lo
rende sempre più abbondante: “entra nella gioia del tuo padrone”, una prima volta, una seconda
volta, “entra nella gioia del tuo padrone”. Nel vangelo di Matteo si parla di gioia solo altre tre
volte: al cap. 2, 10 “I Magi videro la stella, e si rallegrarono di una grande gioia”. C'è anche la gioia di
quel tale nella parabola del Regno che ha trovato un tesoro e poi lo copre. È il campo in cui ha
lavorato tutta la vita e poi va, vende tutto quello che ha e lo compera pieno di gioia (Mt 13, 44). E
poi nel cap 28, v. 8 c'è la gioia delle donne al sepolcro. È la gioia della vita cristiana: la risurrezione!
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