Prime pagine - Codice Edizioni

Paul Davies
Uno strano silenzio
Siamo soli nell’universo?
Traduzione di Eva Filoramo
EDIZIONI
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Paul Davies
Uno strano silenzio
Siamo soli nell’universo?
Progetto grafico: studiofluo srl
Impaginazione: Maria Beatrice Zampieri
Redazione: Daiana Galigani
Coordinamento produttivo: Enrico Casadei
Paul Davies
The Eerie Silence. Renewing Our Search for Alien Intelligence
Copyright © 2010 by Paul Davies
All rights reserved
© 2012 Codice edizioni, Torino
Tutti i diritti sono riservati
ISBN 978-88-7578-266-5
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Indice
Prefazione
vii
Capitolo 1
C’è qualcuno là fuori?
3
Capitolo 2
La vita: mostruosa coincidenza o imperativo cosmico?
27
Capitolo 3
Un’atmosfera ombra
47
Capitolo 4
Quanta intelligenza c’è là fuori?
69
Capitolo 5
Il nuovo seti: estendere la ricerca
97
Capitolo 7
aliena
Capitolo 8
159 Intelligenza
prove di una diaspora galattica
145 Magia
Capitolo 6
121 Le
postbiologica
Capitolo 9
175 Primo
contatto
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Capitolo 10
203 Chi
parla per conto della Terra?
Appendice
217 Breve
storia di seti
219 Note
233 Indice
analitico
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Prefazione
Nell’agosto del 1931 Karl Jansky, radioingegnere dei Bell Telephone Laboratories di Homdel, New Jersey, fece una scoperta scientifica fondamentale grazie a un attacco di quella che viene chiamata
serendipità. Jansky aveva il compito di studiare una fastidiosa serie di
scariche elettrostatiche che interferivano con le comunicazioni telefoniche intercontinentali. Per capire cosa stesse succedendo Jansky
costruì una semplice antenna con un montante di metallo, la montò
su quattro pneumatici perché potesse ruotare e cominciò ad analizzare i rumori radiofonici di fondo che provenivano da diverse direzioni. Questo strumento sgangherato generava un output tramite
una specie di stampante a inchiostro.
Ben presto Jansky cominciò a rilevare vere e proprie tempeste generate anche a molti chilometri di distanza; ma quello che lo lasciava
più perplesso era un sibilo di sottofondo che sembrava avere un ciclo
di ventiquattrore. Intrigato da questa particolarità decise di andare
più a fondo; così facendo scoprì che il periodo del segnale era di 23
ore e 56 minuti, durata nota agli astronomi come giorno siderale, ossia
il tempo che la Terra impiega a compiere una rotazione su se stessa
relativamente alle stelle più lontane (in contrapposizione con il giorno
solare, ossia il tempo che impiega a ruotare relativamente al Sole). La
periodicità siderale implicava che la sorgente del segnale radio fosse
situata da qualche parte nello spazio più profondo. Alla fine Jansky
concluse che queste scariche elettrostatiche dovevano provenire dalla
Via Lattea. Prima che potesse proseguire con i suoi studi, però, la
società per cui lavorava gli assegnò una serie di altri compiti.
Ecco come, mantenendo il classico basso profilo, è nata una vera
e propria disciplina scientifica: la radioastronomia. Nessuno squillo di
tromba, nessuna medaglia1. E i progressi successivi, come succede
spesso nel campo scientifico, sono arrivati con la guerra.
Lo sviluppo del radar durante la Seconda guerra mondiale diede una spinta enorme alla crescita della potenza e della fedeltà dei
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ricevitori radio, e negli anni immediatamente successivi alla fine
del conflitto i fisici e gli astronomi colsero la palla al balzo: con attrezzature belliche in disuso cominciarono a costruire i primi veri
radiotelescopi, dotati di antenne enormi che consentivano loro di
“sintonizzarsi sull’universo”.
Più o meno in questo periodo – siamo intorno agli anni Cinquanta – ad alcuni scienziati apparve improvvisamente chiaro che i
radiotelescopi fossero abbastanza potenti per comunicare attraverso
distanze interstellari, e che se ci fosse stato qualche essere intelligente
su altri pianeti sarebbe stato in teoria possibile, per gli uomini, ricevere un loro messaggio radio. Il 19 settembre 1959 la prestigiosa
rivista scientifica “Nature” pubblicò un articolo di due fisici della
Cornell University, Giuseppe Cocconi e Philip Morrison, dal titolo
Searching for Interstellar Communications (alla ricerca di comunicazioni
interstellari), in cui gli autori invitavano i radioastronomi a cercare i
messaggi radio di civiltà aliene. Cocconi e Morrison sapevano bene
che la loro idea era solo frutto di un’ipotesi, ma conclusero l’articolo
con la seguente osservazione: «È difficile fare una stima delle probabilità di successo; ma se non la cerchiamo, la probabilità di successo
è di certo pari a zero»2.
L’anno seguente la sfida fu colta da un giovane astronomo, Frank
Drake, a cui ho deciso di dedicare il libro. Drake utilizzò un radiotelescopio situato in West Virginia per iniziare a cercare segnali
radio di provenienza aliena, e da questo progetto pioneristico nacque il programma di ricerca internazionale noto come seti. Si tratta dell’acronimo di Search for Extraterrestrial Intelligence (“ricerca di
un’intelligenza extraterrestre”), un programma grazie al quale dagli
anni Sessanta del xx secolo un eroico gruppetto di radioastronomi
sta perlustrando i cieli alla ricerca di qualsiasi cosa che indichi che
non siamo soli nell’universo.
Nel 2010 seti ha ufficialmente compiuto cinquant’anni, una
buona occasione per fare il punto della situazione. Questo libro è
un omaggio alla dedizione, alla professionalità e al contagioso ottimismo di tutti i ricercatori di seti, in particolare al coraggio e alla
visione di Frank Drake.
L’argomento di cui seti si occupa è molto più astratto rispetto a
quelli trattati dalla scienza tradizionale. Questo vuol dire che se da
un lato è saggio prendere cum grano salis ogni discussione sulle civiltà
aliene, dall’altro la prudenza e lo scetticismo non devono impedirci
di avvicinarci alla ricerca di intelligenze extraterrestri in modo me-
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todico e penetrante, grazie alle informazioni di cui siamo entrati in
possesso con la migliore ricerca scientifica.
Con tale spirito ho scritto questo libro: mi sono preoccupato
di separare i fatti e le teorie in cui nutriamo una certa fiducia da
riflessioni ragionevoli ma non dimostrate e dalle ipotesi più astruse,
queste ultime in gran parte ispirate da idee nate nel campo della
fantascienza.
Quando il progetto seti ebbe inizio io ero ancora uno studente
delle scuole superiori, e sebbene fossi vagamente a conoscenza della
sua esistenza la mia comprensione del concetto di vita al di fuori
della Terra derivava quasi del tutto da idee raccolte qua e là nei libri
di fantascienza. Come molte persone ho imparato qualcosa in più su
seti dalle molte apparizioni televisive del carismatico scienziato Carl
Sagan: il suo Contact e il film che ne è stato tratto hanno convinto la
gente che seti sia un’avventura umana assolutamente unica nel suo
genere. Negli ultimi anni ho conosciuto i personaggi più importanti
della storia di seti piuttosto bene; molti di loro oggi lavorano al seti
Institute, in California. Gran parte di quello che ho scritto in questo
libro è frutto della mia lunga e feconda frequentazione con loro,
in particolare con Frank Drake, Jill Tarter, Seth Shostak e Doug
Vakoch.
Non volevo soltanto scrivere un libro vagamente celebrativo; al
contrario, ho deciso di affrontare con uno sguardo profondo e pungente gli scopi e le ipotesi di tutta l’impresa. Mentre scrivevo mi
sono sempre chiesto se non fosse possibile che ci stessimo perdendo
qualcosa di importante: i vecchi modi di pensare sono duri a morire, e a un progetto che si trovi alla soglia dei cinquant’anni qualche
scossone non può che far bene. Nel febbraio 2008 ho tenuto un
seminario presso l’Arizona State University dal titolo Il suono del silenzio: lo scopo era stimolare modi radicalmente nuovi di affrontare
l’evocativa domanda “siamo soli?”. I contenuti di questo libro riflettono in larga parte le discussioni che hanno avuto luogo durante il
seminario, e per questo ringrazio tutti i partecipanti.
Ci sono alcuni ringraziamenti speciali che vorrei fare. In primissimo luogo vorrei ringraziare mia moglie Pauline Davies, giornalista
scientifica per vari media, profondamente scettica e accanita sostenitrice dell’accuratezza fattuale e dei ragionamenti ben strutturati.
Pauline non soltanto ha colto al volo molti errori, ma mi ha aiutato
a far chiarezza su un gran numero di questioni e ha contribuito con
svariate idee che compaiono nel testo senza essere specificamente
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citate come sue. Le mie posizioni sull’argomento si sono formate
in gran parte durante le molte, profonde discussioni che abbiamo
avuto nel corso degli anni.
Carol Oliver, ex giornalista, scienziata del seti e oggi astrobiologa, è stata una collega preziosa nonché mia sostenitrice durante
la mia carriera. Gregory Benford, James Benford, David Brin, Gil
Levin e Charles Lineweaver mi hanno dato ottimi riscontri critici su
alcune parti di questo libro. Il mio agente letterario John Brockman
è stato per decenni una fonte di incoraggiamento e di supporto per
la mia attività di scrittore. I miei editor Amanda Cook e Will Goodland hanno seguito il progetto con abilità ed empatia; il testo è
molto migliorato grazie alle dettagliate critiche di Amanda.
Per ultimo un enorme grazie a Frank Drake, le cui lezioni e i
cui articoli mi hanno grandemente ispirato e mi hanno portato, per
primi, ad addentrarmi in questo campo d’indagine.
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Capitolo 1
C’è qualcuno là fuori?
L’assenza dell’evidenza non è la stessa cosa dell’evidenza dell’assenza.
Donald Rumsfeld (sulle armi di distruzioni di massa)
Cosa succederebbe se
et
telefonasse domani?
Una fredda e nebbiosa mattina dell’aprile 1960 un giovane astronomo di nome Frank Drake prese silenziosamente il controllo del
radiotelescopio di 26 metri dello us National Radio Astronomy Observatory di Green Bank, West Virginia. Poche persone compresero
che tale momento fosse un punto di svolta per la scienza. Con fare
lento e metodico, Drake puntò il gigantesco strumento verso una
stella di tipo solare nota come Tau Ceti, lontana 11 anni luce, si
sintonizzò su 1420 MHz e si sedette ad aspettare1. La sua fervente
speranza era che esseri alieni su un pianeta in orbita attorno a Tau
Ceti potessero star inviando segnali radio nella nostra direzione, e
che questo potente radiotelescopio fosse in grado di intercettarli.
Drake fissò il ricevitore a getto d’inchiostro che registrava ciò
che l’antenna stava intercettando, con spasmi intermittenti accompagnati dal sibilo dell’alimentazione audio. Dopo circa mezzora
giunse alla conclusione che non ci fosse nulla di significativo che
provenisse da Tau Ceti: soltanto le solite scariche elettrostatiche e il
rumore di fondo naturale dello spazio. Fece un sospiro profondo e
cambiò attentamente l’orientamento della grossa antenna a favore di
una seconda stella, Epsilon Eridani. All’improvviso dall’altoparlante
esplosero una serie di botti rumorosi e l’ago della stampante cominciò a muoversi freneticamente avanti e indietro. Drake per poco
non cadde dalla sedia: era chiaro che l’antenna aveva intercettato un
forte segnale artificiale. L’astronomo era stato colto di sorpresa e per
lungo tempo rimase immobile lì dov’era. Poi, ripreso possesso delle proprie facoltà, spostò il telescopio leggermente fuori dal target:
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il segnale si attenuò. Ma quando rimise l’antenna nella posizione
iniziale, il segnale era scomparso! Poteva trattarsi davvero di una
fugace trasmissione di et? Drake subito intuì che captare un segnale
di una civiltà aliena al secondo tentativo sarebbe stato troppo bello
per essere vero. La spiegazione doveva essere in una sorgente umana
e, come previsto, in seguito venne fuori che il segnale era stato prodotto da una postazione militare radar segreta.
Con questi inizi modesti – che presero il nome di progetto Ozma,
dal mitico Regno di Oz – Frank Drake fu il pioniere del più ambizioso e potenzialmente significativo progetto di ricerca della storia.
Noto come seti, Search for Extraterrestrial Intelligence (ricerca di intelligenza extraterrestre), questo progetto cerca di rispondere a una
delle più grandi questioni esistenziali: “siamo soli nell’universo?”.
La maggior parte del programma seti si basa sul proposito iniziale
di Drake di perlustrare il cielo con i radiotelescopi alla ricerca di un
indizio di un messaggio proveniente dalle stelle. Un tentativo che
punta in alto, con tutta evidenza. Le conseguenze di un successo
sarebbero davvero incredibili, con un impatto maggiore rispetto alle
scoperte di quelle di Copernico, Darwin e Einstein tutte insieme.
Ma è la ricerca di un ago in un pagliaio, senza nessuna garanzia che
l’ago esista davvero. A parte uno o due incidenti intriganti (di cui
parlerò oltre), tutti gli sforzi sono stati accolti sinora da uno strano
silenzio. Cosa ci dice questo silenzio? Che non ci sono alieni? Oppure che stiamo cercando la cosa sbagliata, nel luogo e nel tempo
sbagliati?
Gli astronomi di seti dicono che il silenzio non è una sorpresa:
semplicemente, non hanno ancora guardato abbastanza, e per un
tempo abbastanza lungo. Ad oggi i ricercatori hanno osservato solo
poche migliaia di stelle in un raggio di circa 100 anni luce. Paragoniamo questi dati alla scala della nostra galassia nel suo intero: 400
miliardi di stelle sparse in uno spazio di più di 100.000 anni luce; e
ci sono miliardi di altre galassie... Ma le potenzialità di ricerca aumentano ogni giorno che passa, seguendo una legge analoga a quella
di Moore per i computer: gli apparecchi raddoppiano la loro potenza ogni uno o due anni, e altrettanto impetuosamente crescono
l’efficienza degli strumenti e la velocità dell’elaborazione dei dati.
Oggi tutto quest’ambito è destinato a migliorare sensibilmente con
la costruzione di 350 radiotelescopi collegati tra loro ad Hat Creek,
nella California del Nord. L’Allen Telescope Array, dal nome del
benefattore Paul Allen, metterà gli scienziati alla ricerca di segnali
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alieni nella condizione di poter sorvegliare una porzione della galassia molto più ampia. La struttura è gestita dall’università della California a Berkeley e dal seti Institute, dove lavora oggi Frank Drake.
L’istituto resta ottimista nei confronti delle prospettive di successo,
e in frigo c’è sempre una bottiglia di champagne in previsione di un
rilevamento che metta fine ai dubbi.
È facile immaginarsi la scena che si verificherebbe se l’atteggiamento ottimista fosse corretto, e se si trovasse presto qualcosa. Un astronomo è stoicamente seduto alla centrale di controllo dello strumento,
i piedi su una scrivania invasa da fogli. Sfoglia un libro di matematica
con aria assente. Per lui, e per dozzine di altri scienziati coinvolti nel
progetto seti, questa è la routine. Ma oggi è diverso. All’improvviso l’astronomo annoiato è distolto dalle sue fantasticherie dal suono
stridulo e distinto di un allarme: il suono è generato dall’algoritmo
informatico ideato per individuare segnali radio “strani” e separarli dal
mare magnum proveniente dallo spazio lontano che si riceve di continuo. Sulle prime l’astronomo pensa che sia soltanto uno dei molti falsi
allarmi, di solito una trasmissione umana che filtra attraverso la rete
progettata per schermare segnali artificiali ovvi provenienti da telefoni
cellulari, radar e satelliti. L’astronomo, rispettando un protocollo reso
nobile dal tempo, segue alcune semplici istruzioni e muove il telescopio un po’ fuori centro rispetto alla stella target. Il segnale, immediatamente, muore. Allora l’astronomo rimette il telescopio nella posizione iniziale, e il segnale è ancora lì. Dopo aver studiato con attenzione
la forma d’onda e aver determinato che la sorgente resta ferma in un
punto fisso relativamente alle stelle, l’astronomo telefona subito a un
altro osservatorio coinvolto nel progetto e allo stesso tempo spedisce
via email le coordinate del segnale misterioso.
A più di 8000 chilometri di distanza un’altra astronoma è costretta a saltare giù dal letto per investigare questo strano fenomeno. Un
po’ assonnata si dirige verso il centro di controllo e si versa un caffè;
cercando di farsi passare il sonno controlla l’email e inserisce le coordinate. Nell’arco di un minuto il secondo telescopio si è agganciato al target e subito raccoglie lo stesso segnale, forte e chiaro. Il suo
battito comincia ad accelerare furiosamente: è concepibile che questa volta l’allarme sia reale? Dopo decenni di ricerche senza nessun
risultato, potrebbe essere lei la prima persona sulla faccia della Terra a confermare che una civiltà aliena esiste davvero e sta trasmettendo dei segnali radio? L’astronoma sa bene che saranno necessari
molti altri controlli prima di poter giungere a questa conclusione,
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ma i due scienziati, ora impegnati in una concitata conversazione
telefonica a cavallo di due continenti, eliminano sistematicamente
un’ipotesi legata a intervento umano dopo l’altra finché, con il 90%
di probabilità, giungono alla conclusione che il segnale è senza dubbio artificiale, non umano e arriva da molto, molto lontano nello
spazio. Mentre i radiotelescopi continuano a tracciare in sincrono
e a registrare ogni più piccolo dettaglio, i due astronomi, un po’
frastornati, si comportano come se si trattasse di un sogno: basiti,
euforici e permeati di timore riverenziale. E adesso cosa succederà?
A chi dobbiamo dirlo? Cosa si può inferire dai dati già raccolti? Il
mondo sarà mai più lo stesso?
Fin’ora la storia (che, lo ammetto, è stata un po’ romanzata2)
non richiede enormi sforzi di immaginazione: lo scenario di base è
stato delineato molto bene dal film Contact, in cui Jodie Foster interpreta il ruolo dell’astronoma fortunata e ammirata da tutti. Ciò che
è molto, molto meno chiaro è la fase immediatamente successiva:
cosa dovrebbe seguire al rilevamento positivo di un segnale radio di
provenienza aliena? La maggior parte degli scienziati concorda che
una tale scoperta sarebbe esplosiva e porterebbe a una moltitudine
di cambiamenti. Anche la semplice contemplazione di un segnale
che arrivi dal nulla all’improvviso suscita molte domande: come sarà
valutato, e da chi? Come ne verrà a conoscenza l’opinione pubblica?
Ci saranno delle agitazioni popolari, o addirittura dilagherà il panico? Cosa faranno i governi? Come reagiranno i leader mondiali?
Questa novità sarà considerata con paura o con meraviglia? E sul
lungo termine cosa significherà per la nostra società, per il nostro
senso di identità, per la scienza, la tecnologia e la religione? E in
cima a tali cose imponderabili c’è un’annosa questione: dovremmo
rispondere al segnale spedendo anche noi un messaggio agli alieni? Questo comporterebbe qualche conseguenza spaventosa, come
l’invasione di una flotta di navicelle spaziali armate fino ai denti?
Oppure sarebbe una promessa di speranza per la liberazione di una
specie quasi distrutta?
Per nessuna di queste domande esistono risposte condivise
all’unanimità. La storia di Contact era fedele alla scienza fino al momento in cui il segnale veniva ricevuto, per poi entrare nell’indistinto regno dei viaggi spaziali attraverso tunnel spaziotemporali, ponti
di Einstein-Rosen e altri argomenti d’effetto. Questa era fantascienza, nata dalla fertile immaginazione dell’astronomo della Cornell
University Carl Sagan, e autore del libro su cui il film era basato.
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