Progetti candidati per la pubblicazione sul numero monografico Post n. 2(2010) Qui di seguito troverete illustrati i progetti candidati per la pubblicazione sul numero monografico Post n. 2 (2010). Tra di essi, la redazione sceglierà il progetto vincitore. FAQ Quando e come verrà selezionato il progetto vincitore? La scadenza dei termini per la discussione dei progetti è fissata per il 21/11/2009. Nella settimana successiva, la redazione si impegna a votare il progetto vincitore. La votazione terrà conto di numerosi fattori, tra i quali: - l’interesse mostrato dagli utenti del forum per un dato tema (vogliamo una rivista che tenga conto delle esigenze di chi legge); - l’interesse della redazione a sviluppare un dato tema (non vogliamo perdere di vista nemmeno le esigenze di chi coordina il progetto); - l’apertura ad un approccio multidisciplinare (non vogliamo parlarci addosso, ci saremmo trovati al bar altrimenti); - la disponibilità “materiale” di persone disposte a cimentarsi con un contributo per un dato tema (è più facile partire da “x” che partire da zero). Posso proporre un progetto? Sì e no. Ciascun utente può proporre un progetto di ricerca, sviluppabile all’interno del forum e magari pubblicabile online. Per quanto riguarda la proposta di un progetto di ricerca da candidare alla pubblicazione, questo può essere fatto solo in determinati periodi di tempo, previsti dal calendario delle attività pubblicato online (v. la sezione “Bandi”). Posso proporre un articolo per un progetto, e/o discutere il progetto di altri? Assolutamente sì! Scopo del forum è esattamente quello di permettere che ciascuno possa commentare e discutere il progetto degli altri, e allo stesso tempo proporsi come contribuente (articolista) per uno o più progetti (non più di un articolo a progetto). Spetta poi all’Autore del progetto valutare la pertinenza o meno della proposta al tema, o magari anche modificare il suo progetto originale in base ai nuovi spunti che possono arrivare dalla discussione. Filosofia letterarie e Letterature filosofiche (vedi più in basso) mutuato dal progetto originale: Percorsi hegeliani nella filosofia e nella letteratura francese Progetto di ricerca per Post n. 2(2010) di Filippo Ceccherini e Tommaso Tarani [email protected] L'hegelismo è un idealismo dialettico o una dialettica del pensiero? Forse è più interessante riflettere sulla possibilità di porre questa domanda, che non trovarvi subito una risposta: l'hegelismo si fonda su due punti: la premessa idealista, ed il metodo dialettico. L'idealismo fa dello spirito il soggetto incontrastato di tutto il filosofare: ogni opera hegeliana è una storia dello spirito da diversi punti di vista, “romanzi filosofici” fondati sempre sulla stessa trama. Questo è reso possibile dal metodo dialettico, il secondo pilastro del pensiero di Hegel. E' un metodo che considera soggetti, oggetti, e concetti come prismi a infinite facce, ognuna delle quali è capace di riflettere ed emettere una luce diversa instaurando così infiniti rapporti con le altre alterità. Questo metodo, questa sorta di “scienza delle contraddizioni” isolata dal contesto metafisico di origine, ha reso possibile i lavori di Marx, Engels, Müller-Hill, e Bitsakis1. La ricezione francese del pensiero di Hegel si è basata prevalentemente sulla Fenomenologia dello Spirito, eleggendola a rappresentante di tutto l’hegelismo, e questa è stata la sua fortuna. In Francia è stata accettata la priorità della premessa idealista sul metodo dialettico, interpretando così il soggetto, l’Io, le même, come una sorta di “gabbia” di cui doversi liberare per rifondare ed accogliere il nuovo discorso dell’ autre e del dehors. Se l’hegelismo “ortodosso”, l’idealismo di fondo della Fenomenologia, ci obbliga a riferire la realtà ad un soggetto, per il quale la realtà è altro, il metodo dialettico sviluppato in tutte le sue declinazioni nella Scienza della Logica ci permetterebbe di considerare qualsiasi même come autre di un qualsiasi autre, qualsiasi altro-da-sé come un in-sé, qualsiasi soggetto osservato come “soggente” osservante, qualsiasi “differenziato” come “differenziante”. Questi sono solo esempi di applicazioni dialettiche compatibili con il metodo hegeliano, ma non con la sua premessa idealista. Lo scopo del nostro lavoro è di mettere in luce le tappe di questo percorso hegeliano in ambito francese, prendendo le mosse dall’esaurimento dell’antitesi idealistica di Hegel portata ai massimi livelli di saturazione e di crisi da scrittori come Villiers de l’Isle-Adam (i cui riferimenti a Hegel sono spesso palesati da incisi e note a piè di pagina, come avviene nel romanzo filosofico Isis) e Stéphane Mallarmé, in cui la formulazione impersonale e aidealistica dell’autre assume il compito di abolire il soggetto e ricondurlo allo spazio, in-differente e orfico assieme, della mathésis svincolata dal «pensiero pensante». Sarà interessante a tale scopo condurre un lavoro sui testi della letteratura simbolista per mostrare, servendoci di strumenti d’indagine maturati anche in ambito semiologico e strutturalista, quali siano le forme e le modalità dell’idealismo in letteratura. Forme e modalità che non assumono ovviamente i caratteri di una dialettica logica nei termini di affermazione-negazione, ma che si interrogano costantemente sulla funzione della retorica e sull’essenza del processo figurale quali manifestazioni volontarie del même volte a stravolgere la realtà che rappresenta l’oggetto, o antitesi, della letteratura stessa. Senza dimenticare che la cultura letteraria francese estenderà la categoria di même fino alla radice stessa del processo mimetico, cioè all’essenza del linguaggio quale forma privilegiata della «mediazione» del soggetto che impedisce la relazione immediata con l’oggetto-antitesi. Sarà anche interessante in tale direzione rapportare le riflessioni hegeliane sulla certezza sensibile con cui si apre la Fenomenologia, in cui lo stesso atto ostensivo risulta mediato dal linguaggio («Il Qui è, per esempio, l’albero»), con lo spazio intematizzabile e a-linguistico dell’autre cui approderà la letteratura e la filosofia francese della differenza. Questo perché l’atto di rimozione dell’autre in cui consiste il secondo momento della certezza sensibile hegeliana (momento che vede, di fatto, una delle prime manifestazioni dello spirito) è fondamentalmente di natura linguistica: è la «divina natura del linguaggio», e più in generale l’utilizzo del verbo essere come modalità precipua del giudizio, a schiudere l’universalità alla coscienza rimuovendo l’argomento dell’indipendenza dell’autre dal soggetto. Da cui la celebre frase che «il Questo sensibile che è in gioco nell’opinione è inaccessibile al linguaggio», utilizzata da Hegel per dimostrare la vanità della tesi di tutti coloro che «parlano dell’esistenza di oggetti esterni che possono essere determinati più esattamente come cose reali». Il superamento della dimensione del logos, in cui la cultura francese farà coincidere lo spazio dell’autre, tende invece a riavvicinarsi proprio a questo «indicibile» e inaccessibile. Si stabilisce così una rottura netta tra percipiente e percepito, e si nega di fatto la possibilità del momento sintetico introducendo tra tesi e antitesi la «barra» tragica della differenza. 1 Chi scrive considera, ad esempio, il motto della scuola di Copenhagen, “contraria sunt complementa”, come una applicazione del metodo dialettico, come considera dialettica la base teorica di testi come il Tao della Fisica di F. Capra. Bibliografia: J. Derrida, De la Grammatologie J. Derrida, L’écriture et la différence V. Descombes, Le même et l’autre G. W. F., Hegel, Fenomenologia dello spirito G. W. F., Hegel, Scienza della Logica A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel E. Levinas, Totalité et infini S. Mallarmé, Variations sur un sujet B. Müller-Hill, I filosofi e l’essere vivente P. Valéry, Tel quel Villiers de l’Isle-Adam, Isis Villiers de l’Isle-Adam, Ève Future Filosofie Letterarie e Letterature filosofiche Sotto la spinta di vari post, interventi, chiarimenti suggeriti da incomprensioni ecc. riformulo il mio progetto, che ora si chiamerà: “Filosofie letterarie e letterature filosofiche”. Si tratterebbe di una serie di contributi nei quali verrebbe analizzato un filosofo (o una filosofia) [o un testo filosofico] e uno scrittore (o un filone letterario) [o un’opera letteraria], evidenziandone i luoghi del “dialogo” tra i due ambienti. Il lavoro può essere fatto anche su un solo autore, qualora nelle sue opere si trovassero sia elementi letterari che filosofici. Del vecchio progetto verrebbero mantenuti alcuni spunti in ambito francese, ma il nuovo progetto consisterebbe nell’aprire la strada all’analisi di qualsiasi caso di «pensiero poetante» o «poesia (o prosa) pensante». In alcuni post (sul forum, n. d. R.) mi si faceva notare che “Filosofia e letteratura” è un tema su cui è stato scritto molto. Io ho ribattuto che su ogni tema, andando a cercare, si trova sempre molta letteratura in merito, la sfida (costante) sta nel trovare sempre nuovi e originali punti di vista. Il progetto, così riformulato, si presenterebbe come sorta di “arcipelago” (anticipo una possibile futura critica…) e, a parer mio, si imporrebbe una scelta metodologica: - tentare di dare una unitarietà alla (eventuale) monografia, ad esempio inserendo come primo articolo una decina di cartelle scritte a più mani su cosa si intenda per “tangenze” tra filosofia e letteratura oppure: - chiedere ad ogni autore di esporre, all’inizio del suo articolo, i suoi intenti, ossia quale strada abbia seguito per individuare i punti di contatto che si accinge a evidenziare nel suo scritto, una sorta di “abstract” ragionato. Nel primo caso, quindi, si cercherebbe di “evitare” (secondo me artificialmente) l’effetto “arcipelago”, nel secondo si farebbe di questo effetto “arcipelago” il punto di forza di tutta la monografia, che troverebbe, di fatto, la sua unitarietà a posteriori. Seguendo le proposte che mi sono arrivate dai post precedenti e contando su collaborazioni “esterne” al progetto di Post, provo ad stilare un indice: 1) L'idealismo dell' "Eve Future" di Villiers (Raffaele Ventura) 2) La dialettica hegeliana nell' "Isis" di Villiers (Ceccherini - Tarani) 3) Automi e letteratura (Stefano Boscolo) 4) Leibniz e la letteratura taoista cinese 5) Il "Capitale" di Dante, percorsi danteschi nell'opera marxiana (Ceccherini) 6) Scetticismo, linguaggio e "Finzioni" 7) Aspetti filosofici dell'opera di Nabokov (Gaia Chernetich) 8) Il rapporto tra letteratura e filosofia rileggendo il Discours sur la méthode (Fabrizio Baldassarri) 9) Tolstoj filosofo della storia Le radici del diritto occidentale di fronte ai mutamenti epocali del XX secolo. Un’indagine critica e laica sull’eredità e i fondamenti della nostra cultura da una prospettiva storica rivolta al futuro. Progetto di ricerca per Post n. 2(2010) di Rosario Coco Il progetto che vi presento nasce da un episodio particolare vissuto in prima persona. Lo scorso 6 maggio a Pisa, Marcello Pera ha presentato il suo nuovo libro “Perché dobbiamo dirci cristiani”. L’evento è stato organizzato dall’ ”Unione dei Giuristi Cattolici Italiani” (UGCI) e da alcuni movimenti di destra come “Laboratorio 99”. Prima di un ordinario evento di carattere culturale, la cronaca ha registrato, tuttavia, la repressione poliziesca del dissenso organizzato di un gruppo di studenti universitari, ai quali è stato impedito con la forza di entrare per assistere alla presentazione. Costoro, che si erano radunati già nel primo pomeriggio in Piazza Dante, accanto “La Sapienza”, sono stati, infatti, allontanati dall’ingresso della loro Università a colpi di manganello. Esiste, a mio avviso, una contraddizione di fondo che spiega e connette le posizioni di Pera a quanto è accaduto di fronte l’ingresso dell’edificio. Il punto è che Marcello Pera è stato blindato da uno schieramento di circa 40 poliziotti in tenuta antisommossa per presentare un libro. Si è barricato alle loro spalle, a prescindere da qualsiasi possibile intensione dei manifestanti. E’ stato protetto, insomma, da un reale confronto e, tuttavia, egli era lì per discutere del fondamento della cultura giuridica occidentale e di quei diritti che le nostre carte costituzionali riconoscono propri di ogni individuo. E’ normale che bisogna difendere con una tale mobilitazione e con la violenza che ne è seguita una persona che affronta questo tema? Per rispondere a questa domanda, bisogna chiarire la relazione tra i fatti di cronaca e le conclusioni alle quali Pera afferma di giungere nel suo libro, che non si discostano dalla sua nota linea di pensiero. Infatti, pur affrontando una questione di importanza capitale, le soluzioni del senatore sono tuttavia discutibili prima di tutto sul piano del metodo, nonché su quello dell’orizzonte politico che intendono giustificare; esse rischiano inoltre di contraddire anche le premesse dalle quali provengono. Il saggio di Pera, che afferma di aver prodotto un testo scientifico, è dedicato a quella che certamente è una delle roccaforti dell’attuale cultura cattolica, nonché argomento di grande attualità. Dal mancato riferimento alle radici cristiane nella carta costituzionale europea all’eventuale ingresso della Turchia in Europa; la necessità del ritorno all’eredità cristiana è stata più volte, in modo non del tutto chiaro, ritenuta indispensabile per risolvere la questione dell’identità europea e del rinnovo dei fondamenti del diritto occidentale. Il personaggio, Marcello Pera, gode di una stima intellettuale e politica sicuramente circoscritta. Molti potrebbero obiettare che le tesi sostenute nel suo libro sono già state confutate da secoli di cultura laica e liberale europea. Da un punto di vista strettamente scientifico e filosofico, esistono sicuramente solide tradizioni da opporre ad una simile argomentazione. Su un piano politico, tuttavia, ma ancora di più sociale, le tesi di Pera fanno riferimento e alimentano una cultura quanto mai reazionaria e intollerante, che coinvolge in tutta Europa una serie di movimenti e partiti che si estendono da un centrodestra di ispirazione cristiana sino ad un’estrema destra apertamente xenofoba. Nel corso della presentazione del libro è capitato di sentire, da parte del Prof. De Mattei, membro della UGCI, che “dobbiamo avere il coraggio di parlare di verità, non relativa ma assoluta, della religione cristiana in questa forma di dialogo [con l’islam]”. A prescindere dalla situazione italiana, dove è quasi inesistente una destra laica, il problema che si pone è in primis di natura sociologica. Quale atteggiamento dovrebbe assumere chi si aspetta delle risposte dalla cultura cristiana su questi temi? Questa domanda si traduce subito sul piano politico. Se in Europa un certo cattolicesimo ha un seguito molto più limitato, tuttavia questa cultura conquista proseliti pescando nella “religione del dissenso”, che si fonda a sua volta sulla crisi economica e occupazionale. Ma la questione più interessante sembra essere la seguente. Rispetto alle tradizioni filosofiche e alle argomentazioni storiche che si possono opporre al libro di Pera, le argomentazioni politiche non sembrano avere la stessa efficacia. E’ probabile che il problema dei fondamenti e dell’identità intercetti un disagio che non si riesce pienamente a colmare. Sarà possibile allora rivisitare le argomentazioni della Filosofia, della Storia e del Diritto, per chiarire da una prospettiva laica e politicamente efficace il tema dell’eredità cristiana della cultura occidentale, nonché quello dei fondamenti del diritto? Parlando del suo libro, Pera ha affermato di non essere un esperto di scienza storica e, cosa ancora diversa, di non aver utilizzato per scelta un metodo di carattere storico. Ha preferito parlare di “congenerità” tra liberalismo e cristianesimo, privilegiando un approccio di natura concettuale. Partendo da questo presupposto, egli muove un’analisi di natura politica, per cui il liberalismo non può esistere senza i valori e i contenuti della dottrina cristiana. Il concetto giuridico di persona, in quanto soggetto avente dignità in sé e per sé, è, secondo Pera, un concetto prepolitico di natura religiosa, precisamente un concetto cristiano. In tal modo, i diritti umani, che la nostra costituzione riconosce e garantisce all’articolo 2, sarebbero campati in aria e privi della possibilità di sopravvivere di fronte al progresso, qualora la dottrina cristiana non venga riconosciuta come elemento fondante del nostro diritto. Anche i padri del liberalismo, come John Locke, riconoscono la ragionevolezza della religione cristiana e, secondo Pera, l’idea di uno stato di natura dove ogni uomo nasce libero o l’idea di ragion pratica in Kant, non possono fare a meno del concetto di Dio. Questo ragionamento ha pesanti (e non del tutto chiare) conseguenze sul piano sociale. Affrontare questioni di carattere giuridico e politico significa chiaramente “coltivare una fede (altra espressione appropriata non c’è) in valori e principi che caratterizzano la nostra civiltà e riaffermare i capisaldi di una tradizione della quale siamo figli”. Parlando di fede, sembrerebbe che per reagire a questa “assenza di fondamento” non sia più sufficiente il liberale cristiano per cultura; egli dovrebbe esserlo per fede. “La scelta cristiana, di darsi a Dio (credente in Cristo, ndr) o di agire velut si Christus daretur (cristiano per cultura, ndr) ha prodotto i migliori risultati. Quella scelta ha grandi vantaggi, anche nel campo dell’etica pubblica”. Questa affermazione risulta problematica sotto molteplici punti di vista. E’ lo stato confessionale la soluzione di Pera? e, in particolare, uno stato confessionale in linea con la lettura dei dogmi cristiani propria dell’attuale Pontefice? In, particolare, può ancora Pera definirsi, a suo modo, un liberale laico come egli stesso dichiara? Si pongono, tra i diversi interrogativi, anche urgenti questioni di chiarezza del linguaggio politico, peculiari, nostro malgrado, delle vicende odierne del nostro Paese. Vi sono diversi spunti di riflessione da evidenziare. Andando per ordine, il principale problema dell’intera argomentazione di Pera risiede nel metodo. Nel riportare fin’ora quanto ascoltato da Pera, ho tralasciato volutamente il termine “storia”. Se Pera intende parlare di “fondamenti” ed “eredità” di qualcosa, qualunque essa sia, e, sopratutto, se vuole farlo in un testo che si possa dire scientifico, non può esimersi dall’applicare un metodo di carattere storico. Per il semplice motivo, tra i tanti, che egli si riferisce continuamente, per forza di cose, ad argomenti di carattere storico, forgiando tuttavia a suo modo la lettura di eventi e tradizioni culturali. Ad esempio, nella lettura di John Locke e degli altri padri fondatori del liberalismo, viene oscurato il concetto di desacralizzazione del potere. Questi intellettuali, muovevano senza dubbio da un cultura cristiana, ma lavoravano per una teoria del diritto e della politica che si svincolasse dalla religione, seguendo, tra le tante, la lezione tutta italiana di Machiavelli. Lezione che, inoltre, ha ispirato Hobbes, Hume, gli illuministi, autori che non godono di considerazione nel discorso di Pera. La ragionevolezza della religione cristiana, di cui parla Locke, si riferisce a tutte quelle asserzioni della religione che non entrano in contrasto con la razionalità. La presenza di Dio nella cultura moderna, inoltre, meriterebbe un approfondimento più chiaro su quale idea di Dio fosse presente nella scienza postcopernicana, un concetto per molti versi distante da quello cristiano, legato a idee meccaniciste e deterministe. Anche Kant, bisogna ricordare, per quanto pietista, è passato alla storia per aver proposto un nuovo paradigma filosofico che potesse prescindere dall’idea di Dio sul piano epistemologico e, seppur diversamente, sul piano morale. Se l’imperativo categorico è legato all’idea di Dio, ciò dipende dall’essenza della razionalità umana che ne postula l’esistenza, senza poterla tuttavia dimostrare. Andando quindi al cuore del problema, qual’è veramente questa eredità cristiana del diritto e dei “diritti” occidentali? Come lo stesso Pera afferma, è l’uguaglianza e la dignità in sé della persona che contraddistingue la moderna cultura liberale. Tuttavia il concetto di persona, giuridicamente inteso, risale al diritto romano. Lo stoicismo di Seneca, inoltre, costituisce un importante precedente; egli si pose, tra i primi, il problema dell’umanità degli schiavi. La vera eredità cristiana andrebbe forse ricercata in quel momento storico che ha visto l’incontro tra la cultura del tardo impero e il messaggio cristiano. “A sua immagine e somiglianza”: il nucleo più elementare di questa eredità risiede nel principio di uguaglianza, dai cui derivano la dignità e le libertà fondamentali, e nel principio di amore verso il prossimo, da cui deriva la pur variegata idea di solidarietà. Attenendosi ad un orizzonte che riguardi la storia del cristianesimo (disciplina ufficialmente insegnata nelle nostre università), è possibile notare come questo sia un messaggio evangelico prima ancora che cristiano, tenendo conto della complessa e non sempre limpida evoluzione della struttura ecclesiastica nei primi secoli dopo Cristo. Si determinò in questo lungo periodo lo sviluppo di ulteriori contenuti come la formazione del canone, il rifiuto di certi vangeli, la condanna delle prime eresie, i primi concili e, più tardi, la formazione della struttura burocratica, seguita alla scomparsa definitiva dello stato romano. Lo scontro con la cristianità ufficiale risulta fondamentale affinché i principi cristiani di cui parla Pera divengano effettivi; divengano, in pratica, quelli dell’articolo 2 della nostra costituzione. Proseguendo nell’analisi storica, infatti, è impossibile non notare che libertà, uguaglianza e fraternità, gli ingredienti della rivoluzione francese, sono il vero fondamento delle garanzie contemporanee. Ma è necessario ricordare anche quante volte la cristianità ufficiale, ossia ridotta a etica di stato, sia stata protagonista di atroci delitti che contraddicono palesemente i diritti umani quanto l’originario messaggio di Cristo. Tra gli innumerevoli eventi eccone solo alcuni: è il caso delle crociate, della spedizione contro gli Albigesi, degli indios americani, che, a dispetto dell’uguaglianza evangelica, non erano figli di Adamo; è il caso di Giordano Bruno arso sul rogo e di Galilei imprigionato. Per le proprie idee. Pera dovrebbe spiegarci cosa significa che, in ambito politico, la scelta di darsi a Dio, come si è detto prima, ha prodotto i migliori risultati e ha grandi vantaggi per l’etica pubblica. La ripresa della tradizione evangelica è presente in diversi movimenti religiosi già nel periodo medievale, con personalità come Wycliffe, Huss, fino ad arrivare, nel ’500, ad un certo Lutero. La cultura rivoluzionaria francese si è posta al culmine di un processo di emancipazione dalla religione che ha portato persino al tentativo di riformulare il calendario. Il fatto che poi si sia parzialmente tornati indietro, non implica alcun legame concettuale tra cultura liberale e cristianesimo. In altre parole, dal “Non possiamo non dirci cristiani” di Croce al “dobbiamo” di Pera vi è un limpido non sequitur. Vi è un eredità senza dubbio cristiana nella nostra cultura, ma l’applicazione e la realizzazione di certi principi è passata per la laicizzazione della politica. Per questo, bisogna distinguere tra eredità evangelica ed eredità cristiana o, quanto meno, cattolica. E’ possibile riflettere sul vuoto etico e sull’eredità evangelica del nostro diritto, nonché su quanto disse San Paolo nella lettera ai Galati: “non secondo la legge sarete salvati, ma secondo la fede che avrete in Gesù Cristo”; in questo caso si parla della legge del culto, un po’ quello che noi chiameremmo oggi Magistero della Chiesa. Ma, in ambito politico, si deve riconoscere la necessità di non poter porre l’esistenza di Dio come fondamento del diritto, per ragioni che riguardano le vicende storiche di cui abbiamo parlato e affinché la libertà del singolo resti, effettivamente, garantita. Viceversa, la crisi di valori propriamente religiosi deve rimanere un problema da risolvere all’interno delle stesse comunità e non deve riversarsi sulla politica. Come afferma il noto teologo Hans Kung, la Chiesa ufficiale, oggi, non comprende che il vero problema è il deserto nelle parrocchie. Concludendo, quanto si propone è un progetto multidisciplinare che si articola su tre linee di ricerca, - coordinare un’attività di critica della reale e storica eredità cristiana-evangelica nella cultura occidentale, - impostare una riflessione, da un punto di vista filosofico, politico e giuridico e bioetico, sul concetto di persona, in relazione cambiamenti epocali che hanno caratterizzato gli ultimi anni da un punto di vista, scientifico, tecnologico, biomedico, sociale e culturale, - analizzare il problema dei fondamenti del liberalismo alla luce di altre tradizioni, con la consapevolezza di affrontare una questione ancora aperta. E’ possibile che una riflessione così delineata su questi argomenti possa portare la discussione sulla laicità della politica e sui fondamenti delle democrazie liberali sullo stesso terreno di coloro che auspicano una reazione autoritaria e confessionale. Quanto è, inoltre, auspicabile, è una riflessione di carattere politico e filosofico sui fondamenti storici e culturali della nostra costituzione, che includa anche, ma non solo, l’eredità evangelica. I valori che fondano la nostra cultura politica devono essere innanzitutto diffusi, devono divenire sempre più patrimonio pubblico. Su questo versante c’è ancora molta strada da compiere.Bisogna diffondere la conoscenza della nostra costituzione, informare e, al tempo stesso, studiarne ragioni e fini. La necessità di garantire la persona umana deve e può incontrarsi con esigenze condivise a prescindere dal riconoscimento dell’esistenza di un Dio. Platone aveva già ammonito che non bisogna mai permettere che il dominio della legge venga sopraffatto; ad esso non deve sostituirsi quello degli uomini. Anche questa è eredità occidentale. La fede in Dio riguarda, infatti, l’interiorità dei singoli; ne un Dio può essere ammesso come fondamento culturale, in quanto sarebbe una sorta di “concetto avvantaggiato” rispetto a quelli di altre culture, poiché ciò che è giusto per verità divina è perfetto e infallibile. BIBLIOGRAFIA Thomas Hobbes, De Cive, Roma, Editori Riuniti, 2005. John Locke, Trattato sul Governo, Roma Editori Riuniti 2006. Voltaire, Lettere Filosofiche, Siena, Barbera editore, 2009. Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Bari, Laterza, 2004. John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Milano, Il Saggiatore, 2009. Bentrand Russell, Perché non sono cristiano, Milano, Longanesi 2006. Lelio Lantella, Stoffi Emanuele, Profili diacronici di Diritto Romano, Torino, Giappichelli, 2005 Roberto Osculati, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico, Milano, San Paolo, 1996, voll. I-II. Hans Kung, La Chiesa cattolica, una breve storia, Milano, Rizzoli, 2001. Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 2005. Ralf Gustav Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Bari, Laterza, 1993 Jurgen Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli, 2008 Roberto Esposito, Bio, Biopolitica e Filosofia, Torino, Einaudi, 2004. Stefano Rodotà, Bioetica e Laicità, Roma, Carocci, 2009. NB: La bibliografia comprende anche dei testi classici ed ha carattere estremamente generale, per via dell’ampia gamma di soluzioni che il progetto contempla. L’ERRORE IN FILOSOFIA. Metaforica e topologia concettuale. Progetto di ricerca per POST n. 2(2010) di Jonathan Fanesi [email protected] La ricerca filosofica non nasce in vitro, bensì in vita. Così come non esiste un punto zero in cui cominciar a percorrere i sentieri dello studio e della riflessione, è dalla prassi linguistica quotidiana che dobbiamo prendere le mosse nel momento in cui desideriamo indagare i nodi più problematici del nostro sapere sul mondo. In questa direzione si tratta di tematizzare quelli che costituiscono l’insieme medio degli asserti sulla filosofia che il parlante comune o lo stesso specialista emettono nel corso della loro vita. Coloro che hanno ritenuto e ritengono ancora necessario emendare la filosofia dagli errori della lingua, istituendo una profonda divaricazione tra la dimensione della Sprachlogik e della Logik non possono astenersi da quest’importante compito. È proprio prendendo poco sul serio quello che si chiama sapere prefilosofico che si commette l’errore che si denuncia: la vera ingenuità non risiede mai nell’oggetto di una ricerca ma nel metodo con cui la si affronta. Allorquando la nostra attenzione si focalizza su asserti comuni e ben più volte pronunciati come “in filosofia”, “un discorso tra la filosofia e la matematica”, “al di fuori della filosofia”, ciò che in maggior misura dovrebbe colpirci risiede proprio nelle preposizioni spaziali o temporali di cui facciamo uso e della metaforica che esse non di rado dischiudono. “In”, “tra”, “al di fuori” se grammaticalmente sono preposizioni, nella fattispecie temporali o spaziali, da un punto di vista più profondo, sono portatrici di una vera e propria topologia concettuale, topologia che, proprio in quanto anonima e clandestina, viene assunta come naturale o, per meglio dire, non meritevole d’essere studiata con dovizia. Eppure, molte delle c.d. questioni fondazionali sono già decise o orientate dalla stessa metaforica delle preposizioni temporali e spaziali. Che vuol dire quando dico “in filosofia non c’è un criterio in base al quale operare un controllo finito di una procedura argomentativa?”. Non è forse vero che in maniera alquanto immediata si suppone che esista qualcosa come la filosofia, qualcos’altro come la fisica o la teoria dell’arte? Certo, questo funziona, ecco appunto, funziona, quando devo compilare un pagella scolastica indicando le varie materie e i rispettivi voti, quando devo catalogare dei libri, ma qui siamo alle prese con le esigenze praticamente giustificate dell’intelletto tabellare. Ma il filosofo che dalla quotidianità deve partire e che nella quotidianità finisce per approdare, movimento apparente si direbbe!, poco incline all’accettazione naturalistica di ciò che succede o accade e quindi sempre pronto a porre in rilievo la problematicità di ogni cosa, si ritrova a domandarsi che cosa sia quello iato che intercorre tra le cose, i concetti o le idee. Egli sa che una metaforica pur portando una topologia concettuale, non è una topologia concettuale o, per meglio esprimerci, il fenomeno non è il significato. In tal modo, si giunge all’esito paradossale che in concreto, cioè more philosophico, due entità teoriche qualsiasi come la matematica e la filosofia hanno ben più di una somma mereologica o intersezione insiemistica, metafora a piacer vostro, a differenza di quanto in termini pratici si ritenga. Il filosofo vuole e deve indagare che cosa sia la topologia concettuale al di là della metaforica da cui si è generata. Se priviamo ogni preposizione del carico di teoria che essa presuppone, della metafisica che essa implica, possiamo studiare il significato delle distinzioni intra ed intertematiche. In questa direzione, un buon metodo per riflettere su tali problemi, consiste nel focalizzarci sulla natura dell’errore in una singola disciplina. Se sono un appassionato o studioso di matematica, potrei domandarmi che cosa sia un errore in matematica? Cosa vuol dire sbagliare in matematica? È possibile sbagliare? La risposta più immediata è che l’errore in matematica è di matrice calcolistica, quindi un errore sempre interno ad un determinato assetto di regole o procedure. Eppure, già nella stessa prassi matematica, questa è la tipologia d’errore più semplice, tipologia nei confronti della quale potremmo nutrire un interesse laddove fossimo canuti professori liceali pronti ad ammonire con severe parole la disattenzione dello studente. Ma che succede quando un errore non è sul piano dello spazio operativo aperto dall’uso delle regole, ma intacca il livello stesso delle regole o più generalmente dei codici? E già da queste brevi battute ci stiamo accorgendo di come le questioni diventino sempre più problematiche. La mia proposta è quella di studiare che cosa sia un errore in filosofia, se esso possa presentarsi, se sia uno o molteplice, se abbia uno statuto autonomo e che rapporti possa nutrire con le altre tipologie d’errore. Bibliografia. E. Kant, Critica della ragion pura. G. Bachelard, Filosofia del non. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus. G. Ryle, Il concetto di mente. B. Russell, I principi della matematica. M. Heidegger, Segnavia. CONVENZIONI E CONVENZIONALISMO Genesi della convezione e uscita dal convenzionalismo Progetto di ricerca per POST n. 2(2010) di Stefano Boscolo [email protected] Agli albori del pensiero filosofico, gli uomini hanno cercato di individuare quale potesse essere l'essenza di tutte le cose, il vero nome delle cose, sotteso al di là di ogni esperienza sensibile. Molto tempo dopo, con Protagora, nasce il primo tentativo di opporre ad una concezione essenzialista del linguaggio e delle cose, una convenzionalismo di tipo nominale: non importa qual è il vero nome di una cosa, ciò che realmente conta è il suo uso nella pratica quotidiana. La ripresa del convenzionalismo nominale in età moderna passa attraverso le coste inglesi e, in particolare, riceve nuova linfa da Hobbes nel tentativo di fondere la nascita della comunità politica, basata su un contratto (e quindi una convenzione), con la critica nei confronti del linguaggio del scolastico. Il vescovo Berkeley compie un passo ulteriore, spostando il piano della polemica verso le condizioni di possibilità del pensare in generale, dove il significato di una cosa non risiede più nella cosa stessa ma rimanda alle percezioni soggettive, agli exempla. Così, il significato di “uomo” perde il suo carattere sostanziale per assumere una valenza convenzionale: l'uomo è passato da animale razionale o politico ad animale convenzionale perché pensa sempre convenzionalmente, perché ha sempre in mente un exemplum particolare nella formulazione di una definizione. Dopo il '700 le notevoli scoperte scientifiche hanno comportato l'estensione della polemica anche nei confronti delle cosiddette scienze “esatte”. L'equivalenza della geometria euclidea con le altre geometrie, il loro rapporto con la fisica relativistica, la scoperta della funzione di Weierstrass e così via, generarono ben presto una notevole sfiducia nella possibilità kantiana di mostrare, attraverso le intuizioni pure, la completa apoditticità della scienza. Si passa dunque da un convenzionalismo nominale ad uno scientifico proprio nel momento in cui il linguaggio quotidiano viene sostituito dal linguaggio tecnico. Quando questo accade sembra inevitabile rinunciare, almeno in parte, alle nostre intuizioni sul mondo per come i nostri sensi ce lo comunicano immediatamente, alle nostre capacità di comprendere lo spazio e il tempo sulla base del senso comune. La nascita della sociologia e dell'antropologia come scienze, a cavallo tra Ottocento e Novecento, ha inferto un ulteriore colpo rispetto alle nostre credenze normative riguardo alle comunità umane. Diventa un tema contemporaneo allora domandarsi: qual è il rapporto tra le nostre convenzioni e quelle degli altri popoli o più, in generale, tra credenze e convenzioni? La mia proposta è quella di riassumere, ognuno per le proprie discipline di competenza, la svolta convenzionalistica indicandone allo stesso tempo le condizioni di superamento. Mi spiego: se da un lato oggi è impossibile non accettare il dominio parziale delle convenzioni in ogni attività umana, dall'altro sussiste il problema di non scadere in un grossolano convenzionalismo, che può comportare la perdita di qualunque oggettività sotto il profilo fattuale e metodologico. Bibliografia: U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza 2006. L. Geymonat, Filosofia e Filosofia della scienza, Feltrinelli 1960 E. Nagel, The Structure of Science: Problems in the Logic of Scientific Explanation , Brace&World 1961 Platone, Cratilo, Laterza 2008 J.H. Poincaré, Le ipotesi e la scienza, Bompiani 2003 R. Ventura, Il Regno delle Tenebre. La strategia dell'indecifrazione nel Leviatano, Unpublished Denaro come linguaggio Rappresentazioni della ricchezza e ricchezza delle rappresentazioni. Progetto di ricerca per POST n. 2(2010) di Raffaele Ventura [email protected] La nascita della moneta in Occidente si colloca attorno ai secoli ottavo e settimo prima di Cristo; in quei secoli, in Grecia, sorgeva la polis, cui associamo il fiorire della democrazia, del diritto, della filosofia, della scienza. Qualcosa accomuna i diversi fenomeni, qualcosa li lega indissolubilmente -- se non nella realtà, perlomeno nel racconto che facciamo di essa -- come se non potessero sussistere l’uno in assenza degli altri; come fondandosi reciprocamente. Le nuove forme di società e di economia che vediamo sorgere sono manifestazioni del Logos: ovvero di un pensiero per universali. Gli universali sostituiscono le cose, ne fanno segni ad uso degli uomini. Concetti, leggi, valori. Il denaro è un momento di questo processo di astrazione simbolica, che permette di coagulare l’abbondanza del reale in un numero limitato di oggetti linguistici. Forse per questo -- e non per la loro forma simile all’ostia -- le monete nel Medio Evo venivano chiamate species. Di come e perché dal baratto nacque il denaro, quando ancora l’economia era prevalentemente legata all’allevamento di bestiame, le etimologie narrano innumerevoli storie: dal gregge (pecus) la pecunia, dai capi (capita) il capitale. Accadde che ai beni si sostituissero i loro significanti: alle cose le parole. Così come nel concetto di “cavallo ” si sussume ogni cavallo, e lo si esprime nel segno linguistico, nel valore si sussume ogni bene definito di tale valore, e lo si esprime nella moneta. Ma proprio come "la mappa non è il territorio", bisogna ricordare che "il denaro non è la ricchezza". Possiamo comprendere il denaro intendendolo come linguaggio, e viceversa intendere il linguaggio alla luce del denaro. Origine monetaria del linguaggio, origine teologico-politica del denaro. Possiamo considerare la questione senso/significato o delle modalità del riferimento (diretto o indiretta) secondo le modalità di uno scambio economico. Lo scambio monetario è scambio linguistico, e forse qualcosa in più: magico, diciamo performativo - in virtù della reversibilità dei significanti in significati, attraverso la trasmutazione dei primi nei secondi. Un tempo queste espressioni linguistiche erano ancorate alle riservee auree che denotavano, con la tenacia di un linguaggio perfetto. Reversibilità (espressa nell’etimologia francese, argent, o tedesca, Geld) venendo a mancare la quale cessa ogni rapporto di significazione: la moneta che non compra più nulla non significa nulla. Ma ecco il problema: questo rapporto significativo é sempre sul punto di rompersi. BIBLIOGRAFIA Aristotele, Opere, volume nono, Roma-Bari 1973. (Politica, Trattato sull’economia) Atanasio, Oratio III contra Arianos, 5 Honoré de Balzac, La maison Nucingen, Paris 1989 (e altre opere) Georges Bataille, La part maudite, Paris 1967. Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Milano 1994 Jacques Derrida, « La mythologie blanche », in Marges, Paris 1972. Silvio Gesell, L'ordine economico naturale, Londra 1958 http://www.utopie.it/pubblicazioni/gesell.htm John Kenneth Galbraith, Money. Whence it came, where it went, London 1975. Carlo Gamba, Licita usura. Giuristi e moralisti tra Medioevo ed età moderna, Viella 2004 Karl Marx, Segui il denaro! Milano 2003. Jaques Le Goff, La borsa e la vita. Dall'usuraio al banchiere, Roma 2003. Karl Polanyi, La sussistenza dell'uomo. Il ruolo dell'economia nelle società antiche, Torino Adam Smith, The wealth of the nations, London 1999 Georg Simmel, Filosofia del denaro, Bologna 1998. Luigi Ruggiu (a cura), Genesi dello spazio economico, Napoli, 1982 Ezra Pound, L'ABC dell'economia e altri scritti, Torino 1994 Vismara Paola, Questioni di interesse. La Chiesa e il denaro in età moderna, Milano 2009. Emile Zola, L'Argent, Paris 1980. Andrea Zhok, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo. Antropologia filosofica delle transazioni, Milano 2006 Filosofia e musica. Per un’interpretazione filosofica del fenomeno musicale. Progetto di ricerca per Post n. 2(2010) di Filippo Ceccherini [email protected] Che cos’è la musica? “Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più”.2 Sicuramente “la vita, senza musica, sarebbe un errore”.3 La musica è suono, quindi anche silenzio. Suono e silenzio hanno infatti la stessa importanza nel fenomeno acustico: questi due aspetti, come l’ essere e il non-essere del Tao tê ching, si generano l’un l’altro alternandosi in un rapporto di dialettica complementarità. Debussy, ancora nel 1893 si stupiva della potenza del silenzio e scrivendo all’amico Chausson usava queste parole: “Mi sono servito di un mezzo che mi sembra assai raro, del tutto spontaneamente; cioè (non ridete) del silenzio, come mezzo espressivo e forse come modo per far risaltare l’espressione di una frase”.4 Gli antichi greci ritenevano che fosse impossibile udire alcuni suoni eterni dell’universo perché ci manca l’esperienza del contrasto tra quelli e un precedente silenzio. Non riusciamo a coglierli come generati perché non possiamo cogliere ciò che li ha generati: “distinguere il suono dal silenzio dipende dalla possibilità di metterli a confronto”.5 Quest’alternanza tra suono e silenzio si può avere solo nel tempo. La musica si inserisce nel tempo come un’ospite ma, suono dopo silenzio, dopo suono, i ruoli si invertono: il tempo in cui scorre la musica diventa il tempo della musica, un tempo piegato a certe esigenze, un tempo che essendo durata può quantificare le attese insite nelle pause, un tempo che è numero, ma che può anche “dilatarsi”, un tempo che è ritmo. Cessata la musica, il tempo può momentaneamente riappropriarsi di se stesso. Dicendo che “la natura della musica è temporale”6 credo si colga solo un aspetto della questione: musica e tempo mostrano misteriose sinergie, ed è curioso sottolineare come le definizioni di tempo date in alcuni sistemi filosofici, prese in se stesse, siano applicabili anche alla musica. Pensiamo alla definizione hegeliana: l’ascolto di un’esecuzione è possibile solo mentre l’esecuzione è in atto, mentre è ancora incompiuta, mentre essa, in un certo senso, non è; quando invece l’esecuzione è ultimata, finita, quando è stata suonata l’ultima nota, l’esecuzione è propriamente data, ma, proprio in quel momento, l’esecuzione non è più. La musica ha quindi un comportamento analogo a quell’ “Essere che, quando è, non è, e quando non è, è”. Quanto detto circa la musica come alternanza tra suono e silenzio è applicabile anche al linguaggio parlato; peculiare della musica, invece, è la sua organizzazione nel – e del – tempo. Il ruolo del tempo nella musica, l’importanza della tensione dialettica tra suono e silenzio, il fattore dell’ “ordine” come generatore di un’ “attesa di senso” da parte dell’ascoltatore, saranno le nostre linee guida per una analisi filosofica del fenomeno musicale. Analisi che si presenta fin da subito come una opportunità di mettere in relazione e di far dialogare concetti tra di loro eterogenei, purché si rivelino utili ad un indagine che, solo alla fine, risulterà “unitaria”. Bibliografia: 1)Adorno, Theodor, Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi 1975 2) Alain, Olivier, Le langage musical de Schönberg à nos jours, in N. Dufourq (a cura di), La musique, les hommes, les instruments, les oeuvres, Paris, Larousse 1965 3) Atkins, Peter W., Il secondo principio, Bologna, Zanichelli 1988 4) Bach, Johann S., Clavicembalo ben temperato, Milano, Carisch 1995 5) Blake, Peter, Tre maestri dell’architettura moderna, Milano, Rizzoli 1963 6) Brelet, Gisèle, Le temps musicale, Paris, Presses Universitaires de France 1949 7) Donà, Massimo, Filosofia della musica, Milano, Bompiani, 2006 8) Gould, Glenn, L’ala del turbine intelligente, Milano, Adelphi, 2001 9) Joplin, Scott, Ragtimes for piano, Budapest, Könemann Music 1994 10) Lao-tzu, Tao tê ching, Milano, Adelphi 2005 11) Lévi-Strauss, Claude, Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore 1966 2 Agostino, Confessioni. Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli. 4 Olivier Alain, Le langage musical de Schönberg à nos jours, in N. Dufourq (a cura di), La musique, les hommes, les instruments, les œuvres, Parigi, Larousse 1965. 5 Aristotele, De Caelo, 290b, 12. 6 Massimo Donà, Filosofia della musica, Milano, Bompiani 2006. 3 12) Mila, Massimo, Lettura della Nona sinfonia, Torino, Einaudi 1977 13) Schoen-René, Ernst, Hegel, Blake, and Beethoven – The Dialectic of the Ninth Symphony, da www.hichumanities.org