progetto prósopon

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PROGETTO PRÓSOPON
ANTROPOLOGIA TEOLOGICA
E CONOSCENZA DELLA PERSONA UMANA

Direttore
Marco Tommaso R
Facoltà Teologica dell’Emilia–Romagna
Comitato scientifico
Fausto A
Facoltà Teologica dell’Emilia–Romagna
Erio C
Arcidiocesi di Modena–Nonantola
François D
Facoltà Teologica dell’Emilia–Romagna
Giuseppe M
Pontificio Ateneo Sant’Anselmo
Bernardino P
Psicologo
Marco S
Università Cattolica del Sacro Cuore
PROGETTO PRÓSOPON
ANTROPOLOGIA TEOLOGICA
E CONOSCENZA DELLA PERSONA UMANA
È il tipo di persona che rende nervoso il caffè.
Leopold F
Il termine “persona” raccoglie un universo di conoscenza,
sia nella visione storica che nella visione teoretica, e prende
forma in quella disciplina che oggi annovera il nome di Antropologia teologica, in una visione aperta e sincera dell’esistenza umana e dei suoi problemi. Lo studio complesso della
scienza moderna e le numerose discipline che si occupano
della persona umana, hanno reso questo settore estremamente vasto e complesso, affascinante e controverso, così come
è l’insieme della relazione tra la persona e Dio. Questa collana raccoglie la ricerca umanistica e teologica sulla persona
umana e sulla sua natura, senza dimenticare l’apertura alla
trascendenza e all’assoluto, anche nelle nuove traiettorie del
linguaggio contemporaneo. Il logo di collana, invece, rappresenta le due prime lettere del termine greco πρόσωπον, in cui
l’equivalente traduzione di “persona” sottolinea l’oggetto di
indagine della ricerca della collana, includendo le sfumature
della semantica del termine stesso, dove la parola πρόσωπον
indica la maschera nella tragedia greca, con il desiderio di
“smascherare” la persona per scoprirne la vera identità.
Emmanuele Rotundo
Umanesimo cristologico
Riflessioni a partire da una lettura teologica
della Divina Commedia di Dante Alighieri
Copyright © MMXVI
Aracne editrice int.le S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Quarto Negroni, 
 Ariccia (RM)
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: gennaio 
Indice


Introduzione
Capitolo I
L’umanesimo cristocentrico della Divina Commedia
di Dante Alighieri
.. Il movimento,  – .. Trinità e creazione,  – ... Dall’Amore,  – ... L’uomo libero di amare,  – ... Libertà:
grandezza e rischio per l’uomo,  – ... Prime riflessioni
conclusive. Il movimento dell’essere umano,  – .. Trasumanazione, l’uomo verso il compimento di sé,  – ... Verso
l’umanità,  – ... Verso la perfezione umana,  – ... Nell’Amore,  – .. L’uomo–Dante in Dio,  – ... Il canto
XXXIII del Paradiso,  – ... Visione di Dio, visione di sé,  –
.. Conclusione: l’umanesimo cristocentrico di Dante, .

Capitolo II
Cristologia e antropologia un unico mistero
.. L’unico–verso dell’universo,  – ... Cristo e la natura,  – ... L’uomo in creazione,  – .. Creazione
tempo e incarnazione,  – ... Vocazione umana, vocazione divina,  – .. Dall’umanazione del Figlio,  –
... La kenosi–svuotamento del Figlio fino alla croce,  –
.. L’umanazione dell’uomo nel Figlio. Da Uomo a uomo,  – ... Il mistero dell’uomo nel mistero del Verbo incarnato e della Trinità,  – ... In Cristo vero uomo,  –
.. Conclusione: Fratellanza Universale, .

Indice


Appendice

Bibliografia
Introduzione
Tra gli interrogativi più eloquenti che si possono riscontrare in tutta la Scrittura ve n’è uno che il salmista pone
al Creatore nel desiderio di conoscere la realtà più intima
della propria natura. Pur non possedendo la perfetta scienza del suo essere, egli è tuttavia conscio della grandezza
dell’umano e della sua dignità quasi divina, così voluta e
creata da Dio:
che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo,
perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di
gloria e di onore lo hai coronato. hai dato potere sulle opere
delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi (Sal ,–).
La domanda rivolta a Dio si mostra come un sussulto
appassionato dell’uomo che promana dalle profondità del
suo io. Prestandosi come voce dell’intera umanità, egli
chiede a Dio di sé. Sappiamo, però, che quella della Scrittura si presenta come vera parola dell’uomo, ma anche
come vera parola di Dio, volontà e parola divina comunicata tramite volontà e parola umana. Paradossalmente,
dunque, le “parole umane” che danno espressione a questo desiderio, chiedono innanzitutto di essere colte nella
loro dimensione teandrica e teofanica e, perciò, di essere contemporaneamente accolte (ad–colligere) come vera
“parola di Dio”.
Ciò significa, relativamente al nostro interrogativo, che
è Dio in persona a desiderare che l’uomo gli chieda di sé. È


Introduzione
Lui a volere che la sua creatura si domandi circa il proprio
essere, cercando solo in Lui quelle risposte capaci di appagare la brama di sapere “chi” davvero Lui sia, quale sia il
suo posto nel mondo e il perché del suo essere voluto da
un Altro. Impastando la sua creatura, dunque, Dio semina
nell’uomo il bisogno naturale di conoscere la sua verità;
di chiedersi quale sia il suo posto nell’ordine dell’universo e in cosa realmente consisti la sua sublime dignità che
non riscontra pari nel creato. Molto di più egli è indotto a
percepire la necessità irrefrenabile di comprendere dove lo
voglia condurre il Creatore tramite quella “cura” continua
che nella storia quotidiana gli riserva.
Nel corso della storia dell’umanità molti sono stati i
tentativi di dare una risposta “filosofica” alla questione
sull’uomo. Con il solo aiuto del “lume della ragione” egli
anche è riuscito a raggiungere alcune certezze relative alla
sua esistenza:
L’uomo è un animale fornito di ragione: pertanto realizza
pienamente il suo bene, se assolve il compito per cui è nato.
E che cosa esige da lui questa ragione? Una cosa molto facile:
che viva secondo la natura che gli è propria.
Seneca era riuscito, per esempio, a comprendere che la
pienezza umana consiste nel vivere assecondando il cammino naturale del proprio essere, vivendo, cioè, secondo
la natura che gli è propria. È questa un’affermazione che
contiene in sé una luce di verità. Tuttavia, da sola questa
rimane irrimediabilmente oscurata dall’incertezza su cosa
realmente sia “natura umana” e quale sia il “bene” e il
“fine” a cui il vivere “naturalmente” dovrebbe condurre.
Quella data dal filosofo, dunque, appare come una risposta
. L A S, Lettere a Lucilio, IV, , .
Introduzione

che lascia “l’animale razionale” condannato ad un’immanenza che si oppone a quell’anelito naturale di infinito e
trascendenza che inquieta ogni animo e non dona pace.
Pace e quiete, infatti, l’uomo le può trovare solo nella pienezza della propria verità e questa non ha altra dimora se
non nella mente e nel cuore del Creatore.
Nell’affresco della creazione di Adamo, che decora la
volta della Cappella Sistina, in particolare nel mantello che
avvolge Dio nell’atto di dare l’essere all’uomo, qualcuno
ha voluto vedere tratteggiata la forma di un cervello a rappresentare la mente del Padre, custode eterna ed infinita
della forma ideale di tutto ciò che esiste. Per raffigurare il
momento in cui il Creatore decide di uscire da sé per ritrovare la propria immagine nell’uomo creato, Michelangelo
ritrae Dio che con il suo braccio possente si stende verso
Adamo, sporgendosi oltre sé e facendo procedere il dono
dell’essere dalla propria mente verso tutto ciò che esiste.
A partire dalla mente di Dio, perciò, l’universo si espande
in un’esplosione di colori e forme, che quasi danno vita
alla Cappella papale e che trova la più intensa estasi di forma estetica nel “giudizio universale”, raffigurazione del
finis e del compimento della storia, di quel piano voluto e
progettato da Dio, eternamente custodito nella sua mente
da cui tutto ebbe origine.
La verità piena su di sé, dunque, l’uomo la può rinvenire solo nella rivelazione delle “intenzioni” di Dio, dunque:
è nella sua parola la quiete dell’animo umano. Imparando
dal salmista, perciò, la creatura deve umilmente riconoscere che la verità del proprio essere e del proprio fine
appartengono al Mistero che va oltre la sua portata e la
sua intelligenza. Per quanto alta e fervida possa essere la
sua immaginazione e per quando profonde possano essere
le sue riflessioni, senza rivelazione da parte di Dio, egli

Introduzione
mai potrà godere di quella pace piena che la verità porta
con sé. Perciò, come Giobbe, egli deve rivolgersi a Dio e
chiedere a Lui che lo istruisca e gli esponga il suo piano di
salvezza :
Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è
impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo
piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo
meravigliose per me, che non comprendo. Ascoltami e io
parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai! Io ti conoscevo solo
per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò
mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere (Gb ,–).
Nella misura in cui avranno come fondamento la “fede”
in quanto ascoltato dalla bocca di Dio, allora le riflessioni
dell’uomo su di sé e sulla propria realtà, potranno dirsi
“teologiche”, ossia: potranno legittimamente sperare di
riuscire a cogliere quelle verità che Dio gli comunica e
che illuminano l’essenza dell’umano e della sua vocazione.
In questo senso il teologo , quando vero, cioè quando
si lascia istruire dalla voce di Dio e condurre alla piena
. Sul rapporto tra Dio e Giobbe cfr F. P, Giobbe e il suo Dio.
L’incontro–scontro con il semplicemente Altro, Roma .
. La “parola di Dio” ha avuto storicamente il suo momento di massima
comunicabilità all’uomo con Cristo, Verbo di Dio fatto carne che pronuncia
“la parola del Padre” con voce e bocca umana. Questa stessa voce continua a
pronunciare e spiegare “la Parola” nell’attualità della storia tramite la stessa
bocca dello stesso “Corpo del Verbo”. Il “luogo naturale” in cui il teologo
svolge il suo ministero è, dunque, il luogo ecclesiale: il “Corpo di Cristo”.
Chi fa “teologia” perciò non è l’individuo che pensa, riflette e comunica, ma
è la Chiesa. È Lei “soggetto” che fa teologia e, in Lei, il singolo teologo fa
teologia in quanto Chiesa. Sulla stoltezza dei teologi che più che desiderare
la verità della Parola e predicarla si ingegnano e inventano nuove filosofie
nel tentativo di apparire brillanti ed originali: «l’amor de l’apparenza e ‘l suo
pensiero» (Par XXIX, ), si legga l’arringa di Dante contro alcuni maestri
scolastici Par XXIX, –.
Introduzione

verità dallo Spirito (cfr Gv ,), può realmente offrire il
suo servizio all’uomo inquieto e bramoso di conoscere
a pieno la sua natura e la sua destinazione. In tal modo,
davvero la teologia può porsi come serva della verità di
Dio, ancella della pace e della salvezza dell’uomo.
Nelle pagine che seguono si cercherà di individuare e
raccogliere in maniera sistematica le riflessioni attorno all’essere umano che hanno impegnato una tra le menti più
sottili della storia dell’umanità e che hanno nutrito l’anima
di uno degli scritti più nobili di tutta la storia della letteratura. Dante Alighieri è stato probabilmente il poeta che più di
ogni altro è riuscito a far innamorare l’uomo della propria
grandezza, facendogli allo stesso tempo prendere consapevolezza della drammatica possibilità di perdere quella
nobiltà che lo pone al vertice della creazione, smarrendo
il giusto orientamento della sua esistenza.
Nella lettera indirizzata a Cangrande, l’autore delinea
l’obbiettivo del suo scritto. Qui egli ammette di essersi
voluto porre come collaboratore della “felicità” dell’uomo:
il fine del tutto e della parte (della Commedia) è rimuovere i
viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato
di felicità.
Da uomo di profonda fede quale era, però, Dante era
certamente consapevole che la “felicità”, ossia il fine ultimo e la beatitudine eterna , procede dall’accoglienza libera
della verità di Dio e dell’uomo. Una verità non inventata o
trovata, ma rivelata da Dio in Gesù Cristo. Considerando
. D A, Epistola XV, .
. In Dante felicità eterna, alla quale ogni felicità terrena è ordinata,
diviene sinonimo di salvezza e beatitudine eterna: cfr D A,
Monarchia, III, XV, .

Introduzione
ciò, pare possibile sostenere che il poeta, conscio delle sue
abilità, abbia intenzionalmente voluto rendere piacenti e
belle quelle verità teologiche sull’uomo così da poter attrarre il suo lettore ad esse, stimolandolo ad accoglierle ed
amarle. Egli, cioè, ha voluto porsi al servizio della “felicità
eterna” cercando di attrarre l’uomo alla “verità” su di sé,
mediante la “bellezza” della propria arte poetica.
Tuttavia, detto ciò, qualcuno ritiene che la Divina Commedia non possa definirsi un’opera di “teologia” in senso
stretto, in quanto, di questa scienza, non ne seguirebbe
i canoni classici ed epistemologici. Sebbene in un certo
senso questo potrebbe anche essere condivisibile, ciò non
toglie, comunque, che essa possa e debba dirsi a pieno
titolo un’opera “teologica”, un’opera, cioè, che ha avuto
come scopo quello di fare vedere il vero all’uomo in modo che
la sua anima possa quietarsi.
Come sopra detto, infatti, solo nella “parola di Dio”,
l’uomo può trovare la pace dell’anima, perché solo nella
piena verità di sé egli può conoscere la “Via” per realizzare la sua vocazione e realizzare pienamente la propria
natura. Ora, il compito di donare la quiete della verità all’animo umano Dante lo rinviene proprio in quella “Divina
Scienza” che è appunto la “teo–logia”.
Così nel Convivio la sua definizione di teologia:
lo Cielo empireo per la sua pace simiglia la Divina Scienza, che
piena è di tutta pace; la quale non soffera di lite alcuna d’oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza
del suo subietto, lo quale è Dio. E di questa dice esso a li suoi
discepoli: “la pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi”, dando
e lasciando a loro la sua dottrina, che è questa scienza di cu’
io parlo. Di costei dice Salomone: “Sessanta sono le regine, e
. Cfr Ibidem.
Introduzione

ottanta l’amiche concubine; e de le ancille adolescenti non è
numero: una è la colomba mia e la perfetta mia”. Tutte scienze chiama regine e drude e ancille; e questa chiama colomba
perché è sanza macula di lite, e questa chiama perfetta perché
perfettamente ne fa il vero vedere nel quale si cheta l’anima nostra.
Compresa tale definizione del poeta, ci pare si possa sostenere che concependo la sua opera al servizio della salvezza: “mostrando” esteticamente la verità dell’uomo all’uomo
stesso, Dante abbia voluto comporre un’opera che fosse
profondamente “teologica”, che avesse, cioè, l’obbiettivo di
attrarre con la forza della bellezza all’unica verità che salva e
che dona pace. La Divina Commedia, dunque, vuole veicolare
un messaggio di verità, un messaggio teologico sull’uomo
che, considerato il fine ultimo dell’opera, si pone, in definitiva, come il cuore stesso dello scritto dantesco, il suo
fondamento. In questa “teologia” della Divina Commedia si
concentra così il nucleo dell’umanesimo di Dante, troppo spesso erroneamente compreso come esaltazione del laicismo e
dell’autonomia dell’uomo dalla Chiesa, intenzioni totalmente estranee all’autore. L’umanesimo proposto da Dante è,
infatti, un umanesimo fondamentalmente cristiano, anzi un
umanesimo “cattolico”, perché intento ad avvincere ogni
uomo circa la sua grandezza voluta e pensata da Dio per lui
e che solo nella Chiesa può portare a compimento .
. Conv, II, XIV, –.
. «Notiamo anzitutto in esso, [. . . ] l’identificazione della teologia con
l’insegnamento del Cristo [. . . ] si può dire quasi con certezza che egli si propone qui di ricordare come la teologia, considerata nella sua origine e per
conseguenza nella sua essenza, si riduca alla parola di Dio tramandataci dai
libri sacri» (E. G, Dante e la filosofia, ).
. «Però, in pro del mondo che mal vive, / al carro tieni or li occhi, e quel
che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive» Pur XXXII, –.
. Riportiamo le parole di Paolo VI che pronunciò in una lettera Motu
Proprio in occasione del settimo centenario della nascita di Dante Alighieri:

Introduzione
Il nostro lavoro si struttura in due brevi capitoli. Nel
primo si vuole riuscire ad individuare il messaggio teologico sull’uomo che il poeta vuole comunicare, cercando
di far emergere, nel piccolo delle nostre capacità, l’essenza
dell’umanesimo proposto da Dante.
Nel secondo si vuole provare a condurre una riflessione
teologica che muova dagli stimoli suscitati dalla Commedia stessa e che possa rendere così ancora attuale il servizio
“teologico” offerto da Dante nel suo secolo. Si tratterà di
riflessioni cristologiche ed antropologiche che avranno come scopo il tentativo di approfondire la realtà dell’umano
e orientare verso un “umanesimo cristologico” .
In appendice si offrirà una riflessione di carattere più
ecclesiologico che prenderà le mosse da alcuni canti della
stessa opera.
«Qualcuno potrebbe forse chiedere come mai la Chiesa cattolica, per volontà
e per opera del suo Capo visibile, si prenda così a cuore di celebrare la
memoria del poeta fiorentino e di onorarlo. La risposta è facile e immediata:
perché Dante Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della
religione cattolica, perché tutto spira amore a Cristo; nostro, perché amò
molto la Chiesa, di cui cantò gli onori; nostro, perché riconobbe e venerò
nel Romano Pontefice il Vicario di Cristo in terra» (P VI, Altissimi
cantus, ).
. Con questo termine si vuole indicare la particolare, ontologica, relazione tra l’uomo e Cristo, lungi assolutamente da noi intaccare la piena
e perfetta divinità di Cristo come facevano alcuni teologi a cui si dovette
rivolgere il Card. Ottaviani: «La stessa Persona adorabile di Nostro Signore
Gesù Cristo è chiamata in causa, quando, nell’elaborazione della dottrina
cristologia, si adoperano, circa la natura e la persona, concetti difficilmente
conciliabili con le definizioni dogmatiche. Serpeggia un certo umanesimo
cristologico (humanismus christologicus) che riduce Cristo alla condizione
di un semplice uomo, il quale un po’ per volta acquistò la consapevolezza
della sua filiazione divina. Il suo concepimento verginale, i miracoli, la stessa
Risurrezione vengono ammessi solo a parole, ma vengono ridotti al puro ordine naturale» (C   D  F, Lettera circolare
ai Presidenti delle Conferenze Episcopali circa alcune sentenze ed errori insorgenti
sull’interpretazione dei decreti del Concilio Vaticano II,  luglio , EV , ).
Introduzione

In anticipo chiediamo al lettore che perdoni ogni nostra
mancanza e ogni eventuale errata interpretazione. Sappia,
però, che il nostro intento è stato semplicemente quello,
nei limiti delle possibilità, di rendere onore a un’opera che
ha il pieno diritto di assumere un posto centrale all’interno del patrimonio teologico cattolico, un’opera di cui i
cristiani dovrebbero tornare prepotentemente ad appropriarsene per contribuire anche attraverso una sua corretta
divulgazione alla formazione di una cultura cristiana .
. Ancora Paolo VI: «Tutti l’onorino, poiché egli tutti riguarda: onore
del nome di cattolico, cantore ecumenico ed educatore del genere umano:
e con maggior diligenza e più fermo impegno l’onorino coloro che più gli
sono vicini per religione, carità di patria, vicissitudini, affinità di studi. Quelli
poi che più sono dotati non solo abbiano in mano giorno e notte una copia
della Divina Commedia, sublime capolavoro, ma approfondiscano anche
tutto quanto vi rimane d’inesplorato e d’oscuro. [. . . ] Esortiamo infine
gli uomini della nostra epoca a perfezionare e illuminare la loro cultura
incontrandosi con un così alto spirito. Il settimo centenario della sua nascita
infatti ce lo conduce quale astro luminosissimo, a cui volgere lo sguardo
e a cui — ostacolati da una selva oscura — chiedere di orientarci verso “il
dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia”» (P VI, Altissimi
cantus, ).
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