Sull`anima II - Aracne editrice

Aristotele
Sull'anima II
La fisica dell’anima
e delle sue facoltà sensoriali
Introduzione, traduzione e note di
GIOVANNA R. GIARDINA
(con testo greco edizione D.W. Ross)
Presentazione di Richard Bodéüs
Copyright © MMIX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 a/b
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2380–8
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: marzo 2009
Indice
Presentazione di Richard Bodéüs
Prefazione
p. 9
p. 11
Introduzione
p. 15
Aristotelis, De anima II
Tradizione e stato del testo
Testo greco (ed. Ross) e Note
p. 45
p. 49
Aristotele, Sull’anima II
Sulla presente traduzione
Traduzione e Note di commento
p. 87
p. 90
Bibliografia
Edizioni
Traduzioni
Commentari antichi
Commentari medievali e moderni
Studi monografici
p. 179
p. 179
p. 180
p. 182
p. 184
Indici
Indice degli autori antichi e moderni
Indice dei luoghi citati
p. 197
p. 200
7
Introduzione
Gli specialisti di Aristotele considerano comunemente il libro I del De anima una lunga introduzione (occupa, infatti, circa un quarto dell’intero testo) alla materia del trattato, al punto
che taluni studiosi lo hanno totalmente trascurato. Hamlyn, ad
esempio, ha tradotto in inglese nel 1968 i libri II e III ed ha preso in considerazione del libro I soltanto alcuni passaggi a cui riconosceva un certo interesse; 1 Durrant, più tardi, nel 1993, trascurerà anch’egli il libro I.2 Nel secolo precedente, precisamente nel 1891, Rabe, mettendo a frutto la lettura dei manoscritti M
(Marc. gr. Z 209) e P (Vat. gr. 1339), mai utilizzati nelle edizioni precedenti alla sua, aveva pubblicato l’edizione del solo
libro II,3 a cui egli attribuiva probabilmente maggiore autonomia argomentativa e superiorità di ordine teoretico rispetto agli
altri due libri. Queste scelte editoriali fatte in passato hanno una
loro ragion d’essere, di cui discuterò qui di seguito presentando
la motivazione per la quale io stessa ho ritenuto sufficiente in se
stessa una traduzione del solo libro II corredata dalle relative
note di commento. In effetti, il libro II del De anima si presenta
come quella parte centrale della dottrina aristotelica sull’anima
verso la quale, in certo qual modo, gli altri due libri convergono, non tanto per il fatto che Aristotele, dopo avere analizzato e
criticato le teorie sull’anima dei filosofi che lo hanno preceduto,
vi costruisce la sua esposizione positiva del problema
dell’anima, perché in quest’ottica anche il libro III, pur con i
problemi teorici che presenta, costituisce un’esposizione positiva dello Stagirita su questioni riguardanti l’anima, quale in primo luogo il problema dell’intelletto, quanto perché proprio da
1
D.W. Hamlyn, Aristotle’s De Anima Books II and III (with certain passages from Book I), translated with Introduction and Notes by D.W. H., Oxford 1968.
2
M. Durrant ed., Aristotle’s De anima in focus, London-New York 1993.
3
H. Rabe, Aristotelis De anima liber B, Berlin 1891.
17
18
G.R. Giardina
un punto di vista speculativo il libro II funge da cardine
dell’intera teoria, come cercherò di chiarire in queste pagine.
Innanzitutto mi preme fare qualche considerazione sul libro I
del De anima quale prologo dell’intero trattato, per mostrare
come esso sia proteso verso la materia del libro II e accennare
altresì al problema più in generale della funzione introduttiva
che si attribuisce comunemente ai primi libri di questo come di
altri trattati aristotelici.
Il procedimento metodologico di tipo dialettico consueto
all’analisi aristotelica, come è noto, prende le sue mosse di volta in volta da quanto hanno detto i predecessori a proposito
dell’oggetto della ricerca proposta. In DA I 2, 403b23-24 Aristotele fornisce sinteticamente le ragioni di questo modo di procedere: occorre analizzare le teorie che i predecessori hanno in
qualche modo espresso intorno all’anima allo scopo di accogliere le opinioni corrette ed evitare gli errori che essi hanno commesso. Si tratta della consueta spiegazione che Aristotele fornisce in diverse sue opere tutte le volte che sceglie di seguire la
medesima procedura metodologica, cioè quella di discutere appunto le opinioni dei predecessori sulla materia in esame.4 Ma
proprio questa impostazione metodologica può far rischiare allo
studioso moderno di perdere di vista alcuni tratti essenziali delle
porzioni di testo che fungono da prologo. Per prologo si intende, infatti, ciò che precede e introduce un discorso, nella fattispecie filosofico, e che ha valore di esordio, come dire che la
parte speculativamente essenziale è da ricercarsi più avanti.
Senza voler qui entrare nel merito dell’effettiva coerenza strutturale delle singole opere aristoteliche, ciascuna delle quali merita sotto questo profilo una considerazione a sé stante, e senza
riprendere la consueta distinzione fra l’Aristotele storico della
filosofia e l’Aristotele filosofo, a proposito della quale tanto si è
discusso e si discute ancora sulla attendibilità delle singole testimonianze aristoteliche sul pensiero originale dei filosofi che
lo hanno preceduto, mi sembra che talvolta non si comprenda
4
Cf. ad esempio Meta. II 1, 993b11 ss. Sulla bontà e opportunità di un
simile metodo cf. l’inizio di Top. I 10.
Introduzione
19
pienamente fino a che punto i libri iniziali, e con essi l’analisi
dei predecessori effettuata da Aristotele, siano una parte non solo del tutto omogenea della ricerca, ma spesso anche programmatica, nel senso che, proprio come lo stesso Aristotele afferma, le posizioni corrette ma anche gli errori, le imprecisioni, le
mancanze, le genericità che egli individua nei predecessori, costituiscono una mappa precisa della ricerca che egli va costruendo successivamente, nelle parti in cui espone positivamente il suo proprio pensiero. In tal modo la teoria positiva di
Aristotele, quale somma algebrica fra ciò che accoglie dei predecessori e ciò che invece rifiuta come falso, appare in taluni
casi – come accade appunto nel caso del DA – una sintesi delle
opinioni precedenti, sebbene la sostanziale trasformazione e
l’originalità della risultante che Aristotele ne ricava, seppure innestata su teorie già formulate prima, sono tali da garantire che
la teoria aristotelica sia del tutto nuova nella sua globalità. Così,
a proposito della Fisica, se si asserisce che il libro I, sui principi
del divenire, è come una sorta di prologo all’intero trattato e ci
si chiede in che termini e in che misura il libro II, dedicato alla
natura e alle cause, si presenti come un secondo prologo, si
commette un errore di prospettiva, perché in verità né l’uno né
l’altro libro mi sembra abbiano valore di prologo nel senso che
si attribuisce comunemente a questo termine: il libro I, infatti,
tratta correttamente di ciò che è più basilare nell’ambito della
scienza della natura, e cioè dei principi del divenire quale caratteristica distintiva degli enti naturali, e il libro II, una volta acquisite le nozioni di divenire e dei principi che lo rendono possibile nei diversi processi di mutamento o di movimento, introduce in maniera distinta la nozione di physis e spiega in termini
generalissimi la teoria delle cause. Entrambi questi argomenti,
la physis e le cause, si legano alla questione dei principi del divenire di cui Aristotele ha parlato nel libro I e senza la quale
non potrebbero essere compresi, e tuttavia sia la teoria dei principi del divenire del libro I che la teoria della physis e delle cause del libro II costituiscono parti autonome di quella unitaria teoria che è la scienza della natura. In effetti, il libro I tratta una
20
G.R. Giardina
materia generalissima, che serve ad avviare le ulteriori argomentazioni della Fisica e degli altri trattati di scienze naturali, e
il libro II è la naturale prosecuzione del I. E ancora, il libro I
della Metafisica, peraltro studiatissimo soprattutto sotto il profilo delle testimonianze che Aristotele fornisce sui Presocratici e
su Platone, mi sembra che abbozzi il programma dell’intero
trattato, soprattutto nell’individuare come scopo della ricerca, a
cui si dà il nome di filosofia prima, quello di riprendere il tentativo di Anassagora, volto a determinare le cause prime
dell’universo, a partire dal punto in cui questo filosofo lo ha lasciato – tentativo peraltro proseguito da Platone e risoltosi, secondo la valutazione di Aristotele, in modo fallimentare con
l’intrapresa da parte del Socrate del Fedone della cosiddetta seconda navigazione – al fine di mostrare, attraverso la nozione di
causa finale, in qual modo sia possibile che la forma svolga una
funzione motrice. I primi due libri del De generatione et corruptione presentano incognite forse ancora più profonde, a causa della forte somiglianza delle argomentazioni che Aristotele
affronta in entrambi, somiglianza che ha fatto sospettare che il
libro II sia una versione riscritta di quello che doveva essere il
prologo dell’opera: anche in questo caso, tuttavia, qualunque sia
la soluzione del dilemma, è indubbio che nella discussione dei
predecessori che vi si trova si riscontrano i problemi stessi che
Aristotele ritiene si debbano risolvere per fornire l’intera teoria
relativa ai processi di mutamento sostanziale, cioè appunto la
generazione e la corruzione, tanto che i medesimi argomenti
che si leggono nei primi due libri sono continuamente ripresi
nel corso dell’opera, là dove Aristotele fornisce positivamente
la sua posizione. In tutti questi libri, che sono considerati come
aventi funzione di prologo e che io adduco qui come esempi,
appare evidente, quindi, che Aristotele costruisce il suo progetto
di ricerca, per cui si trova già in essi la sua teoria positiva o, almeno, il profilo di essa. Ma c’è di più: Aristotele sembra assumere le teorie dei predecessori, al fine di sottoporle ad analisi,
precisamente sotto quegli aspetti e nei modi che gli sono più
utili e produttivi per la sua propria teoria. Come dire che, men-
Introduzione
21
tre noi leggiamo prima l’indagine sui predecessori relativa ai
singoli problemi specifici di ogni trattato e solo dopo passiamo
alla teoria positiva di Aristotele, egli al contrario sembra analizzare le teorie dei predecessori quando la sua propria teoria è già
costruita, a posteriori e non a priori. È precisamente questa
l’impressione che si ricava dalla lettura del libro I del De anima. In tale libro, considerato anch’esso come prologo
dell’opera e perciò, come ho accennato, da alcuni persino trascurato, si scopre che Aristotele costruisce solidi sostegni su cui
intende far passare senza eccessive difficoltà le soluzioni di
un’indagine che, come egli stesso ammette, ha un oggetto assai
difficile, precisamente l’indagine sulla natura o essenza
dell’anima (402a11). Ora, la progettualità di DA I riguarda appunto l’acquisizione di alcuni nodi teorici di tale indagine ed è
per questa ragione che essa appare tutta protesa, come ho detto,
verso il libro II.
In DA I 1, dopo aver detto che la ricerca sull’anima riguarda
una forma di sapere piuttosto elevata e dopo avere reso esplicito
lo scopo della ricerca stessa, cioè quello di conoscere, come si
diceva, la natura o essenza dell’anima, Aristotele determina in
successione quali sono i principi della sua ricerca5 per fare poi
importanti considerazioni sul rapporto fra l’anima e il soggetto
di cui essa è anima e, conseguentemente, sul fatto che l’anima
riguarda la scienza della natura.6 A partire dalle li. 403a3 ss., infatti, Aristotele si chiede se le affezioni dell’anima appartengano al soggetto di cui essa è anima oppure se ce ne siano alcune
proprie ed esclusive dell’anima, ma si pone questo problema al
solo scopo di stabilire, alla fine, che l’anima non agisce e non
5
E cioè fondamentalmente i seguenti: 1) se l’anima è sostanza o accidente; 2) se è in potenza o in atto; 3) se ha parti o ne è priva; 4) se tutte le anime
sono della stessa specie e, in caso contrario, se le anime sono diverse per specie o per genere; 5) se di anima c’è un’unica definizione. La terza questione si
articola poi in problemi specifici, elencati alle li. 402b8 ss.
6
Cf. M. Frede, On Aristotle’s conception of the Soul, in Nussbaum &
Rorty, Essays on Aristotle’s De Anima, Oxford 1992, pp. 93-107; Id., On Aristotle’s Conception of the Soul, in Sharples R.W. ed. by, Modern Thinkers
and Ancient Thinkers, London 1993, pp. 138-56.
22
G.R. Giardina
subisce nulla indipendentemente dal corpo,7 perché le affezioni
dell’anima sono inseparabili dalla materia naturale dei viventi;
indipendente dal corpo, semmai, sembrerebbe il pensiero (to
noein), ma anche questo è discutibile se è vero che il pensiero si
serve dell’immaginazione (phantasia). Una rapida presentazione delle emozioni quali affezioni legate indissolubilmente a
modificazioni del corpo conduce Aristotele a spiegare che la
collera è un certo movimento di un certo corpo, il che gli fa
concludere che l’anima, in quanto non sta senza il corpo di cui è
anima, è oggetto di studio del fisico, il quale si occupa della
forma senza prescindere dalla materia (403b7-9).8 Ora, se è vero che questa parte di DA I 1 apre l’importante questione dei
rapporti fra la psicologia aristotelica e la scienza della natura, su
cui pure occorrerà spendere ancora qualche parola, quello che
tuttavia appare interessante qui è che, a quanto sembra, Aristotele imposta sin dall’inizio il problema dell’essenza dell’anima
anticipando quella che sarà la definizione di anima che si legge
in II 1, 412a19-21, secondo cui «l’anima è necessariamente sostanza nel senso di forma di un corpo naturale che possiede in
potenza la vita», definizione a cui si aggiunge immediatamente
la specificazione secondo cui tale sostanza è entelechia ed entelechia prima,9 per cui l’anima è entelechia di un tale corpo natu7
Su questo problema si vd. W.F.R. Hardie, Aristotle’s Treatment of the
Relation between the Soul and the Body, «Philosophical Quarterly», 14
(1964), pp. 53-72; T.M. Olshewsky, On the Relations of Soul to Body in Plato
and Aristotle, «Journal of the History of Philosophy», 14 (1976), pp. 391-404;
Robinson H.M., Mind and Body in Aristotle, «Classical Quarterly», 72 (1978),
pp. 107-124; Id., Aristotelian Dualism, «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1 (1983), pp. 123-144; R. Sorabji, Body and Soul in Aristotle, «Philosophy», 49 (1974), pp. 63-89 (ristampato in J. Barnes et alii ed. by, Articles on
Aristotle, vol IV: Psychology and Aesthetics, London 1975, pp. 42-64. Si vd.
anche R. Heinaman, Aristotle and the Mind-Body Problem, «Phronesis», 35
(1990), pp. 83-102.
8
Cf. Phys. II 2, 194a12-15. Come in questo I capitolo del DA, anche in
Phys. II 2 Aristotele si preoccupa di distinguere i compiti del naturalista da
quelli del matematico e di colui che fa filosofia prima.
9
Nelle note alla traduzione chiarirò quello che io penso sia il significato
in Aristotele del termine entelechia. Qui basti dire che si tratta di un atto che
Introduzione
23
rale. Se un’affezione dell’anima, quale ad esempio la collera, è
un certo movimento del corpo naturale, infatti, questo può aver
luogo solo se l’anima è entelechia di un tale corpo, cioè di un
corpo naturale che possiede in potenza la vita.
Anche nella parte concernente l’esposizione dossografica e
la relativa critica delle teorie dei predecessori (DA I 2-3) si riscontrano già alcuni tratti della posizione teorica che Aristotele
esporrà nel libro II.
In DA I 2 Aristotele stabilisce sostanzialmente tre filoni teorici entro i quali colloca, di volta in volta, i filosofi che lo hanno
preceduto e che, a seconda della teoria che hanno sostenuto, si
collocano nell’uno o nell’altro dei tre filoni. «Il vivente si distingue dal non vivente – dice Aristotele – soprattutto per il
movimento e per la sensibilità» (403b25-27). Il primo filone teorico riguarda appunto il movimento, sulla base del quale alcuni
predecessori hanno affermato che l’anima è un principio di movimento, meglio “ciò che muove (to kinoun)”, che in quanto tale è “ciò che è mosso (to kinoumenon)”, poiché ciò che muove
non può non muoversi, anche se si muove da sé.10 Il secondo filone teorico riguarda la sensazione, sulla base della quale alcuni
predecessori hanno affermato che l’anima è uno strumento di
conoscenza, e che in quanto tale o è il simile che conosce il simile, o è un principio elementare (404b10-17 e 405b12-23). Il
terzo filone teorico, che riflette sulla corporeità o incorporeità
dei principi elementari e quindi dell’anima, mostra come i filosofi abbiano tutti concepito l’anima come un principio assoluperò coesiste con l’aspetto potenziale del soggetto – e intendo aspetto potenziale sotto il medesimo rispetto formale e non, evidentemente, sotto un diverso rispetto formale – e, quindi, con il movimento. In questo senso l’entelechia
sarebbe la più vera dimensione di attualità degli enti naturali, continuamente
coinvolti nel divenire.
10
In altri termini, Aristotele considera la posizione secondo cui l’anima si
muove in quanto muove secondo un duplice aspetto, poiché alcuni filosofi che
lo hanno preceduto hanno sostenuto semplicemente che l’anima si muove,
mentre altri, e cioè i Platonici, hanno sostenuto che l’anima muove e si muove
in quanto semovente. La condizione, poi, secondo cui ciò che muove sia in
movimento riferita all’anima non è, secondo Aristotele, necessaria, come egli
chiarisce in DA I 2, 403b28 ss. e I 3, 406a3-4.
24
G.R. Giardina
tamente o il più possibile incorporeo, tant’è vero che essi hanno
identificato l’anima con molti elementi diversi, fra cui il sangue,11 e tuttavia nessuno ha mai detto che l’anima è terra, che è
il più corporeo degli elementi (405b2 ss.). Accanto all’essere
principio di movimento e di conoscenza, quindi, l’incorporeità
viene assunta quale terza caratteristica dominante dell’anima
(405b11-12).12 In DA I 3 sono esattamente queste posizioni teoriche che Aristotele sottopone a una critica serrata mostrandone
l’incoerenza, l’illogicità, la contraddizione interna. Tutte e tre
queste posizioni, assunte da Aristotele come vere in via di ipotesi, vengono da lui sottoposte ad una critica rigorosa, al fine di
stabilire esattamente con quali sostanziali differenze, rispetto al
modo in cui le hanno poste i suoi predecessori, esse possano essere assunte come realmente vere.
Anzitutto Aristotele prende in esame l’opinione secondo cui
l’anima è principio di movimento e, in particolare la tesi di Platone secondo cui l’anima si muove da sé.13 Distingue quindi il
movimento in sé da quello accidentale14 ed elenca i quattro tipi
di movimento 15 di cui si dovrebbe muovere l’anima se è vero
che essa si muove. Ammettendo che l’anima si muove per se
stessa, e non accidentalmente – come è necessario che avvenga,
se è vero che l’essenza dell’anima è proprio quella di muovere
se stessa –,16 il suo movimento, che dovrebbe essere uno o più
11
Si tratterebbe di Crizia, vd. DA I 2, 405b5-8.
Sulla base di queste tre caratteristiche attribuite all’anima Aristotele ritiene che i suoi predecessori abbiano tramandato tre tipi di definizione di anima, quelli che appunto ho individuato nei detti filoni teorici: anima come
principio di movimento, come sensazione, come corporeità. Cf. DA I 5,
409b19 ss.
13
Cf. Plat. Lg. X 896a ss.
14
Su cui cf. Phys. V 1, 224a21 ss.
15
Cioè traslazione, alterazione, aumento e diminuzione. In realtà queste
sono tre specie di movimento, perché sia l’aumento che la diminuzione individuano il movimento secondo la quantità. La quarta specie di movimento sarebbe la generazione.
16
Se il movimento dell’anima fosse accidentale, essa potrebbe trovarsi
nella medesima condizione del bianco, che si muove accidentalmente perché
si muove il corpo di cui il bianco è una proprietà (406a19-20).
12
Introduzione
25
di uno o tutti e quattro i movimenti elencati da Aristotele (cioè
traslazione, alterazione, diminuzione e aumento – 406a12-13),
prevede sempre un luogo, perché ciascuno dei movimenti citati
prevede il luogo.17 Seguono altri argomenti che si presentano
principalmente come critiche a Platone, ma che non risparmiano
altri filosofi, fra cui certamente Democrito,18 in quanto è inconcepibile per Aristotele che l’anima sia principio di movimento
solo in quanto gli atomi ignei e sferici dell’anima sono dotati di
moto perpetuo, giacché questa causa assunta dagli Atomisti è
una causa motrice, mentre Aristotele concepisce l’anima come
principio di movimento in quanto causa di tipo finale. A questo
punto Aristotele muove una serie di obiezioni: ad esempio,
l’anima, se si muove per natura si deve muovere anche di moto
forzato; o ancora l’anima, se muove il corpo, lo muove con gli
stessi movimenti con cui essa stessa si muove, ma ragionevolmente allora anche con il movimento di cui si muove il corpo si
muoverà l’anima, e cioè secondo la traslazione, per cui l’anima,
come il corpo, potrà mutar luogo o totalmente o in parte, con la
conseguenza, ad esempio, che potrà uscire dal corpo e rientrarvi: in tal caso i morti risusciteranno; eccetera. Queste obiezioni,
e altre che seguono, appaiono interessanti ai fini del nostro discorso, perché puntano sul fatto che, stando così le cose,
l’anima risulterà alla fine un corpo o una grandezza. Aristotele,
in altri termini, pur nel contesto delle critiche che muove contro
i predecessori, si sta già ponendo il problema dello statuto ontologico dell’anima, che non può essere corpo, come pretenderebbero i filosofi materialisti, e non può essere neppure un ente
matematico, perché quest’ultimo è, dal punto di vista ontologico, una proprietà corporea.19 Che Aristotele abbia già in mente
il problema dello statuto ontologico dell’anima, che egli affronterà esplicitamente in DA II 1, risulta evidente in primo luogo
17
Cf. Phys. VIII 7, 260b1 ss.
Cf. 406b20.
19
Il bersaglio principale resta sempre Platone, perché nel Timeo, come
sottolinea Aristotele (406b28-29), l’anima è costituita di elementi formati e
distribuiti secondo rapporti numerici.
18
26
G.R. Giardina
dal fatto che si sofferma, in DA I 4, 408b32 ss., su una posizione che nel corso dell’excursus dossografico di I 2 era stata soltanto accennata,20 e cioè sulla posizione di Senocrate, secondo
cui l’anima è un numero semovente, posizione che aggiunge ai
problemi che scaturiscono dal porre l’automotricità dell’anima
quelli che scaturiscono dal porre l’anima come numero;21 ma risulta evidente in secondo luogo, anche da quanto Aristotele afferma già alla fine di I 3, dove dice che le teorie del Timeo platonico, che ha messo in discussione, così come le altre teorie
sull’anima sbagliano nello stabilire i termini del rapporto fra
corpo e anima, perché non tengono conto del fatto che ogni
corpo ha una forma specifica sua propria. I filosofi di cui si discute, osserva Aristotele, nell’ammettere che ogni anima entra
in un qualsiasi corpo a caso, si esprimono come se qualcuno dicesse che l’arte del carpentiere entra nei flauti, mentre invece,
come ogni tecnica si serve degli strumenti adatti ai suoi scopi,
allo stesso modo l’anima si serve di un corpo particolare. Ebbene, in questa critica è già implicito un accenno alla dottrina ilemorfica del libro II, secondo cui l’anima è la sostanza formale o
entelechia del corpo che ha in potenza la vita, teoria che consente di evitare il materialismo psicologico e, al contempo, impedisce di pensare all’anima senza il corpo.22 Ma c’è anche, nel
libro I del DA, il tentativo esplicito di demolire ogni sorta di
materialismo psicologico in favore di una definizione di anima
quale forma che sfugga anche a quelle posizioni teoriche che
individuano l’anima come il più incorporeo dei principi elementari, se è vero, come è vero, che, attingendolo dalla discussione
critica della teoria di Senocrate, Aristotele si concede un appiglio – e cioè una sorta di identità fra l’unità numerica e l’unità
di materia per cui diviene identificabile l’atomo psichico e il
punto – per criticare Democrito, che ha identificato l’anima con
20
Vd. DA I 2, 404b29-30.
Vd. DA I 4, 408b33-409a1.
22
Cf. B.A.O. Williams, Hylomorphism, «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 4 (1986), pp. 189-199.
21
Introduzione
27
gli atomi sottilissimi, quindi al tempo stesso materiali e il più
possibile incorporei.
In I 5 Aristotele prende in considerazione la teoria secondo
cui l’anima sarebbe composta di elementi, teoria formulata affinché sia possibile che l’anima percepisca e conosca singolarmente tutti gli enti (409b23-25). Su questo aspetto speculativo
si sofferma Aristotele ridicolizzando tutta la teoria, poiché ammesso che il simile conosce il simile, come sostengono i filosofi
che difendono questa teoria, l’anima conoscerebbe gli elementi
a lei simili ma non conoscerebbe i composti, in cui gli elementi
devono necessariamente assumere una data proporzione e una
data sintesi, con la conseguenza che sarà uno strumento di conoscenza alquanto carente, perché conoscerà gli elementi ma
non le cose, il che vanifica la definizione secondo cui l’anima
sarebbe strumento di conoscenza.
Ora, la parte dossografica e quella critica producono un bilancio che, da un lato, è negativo, ma che, dall’altro lato, è positivo, almeno in senso progettuale: Aristotele ha appurato che
l’anima non è né mobile né, tantomeno, semovente; che non è
materiale né, tantomeno, assimilabile a un qualunque corpo elementare. D’altra parte i filosofi che lo hanno preceduto non
hanno sbagliato su tutto il fronte riguardo all’anima, poiché in
effetti l’anima è un principio, come essi hanno affermato; è un
motore, perché è l’anima che produce negli animali il movimento secondo il luogo e anche la crescita e la diminuzione
(411a29 ss.);23 è strumento di conoscenza; ed è incorporea in
quanto intrattiene un certo rapporto con il corpo, rapporto che
va meglio interpretato, perché l’immaterialità dell’anima per
Aristotele non è quella di un’entità che si può pensare totalmente separata dal corpo come in una visione dualista di corpo e anima tipica del platonismo. Ebbene, tutti questi elementi preludono progettualmente alla materia trattata nel libro II e anzi,
come dicevo, si protendono verso il libro II, non solo perché a23
L’anima è infatti causa motrice del corpo ed è mobile solo accidentalemente, secondo Aristotele, in quanto si muove il corpo di cui essa è anima e
che essa muove, cf. 408a31 ss.
28
G.R. Giardina
spettano di trovare in quest’ultimo la loro soluzione teorica, ma
soprattutto perché si ha l’impressione che la parte dossografica
e critica sia impostata nel modo che si è detto sopra in ragione
del fatto che Aristotele critica i predecessori guardando già alla
teoria che esporrà nel libro II. Come dire che è più il libro II che
giustifica il I che non il I che introduce il II.
Quando nel libro II Aristotele tenta innanzitutto di definire
l’anima, egli non solo dà un chiaro segnale di voler fornire la
pars construens del suo trattato, ma anche di considerare il libro
I in funzione del II, perché i rapporti fra corpo e anima di cui ha
parlato nel libro I servivano a poter definire da subito l’anima e
nel modo in cui egli la definisce. Aristotele può, infatti, a giusto
titolo individuare una definizione generale di anima come «sostanza nel senso di forma di un corpo naturale che possiede in
potenza la vita» (412a19-21), in ragione del fatto che ha chiarito
prima, appunto nel libro I, che l’anima è sì immateriale ma non
deve tuttavia essere pensata come separata dal corpo insieme
con il quale, al contrario, costituisce una vera e propria sostanza
nel senso di sostanza prima, cioè di sinolo di materia e forma.
La definizione dell’anima che Aristotele formula all’inizio del
libro II ha la caratteristica di essere comune in massimo grado
alle diverse anima, perché si adatta a tutti i viventi e perché, in
effetti, è tratta dall’osservazione empirica della funzione più basilare dei viventi – e quindi comune a tutti i viventi –, cioè la
nutrizione e, conseguentemente, la crescita, anche se questo non
deve far perdere di vista che ci sono tre tipi distinti di anima.
L’esempio della figura proposto da Aristotele alle li. 414b20 ss.
atto a far comprendere perché è una e comune la definizione di
anima, sebbene poi esistano solo anime specifiche, è estremamente chiaro: se da un lato è legittimo fornire una definizione
generale di figura che si applica a tutte le figure geometriche,
tale figura non sarà tuttavia specificamente né il triangolo, né il
quadrato, né alcun’altra figura specifica, anche se tutte queste
figure specifiche rendono possibile pensare a una nozione di figura, comune a tutte le figure, che di per sé è inesistente. Allo
stesso modo, la definizione comune di anima vale per tutte i tipi
Introduzione
29
di anime anche se non vale in senso proprio per nessuno di essi,
nemmeno, come ho detto, per l’anima nutritiva, che costituisce
il punto di partenza per la definizione comune di anima.
L’attenzione verso la specificità dell’anima dà vita alla lunga
analisi che Aristotele ne fa nel libro II, in cui si sofferma sulla
facoltà nutritiva (II 4) e su quella sensitiva (II 5) con ulteriore
descrizione dei cinque sensi (II 7-11).
Nel libro I Aristotele ha già chiarito che l’anima è una per la
sua stessa definizione, anche se si articola in tre specie o tipi di
anima, che in realtà solo impropriamente sono chiamate diverse
anime, perché sono in effetti diverse facoltà della stessa anima
(nutritiva, sensitiva, intellettiva),24 e che quindi l’approccio tradizionale al problema dell’anima è sbagliato sia sul versante di
coloro che non considerano se non l’anima di alcuni esseri viventi25 sia sul versante di coloro che partono dai non viventi,26
ad esempio dagli elementi materiali, per discutere dell’anima.27
Assunta questa posizione che afferma che l’anima è una, Aristotele sceglie un punto di partenza rilevante da un punto di vista teoretico, e cioè l’idea che l’anima nutritiva sia il più basilare tipo di anima, in quanto è principio delle facoltà che presiedono alle funzioni più elementari, quali la nutrizione e la ripro24
Si tenga presente che Aristotele spiega con l’esempio della figura geometrica l’ordine interno delle facoltà dell’anima, a 414b20 ss., quando dice:
«È dunque evidente che sarà una sola la definizione dell’anima così come
quella della figura geometrica, perché in quest’ultimo caso non c’è figura oltre
al triangolo e alle figure successive, né nel primo caso c’è anima oltre alle anime di cui si è detto». Cf. su questo passaggio la nota alla traduzione ad loc.
25
Ad esempio, coloro che considerano l’anima come un motore non potranno considerare i viventi immobili, mentre coloro che considerano l’anima
come uno strumento di conoscenza non potranno tenere in considerazione le
piante.
26
Sono gli animisti, coloro cioè che attribuiscono l’anima a tutto, anche
agli elementi.
27
Tutti questi filosofi, secondo Aristotele, falliscono perché non raggiungono il duplice obiettivo che egli realizza nella sua psicologia, e cioè quello di
fornire una definizione universale di anima e quello di individuarne, attraverso
le funzioni, le facoltà specifiche, ovvero i diversi tipi di anima; cf. DA I 5,
410b16 ss.
30
G.R. Giardina
duzione, e quindi individua il vivente nei suoi termini più fondamentali. Ma se da una parte questa impostazione costituisce
un rovesciamento di prospettiva rispetto alle precedenti teorie
sull’anima, alcune delle quali privilegiavano l’aspetto antropologico della psicologia mentre altre si presentavano sotto forma
di diffuso e generalizzato animismo, è anche vero, dall’altra
parte, che la facoltà nutritiva, che si presenta come principio di
funzioni doppiamente primitive, non occupa grande parte
dell’analisi del libro II, perché per Aristotele l’anima si presenta
fondamentalmente come un principio cognitivo e la caratteristica fondamentale degli esseri viventi è la sensazione.28 Se da un
lato, quindi, assumere l’anima nutritiva come quello basilare fra
i diversi tipi di anima ha un valore teoretico rilevante, nella misura in cui Aristotele trasporta la psicologia su un versante propriamente biologico, tuttavia non ha altrettanto peso lo spazio
argomentativo che Aristotele riserva a questo tipo di anima,
poiché ciò che lo interessa è soprattutto l’indagine sull’anima
come principio cognitivo oltre che motorio.
Nel libro II, in cui come dicevo l’analisi della funzione cognitiva di tipo sensitivo è posta in primo piano, Aristotele non si
preoccupa di distinguere nettamente la percezione dall’attività
dell’intelletto e si limita a sottolineare, alle li. 417b23 ss., che la
percezione riguarda gli oggetti concreti, mentre la scienza riguarda gli universali. La ragione di tale indistinzione è che ad
Aristotele appare necessario chiarire in primo luogo in che modo e perché la sensazione sia la proprietà comune degli animali
e solo successivamente spiegare la distinzione fra senso e intelletto, e questo perché i fisiologi suoi predecessori hanno considerato come identici pensare e sentire29 e hanno quindi identificato l’intelletto con l’anima.30 Il punto di partenza è offerto, ancora una volta, dall’analisi dei predecessori condotta nel libro I,
che Aristotele mette ancora a frutto in quanto parte dalla con28
Almeno metà del De anima è dedicato al problema cognitivo, che va
dalla percezione all’intelletto, cioè da II 5 a III 7.
29
Vd. DA III 3, 427a20 ss.
30
Vd. DA I 2, 405a8 ss.
Introduzione
31
vinzione di alcuni fisiologi, prevalentemente Empedocle e Democrito, secondo i quali il simile agisce sul simile, tema di cui
ha già discusso in DA I 2, 405b15 e 5, 410a23. Di qui nasce la
domanda se l’anima possa percepire anche gli organi di senso
dal momento che, come si è stabilito nel libro I, secondo i fisiologi essa sarebbe identificabile con uno o più principi elementari, cioè con quegli stessi principi di cui sono costituiti gli organi
di senso, i quali quindi, dal momento che il simile conosce il
simile, dovrebbero essere essi stessi percepibili per l’anima. E
ancora, Aristotele sembra anche seguire un criterio di metodo
che è quello stesso che ha già preannunciato alle li. 402b10 ss.,
in cui si era interrogato sull’opportunità di esaminare prima gli
oggetti delle attività sensitive, poi le stesse attività o funzioni e,
infine, gli organi di senso o facoltà, secondo quel procedimento
di ordine empirico che è predominante nel DA. Sulla base di tale criterio Aristotele distingue, poi, i sensibili per sé dai sensibili per accidente31 e, conseguentemente, i sensibili propri dai
sensibili comuni,32 per passare, quindi, a quell’attenta analisi
dei sensibili e delle relative facoltà sulla quale si svolge tutta la
restante parte del libro II, dal momento che egli analizzerà in
modo sistematico nell’ordine: la vista (cap. 7), l’udito (cap. 8),
l’olfatto (cap. 9), il gusto (cap. 10) e il tatto (cap. 11). Per ciascuno di questi sensi Aristotele,33 coerentemente con i criteri già
stabiliti, prende in esame la rispettiva facoltà partendo dal sensibile proprio, per cui la vista è esaminata a partire dall’oggetto
visibile, l’udito a partire dall’oggetto udibile e così via.34
31
Su cui vd. S. Cashdollar, Aristotle’s Account of Incidental Perception,
«Phronesis», 18 (1973), pp. 279-310; J. Owens, Aristotle on Common Sensibles and Incidental Perception, «Phoenix», 36 (1982), pp. 215-236.
32
Cf. D. Lories, Des sensibles communs dans le “De anima” d’Aristote,
«Revue philosophique de Louvain», 89 (1991), pp. 401-419; S. Everson,
Proper Sensibles and Kath’ Auta Causes, «Phronesis», 40 (1995), pp. 265292.
33
Si cf. sull’argomento R. Sorabji, Aristotle on Demarcating the Five
Senses, «The Philosophical Review», 80 (1971), pp. 55-79.
34
Aristotele mostra in ogni occasione un’impostazione metodologica che
obbedisce a criteri di realismo e di concretezza. Allo stesso modo, ad esempio,
32
G.R. Giardina
L’ultimo fra i sensi analizzati è il tatto, che in realtà avrebbe
dovuto occupare il primo posto, se è vero che, come Aristotele
stesso stabilisce (414b3 ss.), il tatto è il senso che sta a fondamento di tutti gli altri sensi, in quanto è l’unico senso che tutti
quanti gli animali possiedono e si identifica con la facoltà della
nutrizione, dal momento che anche il gusto è una sorta di tatto.35 Per analizzare tutte queste facoltà sensitive Aristotele segue uno schema abbastanza rigido, perché fissa la sua analisi
sull’oggetto sensibile, sull’organo di senso finalizzato alla percezione di quello specifico oggetto e sul mezzo che consente la
percezione, ad esempio la luce nel caso della vista, l’aria nel caso dell’udito e dell’olfatto.36 Il tatto sembra a prima vista
l’unico senso a sfuggire a questo schema analitico, perché sembrerebbe che la percezione avvenga senza l’intervento di un
mezzo, bensì direttamente, dal contatto cioè fra l’oggetto percepibile e la carne del soggetto percipiente. In realtà, però, si scopre che la carne costituisce il mezzo della percezione tattile, il
cui organo sensoriale specifico è il cuore. Questa difficoltà di
individuare il mezzo del tatto potrebbe aver comportato un ragionevole spostamento dell’analisi della percezione tattile come
ultima fra le facoltà sensoriali.
in Phys. II 2, per definire e indagare che cosa sia la natura parte dagli enti naturali concreti.
35
Gusto e tatto, infatti, costituiscono il gruppo dei sensi a contatto,
poiché il mezzo attraverso cui si realizza la sensazione appartiene al soggetto
percipiente stesso, diversamente da vista, udito e olfatto che, al contrario, costituiscono il gruppo dei sensi a distanza, poiché il mezzo attraverso cui si realizza la sensazione è esterno al soggetto percipiente. Sulla preminenza del tatto
cf. C. Freeland, Aristotle on the Sense of Touch, in Nussbaum & Rorty, Essays
on Aristotle’s De Anima cit., pp. 227-248; G. Romeyer-Dherbey, Voir et
toucher. Le problème de la prééminence d’un sens chez Aristote, «Revue de
Métaphysique et de Morale», 96 (1991), pp. 455-474; S.H. Rosen, Thought
and Touch. A Note on Aristotle’s “De anima”, «Phronesis», 6 (1961), pp.
127-137.
36
Cf. A. Graeser, On Aristotle’s Framework of Sensibilia, in Lloyd &
Owen ed. by, Aristotle on Mind and the Senses, Proceedings of the Seventh
Symposium Aristotelicum, Cambridge 1978, pp. 69-97.
Introduzione
33
A questo punto, dopo aver dettagliatamente indagato nel libro II i sensibili propri, Aristotele prolunga l’analisi dell’anima
come principio cognitivo nel libro III con l’indagine sui sensibili comuni (movimento, quiete, unità, numero, figura e grandezza) e poi sull’intelletto. Se i sensibili propri sono quelli alla cui
percezione è finalizzato ciascun senso specifico, i sensibili comuni sono, invece, quelli alla cui percezione sono preposti più
sensi in collaborazione fra loro, i quali producono così una percezione comune.37 Non è quindi necessario ipotizzare un sesto
senso che, nella percezione di un sensibile comune, si comporti
alla stessa maniera di un altro senso specifico e che è, quindi, da
aggiungere ai cinque sensi già considerati, ma si tratta di porre
delle funzioni comuni ai cinque sensi propri, che si raccoglierebbero così in certo qual modo in unità. L’unità dell’anima
sensitiva, infatti, è ciò che permette di discernere i sensibili
propri – in quanto sa giudicare in rapporto ad un medesimo oggetto gli aspetti differenti che cadono sotto sensi differenti – ed
è altresì ciò che permette la collaborazione dei sensi nella percezione dei sensibili comuni. I sensi non funzionano separatamente, perché unico è il principio psichico che presiede alle loro specifiche funzioni. Tuttavia, ciò che a noi più interessa cogliere qui è la ragione per cui sembra che la materia trattata nel
libro III, pur nella sua specificità, si ripieghi in un certo senso
verso la materia trattata nel libro II, e ciò è possibile se si confrontano alcuni aspetti dell’analisi sull’intelletto con quanto già
detto sulla conoscenza percettiva. Un simile confronto, ancorché rapido, consentirà, come già nel caso del rapporto fra libro I
e libro II del DA, di comprendere la centralità del libro II anche
in rapporto al libro III. Non è infatti mia intenzione soffermarmi
qui sulla teoria dell’intelletto nel suo complesso, teoria che, pe37
Vd. DA III 1, 425a27. Cf. I.L. Block, Aristotle on the Common Sense:
A Reply to Kahn and Others, «Ancient Philosophy», 8 (1988), pp. 235-249;
Id., Three German Commentators on the Individual Senses and the Common
Sense in Aristotle’s Psychology, «Phronesis», 9 (1964), pp. 58-63; J.
Brunschwig, Les multiples chemins aristotéliciens de la sensation commune,
«Revue de Métaphysique et de Morale», 96 (1991), pp. 455-474; D.W. Hamlyn, Koine Aisthesis, «The Monist», 52 (1968), pp. 195-209.
34
G.R. Giardina
raltro, presenta problemi di grande difficoltà ermeneutica, perché questo esula dalle esigenze di questa Introduzione, che si riferisce specificamente al libro II.
Contrariamente a quanto hanno pensato i filosofi del passato, l’intelligenza non può, secondo Aristotele, essere identificata
con la capacità sensitiva, ma al contrario sta al di sopra rispetto
alle capacità sensitive comuni a tutti gli animali, in quanto appartiene solo all’uomo e sta al vertice della gerarchia delle capacità cognitive in generale. E tuttavia, in III 4 la nozione di intelletto passivo viene introdotta grazie a un’analogia con la percezione: se il pensare, infatti, è come il percepire, afferma Aristotele (429a13 ss.), allora il pensare consiste nel subire azione
da parte dell’intelligibile (come la sensazione consisteva nel subire azione da parte del sensibile alle li. 416b33-34) e l’anima
intellettiva sarà ricettiva della forma e sarà, in potenza, tale quale è la forma senza essere identica ad essa (allo stesso modo
della facoltà sensitiva alle li. 417a6-7). In altri termini, conclude
Aristotele, l’intelletto si trova nei confronti degli intelligibili nel
medesimo rapporto in cui si trova la facoltà sensitiva rispetto
agli oggetti sensibili. Ma il legame fra il cognitivo sensitivo e il
cognitivo intellettivo si spinge oltre. L’intelligenza risulta dipendente dai sensi e, anzi, Aristotele cerca di mettere in evidenza, da un punto di vista empirico, il fatto che l’intelligenza assume a suo fondamento i dati sensibili. L’intelletto, infatti, non
opera senza rappresentazione di immagini (cf. 431a16-17 e
432a8-10) e l’immaginazione è propriamente un movimento risultante dalla percezione (cf. 427b15-16 e 429a1-2). Gli intelligibili, avverte Aristotele, si trovano nelle forme sensibili, e per
questa ragione se non ci fosse percezione non ci sarebbe neppure apprensione intellettiva; il pensare avviene grazie alle immagini, perché l’anima non pensa senza immagini. Le immagini,
in effetti, sono presenti nell’anima al posto delle sensazioni e se
da un lato è vero che l’immaginazione è cosa ben diversa dalla
sensazione, tuttavia essa non esiste senza sensazione, così come
senza immaginazione non esiste apprensione intellettiva.
Introduzione
35
La dipendenza dell’intelligenza dalla sensazione non esclude
però che, come ho già detto, l’intelligenza sia del tutto differente dalla capacità sensitiva, ed è appunto alle differenze fra intelligenza e senso che Aristotele dedica una consistente parte del
libro III che, come ho detto, contiene molte difficoltà che hanno
dato luogo a innumerevoli e divergenti interpretazioni. La necessità del rapporto fra intelligenza e senso, però, è sufficiente a
far comprendere come l’indagine che Aristotele conduce nel libro II del DA goda di un’indiscutibile centralità anche in rapporto al libro III, se è vero che senza la teoria sul cognitivo sensitivo Aristotele non potrebbe, nel libro III, formulare la sua teoria sul cognitivo intellettivo. E ancora, il rapporto fra intelligenza e senso fa comprendere anche quanto Aristotele rimanga
fedele a un concetto di scienza dell’anima intesa sostanzialmente come scienza fisica: se da un lato l’anima intellettiva sembra
essere per Aristotele un’anima superiore, quella cioè che giustificherebbe in qualche modo anche una psicologia di tipo antropologico, e se, dall’altro lato, questa parte del DA che si occupa
dell’intelletto può sembrare a qualcuno quasi un complemento,
sul versante psicologico, alla Metafisica, tuttavia Aristotele non
dimentica i legami che esistono fra l’attività intellettiva e la dimensione della corporeità, oltre al fatto che – occorre non dimenticarlo – egli ha posto come anima fondamentale quella nutritiva, segnalando in tal modo, con tutta chiarezza, che la
scienza dell’anima deve essere considerata come facente parte
delle ricerche fisico-biologiche.38 Tutto ciò induce a collocare il
DA nell’ambito dei trattati di scienza della natura, operazione
alla quale ho già accennato sopra parlando di ilemorfismo.
Che il DA abbia rapporto con gli scritti biologici lo si può
arguire intuitivamente e con facilità dal fatto che in questo trat38
Già gli antichi commentatori individuavano nel DA un trattato a metà
fra Fisica e Metafisica, come si legge anche in Simplicio, In DA 2,29-3,28
Hayduck, ma è soprattutto la tradizione araba che considera il DA come una
sorta di introduzione alla Metafisica aristotelica, cf. Abdelali Elamrani-Jamal,
De anima – Tradition Arabe, in R. Goulet éd. par, Dictionnaire des Philophes
Antiques, Supplément, Paris 2003, pp. 346-347.
36
G.R. Giardina
tato Aristotele indaga sull’anima appunto quale principio degli
esseri viventi. In questo senso il DA potrebbe collocarsi
all’inizio delle indagini specifiche dell’area biologica. Ma prove
meno intuitive e più concrete del fatto che le ricerche di biologia stiano sullo sfondo della trattazione aristotelica sull’anima 39
si possono ricavare anche dai riferimenti frequenti, anche se
piuttosto superficiali, a varie forme di esseri viventi e alle loro
parti, che si riscontrano nel DA.40 Aristotele presta notevole attenzione al mondo dei vegetali – per i quali egli utilizza talvolta, al posto del termine futav, che indica solo le piante, il termine fuovmena, che indica in generale tutto ciò che possiede soltanto l’anima vegetativa o nutritiva –, alla loro crescita, alle parti che fungono da organi semplici, (foglia, pericarpio e frutto –
412b1 ss.), alle funzioni di singole parti, ad esempio le radici,
considerate in analogia con le parti degli animali. E tuttavia, anche il mondo animale appare differenziato al suo interno, dal
momento che Aristotele fa notare che ci sono: animali privi di
capacità di locomozione (410b19 ss., 432b20 e 434b4); animali
incompleti o immaturi, cioè animali che non hanno compiutamente raggiunto il proprio stato di sviluppo e sono perciò in difetto (415a27);41 gli insetti, che, anche sezionati, continuano a
vivere nelle loro parti (411b20 e 413b20), e fra gli insetti la
formica e l’ape e il verme. E ancora, fra gli animali superiori
Aristotele assume come esempio la talpa, che possiede gli occhi
sotto la pelle (425a9 ss.); gli animali dagli occhi secchi, come
alcuni pesci, crostacei e insetti, che non riconoscono bene le variazioni cromatiche (421a11 ss.); gli animali privi di sangue,
che non respirano e non sono dotati di voce (421b20); gli animali acquatici e, in primo luogo, i pesci, anch’essi privi di voce,
fino ad arrivare a una specie particolare di pesci, che vivono
39
Cf. Lefèvre C., Sur le statut de l’âme dans le “De anima” et les Parva
naturalia, in Lloyd & Owen ed. by, Aristotle on Mind cit., pp. 21-67.
40
Per un confronto fra il DA e alcuni scritti biologici specifici di Aristotele cf. R. Bodéüs (trad. par), Aristote. De l’âme, Paris 1993, pp. 21-25.
41
Ma anche III 1, 425a10; 9, 432b22 ss. e 11, 433b31.
Introduzione
37
nelle acque del fiume Acheloo ed emettono suoni tramite le
branchie.42
Ora, è evidente che dietro tutti questi riferimenti di cui si
serve Aristotele c’è un’ampia e approfondita ricerca, supportata
dall’osservazione empirica tipica dell’attività del Peripato e di
cui c’è ampia testimonianza in vari suoi trattati biologici. Ma,
se è vero che il versante di arrivo di questo percorso di indagine
per il quale Aristotele si avvale del metodo empirico integrandolo con una formulazione teorica e del quale il DA costituirebbe una tappa iniziale – non intendo cronologicamente, ma speculativamente –, è costituito dagli scritti biologici, ancora più
interessante è, dal mio punto di vista, cercare di indagare il rapporto tra il DA e i trattati propriamente fisici di Aristotele.
Ebbene, innanzitutto i principi generali esposti nella Fisica
sono efficacemente operativi in tutto il DA e, con particolare evidenza, nel libro II. Mi riferisco soprattutto alle teorie della potenza e dell’entelechia (quest’ultima è l’atto che prima di realizzarsi compiutamente o, in quanto è atto degli enti naturali, che
sono in continuo movimento, coesiste con la potenza), del rapporto materia-forma, del movimento concepito nei suoi diversi
significati, e ancora mi riferisco alla teoria dell’agire e del patire, che fa da sfondo alla dottrina della percezione stabilendo il
rapporto fra il percepibile e il senso. Proprio sui diversi significati di movimento il DA fonda la distinzione delle diverse funzioni dell’anima, poiché l’accrescimento è trattato alla stregua
della crescita dei viventi, la generazione assoluta corrisponde
alla capacità riproduttiva, l’alterazione corrisponde alla sensazione e il movimento secondo il luogo, attribuito da Aristotele
alla maggioranza degli animali, è ricondotto alla facoltà appetitiva, poiché la differenza fra quest’ultima e la facoltà motrice
sembra essere solo nominale.43 L’anima è il principio che sta a
capo di tutte queste funzioni, comportandosi di volta in volta
42
Vd. G.E.R. Lloyd, Aspects of the Relationship between Aristotle’s Psychology and his Zoology, in Nussbaum & Rorty, Essays on Aristotle’s De Anima cit., pp. 147-167.
43
Cf. DA III 10, 433b10-11.
38
G.R. Giardina
quale principio delle funzioni vegetative, quale principio delle
funzioni cognitive e, infine, quale principio della funzione motrice. Nel DA si trova, però, anche un’interessante distinzione
fra entelechia prima ed entelechia seconda, basata sul fatto che,
se è vero che l’anima è entelechia prima del vivente, e come tale costituisce l’insieme delle capacità di quest’ultimo volte alle
diverse forme di vita (per cui l’anima nutritiva è entelechia prima nel senso della capacità dei vegetali di nutrirsi e di crescere,
l’anima sensitiva è entelechia prima nel senso della capacità degli animali di percepire, e infine l’anima razionale è entelechia
prima nel senso della capacità degli individui umani di avere
pensiero razionale), è vero anche che il dispiegamento di queste
capacità del vivente, rappresentate unitariamente dall’anima,
cosa che avviene quando il vivente è in attività nel senso che
esercita le funzioni vitali di cui è dotato in quanto animato, è
entelechia seconda. L’anima, quindi, è forma del corpo in un
duplice senso, perché entrambi i sensi dell’entelechia hanno natura formale, da un lato come essenza del corpo e quindi come
principio della struttura stessa del corpo e, dall’altro lato, come
forma agente e immobile dei movimenti del corpo. Dal punto di
vista causale, quindi, possiamo ben dire che l’anima è la determinazione di un corpo, che come tale funge da causa materiale
dell’anima, la quale costituisce non solo la causa formale, ma
anche, al contempo, la causa finale e la causa motrice. 44
L’anima, dunque, in quanto causa formale determina il vivente
in quanto tale, ma essa è anche causa finale in due diversi modi,
sia in quanto il vivente, che è tale in virtù della sua anima, ha un
fine – ad esempio il fine dell’anima nutritiva è la nutrizione e la
riproduzione, ovvero la conservazione dell’essere del vivente in
se stesso e nella sua specie –, sia in quanto l’anima del vivente è
essa stessa un fine, perché è ciò a vantaggio di cui si svolgono
le attività del corpo.45
Tutto ciò mostra, in tutta evidenza, che i trattati aristotelici
sulla scienza della natura, intendo primariamente la Fisica, ma
44
45
Cf. DA I 4, 408a1 e 30-33, ma soprattutto II 4, 415b10 ss.
Cf. DA II 4, 415b1 ss.
Introduzione
39
anche il trattato Sulla generazione e la corruzione, che alla Fisica si ispira con coerenza, forniscono al DA il quadro generale
delle nozioni necessarie alla ricerca sull’anima. Appare altresì
evidente come il DA costituisca un testo chiave per il passaggio
dalla ricerca propriamente fisica, o fisico-chimica, verso la ricerca propriamente biologica. Non è un caso, allora, che il libro
II del DA si presenti, come è stato da più parti affermato, come
il testo fondamentale dell’applicazione dell’ilemorfismo aristotelico al mondo dei viventi. In piena coerenza con quanto Aristotele ha stabilito nei suoi trattati di scienza naturale a proposito dell’essere in divenire – ed è appunto questo il caso
dell’essere vivente –, l’anima appare come quel principio di determinazione della materia-sostrato che ha in potenza la vita e
che, insieme con quella, costituisce il vivente quale sostanza
composta individuale e autonoma. La definizione dell’anima,
dunque, secondo cui essa è sostanza nel senso di forma di un
corpo naturale che possiede in potenza la vita, nel senso, cioè,
che l’anima è entelechia prima di un corpo dotato di organi, ha
la indiscussa prerogativa di garantire l’immaterialità dell’anima
stessa e, al contempo, la sua necessaria unione con il corpo.
L’entelechia prima, con cui viene definita l’anima, è, infatti,
sotto questo profilo, un principio formale inteso come determinazione fondamentale del vivente e come condizione delle sue
proprie funzioni,46 principio formale che Aristotele utilizza opportunamente per dire che l’anima altro non è che l’atto del
corpo vivente, ovverosia organizzato, nella misura in cui essa è,
appunto, la determinazione formale di qualsiasi vivente che, in
quanto ente naturale, è per definizione in continuo movimento o
mutamento.
Con una tale formulazione in ambito psicologico del suo ilemorfismo Aristotele sfugge al materialismo di alcuni suoi
predecessori – perché l’anima non è corpo e non è nemmeno
qualcosa di corporeo, neppure se si pensa a ciò che è più incorporeo fra le cose corporee, come avevano fatto gli Atomisti
46
Cf. S.M. Cohen, Hylomorphism and Functionalism, in Nussbaum &
Rorty, Essays on Aristotle’s De Anima, Oxford 1992, pp. 57-73.
40
G.R. Giardina
quando avevano concepito l’anima come insieme di atomi ignei
– e, insieme, al dualismo platonico, dal momento che l’anima
così come egli la concepisce non è di per sé formalmente determinata e in quanto tale unita al corpo, ma è forma specifica
di un corpo specifico, poiché costituisce il principio di organizzazione di “questo determinato corpo”.47 L’anima come entelechia, cioè in quanto forma o essenza, è ciò che determina l’unità
e l’essere di un ente naturale nel senso che fa di esso un intero
che è altro dalla semplice somma delle sue parti materiali,48 secondo una lezione nota da Meta. VII 17, 1041b7 ss.: la sostanza
è la forma dell’ente ed è la ragione dell’unità interna e
dell’essere dell’ente stesso; in quanto tale essa non è, quindi,
separabile dalla sostanza composta. Questa soluzione della Metafisica è evidentemente contraria alla teoria platonica della separatezza delle idee, per cui applicata in ambito psicologico evita il dualismo platonico anima-corpo, ma si oppone altresì alle
teorie dei fisiologi, perché l’intima connessione di materia e
forma nella sostanza composta impedisce di ridurre l’ente ai
suoi costituenti materiali, dal momento che l’ente è un tutto unitario non riducibile, come ho detto, alle sue parti corporee. Come risulta già dalla Metafisica, quindi, la materia è il determinabile (in psicologia il sostrato corporeo che è potenzialmente
un vivente), la forma quale essenza o entelechia prima è ciò che
la determina in quanto organizza strutturalmente il sostrato corporeo (in psicologia, sebbene Aristotele non lo dica esplicitamente, è la vita stessa come insieme di capacità atte a volgersi
in funzioni che il corpo svolge per mezzo degli organi e delle
altre sue parti),49 la sostanza, infine, quale sinolo di forma e materia, costituisce il vivente determinato.
47
Cf. R. Manning, Materialism, Dualism, and Functionalism in Aristotle’s Philosophy of Mind, «Apeiron», 19 (1985), pp. 11-23; D.J. O’Meara,
Remarks on Dualism and the Definition of Soul in Aristotle’s “De anima”,
«Museum Helveticum», 44 (1987), pp. 168-174.
48
Così come la sillaba è altro dalla semplice unione delle sue lettere.
49
Si vd. S. Mansion, Soul and Life in the “De anima”, in Lloyd & Owen
ed. by, Aristotle on Mind cit., pp. 1-20; D.K. Modrak, Sense Organs: Matter
and Function, «Apeiron», 31 (1998), pp. 351-362.
Introduzione
41
L’ilemorfismo della psicologia aristotelica, formulato insieme con la definizione dell’anima nel libro II del DA, rientra coerentemente in una visione scientifica che colloca la psicologia,
a giusto titolo, nell’ambito delle scienze fisiche. La ragione del
fatto che l’anima è oggetto di studio del fisico, come si legge alle li. 403b7-9, ma anche in Meta. VI 1, 1026a5-6, è tutta qui:
l’anima, o almeno una sua parte,50 non esiste senza la materia.
Essa è, infatti, inscindibile dal corpo che rende vivo.
A questo punto mi sembra utile riepilogare brevemente alcuni fra i tratti più significativi di quanto ho fin qui detto.
Il DA è il trattato in cui Aristotele, per discutere analiticamente sull’anima, mette a frutto nozioni e teorie proprie della
sua filosofia o scienza della natura. Esaminando in modo piuttosto sintetico, pur fra critiche e precisazioni, le teorie che i filosofi suoi predecessori avevano formulato sull’anima, per cui
anche l’anima aristotelica si presenta in qualche modo con i
medesimi caratteri ipotizzati da quei filosofi – i caratteri, cioè,
di essere incorporea, principio di movimento e di conoscenza –,
Aristotele rende operativa e produttiva anche in questo campo,
cioè nel campo psicologico, la sua nozione di forma, la quale si
presenta, per un verso, nel suo aspetto di principio di organizzazione e strutturazione di un corpo e quindi come entelechia,
cioè come determinazione formale di quel medesimo corpo organizzato e strutturato, ossia vivente e, per un altro verso, come
principio agente immobile in ragione del quale il corpo animato, che è un vivente in potenza, esplica attivamente le sue funzioni vegetative o sensitive o razionali. Il procedimento utilizzato in questo caso da Aristotele è quello empirico: la ricerca
sull’anima parte dall’osservazione del comportamento dei viventi e procede secondo un percorso che va da ciò che è più
chiaro in un primo tempo per l’uomo, cioè il particolare, per arrivare a ciò che è più chiaro per natura e quindi anche scientifi50
Aristotele sembra ipotizzare, soprattutto nel passaggio qui citato della
Metafisica, che l’anima intellettiva (il nous) sfugga a questa necessità
dell’unione con la materia, al contrario delle altre due facoltà dell’anima, la
nutritiva e la sensitiva.
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G.R. Giardina
camente, cioè l’universale, integrando tra loro i dati
dell’osservazione empirica per farli confluire, alla fine, in una
compiuta e sistematica formulazione teorica. Ne risulta una psicologia che mostra un carattere biologico generale già a partire
dal fatto che Aristotele attribuisce un’anima anche ai vegetali, e,
anzi, considera l’anima nutritiva come la forma più basilare di
anima. Ma il DA, presentandosi come una ricerca che utilizza le
nozioni generali della fisica per adattarle al campo dell’indagine
sui viventi, mostra in maniera distinta come fisica e biologia costituiscano per Aristotele due versanti della medesima ricerca
scientifica. Tutto lascia pensare, allora, che Aristotele proceda
nella formulazione delle sue teorie fisiche tenendo presente che
il suo scopo ultimo è la loro applicazione in ambito biologico e
che, quindi, la biologia aristotelica si sviluppi sulla base delle
teorie fisico-chimiche, come in un gioco di specchi che si riflettono reciprocamente e per i quali il DA costituisce il terreno di
mediazione.