RASSEGNA DEL MERITO
TRIBUNALE E CORTE DI APPELLO BARI
a cura di Nicola Roberto Toscano,
Avvocato e Cultore in diritto del lavoro all’Università degli Studi di Bari
Diritto alla mensa
Corte di Appello di Bari: 8.2.2011
Pres./Rel. De Cillis; Ric. A.O.; Res. Le. ed altri
Personale S.S.N. – Diritto alla mensa – Duplicità del contenuto
L’art. 33, primo comma, del d.p.r. 270 del 1987 (“hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti nei
giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario di lavoro.
Gli enti provvederanno, ove possibile, ad istituire il sevizio mensa o, in mancanza, a garantire
l’esercizio del diritto con modalità sostitutive”) definisce la posizione giuridica soggettiva creata a
favore del dipendente in espressi termini di diritto. Il contenuto del diritto è duplice: il primo
comma parla di diritto alla mensa, il secondo precisa che, qualora non sia possibile istituire il
servizio di mensa, gli enti dovranno garantire l’esercizio del diritto con modalità sostitutive.
L’interpretazione più lineare della norma è, pertanto, che il diritto è a fruire della mensa se per
l’ente è stato possibile avviarla ed è, invece, a fruire di modalità alternative se ciò non è stato
possibile.
Nota – La sentenza della Corte di Appello si inserisce – con indubbia portata semplificatrice – in un
vivace contenzioso sorto a causa della mancata istituzione della mensa da parte di alcune aziende
sanitarie. Viene chiarito che la previsione della mera possibilità di istituire la mensa aziendale non
degrada la posizione soggettiva del dipendente con particolare articolazione dell’orario di lavoro
(ad es., i turnisti) ad una mera aspettativa, poiché pur sempre di diritto si tratta, tutt’al più
suscettibile di essere soddisfatto con modalità sostitutive (nello stesso senso, tra le altre, Tribunale
Taranto 5 febbraio 2009, estensore Rotolo). Il principio, espresso con riferimento all’art. 33 del
d.p.r. n. 270/1987, è applicabile in pieno alla formulazione del successivo art. 29 del ccnl
integrativo per il personale della sanità del 7 aprile 1999, nel testo modificato dall’art. 4 del ccnl
del 31 aprile 2009. La nuova norma, infatti, si differenzia sul punto dal previgente art. 33 del d.p.r.
270 semplicemente per aver precisato che le aziende possono istituire il servizio mensa ove ciò sia
compatibile con l’assetto organizzativo e con le risorse disponibili, confermando per il resto la
permanenza del diritto che l’azienda deve soddisfare con modalità sostitutive in caso di mancata
istituzione della mensa aziendale. E’ interessante considerare che la stessa Corte Costituzionale è
intervenuta sull’argomento precisando che non è consentito neppure al legislatore regionale, come
qualche volta è stato tentato, di incidere sul diritto soggettivo alla mensa, trattandosi comunque
di un istituto giuridico rientrante nella materia dell’ordinamento civile (e perciò nell’ambito dell’art.
117 co. 2°, lett. l, della costituzione), poiché a questa materia è riconducibile anche il trattamento
economico dei dipendenti pubblici, il cui rapporto di impiego è stato privatizzato e,
conseguentemente, disciplinato dalla contrattazione collettiva (Corte Cost 7 marzo 2011 n. 77).
Contratto a termine
Tribunale di Bari: 10 febbraio 2011
Giud. Rubino; Ric. Ma.; Res. P.I.
Contratto a termine – Genericità della causa sostitutiva – Illegittimità – Applicazione dell’art 32
della legge n. 183/2010
Il mero riferimento alle assenze di lavoratori non appare integrare il requisito di specificità richiesto dalla
legge perché nella nozione di assenza rientra una pluralità di ipotesi (assenze per ferie, malattie,
gravidanza, servizio militare, aspettative per motivi elettorali, ecc) … In conclusione dunque va dichiarata la
nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti e conseguentemente va dichiarato
che tra le stesse è intercorso ab origine un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con
decorrenza dalla data di assunzione; la società convenuta va condannata a riammettere l’istante in servizio
presso il proprio posto di lavoro ed ordinato alla stessa di versare l’indennità risarcitoria di cui all’art. 32 co.
5 della legge del 4 novembre 2010 n. 183.
Nota - La sentenza viene segnalata per la sua parte finale, che si inserisce nel vivace dibattito
sull’applicazione del comma 5 dell’art. 32 del Collegato Lavoro (legge n. 183/2010) sulle conseguenze della
riconosciuta illegittimità del termine apposto ai contratti a tempo determinato:”nei casi di conversione del
contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore
stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge
15 luglio 1966, n. 604”. I primi mesi successivi all’entrata in vigore della riforma hanno registrato la lettura
prevalente in dottrina ed in giurisprudenza nel senso della funzione sostitutiva della indennità risarcitoria ex
lege 604 rispetto al risarcimento potenzialmente comprensivo dell’equivalente delle retribuzioni dalla data
della messa a disposizione delle energie lavorative fino a quella della effettiva ricostituzione del rapporto
(fatte salve tutte le controverse questioni in termini di aliunde perceptum), ma comunque aggiuntiva
rispetto alla conversione del rapporto (in questo senso, Tribunale di Trani 24 novembre 2010, n. 6808; il
Tribunale di Bari, est. Colucci, 30 novembre 2010 n. 15017, il Tribunale di Milano 29 novembre 2010 nn.
4966 e 4971; Tribunale di Milano 2 dicembre 2010, n. 505; Tribunale di Milano 11 gennaio 2011; Tribunale
Roma 16 dicembre 2010, n. 2970; Tribunale di Milano 29/12/10, est. Tarantola; Tribunale di Milano
23/12/10, est. Pattumelli; Tribunale di Milano 25 febbraio 2011). La conclamata eccezione del Tribunale di
Busto Arsizio del 29/11/2010 n. 528, nel senso di una lettura costituzionalmente orientata della norma che
porti all’applicazione della indennità risarcitoria di cui all’art. 32 in aggiunta alle conseguenze risarcitorie
ordinarie e alla ricostituzione del rapporto, non ha trovato proseliti autorevoli ed appare francamente
alquanto sganciata dal testo e dalla funzione della norma. Proprio considerando l’ineludibilità, allo stato,
dell’uno e dell’altra, e memori della recente sentenza della Corte Costituzionale 214/2009 (che ha sancito la
illegittimità del tentativo di ridimensionamento degli effetti della nullità del termine posto in essere con
l’art. 4 bis del d.lgs. n. 368/’01 introdotto dalla legge n. 133/’08, ovvero la disposizione transitoria per
l’applicazione della sola sanzione pecuniaria ai contratti a termine illegittimi relativi ai giudizi in corso alla
data del 22/08/2008), alcuni Giudici hanno da subito ritenuto di portare la nuova disposizione all’esame del
Giudice delle leggi. Lo ha fatto anche la Corte di Cassazione con varie ordinanze di rimessione (da ultimo con
ordinanza n. 2112 del 28/1/’11, pres. Roselli, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 32 commi 5 e 6 L. 183/’10, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost) e così pure assai
tempestivamente il Trib. Trani 20/12/10, est. La Notte Chirone, che ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 32 c. 5, 6 e 7 L. 183/’10, con riferimento agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost.
I Giudici della Cassazione, in particolare, rilevano la eterogeneità dell’indennità risarcitoria ex art 32 legge
183/’10 rispetto a quella della legge 604/1966 che non presuppone la ricostituzione del rapporto,
diversamente dalla prima che invece lo postula e dovrebbe anche per questo realizzare un risarcimento
commisurato alla durata dell’inadempimento, osservando che: “un’indennità non proporzionata rispetto
all’ammontare del danno può indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento (prolungando il
processo oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna”. Per questo: “risulta vanificato il
diritto del cittadino al lavoro (art. 4 Cost.) e nuoce all’effettività della tutela giurisdizionale, con danno che
aumenta con la durata del processo, in contrasto con il principio affermato da qualsiasi secolare dottrina
processualista, oggi espresso dagli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., e che esige l’esatta, per quanto
materialmente possibile, corrispondenza tra la perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il
rimedio ottenibile in sede giudiziale“. Alcuni tribunali hanno preso atto della pendenza delle
impugnative di costituzionalità ed hanno emesso soltanto la condanna parziale alla conversione
del rapporto, disponendo la prosecuzione della causa per la liquidazione del risarcimento spettante
(così Tribunale Roma 14 dicembre 2010 n. 19913 e Tribunale di Trani 6 dicembre 2010 n. 6952).
Come se non bastasse il quadro complesso e in evoluzione che si è appena sintetizzato, la sentenza
in commento del Tribunale di Bari, che applica fedelmente il testo della norma, suscita un’altra
riflessione. Posto che l’applicazione secondo l’art. 32 del collegato lavoro della più limitata
indennità risarcitoria mutuata dalla legge 604/’66 si accompagna alla ricostituzione del rapporto,
che cosa accade se, a fronte di una sentenza di condanna alla riammissione in servizio a seguito di
dichiarazione di conversione del rapporto con l’aggiunta della indennità risarcitoria ridotta, la
ricostituzione del rapporto non sia più possibile per impossibilità realizzatasi prima o dopo la
condanna rimasta ineseguita (pensiamo al caso tipico della sopravvenuta cessazione dell’intera
attività del datore di lavoro)? Le alternative ipotizzabili sono che: 1) il rischio anche in questo caso
ricada sul lavoratore ricorrente; 2) riviva il diritto al risarcimento più ampio dalla data di messa in
mora a quella della sopravvenuta impossibilità di ricostituzione del rapporto (salvo, poi, a
considerare come poter rivendicare detta pretesa a fronte di una sentenza favorevole già emessa e
che contempla soltanto l’indennità risarcitoria ridotta); 3) sorga il diritto ad un risarcimento
aggiuntivo a sé stante derivante dal fatto che la prestazione di natura reale oggetto della sentenza
è diventata impossibile nelle more del giudizio promosso per impugnare una risoluzione comunque
ritenuta illegittima (il risarcimento sarebbe in tal caso da ricollegare non già direttamente alla
risoluzione illegittima per nullità del termine, a cui conseguirebbe soltanto l’indennità ridotta, ma
alla inattuabilità della disposta conversione del rapporto in conseguenza della risoluzione
illegittima). Resterebbe, peraltro, se si accedesse alla terza soluzione, il problema della
quantificazione del risarcimento, sempre che non lo si voglia salomonicamente risolvere applicando
proprio la quantificazione piena (dalla costituzione in mora alla sopravvenuta impossibilità) che si
sarebbe applicata senza la previsione dell’art. 32 della legge 183 (ma non manca chi ritiene
applicabile, in via creativamente analogica, il risarcimento delle quindici mensilità di cui all’art. 18
co. 4 della legge n. 300/1970).
Permanenza in servizio oltre il sessantacinquesimo anno di età
Tribunale di Bari: 25 gennaio 2011
Giud. Tarantino; Ric. De; Res. Min Giu.
Pubblico impiego – Superamento limiti di età – Trattenimento in servizio – Rigetto dell’istanza –
Onere di motivazione e di attivazione della procedura autorizzatoria – Illegittimità
Anche con il sopravvenire della normativa di cui all’art. 9 del d.l. 78/2010, l’istituto del trattenimento in
servizio continua ad essere disciplinato dall’art. 16 d.lgs. 503/1992, così come modificato dall’art. 72 del d.l.
112/2008, altro non potendo significare l’espressione contenuta nell’art. 9 “[…] fermo il rispetto delle
condizioni e procedure previste dai commi da 7 a 10 dell’art. 72 del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112 […]
i trattenimenti in servizio previsti dalle predette disposizioni possono essere disposti […]”; […] fermo
restando che l’amministrazione ha facoltà di accogliere la richiesta di trattenimento in servizio del
dipendente, la stessa deve pur sempre tener conto delle proprie esigenze organizzative e funzionali, della
particolare esperienza acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti e dell’efficiente andamento
dei servizi; è insufficiente il richiamo alla mancata autorizzazione poiché, proprio a voler tener conto della
circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 18.10.2010 – nella parte in cui prevede che il
trattenimento in servizio è sottoposto ad autorizzazione ad assumere, deve porsi attenzione al fatto che la
circolare stabilisce che “le amministrazioni dovranno favorire un puntuale rispetto della tempistica
prescritta dalla disciplina dettata per l’istituto giuridico trattato e potranno essere adottati appositi
provvedimenti, valutando, d’intesa con le amministrazioni, quali risorse derivanti da cessazioni utilizzare,
nell’ambito di quelle previste dalla normativa vigente affinché sia assicurata, ove possibile, una rapida e
preventiva autorizzazione” e, nel caso di specie, non appare essersi dato seguito alle indicazioni della
circolare (… in spregio al puntuale rispetto della tempistica e della possibilità di intervenire con appositi
provvedimenti volti a valutare le risorse a disposizione per una eventuale autorizzazione).
Nota - L’art. 16 del d.lgs 503 del 1992, nel testo modificato dall’art. 72 commi 7 e 8 del d.l. 112/09 e
dall’art. 9 co. 31 del d.l. n. 78/2010, stabilisce che: “è in facoltà dei dipendenti civili dello stato[…] di
permanere in servizio … per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo
per essi previsti. In tal caso è data facoltà all’amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e
funzionali, di accogliere la richiesta in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal
richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi…”. L’art. 9
citato aggiunge che “a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto, fermo restando il rispetto delle
condizioni e delle procedure previste dai commi da 7 a 10 dell’art. 72 del d.l. 25 giugno 2008 n. 112…i
trattenimenti in servizio …possono essere disposti esclusivamente nell’ambito delle facoltà assunzionali
consentite dalla legislazione vigente in base alle cessazioni del personale e con il rispetto delle relative
procedure autorizzatorie”. Con la coraggiosa decisione in commento, il Giudice del Tribunale di Bari è come
se innalzasse un ultimo baluardo di garanzia rispetto ad una situazione giuridica (il trattenimento in servizio
per un biennio oltre il limite di età) che ancora ai primi di giugno del 2008 era ritenuto oggetto di un vero e
proprio diritto potestativo del dipendente e che oggi è invece soltanto una aspettativa condizionata dalla
facoltà di assenso dell’amministrazione di appartenenza e dalla necessità di rispettare limiti e procedure per
le nuove assunzioni. In questo quadro così complicato e restrittivo, non resta che ricordare e valorizzare il
seguente concetto,tutt’altro che scontato specie in tempi di sostanziale sbilanciamento dei poteri delle parti
del rapporto di impiego pubblico: la Pubblica Amministrazione deve pur sempre adeguatamente motivare le
proprie scelte, onere che deriva direttamente dai precetti costituzionali di buon andamento, imparzialità ed
efficiente andamento dei servizi. Soltanto nell’ambito di questi paletti – che rispetto alla delibazione delle
domande di trattenimento in servizio significa tener conto delle concrete esigenze organizzative funzionali,
delle prerogative specifiche del singolo dipendente istante e, aggiungiamo, del trattamento riservato a
situazioni analoghe, specie laddove sia data rilevanza alle condizioni soggettive dell’istante (tipo, ad
esempio, l’anzianità contributiva maturata al compimento dei 65 anni di età) – l’esercizio della
discrezionalità amministrativa non deborda in esercizio di mero arbitrio o casualità (cfr., in generale e di
recente, Consiglio di Stato 16.02.2011, n. 1015). Per le stesse ragioni, il doveroso rispetto delle procedure
autorizzatorie non può diventare un espediente per giustificare lassistiche decisioni di rigetto ed è per
questo che le amministrazioni sono chiamate ad espletare con tempestività le relative verifiche delle
condizioni anche finanziarie che consentano oppure no l’accettazione del chiesto trattenimento in servizio.
Nel caso trattato, la decisione dell’amministrazione è apparsa al Giudice in sede di prima delibazione (salve
le successive valutazioni che potranno intervenire nel prosieguo del procedimento cautelare, stante la
natura di provvedimento inaudita altera parte della pronuncia in commento) carente rispetto ad entrambi i
profili segnalati.
Risarcimento da mancata riqualificazione
Tribunale di Bari: 13 dicembre 2010
Giud. Napoliello; Ric. Le.; Res. Min Giu.
Art. 15 C.C.N.L. comparto ministeri 1998/2001 – Mancato svolgimento delle procedure di
riqualificazione e dei corsi concorsi – Inadempimento – Risarcimento del danno
L’adozione di criteri selettivi illegittimi con conseguente illegittimità delle prove selettive indette integra
inadempimento dell’obbligo di dare corso alla riqualificazione. Integra, in particolare, una tipica ipotesi di
inesatto adempimento. […] Il ministero non ha certo provato l’esatto adempimento (rectius:
l’espletamento di procedure di riqualificazione legittime). Non ha, d’altro canto, nemmeno provato di
essersi attivato con diligenza per addivenire a tale risultato. In particolare, non risulta che a fronte delle
pronunce giurisprudenziali intervenute il Ministero si sia reso parte diligente convocando le organizzazioni
sindacali dei lavoratori al fine di pattuire, proprio sulla scorta dei rilievi contenuti nelle pronunce stesse,
altri criteri, questa volta validi, ed avviare così nuove procedure selettive. […] Neppure le pattuizioni
contenute nel protocollo d’intesa del 9.11.2006 hanno consentito di definire finalmente i criteri di selezione
ed hanno reso possibile avviare le procedure selettive a tutt’oggi neppure iniziate. Ad abundantiam, si
osserva che il d.p.c.m. del 15.12.2008 ha previsto la riduzione complessiva di numero 3536 unità di
personale rispetto alla consistenza numerica precedente. […] Si tratta di una circostanza di notevole
importanza in quanto, dalla riduzione del numero di unità complessive di dipendenti potrebbe desumersi
una riduzione sensibile del numero dei posti a concorso nelle successive procedure di riqualificazione.
Nota - Anche il Tribunale di Bari si è occupato dell’imponente contenzioso per il risarcimento del danno da
omessa riqualificazione del personale del Ministero della Giustizia. Il percorso argomentativo è il seguente:
l’esperimento di procedure di riqualificazione professionale costituisce l’oggetto di un vero e proprio diritto
soggettivo che ha il suo fondamento nell’art. 15 e nell’art. 20 del ccnl 98/01 per cui sussiste l’obbligo
contrattuale dell’Amministrazione di provvedere alla riqualificazione dei propri dipendenti. Il mancato
espletamento di dette procedure costituisce inadempimento e tanto giustifica la pretesa risarcitoria dei
dipendenti per perdita di chances anche in considerazione della prevalente rilevanza del requisito
dell’anzianità di servizio ai fini della progressione. Il profilo più controverso della questione riguarda
l’imputabilità al Ministero dell’inadempimento dell’obbligo contrattuale, in considerazione dei diversi
pronunciamenti dell’Autorità Giudiziari che hanno in passato bloccato procedure già bandite a causa della
ritenuta illegittimità dei criteri adottati. E’ stato ritenuto che il Ministero sia incorso in colpevole negligenza
poiché se è vero che il principio di buon andamento della P.A. imponeva di ottemperare agli ordini
dell’Autorità Giudiziaria impeditive della possibilità di proseguire le procedure avviate, esso avrebbe potuto
e dovuto attivarsi per pattuire ed applicare altri e diversi criteri che potessero consentire la legittima
esecuzione dell’obbligo contrattuale. Né è stato provato che dopo le pronunzie demolitive l’Amministrazione
abbia sollecitato le organizzazioni sindacali ad incontri finalizzati a superare i motivi di empasse e, anche
per questo, non può escludersi la colpevole responsabilità del Ministero per il sol fatto che a determinare la
situazione antigiuridica abbiano concorso le organizzazioni sindacali. E’ questa la posizione anche di altre
sentenze (Tribunale Padova, 29/10/2010 e 15/12/2010; Tribunale Tempio Pausania 8/6/2010, Tribunale
Venezia 15/10/2010, Tribunale di Lamezia Terme 17/11/2010) e, in particolar modo, del Tribunale di Torino
che con la sentenza del 22/12/2010 ha con particolare vigore confermato la precedente sentenza del 2009
riformata in appello dalla Corte del capoluogo piemontese. Quest’ultima, con la sentenza 578 del
17/11/2010, oltre a dubitare dell’esistenza di un diritto soggettivo alla riqualificazione, ha ritenuto non
potersi ravvisare una “responsabilità del Ministero per non aver predisposto criteri atti a resistere a
qualunque tipo di impugnazione giurisdizionale e ciò anche per la evidente considerazione per cui le
procedure selettive sono il frutto di previsioni contrattuali, come tali non imputabili unicamente alla parte
datoriale e non potendosi ritenere che la condotta dell’amministrazione si sia concretizzata nell’esprimere
volutamente criteri illegittimi al fine di provocare l’intervento dell’Autorità Giudiziaria e il conseguente
blocco delle procedure”. Alle argomentazioni della Corte di Appello replica punto per punto la sentenza di
primo grado del 22 dicembre del 2010 sempre di Torino in un singolare e particolarmente gustoso botta e
risposta.
Accertamento rischio radiologico
Tribunale di Bari: 2 dicembre 2010
Giud. Rubino; Ric. Sf.; Res. As.
Rischio radiologico – Diritto al beneficio economico – Presupposti – Accertamento della
esposizione
La costituzione della commissione (ex art. 58, comma 4, d.p.r. 270/87) è demandata alla […] ASL tanto vero
che il menzionato art. 5, comma 4 del C.C.N.L. del comparto sanità 2000/2001 stabilisce che l’accertamento
delle condizioni legittimanti la concessione del beneficio economico (indennità professionale da rischio
radiologico) deve avvenire mediante gli organismi e le commissioni “operanti a tal fine nelle sedi aziendali
in base alle vigenti disposizioni”. Ne consegue che, se la commissione è istituita ed operante, essa è
evidentemente competente a valutare la esposizione a rischio radiologico; al contrario, sino a che le
aziende non provvedano a consentire la istituzione e la operatività delle commissioni, l’accertamento dovrà
essere compiuto sulla scorta dei criteri stabiliti dal legislatore e dalla contrattazione collettiva, verificando,
cioè, l’abituale svolgimento della specifica attività professionale in zona controllata, o la permanente
esposizione alle radiazioni; non può in altri termini essere negato il diritto al beneficio, ove esso spetti, solo
perché la ASL non ha provveduto a quanto di propria competenza.
Nota - L’indennità di rischio radiologico, prevista per la prima volta dalla legge 416/1968 a favore dei soli
medici e tecnici di radiologia, è stata estesa da successivi accordi collettivi e provvedimenti legislativi a tutto
il personale “che sia sottoposto con continuità all’azione di sostanze ionizzanti o che sia comunque adibito
ad apparecchiature radiologiche in maniera permanente”(art. 48 D.P.R 348/1983 e art. 58 D.P.R 270/87). Il
suo ammontare fu aumentato, per il personale medico e tecnico di radiologia, a partire dal primo gennaio
1988 da lire 30.000 a lire 200.000 dall’art. 1, L. 24 ottobre 1988 n. 460, per il quale, ai sensi del terzo
comma, l’individuazione del personale comunque esposto al rischio doveva esser effettuata secondo le
modalità previste dal comma 4 dell’art. 58 del D.P.R. 20 maggio 1987, n. 270 che istituiva una apposita
commissione competente a valutare il rischio radiologico alla luce di una serie di fattori (frequenza in zona
controllata, tempo di effettiva esposizione). L’art. 1 secondo comma della legge n. 460 – che testualmente si
riferiva al personale medico e tecnico di radiologia – fu poi interpretato dalla Corte Costituzionale (sentenza
n. 343 del 7-20 luglio 1992) nel senso che l’espressione “personale medico di radiologia” non è tale “da
escludere la presenza, all’interno di tali categorie, di posizioni lavorative individuali pienamente assimilabili,
in relazione alla loro esposizione al rischio radiologico in misura continua e permanente, a quelle proprie dei
medici e tecnici di radiologia e destinate, pertanto, a godere, previo accertamento della commissione di cui
all’art. 58 del D.P.R. 270/87, dell’indennità di rischio nella misura più elevata”; ciò anche in considerazione
“della particolare natura dell’indennità di rischio radiologico, che non assume connotazioni risarcitorie, ma
assolve essenzialmente ad una funzione di prevenzione”. L’art. 120, comma 5, del D.P.R. n. 384/1990 –
relativo alla disciplina giuridica ed economica del personale dipendente del S.S.N., ha ulteriormente
precisato i criteri per accertare la “continuità” dell’esposizione stabilendo, in particolare, che occorre tener
conto: della “frequenza” delle presenze in zone controllate e del “tempo” di effettiva esposizione, al fine
d’accertare il “grado di assorbimento”; del “livello del conseguente assorbimento” stabilito “in relazione alla
concreta possibilità di superamento delle dosi massime ammissibili d’esposizione”. La disciplina giuridica –
legale e contrattuale – in materia di rischio radiologico, anche ai sensi del sopravvenuto disposto dell’art. 5
della Legge 23 dicembre 1994 n. 724 e alla luce della relativa interpretazione giurisprudenziale, si è andata
perciò definendo nel senso che l’indennità piena spetta anche ad operatori diversi dal tecnico o medico di
radiologia e che la differenza rispetto a questi sta nel fatto che mentre per tecnici e medici di radiologia è
sufficiente la qualifica rivestita – a cui l’ordinamento collega una presunzione assoluta di esposizione al
rischio – per il restante personale dipende dalla situazione concreta (modalità, tempi, orari ed intensità
dell’esposizione), con onere dell’Azienda di verificarla a mezzo della commissione di cui all’art 58, comma 4,
del d.p.r. n. 270/1987. ( cfr. C.S., n. 130/1996, n.1774/00, n. 2575/03, n. 5879/03 n. 1884/1999) Coerentemente con la
normativa di legge, anche l’art. 5 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro settore sanità pubblica biennio economico 2000-2001 prevede che: “al personale diverso dai tecnici sanitari di radiologia medica
esposto in modo permanente al rischio radiologico, per tutta la durata del periodo di esposizione,
l’indennità continua ad essere corrisposta sotto forma di rischio radiologico nella misura di € 103,29 (…);
l’accertamento delle condizioni ambientali, che caratterizzano le zone controllate deve avvenire ai sensi e
con gli organismi e commissioni operanti a tal fine nella sede aziendale in base alle vigenti disposizioni (…). Il
problema di che cosa avvenga allorquando la ASL non provveda ad accertare le situazioni di rischio secondo
il metodo previsto dalle fonti normative viene risolto dalla segnalata sentenza nel senso che
all’accertamento del diritto si possa pervenire comunque acquisendo la prova dei suoi presupposti in fatto.
“Spetta al giudice di merito verificare l’esistenza di tali presupposti sulla base degli elementi probatori
ritualmente acquisiti al processo” e questo “accertamento, se correttamente motivato, resta esente dal
sindacato di legittimità”: così si esprime anche la conforme sentenza di Cassazione del 24 febbraio scorso, n.
4525, così come quella del 10 marzo 2011 emessa dal T.A.R. Calabria n. 249 sempre in una situazione di
mancato accertamento formale da parte della commissione competente ex art. 58, co. 4, del d.p.r. n.
270/1987, a conferma del fatto che essendo l’utilizzo di tale peculiare strumento accertativo nella
disponibilità della Azienda (potenzialmente debitrice della indennità), la sua omissione non può impedire in
radice l’accertamento della sussistenza del diritto sulla base delle situazioni concrete giustificative dello
stesso (modalità, tempi, orari ed intensità dell’esposizione).
Impugnazione licenziamento e fallimento
Tribunale di Bari: 20 aprile 2011
Giud. Colucci; Ric. De.; Res. G.H.
Datore di lavoro sottoposto a procedure concorsuali – Licenziamento – Azioni costitutive o di
accertamento – Individuazione del giudice competente
In caso di sottoposizione della società datrice di lavoro ad una procedura concorsuale si debbono
distinguere, da un lato, le domande del lavoratore che mirino a pronunce di puro e semplice accertamento
o che abbiano contenuto costitutivo (come quelle dirette ad ottenere l’annullamento del licenziamento e la
reintegrazione) e, dall’altro, le domande rivolte al pagamento di somme di denaro, anche se
necessariamente accompagnate da una richiesta di accertamento avente una funzione meramente
strumentale; le prime debbono essere proposte davanti al giudice del lavoro (…) mentre per le altre opera il
principio dell’improponibilità della domanda, dovendo le stesse essere fatte valere con la speciale
procedura d’ammissione nello stato passivo. Questo principio non soffre deroghe qualora la domanda
costitutiva e quella avente per oggetto il pagamento del credito, contemporaneamente azionabili, si
fondino sull’accertamento del medesimo fatto, come avviene quando il lavoratore, previa verifica della
illegittimità del licenziamento, intenda far valere il suo diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro …) e
quello al risarcimento del danno. In tal caso essendo la prima domanda immediatamente proponibile e
l’altra momentaneamente improponibile (davanti all’autorità giudiziaria), la domanda tesa
all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento deve essere proposta davanti al giudice del lavoro,
mentre quella avente per oggetto il risarcimento del danno, alla stregua di qualsiasi altra pretesa relativa a
un diritto di credito nei confronti di un soggetto sottoposto a procedura concorsuale, deve insinuarsi nella
procedura medesima.
Nota - Il chiarimento è solo apparentemente scontato atteso che si riscontrano decisioni diverse che
attraggono nel foro fallimentare domande di impugnazione di licenziamento verso l’impresa dichiarata
fallita sull’assunto che le stesse implicano comunque conseguenze patrimoniali (cfr. Tribunale Latina
15/06/2004 e Tribunale di Bari, Giudice Fama 01/03/2011 n. 3268). Opportunamente la Suprema Corte di
recente ha ribadito che: “ove il lavoratore abbia agito in giudizio chiedendo, con la dichiarazione di
illegittimità o inefficacia del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del
datore di lavoro dichiarato fallito, permane la competenza funzionale del giudice del lavoro , in
quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti
patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull'interesse del lavoratore
a tutelare la sua posizione all'interno della impresa fallita, sia per l'eventualità della ripresa
dell'attività lavorativa (conseguente all'esercizio provvisorio ovvero alla cessione dell'azienda, o a
un concordato fallimentare), sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, ed i diritti
previdenziali, estranei all'esigenza della par condicio creditorum" (Cass. 29 marzo 2011 n. 7129).