Editoriale «Mariolo sì, ma profondo»: ci siamo davvero liberati del giudizio, a suo modo sufficiente, di don Ferrante su Machiavelli?
Ne ho qualche dubbio, anche alla luce delle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario, caduto
nel 2013, della pubblicazione del Principe. Mi pare infatti che il Machiavelli che piace sia proprio
quello che don Ferrante giudica «mariolo», il Machiavelli teorizzatore di una politica autonoma in
quanto affrancata dai vincoli della morale (ai suoi tempi, quella cattolica), più che quello «profondo»,
autore di riflessioni che sono ancora alla base del pensiero politico e filosofico moderno. Temo perciò che
non giovi a capire Machiavelli la semplificazione di considerarlo «uno di noi» solo perché non piaceva
alla Chiesa ufficiale del tempo.
Le riflessioni contenute nei saggi di Joseph V. Femia (e nel commento di Martine Leibovici), Giovanni Giorgini e Stephen de Wijze, contenute in questo numero di «Biblioteca della libertà» coordinato
e introdotto da Beatrice Magni, fanno giustizia degli stereotipi e ci obbligano a prendere consapevolezza
della esatta misura della sfida, non ancora risolta e probabilmente non del tutto risolvibile, che Machiavelli lancia alla politica, ossia l’esigenza di farsi essa stessa etica, come osservò Benedetto Croce.
Affrontare qui il tema delle «mani sporche» e della politica non significa certo indulgere alle geremiadi di chi pensa che i due termini siano inesorabilmente sinonimi, e dunque che la politica possa rinascere solo da una rigenerazione di stampo giacobino (forse, Machiavelli avrebbe detto savonaroliano)
espressione di una pulizia diffusa e spontanea nella società civile (che troppo spesso si dimentica essere
popolata, peraltro, anche da evasori fiscali, imprenditori assistiti e lavoratori lazzaroni). In realtà,
Machiavelli né anticipa né argina i furori anti-casta, ma pone il tema della tensione morale alla quale il
buon politico non può sfuggire per tutelare non il proprio, ma l’interesse comune.
Parliamo di «mani sporche», e fatalmente pensiamo a «mani pulite»; tuttavia, l’area della desolata
solitudine del politico è ben più vasta e drammatica: pensiamo alla questione sempre attuale delle tecniche adottate dal Governo degli Stati Uniti per combattere il terrorismo, alle quali non sono estranee
pratiche che cozzano contro l’inviolabilità dei diritti umani. Oppure, nelle settimane in cui viene pubblicato questo numero di «Biblioteca della libertà», all’esigenza di individuare forme di contenimento dell’imperialismo, del terrorismo e del fanatismo che non si conciliano con l’irenismo universale nel quale
sembra esaurirsi la morale corrente di gran parte dell’Europa.
In questo senso, Machiavelli risulta piuttosto il padre delle «scelte tragiche», quelle situazioni nelle
quali decidere è difficile, e ci pone comunque dinnanzi a un impegnativo interrogativo morale. Perciò,
alla politica Machiavelli non offre scorciatoie morali, ma impone la responsabilità di individuare e perBiblioteca della libertà, XLIX (2014), gennaio‐aprile, n. 209 online • ISSN 2035‐5866 http://www.centroeinaudi.it 3 Editoriale seguire il bene comune. Una responsabilità tanto maggiore quanto più sincopati si fanno i ritmi della
comunicazione attraverso la quale il politico si afferma; come osserva Giulio Ferroni, perciò, «il pensiero
di Machiavelli è ancora in grado di rivelarci certi caratteri della politica così come viene tuttora praticata, i meccanismi in atto di un esercizio del potere in cui impegno primo dei governanti è soltanto fare
effetto sui governati: il che, nell’orizzonte dei regimi democratici, si estende nell’impegno di candidati e di
eletti a fare effetto sugli elettori. La rilevanza dell’apparenza e del simulacro, di ciò che soltanto si vede,
la dimensione “scenica” dell’agire politico, che Machiavelli definisce a partire da un’antica e radicata
visione dell’intera vita come scena, teatro in cui ciascuno recita la sua fabula, hanno acquistato un rilievo ancora più determinante, addirittura totalizzante, nel mondo contemporaneo, grazie all’espansione
delle tecnologie della comunicazione e alla spettacolarizzazione dell’intera vita sociale». E Ferroni scriveva dieci anni fa, quando la Rete, i blog e Twitter non avevano ancora radicalmente modificato
l’essenza stessa della pratica democratica!
Concludendo la sua analisi, Ferroni ricorre a un’immagine suggestiva, quella del Machiavelli capace
di indicare «una politica del rimedio» rispetto «alle falle infinite prodotte dall’ ambizione degli esseri
umani, agli inconvenienti creati dall’espansione produttiva e dall’incontrollato sviluppo economico»
(avercene, di crescita e sviluppo, sospireremmo oggi). L’immagine del Machiavelli terapeuta richiama il
giudizio di Francesco De Sanctis, che riconobbe nel Nostro la capacità di «vedere la malattia», rappresentata dalla «corruttela» che egli non si era mai stancato di denunciare. E anticipa quella recentissima
di Luigi Zanzi che riconosce Machiavelli protagonista di un’autentica rivoluzione scientifica consistente
in «una riconduzione dapprima della politica alla storia, e poi della storia alla natura», e capace quindi
di individuare l’«etica [...] quale scelta di un impegno responsabile a tentare di trasformare il mondo
così da consentire ad una comunità di uomini di rimediare concretamente al male, controllandone
l’esercizio preventivo in forme tali che assicurino la realizzazione di una “forma di vita” in cui, per
quanto possibile, il bene sia condiviso socialmente nel “vivere civile”». Una prospettiva, quest’ultima,
capace forse di dare risposta al quesito che Isaiah Berlin riconosce a Machiavelli, e a pochi altri, di aver
posto, ossia «come riconciliare il desiderio umano della libertà con l’esigenza dell’autorità».
Siamo al cuore della questione democratica, che continua dunque a non poter fare a meno di Machiavelli. Ed è forse proprio per la persistenza dell’eredità di Machiavelli che dobbiamo a un letterato, il
francese Jean Giono, uno dei più efficaci riconoscimenti della sua grandezza: «Voler parlare di politica
come è trattata ed esercitata oggi senza dire nulla di Machiavelli è esattamente ignorare la grammatica
della lingua che si parla». (Salvatore Carrubba)
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