CAPITALE SOCIALE E TUTELA DEI FORNITORI DI equity E DI

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Roberto Sacchi*
Capitale sociale e tutela
dei fornitori di equity e di capitale di debito
avversi al rischio dopo le opzioni
del legislatore italiano nell’applicazione
dei principi contabili internazionali Intendo occuparmi delle ricadute sul dibattito concernente l’opportunità di conservare l’istituto del capitale sociale – o comunque il c.d. sistema del netto, inteso
come sistema in cui vi deve essere un livello minimo di surplus sul passivo dell’attivo, che deve essere formato da cespiti con caratteristiche predeterminate, valutati
secondo regole predeterminate1 – che derivano dalla scelta di applicare i principi
contabili internazionali anche al bilancio d’esercizio effettuata dal legislatore italiano con il d. lgs. 28 febbraio 2005, n. 38 (e, prima ancora, con l’art. 25 l. 31
ottobre 2003, n. 306) in sede di esercizio delle opzioni permesse dal regolamento
CE n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 luglio 2002.
Dopo essere stato abbandonato dal Model Business Corporation Act e da molte
legislazioni statali statunitensi, anche in Europa il capitale sociale è oggetto di un
vivace dibattito nell’ambito del quale è ampiamente rappresentata l’opinione favorevole alla sua soppressione. Si vedano in questo senso, ad esempio, le tesi, che
ormai risalgono a quasi vent’anni fa, di Kübler2, alle quali in Italia si è dimostrato
particolarmente sensibile Spolidoro3, anche se quest’ultimo non si è finora spinto
fino alla conclusione che il capitale sociale ha ormai esaurito la sua funzione.
Nel nostro Paese, poi, la discussione ha trovato un nuovo impulso a seguito
degli stimoli forniti da Enriques e Macey4 e dalle repliche di Denozza5.
(*) Università degli Studi di Milano.
Questa relazione riproduce il testo di una comunicazione presentata al Convegno internazionale
di studi organizzato dalla Rivista delle società su Le società per azioni oggi, che si è svolto a Venezia
i giorni 10 e 11 novembre 2006, i cui atti sono stati pubblicati da Giuffrè nel 2007
1 Per questa definizione del sistema del netto si veda F. Denozza, A che serve il capitale sociale?
(Piccole glosse a L. Enriques – J.R. Macey, Creditors Versus Capital Formation: The Case Against the
European Legal Capital Rules), in Giur. comm., 2002, I, 585 ss.
2 K. Kübler, Aktie, Unternehmensfinanzierung und Kapitalmarkt, Köln, 1989. Le tesi in questione
sono state riproposte dall’Autore, tra l’altro, in un saggio dello stesso titolo (al quale si riferiscono
le citazioni successive), pubblicato in Il diritto delle società per azioni: problemi, esperienze, progetti, a
cura di P. Abbadessa e A. Rojo, Milano, 1993, 101 ss.
3 M. S. Spolidoro, Il capitale sociale, in Il diritto delle società per azioni, cit. nella nota precedente,
59 ss., in particolare 99 s. e voce Capitale sociale, in Enc. dir., agg., vol. IV, Milano, 2000, 195 ss.,
in particolare 235 ss.
4 L. Enriques-J. R. Macey, Creditors Versus Capital Formation: The Case Against the European
Legal Capital Rules, in Cornell Law Review, 86 (2001), 1165 ss., la cui versione italiana, con alcuni
adattamenti , è stata pubblicata in Riv. soc., 2002, 78 ss., con il titolo Raccolta di capitale di rischio
e tutela dei creditori: una critica radicale alle regole europee sul capitale sociale.
5 F. Denozza, (nt 1), 585 ss. La polemica è proseguita con ulteriori interventi di L. Enriques,
Capitale sociale, informazione contabile e sistema del netto: una risposta a Francesco Denozza, in Giur.
comm., 2005, I, 607 ss. e di F. Denozza, Le funzioni distributive del capitale, in Giur. comm., 2006,
II, 489 ss.
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Dubbi sull’opportunità di conservare il capitale sociale sono stati formulati anche a livello comunitario. Nel Report of the High Level Group of Company Law
Experts on a Modern Regulatory Framework for Company Law in Europe del 4 novembre 2002 si propone di intervenire inizialmente solo con un rilassamento e una
semplificazione della disciplina del capitale sociale dettata dalla Seconda Direttiva
(c.d. approccio “SLIM – plus”), che si inseriscono nel processo per una Simpler
Legislation for the Internal Market (cap. IV, § 2 del Report), ma in prospettiva con la
concessione agli Stati membri della possibilità di optare per un regime alternativo
di protezione dei creditori sociali, incentrato su un solvency test, che si dovrebbe
articolare a sua volta in un Balance Sheet test (o Net Assets test) e in un Liquidity
test (o Currents Assets / Current Liabilities test) (cap. IV, § 4.a del Report).
Alle proposte del High Level Group ha fatto seguito la comunicazione della
Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 21 maggio 20036, nella
quale (§ 3.2) si afferma che “la Commissione intende lanciare a medio termine
uno studio di fattibilità relativo ad un’alternativa al regime di salvaguardia del
capitale. In particolare lo studio dovrà individuare con precisione i vantaggi
offerti da un regime alternativo rispetto ad una modifica a breve termine delle
disposizioni della seconda direttiva”.
Successivamente è stata adottata la Direttiva 2006/68/CE. Essa si limita a modificare con obiettivi di semplificazione la Seconda Direttiva. Tuttavia nel secondo
considerando di questa Direttiva viene fatto esplicito riferimento alla “necessità
di procedere, senza indugio, ad un esame generale della percorribilità di alternative al regime di salvaguardia del capitale che consenta di tutelare adeguatamente
gli interessi dei creditori e degli azionisti di una società per azioni”.
Del resto, la rilevanza del capitale sociale risulta già ora chiaramente intaccata dalla giurisprudenza comunitaria a seguito della quale, sulla base di un’ampia
interpretazione della libertà di stabilimento, è possibile che, quando uno Stato
membro A ha una rigorosa disciplina del capitale sociale, l’applicazione di questa disciplina sia evitata mediante la costituzione della società in un’altro Stato
membro B, anche se la società opera esclusivamente nello Stato membro A7.
Non è questa la sede per ripercorrere in modo analitico i termini, del resto
ben noti, in cui si articola il dibattito sul tema in discorso8. In estrema sintesi
– e con una forte semplificazione – i critici del capitale sociale sostengono che
esso crea vincoli rigidi i quali limitano la libertà di scelta nella determinazione
dell’entità (e del tipo, date le restrizioni in ordine ai cespiti conferibili) di mezzi
propri di cui la società si deve dotare. In questo modo viene ridotto il rendimento atteso dell’investimento, rendendolo meno appetibile, e viene diminuita
l’efficienza dei mercati finanziari.
6 Modernizzare il diritto delle società e rafforzare il governo societario nell’Unione europea. Un piano
per progredire, in Riv. soc., 2004, 568 ss., con un commento di G. Ferrarini, Armonizzare il governo
societario in Europa? ivi, 551 ss.
7 Si vedano in particolare le sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 9 marzo 1999, nel procedimento C-212/97 (caso Centros) e 30 settembre 2003, nel procedimento C-167/01
(caso Inspire Art).
8 Per un ampio quadro in proposito, oltre agli Autori precedentemente citati, si veda per tutti
G.B. Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, nel Trattato delle società per azioni,
diretto da G.E. Colombo e da lui stesso, vol. I, t. 2, Torino, 2004, 28 ss, ove anche, in particolare
nelle note 44 e 51, diffuse citazioni, alle quali adde la dottrina segnalata da L. Enriques (nt 5), 608
s. e gli studi pubblicati in Legal Capital in Europe, a cura di M. Lutter, Berlin, 2006.
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Sopprimendo il capitale sociale, la tutela dei creditori sociali potrebbe essere
fornita – si sostiene – da un lato, da garanzie e covenants, il cui rilascio potrebbe essere negoziato dai creditori in sede di concessione del credito, dall’altro,
dall’attribuzione di azioni risarcitorie nei confronti non solo degli amministratori, ma anche degli stessi soci. A quest’ultimo riguardo la protezione fornita
ai creditori dal capitale sociale in caso di sua abolizione potrebbe trovare un
sostitutivo incrementando la possibilità dei creditori di superare lo schermo della
personalità giuridica9.
Sotto questo profilo, dunque, anche nel dibattito sulla conservazione o non
del capitale sociale emerge quindi la tendenza all’allargamento della tutela obbligatoria, per compensare la riduzione dei vincoli di carattere reale dell’azione
della società.
A fronte di questi argomenti, chi riconosce tutt’ora una funzione al capitale
sociale replica che sopprimendolo e lasciando ai creditori l’onere di procurarsi
garanzie convenzionali in sede di negoziazione al momento della concessione
del credito, vi è il rischio di una sperequazione fra creditori forti, da un lato,
e creditori deboli e/o involontari dall’altro. Vi è, cioè, il rischio che i creditori
forti, invece di imporre vincoli negoziali sul rispetto di determinati ratios , ad
esempio in ordine al rapporto fra mezzi propri e mezzi di terzi, si procurino
garanzie che vanno a loro esclusivo vantaggio e/o aumentino gli oneri del finanziamento per compensare i rischi derivanti dall’assenza del capitale sociale.
In questo modo il monitoraggio sul merito di credito della società che chiede il
finanziamento andrebbe a esclusivo vantaggio dei creditori forti.
In definitiva, la scelta se conservare il capitale sociale10 appare sostanzialmente una scelta politica, ossia una scelta fra interessi. È opinione diffusa che l’abolizione del capitale sociale privilegia l’interesse dei soci alla redditività dell’investimento, mentre la conservazione di questo istituto sacrifica il loro interesse a
favore di quello dei creditori sociali alla salvaguardia della loro garanzia costituita dal patrimonio sociale.
A questo proposito la perdita di rilevanza del capitale sociale negli U.S.A. e le
resistenze alla soppressione di questo istituto tutt’ora presenti in Europa vengono collegate11 alla circostanza che, mentre nella tradizione giuridica dell’Europa
continentale l’obiettivo principale è stato storicamente la protezione dei creditori,
negli U.S.A. è preminente la preoccupazione per l’interesse dei soci. Per vero, la
contrapposizione di interessi che qui viene in considerazione in realtà attraversa
in modo trasversale la categoria dei soci12 e la categoria dei creditori sociali,
9 Il che, per vero, pone una serie di problemi, ad iniziare da quello dei criteri in base ai quali
selezionare i soci sul cui patrimonio consentire l’aggressione da parte dei creditori.
10 Che in realtà non si pone nei termini di alternativa secca nei quali, per semplicità di discorso
ai fini che qui rilevano, viene presentata nel testo. Basti pensare alle variabili costituite dalla previsione
o non di un capitale sociale minimo, dalla sua entità, dal tipo di vincoli e di regole che l’ordinamento colleghi ad esso, in particolare dalla presenza o non della regola c.d. “ricapitalizza o liquida”.
A ciò si aggiungano l’ulteriore variabile, che verrà accennata in seguito, rappresentata dall’eventuale
sostituzione del capitale sociale con parametri di altro tipo, comunque correlati ai dati contabili, e
quella costituita dalla presenza di regole, poste in via legislativa o interpretativa, dirette ad assicurare
l’adeguatezza del capitale all’oggetto sociale. Su quest’ultimo tema si veda, per tutti, G. B. Portale,
ad esempio in Capitale sociale (nt. 8), 41 ss.
11 In questo senso, ad esempio, Kübler (nt 2), 114 s. e L. Enriques-J.R. Macey, Raccolta (nt. 4), 86.
12 Ciò, tra l’altro, chiarisce il carattere mistificatorio dello slogan molto diffuso – e che ha tro-
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ossia quella di coloro che forniscono equity e quella di coloro che forniscono
capitale di debito13.
Infatti la presenza di vincoli di rigidità nella determinazione dell’entità e del
tipo dei mezzi propri della società, derivanti dal capitale sociale, ostacola la dinamicità della gestione a vantaggio della stabilità patrimoniale. In questo modo
essa protegge non solo i creditori avversi al rischio, ma anche i soci avversi al
rischio e, d’altra parte, penalizza non solo i soci propensi al rischio ma anche
i fornitori di capitali di debito propensi al rischio. Si pensi, ad esempio, ai finanziatori nelle operazioni di venture capital. Di seguito il discorso viene quindi
svolto con riguardo non solo a chi fornisce capitale di rischio, ma anche a chi
fornisce capitale di debito.
Anche l’argomento, sovente usato dai critici del capitale sociale14, secondo
cui questo istituto penalizza le imprese della new economy, che non richiedono
grandi dotazioni di beni materiali, conferma quanto detto, essendo l’investimento
in imprese di questo genere caratteristico di soggetti propensi al rischio.
Da questo punto di vista, il crescente favore per l’abbandono della categoria del capitale sociale si inserisce in una più ampia tendenza particolarmente
marcata negli Stati Uniti, ma che, sia pure in misura diversa, caratterizza la
generalità dei paesi capitalistici avanzati15, diretta a privilegiare l’interesse dei
fornitori di equity e di capitali di debito propensi al rischio e con una prospettiva a breve termine dell’investimento.
Essa trova importanti manifestazioni, oltre che nell’adozione in sede comunitaria dei principi contabili internazionali (su cui tornerò fra breve), nel diffuso favore per il valore della contendibilità del controllo societario che, in un
mercato non pienamente efficiente, può indurre gli amministratori ad adottare
politiche di redditività a breve termine, anche quando esse pongano a rischio
le prospettive di crescita dell’impresa e di ritorno dell’investimento nel medio –
lungo termine16.
Non è questa la sede per esaminare le conseguenze a cui possa condurre la
tendenza appena menzionata. Mi limito a segnalare che il costo della stessa è
vato eco anche nella protezione accordata dall’art. 2497, comma 1, c.c. ai soci con riferimento alla
redditività e al valore della partecipazione – che individua nella creazione di valore – genericamente
– per gli azionisti il fine dell’azione della società.
13 Essa riguarda, quindi, anche i portatori di strumenti finanziari partecipativi, indipendentemente
dal modo in cui questi vengano classificati.
14 Si vedano, ad esempio, L. Enriques – J.r. Macey, Raccolta (nt 4), 109.
15 In controtendenza si muove però il Codice di Autodisciplina, versione 2006, del Comitato per
la Corporate Governance di Borsa Italiana s.p.a., che, nel Commento al Principio 1, assegna agli amministratori, tra l’altro, il compito di assumere determinazioni che, ragionevolmente, possono portare
– quale obiettivo prioritario – alla creazione di valore per gli azionisti in un orizzonte di medio-lungo
periodo (si veda anche il Principio 7.P.2).
16 A questo proposito è significativo che con riferimento al caso Enron J.R. Macey, Efficient
Capital Markets, Corporate Disclosure & Enron, in Giur. comm., 2002, I, 754 ss., rileva (755) che “this
sudden deterioration in performance created pressure on management to engage in transactions that
increased revenue and moved debt off of the firm’s balance sheet” e, più in generale, sottolinea “the
acute pressure felt by U.S. management to produce superior performance results”. In proposito mi
permetto anche di richiamare quanto osservato in R. Sacchi, La responsabilità dell’impresa e il controllo dei rischi, in La responsabilità dell’impresa (atti del Convegno per i trent’anni di Giurisprudenza
commerciale, Bologna, 8-9 ottobre 2004), Milano, 2006, 164 s.
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il pericolo dell’allontanamento dall’investimento – non solo diretto, ma anche
attraverso investitori istituzionali – nei mercati finanziari di chi investe in equity
o in capitali di debito in una prospettiva caratterizzata da avversione a rischio,
con conseguenti potenziali ripercussioni negative sulla crescita dei mercati finanziari stessi.
Importa invece rilevare – tornando al tema di questo intervento – che il reale
problema non è, a ben vedere, se conservare il capitale sociale. Esso può essere
sostituto collegando vincoli di indisponibilità (di una quota ideale) del patrimonio sociale a parametri di altro genere17.
Del resto, vincoli di indisponibilità sono previsti anche negli Stati Uniti18e
nel regime alternativo opzionale ipotizzato dal Report of the High Level Group
of Company Law Experts on a Modern Regulatory Framework for Company Law
in Europe è previsto (cap IV, § 4.a), come già detto, un solvency test, basato su
un Balance Sheet test (o Net Assets test) e su un Liquidity test (o Currents Assets
/ Current Liabilities test)19.
Il vero tema è decidere se ancorare i vincoli di indisponibilità del patrimonio
sociale a criteri dotati di una sufficiente precisione e quindi difficilmente manipolabili o invece a parametri, quali solvency tests non rigidamente correlati ai
dati contabili, caratterizzati da una forte elasticità, che consentono, al fine di
massimizzare le prospettive di redditività dell’investimento, di adeguare la dotazione di mezzi propri alle specifiche necessità della singola impresa, ma che
inevitabilmente implicano un elevato grado di opinabilità.
In altre parole, il vero tema è decidere se, per usare una distinzione oggi
molto di moda, collegare i vincoli di indisponibilità a rules o a standards20. Ove
si opti per una rule, si offre una protezione ai fornitori di equity e di capitale
di debito avversi al rischio; se, invece, si scelga uno standard, si privilegia l’interesse di quelli propensi al rischio.
In un sistema in cui il bilancio di esercizio va redatto sulla base dei principi contabili caratteristici della tradizione dell’Europa continentale, incentrati in
linea di massima sul criterio di valutazione del costo storico, l’apprezzamento
sulla copertura del capitale sociale può essere effettuato con un sufficiente grado di precisione.
Ciò, per vero, è stato contestato21, ma in un modo che non risulta convincente. Il riferimento allo scandalo Parmalat, utilizzato a tal fine, appare suggestivo,
dato che quella vicenda risulta connotata da patologie di un livello di gravità
17 Si vedano: G.B. Portale, (nt 8), 30 e F. d’Alessandro, La crisi dell’impresa tra diagnosi precoci e
accanimenti terapeutici, in Giur comm., 2001, I, 414 s., i quali ipotizzano l’introduzione di un rapporto proporzionale fra mezzi propri e mezzi di terzi; P. Marchetti, Relazione generale, in Dalla riforma
Draghi alla riforma delle società non quotate (atti del Convegno di studi di Alba, 21 novembre 1998),
in Società, 1999, 786, che si interroga sull’opportunità di fissare parametri di patrimonializzazione
obbligatoria correlati al volume di affari, al volume di indebitamento, al tipo di attività.
18 Per la descrizione delle scelte compiute in proposito nel MBCA e nella legge societaria californiana si vedano L. Enriques – J.R. Macey, Raccolta (nt 4), 94 ss.
19 Anche L. Enriques, (nt 5), 623 ritiene che la soglia minima della protezione dei creditori possa
essere individuata in un solvency test. Egli precisa che questo test non è in alcun modo assimilabile
ad un sistema di ratios patrimoniali.
20 Nel senso che il sistema del netto è molto più simile a una rule di quanto lo siano i sistemi
proposti in sostituzione si veda F. Denozza, Le funzioni distributive (nt 5), 501.
21 Da L. Enriques, (nt 5), 624 s.
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tale da rendere difficile la loro riconduzione a difetti (che pure esistono) della
contabilità fondata sul costo storico.
Quanto poi alla considerazione che i principi contabili tradizionali consentono
margini di discrezionalità, essa non esclude che la valutazione sulla copertura
del capitale sociale effettuata in base ad un bilancio d’esercizio caratterizzato
dal criterio del costo storico presenta un grado di opinabilità e di manipolabilità inferiore a quello offerto da solvency tests non rigidamente vincolati ai dati
contabili.
Il discorso, però, cambia sensibilmente ove la valutazione della copertura del
capitale sociale sia condotta utilizzando un bilancio d’esercizio nel quale vengono
applicati i principi contabili internazionali.
Mentre la disciplina contabile tradizionale individua come fondamentale (anche se non unico) criterio di valutazione il costo storico delle attività da valutare,
negli IAS/IFRS, introdotti con il regolamento CE n. 1606 del 19 luglio 2002 del
Parlamento Europeo e del Consiglio, un ruolo centrale (anche se non esclusivo) è
assegnato al fair value (valore equo, nella versione ufficiale italiana), inteso come
il corrispettivo al quale un bene può essere scambiato, o una passività estinta,
tra parti consapevoli e disponibili, in una transazione al suo valore di mercato;
in altre parole (pur con una certa semplificazione), il valore di mercato.
Al di là degli importanti problemi tecnici posti dall’introduzione dei principi
contabili internazionali – come ad esempio, quello dei criteri alla stregua dei
quali sottoporre a revisione con l’impairment test il fair value iniziale e quello di
determinare il fair value quando non vi sia un mercato – qui importa segnalare
che, laddove la valutazione del mercato incorpora, come normalmente accade,
aspettative di redditi futuri e di futuri flussi di cassa, l’adozione del fair value
conduce a recepire nel bilancio utili non realizzati, in netto contrasto con il
principio di prudenza, quale inteso nella tradizione del nostro diritto contabile e
nel vigente codice civile, il cui art. 2423-bis, comma 1, n. 2, pone fra i principi
di redazione del bilancio il precetto che si possono indicare esclusivamente gli
utili realizzati alla data di chiusura dell’esercizio.
Questo non significa che il principio di prudenza sia assente nel sistema degli
IAS/IFRS. Vi sono anzi casi in cui l’applicazione dei principi contabili internazionali può condurre a valutazioni dell’attivo inferiori a quelle derivanti dalla
disciplina codicistica.
Basti pensare che la capitalizzazione nell’attivo dello stato patrimoniale dei
costi aventi utilità pluriennale – che può costituire occasione per manovre di illecita sopravvalutazione dell’attivo – è consentita in misura decisamente inferiore
a quella permessa dal codice civile. Gli IAS/IFRS infatti ammettono la capitalizzazione dei soli costi di sviluppo, non di quelli di impianto e di ampliamento, di
ricerca e di pubblicità, consentita invece (in presenza di determinate condizioni)
dall’art. 2426, n. 5) c.c.
Questo non toglie che un sistema di valutazioni incentrato sul fair value conduce in linea di massima ad esporre valori più elevati di uno basato sul costo
storico. Non solo, esso porta a esporre valori – anche qui, in linea di massima
– maggiormente volatili, in quanto formati (anche) da plusvalenze non realizzate
e legate alle oscillazioni del mercato.
Ciò risulta coerente con gli obiettivi che stanno alla base della scelta comunitaria di adottare i principi contabili internazionali e che attengono all’esigenza
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di rendere competitivi sui mercati mondiali dei capitali i global players comunitari. A questo proposito nel secondo considerando del regolamento n. 1606/2002
si sottolinea l’esigenza che “i principi dell’informativa finanziaria applicati dalle
società comunitarie attive nei mercati finanziari siano accettati a livello internazionale e costituiscano principi di carattere veramente globale. Ciò implica
una maggiore convergenza dei principi contabili attualmente utilizzati a livello
internazionale, con l’obiettivo finale di conseguire un insieme unico di principi
contabili su scala mondiale”.
Il quarto considerando poi precisa che “il presente regolamento rafforza la
libertà di movimento dei capitali nel mercato interno e contribuisce a mettere le
imprese comunitarie nelle condizioni di competere ad armi pari per l’allocazione
delle risorse finanziarie disponibili nei mercati comunitari dei capitali nonché in
quelli mondiali”. Inoltre nel quinto considerando si afferma che “è fondamentale
per la competitività dei mercati comunitari dei capitali promuovere la convergenza dei principi seguiti in Europa per redigere i bilanci introducendo l’uso di
principi contabili internazionali che possano essere riconosciuti su scala mondiale, al fine di realizzare operazioni transfrontaliere o di ottenere l’ammissione
alla quotazione ovunque nel mondo”.
L’accoglimento del fair value come parametro principale di valutazione consente, quindi, alle imprese comunitarie di competere con quelle la cui informazione finanziaria si ispira ai principi contabili americani.
Nei paesi capitalistici avanzati è fondamentale che la disciplina delle società,
in particolare di quelle quotate o, comunque, con titoli largamente diffusi, favorisca lo sviluppo dei mercati finanziari. A tale scopo occorre attrarre su questi
mercati gli investitori, con una normativa che imponga alle società di fornire
un’informazione finanziaria idonea a consentire scelte razionali di investimento.
Sotto questo profilo il fair value ha un grado di significatività (relevance)
ben maggiore del costo storico. Infatti un bilancio nel quale le valutazioni sono
essenzialmente incentrate sul costo storico recepisce valori derivanti da eventi
già registrati nella contabilità. All’investitore invece interessa, per decidere come
orientare le sue decisioni, un’informazione rivolta al futuro e non al passato. Il
fair value tuttavia ha un inconveniente. Le stesse ragioni (informazione orientata
al futuro, che espone valori i quali incorporano utili non ancora realizzati), che
rendono il fair value più significativo del costo storico per le scelte di investimento, fanno sì che il primo abbia un minor grado di attendibilità (reliability)
del secondo.
Un bilancio nel quale le valutazioni sono principalmente fondate sul fair value
è perciò meno attendibile nella determinazione della misura dell’utile distribuibile
ai soci. Ciò spiega la ragione per la quale nella tradizione del diritto contabile
la valutazione al costo storico ha avuto un ruolo privilegiato. In questa tradizione infatti il bilancio di esercizio – pur avendo anche una funzione informativa,
che si è progressivamente incrementata – ha anzitutto lo scopo di determinare
la misura dell’utile distribuibile.
La sostituzione del fair value al costo storico come principale (anche se non
esclusivo) parametro di valutazione è quindi coerente con il trend precedentemente segnalato, che privilegia le esigenze di chi fornisce capitali all’impresa in
un’ottica di breve periodo e con un’elevata propensione al rischio.
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I principi contabili internazionali, infatti, risultano specificamente idonei per
orientare le scelte di soggetti con queste caratteristiche. Per essi infatti la minore
attendibilità delle valutazioni e la più elevata volatilità dei valori (caratteristiche
queste, come si è detto, tendenzialmente proprie del fair value) costituiscono un
inconveniente accettabile a fronte della maggiore significatività dell’informazione, a differenza di quanto avviene per chi fornisce capitali in un’ottica di lungo
termine o comunque con una scarsa propensione al rischio.
È innegabile che vi sia una convergenza, sul piano degli interessi da proteggere e delle esigenze da soddisfare, fra obiettivi dei principi contabili internazionali e motivazioni utilizzate da chi auspica la soppressione dell’istituto del
capitale sociale22.
Questo peraltro non significa che, di per sé, il conseguimento delle finalità
informative degli IAS/IFRS abbia come costo inevitabile la perdita di significato del capitale sociale come strumento di protezione di chi sia interessato alla
stabilità patrimoniale della società.
Al contrario, il regolamento comunitario n. 1606/2002 lascia al legislatore
nazionale la possibilità di conciliare con l’adozione dei principi contabili internazionali la salvaguardia delle funzioni proprie del capitale sociale.
L’art. 4 del regolamento n. 1606/2002 infatti impone l’adozione dei principi
contabili internazionali soltanto per i bilanci consolidati delle società quotate.
Il bilancio consolidato ha di per sé una funzione informativa, a differenza del
bilancio d’esercizio, che ha anche una funzione “organizzativa” e sulla base del
quale viene determinato l’utile distribuibile. L’estensione dei principi contabili
internazionali ai bilanci di esercizio delle società quotate e ai bilanci consolidati
e/o d’esercizio delle società non quotate costituisce una mera facoltà degli Stati
membri (art. 5 del regolamento n. 1607/2002).
Il legislatore italiano ha però ampiamente utilizzato questa facoltà, spingendosi molto in avanti nell’accoglimento dei principi contabili internazionali. In
effetti il d. lgs. 28 febbraio 2005, n. 38, impone l’adozione dei principi contabili
internazionali non solo nel bilancio consolidato delle società quotate, di quelle
con titoli diffusi fra il pubblico, delle banche ed intermediari finanziari, delle imprese assicurative (art. 3), ma anche nel bilancio d’esercizio delle società
quotate, delle società con titoli diffusi fra il pubblico, delle banche ed intermediari finanziari, delle imprese assicurative quotate che non redigono il bilancio
consolidato; la possibilità di applicare i principi contabili internazionali è poi
ammessa in termini generali, con il limite delle società che possono redigere il
bilancio in forma abbreviata (art. 4).
Inoltre l’Organismo Italiano di Contabilità (OIC) in attuazione delle direttive
comunitarie 65/2001 e 51/2003 ha predisposto un progetto di riforma (fra l’altro) della disciplina codicistica del bilancio di esercizio, che recepisce in questa
disciplina la facoltà di adottare il fair value.
Se i principi contabili internazionali vengono applicati nel solo bilancio consolidato, questo consente il pieno conseguimento degli obiettivi di qualità dell’informazione finanziaria fornita dalle imprese comunitarie e di sua comparabili22 Per un accenno in questo senso si veda il Report of the High Level Group of Company Law
Experts on a Modern Regulatory Framework for Company Law in Europe, cap. IV, § 2.
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tà con quella fornita dai competitors extracomunitari sui mercati mondiali dei
capitali – dato che per le scelte di investimento il bilancio consolidato ha un
rilievo nettamente superiore al bilancio di esercizio – senza compromettere la
possibilità di un rigoroso riscontro, sulla base del bilancio di esercizio, della
copertura del capitale sociale.
L’introduzione degli IAS/IFRS anche nel bilancio d’esercizio, invece, mette
seriamente in discussione la possibilità di verificare adeguatamente la copertura
del capitale sociale, dato che il fair value porta ad esporre valori formati (anche)
da plusvalenze non realizzate e legate alle oscillazioni del mercato.
Nel d. lgs. n. 38 del 2005 e nel progetto OIC si ritiene di risolvere questo
problema con la previsione di riserve formate dai plusvalori derivanti dall’applicazione del fair value (artt. 6 e 7 d. lgs. n. 38, artt. 2433, 2478-bis e 2481-ter
c.c. come modificati dal progetto OIC). Queste riserve sono (in linea di massima) indisponibili23; le plusvalenze da fair value sono distribuibili solo dopo la
riduzione della riserva a seguito della loro realizzazione; le riserve non sono
utilizzabili per l’aumento del capitale sociale, per il pagamento di dividendi ai
possessori di azioni correlate, per l’acquisto di azioni proprie o di società controllante, o per operazioni che comunque possano portare alla distribuzione dei
plusvalori da fair value.
Nonostante l’adozione di queste cautele, l’applicazione dei principi contabili
internazionali nel bilancio d’esercizio può condurre a distorsioni nel funzionamento degli artt. 2446 e 2447 c.c. Essa può condurre sia a un’anticipazione, sia
a un ritardo nell’operatività dei meccanismi previsti da queste norme, in particolare della regola c.d. “ricapitalizza o liquida”.
Si può verificare un’anticipazione perché, data la volatilità dei valori esposti
in base al fair value, è possibile che i presupposti per l’applicazione della disciplina in questione maturino in presenza di perdite di carattere transitorio e
contingente.
Qualora ciò si verifichi, si aprono due alternative: o si ritiene che le disposizioni in discorso operino ugualmente, il che può condurre a ricapitalizzazioni
non necessarie, penalizzando così la redditività dell’investimento e sacrificando
gli interessi protetti dai principi contabili internazionali, oppure si attribuisce agli
amministratori la facoltà di rinviare la convocazione dell’assemblea, con il rischio
che questa facoltà venga esercitata anche quando le perdite in realtà non sono
transitorie, rischio di fronte al quale il correttivo delle azioni di responsabilità
nei confronti degli amministratori non sembra da solo sufficiente.
Quanto poi alla possibilità che l’applicazione dei principi contabili internazio23 Peraltro sono distribuibili gli utili di esercizio corrispondenti alle plusvalenze da fair value riferibili agli strumenti finanziari di negoziazione e all’operatività in cambi e di copertura (art. 6, comma
1, lett. a) d. lgs. n. 38). Soprattutto, nello stato patrimoniale di apertura del primo bilancio di esercizio redatto secondo i principi contabili internazionali l’incremento patrimoniale dovuto all’iscrizione
delle attività materiali al fair value può essere imputato a capitale; in alternativa, va imputato a una
specifica riserva che può essere ridotta, sia pure nel rispetto dell’art. 2445, commi 2 e 3, c.c.; inoltre
in caso di utilizzazione della riserva a copertura di perdite si può evitare il vincolo alla distribuibilità
degli utili riducendo la riserva; in questa ipotesi non è neppure prevista (anzi, è esplicitamente esclusa) l’applicazione delle cautele di cui all’art. 2445, commi 2 e 3, c.c. (art. 7, comma 6, d. lgs. n. 38).
In senso critico sulle scelte compiute con la disposizione in discorso per i pericoli che essa crea sul
piano della stabilità patrimoniale, si veda G. Strampelli, Le riserve da fair value: profili di disciplina e
riflessi sulla configurazione e la natura del patrimonio netto, in Riv. soc., 2006, 313.
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nali nel bilancio d’esercizio conduca ad un ritardo nell’attuazione delle misure
previste dagli artt. 2446 e 2447 c.c. – che costituisce il pericolo maggiore sul
piano delle probabilità, dato che le valutazioni basate sul fair value conducono
a valori tendenzialmente più elevati di quelle fondate sul costo storico – essa
presenta un duplice profilo.
Anzitutto può accadere che i plusvalori non realizzati influiscano sul risultato
dell’esercizio abbassando le perdite al di sotto dei limiti previsti dalle disposizioni appena menzionate.
Inoltre le riserve da fair value possono – anzi, devono, data la gerarchia fra
le varie poste del netto – essere utilizzate prima del capitale sociale per coprire
le perdite, quando queste non sono assorbite da altre voci del netto patrimoniale (art. 6, comma 5, d. lgs. n. 38 e artt. 2446, comma 2, e 2482-bis, comma 1,
c.c., come modificati nel progetto OIC)24.
In questo modo – e nonostante l’obbligo di reintegrare queste riserve accantonando gli utili degli esercizi successivi – valutazioni che, essendo fondate sul
fair value, incorporano utili non realizzati consentono di evitare l’applicazione
della regola “ricapitalizza o liquida” ove il netto patrimoniale, valutato (in linea
di massima) al costo storico, sia sceso al di sotto del minimo legale del capitale sociale.
Pertanto le riserve da fair value previste dal d. lgs. n. 38, mentre salvaguardano la funzione del capitale sociale di protezione dei fornitori di capitali avversi
al rischio con riferimento ai vincoli che esso pone alle distribuzioni – intese in
senso lato, come comprensive di ogni forma di distribuzione di valore ai soci –
compromettono questa funzione nel momento in cui essa viene maggiormente
in considerazione, ossia quando la società è in crisi.
Francamente non si comprende la ragione per la quale il legislatore italiano
nell’esercizio delle opzioni consentite dal regolamento CE n. 1606/2002 ha ritenuto (a differenza di quanto avvenuto, ad esempio, in Germania) di fare una
scelta – quella di applicare principi contabili internazionali anche al bilancio di
esercizio – che ha ripercussioni così pesanti sul capitale sociale, istituto centrale,
fino al d. lgs. n. 38, del diritto societario italiano.
Questa scelta non pare essere stata motivata da una precisa e consapevole volontà di prendere posizione nel dibattito sul capitale sociale. Se così fosse stato,
tra l’altro, non avrebbe avuto senso prevedere le riserve da fair value.
Essa non è necessaria per il conseguimento degli obiettivi del regolamento
n. 1606/2002. Come detto, infatti, l’introduzione degli IAS/IFRS nel solo bilancio consolidato – data la sua maggiore rilevanza per le scelte di investimento,
rispetto al bilancio d’esercizio – è sufficiente per mettere le imprese comunitarie
in condizione di competere, sul piano della qualità e della comparabilità dell’informazione finanziaria fornita, con le imprese che applicano i principi contabili
americani25.
24 Sui problemi tecnici che in proposito si pongono si veda G. Strampelli, (nt. 23), 302 s., secondo
cui le riserve da fair value possono essere impiegate per coprire le perdite solo dopo aver utilizzato,
oltre alle riserve di utili disponibili e alla riserva legale, tutte le altre riserve e l’art. 6, comma 5, d.
lgs. n. 38 si applica per analogia anche alle riserve previste dall’art. 6, comma 1, lett. b).
25 L’opinione di L. Enriques, (nt. 5), 611 s., secondo cui l’adozione degli IAS/IFRS avrà ripercussioni sull’efficacia e sul funzionamento del capitale sociale quale strumento di protezione dei creditori
(aggiungerei: e dei soci avversi al rischio) è quindi condivisibile esclusivamente se riferita al d. lgs.
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Tra l’altro, a seguito del d. lgs. n. 38 coesistono in Italia società che applicano
i principi contabili internazionali nel bilancio di esercizio e società che invece
redigono il bilancio di esercizio sulla base della tradizionale disciplina, con conseguente difficoltà di comparare i risultati delle une e quelli delle altre. L’inconveniente, non verrà eliminato dall’eventuale approvazione del progetto OIC, nel
quale l’adozione del fair value è opzionale e non obbligatoria.
Né la scelta effettuata nel d. lgs. n. 38 può essere giustificata dall’esigenza di
evitare i costi di una doppia contabilità: una basata sul fair value, in funzione
informativa; l’altra fondata sul costo storico, con funzione di determinare l’utile
distribuibile.
Non pare che un argomento di questo genere possa da solo motivare un’opzione che, se quanto fin qui detto è corretto, stravolge a livello di sistema il
diritto societario italiano. Inoltre la soluzione adottata in realtà non consente
di evitare il doppio costo appena segnalato. Per determinare i plusvalori da fair
value destinati a formare le riserve previste dagli artt. 6 e 7 d. lgs. n. 38 è infatti necessario effettuare le valutazioni sia in base al fair value, sia in base al
costo storico.
Peraltro all’interprete non resta che prendere atto delle scelte legislative compiute. Il capitale sociale è stato definito un istituto sotto assedio26. A questo
punto è bene che gli assediati si rendano conto che nell’ordinamento italiano è
stato introdotto un meccanismo che può condurre ad abbassare il ponte levatoio
proprio quando il nemico è più vicino. Questo però non significa che la battaglia
sia finita per chi ritiene che il soddisfacimento delle esigenze della speculazione
a breve termine non debba costituire l’unico obiettivo di un moderno diritto dei
mercati finanziari.
A parte improbabili, anche se auspicabili, ripensamenti legislativi in ordine
all’esercizio delle opzioni previste dal regolamento comunitario n. 1606/2002,
per proteggere in qualche misura la stabilità patrimoniale delle società che applicano nel loro bilancio di esercizio i principi contabili internazionali diviene
fondamentale l’atteggiamento che verrà assunto dalla giurisprudenza quando a
posteriori sarà chiamata a giudicare la legittimità di valutazioni che incorporano plusvalori non realizzati e sono fondate su previsioni di redditi futuri e/o di
futuri flussi finanziari, che poi non si sono verificate.
Il tema della sindacabilità a posteriori delle scelte compiute dagli amministratori non è nuovo, ma con gli IAS/IFRS è destinato a porsi con una frequenza e
con un impatto pratico molto superiori a quanto avveniva in passato.
Quando l’applicazione dell’art. 2447 c.c. sia stata ritardata coprendo le perdite con riserve da fair value formate da valori derivanti da valutazioni basate
su previsioni di redditi e/o di flussi finanziari che non si sono avverate, l’adozione della Business Judgement Rule consentirebbe ampi margini di abuso agli
amministratori che intendano ritardare l’applicazione della regola “ricapitalizza
o liquida”.
In situazioni di questo genere invece appare ragionevole – data la rischiosità della scelta di ritardare l’applicazione dell’art. 2447 c.c. – non adottare la
n. 38, non invece con riguardo al regolamento comunitario n. 1606/2002.
26 L. Enriques, (nt 5), intitola così il paragrafo introduttivo del suo saggio.
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Business Judgement Rule e addossare a chi ha dilazionato l’applicazione dell’art.
2447 c.c. sulla base di previsioni che poi non si sono verificare l’onere di dimostrare che ciò è dipeso da circostanze straordinarie e imprevedibili anche in
presenza di una verifica condotta con diligenza, da valutarsi secondo parametri
di notevole rigore.
Se la giurisprudenza accoglierà la tesi qui accennata in estrema sintesi27,
questo potrà costituire un incentivo per gli amministratori ad assumere atteggiamenti prudenti nel discostarsi verso l’alto dal prezzo di costo, che, in fondo
costituisce, tendenzialmente, il primo fair value di cui la società dispone.
In caso di proseguimento dell’attività grazie all’utilizzazione delle riserve da
fair value per coprire le perdite diviene comunque assai importante valorizzare
un solvency test, che in realtà a mio parere già oggi esiste nel diritto italiano28.
Mi riferisco all’art. 217, comma 1, n. 4 l. fall. Questa disposizione sanziona
penalmente l’imprenditore che ha aggravato il proprio dissesto astenendosi dal
richiedere la dichiarazione del proprio fallimento (o con altra grave colpa).
Benché il precetto sia dettato da una norma penalistica, ritengo che la regola di condotta con esso posta determini, in caso di sua violazione, anche una
responsabilità sul piano del diritto civile29. Finora la norma in questione non è
stata molto utilizzata in sede civile, dato che, nel caso di proseguimento dell’attività di società di capitali senza ricapitalizzare in una situazione di crisi, verificare la violazione dell’art. 2447 c.c. era fin qui molto più semplice che accertare
l’inosservanza del precetto desumibile dall’art. 217, comma 1, n. 4 l. fall. (il che,
per vero, dovrebbe forse indurre a qualche riflessione i critici del capitale sociale,
secondo i quali esso può essere adeguatamente sostituito da solvency tests).
Dopo il d. lgs. n. 38, date le difficoltà che esso determina rispetto all’accertamento della violazione dell’art. 2447 c.c., l’applicazione in sede civile del
precetto desumibile dall’art. 217, comma 1, n. 4 l. fall. potrà e dovrà assumere
una rilevanza diversa e maggiore per le società che utilizzano i principi contabili
internazionali nel loro bilancio di esercizio.
27 Il discorso richiederebbe un ben maggiore approfondimento. Esso è condizionato, tra l’altro,
da numerose variabili, quali, ad esempio, la circostanza che vi sia o non un mercato ufficiale o comunque liquido, che i valori da esso espressi siano caratterizzati da prospettive di stabilità o invece
condizionati da contingenze del tutto occasionali e transitorie al momento in cui sono utilizzati per
valutare se il capitale sociale esiste ancora.
28 Per vero, se si condivide l’opinione esposta di seguito nel testo la polemica sul capitale sociale
in Italia ha a questo punto per oggetto l’alternativa fra l’abolizione di una rule (il capitale sociale)
che non è più tale per le società che adottano gli IAS/IFRS nel bilancio di esercizio e l’introduzione
di uno standard (il solvency test) che è già desumibile dall’art. 217, comma 1, n. 4 l. fall.
29 In questo modo anche nel diritto italiano si ha uno strumento in qualche misura riconducibile
al wrongful trading inglese e alla Insolvenzverschleppungshaftung tedesca. Per un raffronto fra questi
due istituti si vedano T. Bachner, Wrongful Trading – A New European Model for Creditor Protection?,
in EBOR, 5 (2004), 293 ss. e M. Habersack – D. A. Verse, Wrongful Trading – Grundlage einer europäischen Insolvenzverschleppungshaftung?, in ZHR, 168 (2004), 174 ss.
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