I PALAZZI Gianpaolo Angelini Le dimore nobiliari valtellinesi tra ’500 e ’700 Un’area geografica apparentemente periferica, le Valli dell’Adda e della Mera, sottoposte dal 1512 al 1796 alla dominazione grigiona, non avevano però cessato di gravitare culturalmente sulla Lombardia ed in particolare sul Lario. L’adozione di tipologie colte provenienti da queste aree si confrontava con i caratteri tipici della dimora alpina, in un rapporto dialettico non sempre facile e lineare. Alcuni esempi possono aiutarci a fare il punto della questione. Il Palazzo Besta di Teglio rappresenta il definitivo passaggio dalle architetture castellane medievali al nuovo modello di dimora nobiliare rinascimentale, benché forme ancora legate al tema della casa-forte merlata quattrocentesca si incontrino sino a tutto il Cinquecento, come prova il caso della contrada fortificata di Pedenale a Mazzo. La riqualificazione di Palazzo Besta secondo i nuovi canoni rinascimentali si compie entro il 1519 con singolare unità progettuale, sulla base di edifici più antichi. Nell’edificio temi tratti dall’edilizia lombarda del Quattrocento, come l’ingresso eccentrico che Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, loggia lignea nella corte rustica. infila il lato meridionale del quadriportico (Palazzo Fontana Silvestri a Milano e Palazzo Mozzanica a Lodi), si legano con motivi desunti dalla più aggiornata trattatistica architettonica (Alberti e Cesariano). Il nucleo centrale del Palazzo è appunto il cortile quadrangolare, cui le murature preesistenti si adeguano 79 non senza difficoltà, come denunciano alcune intercapedini leggibili in pianta. All’interno gli ambienti Ponte in Valtellina, Palazzo Guicciardi, lunette dipinte del sottogronda. principali sono il salone d’onore, la «stüa» cinquecentesca e la sala della Creazione, allineate in bell’ordine lungo il prospetto principale, a cui si aggiunge una camera nella torre angolare, collegata al corpo principale del Palazzo da un passaggio esterno e forse anticamente destinata a studiolo o archivio. Al modello di Palazzo Besta fanno riferimento, in modo più o meno dichiarato, altre case nobili cinquecentesche. Palazzo Lambertenghi a Stazzona reca nel coronamento del sottogronda la data 1524, ma anch’esso deriva dall’unione e rettificazione di corpi di fabbrica più antichi, come sta a dimostrare l’emergenza turriforme in facciata. A Sondrio, nel rione oltre Mallero, si è discretamente conservata la Casa Carbonera Bonomi, già di un ramo dei Parravicini, il cui portale è datato 1535. Rilevante in modo particolare è il fronte settentrionale del cortile interno, con un sistema di portici e logge su tre livelli caratterizzato da una scansione piuttosto regolare, ma che traduce in modo più grossolano alcuni dettagli del cortile del Palazzo Besta (le colonne sommariamente abbozzate, la corrispondenza 1:2 degli interassi tra il portico e i loggiati superiori, la decorazione a graffito degli intonaci). Una «versione rurale, più aperta e funzionale, del sistema portico-loggiato» (Rovetta, 2000) si può individuare nella Corte dei Leli a Ponte, dove altre case dispongono di cortili con due livelli di aperture (Casa Quadrio ora Tentori in via Guicciardi). Le tipologie variano 80 Ponte in Valtellina, Palazzo Guicciardi, pianta del piano nobile. sino ad una significativa combinazione di forme e materiali della tradizione contadina, come nella Casa Maura Chistolini di Caspano in cui la loggia lignea del cortile è sostenuta da un pilastro tondo in muratura con mensola-capitello pure in legno. Dopo la grande stagione del Rinascimento, tra la fine del Sei e l’inizio del Settecento prese avvio una nuova fase di rinnovamento nell’architettura in Valtellina. Delle molte dimore nobiliari settecentesche meritano attenzione il Palazzo Sertoli di Sondrio, riformato dopo la metà del secolo su disegno Ponte in Valtellina, Palazzo Quadrio Curzio ora Pontiggia, facciata affrescata. di Pietro Solari da Bolvedro (notizie dal 1757 all’81), in cui architettura e residenza si compenetrano in modo rilevante. Negli altri casi siamo invece in presenza di semplici interventi di decorazione attuati entro involucri archi- tettonici preesistenti che rimangono prevalentemente invariati. Si segnalano comunque Palazzo Merizzi a Tirano, con cortile quadrangolare porticato su tre lati, e Palazzo Cattani Morelli a Teglio, un po’ tardo (tra l’ottavo e il nono decennio del secolo), con notevole scala a quattro sostegni. Al tipo della villa lombarda settecentesca fanno invece chiaro riferimento il Palazzetto Salis a Chiavenna (intorno al 1755-60), con fronte tripartita e corpo centrale avanzato, occupato a piano terreno dal salone, e il Palazzetto Besta a Bianzone (dai primi del Seicento in poi, con interventi interni successivi al 1752), con impianto a L, in cui il lato breve presenta un portico e una loggia. Ancora a Sondrio dobbiamo segnalare il Palazzo Carbonera in via dell’Angelo Custode. Dal cortile, dove si conservano rimanenze medievali, si accede ad un secondo più raccolto spazio aperto, cinto da una balconata con balaustra in ferro battuto su tutti i quattro lati, con notevoli pilastrini in pietra a base quadrata. Attraverso una porta sovrastata da figure allegoriche dipinte si accede ad un piccolo atrio e quindi alla famosa scala elicoidale, culminante in un lanternino. Un’iscrizione ricorda che i lavori di restauro si erano conclusi nel 1778. La complessità dei percorsi e dei volumi disposti in successione entro una struttura più antica ribadisce la varietà delle soluzioni residenziali adottate da architetti e committenti in ambito residenzale. A Pietro Solari si deve anche il Palazzo Malacrida a Morbegno, iniziato dopo la metà del secolo e concluso tra il ’58 e il ’62, dopo una lunga e faticosa campagna di acquisti di terreni e case preesistenti. Al secondo piano, desta particolare attenzione la presenza di camere di residenza direttamente affacciate sul salone d’onore a due piani, probabilmente una soluzione di ripiego determinata da esigenze di spazio. Infatti si era soliti disporre le logge sui sa- 82 Sopra,Chiuro, Casa Balgera, davanzale scolpito quattrocentesco loni in corrispondenza di passaggi di servizio o mezzanini. Questi ultimi sono per altro assenti, come anche in Palazzo Sertoli. A Palazzo Malacrida cinque stanze per la servitù erano poste all’ultimo piano, in pratica un sottotetto, segnato in facciata dalla presenza di oculi. La compressione degli spazi, rispetto ai grandi palazzi cittadini di Milano o Pavia, è una costante dell’architettura residenziale valtellinese, ma non indica necessariamente stili di vita più poveri, bensì diversi e meno formalizzati. In ogni caso le due fabbriche di Palazzo Sertoli e Palazzo Malacrida dichiarano la cultura aggiornata del loro progettista, Pietro Solari da Bolvedro, del quale si suppone l’origine dalla Val d’Intelvi, luogo di emigrazione di pittori, decoratori e architetti altamente qualificati. Ponte in Valtellina Il centro storico di Ponte conserva il numero maggiore di dimore e palazzi nobiliari. Nonostante il loro stato di conservazione non sia sempre ottimale, è nella sostanza ancora valida l’intensa descrizione di Leonardo Borgese: «Entriamo in Ponte, paese non assurdo ma logico, paese che andrebbe tutto descritto pietra per pietra, casa per casa, palazzo per palazzo. Ponte è un unico organismo, un conglomerato naturale ed artistico, un nido di celle, un convento e una fortezza […]». Non potendo qui soddisfare il desiderio di Borgese, ci limiteremo ad una scelta campionatura. Dei vari Palazzi Piazzi, raccolti tra le vie Ron, Piazzi e S. Francesco SaveSotto, Chiuro, Palazzo Cilichini, Scena di vita cortese. rio, tutti di origine cinquecentesca, emerge per mole il Palazzo ora Giacomoni. Esso sorge in stretta correlazione con altri edifici dell’isolato, aderendo a ovest al Palazzo Piazzi Bertoletti e a est, tramite un cavalcavia su via Piazzi, Chiuro, Palazzo Cilichini, scorcio del cortile cinquecentesco. a Casa Quadrio Brunasi. Dalla strada si scorge solamente il grande corpo parallelepipedo le cui semplici facciate sono scandite dalla successione regolare della aperture, prive di cornici, e dal coronamento di oculi nel sottotetto. La struttura è con buona probabilità seicentesca e rappresenta la volontà della famiglia Piazzi di dotarsi di una dimora che fosse al passo con le nuove esigenze rappresentative e residenziali, esigenze a cui i palazzi aviti evidentemente non rispondevano più. All’interno lo schema distributivo è tipico: un appartamento doppio con camere in infilata sui due lati e salone a due piani affacciato sull’ampio giardino tramite una terrazza. Il salone presenta decorazioni prospettiche sul soffitto e cornici dipinte intorno alle porte e alle finestre. La tipologia abitativa e alcune soluzioni, come quella del soffitto ligneo del salone a passasotto (cioè decorato al di sotto della trama dei travicelli), ancora seicentesca rispetto alle volte affrescate delle dimore del Settecento inoltrato, sono segnali di una timida ma reale ricezione delle tendenze dell’architettura residenziale barocchetta. Anche la torre-altana è indice di una svolta, poiché ormai tipologicamente estranea alla tradizione delle torri-colombaie (un raffronto diretto nell’adiacente Palazzo Bertoletti). La sequenza delle case dei Guicciardi lungo l’omonima strada ci riporta indietro al XVI secolo e pone una serie di quesiti diversi. La residenza principale della famiglia, eretta nel XVI secolo, si affaccia su via Chiuro e presenta una facciata molto semplice con un portale in pietra e finestre architravate munite di artistiche inferiate. Al di sotto della gronda è un bel fregio a monocromo con sirene, volute e stemmi. La pendenza della strada e l’innesto su questa fronte dei due cavalcavia sei-settecenteschi rendono difficoltoso l’apprezzamento dell’originaria euritmia, che insieme alle tracce di affreschi A sinistra, Ponte in Valtellina, Palazzo Piazzi Giacomoni, pianta dell’appartamento al piano nobile. A destra, Ponte in Valtellina, Casa Quadrio Curzio ora Pontiggia, contesto urbano. 85 A sinistra, Chiuro, Casa de’ Gatti, facciata e torre-colombaia da via Opifici. A destra, Ponte in Valtellina, Palazzo Guicciardi Cavalieri di S. Stefano, pianta del piano nobile. recentemente rinvenuti (2000) nelle sale interne suggerisce di avvicinare l’edificio al gruppo di case ispirate più o meno direttamente al modello di Palazzo Besta, senza considerare poi legami di parentela tra le due famiglie (Andrea Guicciardi aveva sposato Ippolita Alberti, vedova di Azzo I Besta, e per conto del figliastro Azzo II aveva seguito il cantiere di Teglio). I dipinti interni, forse collocabili cronologicamente prima del 1576 (data sul soffitto di una stüa intagliata) sono da collegarsi a quelli da poco emersi nella Torre di Pendolasco (vedi infra). Al Cinquecento risale anche il corpo all’angolo con via Guicciardi, con coronamento di lunette in cui si alternano oculi e affreschi con figure mitologiche; all’interno sono conservati fregi a fresco tardo-cinquecenteschi. Il prospetto sud-est, verso valle, presenta pure una decorazione a fresco, connessa alla presenza della colombaia. Nel Settecento l’esigenza di nuovi spazi muove i proprietari del Palazzo ad un ampliamento, che nel solco della tradizione si limita ad un nuovo semplice edificio sul lato opposto della strada, collegato al nucleo più antico dai due cavalcavia già citati (uno dei quali era però già attestato nel Seicento). In via Ginnasio si segnala un altro Palazzo Guicciardi, del ramo detto dei Cavalieri di S. Stefano, iniziato con Guicciardo di Nicolò (1658-1733), a cui si può riferire il restauro barocco della casa cinquecentesca. Anche in questo caso gli interventi sono contenuti, limitandosi alle incorniciature delle finestre con stucchi colorati e alla decorazione pittorica di un soffitto interno, ma lasciando inalterata la struttura muraria preesistente (bifora architravata cinquecentesca sulla fronte posteriore). Ai Guicciardi è legata anche una singolare costruzione, detta «La Guicciarda», in località Casacce, quasi una dimora extra-urbana dove la tradizione vuole che la famiglia si ritirasse nel 1630 per sfuggire alla peste. Di sicuro si sa che Giovanni Maria (1508-96) l’aveva abbellita e poi Giovanni (1584-1664) aveva eretto la cappella. La casa civile e gli edifici rustici si affacciano su un cortile con portico e passerelle, su cui dà un salone con volte dipinte. Tuttavia in ambiente alpino la tipologia della villa ha scarse e contraddittorie attestazioni, mancando quel rapporto città-campagna che era alla base della civiltà padana. Ad essa si può però riferire il caso di Palazzo Vertemate Franchi a Piuro, residenza secondaria e estiva della ricca famiglia di commercianti che nel borgo aveva un grande palazzo (spazzato via dall’alluvione del 1618). Un ultimo edificio merita una menzione: la quattrocentesca Casa Quadrio Curzio ora Pontiggia in piazzetta Curzio, a monte della chiesa dei Gesuiti. 87 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, sala dell’appartamento al piano nobile (stemma Quadrio). Essa ha uno schema a U, in cui la facciata dell’ala sinistra presenta un’estesa decorazione pittorica che inquadra le due finestre al primo piano ed una colombaia nel sottotetto, nonché al centro gli stemmi delle Tre Leghe. Di estremo interesse il contesto urbano: la facciata dipinta è infatti in asse con in vicolo di accesso alla piazzetta (in pratica un cortile cinto da antiche case) quasi a voler dare il massimo risalto all’esibizione araldica. Chiuro Le storia di Chiuro è indissolubilmente legata al nome dei Quadrio, il cui stemma raffigurante tre quadrati ricorre su una gran parte di portali di accesso a case sicuramente appartenute ad uno o più rami della famiglia (in via Ghibellini, via Medici, via Visconti, via Rusca). Il più noto esponente del casato fu Stefano Quadrio (1366?-1437/38) dominus et vir, egregius et spectabilis miles, capo della fazione ghibellina. 88 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, quadrature in una sala al piano nobile (part.). A Stefano, che abitò la casa paterna in contrada Gera sino al 1391 per poi trasferirsi a Sazzo, la tradizione narra che Filippo Maria Visconti, duca di Milano, per ringraziarlo della fedeltà e dei servigi, donasse nel cuore del borgo il palazzo fortificato che tuttora vediamo nonostante le manomissioni. Esso occupa l’intero isolato compreso tra le vie Campanile, Torre e Ghibellini, ma abitazioni di pertinenza si trovano anche sui lati opposti delle vie. L’edificio conserva un moncone di torre all’imbocco dell’omonima via e una bella caditoia a cappa, memorie del suo passato fortificato. Sulla facciata prospiciente piazza Stefano Quadrio sono accostati, a testimonianza del lungo utilizzo del caseggiato, una feritoia a croce medievale, un portale architravato con stemma Quadrio (XVI secolo), un secondo portalino seicentesco con profilo mistilineo sormontato da un balconcino in ferro battuto su cui dà una porta-finestra in pietra scolpita con un motivo a rosette cinquecentesco. Allo stesso complesso appartiene, con buona probabilità, la Casa Borinelli che costituisce l’estremità orientale dell’isolato. All’interno, superato il bel portale a sesto acuto (altro stemma Quadrio), si entra in un cortile con 89 Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, sala dell’appartamento al piano nobile. portico, il cui soffitto ligneo cassettonato è una soluzione di rado utilizzata negli spazi esterni se non in edifici residenziali di prestigio. La data 1475, incisa all’inizio delle rampe della scala, può essere assunto come generico termine ante quem. La Casa ora Fratelli Balgera presenta due notevoli fronti quattrocentesche su via Torre e su via Roma. Gli elementi di maggior pregio sono il vasto portale in pietra a sesto acuto con decorazione a cordone e le cinque finestre archiacute pure in pietra allineate in bell’ordine su via Roma. Di queste ben tre presentano un davanzale decorato con lo stesso motivo a cordone; una in particolare aveva suggerito al Mulazzani (1983) un legame stilistico con le finestre in cotto del Quattrocento milanese. I legami militari ed economici di Stefano possono almeno in parte giustificare l’ipotesi di un filtrato trapasso di forme architettoniche. Una vivida testimonianza della civiltà nobiliare esistente nel XVI secolo a Chiuro e delle sue colte letture di poemi amorosi ci è trasmessa da un’iscrizione presente sull’architrave di una finestra in pietra con motivo a rosette e stemma Quadrio in via Opifici,: P[er] TROPO AMAR CON PVRA FEDE Ò FERITO 90 EL [core] | COMO TV VEDE, in cui core è rappresentato da un cuore trafitto inciso nella pietra. Alla stessa eletta cultura appartiene anche la «camera picta» riscoperta in anni recenti nella Casa Cilichini in via Rusca. Alla casa si accede dopo aver varcato un portale con stemma Quadrio e aver attraversato un androne con volta a botte e unghiature. Sul cortile si affaccia un notevole prospetto composto da tre livelli: portico a due archi ribassati su pilastro in muratura, loggiato su colonnine in pietra e sottotetto con colombaie a disegni geometrici. Si tratta a tutti gli effetti di una riedizione semplificata del modulo del cortile Besta, sul tipo della pontasca Corte dei Leli. L’affresco frammentario, solo in parte liberato dagli intonaci sovrammessi, si trova in un locale nel corpo più antico dello stabile, verso via Rusca. Esso rappresenta un corteo di figure in costumi fastosi, tra cui si segnalano episodi allegorici (le tre coppie che si tengono per mano sono verisimilmente le tre età della vita) e di genere (musici e animali fantastici). Testimonianze orali ricordano, al di sotto dell’intonaco, la presenza di scene paesistiche (ruscello e prato) e iscrizioni (probabilmente motti edificanti). La cronologia del dipinto è genericamente riferita alla metà del XV secolo, ma potrebbe essere posticipata di qualche decennio sulla scorta di alcune analogie con una arcaica e anonima Madonna con Bambino e sante nella Casa Quadrio ora Menaglio in via Medici, datata 151[5?] (la lettura 1414, talvolta proposta, è basata su una erronea interpretazione dei caratteri paleografici), in cui il volto della Vergine sembra rivelare qualche parentela con le fisionomie di Casa Cilichini. Tuttavia ogni affermazione in merito va rimandata sino a che non saranno condotti studi specifici sull’iconografia e sull’abbigliamento (copricapi e accessori in particolare) delle figure rappresentate. La camera picta di Casa Cilichini è comunque una testimonianza importante dell’allestimento interno dei palazzi nobiliari, nonché uno dei rari cicli pittorici a soggetto profano in Valtellina, tra i quali si ricordano la «Camera del Falcone» di Casa Berti Grolli a Teglio e la «camera picta» con figure allegoriche di Casa Vertemate a Traona (1534), entrambe ricostruite in Palazzo Besta. Sulla stessa via Rusca è la Casa de’ Gatti, del XVI secolo, ma con successivi interventi. Colpisce l’altezza dei singoli piani, altezza che risalta tanto più nella facciata posteriore sul cortile (visibile da via Opifici). L’impianto a L della dimora presenta su questa fronte una torre colombaia innestata sul lato breve e una sovrapposizione di cinque livelli sul lato lungo (portico, loggiato su colonne, piano finestrato, seconda loggia con pilastri in muratura, sottotetto con finestroli quadrati). È singolare il rilievo che viene dato in più di un caso alle colombaie, sia dal punto di vista architettonico, come in Casa de’ Gatti, sia decorativo. Infatti esse erano talvolta sottolineate in facciata da dipinti raffiguranti balaustre, motivi geometrici, stormi di uccelli in volo (a Chiuro in Casa Gandola Quadrio in via Borgofrancone; a Ponte in Casa Quadrio Pontiggia, in Palazzo Guicciardi e in un edificio in vicolo Canaletta annesso al Palazzo Quadrio Matteani). 91 Il Settecento ha lasciato il suo maggiore segno a Chiuro nel Palazzo Chiuro, Palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli, soffitto decorato a stucco in una sala del piano nobile. Quadrio de Maria Pontaschelli. L’edificio ha un impianto a T dovuto probabilmente a successive aggregazioni edilizie. Il nucleo più antico a nord risale infatti al XV-XVI secolo come prova la presenza del portale archiacuto e del portico nella porzione settentrionale dell’ala mediana. Nel XVIII secolo vennero aggiunti i balconcini in ferro battuto decorati a stucco e il grande portale barocchetto che dà accesso al cortile. Una scala che parte sotto il portico conduce al primo piano, dove si apre il ricco appartamento composto da un’infilata di quattro sale con raffinati stucchi e medaglie dipinte con scene mitologiche e bibliche (Ratto di Europa, Storie di Mosè, Storie di Giuseppe, Storie di Giuditta). L’attribuzione al bergamasco Giuseppe Prina ha ormai lasciato il posto a quella al luganese Giuseppe Antonio Torricelli (Agustoni, 1998), spostando la cronologia dei dipinti chiuraschi alla metà del Settecento. Di particolare rilievo sono gli stucchi della volta della prima sala, in cui l’anonima ma espertissima équipe di plasticatori (forse ticinesi?) impiega un variegato repertorio di figure mitologiche e allegoriche entro una rete di grottesche e arabeschi. Nel Palazzo era conservata anche una stüa dai ricchissimi intagli sulle pareti (cariatidi e testine) e sul soffitto (insegne araldiche), venduta nell’Ottocento ed ora nel palazzo Schwerdt di Arlesford (Inghilterra). Il Salice suggerisce un collegamento all’intagliatore Johannes Schmit di Lipsia, autore del coro ligneo nella parrocchiale di Berbenno, morto nel 1678 e più volte documentato a Chiuro. Benché l’ipotesi non sia verificabile sulla base delle sole fotografie d’epoca, essa concorda con un radicale piano di adattamento dell’edificio rinascimentale alla nuova moda barocchetta a partire dal passaggio di proprietà ai Quadrio de Maria nel 1665. Un piano che però non prevedeva una riqualificazione dei prospetti esterni, fatta salva la vistosa inserzione del portale. Si tratta di una tendenza in un certo senso introspettiva, tutta concentrata sugli spazi interni, diversa da quella operante invece nei casi di fabbriche affidate ad architetti forestieri (Pietro Solari a Morbegno e Sondrio) o legate a grandi casati non valtellinesi (Palazzi Salis a Tirano e Chiavenna). Castione Andevenno Nelle sparse contrade di mezza costa che compongono il comune di Castione Andevenno sono diversi i casi di dimore padronali connesse ad edifici rustici, quasi a costituire piccole aziende agricole. Castione d’altro canto vantava in epoca storica una fiorente attività economica legata alla produzione ed al commercio del vino che, come ricorda il governatore grigione Guler (1616), era il «migliore e più squisito in tutta la valle […] che dai mercanti viene esportato per venderlo alla corte degli imperatori, dei re, dei principi e dei più nobili signori». Tra i casi più ragguardevoli e meglio conservati ricor- 93 diamo la Casa Sertoli nei pressi della chiesa di S. Rocco, risalente al tardo Cinquecento o agli inizi del Seicento, periodo al quale verosimilmente si può datare anche la Casa. La presenza del torchio, del frantoio e dei due piani Chiuro, Casa Gandola Quadrio, balaustra dipinta. interrati di cantina conferma le affermazioni del Guler circa un’intensa attività produttiva. Nella contrada centrale del paese si incontrano due dimore signorili non legate alla pratica della viticoltura, la Casa Moroni e la Casa Parravicini. Entrambe sono caratterizzate da impianti irregolari. La prima presenta accessi differenziati su due livelli: a piano terreno da un portale si accede ad un ampio androne che immette nelle cantine e nei locali di servizio; una terrazza consente l’ingresso al piano nobile. Un corridoio centrale, secondo una tipologia diffusa soprattutto nel Settecento, collega i diversi locali. Ad un capo di questo corridoio si trova lo scalone pure settecentesco, a due rampe, con quattro sostegni verticali costituiti da colonnine in pietra e aperture ovali che danno luce al vano. Il modello è lo stesso di Palazzo Cattani Morelli a Teglio ed è riscontrabile in diverse dimore lombar- 94 Castione, Casa Parravicini, pianta del piano nobile. de del XVIII secolo. Dirimpetto è la Casa Parravicini, altrimenti detta «Villa» per il vasto giardino che la circonda. L’impianto è a U, con ali diseguali; inoltre il corpo settentrionale verso strada presenta un profilo sghembo che si accorda al tracciato viario. Questi elementi suggeriscono l’accorpamento in fasi successive di fabbricati precedenti. L’ingresso avviene da un portalino nella facciata di fondo della corte. All’interno si trovano una scala in marmo con colonnine e alcuni ambienti voltati e decorati a stucco, nonché una notevole stüa con pigna in maiolica. Al primo piano la particolare conformazione a U ha suggerito di collocare sul lato dell’ingresso una specie di galleria di disbrigo dei locali. Berbenno di Valtellina Una certa varietà e complessità negli schemi planimetrici si incontra anche nelle numerose case nobiliari di Berbennno, paese in cui a partire dal XV secolo si concentrarono alcune importanti famiglie, quali gli Odescalchi di Como, i Sebregondi di Domaso, i Parravicini, i Noghera. Nella contrada centrale del paese spiccano le moli compatte di alcune dimore nobiliari. La cinquecentesca Casa Negri ha impianto a U e cortile con portico su pilastri e loggiato superiore già in antico tamponato; all’interno conservava un camino in pietra con lo stemma dei Parravicini, antichi proprietari dell’edificio. La Casa Odescalchi (XV-XVI secolo), addossata alla Torre medievale dei Capitanei, possiede portali in pietra finemente scolpiti sulla fronte sud-est; la complessità planimetrica è giustificata dal dislivello del terreno e dall’appartenenza dell’edificio alla contrada fortificata facente perno sulla Torre stessa. La settecentesca Casa Mucat già Noghera ha una lunga facciata cui si affianca il corpo quasi cubico della cappella eretta nel 1724. In località Crotti è un’altra Casa Parravicini, con impianto a L, torretta colombaia, portale con incisa la data 1563 e loggiato su pilastri al secondo piano. Sulla facciata, al di sotto di questo loggiato, spicca un affresco con insegne araldiche dei Parravicini e di alcune famiglie imparentate con l’illustre casato. Infine a Polaggia, frazione prevalentemente agricola, sorge la Casa Ranzetti, pure con impianto a U, in cui il corpo di fondo del cortile appare traforato da un doppio loggiato ad arco su colonnine in pietra che dà luce al vano scale. Le due ali laterali sono inoltre svasate per dare maggior respiro alla corte interna; in una di esse era ubicato un ampio salone di rappresentanza. L’edificio rivela pertanto una sapiente e disinvolta capacità di adattamento degli schemi planimetrici alle esigenze abitative. Un cenno a parte merita la Casa Piccioli in località Palasio, per la decorazione a fresco tardo-cinquecentesca che collega con cornici geometriche, fregi e losanghe le aperture della fronte nord. Quella delle facciate dipinte è infatti una tipologia un tempo assai diffusa nelle case civili della valle, ma che 95 a causa di sventurate vicende conservative solo di recente è stata riproposta all’attenzione degli studiosi. Nei pressi sorge anche la Casa Sassi de’ Lavizzari (XVII-XVIII secolo), con portale bugnato di grandi dimensioni, ai lati del quale due salienti in muratura, con base in pietra, posti in tralìce, fungono da invito all’ingresso della dimora. I borghi della costa orobica I comuni della sponda orobica sono storicamente caratterizzati da uno sviluppo edilizio minore rispetto a quelli del versante retico. Tuttavia grazie allo sfruttamento di alcune risorse naturali, quali le miniere di ferro della Valmadre, e alla presenza di percorsi viari connessi al porto di S. Gregorio nei pressi della Sirta, anche i borghi di Fusine, Cedrasco e Caiolo a partire dal XIV secolo godettero di una certa floridezza che raggiunse il culmine circa due secoli più tardi quando in particolare Fusine e Caiolo giunsero a contare duecento famiglie. Segni di questo passato si scorgono nelle chiese e, in misura minore, in alcune case da nobile. A Fusine si devono ricordare la cosiddetta Casa al Chioso del XVI secolo, con un bel portalino in pietra sul cui architrave è scolpito lo stemma del notaio bergamasco Viviano Cattaneo, e la Casa detta dei Conti, di poco successiva, legata ad un ramo dell’importante consorteria familiare dei Salis, che qui si insediò dal Seicento in poi, per interessi legati al controllo dell’attività di estrazione mineraria. La spaziosa facciata su tre piani, con regolare distribuzione delle aperture intorno all’asse del portale ad arco in pietra lavorata, e l’assetto interno, con atrio e scala a due rampe in posizione frontale, sono caratteri tipici dell’architettura residenziale colta. A Cedrasco si segnala la Casa Bonini-Pomona, più tarda (XVIII secolo), con bel portale in pietra sagomata dalle linee concave, sormontato da balconcino in ferro battuto. La presenza di un affresco di soggetto sacro sulla facciata è coerente con il diffuso senso religioso della popolazione a tutti i livelli sociali. La casa è documento di un residuo sviluppo economico ed edilizio in questi paesi anche dopo il Seicento. A Caiolo è pure presente un ramo della famiglia Salis. Una Casa Salici si trova poco a monte della contrada di S. Pietro e presenta resti di decorazione a graffito e la data 1646. In paese, lungo la via Roi, merita un cenno una Casa seicentesca con portale in pietra datato 1678, atrio con colonna centrale che sorregge le volte a crociera e corpo turriforme sul lato posteriore (colombaia). L’edificio, nonostante l’inequivocabile carattere residenziale, conservava nell’atrio a pian terreno un torchio per la spremitura dell’uva. Sul conoide di deiezione del torrente Torchione, che discende dalle Orobie, si è sviluppata, sino da epoca antica, Albosaggia, già «vicinanza» di Sondrio e quindi comune autonomo dal tardo Trecento. Vi furono infeudati in 96 successione i Quadrio e i Paribelli. Il Castello, tuttora appartenente agli eredi di questi ultimi, è in realtà un’articolata costruzione residenziale sorta nel XVI secolo a cingere l’antica Torre dei Quadrio risalente forse al XII secolo, tuttora ben leggibile in pianta per il massiccio spessore dei muri (nel corso degli ultimi lavori di restauro è emerso un lacerto di affresco medievale con una Madonna e un Santo vescovo). È il caso forse più lampante di un procedimento di aggregazione-amplimento-sostituzione di antiche strutture difensive medievali che è comune a molta architettura residenziale valtellinese. Conseguenza di questa tendenza edilizia è una scarsa caratterizzazione delle fronti esterne, che come nel caso presente sono piuttosto semplici, nonostante la committenza elevata. Il complesso conserva ambienti interni di pregio, tra cui una stüa tardo-cinquecentesca recante sul soffitto lo stemma Paribelli e due sale con quadrature settecentesche di Giuseppe Porro. Da un edificio rustico proviene l’affresco d’inizio Cinquecento raffigurante la Madonna col Bambino e il martirio di Simoncino da Trento, attribuito a Battista Malacrida da Musso, testimonianza preziosa della diffusione del culto anti-semita di questo beato nelle valli alpine (da Trento a Bormio). Addossata alla cinta muraria accanto al cancello d’ingresso si trova la cappella gentilizia dedicata a S. Nicola da Tolentino, eretta dai Carbonera (pregevole il portale in pietra, datato 1558, con fregi ispirati ad un certo gusto per l’antico diffuso in valle già dai primi del secolo). Affreschi e decorazioni interne La decorazione interna dei palazzi valtellinesi attende ancora uno studio complessivo, che non si fermi alle emergenze maggiori ma si proponga di trovare caratteri stilistici comuni e di rintracciare singole personalità o botteghe di artisti, sia sul fronte della pittura sia su quello della decorazione a stucco. Spesso l’analisi dei complementi decorativi consente di precisare la cronologia delle fabbriche edilizie e di evidenziare mutamenti nel gusto e nelle modalità dell’abitare. Il Palazzo Guicciardi di Tresivio, ora in parte sede del Municipio, presenta sale con riquadri affrescati con vedute di Roma evidentemente tratte da stampe cinquecentesche e sale con volte a stucco barocchette. La stratificazione delle fasi costruttive è infatti palese a chi osservi il Palazzo dal giardino retrostante, dove sulla lunga fronte si succedono il corpo sporgente della cappella seicentesca, l’emergenza di una torre-colombaia e di un portico con loggiato cinquecentesco. Merita un cenno supplementare la Casa della Torre di Pendolasco, che s’innalza sul dosso detto Boisio alle spalle della chiesa di S. Fedele (Poggiridenti). Una fortuita scoperta nel 1996 ha rivelato nelle stanze interne dell’edificio (un semplice parallelepipedo in pietra con grossi conci angolari) la presenza di un vasto ciclo decorativo a fresco al di sotto dello scialbo. Le 97 accurate ricerche documentarie di Franca Prandi consentono ora di precisare, oltre all’origine almeno tardo-trecentesca della Torre, l’entità e la cronologia dei restauri cinquecenteschi. Tra il 1551 e il ’59 infatti l’edificio, ormai fatiscente, passava in proprietà ad Antonio Sermondi, il cui figlio Giovan Andrea, già noto agli studiosi per la sua biblioteca erudita, dava avvio ai lavori. La data 1560 in cifre romane compare su un asse della gronda del tetto come indizio di un primo sopralzo dell’edificio. Pertanto il ciclo di affreschi va collocato, in via ipotetica, tra il ’60 e il ’69, anno di morte di Giovan Andrea. In questo modo gli affreschi di Pendolasco si vanno ad affiancare a quel corpus Albosaggia, Castello Paribelli, stüa al piano nobile. di affreschi attribuibili al gruppo di pittori che tra il sesto e il settimo decennio del secolo raccolse l’eredità della bottega di Vincenzo De Barberis, autore dei due maggiori cicli pittorici di Palazzo Besta. Gli stessi pittori si suole vedere all’opera sui ponteggi del Palazzo Quadrio Venosta di Mazzo (1564) e ora anche della Casa Spini Valenti di Talamona (che però, in virtù del carattere specifico dell’opera e della documentata presenza del De Barberis a Talamona intorno al ’27-’35, noi riteniamo di mano dello stesso bresciano). Il tipo di decorazione presente a Pendolasco rivela una singolare unità di concezione, ma non ci pare di poter scorgere particolari elementi di novità, limitandosi di fatto il pittore all’assemblaggio di figure (cariatidi) e fregi di repertorio, sia pur ad un elevato livello qualitativo. Canoniche, scholae laicorum e un esempio di edilizia pubblica Le case annesse a edifici di culto, con funzioni spesso diversificate da caso a caso, costituiscono una tipologia a sé, con propri caratteri, che talvolta attinge anche al repertorio della tradizione residenziale. Lo schema distributivo più diffuso a livello locale è quello con corridoio centrale e rampa unica di scale, che si ritrova nelle case parrocchiali di Montagna e di Primolo (cinquecentesca la prima e settecentesca la seconda). All’interno delle canoniche doveva essere consueta, almeno per le parrocchie più antiche e ricche, la presenza di dipinti e decorazioni, talvolta di insegne araldiche dei curati. È il caso ancora ben documentabile della casa parrocchiale di Berbenno, a fianco della chiesa di S. Maria Assunta. L’edificio, di origini quattrocentesche ma rifabbricata nel 1703 dal capomastro ticinese G.B. Cassarini, conserva sulle pareti dell’atrio una teoria di blasoni tra cui quelli di Guidotus de Casteliono (1452) e Bartolomeo Salis (1520-63). Gli arcipreti di Berbenno possedevano inoltre una dimora estiva in località Crotti, anch’essa ristrutturata da Cassarini e aiuti nel 1706, sulla cui facciata è dipinta un’Assunta del 1709. Era all’epoca arciprete Bernardo Piazzi di Ponte. Una tipologia a sé stante è rappresentata dagli edifici sorti per ospitare le scholae laicorum legate alle confraternite ed ai santuari. Due esempi notevoli si trovano a Ponte. Il primo è la Scuola di S. Marta, a fianco della chiesa di S. Maurizio ed ora inglobata nella casa parrocchiale. Essa era in Albosaggia, Castello Paribelli, planimetria (in evidenza la torre del XII sec.). origine costituita da un oratorio aperto al piano terreno e da un’aula magna e due sale al primo piano (ora teatro co- 99 munale, con resti di architetture antiche). Così la descrive il vescovo Archinti negli Atti della sua visita pastorale del 1614-15: «[…] portico con cappella e altare di S. Marta, appartiene agli scolari di S. Marta. In detto altare si celebra, ma la cappella è aperta su due lati». La cappella, i cui affreschi sono attribuiti Fermo Stella (ca. 1526-28), venne chiusa durante i lavori di ampliamento del 1582, data che compare in un’iscrizione sulla facciata. Il cortile è porticato sui lati sud e est, mentre sul lato nord un scala esterna consente l’accesso al piano superiore. Il secondo edificio è il Palazzo cinquecentesco annesso al santuario della Beata Vergine di Campagna, eretto nel 1568, come ricorda l’Archinti, «per riporvi le elemosine di vino e grano […] affiancata da un magazzino per riporvi le merci da vendere» in occasione delle fiere nelle ricorrenze mariane. Il Palazzo presenta una facciata su due livelli, dominata dal portale in conci di marmo e dalla soprastante bifora architravata con colonnina e abbellita da un fregio dipinto nel sottogronda. Tutte le finestre sono in pietra con architravi e davanzali modanati. All’interno un atrio con volte a crociera distribuisce i locali, dotati di volte ad ombrello e camini in pietra. La qualità elevata delle finiture si accorda pienamente con la rielaborazione di modelli residenziali (Palazzo Besta), in modo speciale nella facciata. L’edilizia pubblica è un settore che condivide con l’architettura residenziale diversi caratteri sia tipologici sia stilistici. Purtroppo gli esempi conservati sono pochissimi e pressoché illeggibili. Emerge dai dati raccolti in sede di censimento il caso della cosiddetta Cà di Tudesch a Lanzada, in frazione Tornadri. Sorge in vicinanza alla chiesa di S. Pietro (inizio XVII secolo), lungo l’antico percorso per Campo Franscia, un tempo frequentata via di collegamento con la Svizzera, attraverso la Val Poschiavina. Durante la dominazione grigiona, nel secolo XVII, vi si trovava la dogana. Va ricordato, infatti, che Lanzada prima del 1620 contava bel diciotto famiglie di protestanti, a testimonianza degli intensi rapporti con le regioni d’oltralpe. La struttura presenta un passaggio voltato sulla strada, alcuni ambienti interni riconoscibili come carceri e camera delle guardie e altri locali al piano seminterrato con accessi autonomi. L’affresco su una delle facciate, raffigurante S. Giovanni Nepomuceno, protettore dei ponti e dei passaggi, si accorda perfettamente con l’antica funzione dell’edificio. 100 Albosaggia, Castello Paribelli, Madonna e Santo vescovo. BIBLIOGRAFIA Le difficoltà di accesso e le numerose manomissioni, nel caso di edifici di proprietà privata, hanno negativamente influito sul progresso degli studi. Solo recentemente sono apparsi contributi sul tema dell’architettura civile: A. ROVETTA, L’architettura, in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il secondo Cinquecento e il Seicento, Bergamo 1998, pp. 47-75; L. CORRIERI, Esempi di architettura civile nel Rinascimento in Valtellina e contadi, in Il Rinascimento in Valtellina e Valchiavenna. Contributi di storia sociale, Sondrio 1999, pp. 131-143; A. ROVETTA, L’architettura in Valtellina dall’età sforzesca al pieno Cinquecento, in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Medioevo e il primo Cinquecento, Bergamo 2000, pp. 83-133. Su singoli edifici e palazzi citati nel testo: G. GALLETTI-G. MULAZZANI, Il Palazzo Besta di Teglio. Una dimora rinascimentale in Valtellina, Sondrio 1983; Un paese di nome Ponte. Piccola guida al comune di Ponte in Valtellina, a cura di P.G. Picceni, Ponte in Valtellina 1983; Chiuro. Territorio, economia e storia di una comunità umana, a cura di F. Monteforte e E. Faccinelli, Chiuro 1989; A. CORBELLINI, Indagini su sei secoli di storia, in La chiesa della Madonna di Campagna, Ponte in Valtellina 1993, pp. 13-54; F. PRANDI, La casa della torre di Pendolasco, in BSSV, 52, 1999, pp. 45-88; EAD., Aggiunte a «La casa della torre di Pendolasco», in BSSV, 53, 2000, pp. 89-118; Chiese, torri, castelli, palazzi. I 62 monumenti della Legge Valtellina, a cura di F. Bormetti e M. Sassella, Sondrio 2004 (2° ediz. aggiornata). Sugli affreschi presenti nei palazzi: S. COPPA, La pittura di paesaggio nella tradizione artistica valtellinese dal Medioevo al Settecento, in Il paesaggio valtellinese dal romanticismo all’astrattismo, Milano 1990, pp. 32 sgg.; F. MONTEFORTE, Settecento privato: l’antica dimora dei Quadrio Pontaschelli a Chiuro, in «Contract», 13, 1991, pp. 17-19; E. NOÈ, «Chiuro, palazzo Quadrio de Maria Pontaschelli», in Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Settecento, Bergamo 1994, pp. 233-235; L. MELI BASSI, Di un affresco quattrocentesco a Chiuro, in BSSV, 49, 1996, pp. 33-36. Sugli arredi lignei: A. GIUSSANI, Stufe artistiche valtellinesi, in «Rassegna Archeologica della Antica Provincia e Diocesi di Como», fasc. 59-61, 1909, pp. 139-161; E. BASSI, La Valtellina. Guida turistica illustrata, Milano 1927-28, rist. Sondrio 1995, passim; T. SALICE, Johannes Schmit von Leipzig e i suoi lavori d’intaglio e d’intarsio nella chiesa dell’Assunta in Berbenno, in «Volturena». Miscellanea di scritti in memoria di Egidio Pedrotti, Sondrio 1965, pp. 101-113. Sulla nobiltà valtellinese: Stemmi della «Rezia Minore». Gli armoriali conservati nella Biblioteca Civica «Pio Rajna» di Sondrio, a cura di F. Palazzi Trivelli, M. Praolini Corazza e N. Orsini De Marzo, Sondrio 1996. In particolare sui Guicciardi di Ponte: Albero genealogico costruito dall’ing. dott. Guiscardo Guicciardi di Luigi di Gaudenzio da Sondrio, in BSSV, 53, 2000, pp. 345-373. Sull’insediamento dei Salis a Caiolo e Fusine: L. DELL’AVANZO STEFANI, L’estrazione e la lavorazione del ferro a Fusine, in BSSV, 42, 1989, pp. 229-244. 102 Tresivio, Palazzo Guicciardi, decorazione a stucco di una sala al piano nobile.