la tassazione dei beni immateriali

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTÀ DI ECONOMIA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ECONOMIA E MANAGEMENT
INTERNAZIONALE
TESI DI LAUREA
LA TASSAZIONE DEI BENI IMMATERIALI: ANALISI DELLA DISCIPLINA NAZIONALE,
COMUNITARIA E CONVENZIONALE
Relatore
Prof. Claudio Sacchetto
Correlatore
Prof. Andrea Perini
Candidato: Maria Luisa Appendino
Matricola: 326879
Anno Accademico 2012/2013
INDICE
Introduzione
SEZIONE I
L’origine storica delle royalties e presentazione dei singoli diritti di
proprietà intellettuale.
1
Nascita ed evoluzione del concetto di royalty.
4
2
Analisi dei singoli diritti di proprietà intellettuale.
7
2.1
Brevetto per invenzione.
7
2.2.
Modelli di utilità.
9
2.3.
Il marchio di impresa.
10
2.3.1 Gli altri segni distintivi
13
2.4
Il design.
14
2.5.
Le indicazioni geografiche
15
2.6
Le nuove varietà vegetali.
15
2.7
I diritti d’autore.
16
SEZIONE II
Ruolo dello strumento negoziale, con particolare riferimento al
contratto di licenza.
1
Lo strumento negoziale.
18
2
Sfruttamento abusivo della proprietà intellettuale
21
3
Il contratto di licenza e i contratti ad esso affini.
23
3.1
Contratto di Branding
24
3.2
Contratto di Merchandising
24
3.3
Contratto di Franchising
26
3.4
Contratto di edizione
26
4
La violazione del diritto di esclusiva.
27
5
La licenza come schema attributivo di diritti sulle proprietà intellettuali.
30
SEZIONE III
Inquadramento fiscale delle royalties nella disciplina nazionale.
1
Inquadramento delle royalties nell’ambito delle categorie reddituali previste dal
33
Testo Unico 917/86.
2
Inquadramento dei proventi derivanti dallo sfruttamento della proprietà
37
intellettuale al di fuori dell’attività organizzata in forma di impresa.
2.1
Un tentativo per la collocazione fiscale dei proventi: dissidio interno all’art. 53
Tuir.
2.2
38
Il collocamento dei proventi derivanti dallo sfruttamento dei segni distintivi di
impresa (al di fuori dell’attività imprenditoriale)
42
2.2.1 Analisi della soluzione (a): redditi da lavoro autonomo.
43
2.2.2 Analisi della soluzione (b): redditi diversi (art 67 comma. 1 lettera L).
44
3
Inquadramento dei proventi derivanti dallo sfruttamento della proprietà
intellettuale nel quadro dell’attività di impresa
45
3.1
La qualificazione di un provento come “reddito di impresa”.
46
3.2
L’importanza della componente organizzativa.
47
3.3
Redditi d’impresa vs redditi diversi vs Redditi di lavoro autonomo.
50
3.4
La centralità dell’elemento contrattuale: acquisizione a titolo originario o a titolo
derivativo.
3.5
La concessione in licenza di beni immateriali come attività intrinsecamente
commerciale.
3.6
3.7
51
53
Società di mera gestione della proprietà intellettuale, con particolare riferimento
alle società di comodo.
57
I beni immateriali nel bilancio dell’impresa.
59
3.7.1 Il costo della proprietà industriale e la rilevanza delle modalità acquisitive nel
bilancio dell’impresa
59
3.7.2 Diritti di utilizzazione vs diritti di concessione: analisi dell’art. 103 Tuir.
60
3.7.3 Confronto della disciplina civilistica e contabile con riferimento ai beni
immateriali nel bilancio dell’impresa.
3.7.4 Il caso del leasing dei beni immateriali
63
66
SEZIONE IV
Inquadramento fiscale delle royalties nella disciplina comunitaria.
Premessa.
70
1
Cenni sulla direttiva “madre- figlia”.
72
1.1
Destinatari della Direttiva
73
1.2
Il rapporto “società madre” “società figlia”.
74
1.3
Criteri per l’eliminazione della doppia imposizione.
75
1.4
Le modifiche apportate alla direttiva “madre-figlia”.
75
2
Cenni sulla “direttiva risparmio”.
77
2.1
Le eccezioni alla regola.
78
2.2
Le proposte di modifica della Direttiva.
80
3
La disciplina comunitaria delle royalties: la Direttiva 2003/49/CE.
81
3.1
Requisiti necessari per l’applicazione della Direttiva.
82
3.1.1 La residenza in uno Stato membro.
83
3.1.2 Forma societaria.
84
3.1.3 Assoggettamento a imposta.
84
3.1.4 Status di società consociata.
85
3.1.5 Qualifica di beneficiario effettivo, limitatamente al soggetto percettore.
85
3.2
Norma antielusiva.
86
3.3
Il difficile raccordo tra la disciplina comunitaria e la disciplina nazionale.
86
SEZIONE V
Inquadramento fiscale delle royalties nella disciplina
internazionale.
Premessa
1
88
La tassazione delle royalties transnazionali in assenza di una convenzione contro
le doppie imposizioni.
89
1.1
Royalties in uscita e Royalties in entrata.
89
1.2
Il calcolo della base imponibile.
92
1.3
La ritenuta alla fonte a sostegno della tesi che valorizza l’autonomia delle
royalties.
1.4
96
La forza di attrazione delle stabile organizzazione nella corresponsione di
royalties fra soggetti non residenti.
98
1.5
L’imputazione temporale delle royalties.
102
2
Il Modello di Convenzione OCSE.
104
2.1
La forza di attrazione della SO nel Modello di Convenzione OCSE.
106
2.2
I Modelli di Convenzione “alternativi”: analisi del Modello ONU.
107
2.3
Gli incerti confini del concetto di royalty.
109
2.3.1 Royalties vs Prestazioni di servizi.
109
2.3.2 La relazione fra le royalties e il diritto allo sfruttamento dell’immagine.
112
2.4
116
Clausola del beneficial owner.
2.4.1 La clausola del beneficiario effettivo nel Modello di Convenzione OCSE.
117
2.5
119
Il regime impositivo del software alla luce del Modello di convenzione OCSE.
2.5.1 Tax treaty characterization issues arising from e-commerce.
121
2.6
Giurisprudenza.
124
3
Il fenomeno del transfer pricing e il suo legame con gli Intangibles.
131
3.1
Fonti nazionali.
133
3.1.1 Il concetto di Società non residente.
136
3.1.2 Il controllo.
137
3.1.3 Il valore normale.
138
3.2
138
Fonte convenzionale.
3.2.1 I metodi del modello OCSE.
139
3.3
141
Il Transfer pricing dei beni immateriali
3.3.1 La disciplina italiana
141
3.3.2 L’onere documentale.
143
3.3.3 Giurisprudenza nazionale.
145
3.3.4 L’attuale disciplina in ambito OCSE.
147
3.3.5 Determinazione del prezzo di libera concorrenza.
149
3.3.6 Il nuovo progetto: il Discussion Draft OCSE.
150
SEZIONE VI
Abuso di diritto o diritto di abuso?
Premessa.
154
1
La giurisprudenza comunitaria, il caso Halifax
156
1.1
Sentenza della Corte di Giustizia
158
2
La giurisprudenza di Cassazione
161
2.1
La retroattività del “principio antiabuso”.
163
2.2
L’onere della prova.
164
3
Confronto fra norma comunitaria e norma interna
165
4
Le soluzioni prospettabili.
170
4.1
Fautori e Negatori.
170
4.2
Una possibile soluzione
171
5
I riflessi penali dell’elusione fiscale
174
5.1
La Riforma del 2000 e l’evasione da interpretazione
174
5.2
Le figure dell’abuso di diritto e dell’elusione fiscale
176
5.3
Tesi in favore della rilevanza penale dell’elusione fiscale
179
5.3.1 Le condizioni esimenti di cui all’art. 7 del d. lgs. 74/2000
180
5.3.2 Articolo 16 del d. lgs. 74/2000.
181
5.3.3 Articolo 1 del d. lgs. 74/2000.
182
5.4
183
Tesi contraria alla rilevanza penale dell’elusione fiscale.
5.4.1 Art. 4 del D. lgs. 74/2000
183
5.4.2 Art. 7 del D. lgs. 74/2000
184
5.4.3 Art. 16 del D. lgs. 74/2000
184
5.4.4 Art. 1 del D. lgs. 74/2000
185
5.5
186
Soluzioni alternative
5.5.1 Il rimedio della disposizione speciale
186
5.5.2 Il rimedio “dell’integrazione”.
187
5.6
Il disegno di legge delega
189
6
L’elusione fiscale e il transfer pricing
191
6.1
Rapporto transfer pricing e dolo specifico
194
6.2
L’onere della prova nel transfer pricing
195
6.3
“L’onere documentale” in capo al contribuente
197
7
Il caso Dolce & Gabbana
200
7.1
La Sentenza del GUP di Milano
202
7.1.1 Accusa di dichiarazione infedele ai sensi dell'art. 4 del D. Lgs. 74/2000
202
7.1.2 Accusa di Truffa ai danni dello Stato
207
7.2
209
La sentenza 7739/12 della Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione.
7.2.1 Considerazioni in merito alla Sentenza della Corte di Cassazione
****
Conclusioni
211
Introduzione.
Il dizionario giuridico (Inglese-Italiano)1 alla voce royalty recita:
“Termine di non facile traduzione che indica, a seconda dei casi, il canone di
una concessione relativa sia all’utilizzazione dell’opera dell’ingegno altrui, sia
allo sfruttamento minerario, sia infine, più in generale, al corrispettivo di una
concessione da parte di chi ha un monopoly o diritto di esclusiva”.
La prima frase della definizione è la chiave di lettura della trattazione che
seguirà in queste pagine: “termine di non facile traduzione”. Scrivere di royalties
e, più in generale, di beni immateriali, infatti, non è facile proprio perché questa
loro intangibilità e, a volte, aleatorietà non permette un’analisi fluente e priva di
interrogativi (a cui non sempre si riesce a dar risposta).
Ciò premesso, con la presente trattazione lo scrivente intende sollevare il
problema inerente l’assenza, all’interno dell’ordinamento nazionale, di una
disciplina fiscale autonoma per i proventi derivanti dallo sfruttamento dei beni
immateriali: le royalties.
Si vedrà come l’incertezza circa la collocazione fiscale di suddetti redditi (a
volte rientranti fra i redditi d’impresa, a volte fra i redditi di lavoro autonomo e a
volte fra i redditi diversi) comporti non poche difficoltà interpretative sia per i
contribuenti, ignari della disciplina a cui le operazioni economiche poste da loro
in essere andranno incontro, sia per la giurisprudenza che, trovandosi di fronte a
lacune, ha dovuto svolgere un ruolo sostitutivo in un comparto, come quello
legislativo, che spetta al Parlamento.
Orbene, dato il valore che hanno assunto le “new properties” all’interno delle
strategie delle imprese ciò a cui si auspica è un intervento repentino da parte del
legislatore affinché sia data un’autonoma rilevanza alle royalties, risultato, tra
l’altro, già raggiunto sia in sede comunitaria che convenzionale.
1
F. de Franchis, Milano, 1984. Pg. 1304.
1
Lo studio è affrontato in una triplice prospettiva: nazionale, comunitaria e
convenzionale. Tale ripartizione è però arricchita di argomentazioni inerenti il
tema del transfer pricing di beni immateriali e del possibile utilizzo elusivo delle
disposizioni inerenti gli intangibles da parte del contribuente.
In dettaglio, la trattazione è suddivisa in sei sezioni.
La prima sezione mostra le origine storiche del termine royalty, unitamente
alla presentazione dei principali diritti di proprietà intellettuale.
La seconda sezione, invece, è dedicata all’analisi dello strumento negoziale
utilizzato dagli operatori che gestiscono intangibles con particolare riferimento al
contratto di licenza.
Con la terza sezione si da inizio all’analisi dell’inquadramento fiscale delle
royalties nell’ordinamento nazionale. Lo studio si sostanzia in una duplice
prospettiva: la prima si concentra sull’inquadramento dei canoni derivanti dallo
sfruttamento delle proprietà intellettuali al di fuori dell’attività di impresa, mentre
la seconda prospettiva tenta di inquadrare suddetti redditi nell’ambito di
un’attività di impresa. Ciò che emerge è una realtà priva di un solido orientamento
che non permette di avere risposte chiare e univoche circa la catalogazione dei
proventi.
Con la quarta e la quinta sezione si vanno ad analizzare, rispettivamente, la
disciplina comunitaria (con la Direttiva 49/2003/CE) e internazionale (con
particolare riferimento all’art. 12 del Modello di Convenzione OCSE) alla luce
delle quali si prende atto dell’esistenza, al di fuori del territorio nazionale, di una
disciplina autonoma e indipendente per i canoni, che non fa che alimentare la
problematica sollevata in questa sede.
Nell’ultima parte della quinta sezione, inoltre, si apre un breve excursus sul
fenomeno del transfer pricing con specifico riferimento ai beni immateriali. Si
vedrà come, data la particolare natura dei beni, il calcolo di un “valore normale” a
cui far riferimento per poter contrastare tentativi di “modulazione” della base
imponibile attraverso i prezzi di trasferimento, non sia cosa facile.
Infine, la sesta ed ultima sezione viene dedicata al tema tanto delicato quanto
discusso dell’abuso di diritto. Si passerà attraverso lo studio della giurisprudenza
2
comunitaria fino ad entrare nel merito delle Sentenze e dei più recenti
orientamenti della Corte di cassazione.
Si approfondirà, altresì, la tematica dell’abuso con riferimento al transfer
pricing dei beni immateriali mettendo a nudo i numerosi legami che possono
intercorrere tra queste due materie attraverso l’analisi delle recentissime Sentenze
(del GUP di Milano e della Corte di Cassazione) sul caso Dolce&Gabbana.
3
SEZIONE I
L’origine storica delle royalties e presentazione dei singoli diritti di
proprietà intellettuale.
CAPITOLO 1
Nascita ed evoluzione del concetto di royalty.
I termini royalty- redevance- canone sono concetti di origine incerta che
possiamo approssimativamente far risalire tra il XII e XIII secolo.
Nel regime di Common law, in particolare, per royalty si intendeva il
corrispettivo pagato all’Erario della Corona da parte di un suddito che sfruttava un
bene (di solito un immobile) di proprietà del Sovrano.
In un secondo tempo (XVI secolo) questo tipo di impiego viene esteso ad altri
privilegi come, ad esempio, il monopolio degli scambi commerciali con
determinate aree del mondo2. Nel resto dell’Europa continentale (e in Italia) il
fondamento giuridico era rinvenuto negli iura regalia, diritti e prerogative
dell’imperatore e del re.
La disciplina giuridica della proprietà intellettuale ha, quindi, avuto origine
negli Statuti del Sovrano che garantivano al titolare di un bene immateriale
(scoperta scientifica, opera letteraria ecc..) lo sfruttamento esclusivo dello stesso.
Da qui il termine “Royalty”: proprio perché concessa dal Sovrano.
Avvicinandoci a tempi più recenti, il concetto di royalty è stato trasportato
anche nel linguaggio comune nel momento in cui a concedere lo sfruttamento
economico di un bene immateriale è un soggetto privato, non un sovrano. In tale
contesto, il corrispettivo percepito dal titolare del bene immateriale ha assunto la
stessa denominazione dei proventi ottenuti dal sovrano per la concessione delle
sue prerogative reali.
2 In merito, si ricorda la concessione rilasciata da Enrico VII al veneziano Caboto nel 1496 con
la quale si autorizzava quest’ultimo a navigare in determinati mari per conto del re d’Inghilterra
(sotto le sue insegne). Caboto pagava al re il 20% dei proventi “netti” delle sue scoperte.
4
L’Italia ha il merito e il vanto di una lunga tradizione legislativa nel campo
della proprietà “industriale”. La “PARTE”3 è stata la prima legge nella storia a
stabilire il diritto dell’inventore ad ottenere un privilegio per la divulgazione della
propria invenzione, ed è sorprendente come quest’antica legge contenesse già tutti
i principi delle leggi brevettuali moderne ( novità, esclusiva, limiti territoriali
ecc…)4.
Come successive tappe legislative si ritiene importante citare:
−
LO STATUTE OF MONOPOLIES nel 1623 il quale attribuiva un’esclusiva di
sfruttamento dell’invenzione a favore del primo inventore.
−
IL PATENT ACT americano del 10 aprile 1790, il quale riconosceva agli
inventori il diritto di ottenere una “patente” che attribuiva, per un periodo di 14
anni, la facoltà esclusiva di fabbricare, usare e vendere l’oggetto dell’invenzione.
−
LA CONVENZIONE DELL’UNIONE DI PARIGI del 20 marzo 1883 che ha
evidenziato la necessità di abbandonare l’applicazione del diritto internazionale
privato, inadatto all’apertura delle economie e allo sviluppo degli scambi
internazionali.
−
La convenzione istitutiva dell’ ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA
PROPRIETA’ INTELLETTUALE (OMPI) del 14/7/1967 (ratificata dall’Italia
con l. 28 aprile 1976 n. 424)5.
−
IL TRATTATO DI COOPERAZIONE IN MATERIA DI BREVETTI ( P.C.T.)
del 1970
−
LA CONVENZIONE SUL BREVETTO EUROPEO (CBE) del 1974 a cui è stata
data attuazione a livello nazionale con legge del 1979.
−
GLI ACCORDI TRIPS ( Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights)
stipulati nel 1994 da 114 Stati in sede di negoziati GATT che, per bloccare il
fenomeno della contraffazione e della pirateria intellettuale, hanno stabilito dei
requisiti minimi di protezione della proprietà intellettuale cui tutti gli Stati
devono attenersi6.
3
Legge veneziana risalente al 1474
4 E’ interessante ricordare che uno dei primi beneficiari di questa legge brevettuale è stato
Galileo Galilei, per un innovativo sistema di pompaggio delle acque ed irrigazione dei campi.
5 All’OMPI vengono assegnati compiti di promozione della produzione normativa
internazionale, di raccolta e diffusione di informazioni e di gestione dei servizi amministrativi che
afferiscono alla “propriété intellectuelle”
6 Attuazione in Italia con d.lgs. 19/3/1996 n.198.
5
La sempre maggiore integrazione ed internazionalizzazione dei mercati, in cui
le imprese si trovano attualmente ad operare , frutto anche del crescente sviluppo
dei mezzi informatici per la distribuzione di beni e servizi, sta determinando un
contesto sempre più uniforme a livello legislativo e di richieste di mercato.
Pertanto, nel 1963, l’OCSE ha pubblicato il suo primo Modello di Convenzione
contro le doppie imposizioni7 e, in tale occasione, il diritto tributario italiano ha
definito il termine royalty come:
“quel corrispettivo dovuto a fronte dello sfruttamento di un’ opera
intellettuale, di una proprietà industriale, di un segno distintivo dell’impresa o del
prodotto, di un particolare know-how, di un software e, più in generale, di un
bene immateriale ascrivibile all’ambito della cosiddetta “ proprietà
intellettuale.”
Il D.lgs.n. 6/2003 ha modificato le tecniche di redazione del bilancio di
esercizio, adeguando, in parte, la vigente normativa, a quanto stabilito nei principi
contabili internazionali IAS/IFRS che si applicano a quelle società che hanno
l’obbligo di redigere il bilancio consolidato.
Il 10 marzo 2010 è entrato in vigore il regolamento di attuazione del Codice
della proprietà industriale di cui al decreto legislativo 10/2/2005 n.30 in un’ottica
di semplificazione degli adempimenti amministrativi.
Il CPI è sostanzialmente una compilazione di testi legislativi previgenti,
governata da criteri di progressione parzialmente innovativi. Il concetto di
proprietà industriale si adegua all’impostazione della “ proprietà intellettuale”
degli accordi TRIPs, privandoli, però, del diritto d’autore.
7 Il primo modello di Convenzione OCSE è tutt’ora valido oggi, nonostante abbia subito una serie di
cambiamenti nel tempo. Nello stesso periodo anche le Nazioni Unite hanno redatto un proprio Modello di
Convenzione di cui si darà sintetica notizia nella sezione internazionale della presente relazione. A titolo
informativo, però, il primo modello internazionale di Convenzione risale al 1928 ed è il Modello di Ginevra.
6
CAPITOLO 2
Analisi dei singoli diritti di proprietà intellettuale.
I diritti di proprietà intellettuale costituiscono per tutte le tipologie di imprese,
ma soprattutto per le Piccole e Medie Imprese (PMI), un importante asset
aziendale da coltivare e tutelare.
Negli ultimi anni è emersa una maggiore consapevolezza della funzione
strategica della proprietà intellettuale e del fatto che essa possa ricoprire non
soltanto un ruolo difensivo dell’avviamento e di protezione dei segreti e della
conoscenza delle imprese, ma anche un ruolo di supporto alla competitività delle
stesse, attraendo forme di finanziamento quali venture capital.
Al fine di operare con successo nei mercati internazionali, è necessario
sviluppare una piena consapevolezza del valore dei diritti di privativa intellettuale
e del loro regime di protezione poiché – in una knowledge-based economy, quale
quella attuale – il bene più prezioso è rappresentato dalla conoscenza , intesa in
tutte le sue forme ( innovazione, creatività, know how etc.)
Accade sempre più spesso, infatti, che i consumatori scelgano un prodotto
facendo particolare attenzione all’aspetto estetico: si pensi al fenomeno iPod.
Altre volte sono attratti principalmente dal marchio di un prodotto, come avviene
generalmente nel mercato della moda in cui marchi protagonisti dell’“Italian
Fashion” possiedono quote rilevanti di mercato anche sulla base della reputazione
che le rispettive aziende sono riuscite a creare, costruire e mantenere sui rispettivi
marchi.
Di seguito si presenta una sintetica analisi di quella che si può definire come
la nuova ricchezza dell’economia globalizzata.
2.1 BREVETTO PER INVENZIONE
Si tratta di un diritto esclusivo, garantito dallo Stato, in forza del quale viene
conferito un monopolio temporaneo di sfruttamento in relazione ad un’invenzione
7
nuova, suscettibile di applicazione industriale, che implica un’attività inventiva.8
Più precisamente il brevetto è il titolo dal quale conseguono i diritti di proprietà
industriale su un’invenzione9.
In dettaglio, per invenzione s’intende la soluzione ad un problema tecnico,
suscettibile di applicazione industriale, che non fa parte della conoscenza
anteriore: essa può consistere in un nuovo prodotto o in un nuovo procedimento.
La durata (non rinnovabile) della protezione di un brevetto è di 20 anni dalla
data del deposito.
Dall’esame del disposto dell’art. 45 del C.P.I., si possono individuare i
seguenti requisiti essenziali10:
• novità;
• fonte in un’attività inventiva;
• industrialità;
• liceità.
8 Art. 45 c.p.i. Oggetto del brevetto: “1. Possono costituire oggetto di brevetto per invenzione le
invenzioni nuove che implicano un'attività inventiva e sono atte ad avere un'applicazione
industriale. 2. Non sono considerate come invenzioni ai sensi del comma 1 in particolare: a) le
scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici; b) i piani, i principi ed i metodi per attività
intellettuali, per gioco o per attività commerciale ed i programmi di elaboratore; c) le
presentazioni di informazioni. 3. Le disposizioni del comma 2 escludono la brevettabilità di ciò che
in esse è nominato solo nella misura in cui la domanda di brevetto o il brevetto concerna scoperte,
teorie, piani, principi, metodi, programmi e presentazioni di informazioni considerati in quanto
tali. 4. Non sono considerati come invenzioni ai sensi del primo comma i metodi per il trattamento
chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale e i metodi di diagnosi applicati al corpo
umano o animale. Questa disposizione non si applica ai prodotti, in particolare alle sostanze o alle
miscele di sostanze, per l'attuazione di uno dei metodi nominati. 5. Non possono costituire
oggetto di brevetto le razze animali ed i procedimenti essenzialmente biologici per l'ottenimento
delle stesse. Questa disposizione non si applica ai procedimenti microbiologici ed ai prodotti
ottenuti mediante questi procedimenti”.
9 La disciplina normativa è contenuta nel codice della proprietà industriale (art. 45-81), nel codice
civile agli artt. 2584-2591. In campo transnazionale e comunitario si collocano anche:
− La Convenzione di Parigi del 1883.
− La Convenzione di Strasburgo del 1963.
− Il Patent Cooperation Treaty del 1970.
− La Convenzione di Monaco del 1973 (procedimento di brevettazione europea)
− La Convenzione di Lussemburgo del 1989 ( diretta a realizzare un brevetto europeo,
tuttora inattuata).
10
Ministero dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, Guida operativa al sistema della
proprietà intellettuale in Italia
8
La creazione dell’invenzione fa sorgere, ipso facto, due diverse specie di
diritti. La prima specie è costituita dal diritto morale dell’inventore a essere
riconosciuto quale autore dell’invenzione stessa (art. 62 c.p.i.). La seconda specie
è costituita dal c.d. diritto al brevetto, ovvero dalla facoltà di depositare la
domanda (diritto che può essere ceduto).
Il diritto di brevetto, invece, nasce con la concessione del titolo e copre un
ampio spettro di facoltà esclusive, contemplate dall’art.66 del C.P.I11
Il diritto di esclusiva su un’invenzione consegue al rilascio del relativo titolo
brevettuale. Tale titolo è frutto di un procedimento amministrativo, svolto in seno
ai competenti uffici nazionali o internazionali.
2.2 MODELLI DI UTILITA’
Ai sensi dell’art. 82 del c.p.i. possono costituire oggetto di brevetto i nuovi
modelli – che possono consistere in particolari conformazioni, disposizioni,
configurazioni o combinazioni di parti – atti a conferire particolare efficacia o
comodità di applicazione o di impiego a macchine o parti di esse, strumenti,
utensili oppure oggetti di uso generico.12 A titolo di esempio, una nuova
impugnatura (ad esempio ergonomica) per un’attrezzatura da lavoro può essere un
modello di utilità.
11
In particolare, il secondo comma dell’art. 66 recita: 2. “Il brevetto conferisce al titolare i
seguenti diritti esclusivi:
a)se oggetto del brevetto è un prodotto, il diritto di vietare ai terzi, salvo consenso del titolare, di
produrre, usare, mettere in commercio, vendere o importare a tali fini il prodotto in questione;
b)se oggetto del brevetto è un procedimento, il diritto di vietare ai terzi, salvo consenso del
titolare, di applicare il procedimento, nonché di usare, mettere in commercio, vendere o
importare a tali fini il prodotto direttamente ottenuto con il procedimento in questione”.
È importante notare che un brevetto non attribuisce al titolare la “libertà di uso” o il diritto
di sfruttare la tecnologia coperta dal brevetto, ma solo il diritto di escludere dall’utilizzo dello
stesso altri soggetti. Tale considerazione, che apparentemente può sembrare una sottile
distinzione, riveste, invece, un ruolo essenziale per comprendere il funzionamento del sistema
dei brevetti e come i brevetti multipli interagiscono. Inoltre, per alcune invenzioni (come i
prodotti farmaceutici), ai fini della commercializzazione sono necessarie altre autorizzazioni
(come ad esempio l’autorizzazione di immissione in commercio rilasciata dall’Agenzia Italiana del
Farmaco o dal Ministero della Salute).
12
SCAJOLA, Guida operativa al sistema della proprietà intellettuale in Italia. Pg 66.
9
L’invenzione è comunemente definita come “l’idea di soluzione di un
problema tecnico” mentre il modello di utilità si differenzia dall’invenzione
perché costituisce l’idea di soluzione allo specifico problema tecnico.
Si può proteggere un nuovo ritrovato come modello di utilità a condizione che
si tratti di:
•
un modello nuovo;
•
un modello che conferisca una particolare efficacia, comodità di
applicazione o di impiego a prodotti già esistenti.
I modelli di utilità si proteggono con un brevetto concesso all’esito di un
procedimento di brevettazione (che segue regole analoghe alla brevettazione delle
invenzioni) e la durata di tale protezione è di 10 anni.
2.3 IL MARCHIO D’IMPRESA
Si tratta di un segno che permette di identificare prodotti e servizi di
un’impresa, distinguendoli da quelli prodotti e/o distribuiti dalle concorrenti.13
Si potrebbe affermare che il marchio si riferisce ad una sottoclasse di beni.
Nel linguaggio comune, infatti, ciascun genere di beni possiede una propria
denominazione generica, ed all’interno della classe dei prodotti contraddistinti
dalle denominazioni generiche del linguaggio comune, il marchio possiede la
specificità di individuare una sottoclasse: quella dei beni che, oltre ad appartenere
al “genere” sono contraddistinti dal marchio.
La vera trasformazione del sistema di protezione dei marchi si è verificato
negli ultimi trent’anni. E’, infatti, in questo periodo che giunge al suo culmine
quella che viene indicata come la società della comunicazione globale.
Complesso è l’insieme delle fonti normative che regolano la materia .
1. Diritto interno:
−
13
Codice civile (artt. 2569-2574);
SCAJOLA, Guida operativa al sistema della proprietà intellettuale in Italia. Pg 68.
10
−
R.D. 21 giugno 1942, n. 929 (Legge marchi);
−
d.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice dei diritti di proprietà
industriale – CPI – sez. I del capo II ,artt. Da 7 a 30).
2. Convenzioni Internazionali:
−
Convenzione di Parigi del 1883: ha delineato le coordinate
fondamentali della protezione internazionale.
−
Arrangement di Madrid del 1891.
−
Trattato sul diritto dei marchi di Ginevra (1994): semplifica le
procedure di registrazione.
−
L’accordo TRIPs del 1994 (di cui si è già detto).
3. Il Diritto Comunitario
−
la direttiva del 21/12/1988 n. 89/104/CEE (attuata in Italia con d.lgs.
4/12/92 n. 480 e modificata con d.lgs. 19/3/96 n. 198)14;
−
Il regolamento sul marchio comunitario, istituito con Reg. 20/12/1993
n. 40/94/CE15.
Attraverso la sua funzione, il marchio, permette di creare un legame tra i
consumatori e i prodotti di un’impresa, in quanto gli stessi consumatori saranno
portati a ricollegare determinate qualità ad un prodotto o ad un servizio
semplicemente sulla base del marchio che vi viene apposto. Per esempio il
marchio FERRARI è sinonimo di autovetture sportive, lussuose e vincenti; il
marchio GUCCI è sinonimo di prodotti di alta moda. Il consumatore che riscontra
tali nomi su un prodotto è portato a ricollegarvi immediatamente queste
caratteristiche.
E’ fondamentale, quindi, comprendere l’importanza di valorizzare e
proteggere un marchio. Valorizzare un marchio, attraverso adeguate strategie
pubblicitarie e di marketing, può consentire un notevole aumento delle quote di
14
La Direttiva presuppone il permanere delle legislazioni nazionali , ma elimina le disparità
esistenti tra le diverse discipline interne che possono ostacolare la libera circolazione dei
prodotti.
15
L’Ufficio dei marchi comunitari è collocato nella città spagnola di Alicante, è divenuto
operativo nel 1996 .Lo scopo è quello di incoraggiare le imprese ad operare su scala europea.
11
mercato di un’impresa. Concedendo in licenza un marchio, è possibile, inoltre,
generare ulteriori flussi di cassa (royalties).
E’ necessario, pertanto, proteggere nel più efficace modo possibile i marchi
d’impresa e reagire con altrettanta decisione ad eventuali contraffazioni.
Possono costituire marchi d’impresa tutti i segni suscettibili di essere
rappresentati graficamente, in particolare le parole, i nomi di persona, i disegni, le
lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione, o le
combinazioni o le tonalità cromatiche .
Va sottolineato come un marchio d’impresa possa essere depositato in più
classi merceologiche, con la conseguenza che l’ambito di protezione dello stesso
dipenderà dal numero di classi nel quale è stato depositato (e successivamente
registrato).
Inoltre, ove s’intenda proteggere il marchio non solo in Italia, ma anche in
altri Paesi, è consigliabile procedere ad una registrazione comunitaria con il
deposito presso l’UAMI16 o ad una registrazione internazionale con il deposito
presso la WIPO17. A seguito della registrazione, il titolare del marchio acquista il
diritto di utilizzarlo in via esclusiva.
La durata della protezione del marchio è di 10 anni dalla data del deposito. La
registrazione può essere rinnovata a tempo indeterminato (per periodi di 10 anni
consecutivi) mediante il pagamento di una tassa di rinnovo.
I diritti del titolare del marchio registrato consistono nella facoltà di fare uso
esclusivo del marchio, salvo consenso all’uso da parte di terzi anche a seguito di
un suo trasferimento. Il marchio, infatti, secondo quanto disposto dall’art. 2573
16
“Ufficio per l’armonizzazione del mercato Interno” (UAMI), con sede ad Alicante, è
l’Agenzia dell’UE che, dal 1996, si occupa della registrazione dei marchi o dei design comunitari. Il
marchio comunitario e il disegno o modello comunitario registrato consentono di proteggere con
il deposito, anche telematico, di un’unica domanda presso l’UAMI, i relativi diritti di proprietà
intellettuale in tutto il territorio dell’UE. L’Ufficio gestisce l’intera procedura e l’eventuale fase di
opposizione alla registrazione di un marchio o di un disegno azionato da terzi. (Guida operativa al
sistema della proprietà intellettuale in Italia, Ministero dello Sviluppo economico -pg 27-)
17
“World Intellectual Property Organization” (WIPO), con sede a Ginevra, è un’Agenzia
specializzata dell’ONU che si dedica allo sviluppo equilibrato ed accessibile della proprietà
intellettuale, premiando la creatività, stimolando l’innovazione e contribuendo, in generale, allo
sviluppo economico a livello mondiale. La WIPO gestisce i più importanti Trattati in materia di
proprietà intellettuale, tra i quali il Patent Cooperation Treaty, in materia di registrazione
internazionale dei brevetti, e sovraintende alla registrazione internazionale di marchi, brevetti e
12
c.c. e dall’art. 23 del D.Lgs. 30/2005, “può essere trasferito o concesso in licenza
per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato”,
a condizione che “in ogni caso dal trasferimento o dalla licenza non derivi
inganno in quei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del
pubblico”.
La disciplina del trasferimento, però, non è sempre rimasta la stessa. Nel 1992
il D.lgs. n. 480 ha abolito il vincolo alla cessione del marchio solo con l’azienda o
con un ramo di essa. In precedenza, infatti, l’art. 2573 c.c. e l’art. 15 della “Legge
Marchi” (nelle formulazioni previgenti) stabilivano che il trasferimento del segno
distintivo potesse essere realizzato solo unitamente all’azienda o ad un ramo di
essa18.
2.3.1
Gli altri segni distintivi.
La ditta (artt. 2563-2568 c.c )
Per “ditta” si intende il nome attraverso cui l’imprenditore individuale esercita
la propria attività.
Rappresenta il segno distintivo dell’impresa, intesa come attività esercitata sul
mercato attraverso un insieme di elementi personali e reali. Essa, però, può
continuare a svolgere la propria funzione di identificazione anche quando mutino i
primi (elementi personali) al variare della persona dell’imprenditore, a condizione
che restino immutati i secondi, ovvero il compendio aziendale, inteso come
complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa.
E’ un segno distintivo almeno tendenzialmente rivolto a destinatari
professionali, quindi fornitori, distributori e finanziatori, la cui qualità
professionale consente di cogliere anche quelle differenziazioni che potrebbero
sfuggire al largo pubblico, cui invece sono indirizzati i segni usati come marchi.
La ditta può essere trasmessa non solo mortis causa insieme con l’azienda (3°
comma art. 2565 c.c.), ma anche per atto tra vivi.
design. (Guida operativa al sistema della proprietà intellettuale in Italia, Ministero dello Sviluppo
economico -pg 24-)
13
Il legislatore del 1992 ha ammesso il trasferimento “libero” del marchio, non
ha
però
ritenuto
di
cogliere
l’occasione
per
apportare
l’innovazione
corrispondente in materia di ditta: ancora oggi la ditta non può essere trasferita
separatamente dall’azienda (1° comma art. 2565 c.c.).
Il permanere dell’impostazione tradizionale sembra giustificato da ragioni
molto solide. Se è vero, infatti, che la ditta non è primariamente rivolta alla
clientela, allora è legittimo attendersi che essa non incorpori quel “capitale
pubblicitario” proprio del marchio.
La ragione sociale, la denominazione sociale, il nome a dominio.
Tutte le società, dovranno essere caratterizzate da un nome, in particolare si
parlerà di:
−
ragione sociale, nel caso di società di persone.
−
denominazione sociale, nel caso di società di capitali.
Particolare rilevanza rivesta invece il nome a dominio, ossia il segno distintivo
che contraddistingue un indirizzo telematico, come, ad esempio, un sito internet.
La regola dice che non si può registrare come marchio un segno noto come nome
a dominio né si può registrare un marchio altrui come nome a dominio. Perciò il
titolare di un marchio registrato dovrà tenere in considerazione i nomi a dominio
prima della registrazione dei propri marchi e dovrà opporsi alla registrazione del
proprio marchio come nome a dominio da parte di terzi.
2.4 IL DESIGN
Il design è l’aspetto estetico, o decorativo, di un prodotto (o di una sua parte)
che consiste, in particolare, nelle caratteristiche delle linee, nei contorni, nei
colori, nella forma, nella struttura superficiale, ovvero nei materiali del prodotto
stesso. Spesso, infatti, le decisioni di acquisto dei consumatori sono fortemente
condizionate dall’aspetto estetico dei prodotti.
18
Specialmente dal punto di vista fiscale, proprio l’ipotesi della cessione del marchio unitamente all’azienda
è stata oggetto di discussione e di differenti prese di posizione, come si avrà modo di vedere nel prosieguo del
lavoro.
14
L’art. 31 C.P.I. stabilisce che il design può costituire oggetto di registrazione
solo se dotato di novità e carattere individuale.
I regimi di protezione del design sono tre:
-
registrazione nazionale;
-
registrazione comunitaria;
-
registrazione internazionale.
In base all’art. 41 C.P.I il titolare di un design registrato può impedire la
fabbricazione, la commercializzazione, l’importazione l’esportazione o l’impiego
di un prodotto in cui sia incorporato il design (che non susciti un’impressione
generale diversa).
La durata della protezione è 5 anni, rinnovabili per uno o più periodi fino ad
un massimo di 25 anni.
2.5 LE INDICAZIONI GEOGRAFICHE
Consistono in indicazioni che garantiscono la provenienza del prodotto da una
zona determinata cui i consumatori tradizionalmente associano una qualità
costante che deriva da fattori ambientali e umani ( DOP – IGP –STG). Sono
disciplinate dagli artt. 29 e seguenti del C.P.I.
La concessione di un’indicazione geografica comporta il divieto a terzi –
laddove sia idoneo ad ingannare i consumatori – dell’uso di indicazioni
geografiche in modo da suggerire che tale prodotto proviene da una località
diversa dal luogo di origine oppure che esso presenti qualità che sono proprie di
prodotti che provengono dalla località designata dall’indicazione geografica
protetta. La durata della protezione, in questo caso, è illimitata.
2.6 LE NUOVE VARIETA’ VEGETALI
La tutela speciale delle novità vegetali è stata introdotta in Italia con il D.p.r.
del 12 agosto 1975 n. 974. Dopo diverse revisioni la normativa è confluita nella
sezione VIII del C.P.I. agli artt. 100-116. Nell’ordinamento comunitario è
disciplinata dal Reg. del 27 luglio 1994 n. 2100/94/CE.
15
Una varietà vegetale è la minore delle unità sistematiche del mondo vegetale
(tipo, classe, famiglia, genere, specie, sottospecie e infine varietà) e può essere
definita come un piccolo raggruppamento tassonomico: le piante che ne fanno
parte sono tutte uguali tra di loro e sono diverse da tutte le altre.
Per ottenere una privativa su una nuova varietà vegetale è necessario che
questa abbia i seguenti requisiti: novità, distintività, omogeneità e stabilità.
Occorre altresì distinguere fra invenzioni che riguardano l’agricoltura,
l’allevamento, la silvicoltura e attività connesse e le vere e proprie varietà
vegetali. Le prime sono soggette alla disciplina generale delle invenzioni
industriali (sia che si tratti di macchine, procedimenti, fertilizzanti ecc..); le
seconde, invece, sono nuove specie che possono essere ottenute mediante incroci
e/o selezioni, oppure intervenendo su fattori genetici con mezzi chimici o
biologici.
Le nuove varietà vegetali formano oggetto della disciplina speciale per tutto
ciò che di questa disciplina costituisce deroga rispetto alle norme generali in
materia di invenzioni industriali.
Il titolare della privativa può impedire che un terzo la utilizzi. In particolare, la
durata della stessa in Italia è di 20 anni (aumentata a 30 anni nel caso di varietà a
fusto legnoso), mentre quella comunitaria è di 25 anni (aumentata a 30 anni nel
caso di varietà a fusto legnoso).
2.7 I DIRITTI D’AUTORE
Storicamente il diritto d’autore ha avuto ad oggetto solo le opere letterarie ed
artistiche suscettibili di essere riprodotte a mezzo di stampa, configurandosi come
diritto esclusivo di riproduzione.
Col tempo la protezione viene accordata via via anche ad altre opere e
l’esclusiva viene a comprendere i vari modi di utilizzazione, resi possibili dallo
sviluppo tecnico ed economico. Oggi il diritto d’autore si presenta come un
istituto destinato a proteggere opere fortemente eterogenee (dalle opere letterarie,
artistiche e musicali tradizionali alle banche dati, al software, al design),
attribuendo un fascio assai ampio e differenziato di facoltà , rispondenti a diverse
16
tecniche di protezione, ma che sono rivolte soprattutto a riservare all’autore tutte
le attività con cui i vari tipi di opere sono suscettibili di utilizzazione economica19.
La legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive
modificazioni ) protegge le opere dell’ingegno di carattere creativo. Finanziando
le attività creative degli autori ed ottenendo licenze di sfruttamento dei loro diritti,
le imprese possono agevolmente rientrare degli investimenti profusi e sviluppare
così le potenzialità commerciali delle opere creative attraverso i nuovi canali di
distribuzione.
Il diritto d’autore, dunque, si cura della forma espressiva delle opere creative,
gli artt. 1 e 2 della legge sul diritto d’autore individuano le categorie di opere
protette, che possiamo così sintetizzare:
1 opere letterarie;
2 opere musicali;
3 opere coreografiche e pantomimiche;
4 opere figurative;
5 disegni e opere architettoniche;
6 opere cinematografiche e audiovisive;
7 opere fotografiche;
8 programmi per elaboratore;
9 banche dati, ovvero raccolte di opere.
I requisiti, affinché un’opera dell’ingegno possa beneficiare della protezione
offerta dal diritto d’autore sono: la novità e il carattere creativo.
All’autore di un’opera dell’ingegno sono riconosciuti:
• DIRITTI MORALI, ossia la paternità dell’opera . Sono diritti inalienabili,
nel senso che non possono essere oggetto di contratti di cessione o di licenza.
Non sono soggetti a limitazioni.
• DIRITTI PATRIMONIALI: riguardano lo sfruttamento commerciale
dell’opera, in qualsiasi modalità esso avvenga.
Hanno una durata pari alla vita dell’autore sino al settantesimo anno solare
successivo alla sua morte.
19
Il Codice civile regolamenta il diritto d’autore agli artt. 2575-2583
17
SEZIONE II
Ruolo dello strumento negoziale, con particolare riferimento al
contratto di licenza.
CAPITOLO I
Lo strumento negoziale.
Il diritto di utilizzazione della proprietà intellettuale è trasferibile con atto di
cessione della titolarità, oppure con atto di licenza, che trasferisce ad un terzo lo
sfruttamento esclusivo o non esclusivo del bene immateriale.
Cessioni e licenze volontarie non formano oggetto di una disciplina speciale e
costituiscono, conseguentemente, atti di autonomia negoziale, soggetti alle regole
generali.
Sono soggetti a trascrizione presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi e,
mediante la trascrizione, tali atti sono resi opponibili a terzi che abbiano
acquistato diritti incompatibili sul medesimo bene, per effetto di atti che siano
stati trascritti in data posteriore.
Ogni diritto di contenuto patrimoniale può essere contrattualmente attribuito
dal suo titolare ad altro soggetto. A questo proposito, nella prassi commerciale, si
fa comunemente riferimento agli schemi della cessione e della licenza; ed anche
nel linguaggio legislativo si ricorre ad una coppia di termini corrispondente,
“trasferimento” e “licenza” (art. 2573 c.c.; art. 23 cod. ind.). Nell’un caso come
nell’altro, volendo applicare tale principio alla materia in esame, il bene
(solitamente segni distintivi, come ad es. il marchio) viene usato da un soggetto
diverso dall’originario titolare.
In prospettiva civilistica con le espressioni di “cessione” e “licenza” vengono
designati effetti molto diversi, che, a loro volta, possono trovare titolo in una
varietà di cause. Sotto un primo profilo va osservato che, mentre nel trasferimento
(del diritto di marchio per esempio) la titolarità del diritto cui l’atto si riferisce
viene attribuita definitivamente all’avente causa, nella licenza un soggetto diverso
18
dall’avente diritto si limita ad acquistare da quest’ultimo diritti a contenuto
minore per un periodo limitato di tempo.
Sotto un secondo profilo, come il trasferimento si può produrre in forza di una
serie di atti assai diversi tra di loro dal punto di vista causale (vendita, donazione,
conferimento, scissione …) lo stesso vale per la licenza che può trarre origine
oltre che da contratti riconducibili al tipo dell’affitto o dell’usufrutto, anche ad. es.
da conferimenti in godimento in società.
L’esatta qualificazione del titolo di attribuzione di volta in volta ricorrente
nella fattispecie concretamente esaminata è, d’altro canto, fondamentale.
La mancanza di una disciplina specifica, come detto, fa sì che nel nostro
sistema giuridico non esista una definizione generale di royalty o di canone,
riferibile a proventi derivanti dall’impiego della proprietà intellettuale, che vada al
di là di un approccio descrittivo. Pertanto, pare necessario inquadrare i proventi
derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale nel diritto industriale e,
successivamente, nel diritto tributario.
L’analisi deve, allora, passare attraverso la disamina del modello contrattuale
che ha per oggetto determinati beni o diritti: il contratto di licenza.
In particolare, il contratto di licenza ha ad oggetto beni o cose immateriali “il
cui godimento è assicurato dal concedente al soggetto concessionario a fronte del
pagamento di un corrispettivo determinato o determinabile in un momento
successivo, in conformità a diverse variabili contrattualmente definite”20.
Si tratta di un contratto a titolo oneroso, con efficacia obbligatoria, in
quanto non si possono considerare royalties i proventi derivanti dalla vendita del
bene immateriale (il contratto di compravendita è considerato con efficacia
reale).21
Nel diritto civile la distinzione fra contratti con efficacia reale (es.
compravendita di beni) e negozi con efficacia obbligatoria è di una certa
rilevanza, mentre nel diritto tributario la distinzione è di minore rilievo, tant’è che
20
M. GREGGI, Profili fiscali della proprietà intellettuale nelle imposte sui redditi, Capitolo 1 I
presupposti per un’indagine sul regime fiscale della proprietà intellettuale e dei proventi derivanti
dal suo sfruttamento economico. Pg 22 e ss.
21
Generalmente l’ammontare del corrispettivo (la royalty) è determinata come una
percentuale dei profitti realizzati dal concessionario attraverso lo sfruttamento commerciale
19
il Testo Unico (D.p.r. 917 del 1986) all’art. 53 comma 2 lett. B con il termine
royalty fa riferimento a “redditi derivanti dall’utilizzazione economica della
proprietà intellettuale”, facendo rientrare, in linea di massima, anche la cessione
di tale proprietà.
Detto ciò, possiamo sintetizzare le seguenti considerazioni: nel diritto
industriale i proventi derivanti dall’impiego della proprietà intellettuale si
distinguono in due tipologie :
• royalty in senso stretto: intendendosi per tali i corrispettivi ottenuti a fronte
della concessione in uso di una proprietà intellettuale o di un diritto disponibile
della persona (all’immagine, al nome e così via…)
• Proventi in senso lato o per “assimilazione”: comprendono anche i
corrispettivi dovuti a fronte della cessione dei suddetti beni e di determinati beni
materiali.22
CAPITOLO 2
Sfruttamento abusivo della proprietà intellettuale
Premesso che per royalty si intende il corrispettivo pagato per fruire di beni
immateriali o diritti disponibili della persona, nelle modalità indicate nel contratto
di concessione , senza che si verifichi un effetto traslativo della proprietà del bene,
si valutano, qui di seguito, i casi di anomalie nell’utilizzazione. Ciò si verifica nel
momento in cui la fruizione del bene avviene in assenza di un valido contratto di
concessione (es. contraffazione di un marchio) o in modo non conforme a tale
contratto.
della proprietà intellettuale, ma non mancano i casi in cui lo stesso viene determinato in
precedenza indipendentemente dalla fruttuosità dell’impiego del bene.
22
Come si vedrà nel prosieguo della trattazione, in particolare nella quarta sezione dedicata
all’analisi della disciplina comunitaria, il legislatore comunitario ha espressamente qualificato
come royalty anche il provento derivante dalla concessione in uso di particolari beni mobili e
20
Le conseguenze che ne derivano sono:
−
previsione di risarcimento (che fa sorgere talune problematiche dal punto
di vista fiscale);
−
tutela inibitoria dell’attività di contraffazione;
−
risvolti penali.
Per determinare una “royalty equilibrata”, in seguito a contraffazione, si
ricorre alla “fictio iuris” di un contratto di licenza tra titolare del bene immateriale
e contraffattore , determinando il danno sulla base di quella che, secondo i canoni
di mercato, sarebbe stata la royalty pattuita.
Per ciò che concerne le difficoltà relative agli aspetti tributari del risarcimento,
si tratta, innanzitutto, di individuare le singole componenti di quest’ultimo, ossia:
−
il danno emergente: la perdita subita per non aver incassato nel patrimonio
l’oggetto del contratto;
−
il lucro cessante: il mancato guadagno.
Orbene, ci si chiede se l’eventuale risarcimento riconosciuto può essere
considerato provento derivante dallo sfruttamento della proprietà intellettuale e, in
caso di risposta affermativa, per quale ammontare.
La risposta potrebbe essere così sintetizzata: solamente una parte del
risarcimento può essere considerato come provento imponibile, e quindi, come
royalty. Il restante sarà considerato “danno emergente” determinato dalla condotta
dell’utilizzatore abusivo.
Ciò detto, pare ragionevole aggiungere che, a livello pratico, non è facile, se
non addirittura impossibile, dare una risposta unitaria a suddetto quesito. La
difficoltà deriva dal fatto che ogni caso è a sé ed ha peculiarità diverse. Ma ai fini
di una più chiara disamina, la scrivente prenderà in considerazione due casi
emblematici molto differenti tra loro:
immobili (attrezzature industriali, impianti…) estendendo così la categoria non solo in base ai
contratti utilizzabili ma anche all’oggetto degli stessi.
21
1. Contraffazione del marchio di impresa.
Si è di fronte al caso di un’impresa che vede contraffatto il proprio marchio
dalla concorrenza sleale. In una situazione del genere, la società “vittima” matura
il diritto ad un risarcimento composto da:
a) il minor profitto, derivante dall’immissione nel mercato di merci
contraffatte;
b) l’interesse contrattuale negativo, derivante dall’impossibilità, per il
titolare del bene, di scegliere se stipulare o meno un contratto di
concessione dell’intangible.
Di questi due, il punto (a) ha valenza reddituale e come tale sarà tassato in una
logica secondo la quale il risarcimento per la perdita di un reddito subisce la stessa
tassazione spettante al reddito che è stato sostituito.23
Il punto (b), al contrario, ha una valenza puramente compensativa di una
libertà pregiudicata e , come tale, non sarà fiscalmente aggredibile.
2.Uso abusivo dell’immagine di una persona fisica.
In questo caso, ad essere lesa è una libertà fondamentale del soggetto.
Pertanto, il risarcimento a cui quest’ultimo avrà diritto sarà di natura prettamente
compensativa, ossia avrà lo scopo di reintegrare il patrimonio del danneggiato e,
dunque, dal punto di vista tributario sarà privo valenza reddituale.
Non pare superfluo aggiungere come il nostro ordinamento civile riconosca
due tipologie di diritti della personalità:
−
diritti indisponibili: diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica…che
fiscalmente non sono rilevanti;
−
diritti disponibili: tra cui spicca quello all’immagine, che possono essere
“sfruttati” dai titolari anche attraverso un contratto. Nonostante questo
23
Art 6 comma 2 Tuir che recita: “ 2. I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per
effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a
titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da
invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o
perduti. Gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della
stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati”.
22
però, tali diritti sono sostanzialmente estranei all’impiego economico e,
quindi, non sono fiscalmente rilevanti.
Con particolare riferimento al caso di specie, la tassazione dell’ammontare
percepito da una persona fisica a titolo risarcitorio per lesione del diritto
all’immagine crea delle problematiche in quanto tali proventi non possono
considerarsi redditi d’impresa e nemmeno di lavoro autonomo (in quanto non
derivanti da attività artistico-professionale).
L’analisi di seguito presentata prescinderà, quindi, dalla disamina di tali
fattispecie, in quanto sostanzialmente estranee alla proprietà intellettuale (salvo
forse il diritto all’immagine che, seppure marginalmente, può originare un
corrispettivo ascrivibile alla categoria delle royalty).
CAPITOLO 3
Il contratto di licenza e i contratti ad esso affini.
Il contratto di licenza non è mai stato definito dal Codice Civile.
Nella prassi commerciale è definito come “un negozio attraverso il quale il
proprietario o il titolare di un bene immateriale ne dispone a titolo oneroso e con
effetti obbligatori, attraverso uno schema contrattuale che, approssimativamente,
si può ricondurre a quello della locazione”.
Inoltre, secondo la sempre più diffusa prassi commerciale di derivazione
anglosassone, si possono censire altri contratti, assimilabili a quello di licenza di
cui di seguito si propone un’analisi.
3.1 Contratto di Branding
Si tratta di un accordo attraverso il quale un’impresa può associare al proprio
marchio quello di un’altra impresa (o viceversa) al fine di accrescere la forza
attrattiva dei prodotti o servizi sui quali i segni sono apposti o per ottimizzare i
costi relativi a una campagna pubblicitaria.
23
Un tipico esempio è offerto dalla “lancia Y momodesign”, un’autovettura
(prodotta da FIAT) sulla quale è stato apposto il marchio MOMODESIGN
(appartenente ad un’impresa di design che produce caschi, cerchi in lega e altri
accessori da competizione) oltre ai marchi dell’azienda produttrice (FIAT E
LANCIA), proprio per rendere il prodotto più appetibile per i giovani
consumatori.
3.2 Contratto di Merchandising
Attraverso un accordo di merchandising il titolare di un marchio concede al
licenziatario il diritto di apporlo su prodotti o servizi molto diversi, per loro
natura, da quelli prodotti dal concedente, per i quali il marchio era stato
originariamente registrato.
Tramite tale strategia commerciale il titolare potrà sfruttare l’effetto traino del
proprio marchio ed espandere fortemente il proprio mercato. Si pensi, quale
esempio di best practice, all’utilizzo del marchio “Ferrari” su prodotti quali
profumi e altro. Di seguito si riporta un’analisi delle principali differenze rispetto
al contratto di licenza.
In primo luogo rilevano gli obblighi accessori al contratto quali fornitura di
know-how, tecnologie, possibilità di controllo qualitativo ecc.. Ovviamente tali
attività accessorie nel contratto di licenza si rendono necessarie allorché l’identità
o affinità delle merci o dei servizi, prodotti dal concessionario, con quelli del
concedente richiede un’azione di forte salvaguardia qualitativa del prodotto (i
caratteri dei prodotti sono da ritenersi essenziali nell’apprezzamento del
pubblico).
Il contratto di merchandising non ha questa esigenza, in quanto riguarda la
concessione in uso del marchio per prodotti appartenenti a settori merceologici
diversi. Conseguentemente, viene meno la necessità di fornire know-how e
tecnologie al concessionario e il dovere di controllo da parte del concedente.
La finalità del negozio di merchandising è prettamente promozionale e non di
identificazione merceologica.
24
Per ciò che concerne l’oggetto, mentre la licenza riguarda indifferentemente
tutte le proprietà intellettuali, il merchandising concerne esclusivamente i segni
distintivi dell’impresa, e, in particolare, il marchio.
Rilevano altresì gli aspetti soggettivi. Infatti, se, come si è visto, il
merchandising non identifica un prodotto, è evidente che il concedente, titolare
originario del marchio, può anche non essere un imprenditore o, comunque, può
non svolgere un’attività commerciale. (art. 19 co 1 CPI.)
E’ frequente, pertanto, che taluni registrino segni distintivi (anche non
associati a beni o servizi) solo per un loro successivo ed eventuale impiego in
contratti di merchandising. Talvolta, si prospetta la possibilità che grandi
multinazionali si limitino a gestire il marchio con contratti di licenza, senza
produrre né beni né servizi.
Questo aspetto fa rilevare, dal punto di vista tributario, una problematica in
merito alla qualificazione fiscale dei corrispettivi percepiti. Si tratta di una
situazione definibile come marchio senza impresa ossia di un marchio registrato al
di fuori di un’attività commerciale e non supportato da un’organizzazione
imprenditoriale.
Tradizionalmente infatti, la royalty derivante dallo sfruttamento di un
marchio, era una conseguenza dello sfruttamento di prodotti particolarmente
apprezzati, realizzati dal licenziante, e, come tale, concorreva a formare il reddito
d’impresa.
3.3 Contratto di Franchising
La legge n. 129/2004 ha introdotto una disciplina apposita per l’affiliazione
commerciale o, in altri termini, per quella tipologia contrattuale che, più
comunemente, è descritta come franchising.
Di norma l’affiliante franchisor concede all’affiliato franchisee il diritto di
utilizzare per tutta la durata del rapporto il marchio (e spesso anche l’insegna) che
caratterizza la “catena commerciale”. In questo schema negoziale sono dunque di
regola presenti gli elementi costitutivi del contratto di licenza. Se non che la
25
sovrapposizione fra le due figure è parziale: infatti , secondo la stessa definizione
contenuta nell’art. 1 della l. n. 129/2004 , l’affiliazione presuppone la presenza di
elementi ulteriori, come il know-how fornito dall’affiliante all’affiliato e
l’inserimento di questi in un sistema costituito da una pluralità di affiliati
distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi.
Quando ricorrono anche questi elementi ulteriori, la disciplina del rapporto va
reperita nelle norme della legge del 2004, ivi inclusi i profili, fortemente
protezionistici dell’affiliato, che la caratterizzano (durata minima di tre anni,
forma scritta, doveri di informazione).
3.4 Contratto di edizione
Con tale contratto l’autore concede ad un editore l’esercizio del diritto di
pubblicare per le stampe, per conto e a spese dell’editore stesso, l’opera
dell’ingegno.
Ciascuno di questi contratti ha una disciplina speciale all’interno del nostro
ordinamento.
Si tratta di negozi diversi, perché hanno ad oggetto beni immateriali diversi,
pertanto, diventa problematico qualificare le royalties da essi derivanti, se si
ritiene, come sostenuto nella prima parte dell’indagine, di voler considerare
l’aspetto negoziale come fondamentale nella disciplina fiscale.
Si dovranno, innanzitutto, analizzare i diversi schemi negoziali utilizzati nel
moderno diritto industriale. Successivamente, si dovrà valutare l’esistenza di un
modello unitario di negozio, il cui corrispettivo percepito sia riconducibile alla
categoria delle royalty e, conseguentemente, prevedere un trattamento fiscale
specifico.
Giova altresì ricordare come il concetto di royalty, da un punto di vista
tributario, sia più esteso di quanto previsto dal diritto commerciale, perché
fiscalmente sono ricompresi anche i contratti con effetti reali sul bene
immateriale, mentre dal punto di vista commerciale-industriale il concetto di
royalty ha riguardo esclusivamente a contratti con soli effetti obbligatori tra le
parti.
26
Il concetto di “utilizzazione economica” , previsto sia dall’art. 53 co 2 lett. B
che dall’art. 67 co 1 lett. G, è scarsamente connotativo dal punto di vista
civilistico. Esso infatti, può essere riferito alla compravendita, alla licenza, al
conferimento, pur trattandosi di contratti molto diversi tra loro.
E’ doveroso, pertanto, tenere separati i contratti con effetti obbligatori,
assimilabili a quello di licenza (sebbene inesistente nel nostro diritto civile, ma
assimilabile a quello di locazione, dal quale mutua buona parte della sua
disciplina) rispetto ai negozi con effetti reali.
CAPITOLO 4
La violazione del diritto di esclusiva.
La violazione del diritto di esclusiva è un altro aspetto importante da
considerare. Si pensi, a titolo di esempio, al caso di contraffazione del segno
distintivo, all’usurpazione o violazione delle privative nel caso di opere
dell’ingegno. Relativamente al risarcimento del danno, conseguente a suddetta
violazione, appare fondamentale il dato normativo, di cui all’art. 125 C.P.I,24
rubricato “Risarcimento del danno e restituzione dei profitti dell’autore della
violazione”.
La sanzione del risarcimento del danno nell’ambito della tutela dei diritti di
proprietà industriale segue le regole della responsabilità extracontrattuale.
Al primo comma dell’art. 125 C.P.I.25 gli artt. del codice civile richiamati
sono:
−
ART. 1223 - Risarcimento del danno: esso deve comprendere la perdita
subita (c.d. danno emergente) dal creditore e il mancato guadagno (c.d.
lucro cessante).
−
24
ART. 1226 – Valutazione equitativa del danno.
Così come modificato dal decreto attuativo della “direttiva enforcement” (2004/48/CE )
25
1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli
1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le
conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i
27
−
ART. 1227 – Concorso del fatto colposo del creditore.
Dato quindi il richiamo dell’art. 1223, il risarcimento del danno deve tener
conto sia del danno emergente che del lucro cessante.
Il primo di questi due aspetti non appare problematico: sono danni emergenti
le spese legali da sostenere e gli eventuali danni d’immagine.
L’aspetto maggiormente problematico si pone nella quantificazione del lucro
cessante: intuitivamente si identifica con la contrazione dei profitti, causata dal
minor volume di vendite o dalla necessità di abbassare il prezzo. Tuttavia, l’onere
della prova del danno incombe sempre sull’attore.
Il secondo comma26 sembra invece introdurre un criterio di liquidazione
secondario, alternativo a quello previsto dal comma 1: anche in questo caso, il
richiamo all’art. 13 della direttiva enforcement è evidente; anche se il richiamo
questa volta è al metodo delle “royalty” (il codice parla di “canoni di licenza”, la
direttiva di “diritti per l’uso”), usate per quantificare il danno minimo da risarcire.
(Royalty ragionevole).
Il terzo comma
27
, infine, prevede la possibilità di chiedere l’indennizzo
mediante retroversione dei profitti, qualora essi eccedano il danno risarcibile.
Conseguente alle suddette considerazioni è la problematica del regime fiscale
applicabile all’indennità risarcitoria.
Si riparte dalla scomposizione del risarcimento tra danno emergente e lucro
cessante (dei quali solo il secondo risulta essere fiscalmente rilevante come
anticipato nel Cap. 2 della presente Sezione) ma la lesione della proprietà
intellettuale, peraltro, contempla un aspetto lesivo specifico: quello dell’interesse
contrattuale negativo. Si tratta della violazione della libertà del titolare del bene
immateriale di NON cedere (o concedere) il proprio bene e di mantenere per sé
l’intangible. La violazione, in questo caso, sarà risarcita, con la royalty
benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli
economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione.
26
Comma 2 che così recita:. “La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne
la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che
ne derivano. In questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore
a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto
una licenza dal titolare del diritto leso.
28
equivalente maggiorata di un importo tale da compensare anche l’interesse
contrattuale negativo.
Tutto ciò premesso, risulta evidente quanto sia importante, in caso di
risarcimento, riuscire a disaggregare le varie componenti di danno, in modo da
assoggettare ad imposta solo quelle che hanno la funzione di sostituire le royalties
non percepite a causa del fatto illecito.
Nel caso in cui la violazione si verifichi nei confronti di chi utilizza
direttamente il bene, la determinazione del LUCRO CESSANTE si identifica con il
mancato profitto conseguente alla violazione.28
Il risarcimento, sotto forma di royalty equivalente – reasonable royalty –si
applica solo quando non è possibile determinare il lucro cessante, cioè quando lo
sfruttamento del bene immateriale avviene mediante licenza.
CAPITOLO 5
La licenza come schema attributivo di diritti sulle proprietà
intellettuali.
I beni immateriali che rientrano nella cosiddetta proprietà intellettuale
presentano peculiarità molto diverse tra loro, pertanto anche i contratti con i quali
se ne dispone devono rispettare queste differenze.
La licenza di un marchio, ad esempio, deve essere accompagnata dalla
concessione di tecnologia, in modo da permettere al licenziatario di realizzare un
prodotto qualitativamente equivalente a quello del licenziante.
Diverso è il caso di concessione di opere letterarie, regolamentato
essenzialmente da clausole concernenti il pagamento delle royalties all’autore.
27
Comma 3 che così recita: “In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la
restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro
cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”
28
L’interesse contrattuale negativo qui diventa trascurabile nella misura in cui il risarcimento
è orientato a tener conto di un minor reddito prodotto dal soggetto leso nell’esercizio della sua
attività commerciale, e non nella sua attività dispositiva della proprietà intellettuale.
29
Per tali motivi l’approccio al contratto di licenza è diverso a seconda del bene
immateriale oggetto di disposizione.
L’analisi della scrivente si concentrerà essenzialmente sui segni distintivi di
impresa, perché è il profilo che presenta maggiore complessità.
Nell’ambito del diritto industriale il contratto di licenza è definito,
correttamente, in modo generico, con l’individuazione dei confini negativi. Esso è
considerato il negozio attraverso il quale il titolare del bene (licenziante) autorizza
la controparte (licenziatario) ad impiegare suddetto bene in modo tale che, in
assenza del contratto, tale utilizzo costituirebbe pregiudizio del diritto economico
della proprietà intellettuale in regime di esclusiva.29 L’oggetto di tale negozio è
individuato nello sfruttamento economico del bene immateriale.
Possiamo, pertanto, affermare che, nel caso di brevetti, opere artistiche o segni
distintivi d’impresa (in particolare il marchio), il contratto di licenza genera una
scissione tra proprietà del bene e utilizzo dello stesso, nel senso che il licenziatario
si sostituisce al titolare della proprietà intellettuale.
Sotto questo aspetto il marchio è il bene che, meglio di ogni altro, può essere
dissociato dalla realtà aziendale d’origine.
Il contratto di licenza produce molteplici effetti nei confronti di determinate
proprietà intellettuali. Per tale motivo esso non può essere considerato un
contratto autonomo ed unitario, ma una situazione giuridica che deriva da un altro
negozio stipulato tra le parti. Quasi una sorta di schema attributivo di diritti
fiscalmente rilevanti. Il licenziatario può essere tale in esclusiva o in concorso con
altri soggetti.
In linea di massima, i contratti che originano la licenza possono, in taluni casi,
essere molto simili alla locazione (es. merchandising), ma, talvolta, possono
essere anche molto diversi.
Nonostante quanto in precedenza affermato circa le problematiche nel
ricondurre il contratto di licenza ad un modello specifico, la dottrina ha cercato di
29
M. GREGGI, Profili di diritto tributario italiano, in Profili fiscali della proprietà intellettuale
nelle imposte sui redditi. Pg 64 ess.
30
individuare un autonomo negozio di licenza, con particolare riferimento a due
aspetti :
LA STRUTTURA DEL NEGOZIO
GLI EFFETTI PRODOTTI DAL CONTRATTO SULLE PARTI30
Il contratto di licenza “socialmente tipizzato” (con particolare riferimento al
marchio) soddisfa la necessità del concedente di sfruttare il bene oggetto del
contratto al meglio, anche oltre le possibilità di impiego diretto e immediato (per
esempio ampliando l’ambito territoriale o le categorie merceologiche). Tutto
questo può avvenire concedendo la possibilità di sfruttare il segno distintivo ad un
soggetto che voglia produrre beni o servizi con caratteristiche estrinseche e
garanzie qualitative uguali ai beni del concedente. A tale scopo, è frequente che la
concessione del marchio preveda anche la concessione di particolari tecnologie
(c.d. know-how) o, in generale, un supporto alla produzione dei suddetti beni.
Tutto ciò al fine di salvaguardare il consumatore e assicurargli una qualità del
prodotto analoga a quella garantita dal concedente. Contestualmente, il
concedente avrebbe il diritto di controllare l’attività del concessionario per
accertare il rispetto degli standard qualitativi e orientare la stessa alla
massimizzazione del profitto.
L’obbligo di tale collaborazione prescinde dall’esclusività o meno della
licenza. L’unica conseguenza della licenza non esclusiva è quella che impone al
licenziatario di utilizzare il marchio esclusivamente per i beni prodotti dal
licenziante o dagli altri licenziatari. Il titolare del marchio può continuare a fare
uso dello stesso insieme ad un licenziatario per gli stessi beni. Ci si trova qui di
fronte ad un’ipotesi di “co-utilizzo” del marchio, ma non di contitolarità o di
comunione sul segno, perché uno solo è il soggetto cui appartiene la
registrazione.31
30
Questa analisi si adatta, in modo particolare, ai segni distintivi d’impresa, ma può
estendersi approssimativamente anche alle altre proprietà intellettuali.
31
A queste situazioni va equiparato il caso in cui il licenziante conceda ad uno o più
licenziatari il diritto esclusivo di usare il marchio per gli stessi beni , affidando a ciascuno di essi
zone limitate del territorio cui si riferisce la protezione del marchio .
31
La fattispecie della licenza esclusiva, invece, è caratterizzata da un dato
strutturale unitario: una ed una sola impresa ha la facoltà di usare il marchio in
questione per quel tipo di beni. Da un punto di vista funzionale, però, la licenza
esclusiva può servire ad obiettivi anche molto diversi tra di loro.
Il titolare del marchio può rinunciare totalmente alla sua presenza sul mercato,
affidando il compito ad un solo licenziatario (esclusiva totale), oppure può
affidare la valorizzazione economica del marchio a più licenziatari esclusivi
“ognuno per parte dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato”.
La distinzione appena esposta non comporta, però, nessuna differenza per il
diritto tributario.
Tale modello negoziale (con causa mista e prestazioni accessorie), simile
ad una forma atipica di negozio, è utilizzabile anche per le licenze di brevetti o di
altre proprietà industriali.
In caso di violazione degli obblighi da parte del concessionario, il concedente
può promuovere l’azione di contraffazione, pur senza pregiudicare la validità e
l’efficacia del contratto (ai sensi dell’art. 1455 c.c ).
Lo scopo perseguito dal legislatore è quello di permettere al concedente di
sfruttare al meglio l’immagine dell’azienda, tramite l’attrattiva che il marchio
offre.
Il concessionario, dal canto suo, sosterrà i costi di produzione, ma sarà
facilitato nel collocamento sul mercato dei prodotti o servizi dalla capacità
attrattiva del marchio ottenuto in concessione. Quest’ultimo, talvolta, può essere
utilizzato per categorie di beni diverse. In tal caso il negozio stipulato sarà più
simile a quello di merchandising di cui si è trattato precedentemente.
32
SEZIONE III
Inquadramento fiscale delle royalties nella disciplina nazionale.
CAPITOLO 1
Inquadramento delle royalties nell’ambito delle categorie reddituali
previste dal Testo Unico 917/86.
L’ordinamento tributario italiano non offre una definizione unitaria di royalty,
l’attuale Testo unico ha riservato ai proventi in questione un trattamento fiscale
differenziato, a seconda di numerose variabili (soggetto, tipo di contratto ecc…)
Conseguentemente, i redditi provenienti dallo sfruttamento della proprietà
intellettuale potranno, di volta in volta, essere considerati:
−
redditi di impresa, e quindi rientranti nella disciplina dell’art. 55 del Tuir;
−
redditi di lavoro autonomo, e quindi rientranti nella disciplina dell’art. 53
del Tuir;
−
redditi diversi, e quindi rientranti nella disciplina dell’art. 67 del Tuir;
Il diritto comunitario e il diritto internazionale tributario, come si avrà modo
di vedere, danno definizioni autonome dei proventi derivanti dall’impiego della
proprietà intellettuale (royalty), peraltro non interamente coincidenti, che si vanno
ad affiancare a quelle delle altre categorie di reddito con le quali a volte si
intersecano.
Si può, però, sostenere che le royalties costituiscono un tipo di reddito con
caratterizzazione specifica. Ma l’inesistenza di una formalizzazione autonoma
della categoria, nell’ambito del diritto tributario nazionale, impone all’interprete
di individuare il regime fiscale di tali proventi in base a una serie di variabili:
• la tipologia di contratti stipulati;
• la tipologia di soggetti percettori;
• i beni immateriali generatori dei proventi;
• la localizzazione dei proventi.
33
Le fonti normative cui fare riferimento per la collocazione, ai fini fiscali, delle
royalties sono:
−
ART. 53 Tuir comma 2 lett. B32: disciplina fondamentale dei canoni;
−
ART. 23 Tuir comma 2 lett.C33: criteri di localizzazione nel caso in cui le
royalties siano percepite da un soggetto passivo non residente in Italia;
−
D.lgs 12/2/2003 n. 344 e D.l. 233/06: che modificano il Testo Unico.
Dal punto di vista civilistico la nozione di royalty si individua nel
corrispettivo pattuito nel quadro di un contratto con effetti obbligatori, ed avente
ad oggetto un bene immateriale.
Nel diritto tributario (art. 53 Tuir), invece, si supera l’aspetto contrattuale e
si sintetizza l’intera fattispecie attraverso la locuzione “sfruttamento economico”
(comprendente quindi anche la cessione a titolo oneroso). Ai sensi dell’art. 53 del
Tuir la scelta di un modello contrattuale piuttosto che un altro non è significativa.
Nondimeno, per quanto riguarda i cespiti fiscalmente idonei a produrre royalty
l’art. 53 non elenca tutti i beni immateriali, mancano infatti all’appello i segni
distintivi d’impresa ( ditta, marchio ecc…).
Questa scelta è stata giustificata in passato dal fatto che il loro sfruttamento
economico avrebbe dovuto necessariamente originare reddito d’impresa. Ma, ad
oggi, la progressiva evoluzione del diritto industriale italiano ha fatto si che, in
determinati casi, si possa prospettare l’eventualità di contratti di concessione di
segni distintivi , anche al di fuori della dinamica dei rapporti d’impresa (es. un
segno distintivo concesso in licenza da un ente non commerciale).
32
Così recita l’art 53 comma 2 lettera b) del Tuir: “Sono inoltre redditi di lavoro autonomo: b)i
redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell'autore o inventore, di opere
dell'ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze
acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell'esercizio di
imprese commerciali”.
33
Così recita l’art. 23 comma2 lettera c) del Tuir: “indipendentemente dalle condizioni di cui
alle lettere c), d), e) e f) del comma 1 si considerano prodotti nel territorio dello Stato, se
corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel
territorio stesso di soggetti non residenti: i compensi per l'utilizzazione di opere dell'ingegno, di
brevetti industriali e di marchi di impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad
esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico”.
34
Nella nuova disciplina del marchio, ad esempio, assume oggi rilievo un fattore
socio-economico in precedenza considerato irrilevante: il capitale pubblicitario
incorporato nel segno.
Sotto il profilo dell’acquisto del diritto, ora, la registrazione del marchio può
essere conseguita da chiunque34 e, quindi, anche da un soggetto non titolare
d’impresa e che, quindi, intenda appropriarsi del marchio in vista dell’esercizio
delle sue prerogative, non di uso, ma di disposizione.
Per quanto attiene agli atti dispositivi, sono venuti meno molti tra i limiti che
si opponevano alla sua libera circolazione: il nuovo testo degli art. 2573 cc e 23
CPI ha abolito il cosiddetto vincolo aziendale e prevede ora espressamente la
possibilità di stipulare contratti di licenza non esclusivi e di trasferire il marchio
per una parte soltanto dei beni per cui è tutelato. L’utilizzazione del segno può
avvenire direttamente, ad opera del titolare, o affidata a cessionari, licenziatari
ecc…
Appare, quindi, evidente che l’aspetto di maggiore problematicità è quello
volto a trovare un trattamento fiscale adeguato per i proventi derivanti dallo
sfruttamento dei beni immateriali da parte di soggetti che non sono imprenditori
commerciali.
34
Ai sensi dell’art 19 del CPI che così recita: “Può ottenere una registrazione per marchio
d’impresa chi lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o
nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne
facciano uso con il suo consenso”. Pertanto, la domanda di registrazione può essere fatta prima di
aver utilizzato il marchio. Invece, l’Art. 24 C.P.I. prevede che, una volta registrato, a pena di
decadenza, il marchio deve formare oggetto di uso effettivo da parte del suo titolare, o con il suo
consenso, entro cinque anni dalla registrazione.
35
Si propone, qui di seguito, uno schema riassuntivo delle possibili categorie di
reddito a cui i proventi derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale
potranno di volta in volta appartenere. A ciascuna categoria, come si è visto,
corrisponde una differente regola per il calcolo della base imponibile.
Categoria di reddito.
Calcolo della base imponibile.
Deduzione, dal reddito prodotto, dei costi
Reddito di impresa. (art. 55 del Tuir).
attinenti
alla
produzione
dell’intangible.
(deduzione in forma analitica)
Comma 1: deduzione, dal reddito prodotto, dei
Redditi di lavoro autonomo (art. 53
costi attinenti alla produzione dell’intangible.
(deduzione in forma analitica)
Tuir)
Comma 2: i costi subiscono una deduzione
forfetaria del 25%
Lettera G: i costi subiscono una deduzione
forfetaria del 25% (se il bene immateriale è stato
acquisito a titolo oneroso e non gratuito)
Redditi diversi (art. 67 Tuir).
Lettera L: differenza fra l’ammontare percepito
nel periodo di imposta e le spese specificamente
inerenti la produzione del reddito. (art. 71 comma
2 del Tuir).
36
CAPITOLO 2
Inquadramento dei proventi derivanti dallo sfruttamento della
proprietà intellettuale al di fuori dell’attività organizzata in forma di
impresa.
Esiste la possibilità di trovare una disciplina nazionale organica per la
tassazione delle royalties, anche in mancanza di disposizioni legislative ad esse
specificatamente dedicate, nell’ambito delle diverse categorie di reddito?
Il primo approccio ci porta a considerare l’art. 53 del Tuir che:
−
al 1° comma considera i redditi da lavoro autonomo propriamente detti;
−
al 2° comma considera i redditi che, dal punto di vista tributario ma non
sempre dal punto di vista civilistico, potrebbero essere equiparati a quelli
di lavoro autonomo.
Ma le reali situazioni non sempre possono essere imputate in modo chiaro in
una delle suddette fattispecie, in particolare, per quanto riguarda le difficoltà nella
determinazione della base imponibile, e per la corretta imputazione delle
componenti negative di reddito. A titolo di esempio, si pensi al caso in cui un
soggetto realizzi un’opera intellettuale, nell’ambito di un’attività autonoma, e
riceva per questo un corrispettivo dal committente. Tale corrispettivo potrà avere
differenti classificazioni a seconda di una serie di variabili.
Pertanto, considerata la varietà della casistica, i proventi derivanti dallo
sfruttamento di un’opera intellettuale potrebbero collocarsi in tre categorie di
redditi, previsti dal Testo Unico:
•
redditi di lavoro autonomo, art 53 comma 1del T.U.;
•
redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo, art 53 comma 2 del T.U;
•
redditi diversi, art 67 del T.U (nell’ipotesi in cui l’attività sottostante sia
occasionale).
Si tratta di individuare gli elementi che guidano la scelta per la collocazione,
di volta in volta, in una di queste fattispecie.
37
2.1 Un tentativo per la collocazione fiscale dei proventi: dissidio interno
all’art 53 del Tuir.
Innanzitutto vale la pena precisare che l’identificazione reddituale dei proventi
derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale nella categoria dei redditi
di lavoro autonomo richiede due requisiti:
• professionalità
• continuità
In particolare, la dottrina considera determinante l’esistenza di due fattori, uno
positivo e l’altro negativo che possono essere in questo modo sintetizzati:
1. sono redditi di lavoro autonomo i proventi derivanti dall’esercizio di arti
e professioni, ovvero dallo svolgimento per professione abituale (anche
se non esclusiva) di lavori autonomi.
2. sono redditi di lavoro autonomo i proventi diversi da quelli rientranti nella
categoria del reddito d’impresa.
La continuità dell’attività lavorativa è l’elemento che segna la differenza fra
redditi da lavoro autonomo e redditi di lavoro occasionale (questi ultimi sono
tassati come redditi diversi ai sensi dell’art 67 del Tuir).
Questo principio, applicato alle royalties, potrebbe originare una distinzione in
base all’occasionalità della percezione del pagamento. In realtà, è preferibile una
soluzione che non consideri discriminante la natura occasionale della percezione
del reddito, ma che si riferisca all’occasionalità dell’attività che crea la proprietà
intellettuale ovvero della prestazione professionale. Nel caso delle royalties,
infatti, può accadere che ci siano redditi percepiti in modo continuativo a fronte di
un’attività del tutto occasionale.
Questa interpretazione è suffragata dall’art. 67 comma 1 lett. L. del Tuir, il
quale disciplina i redditi derivanti da lavoro autonomo prodotti in seguito
all’esercizio di un’attività occasionale.
Pertanto, se si sceglie questa interpretazione (che riconosce una maggiore
autonomia alle royalties), l’occasionalità della percezione di royalty non fa
traslare tale reddito fra le tipologie di redditi diversi, in quanto, affinché ciò
38
avvenga, l’occasionalità dovrà riferirsi all’attività che sottende la creazione
dell’intangible e non al regime dei proventi.35
Ciò premesso, pare altrettanto pacifico affermare come alla base della
percezione di proventi derivanti dallo sfruttamento economico di una proprietà
intellettuale non necessariamente vi sia un’attività continuativa. Un esempio può
essere rappresentato dall’autore che si dedica occasionalmente, e al di fuori di
qualsiasi attività produttiva, alla stesura della propria opera letteraria. In questo
caso l’atto inventivo è occasionale! Pertanto, utilizzare come elemento di
differenziazione la continuità dell’attività sottostante non farebbe altro che
aumentare le già ingenti problematiche di distinzione fra i due commi dell’art 53.
Ecco che allora, l’occasionalità dell’attività alla base della produzione
dell’intangible è già prevista nello stesso art. 53 comma 2 per quanto riguarda le
royalties. Per tale motivo, anche il soggetto che occasionalmente crea un bene
immateriale, fra quelli elencati nell’art. 53 comma 2 lett. B, risulterà percettore di
un reddito di lavoro autonomo, indipendentemente dal fatto che tale soggetto
eserciti professionalmente tale attività.
L’accettazione di tale interpretazione “risolve” la problematica relativa alla
decisione circa l’inquadramento delle royalties nell’art 53 del Tuir o nell’art 67
del Tuir in favore dell’art 53. Nulla ci dice però, con riguardo al conflitto
interpretativo interno all’art. 53 (fra i primi due commi).
Al riguardo sono state annoverate tre possibili tesi:
1. secondo la prima, ogni volta che un corrispettivo derivi dallo sfruttamento
di un’opera intellettuale di cui all’art. 53 comma 2 lett B e il soggetto
passivo rispetti i requisiti di cui al comma 136 si tratta di un reddito di
lavoro autonomo;
35
Non è chiaro, però, se questa disposizione si riferisca ai redditi di lavoro autonomo
propriamente detti ( art. 53 comma 1) o anche a quelli assimilati (art. 53 comma 2).
36
Il 1° comma così recita: “1. Sono redditi di lavoro autonomo quelli che derivano
dall'esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e professioni si intende l'esercizio per
professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diverse da quelle
considerate nel capo VI, compreso l'esercizio in forma associata di cui alla lettera c) del comma 3
dell'articolo 5”.
39
2. la seconda linea interpretativa prevede una maggiore autonomia fra le due
categorie, con una conseguente scissione all’interno della stessa tipologia
di reddito, sulla base della qualificazione del provento percepito. La
distinzione, in questo caso, avviene sulla base della fonte produttiva.
Concretamente tale soluzione crea maggiori problemi al contribuente che
dovrà tenere separate le componenti positive di reddito, ma anche
effettuare una scissione delle spese sostenute, individuando, di volta in
volta, quale sia la categoria di reddito a cui vanno imputate. Infatti, mentre
i costi sostenuti per l’attività professionale sono deducibili in forma
tradizionale (analitica), quelli relativi alla produzione del bene immateriale
dovrebbero essere imputati in modo forfettario (25%).37
3. La terza interpretazione cerca la soluzione non più sulla base del tipo di
reddito prodotto nell’ambito dell’attività di lavoro autonomo, ma in
funzione del contratto esistente tra il “creatore” ( professionista o artista) e
il committente.38
La dottrina tributaria è ormai concorde nell’affermare che la fonte produttiva è
l’elemento discriminante nella qualificazione del reddito percepito nell’ambito
della classificazione nelle 6 diverse categorie previste dal T.U.
L’analisi che si sta effettuando sulle royalties, però, cerca di collocare i
proventi all’interno di una stessa categoria, e, per ciò che concerne i redditi di
lavoro autonomo, questi risultano essere caratterizzati da:
aspetti di natura soggettiva;
aspetti di natura oggettiva;
aspetti riguardanti gli strumenti negoziali.
37
Si potrebbe pertanto ipotizzare una scissione all’interno della stessa categoria di reddito in
base alla qualificazione del provento percepito e della sua idoneità ad essere classificato nell’una
o nell’altra delle species previste all’interno dello stesso genus.
38
Si tratta in questo caso di capire quale è stata la causa che ha indotto i due soggetti a dare
inizio ad un rapporto lavorativo e quale sia la sua influenza sulla qualificazione tipologica del
reddito prodotto.
40
Le royalties condividono buona parte di queste caratteristiche, ma differiscono
dai redditi di lavoro autonomo più di quanto si possa pensare ad una prima lettura.
Sicuramente, dal punto di vista formale, sono menzionati entrambi nel Tuir sotto
la voce di redditi di lavoro autonomo e, dal punto di vista sostanziale, l’attività del
“creatore” è più simile a quella del lavoratore autonomo che a qualsiasi altra
categoria. Nonostante questo però, non si può certamente parlare di una completa
coincidenza. Rimane inoltre incerta la loro classificazione nel 1° o nel 2° comma
dell’art. 53.39
Tale differenza, però, risulta importante non solo per ciò che concerne la base
imponibile, ma anche per quanto riguarda la deducibilità dei costi. Nel caso in cui
rientrino nel 1° comma, i costi sarebbero deducibili in forma analitica, nel 2°
comma subirebbero invece una deduzione forfetaria del 25% del provento.
Una soluzione univoca non è prospettabile.
L’analisi congiunta degli aspetti soggettivi e contrattuali permette, allora, di
collocare la royalty in una categoria di reddito concettualmente autonoma.40
Un’ulteriore specificazione relativa alla qualificazione di suddetti proventi
deriva dalla possibilità che questi vengano percepiti non dal soggetto che è anche
titolare del diritto morale sull’opera ma da qualcuno che abbia acquisito il bene a
titolo oneroso o gratuito. In questo caso i proventi percepiti sono classificati fra i
redditi diversi (art. 67, comma 1, lett. (g) del Tuir) e subiranno, per quanto
riguarda il calcolo della base imponibile la medesima disciplina a cui
soggiacciono i medesimi se considerati redditi di lavoro autonomo.41
39
A titolo di esempio, un lavoratore autonomo, nell’ambito della sua attività professionale,
produce un bene immateriale suscettibile d’impiego economico e quindi produttivo di reddito. E’
difficile stabilire a priori se tale reddito possa rientrare fra i redditi di lavoro autonomo o se
invece ricada nel 2° comma dell’art. 53.
40
A tal proposito particolarmente significativa risulta essere una pronuncia dell’Agenzia delle
Entrate – Direzione Regionale Toscana: “I proventi dello sfruttamento delle opere dell’ingegno di
carattere creativo possono essere considerati redditi assimilati di lavoro autonomo , secondo
quanto previsto dall’art. 53, comma 2, lett b) DPR n. 917/86. Questa qualificazione può essere
riconosciuta alle seguenti condizioni : 1.l’utilizzazione economica deve consistere nella cessione o
concessione di diritti su opere dell’ingegno, brevetti industriali, processi, formule o informazioni
relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico.2. L’utilizzazione
deve avvenire da parte dell’autore o inventore.3. Non deve essere conseguita nell’esercizio di
imprese commerciali”.
41
In entrambi i casi la base imponibile viene calcolata applicando una deduzione forfetaria
del 25%. Se i proventi rientrano fra i redditi diversi, però, sarà necessario distinguere fra il bene
immateriale acquisito a titolo oneroso o a titolo gratuito: soltanto nel primo caso si potrà
41
2.2
Il collocamento dei proventi derivanti dallo sfruttamento dei segni
distintivi di impresa (al di fuori dell’attività imprenditoriale).
In passato si è sempre ritenuto che la cessione, o concessione, del marchio
(essendo questo un segno distintivo d’impresa) non potesse essere effettuata al di
fuori di un’attività imprenditoriale e, conseguentemente, il reddito prodotto da tale
operazione dovesse necessariamente ricadere nel reddito d’impresa (art. 55 del
Tuir). Prova ne è che l’art. 53 co.2 lett. B, nel prevedere una serie di beni
immateriali il cui sfruttamento economico genera royalties, redige una lista nella
quale mancano i segni distintivi d’impresa.
L’incongruenza di questa disposizione normativa si scontra anche con una
serie di disposizioni comunitarie e internazionali all’interno delle quali vi è un
elenco di beni immateriali produttivi di royalty e tale elenco ricomprende
chiaramente i segni distintivi d’impresa. In particolare si fa riferimento a:
−
in ambito internazionale, l’art. 12 del Modello di Convenzione OCSE;
−
in ambito comunitario, la Direttiva 2003/49/CE42
Appurato, dunque, che oramai è ammesso lo sfruttamento economico del
marchio, al di fuori dell’attività imprenditoriale, si rende necessario collocare, dal
punto di vista del diritto tributario nazionale, i redditi derivanti da tale
sfruttamento.
Due sono le possibili soluzioni:
a) far rientrare i segni distintivi tra le fattispecie previste dal comma 2
dell’art. 53 Tuir e, conseguentemente, applicare anche il comma 8 dell’art.
54.43
b) escludere i segni distintivi dall’art. 53. Questa seconda ipotesi può avere
due sviluppi:
−
i proventi non sono imponibili (ma pare una soluzione improponibile);
beneficiare dell’abbattimento della base imponibile, se i relativi diritti e beni immateriali sono
stati acquisiti a titolo gratuito, essi risulteranno imponibili per intero.
42
La cui attuazione è avvenuta mediante D. Lgs 30/5/2005 n.143 che ha inserito, tra
l’altro, l’art. 26 quater al d.p.r. 600/73, prevedendo una definizione di royalty che
comprende anche i segni distintivi d’impresa.
42
−
i proventi rientrano tra quelli previsti dall’art. 67 Tuir (redditi diversi)
con esclusione del comma 1 lett. G44.
2.2.1 Analisi della soluzione (a): redditi da lavoro autonomo.
Qualora si ritenga di voler includere i proventi derivanti dalla concessione in
licenza di marchi tra i redditi assimilati ai redditi di lavoro autonomo si dovrà far
riferimento all’elencazione presente nel comma 2 dell’art. 53 Tuir. A tal fine però,
suddetta elencazione dovrà essere considerata puramente esemplificativa.
Così facendo, sarà possibile ricomprendere, per analogia, tra i redditi
regolamentati dall’articolo, anche quelli derivanti dallo sfruttamento dei segni
distintivi d’impresa, mediante un’interpretazione estensiva, giustificata dalla
profonda identità degli strumenti negoziali dispositivi.
Questa teoria, implicitamente e correttamente, critica la scelta del legislatore il
quale non ha regolamentato complessivamente con una norma tributaria tutti i
beni immateriali, considerandoli una categoria a sé.
La soluzione prospettata nel punto (A) solleva, però, dei dubbi piuttosto
marcati: in primis, lascia perplessi il fatto che il legislatore abbia “dimenticato”
nell’art. 53 comma 2 del Tuir un’intera sottocategoria (segni distintivi d’impresa).
Per di più, l’art. 53, dal punto di vista dei requisiti soggettivi, fa espresso
riferimento all’autore o inventore, figure che possono non adattarsi al titolare del
marchio.45
43 Regime di tassazione specifica con reddito ridotto forfetariamente al 75%
44 Tale esclusione deriva dal fatto che il comma riprende i redditi previsti dal comma 2
dell’art. 53, distinguendosi da quest’ultimo solo per la natura del soggetto percettore, che, nel
caso dell’art. 67, è soggetto diverso dall’autore o inventore.
45 Alla stessa conclusione si perviene qualora si sposti l’esame sull’articolo 67 co. 1 lettera G
del Tuir, nella misura in cui tale norma venga correttamente letta come l’ideale completamento
della fattispecie disciplinata nell’ambito dei redditi di lavoro autonomo, nel caso in cui il reddito
non sia riferibile all’autore o all’inventore ma ad un suo avente causa.
43
2.2.2 Analisi della soluzione (b): redditi diversi (art 67 comma. 1 lettera L)
Lasciando scemare la possibilità di non sottoporre a tassazione i proventi
derivanti dallo sfruttamento di segni distintivi d’impresa, una seconda possibile
soluzione potrebbe essere quella di farli rientrare tra le fattispecie previste dall’art
67 comma. 1 lettera L, ossia fra i redditi di lavoro autonomo su base occasionale
(redditi derivanti da obbligazioni di fare, non fare o permettere)46.
La prima conseguenza di una simile soluzione è la determinazione della base
imponibile: troverebbe applicazione, secondo questa teoria, l’art. 71 co 2 del Tuir,
secondo il quale il calcolo dell’imponibile viene effettuato su base differenziale
tra corrispettivo percepito e spese sostenute.
Se questa soluzione può risultare soddisfacente da un lato, in quanto permette
un ragionevole assoggettamento ad imposta di tali redditi, dall’altra non si spiega
perché mai i proventi derivanti dallo sfruttamento di segni distintivi dovrebbero
subire un trattamento diverso da tutti gli altri casi di sfruttamento della proprietà
intellettuale.
Alla luce delle premesse e delle analisi effettuate, la soluzione più ragionevole
rimane, comunque, quella di collocare i proventi da sfruttamento dei segni
distintivi tra i redditi diversi, previsti dall’art 67 comma. 1 lettera L con
riferimento alle obbligazioni di “permettere”. In tal senso la concessione del
marchio ne “PERMETTE” lo sfruttamento economico da parte del concessionario.
La conseguenza più rilevante di questa interpretazione è che non sarà possibile
per il concedente forfetizzare i costi con un abbattimento dell’imponibile del 25%,
ma sarà ammessa la deduzione solo se questi sono specificatamente inerenti alla
produzione dei redditi in questione.47
46
Sotto tale profilo la licenza potrebbe essere inquadrata in un’obbligazione qualificata di
“PERMETTERE”.
47
A completamento dell’analisi, si intende aprire una parentesi relativa all’acquisto di marchi o loghi
da parte di professionisti, perché rappresentano una categoria professionale con peculiarità interessanti
per la nostra analisi. Nella risoluzione 16/2/2006 n. 30/E l’Agenzia delle entrate ha precisato che nell’ipotesi
in cui un professionista intenda acquistare il logo da un altro studio professionale potrà dedurre il costo
sostenuto per cassa, applicando le disposizioni dell’art. 54 TUIR, in quanto tale spesa risulta inerente
all’attività professionale. Inoltre “le somme in discorso corrisposte al soggetto titolare del marchio
assumono rilevanza anche ai fini della determinazione del reddito di tale soggetto . Tali importi vengono,
infatti, corrisposti a fronte dell’assunzione di obblighi ben precisi che consistono nel permettere ad un altro
soggetto l’utilizzo del proprio marchio , consentendogli di fatto di operare come uno studio professionale
44
In conclusione, pur ritenendo quest’ultima soluzione la più condivisibile, pare
legittimo evidenziare l’incongruenza di questa differenza di trattamento dei
proventi di diversi beni immateriali, soprattutto per ciò che concerne le diverse
conseguenze d’imposizione tributaria che ne conseguono. Ne deriva la necessità
di riformulare la disciplina in modo più organico e, pertanto, si auspica un
intervento del legislatore in tal senso, anche alla luce dei nuovi sviluppi che hanno
visto la nascita di nuovi beni industriali che ancora non sono contemplati dalla
normativa tributaria.
CAPITOLO 3
Inquadramento dei proventi derivanti dallo sfruttamento della
proprietà intellettuale nel quadro dell’attività di impresa
L’inquadramento dei proventi derivanti dallo sfruttamento della proprietà
intellettuale da parte di un soggetto, considerato fiscalmente imprenditore
commerciale, non crea molti problemi in quanto le royalties, così percepite, sono
considerate redditi d’impresa, ai sensi dell’art. 55 Tuir. Conseguentemente, anche
la determinazione della base imponibile e la deducibilità dei costi sono trattati alla
stregua degli altri redditi d’impresa (principio di competenza).
Dal lato dell’utilizzatore della proprietà intellettuale (quindi di chi paga la
royalty) la deducibilità del costo sarà subordinata alla verifica di inerenza e
competenza della proprietà intellettuale con l’attività commerciale svolta.
Giuridicamente la concessione in licenza può essere ricondotta alle fattispecie
previste dall’art. 2195 c.c. (imprenditori soggetti a registrazione) e, in particolare,
al n. 2 (attività intermediaria nella circolazione dei beni) oppure al n. 5 ( attività
ausiliaria ).
collegato. I proventi percepiti dal soggetto che consente l’utilizzo del proprio marchio professionale (non
registrato perché , ai sensi dell’art. 7 CPI solo i marchi posseduti da imprese possono essere registrati)
vengono tassati , ai sensi dell’art.67 comma 1 lett. l) TUIR come reddito diverso , derivante “dall’assunzione
di obblighi di fare, non fare e permettere”.
45
Infatti, l’utilizzo del marchio per valorizzare un bene sul mercato pone il
titolare del marchio stesso tra il produttore del bene e il consumatore e garantisce
quest’ultimo sulla qualità del prodotto identificato da quello specifico marchio.
Per quanto riguarda il brevetto possiamo analogamente affermare che
l’invenzione svolge una funzione strumentale, mediata, nella misura in cui non
vale per sé stessa, ma come strumento migliorativo di un prodotto o di un
processo.48
3.1 La qualificazione di un provento come “reddito di impresa”.
La qualificazione di determinati proventi come redditi d’impresa dipende da
due parametri individuati dal Testo Unico:
•
parametro soggettivo: con riferimento alla forma giuridica prescelta
dall’imprenditore, ai sensi degli art. 6 e 81 del Tuir. In particolare, redditi
prodotti nella forma di società di persone commerciali o di società di
capitali sono considerati redditi d’impresa e, come tali, fiscalmente trattati
(art. 55 del Tuir);
•
parametro oggettivo: riguardante le modalità con cui il reddito è prodotto
(ai sensi dell’art. 55 T.U.). In merito, il legislatore tributario prevede
necessario, affinché si possa parlare di reddito d’impresa, che vi sia alla
base un’impresa commerciale.
In aggiunta, sempre il Testo unico, prevede tra i requisiti necessari il fatto che
tali redditi siano prodotti in modo abituale e non necessariamente in modo
48
Il ragionamento è analogo per tutta una serie di proprietà industriali (know-how, le nuove
varietà vegetali, topografie di semiconduttori, modelli di utilità e disegni). Si tratta, in generale, di
beni immateriali destinati ad essere incorporati in altri beni immateriali, perché solo così
esplicano la propria utilità. Un ragionamento a parte merita il software che, invece, talvolta può
avere una valenza di per sé, come prodotto destinato al consumo. Quindi, mentre gli altri beni
immateriali sono destinati ad avere un ruolo di intermediazione funzionale il software può
assumere rilievo sia come bene strumentale immateriale sia come prodotto destinato al
consumo a seconda della destinazione prevista per lui nel contratto di licenza e, prima ancora,
dal suo ideatore.
46
esclusivo (l’imprenditore può svolgere altre attività non riconducibili a quella
d’impresa).49
ABITUALITA.’
Affinché possa considerarsi abituale, l’attività deve essere condotta:
−
in modo duraturo nel tempo
−
in modo non occasionale.
In merito a quest’ultimo punto, è sufficiente che l’attività sia ripetitiva, non
necessariamente continuativa (es: attività stagionale).
RILEVANZA ECONOMICA.
L’art.55 del Tuir non individua soglie quantitative né di durata né di
ammontare dei ricavi. La dottrina ritiene che l’interprete debba valutare l’entità
dei ricavi, solo quando manca la natura continuativa. Un’operazione occasionale
non è più considerata tale, dal punto di vista tributario, se presenta aspetti di
redditività di un certo rilievo se rapportati al patrimonio del soggetto agente.
3.2 L’importanza della componente organizzativa.
La definizione di imprenditore, dal punto di vista tributario, è più ampia
rispetto a quella civilistica, nella misura in cui si svaluta l’aspetto
dell’organizzazione dell’attività.
Il legislatore tributario, infatti, pone l’accento sull’attività realizzata,
indipendentemente dai fattori strumentali utilizzati. Questo ha creato incertezza
nell’individuazione dei confini fra le varie categorie (con i redditi di lavoro
autonomo ad esempio).
La dottrina ha definito tali limiti, circoscrivendo la figura del professionista ai
casi di soggetto che svolge un’attività esclusivamente intellettuale.
49
A titolo di esempio si pensi a un soggetto che commercializza programmi per elaboratore
elettronico, ai quali magari offre anche assistenza e contemporaneamente concede la licenza per
lo sfruttamento commerciale di altri prodotti informatici dallo stesso realizzati . In questo caso,
royalty e redditi di impresa vengono ad insistere sul medesimo soggetto.
47
La difficoltà valutativa non si pone per le attività che prevedono l’iscrizione
all’albo, ma per le figure non disciplinate. In tal senso un particolare problema
sorge per le attività legate alle nuove tecnologie.
In questo campo una prestazione puramente intellettuale può sfociare in una
cessione di un bene immateriale, il quale, talvolta, è considerato come una
prestazione di servizi. Si tratta, in particolare, di decidere se un programmatore
informatico possa essere considerato lavoratore autonomo o piccolo imprenditore.
Si renderà necessaria, a tal fine, un’analisi dell’organizzazione della sua attività e
dell’oggetto delle sue prestazioni per decidere.
L’analisi congiunta dell’art. 2195 c.c. e dell’art. 55 del Tuir ci porta a
distinguere due concetti, allorché si faccia riferimento alla produzione o alla
prestazione di servizi:
•
servizio prestato: si intende quello reso dalla persona, senza particolare
impiego di fattori produttivi. Il reddito che ne deriva non è considerato
reddito di impresa, ma reddito di lavoro autonomo se l’attività è effettuata
in modo continuativo, o reddito diverso se la prestazione è di carattere
occasionale;
•
servizio prodotto: la produzione del servizio si ottiene con l’impiego di
un’attività nel suo complesso organizzata in forma d’impresa.50
50
Continuando nell’analisi relativa alla distinzione del reddito d’impresa dalle atre categorie
reddituali individuate nel Testo Unico, un accenno merita la tipologia del reddito agrario.
L’ipotesi è che un’impresa agricola conceda il proprio marchio ad altri soggetti, i proventi che ne
derivano possono essere classificati in tre modi:
− Redditi agrari: in questo caso il legislatore ha individuato il confine tra attività agricola e
d’impresa sulla base di fattori quantitativi di tipo organizzativo e produttivo. Il rapporto
di accessorietà di una royalty potrebbe generare una vis attractiva da parte del reddito
agrario.
−
Redditi d’impresa commerciale: nel momento in cui lo sfruttamento del segno distintivo
non è assimilabile ad una attività agraria, sebbene da questa prenda origine.
− Redditi assimilabili ai redditi di lavoro autonomo: questa soluzione appare condivisibile
quando il reddito è percepito da una persona fisica. Crea qualche problema quando è
percepito da una società (S.S. per gli agricoltori).
48
Non ci può essere, quindi, produzione di servizi senza organizzazione. Questo
spiega perché il legislatore tributario abbia voluto esplicitare con chiarezza
l’attributo dell’organizzazione nella lettera della norma. Si produce reddito di
impresa solo se il servizio prestato, estraneo all’area dell’art. 2195 del cc, lo è
nell’ambito di un’attività organizzata in forma di impresa.
Al contrario, un soggetto che presta un servizio senza un’adeguata
organizzazione commerciale alle spalle, fiscalmente non può essere considerato
imprenditore quanto piuttosto lavoratore autonomo che genera un reddito
completamente diverso.
Ciò detto, si può affermare che le motivazioni per cui una impresa
commerciale non può produrre e possedere royalty, dal punto di vista tributario,
sono sostanzialmente due:
1. Una società commerciale produce solo redditi d’impresa.
2. Soltanto le persone fisiche possono produrre redditi di lavoro autonomo
(art. 53 T.U.)
Tale soluzione è accettabile se si considerano i redditi da lavoro autonomo in
senso stretto (art. 53 comma 1), caratterizzati da un’esclusiva e diretta attività
intellettuale del lavoratore.
Per i redditi contemplati nel secondo comma la soluzione è meno
condivisibile.
Il fatto che il legislatore escluda che tali redditi siano di lavoro autonomo, se
percepiti da un’impresa commerciale,51 fa propendere per una soluzione che
distingua la tipologia di reddito non già dalla natura dell’imprenditore, ma dalla
caratteristica (commerciale) del reddito.
Accettando questa soluzione possiamo affermare (tornando alla società
semplice agricola, vedere nota 50) che è possibile per l’imprenditore agricolo (sia
esso strutturato come singolo o in forma associata) percepire, accanto ai redditi
51
Così l’art. 53 comma 2 lett. B Tuir: “Sono inoltre redditi di lavoro autonomo:
b) i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell'autore o
inventore, di opere dell'ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o
informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale,
commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell'esercizio di imprese
commerciali”;
49
agrari, redditi di lavoro autonomo (o analoghi a quelli di lavoro autonomo) ai
sensi del comma 2 dell’art. 53 T.U.
Analogamente, tale situazione può configurarsi per gli enti non commerciali
che percepiscono royalty al di fuori della loro attività economica.
3.3 Redditi d’impresa .vs redditi diversi vs redditi di lavoro autonomo.
Rilevante, ai fini fiscali, è anche la distinzione fra redditi d’impresa (art 55 del
Testo Unico) e redditi diversi (art. 67 del Testo Unico).
E’ ormai appurato che l’elemento distintivo è la natura occasionale o meno
dell’attività.
In merito giova rilevare come l’art. 67 del Testo Unico si ponga come
residuale rispetto all’art. 55, nel senso che il legislatore considera di natura
commerciale ogni tipo di attività che, condotta abitualmente, produce redditi
d’impresa.
Le problematiche maggiori riguardano, però, la distinzione fra redditi
d’impresa e redditi di lavoro autonomo.
Premesso che non si ravvisano dubbi laddove l’attività si concretizzi nella
cessione di beni, in quanto, ai sensi dell’art. 2195 c.c., in tal caso ci troviamo
sicuramente di fronte a un’attività imprenditoriale (almeno dal punto di vista
tributario). I maggiori dubbi si hanno nelle attività di prestazioni di servizi
derivanti da professioni intellettuali classiche o particolari (insegnanti sportivi,
programmatori ecc…).
La linea di confine, si ricorda, è l’organizzazione imprenditoriale, che non
sempre è di facile individuazione e qualificazione. Si pensi, ad esempio, alle
professioni intellettuali esercitate tramite studi associati (ingegneri, avvocati) le
cui dimensioni possono richiedere un’organizzazione (anche talvolta di soggetti
che svolgono un’attività strumentale), tale da poter essere considerata impresa.
Si è di fronte ad una “impresa senza azienda” in base a quanto stabilito
dall’art. 2555 del codice civile il quale definisce l’azienda come “il complesso di
beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”, pertanto, risulta
50
necessaria la presenza di un’organizzazione di beni, assente “nell’impresa senza
azienda” affinché i redditi possano essere collocati fra i redditi di impresa
Alla luce di quanto detto le conclusioni sono sostanzialmente due:
−
le concessioni delle proprietà intellettuali (licenze) vanno considerate
come prestazioni di servizi ( quindi i proventi non sono considerati redditi
di impresa);
−
i proventi derivanti dallo sfruttamento delle proprietà intellettuali sono
considerati redditi d’impresa se percepiti da un soggetto che sia
imprenditore commerciale.
3.4
La centralità dell’elemento contrattuale: acquisizione a titolo
originario e acquisizione a titolo derivativo.
Come affermato nella premessa al capitolo 3 nel momento in cui lo
sfruttamento della proprietà intellettuale avviene nell’ambito di un’attività
commerciale, i redditi che ne derivano (royalty) perdono la propria autonomia per
confluire nei redditi d’impresa e quindi nell’art. 55 del Testo unico.
Tuttavia,
l’elemento
contrattuale
resta
comunque
importante
per
l’individuazione del regime tributario corretto cui sottoporre il provento. Infatti,
diverso è il caso dell’acquisto rispetto alla concessione in uso ai fini
dell’imputazione dei costi o delle quote di ammortamento.
Il regime fiscale dei beni immateriali nell’ambito dei redditi d’impresa è
condizionato da due fattori:
−
le modalità di acquisto del bene nel patrimonio dell’impresa;
−
la collocazione di suddetto bene all’interno dell’impresa: tra i “beni
strumentali” ovvero tra i “beni- merce”.
Giova altresì rilevare che l’acquisizione di una proprietà intellettuale tra le
proprietà dell’impresa può avvenire:
−
a titolo originario;
−
a titolo derivativo.
51
L’acquisizione a titolo originario si verifica quando il bene immateriale è
stato ottenuto per effetto di un’attività condotta nell’esercizio dell’impresa, anche
talvolta in modo occasionale: ad esempio un’attività di ricerca.
Le ipotesi previste dal Codice Industriale relativamente all’acquisizione a
titolo originario sono essenzialmente due:
−
derivazione causale: l’invenzione o la scoperta avvengono come effetto e
nell’esercizio di un obbligo contrattuale, quando la scoperta è l’oggetto del
contratto. Situazione in cui possiamo ravvisare sostanzialmente un
contratto d’opera.
−
occasionalità necessaria: la realizzazione della scoperta avviene per effetto
di un’attività svolta da ricercatori o scopritori occasionali, ma il contratto
di lavoro subordinato che li lega all’imprenditore non ha come oggetto
principale la realizzazione della scoperta. Ovviamente la scoperta deve
essere pertinente all’attività del datore di lavoro.
Nel primo caso i due soggetti, per effetto del contratto d’opera, sono in
autonomia e il corrispettivo riconosciuto allo scopritore dal committente sarà
reddito da lavoro autonomo (o d’impresa se organizzato in tale forma). Non si
tratta di una royalty in quanto tale reddito non proviene dallo sfruttamento di una
proprietà industriale, ma dall’impiego delle energie dell’inventore e, di
conseguenza, sarà collocato nel comma 1 dell’art. 53 T.U.
Nel secondo caso invece, l’imprenditore ottiene il diritto allo sfruttamento
economico dell’opera, ma è obbligato a riconoscere al lavoratore-inventore un
equo premio che ,si ritiene opportuno, collocare tra i redditi di lavoro dipendente.
E’ il caso di puntualizzare che le condizioni affinché si verifichi questa situazione
sono che:
−
il ricercatore sia legato all’imprenditore da un contratto di lavoro
subordinato;
−
il contratto di lavoro non abbia ad oggetto la realizzazione della scoperta.
L’acquisizione a titolo derivativo si verifica, invece, quando la scoperta o
l’invenzione vengono effettuate non in virtù di un impegno specifico, ma la
52
proprietà industriale così ottenuta attiene, comunque, alla sfera produttiva
dell’impresa di cui l’inventore è dipendente.
In tal caso l’imprenditore ha solo un diritto di prelazione nei confronti della
proprietà industriale e, pertanto, potrà acquisirla solo a titolo derivativo.
Per quanto riguarda il provento incassato dall’inventore non ci sono dubbi che
si tratti di una vera e propria royalty e, pertanto, rientri nella tipologia di redditi da
lavoro autonomo e assoggettato, conseguentemente, ad imposta ai sensi dell’ art.
53 comma 2 del Tuir.
3.5
La
concessione in
licenza
di beni
immateriali
come
attività
intrinsecamente commerciale.
Arrivati a questo punto dell’analisi sarebbe interessante chiarire se l’attività di
concessione della proprietà intellettuale, al di fuori dei presupposti stabiliti
dall’art. 53, sia, per sua natura, un’attività commerciale ossia se, quando non
rientra nella casistica prevista dall’art. 53 T.U. comma 2 (redditi da lavoro
autonomo) produca necessariamente reddito d’impresa e, conseguentemente,
debba essere considerato imprenditore chi la esercita.52
Il quesito può essere posto analizzando il problema sotto due aspetti :
1.
E’ commerciale un’attività il cui oggetto consiste esclusivamente
nella concessione di determinate proprietà intellettuali da parte del loro
titolare ?
2.
Può essere considerata commerciale un’attività il cui oggetto
consiste nell’amministrazione di una proprietà intellettuale ?
Al fine di rispondere al primo quesito è necessario valutare l’attività di una
società che abbia per oggetto sociale statutario la sola amministrazione di una
proprietà intellettuale e per la quale, di conseguenza, il reddito d’impresa coincida
con l’entità delle royalties incassate dalla società.
52
M. GREGGI, “La concessione dei beni immateriali in licenza come attivià intrinsecamente
commerciale e l’esigenza di correlare la natura dell’attività e il tipo contrattuale prescelto” in Profili fiscali
della proprietà intellettuale nelle imposte sul Reddito.
53
Nella realtà (a fini di risparmio di imposta) vengono costituite società estere
nell’ambito di gruppi multinazionali che hanno come oggetto la sola gestione di
un segno distintivo d’impresa, spesso conferito da società italiane facenti parte
dello stesso gruppo che lo aveva registrato.
Al fine di una corretta analisi, è necessario partire dal presupposto che, per
quanto riguarda i beni materiali, il diritto civile effettua una netta distinzione tra
godimento e disposizione del bene.
In particolare, il godimento, in senso civilistico, si contrappone al concetto di
disposizione. Con il primo termine si intende l’impiego materiale del bene, mentre
con disposizione si fa riferimento ad ogni atto o fatto che comporti una variazione
giuridica del bene.
Ad esempio la compravendita o la locazione sono atti di disposizione, mentre
l’abitare un immobile o impiegare un bene nel circuito produttivo d’impresa sono
atti di godimento.
Premesso che per il diritto commerciale l’oggetto sociale di una società deve
avere come obiettivo il perseguimento del profitto, il concetto di godimento è
considerato in antitesi con quello di attività commerciale; conseguentemente tale
attività di godimento non rientrerebbe tra quelle previste dall’art. 2195 c.c. e
relative all’impiego commerciale.
Sotto questo aspetto gli esempi prima riportati quali forme di godimento per il
codice civile, per il diritto tributario acquisterebbero un diverso profilo: abitare un
immobile sarebbe sempre attività di godimento, mentre l’impiego di un bene nel
circuito produttivo d’impresa non lo sarebbe.
Questa distinzione assume particolare valenza per quel che riguarda le
proprietà intellettuali, sia per l’aspetto di immaterialità, sia per il fatto che,
soprattutto
per
ciò
che
concerne
la
proprietà
industriale,
un
loro
impiego/godimento al di fuori dell’attività d’impresa è inconcepibile.
Quindi si può affermare che:
dal punto di vista civilistico la proprietà intellettuale è godibile.
dal punto di vista commercialistico non lo è.
54
Approfondendo ulteriormente l’analisi, ci sarebbe da domandarsi se per
godimento debba intendersi solo quello diretto o anche quello indiretto,
intendendo per tale (indiretto) quello nel quale il titolare di un diritto reale non
trae vantaggio da un rapporto diretto con la cosa, ma trasferisce tale facoltà ad un
terzo, tramite un contratto in virtù del quale riceve un corrispettivo che costituisce
il suo godimento indiretto.
Il “frutto civile” che il titolare riceve non può essere considerato godimento
vero e proprio, in quanto non deriva da caratteristiche intrinseche del bene, ma
dall’impiego commerciale che se ne fa, quindi dalla sua disposizione. In merito,
l’art. 820 comma 3 c.c. definisce frutti civili “quei frutti che si ritraggono dalla
cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia”, di conseguenza il
frutto civile non è mai godimento per il titolare del bene.
Ecco che quindi le royalties, in tale contesto, sono considerate “frutti civili” e,
dunque, non rappresentano una conseguenza del mero godimento dell’intangible
bensì l’effetto della disposizione dello stesso.
La natura del bene immateriale, infatti, rende il godimento dello stesso come
imprescindibile dalla sua utilizzazione economica.53
Si potrebbe, quindi, affermare che la proprietà intellettuale (soprattutto quella
industriale) non ha altro impiego se non quello economico, sia diretto che
indiretto. Un bene immateriale, per sua natura, non può essere goduto da parte del
titolare (con le sole eccezioni considerate in nota) se non attraverso la sua
disposizione.
Per ciò che concerne il secondo quesito, anche in questo caso, pare
ragionevole partire da considerazioni generiche in merito alla distinzione tra
gestione e amministrazione di un bene. La prima attività è considerata già in sé
con una connotazione commerciale mentre difficilmente si può dire lo stesso per
la seconda.
53
Fanno eccezione i prodotti legati al diritto d’autore: per questi esiste una possibilità di
godimento che prescinde dall’impiego economico.A tal proposito è utile ricordare che un bene
immateriale non deve essere confuso con la “cosa” che lo rappresenta fisicamente ,per esempio
un romanzo è incorporato nel libro, ma è un bene diverso da questo.
55
Nondimeno, al fine di chiarire in maniera puntuale tale differenza occorre dare
valenza a tre aspetti in particolare:
−
la forma negoziale, attraverso la quale il bene è utilizzato;
−
la dimensione dell’attività;
−
la produzione di nuova ricchezza, elemento essenziale affinché un’attività
commerciale venga considerata tale.
La giurisprudenza, in merito, sembra aver accolto l’idea che l’attività di
gestione delle partecipazioni, che possono essere assimilate alle royalties, assume
una rilevanza commerciale autonoma rispetto all’attività svolta dalle partecipate.
Infatti, sia gli strumenti partecipativi che la proprietà intellettuale possono
produrre reddito per il proprietario, indipendentemente da un’attività (diversa) di
quest’ultimo.
A tal proposito, la dottrina anglosassone parla di passive income, come
fenomeno “non passivo”, ma propenso a produrre reddito, pur in mancanza di
un’attività svolta dal proprietario e a tal fine indirizzata.
Per ciò che attiene alle proprietà intellettuali, si può affermare che esse
possono essere oggetto solo di un’attività di gestione in quanto la loro immissione
nel circuito produttivo avviene al solo scopo di produrre nuova ricchezza.
A tale regola sfuggono, ancora una volta, solo le proprietà intellettuali legate
al diritto d’autore in quanto, talvolta, il godimento di un libro o di un quadro può
essere fruito dal titolare, al di fuori di un contesto produttivo.
Pertanto, i beni immateriali, essendo intrinsecamente produttori di ricchezza,
per la loro differente natura sono oggetto di un’attività di amministrazione che è al
tempo stesso di gestione.
56
3.6 Società di mera gestione della proprietà intellettuale, con particolare
riferimento alle società di comodo.
L’immaterialità della proprietà intellettuale, come detto, rende impossibile
distinguere tra attività di mero godimento e attività dispositive.
In questo contesto si inserisce la questione dibattuta riguardante le società di
comodo.
Esse rappresentano una categoria di società la cui esclusiva attività consiste
nell’investimento in determinate categorie di beni (quasi sempre immobili) dei
quali risultano intestatarie, senza che si aggiunga un’attività organizzata al
perseguimento del profitto. Si tratta, in sostanza, di società “non operative”, mere
intestatarie di beni immobili di elevato valore.
Scarso è stato l’interesse del legislatore per questo tipo di società per quanto
attiene al fatto che la loro funzione di “contenitore” può riguardare anche altri
cespiti, come i beni immateriali, anch’essi potenzialmente ad alta redditività e
suscettibili d’impiego economico, anche al di fuori di una tipica attività
d’impresa.
Tornando, però, alle società di comodo, è necessario fare una distinzione tra
due tipologie di casi:
1. Società che, ai sensi dell’art. 29 della legge 449/97, svolgono un’attività
di gestione degli immobili. In questo caso, non si può parlare di mero
godimento, pertanto sarà possibile che l’attività venga esercitata da una
società che, a causa della natura non commerciale (qualora sussistano i
requisiti previsti dall’art. 2248 c.c. – comunione - ) dovrà assumere la
struttura di società semplice.
2. Diversa è la situazione di quelle società che si limitano ad essere
intestatarie di beni (immobili), esse non svolgono alcuna attività. La
società “copre” una realtà di comunione di beni a mero scopo di
godimento, pertanto, mancando l’attività, viene meno anche la società.
Per quanto riguarda gli intangibles, questa seconda ipotesi (società di comodo)
non è concepibile, in quanto, mancando la materialità del bene, la società che ne
57
deriva può solo essere di gestione. Esistono, comunque, delle analogie tra società
che gestiscono beni immobili, ricavando canoni di locazione, e società che
ricavano royalties da una proprietà industriale.
Chiarito che non esiste alcun problema nell’esercitare la gestione di beni
immateriali tramite una società, ci si chiede se l’attività suddetta possa
considerarsi di natura commerciale.
La legge 449/97 all’art. 29 prevede la trasformabilità delle società di capitali
in società semplici (quando non si tratti di società di comodo, per le quali il
contratto sociale deve considerarsi nullo) e fa riferimento a specifiche categorie di
beni (soprattutto immobili). Tale legge, non facendo esplicito riferimento alle
proprietà intellettuali, potrebbe portare ad affermare che l’attività di gestione di
queste ultime possa considerarsi commerciale.
Anche per i beni immateriali la distinzione tra godimento e attività di
amministrazione coincide con la differenza fra atto e attività, essendo solo
quest’ultima suscettibile di essere esercitata in forma societaria .
Tuttavia, la distinzione fra atto ed attività non è semplice in quanto i beni
immateriali presentano delle caratteristiche per cui, laddove per un bene
immobile, per esempio, ci troviamo sicuramente di fronte ad una situazione di
godimento, (es. contratto di locazione), la trasposizione di analoga situazione
nell’ambito della proprietà intellettuale (licenza) costituisce atto di gestione, per la
natura del cespite.
La dottrina ha inoltre ribadito che gli atti con cui si estrinseca il godimento di
un bene sono diversi a seconda della destinazione economica dell’oggetto del
godimento.
Ad ogni modo, è difficile, nel caso di proprietà intellettuale, individuare
un’attività di godimento da parte di una struttura societaria che non sia attività di
impresa commerciale.
In conclusione possiamo affermare che solo un approccio diversificato, in
base alla natura del bene immateriale, può portarci a una soluzione (diverso è il
bene, diverso è il concetto di godimento).
58
3.7 I beni immateriali nel bilancio dell’impresa.
3.7.1 Il costo della proprietà industriale e la rilevanza delle modalità
acquisitive nel bilancio dell’impresa.
Raramente la proprietà industriale può essere considerata per l’impresa un
bene di produzione o di scambio attraverso cui realizzare ricavi.
Pur volendo considerare l’evolversi del settore terziario della nostra economia,
per cui assistiamo alla nascita di imprese dedicate alla creazione di know-how,
centri di ricerca, agenzie pubblicitarie, possiamo, però, affermare che in questi
casi non abbiamo cessione di proprietà intellettuale, quanto di servizi alle imprese
(contratti d’appalto o contratti d’opera).
Molto più spesso si verifica il caso di “concessione in uso del bene
immateriale” il cui corrispettivo (royalty) verrà assorbito nei redditi d’impresa.
Per quanto riguarda le componenti negative, i costi sostenuti per
l’acquisizione di una proprietà industriale (nelle componenti di corrispettivi e
oneri accessori) sono deducibili, purché siano pertinenti dal punto di vista
temporale (criterio di competenza) e inerenti l’attività svolta dall’impresa.
Relativamente all’attività industriale, si distinguono due possibilità per
l’imprenditore:
1. sfruttamento economico del bene immateriale attraverso la stipula di un
contratto di licenza. In questo caso l’imprenditore pagherà delle royalties
al concedente che rappresentano, ai sensi dell’art 109 comma 5 del Tuir,
costi interamente deducibili. Il bene, ovviamente, non viene acquisito
all’interno del patrimonio dell’impresa in quando trattandosi di un
contratto ad efficacia obbligatoria il concedente permette al concessionario
di sfruttare il proprio bene senza perderne la titolarità.
2. Acquisto del bene immateriale che viene inserito nell’ambito delle
proprietà industriali dell’impresa come bene strumentale. In tal caso
trova applicazione la disciplina inerente l’ammortamento ai sensi dell’art.
59
103 del Tuir integrato e coordinato della L. 24-12-2007 N. 244 ( c.d.
finanziaria 2008) che raccorda la disciplina civilistica con quella tributaria.
Il confronto tra l’art. 102 del Tuir (ammortamento beni materiali) con il
disposto dell’art. 103 del Tuir fa ritenere che il secondo non sia una sottospecie
del primo, ma si tratti di un complesso di disposizioni distinto.
L’ammortamento dei beni immateriali, infatti, ha regole diverse a seconda del
bene di riferimento. L’art. 103 stabilisce testualmente che l’ammortamento
“fiscale” dei beni immateriali avviene tramite la deduzione del costo sostenuto:
−
in misura non superiore alla metà per le opere dell’ingegno, brevetti
industriali, know-how ;
−
per importi non superiori a un diciottesimo per i marchi d’impresa.54
Queste disposizioni non godono di nessuna flessibilità applicativa e quindi è
negato l’ammortamento accelerato che, per alcune tipologie di beni, in passato era
previsto.55
3.7.2 Diritti di utilizzazione vs diritti di concessione: analisi dell’art. 103
del Tuir.
L’art 103 del Testo unico fa riferimento, al comma 1, all’ammortamento dei
costi dei diritti di utilizzazione delle opere d’ingegno, mentre al secondo comma
fa riferimento all’ammortamento del costo dei diritti di concessione.
I due concetti, all’apparenza analoghi, in realtà determinano conseguenze
fiscali molto diverse se si rileva che nel primo caso (esaminato nel precedente
54
Per ciò che concerne i marchi, essi, insieme all’avviamento, sono ammortizzabili in dieci
esercizi per chi ha effettuato l’affrancamento previsto dal decreto anti-crisi del novembre 2008.
Nei rendiconti del 2011 entra, infatti, in vigore la modifica prevista dal Milleproroghe di fine 2010
(art. 2, comma 59 del Dl 225/2010) che ha esteso da 9 a 10 esercizi il periodo di ammortamento
fiscale dell’avviamento e dei marchi affrancati in base alle disposizioni dell’art. 15 del Dl
185/2008. La disposizione prevede la possibilità di affrancare fiscalmente i maggiori valori
attribuiti in bilancio all’avviamento e ai marchi a seguito di operazioni straordinarie, attraverso il
pagamento di un’imposta sostitutiva dell’Ires e dell’Irap da versare in un’unica soluzione.
60
paragrafo) l’ammortamento è disciplinato dal legislatore sia per ciò che concerne
le quote, sia in relazione alla durata in modo specifico; mentre nel secondo caso
viene lasciata al contribuente maggiore discrezionalità.
In questo secondo contesto, infatti, l’ammortamento può essere condizionato
dal contenuto del contratto (durata dell’utilizzazione) ovvero dalla legge.
Il secondo comma regola una serie di intangibles ulteriori rispetto alla
categoria della proprietà intellettuale essendo comprensivi delle concessioni
ricevute da un ente pubblico (sfruttamento beni demaniali, concessioni per
l’esercizio di attività commerciali ecc…), che, storicamente, erano oggetto di
concessioni regie, da cui derivano, peraltro, le royalties.
La linea di demarcazione fra i due commi dell’art. 103 si individua, perciò,
non tanto guardando alla natura del bene, ma piuttosto alla modalità dispositiva
dello stesso.
Il primo comma fa riferimento al costo dei diritti di utilizzazione di beni
immateriali (che elenca),56 mentre il secondo comma parla di costo dei diritti di
concessione e di “altri diritti”,57 senza alcuna individuazione specifica degli
stessi.
Secondo autorevole dottrina nel primo comma troverebbero disciplina le
proprietà intellettuali ivi indicate ed acquisite tramite un contratto con efficacia
reale, mentre nel secondo verrebbero disciplinati tutti gli altri intangibles, oltre a
quelli ottenuti con contratto di licenza.
Le difficoltà di una chiara distinzione fra le due fattispecie sono, comunque,
evidenti, sebbene si possa affermare, in sintonia con la più diffusa opinione
dottrinale, che il secondo comma faccia riferimento a tipologie di intangibles che
rientrano in una categoria più ampia rispetto a quelli fin qui considerati
(prevalentemente beni rientranti nella tipologia della proprietà industriale).
55
Tale normativa è in contrasto con i principi contabili internazionali che seguono logiche
diverse basate sulla verifica dell’effettiva perdita di valore del cespite.
56
Art 103 Tuir, comma 1: “Le quote di ammortamento del costo dei diritti di utilizzazione di
opere dell'ingegno, dei brevetti industriali, dei processi, formule e informazioni relativi ad
esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico sono deducibili in misura non
superiore al 50 per cento del costo; quelle relative al costo dei marchi d'impresa sono deducibili in
misura non superiore ad un diciottesimo del costo”.
61
Il secondo comma, infatti, fa riferimento anche a tutte le concessioni a vario
titolo rilasciate all’impresa, per le quali l’azienda ha sostenuto un costo, ad
esclusione dei casi in cui l’intangible abbia originato dei costi pluriennali (p.es.
spese di pubblicità, sviluppo, ricerca) in quanto il bene non è entrato a far parte
del patrimonio dell’impresa.
Ma ciò che preme rilevare è che non sempre è facile, ai fini fiscali, la
distinzione tra fenomeno traslativo della proprietà e contratto con efficacia
obbligatoria.
Nel primo caso rientrerebbero le situazioni di cessione del bene produttivo di
royalty (diritto di utilizzazione e quindi comma 1), mentre il secondo caso
comprenderebbe tutti i contratti attributivi di diritti simili alla licenza (diritto di
concessione e quindi comma 2).
Questa teoria, dunque, ancora una volta, affida alla scelta contrattuale delle
parti la determinazione del regime tributario applicabile. In merito però, c’è da
obiettare che il testo letterale della normativa del Testo unico non concorda
pienamente con questa soluzione: non c’è riscontro alla teoria per la quale il
primo comma dell’art. 103 faccia riferimento a tutti i fenomeni traslativi della
proprietà, mentre il secondo comma riguardi i contratti con efficacia obbligatoria.
L’analisi letterale della norma fa riferimento principalmente alla natura del
bene e, solo in secondo ordine, allo strumento negoziale utilizzato.
Detto ciò, la soluzione interpretativa che pare più corretta è quella che tiene
conto degli aspetti contrattuali, della natura del bene, ma anche delle modalità
di pagamento pattuite tra le parti.
In quest’ottica si avrà che:
−
le royalties pagate su base periodica e reiterata fanno sorgere un costo non
ammortizzabile ma deducibile nel periodo d’imposta in cui è sostenuto;
−
la concessione del diritto allo sfruttamento economico di una proprietà
intellettuale che richieda un corrispettivo in forma unitaria farà sorgere un
57
Art 103 Tuir, comma 2 “Le quote di ammortamento del costo dei diritti di concessione e
degli altri diritti iscritti nell'attivo del bilancio sono deducibili in misura corrispondente alla durata
di utilizzazione prevista dal contratto o dalla legge”.
62
costo non deducibile ma ammortizzabile ai sensi dell’art. 103 comma 2 del
Tuir.
Quanto detto vale a condizione che la natura del bene non richieda
l’applicazione dell’art. 102 (ammortamento di beni materiali) o valga la normativa
dell’art 104 (per i beni gratuitamente devolvibili).
3.7.3 Confronto della disciplina civilistica e contabile con riferimento ai beni
immateriali nel bilancio dell’impresa.
Tutto ciò premesso, si intende, a questo punto, aprire una parentesi di taglio più
operativo che sintetizzi gli aspetti civilistici e contabili (nazionali e internazionale)
della proprietà industriale e dei valori intangibili posseduti dalle imprese.
Le immobilizzazioni immateriali trovano collocazione nelle norme contemplate
dal Codice Civile italiano, oltre che nelle norme contabili internazionali, di cui si
dirà nel prosieguo. Esiste, pertanto, un doppio binario legislativo: quello civilistico
e quello internazionale.
Le norme relative al bilancio d’esercizio trovano posto nel codice civile al libro
V ( del lavoro) agli artt. 2423-2428. In dettaglio, il Codice contiene norme di
carattere generale per la redazione del bilancio d’esercizio, norme destinate alla
generalità delle immobilizzazioni e norme specificatamente predisposte per le
immobilizzazioni immateriali.
L’art. 2423 chiarisce quali siano i documenti obbligatori per la redazione del
bilancio d’esercizio58, mentre l’art. 2424 menziona chiaramente il termine
“immobilizzazioni immateriali” a proposito del contenuto dello Stato Patrimoniale
ed elenca alcune categorie di beni immateriali59.
58 In particolare ai commi 1 e 2 recita che:
[1] “Gli amministratori devono redigere il bilancio di esercizio, costituito dallo stato patrimoniale,
dal conto economico e dalla nota integrativa”.
[2]” Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto
la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell'esercizio”.
59 In dettaglio: costi di impianto e ampliamento, costi di ricerca e sviluppo e pubblicità, diritti di
brevetto industriale e diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno, concessioni, licenze, marchi
e diritti simili, avviamento, immobilizzazioni in corso e acconti e altre
63
Particolarmente importante è la previsione del successivo art. 2424bis , che
non fornisce definizione alcuna del termine immobilizzazione, ma chiarisce che gli
elementi patrimoniali destinati ad essere utilizzati durevolmente devono essere
iscritti tra le immobilizzazioni.
L’articolo fondamentale è, però, il 2426 , dedicato ai criteri di valutazione delle
immobilizzazioni. E’ previsto che esse siano iscritte al costo d’acquisto o di
produzione, laddove nel costo d’acquisto debbono essere computati anche i costi
accessori, mentre nel costo di produzione vanno compresi tutti i costi imputabili al
prodotto, oltre, ovviamente, ai costi indiretti.
Il comma 2 dell’art. 2426 disciplina , invece, la fattispecie dell’ammortamento,
specificando che il relativo costo “deve essere sistematicamente ammortizzato in
ogni esercizio in relazione con la residua possibilità di utilizzazione”.
Un’altra importante fonte, oltre il Codice civile, è rappresentata dai principi
contabili nazionali ed in particolare dall’OIC 24 per ciò che concerne le
immobilizzazioni immateriali.
Secondo quest’ultimo per immobilizzazioni immateriali si intendono “costi
effettivamente sostenuti che non esauriscono la propria utilità nell’esercizio di
sostenimento e manifestano una capacità di produrre benefici futuri”.
Possono entrare a far parte del patrimonio di un’impresa o mediante
l’acquisizione dall’esterno o mediante produzione interna.
Si aggiunga altresì, che le condizioni a cui i beni immateriali devono attenersi
per poter essere iscritti a bilancio sono le seguenti:
−
riferibilità a costi effettivamente sostenuti;
−
produzione di utilità che non si esaurisca in un solo esercizio;
−
manifestazione della capacità di produrre benefici futuri.
Particolarmente interessante è l’ultimo dei tre punti: l’esistenza di un’utilità
futura,
condizione
necessaria
affinché
la
risorsa
possa
essere
valutata
economicamente. Il limite di tale valore è rappresentato dal cosiddetto “valore
recuperabile”, definito come il maggiore tra il presumibile valore ottenibile da
un’alienazione del bene immateriale e il suo valore d’uso.
Relativamente all’ammortamento invece, l’OIC 24 chiarisce che l’unica
possibilità di ammortizzare un intangibile in un periodo più lungo dei 5 anni sta nel
64
dimostrare che esista un’utilità protratta a tale maggior periodo. Tale maggiore
utilità andrà dimostrata nella nota integrativa, poiché non vale il principio della
presunzione.
Detto del trattamento contabile delle immobilizzazioni immateriali secondo
l’approccio contabile nazionale e la disciplina civilistica, si intende proseguire ora
con la disamina dei principi contabili internazionali (IAS).
La nascita dei principi IAS (International Accounting standards) vuole essere
una risposta alla ormai indifferibile esigenza di “globalizzazione” dei principi
contabili nazionali dei Paesi dell’UE. Tali principi introducono nuove logiche e
regole di redazione dei bilanci per le società e le imprese aventi sede in tutti i Paesi
aderenti all’Unione Europea.
Relativamente alle immobilizzazioni immateriali lo IAS 38 assume un ruolo
centrale.
All’interno di tale principio le immobilizzazioni immateriali vengono definite
come “attività non monetarie identificabili, prive di consistenza fisica e possedute
per essere utilizzate nella produzione o fornitura di beni o servizi, per affitto a terzi
o per fini amministrativi”60.
Dalla disamina dello IAS 38 emergono alcune importanti differenze rispetto
alla normativa internazionale.
Il primo aspetto concerne la capitalizzazione dell’immobilizzazione. Il principio
internazionale sancisce che la stessa debba essere iscritta nello Stato Patrimoniale,
ma se quel bene non avesse caratteristiche di utilità pluriennale dovrebbe essere
iscritta nel conto economico.
Non mancano poi differenze relative alla modalità di ammortamento, è previsto,
infatti, che gli intangibles si possano valutare con due metodi: il criterio del costo e
il criterio della rivalutazione.
−
il metodo del costo (cost model) prevede che l’immobilizzazione
immateriale venga iscritta in bilancio al costo al netto degli ammortamenti
e delle eventuali perdite per riduzione di valore (criterio nazionale);
60 La specificazione “non monetarie” serve per distinguere un’immobilizzazione immateriale
dalle attività finanziarie che trovano disciplina nello IAS 39.
65
−
il criterio della rivalutazione (revalution model) prevede, invece, la
possibilità di iscrizione di un intangibile al suo fair value (ossia al suo
valore attuale di mercato), sempre, però, al netto dell’ammontare
complessivo degli ammortamenti e delle perdite per riduzione di valore.
In altri termini, i principi internazionali ammettono il ricorso alla metodologia
prevista dalla disciplina nazionale (criterio del costo) , ma aprono la strada anche al
criterio del fair value, con ciò intendendo ribadire l’importanza della rivalutazione
effettuata periodicamente sulle immobilizzazioni immateriali, non sempre di facile
esecuzione, se non in presenza di un oggettivo prezzo di mercato dell’intangibile in
questione.
3.7.4 Il leasing dei beni immateriali
Come per i beni materiali, anche per gli intangibles è prevista la possibilità di
essere oggetto di un contratto atipico come quello di leasing.61 Questa
affermazione però, porta con sé rilevanti conseguenze dal punto di vista tributario.
Il contratto di leasing infatti, può essere un valido strumento di elusione fiscale
soprattutto per quanto concerne i rapporti tra l’ammortamento del bene
immateriale e la deducibilità dei canoni di locazione.
Il contratto di leasing fa si che i costi sostenuti per l’acquisto del bene oggetto
del contratto siano rilevati in tempi inferiori rispetto a quelli previsti dal
legislatore nelle leggi sull’ammortamento. In merito il legislatore è intervenuto in
chiave antielusiva con disposizioni che hanno ad oggetto soltanto i beni materiali,
trascurando completamente gli immateriali.
61
Il riferimento d’obbligo è in questo caso rivolto all’art. 2573 del cc. Trasferimento del
marchio. E’ interessante notare che la lettura dell’articolo si riferisce esclusivamente alla cessione
del marchio ovvero alla sua concessione in licenza, senza fare esplicito riferimento a forme
atipiche di disposizione come dello stesso, come quella attuata mediante contratto di leasing, che
non può essere ricondotta al contratto di licenza e tanto meno alla cessione. E’ altresì vero però
che l’utilizzo di un termini generico come “cessione” possa essere interpretato quantomeno in
modo estensivo, riferendosi a forme traslative del diritto di proprietà che non coincidono
necessariamente con in contratto di compravendita ma anche con contratti come quello di
leasing la cui efficacia reale è successiva e soltanto eventuale.
66
Pertanto, si è di fronte ad una autentica lacuna normativa che può essere
colmata attraverso due possibili soluzioni:62
La prima di queste si fonda sulla constatazione che il legislatore non abbia
incluso la proprietà industriale tra i beni oggetto di leasing per il semplice fatto
che all’epoca non poteva prevedere che l’autonomia contrattuale delle parti
avrebbe raggiunto soluzioni negoziali come quelle qui prospettate. Pertanto, tale
lacuna normativa potrebbe essere colmata attraverso un’applicazione analogica
della disciplina in tema di leasing prevista per i beni materiali. 63
Secondo tale soluzione (ministeriale) dunque, il leasing di beni immateriali è
ammesso a patto che l’orizzonte temporale di deducibilità dei canoni sia di
almeno cinque anni ( la metà del periodo di ammortamento stabilito sulla base
dell’art. 103, comma 1 del Tuir).64
Per arrivare ad enunciare la seconda possibile soluzione pare ragionevole
partire da un importante presupposto d’indagine: il contratto di leasing e il
contratto di licenza presentano differenze piuttosto marcate nonostante
comportino effetti, dal punto di vista operativo, simili. Le principali differenze
riscontrabili fra questi due contratti riguardano:
−
il fatto che il licenziatario sia caratterizzato da una serie di diritti correlati
al bene immateriale (azione di contraffazione, nel caso della licenza
esclusiva) cosa che non sussiste nel contratto di leasing;
−
il fatto che il contratto di concessione di un bene immateriale preveda la
possibilità per il licenziante (e solo per questi) di partecipare ai risultati
economici raggiunti dal licenziatario in quota percentuale;
62
M. GREGGI, “Un caso limite, il leasing di una proprietà industriale” in Profili fiscali della
proprietà Intellettuale nelle imposte sui redditi
63
Tale soluzione è stata concretamente prospettata dall’Agenzia delle Entrate in una
problematica inerente un contratto di sale and lease back, al riguardo la Ris. 25 febbraio 2005, n.
27/E.
64
Ora si tratta di nove anni. La Risoluzione ministeriale è stata adottata prima delle più
recenti modifiche legislative che hanno rivisto la durata dell’ammortamento dei segni distintivi di
impresa in modo da allinearla a quella dell’avviamento ed evitare, in questo modo, impropri
arbitraggi fiscali. Si tratta, tuttavia, di una mera variazione quantitativa che non incide sulle
argomentazioni dell’autorità amministrativa.
67
−
il fatto che, il contratto di licenza, a differenza del leasing finanziario, non
preveda al temine del contratto la possibilità di acquistare il bene portando
quindi ad un effetto traslativo della proprietà.
Pertanto, il contratto di leasing sembra essere caratterizzato da profili che lo
rendono una tipologia autonoma anche dal punto di vista tributario.65
Tutto ciò premesso, è necessario effettuare un’ulteriore distinzione tra le due
tipologie di leasing esistenti: leasing operativo e leasing finanziario. Essi sono
caratterizzati da peculiarità differenti (comportanti quindi trattamenti fiscali
differenti) che permettono una maggiore assimilazione del primo (l. operativo) al
contratto di licenza, mentre il secondo (l. finanziario) mantiene maggiori tratti
distintivi.
Il leasing operativo è un contratto mediante il quale il produttore di un bene,
concede in locazione quest’ultimo a fronte di un canone periodico corrispondente
all’entità dei servizi resi dal bene medesimo e non è, quindi, in relazione alla sua
durata economica. Solitamente non è prevista la possibilità per l’utilizzatore del
bene di acquisirne la proprietà al termine del contratto. Pertanto, tale tipologia di
negozio giuridico, risulta essere particolarmente affine al contratto di licenza
nonché di locazione.
Ciò detto, non pare del tutto chiaro se quanto rende un leasing operativo sia
semplicemente la mancanza di “un’opzione di acquisto” oppure se ciò dipenda
anche dall’identità del soggetto concedente il quale deve essere produttore del
bene. La soluzione più ragionevole pare essere la prima.
Vista la già menzionata somiglianza della tipologia di leasing in esame con il
contratto di locazione non paiono argomentabili limitazioni alla deducibilità
fiscale dei canoni.
Il leasing finanziario invece è un contratto mediante il quale il Locatore
acquista da un Fornitore beni strumentali, mobili o immobili, per concederli in uso
65
In aggiunta a quanto detto, l’ammontare di una rata di un contratto di leasing che ha ad
oggetto un bene immateriale è sicuramente superiore di una royalty dovuta per lo sfruttamento
di un intangible in un contratto di licenza. Ciò è dovuto al fatto che il leasing tende a far
corrispondere all’utilizzatore del bene un ammontare pari al valore complessivo del bene stesso
68
ad una azienda (Conduttore) per un periodo di tempo prefissato e contro il
pagamento di un canone periodico. L’elemento di maggior spicco di tale negozio
è rappresentato dalla possibilità per il Conduttore, al termine del periodo
contrattuale, di acquisire la proprietà del bene esercitando “l’opzione di acquisto”.
Proprio in ragione di tale possibilità, che permetterebbe la traslazione della
proprietà del bene dando quindi al contratto una connotazione “reale” non più
“obbligatoria”, il leasing finanziario si allontana dalla fattispecie della licenza.
Ciò non comporta, però, una sua totale estromissione dal “microsistema” creato
dal legislatore con riguardo ai beni immateriali facendo ricadere il negozio
nell’ambito del leasing, tradizionalmente inteso, che ha ad oggetto i beni
materiali.
Appare, forse, più ragionevole una sua collocazione nell’ambito della
disciplina dell’ammortamento dei beni immateriali e quindi all’interno dell’art.
103 comma 1 (quote di ammortamento deducibili in misura non superiore al 50%
del costo).
A titolo aggiuntivo, il dettato letterale della norma in esame sembra supportare
questa distinzione: nell’ambito dei beni immateriali l’ammortamento agisce nel
momento in cui si ha l’utilizzo del bene, mentre, per i beni materiali è necessario
il sorgere di un costo di acquisto vero e proprio.
Ciò detto, pare piuttosto lontana la soluzione prospettata per prima che
intendeva effettuare una applicazione analogica delle norme in tema di
ammortamento alle proprietà intellettuali. Questo, in vista dell’impossibilità di
applicare le tecniche ormai superate di ammortamento accelerato o anticipato che
erano previste dal legislatore solamente per i beni materiali.
per tutta la durata del contratto. In genere, alla fine di un contratto di leasing, il cessionario si
69
SEZIONE IV
Inquadramento fiscale delle royalties nella disciplina
comunitaria.
Premessa.
L’unione europea è un partenariato economico e politico tra 27 paesi, unico
nel suo genere. Da mezzo secolo, l’UE è un fattore di pace, stabilità e prosperità.
Ha contribuito ad innalzare il tenore di vita, ha introdotto una moneta unica
europea e sta progressivamente realizzando un mercato unico nel quale persone,
beni, servizi e capitali possono circolare liberamente come all’interno di un
mercato nazionale.
L’adesione ad un mercato unico come questo apporta sicuramente grandi
benefici, sia dal punto di vista economico che sociale, ai singoli Stati. Essi, per
esempio, possono contare su un mercato molto più ampio verso cui indirizzare i
propri prodotti; hanno visto abbattuti gli ostacoli alla libera circolazione di merci,
servizi ecc..
Come in ogni radicale cambiamento però, non vi sono soltanto aspetti positivi
ma
emergono
altresì
alcune
problematiche
di
carattere
protezionistico/nazionalistico. Partecipare ad un “accordo collettivo” di questa
portata, per uno Stato, significa rinunciare ad una parte della propria indipendenza
nazionale, vedendosi costretto a sottostare alle decisioni delle Istituzioni
comunitarie. Nella gerarchia delle fonti infatti, le normative emanate in sede
comunitaria, prevalgono su quelle interne.
Tuttavia la materia fiscale rimane una disciplina di esclusiva competenza
nazionale comportando non poche problematiche a livello comunitario. Primo fra
tutti il problema della doppia imposizione internazionale economica e giuridica,
troverà ad aver o pagato una somma superiore al costo del bene per il proprietario.
70
derivante dalla mancanza di un limite materiale a livello internazionale che argini
la potestà impositiva di ciascuno Stato66.
Al contempo però, un forte intervento contro i fenomeni di doppia
imposizione, consistente nel garantire la potestà impositiva solamente a uno degli
Stati coinvolti nello scambio di reddito, potrebbe condurre a tentativi elusivi e
quindi ad un salto di imposta.
Una delle tipologie di reddito più colpite da tali problematiche è quella dei
passive income67 (ovvero dividendi, interessi, royalties), in ragione del fatto che,
ad oggi, la corresponsione di canoni, interessi e dividendi fra soggetti situati in
Stati differenti è un fenomeno assai diffuso nella prassi economica comunitaria ed
internazionale e quindi bisognoso di uno specifico intervento normativo.
Pertanto il legislatore comunitario, a partire dal 1990, ha progressivamente
tentato di armonizzare la disciplina fiscale dei passive income.
Il primo approccio si ha nel 1990 con l’emanazione della direttiva “madrefiglia” relativamente alla disciplina fiscale dei dividendi. Ma soltanto in tempi più
recenti, in particolare nel 2003, si assiste all’introduzione nel sistema normativo
comunitario della direttiva num. 48 relativa agli “interessi” (“direttiva risparmio”)
e della direttiva num. 49 con riferimento alle “royalties”.68
Questa progressiva evoluzione del sistema normativo comunitario vuole
essere una risposta alla ormai indifferibile esigenza di ricondurre a un sistema
vero e proprio la disciplina fiscale di suddetti redditi. Esigenza dettata dal fatto
66
Si ricorda in proposito l’esistenza di due tipologie di doppia imposizione: la doppia
imposizione economica consistente in una duplice tassazione, in capo a soggetti diversi, di un
reddito di identica natura economica. Si pensi alla tassazione degli utili di una società in capo al
socio e dei dividendi tratti da tali utili e distribuiti al socio. La doppia imposizione economica
internazionale si ha quando Società e soci sono residenti in due Stati diversi. La seconda tipologia
è quella giuridica consistente in una duplice tassazione, in capo allo stesso soggetto, dello stesso
reddito giuridicamente qualificato, si pensi alla duplice tassazione in capo allo stesso soggetto
persone fisica di una determinata categoria di reddito. In questo caso, nel momento in cui la
persona fisica è tassata sia dallo stato A della propria residenza che dallo Stato B della fonte del
proprio reddito vi è doppia imposizione giuridica internazionale.
67
Un’efficace definizione di passive income è stata fornita dalla circolare Assonime n. 65 del
18 dicembre 2000, che lo identifica come “ il reddito derivante, più che dall’esercizio di
un’effettiva attività economica, dalla produttività insita in cespiti di facile mobilità, quale,
tipicamente, il reddito di natura finanziaria (…)”
68
Al riguardo, è necessario specificare fin da ora che la Direttiva in esame prende in
considerazione non solo le royalties pagate a fronte dello sfruttamento di una proprietà
industriale ma si riferisce anche ai canoni erogati per l’utilizzazione di apparecchiature
commerciali, industriali o scientifiche (di beni materiali quindi).
71
che a livello internazionale, come si vedrà nel prosieguo della trattazione, tali
redditi sono oggetto di autonoma disciplina.
Appare necessario, a questo punto, analizzare, seppur in maniera sintetica, il
menzionato processo di armonizzazione della disciplina dei passive income
fornendo una descrizione di quelli che sono gli interventi normativi più
significativi operati dal legislatore comunitario:
−
Direttiva 1990/435/CE (direttiva “madre-figlia”);
−
Direttiva 2003/48/CE (direttiva “risparmio”);
−
Direttiva 2003/49/CE (direttiva “interessi e canoni”).
CAPITOLO 1
Cenni sulla direttiva “madre- figlia”.
La presente Direttiva intende disciplinare, come si esplicita all’interno dell’art.
169, la tassazione di utili percepiti da una società di uno Stato membro e
provenienti da una società controllata (“filiale”) di un altro Stato membro.
Pare utile partire dal fatto che i redditi societari, oggetto della presente
Direttiva, possono essere sottoposti, a livello nazionale, a molteplici livelli di
tassazione: in primis in capo alla società come utili d’impresa e, in secundis, in
capo ai soci che percepiscono i dividendi.
Per dividendo in particolare, si intende quella parte di utili che una Società
decide di distribuire ai propri azionisti al termine di ogni esercizio come
remunerazione del capitale investito.
69
L’ articolo 1 della Direttiva in esame così recita: “1. Ogni Stato membro applica la presente
direttiva:
- alla distribuzione degli utili percepita da società di questo Stato membro e provenienti dalle loro
filiali di altri Stati membri;
- alla distribuzione degli utili effettuata da società di questo Stato a società di altri Stati membri di
cui esse sono filiali.
2. La presente direttiva non pregiudica l'applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali
necessarie per evitare le frodi e gli abusi”.
72
Pertanto, il medesimo reddito viene sottoposto ad una doppia imposizione in
capo a due soggetti passivi diversi: prima in capo alla società come reddito di
impresa poi in capo ai soci come reddito di capitale.
Nel caso in cui la distribuzione avvenga tra soggetti residenti in Paesi deversi
questo reddito può subire un ulteriore livello di tassazione nel momento in cui sia
lo Stato di residenza del percettore sia lo Stato della fonte esercitano la propria
potestà impositiva dando origine al fenomeno della doppia imposizione
economica internazionale.
Come già precedentemente affermato, nonostante l’esclusiva competenza
degli Stati in materia fiscale, le istituzioni comunitarie (con particolare riferimento
alla Commissione europea, alla Corte di Giustizia dell’Unione europea) hanno
tentato di indirizzare le scelte di questi ultimi in modo da evitare fenomeni di
doppia imposizione come quello ora descritto, e per giungere ad un’armonia tra il
diritto interno e il diritto europeo a cui gli Stati membri non possono sottrarsi. Il
contributo delle istituzioni comunitarie in tema di doppia imposizione si rileva
anche in termini di integrazione positiva con riferimento alla direttiva in esame
90/435/CEE.
Quest’ultima è nata con l’obiettivo di eliminare il fenomeno della doppia
imposizione sui dividendi distribuiti fra società con residenza fiscale in Stati
membri diversi attraverso l’eliminazione della ritenuta alla fonte e l’inclusione
parziale o l’esenzione del dividendo nella base imponibile del soggetto percettore
nello Stato di residenza.
Tuttavia, ciò che ha spinto le istituzioni europee ad emanare tale
provvedimento è anche la volontà di favorire la formazione di gruppi societari
all’interno dell’UE. Questi ultimi, infatti, rappresentano un primo passo verso la
creazione di condizioni analoghe a quelle di un mercato interno e per assicurare
l’attuazione e il buon funzionamento del mercato comune.
1.1 Destinatari della Direttiva.
Come si evince dagli art.1 e 2 della Direttiva, unici destinatari della normativa
sono le società degli Stati membri. Tale considerazione risulta essere in linea con
73
la ratio ispiratrice della direttiva che intende favorire il raggruppamento delle
società. In particolare, ai sensi dell’art. 2, per “Società di uno stato membro” si
intende una società che abbia una delle forme elencate nell’allegato della
normativa, che abbia la residenza fiscale all’interno di uno Stato membro e che sia
assoggettata ad una delle imposte elencate all’interno della Direttiva. Quest’ultima
elencazione termina con una frase estensiva che rende più ampio il campo di
applicazione della normativa in specie comprendendo altresì “…qualsiasi altra
imposta che venga a sostituire una delle imposte sopra indicate”.
1.2 Il rapporto “società madre” “società figlia”.
Come già accennato, la Direttiva in esame si applica agli utili percepiti da una
“società madre” da parte di una sua controllata residente in un altro stato membro
(“società figlia”). Nella sua versione originaria la Direttiva prevedeva che,
affinché si potesse parlare di società collegate, la Società madre avrebbe dovuto
detenere almeno il 25% della società figlia per un periodo ininterrotto di almeno
un anno. Viceversa una società, per essere “figlia”, avrebbe dovuto avere un
capitale posseduto per almeno il 25% da una società residente in un altro Stato
membro.
Inoltre, il secondo comma dell’art. 3 prevede due deroghe al criterio di
partecipazione:
1. la sostituzione, attraverso un accordo bilaterale, della partecipazione al
capitale con i diritti di voto;
2. l’estensione dell’arco temporale in cui si detiene la partecipazione da un
anno a due anni con l’obiettivo di evitare che un soggetto giuridico
proceda all’acquisto di partecipazioni di un’altra società al solo scopo di
poter beneficiare della direttiva.
74
1.3 Criteri per l’eliminazione della doppia imposizione.
Come precedentemente affermato, uno degli obiettivi della direttiva in specie
è l’eliminazione della doppia imposizione. A tal fine si prevede, ai sensi dell’art. 4
della Direttiva, la possibilità, per lo Stato di residenza della società-madre, di
optare per:
− il sistema dell’esenzione degli utili percepiti dalla società figlia;
− l’imposizione degli utili percepiti autorizzando però la Società-madre a
dedurre dalla sua imposta la frazione di imposta relativa a suddetti utili e
pagata dalla società figlia o da una sua sub-affiliata a condizione che
queste ultime soddisfino tutti i requisiti di cui agli art. 2 e 3 della
normativa in specie.
Nondimeno, al secondo comma dell’art. 4, viene esplicitata una ulteriore
regola riguardante gli oneri relativi alla partecipazione e le minusvalenze derivanti
dalla distribuzione degli utili della società-figlia. Al riguardo si afferma come tali
oneri non siano deducibili dalla base imponibile della società-madre. In
particolare, se si tratta di spese di gestione calcolate in modo forfettario, l’importo
non può essere superiore al 5% degli utili.
Questo significa che nel caso in cui lo Stato di residenza della società-madre
opti per il sistema dell’esenzione, quest’ultima riguarderà il 95% del dividendo,
essendo il restante 5% indeducibile come spesa di gestione.
1.4 Le modifiche apportate alla direttiva “madre-figlia”.
Dal momento in cui è stata emanata la direttiva in questione è emersa la
necessità di apportare alcune modifiche che conducessero ad una estensione del
campo di applicazione della normativa. Tutto ciò ha avuto concretizzazione nella
direttiva 2003/123/CE.
Dal punto di vista soggettivo assistiamo a due sostanziali modifiche. La prima
di queste riguarda l’art. 1 all’interno del quale la figura di percettore dei dividendi
75
è stata estesa anche alla Stabile Organizzazione, intendendo per essa: “una sede
fissa di affari situata in uno Stato membro, attraverso la quale una società di un
altro Stato membro esercita in tutto o in parte la sua attività, per quanto gli utili
di quella sede di affari siano soggetti ad imposta nello Stato membro nel quale
essa è situata ai sensi del pertinente trattato fiscale bilaterale o, in assenza di un
siffatto trattato, ai sensi del diritto interno”. Definizione che coincide
sostanzialmente con quella dell’art. 5 del Modello OCSE.
La seconda modifica soggettiva riguarda l’ampliamento delle categorie di
società, elencate nell’allegato della normativa, che possono usufruire della
Direttiva. In particolare si prevede l’aggiunta di:
− società europee;
− società cooperative europee;
− società cooperative;
− mutue;
− casse di risparmio;
− fondi;
− assicurazioni con attività commerciale.
Infine, c’è da rilevare un’ultima modifica dal punto di vista oggettivo. La
percentuale di partecipazione minima della “società-madre” nella “società-figlia”
è stata ridotta in maniera graduale:
−
dall’entrata in vigore della nuova Direttiva (2003) fino al 31 dicembre
2006 la percentuale è stata ridotta dal 25% al 20%;
−
a decorrere dal 1° gennaio 2007 la percentuale è stata del 15%;
−
a decorrere dal 1° gennaio 2009 la percentuale è stata del 10%.
76
CAPITOLO 2
Cenni sulla “direttiva risparmio”.
La “direttiva risparmio”, corrispondente alla direttiva num. 48 del 3 giugno
2003, persegue l’obiettivo di “…consentire che i redditi da risparmio sotto forma
di pagamenti di interessi corrisposti in uno Stato membro a beneficiari effettivi
che siano persone fisiche, residenti in un altro Stato membro, siano soggetti a un’
imposizione effettiva secondo la legislazione nazionale di quest’ultimo Stato
membro”.
Da suddetta dicitura emerge come ad oggetto dell’intervento normativo ci
siano gli interessi relativi a redditi da risparmio purché riferiti a persone fisiche di
residenza fiscale differente rispetto allo Stato membro di erogazione e purché
anch’essi residenti all’interno dell’Unione europea.
L’obiettivo fondamentale intende essere raggiunto attraverso uno scambio
automatico di informazioni tra lo Stato erogatore degli interessi (Stato della fonte)
e lo Stato percettore degli interessi (Stato di residenza). All’interno della direttiva
vengono successivamente definiti i due soggetti chiamati in causa nello scambio
di informazioni: beneficiario effettivo e agente pagatore. In dettaglio, all’articolo
2 si afferma che “ai fini della presente direttiva per “beneficiario effettivo” si
intende qualsiasi persona fisica che percepisce un pagamento di interessi o
qualsiasi persona fisica in favore della quale è attribuito un pagamento di
interessi, a meno che essa dimostri di non aver percepito tale pagamento a
proprio vantaggio o che non le sia stato attribuito (…)”.
Mentre per quanto concerne il secondo soggetto il legislatore comunitario si
esprime all’articolo 4 esplicitando che “ai fini della presente direttiva per “agente
pagatore” si intende qualsiasi operatore economico che paga gli interessi al
beneficiario effettivo o attribuisce il pagamento degli interessi direttamente a
favore del beneficiario effettivo, sia esso il debitore del credito che produce gli
interessi o l’operatore incaricato dal debitore o dal beneficiario effettivo di
pagare gli interessi o di attribuire il pagamento degli interessi.”
In ragione delle problematiche sopra evidenziate relativamente al rischio che
un reddito da risparmio non sconti imposizione o la sconti in misura parziale in
77
virtù dell’inferiore o inesistente livello impositivo alla fonte, la direttiva
“Risparmio” vuole consentire agli Stati di residenza dei beneficiari effettivi di
verificare le generalità e i dati salienti dei soggetti percettori di tali redditi.
La soluzione più efficiente trovata dal legislatore comunitario consiste
nell’identificare nel soggetto pagatore colui che è tenuto a raccogliere tali
informazioni. Una volta recepite, sarà compito dell’autorità competente dello
Stato del paying agent comunicarle all’autorità competente dello Stato di
residenza del beneficiario effettivo.
Ai sensi dell’articolo 8 della Direttiva, le informazioni minime che l’agente
pagatore è tenuto a comunicare allo Stato di residenza del beneficiario effettivo
sono costituite da:
• identità e residenza del beneficiario effettivo determinate a norma
dell’articolo 3;
• denominazione e indirizzo dell’agente pagatore;
•
numero di conto del beneficiario effettivo o, in assenza di tale riferimento,
identificazione del credito che produce gli interessi.
Il campo di applicazione della Direttiva comprende unicamente “i redditi da
risparmio costituiti dal pagamento di interessi a fronte di crediti di qualsivoglia
natura, assistiti o meno da garanzie ipotecarie e corredati o meno di una clausola
di partecipazione agli utili del debitore e, in particolare, i redditi derivanti da
titoli e da obbligazioni di prestiti, compresi i premi collegati a detti titoli (..)”.
2.1 Le eccezioni alla regola.
Al suo interno, la Direttiva, prevede alcune rilevanti eccezioni. In base a
quanto previsto, non sono tenuti allo scambio automatico di informazioni tre Stati
membri: Belgio Lussemburgo e Austria. Si tratta di Stati che hanno fatto
dell’offerta di servizi finanziari ai risparmiatori una delle loro principali attività.
In particolare si sono contraddistinti anche grazie alla riservatezza che
garantiscono ai loro risparmiatori. Ecco che quindi rispondere positivamente ad
una normativa che impone loro di rinunciare a tale riservatezza penalizzerebbe
78
fortemente l’economia di questi Stati e porterebbe ad una fuga di capitali verso
Stati o territori non soggetti a questo scambio di informazioni.
Pertanto ,secondo la Direttiva, Belgio Lussemburgo ed Austria possono
astenersi dallo scambio di informazioni a patto che applichino, ai redditi in
questione, una ritenuta alla fonte in questo modo organizzata:
• aliquota del 15% nei primi tre anni del periodo transitorio;
• aliquota del 20% per i tre anni seguenti;
• aliquota del 35% successivamente a tali periodi.
In osservanza del criterio generale di tassazione dello Stato di residenza del
beneficiario effettivo è stato previsto un sistema di ripartizione del gettito
derivante dall’applicazione di suddette aliquote secondo cui il 25% andrà allo
Stato membro che opera la ritenuta, mentre il restante 75% allo Stato membro di
residenza del beneficiario effettivo.
A partire dal 1° gennaio 2010, alla luce dell’opzione offerta ai tre Stati
membri dalla direttiva, il Belgio ha deciso di applicare lo scambio automatico di
informazioni rinunciando quindi al regime della ritenuta alla fonte.
Le disposizioni di natura eccezionale che la Direttiva ha previsto sono, in
buona sostanza, volte a mitigare le conseguenze negative che lo scambio di
informazioni porterebbe ad alcuni Stati come quelli sopra menzionati. Senza
dimenticare la ratio fondamentale che guida l’intervento del legislatore
comunitario, consistente nell’evitare fenomeni di doppia imposizione e, al
contempo, intenti elusivi od evasivi, si cerca anche di tutelare alcuni settori
specifici dell’economia di tre Stati membri, anche in considerazione di possibili
“concorrenti” presenti in questi settori. Questi ultimi infatti avrebbero potuto
approfittare della loro esclusione dall’Unione europea, e quindi dall’obbligo di
applicazione di determinate misure come quelle informative, per poter attrarre
capitali esteri.
Ecco che quindi il legislatore comunitario diventa portatore di un principio di
“trasparenza” da un lato e di “tutela” dall’altro. Soltanto l’adozione di una misura
intermedia fra questi due principi può portare ad un giusto livello di tassazione.
79
2.2 Le proposte di modifica della Direttiva.
La Commissione europea, in data 13 novembre 2008, ha presentato al
Consiglio europeo una proposta di modifica della direttiva Risparmio. Tale azione
è stata motivata dal fatto che la direttiva in questione sia caratterizzata solo da una
parziale efficacia per due ordini di motivi:
• la normativa può essere applicata solamente a persone fisiche;
• molti prodotti finanziari sono di fatto esclusi dall’applicazione di suddetta
normativa.
In ragione di tali problematiche la Commissione ha esposto una serie di proposte
tra cui:
•
ampliamento della figura del beneficiario effettivo, includendo non solo
persone fisiche ma anche entità e dispositivi giuridici detenuti da persone
fisiche;
• ampliamento dei dati da ricercare per l’identificazione del beneficiario
effettivo;
•
ampliamento del campo di applicazione della direttiva al fine di includere
anche gli strumenti finanziari equivalenti a quelli già oggetto di
applicazione;
•
estensione a tutti gli OICVM (organismi di investimento collettivo in
valori mobiliari) del campo di applicazione della Direttiva.
80
CAPITOLO 3
La disciplina comunitaria delle royalties: la direttiva 2003/49/CE.
La Commissione europea, alla fine del 1990, ha presentato una bozza iniziale
di una Direttiva sugli interessi e royalties che aboliva le ritenute sui pagamenti
effettuati fra società collegate di Stati membri.
Nonostante tale tematica fosse considerata, nel 1992, tra le priorità per la
formazione di un mercato comune, il Consiglio non è stato in grado di trovare un
accordo in merito, e dunque la proposta non è stata approvata. Soltanto nel 1998
la Commissione ha riproposto la Direttiva su interessi e royalties.
Il 3 marzo 2003 il Consiglio ha adottato la Direttiva 2003/49/CE concernente
il regime fiscale applicato al pagamento di interessi e canoni fra società consociate
di diversi Stati membri dell’Unione europea. Ciò che ha spinto il legislatore
comunitario ad intervenire in tale specifico ambito viene esplicitato tra i
“considerando” preliminari della direttiva in specie. In dettaglio, le ragioni
principali possono essere ricondotte a:
1. l’esigenza di vedere esaudito il principio di non discriminazione
assicurando che il trattamento fiscale dei canoni e/o degli interessi riferiti
ad operazioni fra società di due diversi Stati membri non sia meno
favorevole di quello che si avrebbe se le società appartenessero alla stesso
Stato;
2. l’esigenza di evitare fenomeni di doppia imposizione sia economica che
giuridica;
3. l’esigenza di evitare formalità gravose;
4. l’esigenza di facilitare i flussi di cassa tra le società in questione.
Ai sensi dell’articolo 1 della Direttiva in esame, al ricorrere di determinate
condizioni, che si analizzeranno nel prosieguo della trattazione, i pagamenti di
interessi e royalties, provenienti da uno Stato membro ed erogati nei confronti di
Società o stabili organizzazioni con residenza fiscale in un altro Stato membro,
81
sono esentati da qualsiasi forma di ritenuta alla fonte nello Stato in cui risiede il
soggetto erogatore.
Pertanto, i proventi derivanti dallo sfruttamento economico della proprietà
intellettuale (royalties) possono essere assoggettati a tassazione esclusivamente
nello Stato di residenza del beneficiario effettivo di tali redditi.
In ragione di quanto detto, appare evidente come il legislatore comunitario, al
fine di evitare fenomeni di doppia imposizione internazionale, abbia optato per il
metodo dell’esenzione.
La scelta di tale metodo ha avuto come conseguenza diretta lo spostamento di
gettito a vantaggio dello stato di residenza del beneficiario effettivo dei redditi che
è, in definitiva, nel caso di percezione di royalties, colui che ha esportato la
propria tecnologia.
Uno degli elementi caratteristici, e soprattutto innovativi, della Direttiva in
esame è rappresentato dalla presenza, nell’art. 2 lettera b, di una definizione
univoca di “Canoni” insieme a quella degli “Interessi”. La definizione dei due
termini rappresenta quindi l’oggetto a cui applicare, o non applicare, i benefici
offerti dalla normativa di riferimento. In particolare, si legge che per “canoni” si
intendono:
“i compensi di qualsiasi natura percepiti per l’uso o la concessione in uso del
diritto di autore su opere letterarie, artistiche o scientifiche, comprese le pellicole
cinematografiche, e il software, di brevetti, marchi di fabbrica o di commercio,
disegni o modelli, progetti, formule o processi segreti o per informazioni
concernenti esperienze di carattere industriale, commerciale o scientifico; sono
considerati canoni i compensi per l’uso o la concessione in uso di attrezzature
industriali, commerciali o scientifiche”.
3.1 Requisiti necessari per l’applicazione della Direttiva.
La Direttiva esenta dall’applicazione di ritenute alla fonte i pagamenti di
interessi e canoni al soddisfacimento di determinati requisiti soggettivi sia da
parte del soggetto erogatore che da parte del soggetto percettore.
In particolare, le condizioni richieste si riferiscono a:
82
1. residenza;
2. forma societaria;
3. assoggettamento a imposta;
4. status di società consociata;
5. qualifica di beneficiario effettivo, limitatamente al soggetto percettore.
Prima di procedere ad un’analisi più puntuale di ciascun requisito, giova
precisare come il legislatore comunitario abbia voluto includere come possibile
soggetto coinvolto nello scambio di interessi o canoni la stabile organizzazione.
Al riguardo, l’art. 3 lettera c ne fornisce una puntuale definizione qui di seguito
riportata:
“stabile organizzazione: una sede fissa di affari situata in uno Stato membro,
attraverso la quale una società di un altro Stato membro esercita in tutto o in
parte la sua attività”.
Al riguardo, l’art. 1 punto 8 precisa come suddetta normativa non trovi
applicazione nel caso in cui gli interessi o i canoni siano pagati da o ad una stabile
organizzazione ubicata in uno Stato terzo di una società di uno Stato membro che
esercita in tutto o in parte la propria attività tramite tale stabile organizzazione.
Detto ciò, si prosegue con l’analisi dei requisiti soggettivi previsti dalla
normativa.
3.1.1 La residenza in uno Stato membro.
Affinché la Direttiva trovi applicazione è necessario che le società (o le stabili
organizzazioni) coinvolte nello scambio di interessi o royalties siano residenti ai
fini fiscali (o ubicate) in uno Stato membro. Una società (o una stabile
organizzazione) si considera residente a fini fiscali (o ubicata) in uno Stato
membro sia in base a quanto previsto nella normativa tributaria del singolo Stato
sia in base a quanto previsto all’interno di una eventuale Convenzione contro le
doppie imposizioni stipulata da tale Stato. In linea di principio dunque, una
società (o stabile organizzazione) si dice fiscalmente residente (o ubicata) in uno
Stato membro se non è presente una Convenzione contro le doppie imposizioni
83
firmata da suddetto Stato con uno Stato terzo con la quale si asserisca che tale
società (o stabile organizzazione) è residente (o ubicata) al di fuori della CE.70
3.1.2 Forma societaria.
Si ritiene altresì necessario, ai fini della Direttiva, che le società coinvolte
nello scambio di interessi o royalties rivestano una delle forme giuridiche
nazionali espressamente menzionate nell’allegato della Direttiva. Con riferimento
all’Italia in particolare, si richiede una delle seguenti forme giuridiche:
−
società per azioni;
−
società in accomandita per azioni;
−
società a responsabilità limitata;
−
enti pubblici e privati esercenti attività industriali.
3.1.3 Assoggettamento a imposta.
Ulteriore requisito richiesto è l’assoggettamento della società ad una delle
imposte nazionali elencate nell’art. 3 lettera A della Direttiva. Ma al fine di non
rendere eccessivamente restrittiva tale elencazione il legislatore comunitario ha
optato per una formula legislativa di più ampio spettro con la quale prevede
incluse in suddetta lista anche le imposte identiche o sostanzialmente simili
applicate dopo la data di entrata in vigore della Direttiva, in aggiunta o in
sostituzione di quelle esplicitamente presenti nell’elenco.
70
Il regime di esonero vale anche per i pagamenti effettuati da una stabile organizzazione,
situata nel territorio dello stato, di società residente in un altro Stato membro, a patto che detta
società rivesta una delle forme giuridiche previste nell’allegato del decreto legislativo e soddisfi
gli altri requisiti previsti dalla normativa. In aggiunta, la stabile organizzazione deve essere
soggetta ad imposta sul reddito delle società ed i canoni e gli interessi devono essere inerenti alla
stabile organizzazione stessa. Giova altresì specificare che la Direttiva non da rilievo autonomo
alla stabile organizzazione, è infatti pur sempre necessario che la casa madre sia una società di
uno Stato membro Per tale motivo, quando si parla di stabili organizzazioni, i requisiti previsti
dalla Direttiva devono riguardare non solo queste ultimi ma anche le rispettive società di
appartenenza.
84
3.1.4 Status di società consociata.
Ai sensi dell’art. 3 lettera B, prendendo in considerazione, a titolo di esempio,
una società (A) e una società (B), il rapporto partecipativo che permette di definire
queste due società “consociate” può essere alternativamente considerato:
−
come (A) che detiene una partecipazione minima diretta del 25% nel
capitale di (B);
−
come (B) che detiene una partecipazione minima diretta del 25% nel
capitale di (A);
−
come una terza società (C) che detiene una partecipazione diretta minima
del 25% nel capitale sia di (A) che di (B).
3.1.5
Qualifica di beneficiario effettivo, limitatamente al soggetto
percettore.
La società che percepisce gli interessi o i canoni derivanti dallo sfruttamento
di una proprietà intellettuale è considerata beneficiaria effettiva di tali redditi, ai
sensi dell’art. 1 comma 4 della Direttiva, se riceve tali pagamenti come
beneficiaria finale e non come intermediaria, agente, delegata o fiduciaria di
un’altra società.
Per ciò che concerne la stabile organizzazione, il requisito in esame si ritiene
soddisfatto se il credito, il diritto o l’utilizzo delle informazioni che generano i
pagamenti di canoni si ricollegano effettivamente a tali stabili organizzazioni e
suddetti canoni rappresentano redditi per i quali esse sono assoggettate nello stato
membro in cui sono ubicate ad una delle imposte espressamente indicate dalla
normativa ovvero ad un’imposta identica o sostanzialmente simile applicata in
aggiunta o in sostituzione di dette imposte.
Giova altresì dare conto del disposto dell’articolo 6 relativo alla disciplina
transitoria per la Grecia, la Spagna e il Portogallo. In merito si esplicita che la
Grecia e il Portogallo sono autorizzati a non applicare quanto previsto
nell’articolo 1 della Direttiva in esame, permettendo che, per un periodo
transitorio di otto anni, suddetti Stati possano applicare una ritenuta alla fonte ai
85
pagamenti di canoni verso una consociata di un altro Stato membro che non superi
il 10% nei primi quattro anni e il 5% nei successivi quattro.
Per ciò che concerne la Spagna, l’aliquota autorizzata non può superare il 10%
ed il periodo transitorio sarà di sei anni.
La Direttiva fa salva la possibilità di applicare aliquote ulteriormente inferiori
in ragione di accordi bilaterali tra la Grecia, la Spagna o il Portogallo ed altri Stati
membri.
Il secondo comma dell’articolo 6 aggiunge, altresì, che la società di uno Stato
membro che riceve canoni da una società situata in uno dei tre Stati sopra
menzionati, dovrà ottenere, nel proprio Stato di residenza, una detrazione pari
all’imposta pagata su tale reddito in Grecia Portogallo o Spagna.
3.2 Norma antielusiva.
La Direttiva in esame, come la Direttiva madre- figlia, prevede la possibilità
di applicare dispositivi nazionali, o basati su accordi, necessari per combattere
fenomeni di abuso e di frode. Ciò significa che gli Stati membri avranno facoltà di
disapplicare il disposto previsto dalla Direttiva nel caso in cui vengano poste in
essere operazioni al solo scopo di evadere imposte o di ottenere risparmi fiscali.
3.3 Il difficile raccordo tra la disciplina comunitaria e la disciplina nazionale.
In Italia la Direttiva è stata recepita con D. Lgs num. 143 il 30 maggio 2005,
in attuazione della delega ricevuta dalla legge num. 306 del 31 ottobre 2003.
L’attuazione vera e propria della Direttiva è avvenuta fondamentalmente
attraverso l’inserimento, all’interno del D.P.R. del 29 settembre 1973 num. 600, di
un nuovo articolo, il 26 quater, titolato “Esenzione dalle imposte sugli interessi e
sui canoni corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unione Europea”.
Agli effetti del comma 3, lettera a) dell’articolo 26 quater del dpr 600/1973 si
considerano canoni:
86
“i compensi di qualsiasi natura percepiti per l’uso o la concessione in uso: del
diritto d’autore su opere letterarie, artistiche o scientifiche, comprese le pellicole
cinematografiche e il software; di brevetti, marchi di fabbrica o di commercio,
disegni o modelli, progetti, formule o processi segreti o per informazioni
concernenti esperienze di carattere industriale, commerciale o scientifico; di
attrezzature industriali, commerciali o scientifiche”.71
Come si è avuto modo di appurare, il legislatore tributario nazionale non ha
affrontato la tematica dell’imposizione fiscale delle royalties con il medesimo
approccio del legislatore comunitario il quale si è preoccupato di dare una
puntuale e autonoma definizione di tali corrispettivi.
Pertanto, la principale difficoltà dell’esperienza italiana sta nel raccordare la
definizione comunitaria di royalty con una categoria che nel diritto tributario
nazionale, come si è avuto modo di vedere, di fatto non esiste.
La grande novità apportata dal legislatore comunitario sta proprio nel fatto di
aver definito per la prima volta il termine royalty. In questo modo egli ha
ammesso la presenza di una disciplina autonoma e indipendente per questa
categoria di reddito.
Il legislatore nazionale, dal canto suo, non ha fatto altrettanto; in questo modo
ha reso necessario un percorso interpretativo di non poca complessità al fine di
catalogare i proventi derivanti dallo sfruttamento di beni immateriali fra i redditi
diversi ovvero fra i redditi di lavoro autonomo ovvero fra i redditi d’impresa a
seconda dell’identità dei soggetti percettori e dello schema contrattuale adottato.
Pertanto, le due “versioni” di royalty, una intesa dal legislatore nazionale
l’altra da quello comunitario, non sono coestensive e neanche una racchiude
l’altra prevedendo il legislatore comunitario dei requisiti soggettivi del tutto
sconosciuti a quello nazionale. Quest’ultimo infatti tende a relazionare il concetto
di royalty più che altro alla proprietà industriale escludendo le attrezzature
71
La definizione fatta propria dal D. lgs. 143/2005 e, conseguentemente, dall’articolo 26
quater coincide con quella adottata dalla Direttiva UE. Tuttavia, la nozione adottata dall’articolo
12 del Modello di Convenzione OCSE, come si vedrà, non comprende i compensi percepiti per
l’uso o la concessione in uso di attrezzature industriali, commerciali, o scientifiche. Nel
Commentario al Modello OCSE si precisa che il riferimento a tali compensi era contenuto nel
Modello OCSE del 1977 e che attraverso la modifica apportata si voleva ricondurre la tassazione
di tali proventi all’ambito di applicazione degli artt. 5 e 7 del Modello, ossia fra i redditi di
impresa.
87
industriali, commerciali e scientifiche espressamente menzionate dal legislatore
comunitario.
In ultimo, giova altresì rilevare che il legislatore comunitario con il suo
intervento non ha voluto (né avrebbe potuto) imporre ai singoli Stati di
predisporre una disciplina autonoma per le royalties. In questo modo però si è
venuta a creare una “rivoluzione incompiuta” con la quale si è cristallizzata la
situazione che si sta vivendo oggi. L’interprete pertanto, è costretto ad operare su
più livelli normativi a seconda della natura comunitaria o meno del provento.
SEZIONE V
Inquadramento fiscale delle royalties nella disciplina
internazionale.
Premessa
Nel momento in cui il flusso di royalties si concretizza fra un soggetto
residente e un soggetto non residente il reddito acquista carattere transnazionale e
parallelamente assume una piena autonomia.
Le royalties corrisposte a livello internazionale trovano una propria disciplina,
nell’ordinamento nazionale, nell’art. 23 comma 2 lettera C del Testo unico.72
Secondo suddetta normativa, i compensi per l’uso di opere d’ingegno, di brevetti
industriali, di marchi d’impresa o ancora di processi, formule, informazioni
relativi al campo industriale, commerciale o scientifico sono considerati prodotti
nel territorio dello Stato (e quindi tassati nel territorio dello Stato) se pagati da
soggetti ivi residenti.
La normativa interna prevede, quindi, un criterio di tassazione delle royalties
derivanti dallo sfruttamento di beni immateriali nello Stato della fonte.
72
Si vedrà un approfondimento di tale articolo nel paragrafo XX, “La ritenuta alla fonte a
sostegno della tesi che valorizza l’autonomia delle royalties”.
88
Dalla disamina di tale articolo emergono importanti conseguenze: in primis
viene fissato, e limitato, il potere impositivo dello Stato su suddetti redditi in
quanto il criterio utilizzato dal legislatore è basato sulla residenza del soggetto
pagatore e non sulla qualificazione del reddito. Ma ciò che appare evidente, e di
estrema importanza, è che per questa tipologia di compensi viene riconosciuta una
netta autonomia eliminando ogni possibilità di riferimento, da parte di soggetti
non residenti, ad altre categorie di reddito.
Arrivati a questo punto, sostenere l’esistenza di una categoria autonoma per le
royalties diventa una scelta obbligata. Se così non fosse, ci si ritroverebbe con un
sistema d’imposizione dei redditi che varia a seconda del carattere internazionale
o meno del provento in questione. Pertanto, a livello interno, non si pone più il
problema di stabilire l’effettiva esistenza o meno di una categoria a sé per le
royalties ma si tratta di trovare una conferma di una soluzione già adottata
altrove73.
CAPITOLO 1
La tassazione delle royalties transnazionali in assenza di una
convenzione contro le doppie imposizioni.
1.1 Royalties in uscita e Royalties in entrata.
La specificità e l’autonomia della categoria delle royalties trova ulteriore
conferma nella presenza dell’art. 25 del DPR 600/73 che ne disciplina il
trattamento fiscale in assenza di una convenzione contro le doppie imposizioni.
Ma, procedendo con ordine, di seguito si propone un’analisi della disciplina
fiscale applicata in Italia nei confronti delle royalties in uscita e delle royalties in
entrata.
73
Vi sono alcuni Paesi, ad esempio l’Olanda, che sono un passo avanti rispetto all’Italia. Essi
hanno attribuito alle royalties derivanti da brevetti un’autonoma disciplina interna. Nel caso
dell’Olanda si prevedono forme di tassazione separata con aliquota del 10%.
89
Per ciò che concerne le prime, esse sono individuabili nelle royalties
corrisposte da un soggetto residente in Italia ad un soggetto non residente in Italia.
In questo caso è l’Italia ad essere lo Stato della fonte, mentre l’altro sarà lo Stato
di residenza del percettore delle royalties.
Il criterio di tassazione nello Stato della fonte, sancito dal già citato art. 23 del
TUIR, prevede che quando i proventi in esame sono erogati da un soggetto
residente in Italia a favore di un’impresa non residente, al verificarsi delle
condizioni di cui al primo comma lett. f) o al secondo comma lett. c), essi saranno
assoggettate a tassazione in Italia.
Più specificamente, la tassazione delle royalties in capo a soggetti non
residenti dipende dalla presenza o meno di una stabile organizzazione. In
particolare si distinguono tre casistiche:
1. Royalties corrisposte a una SO italiana di un soggetto non residente.
2. Royalties corrisposte a un soggetto non residente privo di SO.
3. Royalties corrisposte a società consociate residenti in uno Stato membro
dell’UE.
Nel primo caso è in vigore la regola per cui tutti i redditi di fonte italiana sono
tassati in Italia per il principio di attrazione, seguendo, quindi le stesse regole
applicabili nei confronti dei residenti. Pertanto, sulla base di questo ragionamento,
anche i canoni erogati da un’impresa italiana nei confronti di una SO in Italia di
un soggetto non residente entrano a far parte del reddito di impresa prodotto dalla
SO stessa in Italia e, come tali, saranno assoggettate a IRES ed anche ad IRAP se
il soggetto non residente avrà mantenuto la propria SO in Italia per almeno tre
mesi.
Nel secondo caso invece le royalties non rientreranno nella categoria dei
redditi di impresa, per cui non saranno assoggettate a IRES, bensì ad una ritenuta
alla fonte a titolo di imposta. Pertanto, il reddito corrisposto ad un soggetto non
90
residente viene tassato autonomamente sulla base del principio del “trattamento
isolato dei redditi”.74
L’obbligo per il soggetto residente (erogante) di operare una ritenuta alla fonte
è sancito dal già citato art. 25 del DPR 600/73 il quale recita:
“I compensi di cui all’art. 23, comma 2 lettera c) del testo unico delle imposte
sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.
917, corrisposti a non residenti, sono soggetti ad una ritenuta del trenta per cento
a titolo di imposta sull’ammontare dei compensi corrisposti a non residenti per
l’uso di attrezzature industriali, commerciali o scientifiche che si trovano nel
territorio dello Stato. Ne sono esclusi i compensi corrisposti a stabili
organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti”.
Per quanto riguarda infine il terzo caso, entra in gioco la già esaminata
direttiva 2003/49/CE che disciplina il trattamento fiscale dei pagamenti a titolo di
interessi e royalties fra società consociate facenti parte dell’Unione europea.
Come già ampliamente descritto nella precedente sezione, obiettivo di
suddetta disposizione comunitaria è quello di introdurre un sistema di tassazione
di interessi e royalties comune a tutti gli Stati membri in modo da contrastare
possibili casi di doppia imposizione. Tale finalità è stata raggiunta adottando il
principio di tassazione degli interessi e delle royalties esclusivamente nel Paese di
residenza del percettore (effettivo). Pertanto suddetti proventi saranno
esclusivamente tassati negli Stati membri in cui sono ubicate le società
beneficiarie.
Con riguardo, infine, alle royalties in entrata, qualora un’impresa residente
percepisca tali proventi dall’estero, il diritto interno provvederà a qualificarli tra i
componenti positivi del reddito di impresa, soggetti a tassazione in Italia ai sensi
dell’art. 2 del TUIR in base al principio del worldwide principle.
Applicando criteri reciproci a quelli previsti dall’art. 23 del TUIR per
individuare i redditi prodotti nel territorio dello Stato, le royalties erogate da
74
A. DRAGONETTI,V. PIACENTINI,A. SFONDRINI in Manuale di fiscalità internazionale, cap. XV
Il regime impositivo delle royalties nel diritto tributario internazionale.
91
soggetti non residenti a favore di imprese italiane verranno considerate redditi
prodotti all’estero e, in quanto tali, potranno beneficiare del credito per le imposte
ivi pagate a titolo definitivo ai sensi dell’art. 165 del Tuir75.
1.2 Il calcolo della base imponibile.
La difficoltà che emerge, in questo contesto, è quella relativa al calcolo della
base imponibile.
Nel caso di compensi di cui all’art. 23, comma 2, lett C) (royalties per lo
sfruttamento di beni immateriali), al fine di determinare la parte imponibile del
compenso sul quale deve essere operata la ritenuta, occorre far riferimento:
•
all’art. 54 comma 8 del TUIR per le royalties pagate direttamente
all’autore o inventore76;
75
I primi 5 commi dell’art. 165 del TUIR così recitano:1. Se alla formazione del reddito
complessivo concorrono redditi prodotti all'estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali
redditi sono ammesse in detrazione dall'imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota
d'imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all'estero ed il reddito complessivo al
netto delle perdite di precedenti periodi d'imposta ammesse in diminuzione.
2. I redditi si considerano prodotti all'estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti
dall'articolo 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato.
3. Se concorrono redditi prodotti in piu' Stati esteri, la detrazione si applica separatamente
per ciascuno Stato.
4. La detrazione di cui al comma 1 deve essere calcolata nella dichiarazione relativa al
periodo d'imposta cui appartiene il reddito prodotto all'estero al quale si riferisce l'imposta di cui
allo stesso comma 1, a condizione che il pagamento a titolo definitivo avvenga prima della sua
presentazione. Nel caso in cui il pagamento a titolo definitivo avvenga successivamente si applica
quanto previsto dal comma 7.
5. Per i redditi d'impresa prodotti all'estero mediante stabile organizzazione o da societa'
controllate di cui alla sezione III del capo II del Titolo II, la detrazione puo' essere calcolata
dall'imposta del periodo di competenza anche se il pagamento a titolo definitivo avviene entro il
termine di presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo d'imposta successivo.
L'esercizio della facolta' di cui al periodo precedente e' condizionato all'indicazione, nelle
dichiarazioni dei redditi, delle imposte estere detratte per le quali ancora non e' avvenuto il
pagamento a titolo definitivo.(…)
76
L’art. 54 comma 8 del TUIR recita: “8. I redditi indicati alla lett. b) del comma 2 dell'articolo
53 sono costituiti dall'ammontare dei proventi in denaro o in natura percepiti nel periodo di
imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, ridotto del 25 per cento a titolo di
deduzione forfettaria delle spese, ovvero del 40 per cento se i relativi compensi sono percepiti da
soggetti di eta' inferiore a 35 anni; le partecipazioni agli utili e le indennità di cui alle lettere c), d)
ed e) costituiscono reddito per l'intero ammontare percepito nel periodo di imposta. I redditi
indicati alla lettera f) dello stesso comma sono costituiti dall'ammontare dei compensi in denaro o
in natura percepiti nel periodo d'imposta, ridotto del 15 per cento a titolo di deduzione forfettaria
delle spese”.
92
•
all’art. 71 comma 1 del TUIR per le royalties corrisposte a soggetti diversi
dall’autore o inventore.77
Sulla base di suddette disposizioni, il compenso lordo sarà abbattuto
forfetariamente del 25% se il beneficiario del compenso è l’autore o l’inventore
del bene immateriale o se ne è il titolare in virtù di un acquisto a titolo oneroso.
Al contrario, se il beneficiario ha acquisito i diritti di utilizzazione del bene a
titolo gratuito, la ritenuta verrà applicata sull’intero ammontare delle royalties
corrisposte. Sarà pertanto necessario, da parte del sostituto d’imposta, accertare
preventivamente il titolo di acquisto del diritto.
I compensi corrisposti per l’uso o la concessione in uso di attrezzature
industriali, commerciali o scientifiche (royalties per l’utilizzo di beni strumentali)
sono riconducibili tra i redditi diversi di cui all’art. 67 comma 1, lett. h) del
TUIR78 e la ritenuta del 30% si applica sul loro intero ammontare, senza il
riconoscimento di alcuna deduzione, analitica o forfetaria, delle spese ad esse
inerenti.79
Questo tipo di soluzione però è piuttosto rischiosa dal momento che potrebbe
generare dei salti d’imposta. Il soggetto estero titolare della proprietà intellettuale
potrebbe, infatti, aver già goduto nel proprio paese d’origine del riconoscimento
dei costi sostenuti per la produzione dell’invenzione. Si pensi, a titolo di esempio,
al titolare di un brevetto residente in un paese estero che concede in licenza il suo
bene a un soggetto residente in Italia a fronte del pagamento di royalties.
L’inventore avrà diritto, all’interno del proprio Paese, alla deduzione dei costi
sostenuti per la creazione dell’invenzione sulla base della normativa vigente in
77
1.L’ art. 71 comma 1 del TUIR recita: “I redditi di cui alla lettera g) del comma 1 dell'articolo
67 costituiscono reddito per l'ammontare percepito nel periodo di imposta, ridotto del 25 per
cento se i diritti dalla cui utilizzazione derivano sono stati acquistati a titolo oneroso”.
78
Art. 67 comma 1, lett. h) del TUIR: “i redditi derivanti dalla concessione in usufrutto e dalla
sublocazione di beni immobili, dall'affitto, locazione, noleggio o concessione in uso di veicoli,
macchine e altri beni mobili, dall'affitto e dalla concessione in usufrutto di aziende; l'affitto e la
concessione in usufrutto dell'unica azienda da parte dell'imprenditore non si considerano fatti
nell'esercizio dell'impresa, ma in caso di successiva vendita totale o parziale le plusvalenze
realizzate concorrono a formare il reddito complessivo come redditi diversi”.
93
tale paese, dopo di che beneficerà di un ulteriore abbattimento del reddito
prodotto in Italia grazie al riconoscimento forfetario dei costi.
Pertanto, ciò che si vuole evidenziare è che un differente riconoscimento dei
costi inerenti la proprietà intellettuale (magari analiticamente a livello nazionale e
forfetariamente in altri casi) conduce al rischio che tali costi siano riconosciuti due
volte.
Risulta altrettanto evidente, però, che se esiste un pericolo di salto d’imposta
esiste anche un rischio di doppia imposizione internazionale nel caso in cui il
reddito prodotto venga tassato sia nel Paese estero, in base al principio di
residenza, sia in Italia, in base al criterio della fonte. Nondimeno, a scongiurare
quest’ultima possibilità ci pensano le Convenzioni contro le doppie imposizioni
attraverso una riduzione (o un’eliminazione) della ritenuta alla fonte, e a livello
nazionale il legislatore riconosce un credito d’imposta ai sensi dell’art. 165 del
Testo unico.
Pertanto, il riconoscimento forfetario dei costi dovrebbe essere lecito fintanto
che l’operazione avviene a livello nazionale80. Nel caso in cui il licenziante,
titolare della proprietà intellettuale, sia residente in un Paese estero che adotta
criteri di tassazione ancorati alla territorialità pura ci sarà un forte rischio di salto
d’imposta, mentre se il Paese estero adotta, come l’Italia, il principio di tassazione
sul reddito mondiale, il problema non sussiste.
Ciò detto, la scelta di estendere automaticamente la disciplina delle royalties,
e quindi il riconoscimento forfetario dei costi, ai soggetti non residenti avviene
per due sostanziali ragioni:
-
l’esigenza di rispettare il principio di non discriminazione riconosciuto a
livello internazionale. La scelta di voler rifiutare, a priori, il
riconoscimento forfetario dei costi a soggetti non residenti, sarebbe potuto
essere interpretato come discriminatorio nei confronti di questi ultimi;
79
L’Agenzia delle Entrate ha chiarito, a tal proposito, nella circolare 47/E del 2 novmbre 2005
che l’applicazione di una ritenuta a titolo di imposta esclude la possibilità di dedurre le spese
inerenti alla produzione di tali compensi ai sensi dell’art. 71, comma2, del TUIR.
94
-
per ragioni di semplicità applicativa del sistema.
In un simile contesto però, pare pacifico come, pur nel rispetto della non
discriminazione, i soggetti residenti e i non residenti si trovino spesso in situazioni
nettamente diverse e che, in ragione di una diversa localizzazione, sia
giustificabile un trattamento tributario differente.
Detto ciò, basterebbe una formula legislativa più puntuale e “accorta” in base
alla quale il legislatore riconoscerebbe l’abbattimento forfetario al soggetto non
residente soltanto dopo che questi abbia dimostrato la sua impossibilità ad operare
deduzioni nel proprio paese d’origine.
Pertanto, dal momento che il legislatore riconosce autonomia reddituale alle
royalties di carattere internazionale, è costretto a ricondurre suddetti redditi.ad una
delle categorie del diritto interno. In proposito sembra chiaro che abbia optato per
l’art 53 comma 2 del Testo unico, ossia per i redditi (assimilati a quelli) di lavoro
autonomo.
Tale decisione comporta, però, non poche problematiche, per ciò che concerne
la considerazione dei costi, nel momento in cui il licenziante estero è un
imprenditore e come tale produce redditi d’impresa. Egli infatti, stipulando un
contratto di licenza con un soggetto italiano, si troverà ad avere nel suo reddito di
impresa, calcolato con criterio analitico, una componente che ha già beneficiato di
una deduzione forfetaria nel Paese da cui proviene (Italia). Questa situazione
comporterà uno spostamento del baricentro di prelievo in favore dello Stato estero
in quanto la deduzione forfetaria non concorrerà ad abbattere la base imponibile
determinata in quest’ultimo Stato. Pertanto, il legislatore, nel tentativo di
armonizzare la disciplina fiscale internazionale delle royalties e quella interna, ha
di fatto esteso il criterio nazionale di determinazione della base imponibile al
contesto internazionale quando in realtà tale metodo è adatto soltanto per i redditi
prodotti al di fuori dell’attività di impresa.
80
M. GREGGI, in Profili fiscali della proprietà intellettuale nelle imposte sui redditi, parte IV:
Le royalties nel diritto tributario internazionale, pg 215 e ss.
95
Detto ciò, pare evidente come il legislatore, riconoscendo un’autonoma
disciplina per i redditi in questione a livello internazionale ma non facendo
altrettanto a livello nazionale, lascia aperti diversi interrogativi in quanto i prelievi
tributari saranno differenti a causa di un differente riconoscimento dei costi
deducibili dalla base imponibile da Stato a Stato.
1.3
La ritenuta alla fonte a sostegno della tesi che valorizza
l’autonomia delle royalties.
Con riferimento all’ordinamento italiano si è detto che le “royalties in uscita”
sono i compensi corrisposti da un soggetto residente in Italia ad un soggetto non
residente in Italia.
La tassazione di suddetti proventi avviene con riferimento all’art. 25 ultimo
comma del DPR 600/73, ossia mediante l’applicazione di una ritenuta alla fonte
del 30% sull’ammontare del provento ridotto del 25% nel caso in cui sia percepito
dall’effettivo autore o inventore oppure da un soggetto che abbia acquisito a titolo
oneroso il diritto allo sfruttamento dell’opera.
La norma fa, evidentemente, riferimento ai casi in cui tali proventi siano
estranei a qualsiasi attività di impresa, in caso contrario questi subiranno la vis
attractiva dei redditi di impresa commerciale e, pertanto, non sarà ammessa
nessuna deduzione forfetaria.
Con riferimento a questa affermazione ci sono tre possibili conseguenze:
1. l’esistenza o meno delle royalties come categoria autonoma dipende dalla
qualifica del soggetto percettore. Se questi è considerato imprenditore
commerciale, i proventi da lui percepiti rientreranno nel quadro dei redditi
di impresa;
2. secondo una seconda interpretazione, supportata dal Modello di
convenzione OCSE e dal legislatore italiano, l’autonomia della categoria
96
delle royalties dipende non dalla qualifica soggettiva del percettore bensì
dalla tipologia di contratto stipulato e dalla natura giuridica del bene;
3. l’ultima
interpretazione,
definibile
come
intermedia,
prende
in
considerazione la combinazione dei disposti dell’art. 23 comma 1 lett. e e
comma 2 lett. c:
Art. 23 comma 1 lett. e: “ai fini dell’applicazione dell’imposta nei confronti dei non residenti
si considerano prodotti nel territorio dello Stato: (…) i redditi di impresa derivanti da attività
esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni”
Art. 23 comma 2 lett. c “(…) Indipendentemente dalle condizioni di cui alle lettere c), d), e) e
f) del comma 1 si considerano prodotti nel territorio dello Stato, se corrisposti dallo stato, da
soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di
soggetti non residenti: (…) i compensi per l’utilizzazione di opere di ingegno, di brevetti
industriali e di marchi di impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad
esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico”.
In base a quanto stabilito da suddetta norma, dunque, il reddito d’impresa
prodotto da un soggetto non residente in Italia può essere ivi tassato solo se
prodotto tramite una Stabile organizzazione in Italia. Se ciò accade, tutte le
componenti reddituali di tale soggetto saranno ricondotte alla categoria di reddito
d’impresa e tassate come tali.
Il comma 2 però, precisa come alcune componenti reddituali dei soggetti non
residenti siano considerate di particolare natura e dunque subiscano un trattamento
fiscale indipendente dalla regola generale appena esposta. Tra questi redditi vi
sono anche le royalties.
Pare pacifico affermare, a questo punto, che le royalties sfuggono dalla
tradizionale collocazione all’interno del Testo unico e dalla vis attractiva della
stabile organizzazione e, quindi, del reddito d’impresa.
A sostegno di tale tesi, si aggiunge il disposto dell’art. 25 comma 2 del DPR
600/73 là dove impone una ritenuta del 30% per determinate attività anche se
97
svolte da soggetti esteri nel quadro di una più complessiva attività d’impresa
commerciale. Ancora più rilevante risulta essere il comma 4 del medesimo
articolo, in questo caso il legislatore, in attuazione della direttiva europea del
2003, prevede l’applicazione di una ritenuta del 30% per tutti i pagamenti per
l’uso o la concessione in uso di proprietà intellettuali.
Pertanto, ciò che preme evidenziare è che l’autonomia e la specificità della
categoria delle royalties appare evidente non tanto per la previsione di
un’imposizione sostitutiva che arriva ad un’aliquota del 30% quanto per il fatto
che questo sistema di tassazione si pone in deroga al generalizzato impatto della
vis attractiva dei redditi d’impresa commerciale.
1.4
La forza di attrazione delle stabile organizzazione (nella
corresponsione di royalties fra soggetti non residenti).
Orbene, alla luce di quanto finora detto, ai sensi dell’art. 23 comma 1 lett. e) si
ritengono assoggettabili ad imposta i redditi prodotti in Italia tramite stabile
organizzazione a patto che esista un rapporto di natura strumentale tra questi e la
stabile organizzazione stessa. Nondimeno, all’interno dello stesso articolo ma al
secondo
comma
vengono
menzionati
una
serie
di
proventi
che
“indipendentemente dalle condizioni di cui alle lettere precedenti del comma 1 si
considerano prodotti nel territorio dello Stato se corrisposti dallo Stato, da
soggetti residenti (…)o da stabili organizzazioni nel territorio stesso”. Fra queste
categorie di proventi alla lettera c) vengono inserite le royalties.
Pertanto, emerge come queste ultime subiscano un trattamento del tutto
differenziato e indipendente rispetto alle altre categorie di reddito, un altro aspetto
che avvalora la tesi dell’autonomia reddituale di tale categoria.
Tuttavia, c’è forse un’ipotesi in cui la presenza di una stabile organizzazione
nel nostro Paese (di un soggetto non residente) influisce sui criteri di
localizzazione delle royalties derogando così ai criteri di territorialità. Si tratta del
caso in cui la SO percepisca dei proventi derivanti dalla concessione di un bene
98
immateriale di cui è titolare (o meglio, la società non residente è titolare attraverso
di essa), da parte di un soggetto anch’esso non residente. In tal caso, alla domanda
se tali proventi concorrano a formare la base imponibile della SO si può
rispondere in due modi:
1. AFFERMATIVAMENTE. In questo modo si giunge alla conclusione
forse più scontata, ossia che il reddito prodotto dalla SO nel nostro Paese è
e resta comunque reddito di impresa e che pertanto viene tassato in Italia
in forza del già citato art. 23 comma 1 lett e) del testo unico. Si tratta di
una soluzione che permette la tassazione in Italia di un reddito proveniente
da un’attività che solo indirettamente può essere considerata svolta nel
nostro Paese anche se in un simile contesto occorrerebbe chiedersi quale
sia realmente l’attività rilevante: se quella che ha dato origine al bene
immateriale, oppure l’attività di concessione dello stesso mediante lo
strumento contrattuale, oppure ancora l’attività del soggetto terzo in
regime di concessione.
2. NEGATIVAMENTE. In questo caso quindi si opta per la detassazione dei
canoni percepiti dalla stabile organizzazione di un soggetto non residente
nel Paese in cui la prima è localizzata. Tale tesi può far forza sul fatto che
il criterio di localizzazione delle royalties è, nel sistema dell’art. 23 del
Testo Unico, sempre e comunque diverso da quello dei redditi di impresa e
pertanto non subirebbe la forza di attrazione del cespite reddituale e quindi
ancora meno della stabile organizzazione. D’altronde si è visto che il
comma 2 dell’art. 23 del Testo unico fissa la territorialità dei canoni sulla
base del soggetto pagatore indipendentemente dai criteri di territorialità
dei redditi di impresa.
Ciò detto, la presenza di una SO e la possibilità di riferire a quest’ultima le
royalties pagate da un soggetto non residente impone allora nuove riflessioni circa
la tesi dell’autonomia reddituale delle royalties. In tale contesto giova rilevare che
99
il legislatore tributario si è interessato di SO di un soggetto non residente anche
all’art. 151 comma 2 del Testo unico81 che assume rilevanza fondamentale.
In particolare, operando un’analisi comparativa dell’art. 23 e dell’art. 151 si
può dedurre quanto segue: se è vero che l’art. 23 ritiene assoggettabile ad imposta
i redditi prodotti in Italia tramite SO purché vi sia un nesso strumentale fra questi
e la stessa SO, l’art. 151 sembra andare oltre questo aspetto. Esso introduce quello
che in dottrina viene riconosciuto come forza di attrazione della stabile
organizzazione localizzata in Italia, in base alla quale tutti i redditi prodotti sul
territorio ed imputabili ad un soggetto non residente che opera in Italia tramite una
stabile organizzazione, sono ivi tassati perché attribuiti alla stabile organizzazione
stessa. Questo anche indipendentemente dal nesso di natura strumentale a cui
prima ci si era riferiti.
Orbene, non è ancora completamente chiaro se tale forza di attrazione si
sviluppi soltanto con riferimento a determinati proventi, oppure, al contrario,
abbia una valenza più generica e pertanto tutti i redditi prodotti in Italia da un
soggetto non residente vadano invece imputati alla sua SO e fatti rifluire
nell’ambito dei redditi d’impresa.
La maggior parte degli autori82 si è sostanzialmente pronunciata in favore di
quest’ultima tesi. Al riguardo va evidenziato che tale ricostruzione trova punti di
conferma nell’analisi combinata degli art. 151 e 152 del Testo unico83
Quest’ultimo in particolare dispone che il reddito della stabile organizzazione
è determinato mediante l’applicazione delle norme in materia di reddito di
impresa.
81
Art. 151 Tuir, “Reddito complessivo”, comma 2: “Si considerano prodotti nel territorio dello
stato i redditi indicati nell'articolo 23, tenendo conto, per i redditi d'impresa, anche delle
plusvalenze e delle minusvalenze dei beni destinati o comunque relativi alle attivita' commerciali
esercitate nel territorio dello stato, ancorché non conseguite attraverso le stabili organizzazioni,
nonché gli utili distribuiti da società ed enti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 73 e
le plusvalenze indicate nell'articolo 23, comma 1, lettera f)”.
82
Per tutti, GARBARINO “La tassazione dei Redditi di impresa multinazionali” in Diritto
tributario.
83
Art 152 Tuir: “Determinazione del reddito complessivo” 1. Per le società e gli enti
commerciali con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, eccettuate le società semplici, il
reddito complessivo é determinato secondo le disposizioni della sezione I del capo II del titolo II,
sulla base di apposito conto economico relativo alla gestione delle stabili organizzazioni e alle
altre attività produttive di redditi imponibili in Italia.
100
Tale ricostruzione dunque, può essere confermata soprattutto in seguito al
supporto che l’autorevole dottrina gli dimostra in merito alla localizzazione del
provento.
Più discutibile risulta essere invece la riqualificazione del provento fra i
redditi di impresa. Una tale affermazione comporta una riflessione: nel momento
in cui l’art. 152 introduce il concetto di forza d’attrazione della SO impone che
tutti i redditi prodotti in Italia da non residenti e indicati al comma 1 art. 23 siano
imputati a tale SO, ma non così evidentemente stabilisce che gli stessi debbano
rientrare fra i redditi d’impresa.
Per cui una possibile soluzione alternativa potrebbe essere quella per cui la
presenza di una SO comporterebbe la tassazione dei redditi in Italia, questi ultimi
però non perderebbero la loro autonomia se non connessi in maniera
strumentale/funzionale all’attività della SO.
Alla luce di quanto detto, per quanto riguarda le royalties, queste, a differenza
di tutti gli altri redditi, vengono qualificate dal legislatore in maniera
“indipendente” al secondo comma dell’art. 23 del Testo unico. Esse seguono un
criterio di localizzazione che potrebbe essere definito come “unico” o “assoluto”.
Vengono considerate prodotte nel territorio dello Stato a prescindere da quanto
detto nel comma 1 e quindi a prescindere anche dalle disposizioni in materia di
SO.
Pertanto, è possibile sostenere che le royalties verranno assoggettate ad
imposta nel nostro paese se e solo se pagate ad un soggetto ivi residente o ad una
SO qui localizzata poiché il bene immateriale ceduto in licenza appartiene al
patrimonio di questa (caso 1). Ed infine, (caso 2) le royalties percepite da una SO
e pagate da un soggetto non residente e comunque non riferite all’attività di
quest’ultima non verranno assoggettate ad imposta in Italia perché carenti del
requisito della territorialità.
Questa differenza si spiega per il fatto che nel primo caso le royalties vengono
assoggettate ad imposta in Italia per il fatto che la SO sia titolare dell’proprietà
intellettuale (o comunque questa possa essere oggetto di disposizione da parte
della SO in quanto a sua volta ne sia titolare in forza di licenza o altro contratto).
101
Nel secondo caso invece, la royalties percepita dalla SO non è riferibile alla
sua attività, siamo di fronte quindi al pagamento di un corrispettivo da parte di un
soggetto non residente verso un altro soggetto non residente! (quest’ultimo
sarebbe colui che opera in Italia tramite la SO), per cui è assente il requisito della
territorialità.
1.5 L’imputazione temporale delle royalties.
L’imputazione temporale dei proventi derivanti dallo sfruttamento di beni
immateriali in un contesto internazionale segue le medesime regole attuate
nell’ambito del diritto interno. In particolare, il criterio di competenza viene
applicato a tutti i corrispettivi che trovano fondamento nel contratto stipulato fra
le parti in un contesto di attività di impresa mentre in tutti gli altri casi si segue il
criterio di cassa.
Per ciò che attiene alle royalties, il Ministero ha previsto che il versamento di
una royalty in un’unica e anticipata soluzione assumerà rilievo, per il suo intero
ammontare, nel periodo d’imposta nel quale il contratto è stato stipulato, oltre che
nei periodo successivi seguendo il criterio di competenza. In tal senso, si tratta di
una lineare applicazione dell’art 109 comma 2 lett. B del Testo unico secondo cui
“i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti (…) alla data
di maturazione dei corrispettivi”.
In realtà tale orientamento non si è ancora del tutto radicato in dottrina. In
alternativa si è prefigurata la possibilità di applicare l’art 103 comma 2 del Testo
unico secondo il quale le quote di ammortamento dei costi dei diritti di
concessione di beni immateriali sono deducibili in misura corrispondente alla
durata di utilizzo degli stessi prevista dal contratto o dalla legge.
In favore della tesi pronunciata dal Ministero si esprimono i principi contabili
internazionali (IAS 18 IAS 38) all’interno dei quali si dichiara che le royalties
percepite per la concessione dello sfruttamento economico di un bene immateriale
non vadano rilevate dal punto di vista temporale, ad esempio, come gli interessi,
ma sulla base del criterio di maturazione dei proventi stessi così come previsto
102
all’interno del contratto concluso. Pertanto, anche nella prospettiva IAS, il criterio
di competenza è quello che prevale, ma soprattutto il momento negoziale assume
particolare centralità.
In proposito, giova altresì rilevare come suddetto criterio prevalga ma non in
maniera assoluta e tantomeno vincolante. E’ lo stesso IAS 18, infatti, che ammette
la contabilizzazione delle royalties percepite con una modalità diversa rispetto a
quella prevista dal contratto concluso, purché risponda ai requisiti della
sistematicità e della razionalità, avuto riguardo al contenuto complessivo
dell’accordo.
Nel caso in cui il contratto concluso tra le parti preveda il pagamento di una
maxiroyalty iniziale, tale corrispettivo assumerà rilevanza fiscale esclusivamente
nel momento in cui ciò è stato previsto dalla libera autonomia delle parti così
come manifestatasi nel contratto di licenza. Tale orientamento trae le sue
fondamenta dal presupposto che il provento in questione è stato predeterminato e,
pertanto, è oggettivamente certo al momento della stipula del contratto. Di
conseguenza assumerà rilevanza ai fini fiscali nel periodo d’imposta in cui sorgerà
il credito.
Una situazione diversa invece si prospetta nel caso in cui vengano disposti dei
pagamenti parametrati alle performance del licenziatario, ossia che variano al
variare dei ricavi conseguiti da quest’ultimo nell’espletamento della propria
attività in diversi periodi (su base mensile, annuale, e via dicendo). Ne consegue
che alle scadenze pattuite anche questi proventi assumeranno i caratteri di certezza
e determinabilità e pertanto rappresenteranno:
•
componenti positive di reddito
per il licenziante;
•
componenti negative di reddito
per il licenziatario.
Ciò detto, è importante rilevare sin d’ora l’importanza che assume il concetto
di reasonable royalty. Con esso si intende indicare il “giusto” valore (valore
normale) che tale corrispettivo dovrebbe avere avendo riguardo della tutela
dell’asset disposto.
103
Seppur con un certo grado di approssimazione, e con un procedimento tecnico
piuttosto complesso, è possibile per gli analisti economici ed industriali calcolare
ex ante la royalty ragionevole e forse allora utilizzare siffatto parametro come
benchnark per isolare e contestare operazioni di licensing che si discostino in
maniera incongrua da esso per finalità elusive. Tale tematica, di grande attualità,
verrà approfondita nel prosieguo della trattazione.
CAPITOLO 2
Il Modello di Convenzione OCSE.
Il tentativo di analisi dei modelli di tassazione delle royalties a livello
internazionale non può prescindere dalla disamina delle convenzioni contro le
doppie imposizioni.
In merito, sembra ormai pacifico affermare come tutte le convenzioni
internazionali firmate dal nostro Paese si ispirino, alcune in modo più evidente
altre meno, al Modello di Convenzione Ocse, orientato a contrastare i fenomeni
delle doppie imposizioni e l’elusione d’imposta internazionale.
Ma per affrontare in maniera corretta l’analisi di tale modello occorre partire
dalla consapevolezza di due aspetti che, se non adeguatamente considerati,
potrebbe condurre ad una sopravvalutazione dei risultati conseguiti.
In primis il Modello di Convenzione Ocse non è situato all’interno del nostro
ordinamento come fonte giuridica. Esso non ha alcuna efficacia cogente,
semplicemente assume un supporto interpretativo per le Convenzioni che l’Italia
stipula a livello internazionale, essendo queste per la maggior parte ispirate ad
esso.
In secundis in generale, le Convenzioni internazionali stipulate dal nostro
Paese, pur avendo un certo peso nel nostro ordinamento, esse, con riguardo alla
tematica “royalties” sono caratterizzate da un approccio funzionale. Ciò significa
che affrontano la questione del regime impositivo applicato alle royalty solo nella
misura in cui il loro pagamento in un contesto internazionale provochi una doppia
imposizione.
104
Ciò detto pare appropriato partire dalla definizione che il Modello OCSE da al
termine royalty nell’articolo 12 § 2:
The term "royalties" as used in this Article means payments of any kind
received as a consideration for the use of, or the right to use, any copyright of
literary, artistic or scientific work including cinematograph films, any patent,
trade mark, design or model, plan, secret formula or process, or for information
concerning industrial, commercial or scientific experience.
Dalla lettura emerge come il legislatore internazionale abbia un approccio più
lontano dal legislatore nazionale (che frammenta la disciplina su diversi articoli
fra Testo unico e dpr 600/73) e più vicino a quello comunitario (più omogeneo e
coerente). Il riferimento fatto all’interno dell’articolo 12 è sia ai beni immateriali
tipizzati dal legislatore nazionale sia a quelli che, per così dire, sono stati
“socialmente tipizzati” come il Know how.
Facendo riferimento alle differenze esistenti tra l’approccio del legislatore
internazionale e l’approccio di quello nazionale viene alla luce come il primo
adotti un metodo più restrittivo nella disciplina del regime impositivo delle
royalties. Il Modello Ocse considera cioè royalty esclusivamente i proventi
derivanti dall’uso o dalla concessione in uso della proprietà intellettuale, si tratta
di uno schema attributivo di diritti proprio dei contratti ad effetti obbligatori
(contratto di licenza).
Tale affermazione non permette quindi di includere atti dispositivi del diritto o
del bene immateriale come ad esempio la cessione del diritto di sfruttamento del
diritto. A livello nazionale invece, i proventi derivanti dalla vendita di una
proprietà intellettuale verrebbero classificati fra i redditi assimilati ai redditi di
lavoro autonomo (art. 53 comma 2 lettera b).
Per ciò che concerne invece la comparazione tra l’esperienza comunitaria e
quella internazionale occorre mettere subito in luce come l’articolo 12 non
ricomprenda i canoni percepiti per “l’uso o la concessione in uso di attrezzature
industriali commerciali o scientifiche…” invece menzionati nella direttiva
2003/49/CE. Tale esclusione è giustificata dalla natura dei proventi in questione,
105
infatti, secondo quanto riportato nel paragrafo 9 del Commentario al Modello,
suddetti redditi si avvicinerebbero maggiormente alla categoria dei redditi di
impresa e come tali rientranti nell’articolo 7 del Modello.
Alla luce di quanto detto emerge una conseguenza piuttosto rilevante: ci
potranno essere proventi considerati royalty per la direttiva ma non per le
convenzioni che si ispirano al modello OCSE. In realtà però tale problema è più
apparente che concreto, vista la supremazia della direttiva nei confronti delle
Convenzioni e il regime tendenzialmente più favorevole della prima rispetto alle
seconde, l’operatore economico invocherà l’applicazione di questa laddove
possibile.
E’ noto ormai come l’obiettivo fondamentale delle Convenzioni ispirate al
Modello OCSE sia quello di evitare la doppia imposizione internazionale ma non
solo. Con esse si intende ostacolare anche l’elusione fiscale internazionale in tutte
le sue forme. L’art 12 del Modello OCSE attribuisce la potestà impositiva allo
Stato di residenza del percettore delle royalties a discapito dello Stato della fonte.
Di seguito si riporta il testo dell’articolo che disciplina questo aspetto:
“Royalties arising in a contracting state and beneficially owned by a resident of
the other contracting state shall be taxable only in that other state”
2.1
La forza di attrazione della SO nel Modello di Convenzione
OCSE.
La nozione di forza di attrazione della SO così come è stata delineata in
precedenza84 comporta l’imputazione di tutti i redditi prodotti in Italia da un
soggetto non residente al suo centro di attività stabile. Orbene, tale principio non
trova supporto nel Modello di Convenzione Ocse e praticamente in tutti i testi
convenzionali che l’Italia ha firmato e che si ispirano tutti al Modello. In
particolare l’articolo 7 afferma quanto segue:
84
Vedi § 1.4: La forza di attrazione della Stabile organizzazione
106
The profits of an enterprise of a Contracting State shall be taxable only in that
State unless the enterprise carries on business in the other Contracting State
through a permanent establishment situated therein. If the enterprise carries on
business as aforesaid, the profits of the enterprise may be taxed in the other State
but only so much of them as is attributable to that permanent establishment.
Pertanto, in base a quanto sopra riportato, la presenza di una SO sul territorio
dello Stato non comporta l’attrazione di tutti i redditi ivi prodotti dal soggetto non
residente al suo centro di attività stabile. Invero, si prevede la tassazione in quel
luogo di tutti i redditi di impresa attribuiti all’attività della SO. In questo modo
vengono implicitamente esclusi tutti gli altri redditi percepiti dal non residente sui
quali la SO non ha ricoperto un ruolo attivo nella loro produzione.
In tale contesto quindi, la SO esercita il proprio potere attrattivo con
riferimento ai soli redditi che siano legati da un nesso strumentale con l’attività
economica esercitata dal centro di attività stabile.
2.2 I Modelli di Convenzione “alternativi”: analisi del Modello ONU.
L’Italia, come molti altri paesi europei, ha ratificato una serie di Convenzioni
contro le doppie imposizioni tutte ispirate al Modello di Convenzione OCSE
appena descritto.
Orbene, a livello internazionale, la Convenzione OCSE non è l’unica
esistente, ma è affiancata da altri due modelli seppur in posizione recessiva:
quello predisposto dalle Nazioni Unite (Modello ONU) e quello predisposto dal
Ministero del Tesoro degli Stati Uniti (Modello USA).
Il Modello ONU disciplina il tema delle royalties all’interno dell’articolo 12 e,
come accade nello Convenzione OCSE, attribuisce potestà impositiva allo Stato di
residenza del beneficiario dei proventi.
Tuttavia, a differenza del Modello OCSE, la potestà di cui si parla in questo
frangente non è esclusiva bensì concorrente. In altre parole tale Modello si
dimostra più incline ad un regime che non azzeri completamente la potestà
107
impositiva dello Stato della fonte essendo quest’ultimo considerato come la parte
più debole del rapporto.
Ciò detto, ad una potestà concorrente si affiancano non poche problematiche
per quanto riguarda la considerazione dei costi: così come lo Stato della fonte
acquista il diritto di tassare proventi in uscita dal proprio territorio, così dovrebbe
tener conto dei costi sostenuti (dal soggetto non residente) per la realizzazione di
quel provento.
Questo ragionamento è in linea con quanto previsto dallo stesso legislatore
nazionale il quale prevede che la tassazione dei proventi in esame da parte dello
Stato della fonte avvenga in modo asimmetrico a seconda che siano percepiti da
un soggetto residente o non residente.85
Tuttavia il Modello ONU non da alcuna indicazione univoca e chiara in
merito, per cui gli operatori economici saranno costretti a valutare caso per caso
l’ammontare dei costi sostenuti.
Ciò detto, il Modello in esame si limita a dare tre linee guida essenziali così
riassumibili:
1. il riconoscimento di un credito di imposta nello stato di residenza del
percettore del provento, per evitare fenomeni di doppia imposizione ;
2. la necessità che lo Stato della fonte, nel momento in cui tassa una royalty
in uscita, si faccia carico non solo delle spese correnti sostenute dallo stato
di residenza del beneficiario per la gestione dell’intangible, ma anche i
costi sostenuti per la realizzazione del cespite;
3. a seguito del riconoscimento proporzionale dei costi sostenuti il credito di
imposta dovrà essere conseguentemente circoscritto.
85
In particolare, se percepiti da soggetti residenti la loro tassazione avverrà in forma analitica
(se rientranti fra i redditi di impresa) o previa deduzione dei costi sostenuti. Al contrario se il
percettore è un soggetto non residente allora verrà applicata un’aliquota del 30% (in assenza di
convenzioni contro le doppie imposizioni).
108
2.3 Gli incerti confini del concetto di royalty.
2.3.1 Royalties vs Prestazioni di servizi.
Come si è avuto modo di vedere nel corso della trattazione i “confini
definitori” delle royalties sono spesso incerti e non ben definiti. Tale
considerazione non fa che amplificarsi, ovviamente, in ambito internazionale dove
vengono prese in considerazione diverse legislazioni.
Tuttavia, merita citare in questa sede una particolare distinzione, non sempre
facile da individuare, fra un contratto di licenza di proprietà intellettuale
(produttivo di royalties) e un contratto di prestazione di servizi (produttivo di
redditi di impresa). Tale difficoltà diventa ancora più evidente nel momento in cui
il primo (contratto di licenza) non si limiti alla concessione di un intangible86, ma
aggiunga una serie di attività di consulenza o di supporto all’attività che il
cessionario del bene condurrà grazie a quest’ultimo.
Al fine di poter presentare in maniera chiara e concisa la problematica si può
partire dalla classificazione di tre esempi emblematici: occorre identificare i
corrispettivi che un soggetto eroga nei confronti di un altro dietro ricezione di:
1. una lista di potenziali clienti;
2. una ricerca di mercato;
3. consulenza commercialistico/legale (modello di tax planning).
Nel primo caso, uno dei primi problemi da affrontare riguarda la
qualificazione del bene, ossia della lista in sé e di conseguenza, se lo stesso possa
essere produttivo di royalties.
Un modo per ricondurre il bene in oggetto fra l'elenco di cui all'art. 12 del
Modello di Convenzione OCSE sarebbe riconoscendolo come un know how
86
Per intangible si intende sia il bene immateriale tipizzato, come i segni distintivi di impresa,
sia il non tipizzato come il database. Quest’ultimo consiste in una raccolta ragionata di dati che
trova, già di per sé, tutela all’interno del nostro ordinamento come proprietà intellettuale.
L’elemento centrale di questi intangibles non sono tanto i beni oggetto di raccolta (ad esempio
nelle banche dati giuridiche possono essere le sentenze) quanto piuttosto la struttura
organizzativa degli stessi. Spesso però queste raccolte dati vengono crete su specifica richiesta di
un cliente e quindi sono impiegabili solo da quest’ultimo. Diventa quindi piuttosto problematico,
in alcuni casi, capire se si è di fronte ad una prestazione di servizio o ad una concessione in
licenza. Ma tale differenza è importante soprattutto dal punto di vista tributario.
109
commerciale e non come un servizio prestato, secondo l'opinione di altri però tale
estensione non può essere operata in quanto il know how per essere classificato
come tale deve essere correlato a processi produttivi innovativi, non sarebbe
questo il caso87.
La soluzione sta nella correlazione tra la disciplina fiscale e quella contabile:
se il bene può essere contabilizzato fra le immobilizzazioni immateriali e quindi
subire un progressivo ammortamento, e non un'immediata deduzione come
avviene per le prestazioni di servizi, si avrà anche dal punto di vista tributario un
intangible.88
Il servizio pertanto si fa bene immateriale con tutte le implicazioni che ciò
comporta sia dal punto di vista fiscale che dal punto di vista contabile.
Ma se si vuole analizzare tale soluzione anche dal punto di vista civilistico,
ciò è possibile dal momento che, con la riforma del diritto d'autore
89
la “raccolta
ragionata di informazioni” è considerata proprietà intellettuale perciò per quale
motivo una lista di potenziali clienti non dovrebbe rientrare in questa categoria?90
Il secondo dei casi presentati riguarda invece una ricerca di mercato effettuata
da un operatore economico su richiesta di un altro soggetto. Ciò che fa la
differenza qui è la causa del contratto stipulato dal soggetto interessato alla ricerca
di mercato e, senza dubbio, le condizioni di fruibilità del risultato della ricerca. In
particolare si distingue tra una prestazione d’opera e un contratto di acquisto del
diritto allo sfruttamento economico dell’opera intellettuale.
Per quanto riguarda invece il terzo ed ultimo caso, la questione sta nello
stabilire la natura dei risultati ottenuti attraverso un’attività di consulenza legale,
contabile o fiscale che porti ad esempio ad un legittimo risparmio di imposta. In
87
Franchini Stufler Studi dell'evoluzione economica e giuridica del know how e della sua
tutela, Zencovich- Sandicchi L'economia della conoscenza e i suoi riflessi giuridici
88
ragionamento che ha una sua logica dal momento che un bene particolare come quello
analizzato se non è periodicamente aggiornato perde progressivamente di utilità commerciale
89
Legge del 18 agosto 2000, num. 248
90
M. GREGGI, Profili fiscali della proprietà intellettuale nelle imposte sui redditi, pg 254.
110
dettaglio, si tratta di stabilire se suddetta consulenza possa integrare la fattispecie
del Know how commerciale o industriale.91
Seguendo una logica di questo tipo ancora una volta la variante centrale è la
tipologia di contratto stipulato tra le parti. In particolare, si tratta di distinguere tra
una consulenza (legale/ fiscale/ commercialistica) che uno studio ha effettuato
sulla base delle esigenze di uno specifico cliente per un determinato caso concreto
e una consulenza adottata per un cliente ma già utilizzata in precedenza dallo
studio stesso per altri casi.
Nella prima situazione, i proventi ottenuti dalla consulenza potranno essere
annoverati tra i redditi di impresa e quindi la consulenza stessa come una
prestazione di servizio. Nel secondo caso invece siamo di fronte ad un know how,
e quindi ad una proprietà intellettuale che genera royalties.
Oppure, ancora, si tratta di stabilire se il know how (la consulenza) sia stato
realizzato dal professionista per la propria attività di impresa oppure per andare
incontro alle specifiche esigenze di un cliente. In quest’ultimo caso sarà difficile
parlare, con riferimento al provento ottenuto, di reddito di impresa.
In sintesi, il know how inteso, dal punto di vista tributario, come cespite il cui
sfruttamento genera royalties dovrebbe consistere in un nucleo di conoscenze ed
esperienze, che, una volta maturate da un soggetto per lo svolgimento della sua
attività economica o in occasione della stessa, sono cedute a soggetti terzi, con o
senza obbligo di privativa92, sia nei confronti del cedente che del cessionario.93
Al contrario, nel caso in cui il bene immateriale sia frutto di un complesso
nucleo di conoscenze derivante da una specifica richiesta di un cliente al quale le
medesime saranno comunicate e in ogni caso trasferite allora si parlerà più che
altro di “prestazione di servizi”, in quanto la componente del rapporto di lavoro
91
In Italia queste consulenze non sono molto frequenti, almeno non quanto nei sistemi di
Common law dove la consulenza mirata al legittimo risparmio di imposta è protetta dall’obbligo
di riservatezza che la rende un autentico know how.
92
Solitamente la privativa è presente nel caso del cessionario, in quanto il know-how essendo
costituito da caratteri di segretezza il titolare tende a concederlo solo a soggetti determinati con
l’obbligo della non divulgazione. Al contrario, la privativa non è necessaria dal lato del
concedente il quale è spinto dal desiderio di sfruttare la proprietà intellettuale nel mercato prima
che la stessa diventi obsoleta.
93
M. GREGGI, Profili fiscali della proprietà intellettuale nelle imposte sui redditi, capitolo
Lineamenti di diritto tributario internazionale, pg 259 e seguenti.
111
tra i due soggetti (concedente e concessionario) prevarrà rispetto alla natura del
bene ceduto, della proprietà intellettuale.
2.3.2
La relazione fra le royalties e il diritto allo sfruttamento
dell’immagine.
Un altro argomento interessante che tocca il tema delle royalties riguarda la
classificazione dei proventi derivanti dallo sfruttamento, da parte di sportivi o
celebrità del mondo dello spettacolo, della propria immagine a fini commerciali.
In questo caso, evidentemente non ci si riferisce a proprietà intellettuali come
quelle finora esaminate ma comunque a intangibles, che se sfruttati bene dai
legittimi titolari possono integrare cospicui proventi.
A livello internazionale ci si muove tra l’art. 12 del Modello OCSE (già
riportato) e l’art. 17 dello stesso Modello in cui si trattano, specificamente, i
proventi derivanti dallo sfruttamento dell’immagine da parte di sportivi e/o
celebrità all’interno del quale si prevede che la potestà impositiva su suddetti
redditi spetti allo Stato della Fonte, ossia allo Stato in cui è stata eseguita la
prestazione.94
L’art 17 è diviso in due commi, il primo disciplina il reddito percepito dagli
artisti e dagli sportivi in funzione della loro attività personale. Il secondo prende
in considerazione le situazioni in cui il reddito prodotto dalle loro attività sia
conseguito da altri soggetti.
In dettaglio, se il reddito di uno sportivo o di un artista viene percepito da un
altro soggetto e lo Stato della fonte non possiede gli strumenti adatti per andare
oltre il percettore del reddito e ricondurlo a “reddito dell’artista” il secondo
94
Così Article 17 ARTISTES AND SPORTSMEN:
1. Notwithstanding the provisions of Articles 7 and 15, income derived by a resident of a
Contracting State as an entertainer, such as a theatre, motion picture, radio or television artiste,
or a musician, or as a sportsman, from his personal activities as such exercised in the other
Contracting State, may be taxed in that other State.
2. Where income in respect of personal activities exercised by an entertainer or a sportsman
in his capacity as such accrues not to the entertainer or sportsman himself but to another person,
that income may, notwithstanding the provisions of Articles 7 and 15, be taxed in the Contracting
State in which the activities of the entertainer or sportsman are exercised.
112
comma dell’art. 17 prevede comunque che tale reddito venga tassato nello stato
della fonte. Questa soluzione vale anche nel momento in cui il soggetto che riceve
il provento gestisca un’impresa che non ha un legame abbastanza forte con lo
Stato della fonte da essere considerata una stabile organizzazione.
Tuttavia non è sempre così, si possono verificare tre situazioni:
1. può essere presente una società che gestisce l’attività dell’artista e che
riceve gli incassi derivanti dalle sue apparizioni (società che non può
essere costituita in forma di persona giuridica);
2. la seconda possibilità prevede che l’orchestra, la squadra sportiva, la
compagnia teatrale siano costituite in forma di persona giuridica. I singoli
componenti della squadra, dell’orchestra saranno tassati in base al comma
1 dell’art. 17 e quindi nello Stato in cui hanno svolto la loro prestazione.
Tuttavia se nel reddito percepito da ogni singolo artista è presente una
remunerazione fissa e periodica diventa alquanto arduo distinguere
all’interno di questa il reddito derivante da una particolare performance, in
questi casi i Paesi membri possono decidere di non tassarlo;
3. la terza situazione riguarda invece la possibilità che vengano posti in
essere comportamenti elusivi nel caso in cui la remunerazione per una
prestazione di un artista/sportivo non venga percepita direttamente dalla
celebrità bensì da altre persone, ad esempio un artiste company in modo
tale che il reddito percepito sia tassato nel Paese in cui l’attività viene
svolta né come reddito personale dell’artista né come reddito di impresa
non trattandosi di stabile organizzazione. In questi casi alcuni Stati europei
guardano oltre tali accordi e considerano il reddito prodotto come reddito
personale dell’artista e mettono in pratica il primo comma dell’art. 17.
Altri Stati però non possono farlo e così il secondo comma dell’art. 17 gli
permette di tassare suddetti proventi distratti dal reddito dell’artista.
Tuttavia alcuni Stati non hanno la possibilità di utilizzare tale
113
disposizione, saranno, pertanto, liberi di accordarsi tra di loro attraverso
trattati bilaterali.95
Di seguito si riporta, a titolo d’esempio, questa fattispecie: lo Stato A e lo
Stato B concludono un trattato bilaterale nel 1979 basandosi sul modello di
convenzione del 1977, L’orchestra X, organizzazione a scopo di lucro dello Stato
A, inizia un tour nello Stato B. Non vi è un collegamento sufficientemente forte
tra l’orchestra X e lo Stato B tale da far costituire una stabile organizzazione. Lo
Stato B può sottoporre a tassazione l’orchestra X?
Ad una prima analisi la risposta potrebbe essere positiva in base al secondo
comma dell’art. 17. I singoli componenti dell’orchestra sono considerati gli artisti,
gli intrattenitori che svolgono la performance, il provento viene però percepito da
“un’altra persona” ossia l’orchestra. Il secondo comma permetterebbe dunque allo
Stato B di tassare l’orchestra X anche in assenza di una stabile organizzazione.
Se però ci si sofferma sul Commentario al Modello la soluzione potrebbe
essere diversa. Quest’ultimo infatti precisa che “lo scopo del paragrafo 2 è quello
di rendere vani certi comportamenti elusivi posti in essere quando la
remunerazione per lo spettacolo svolto da un artista o da uno sportivo non venga
direttamente pagata allo stesso artista o sportivo bensì ad altre persone, per
esempio ad una cosiddetta artiste company”, pertanto il Commentario “va oltre” il
concreto percettore del provento e descrive situazioni in cui l’artista, lo sportivo
ha la titolarità, diretta o indiretta, del reddito in questione.
Letto in questi termini, quindi, potrebbe l’espressione “conseguito da un’altra
persona” essere interpretata in modo da rendere i singoli artisti dell’orchestra
titolari, diretti o indiretti, del reddito in questione?
Si supera l’elemento letterale/testuale della norma per cercare di adottare una
interpretazione che miri ad ostacolare i tentativi di alcuni di abbassare se non
eliminare del tutto il potere impositivo in capo allo Stato della fonte.
95
L RUOLO DEI COMMENTARI OCSE NELLA INTERPRETAZIONE DELLE CONVENZIONI CONTRO
LE DOPPIE IMPOSIZIONI, http://www.studiolegaleguglielmi.it.
114
La dottrina internazionale ha distinto due possibili classificazioni dei proventi
derivanti dallo sfruttamento dell’immagine In particolare, si possono distinguere
due casi:
1. nel caso in cui la celebrità non sia tutelata da copyright per i proventi che
ottiene dalla concessione della propria immagine o del proprio nome per
una particolare attività commerciale allora anche il provento in questione
non potrà essere classificato fra le royalties bensì tra i redditi di impresa96;
2. nel caso invece la celebrità conceda il proprio nome/immagine a favore di
un evento sostanzialmente ascrivibile alla sua attività sportiva o artistica,
la stretta correlazione che si viene a creare tra l’attività propria della
celebrità e lo sfruttamento dell’immagine fa si che i proventi ottenuti dalla
disposizione della propria immagine rientrino fra i redditi artistici
professionali.97.
Ciò detto, non pare assolutamente facile nella realtà distinguere tra le varie
possibili categorie e soprattutto capire il grado di correlazione tra lo sfruttamento
dell’immagine e l’attività professionale dell’atleta. Dall’altro lato però in questo
modo si tenta di limitare una già troppo estensiva applicazione dell’articolo 12 del
Modello OCSE che comprometterebbe le ragioni dello Stato della Fonte (del
luogo in cui la prestazione effettiva viene eseguita) aprendo ad operazioni elusive
che tentano di collocare all’estero proventi derivanti da attività collaterali ma
comunque collegate all’attività sportiva/artistica prioritaria.
A livello nazionale invece il sistema attribuisce rilevanza autonoma al diritto
all’immagine, cosa che non si trova spesso negli altri Paesi europei con altrettanta
chiarezza. In Italia, quando si è inteso disciplinare i proventi ottenuti dalla
disposizione di tali diritti il richiamo è sempre stato alla tutela del copyright.
96
Un esempio potrebbe essere rappresentato da una impresa che realizza una linea di
abbigliamento e che per pubblicizzarla utilizza l’immagine di una celebrità che verrà
ricompensata con una percentuale sulle vendite.
97
Ecco che quindi lo sfruttamento dell’immagine di uno sportivo per la realizzazione di
“video corsi” o di videogiochi che rappresentino l’attività che lo stesso esercita
professionalmente darà vita a un tipo di reddito artistico-professionale.
115
Pertanto, dal punto di vista pratico questi proventi si ascrivono alle royalties
per cui i diritti di cui i titolari possono disporre saranno sottoposti alla disciplina
tributaria degli intangibles.
2.4 Clausola del beneficial owner.
Lo scopo principale dei trattati contro le doppie imposizioni è quello di
risolvere le problematiche derivanti dall’interposizione di diversi sistemi fiscali
cercando di distribuire i diritti impositivi fra i vari Stati. Occorre, altresì,
specificare che le norme convenzionali pattizie non hanno un carattere impositivo,
non prevedono ulteriori obblighi tributari in capo ai contribuenti che si
aggiungono a quelli dell’ordinamento interno.
Tali convenzioni diventano “operative” di fronte ad una fattispecie di
rilevanza fiscale internazionale in merito alla quale esprimeranno da chi e in quale
misura debba essere esercitata la potestà impositiva.
Un ulteriore obiettivo delle Convenzioni, secondario ma pur sempre
determinante, è quello di evitare l’elusione fiscale internazionale in tutte le forme
in cui essa può presentarsi. A tal proposito, la più importante manifestazione di
abuso delle convenzioni internazionali è il treaty shopping: con tale locuzione si
designa una interposizione di persona in virtù della quale si realizza una impropria
traslazione dei benefici previsti dal Trattato98. Solitamente viene utilizzato un
soggetto interposto (conduit company) residente in uno Stato che abbia concluso
con lo Stato della fonte un trattato bilaterale che preveda una imposizione fiscale
più lieve. Il soggetto interposto è un semplice “filtro” del flusso reddituale in
quanto privo di un interesse sostanziale al ricevimento di quel reddito.
A titolo di esempio, si può riportare un episodio di treaty shopping che ha
visto coinvolte delle società canadesi che interponevano società dei Paesi Bassi
per poter investire negli Stati Uniti e attraverso le quali si concedevano prestiti a
soggetti degli USA. L’obiettivo era quello di sfruttare la Convenzione Paesi
Bassi- Stati Uniti che comportava la non applicazione di una ritenuta alla fonte
98
Andrea BALLANCIN, La clausola del beneficiario effettivo. I pomeriggi del centro studi.
116
negli Stati Uniti laddove i Paesi Bassi non applicavano ritenute alla fonte sugli
interessi pagati ai non residenti. Un finanziamento diretto Canada- Stati Uniti
avrebbe comportato l’applicazione di una ritenuta negli USA del 15%.
Ma l’ingegno del contribuente spesso non conosce limiti, esistono infatti
schemi di treaty shopping molto più complessi che vanno a coinvolgere più
società intermedie integrando le cosiddette stepping store structure.
2.4.1
La clausola del beneficiario effettivo nel Modello di Convenzione
OCSE.
A livello internazionale le convenzioni più utilizzate sono le convenzioni
bilaterali, in ragione dei diversi sistemi fiscali esistenti che rendono
particolarmente difficoltosa una armonizzazione fra più Stati99.
Il modello convenzionale di riferimento è il Modello OCSE all’interno del
quale negli articoli 10 (dividendi), 11 (interessi)e 12 (royalties) al fine di
prevenire l’abuso delle convenzioni viene introdotta la clausola del beneficiario
effettivo senza però fornirne una opportuna definizione.100
In particolare, l’articolo 12 prevede che: “Royalty arising in a Contracting
state and beneficially owned by a Resident of the other Contracting state shall be
taxable only in that other Contracting State”. L’avverbio “only” toglie ogni
dubbio circa la non imponibilità dei canoni all’interno dello Stato della fonte, in
modo da eliminare ogni rischio di doppia imposizione.
99
L’unica Convenzione multilaterale realizzata risale al 1966 ed è stata stipulata tra Norvegia,
Svezia, Finlandia, Danimarca, Islanda e Isole Faroe in ragione delle similitudini esistenti nei
sistemi fiscali dei Paesi nordici.
100
In dettaglio l’art. 10 prevede che “1. I dividendi pagati da una società residente di uno
Stato contraente ad un residente dell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato.
2. Tuttavia, tali dividendi possono essere tassati anche nello Stato contraente di cui la società che
paga i dividendi è residente ed in conformità alla legislazione di detto Stato, ma, se l’effettivo
beneficiario dei dividendi è un residente dell’altro Stato contraente, l’imposta così applicata non
può eccedere a) il 5% (…) b) il 15%(…)” L’art. 11 dichiara “Gli interessi provenienti da uno Stato
contraente e pagati ad un residente dell’altro Stato Contraente sono imponibili in detto altro
Stato. 2. Tuttavia tali interessi sono imponibili anche nello Stato contraente dal quale essi
provengono e in conformità della legislazione di detto Stato, ma se l’effettivo beneficiario degli
interessi è un residente dell’altro Stato contraente, l’imposta così applicata non può eccedere il
10% dell’ammontare lordo degli interessi…”.
117
Il Commentario OCSE non è mai stato molto esaustivo in merito a suddetta
clausola, nel 2003 ha evidenziato che l’espressione “beneficiario effettivo” non è
utilizzata nella Convenzione con un’accezione tecnica e restrittiva, ma piuttosto
deve essere intesa nel suo contesto e alla luce dello scopo e delle finalità della
Convenzione, segnatamente quello di evitare la doppia imposizione e prevenire
l’evasione e l’elusione fiscale. In dettaglio: “qualora un elemento sia percepito da
un residente di uno Stato contraente che agisce quale agente o nominee, non
sarebbe
coerente
con
l’ambito
di
applicazione
e
lo
scopo
della
Convenzione…riconoscere un beneficio o l’esenzione esclusivamente tenendo
conto dello status del percipiente immediato del reddito, quale residente di uno
degli Stati contraenti”
Esistono diverse interpretazioni della clausola in esame, in particolare negli
ordinamenti di Common Law essa si identifica con la tecnica del “substance over
form” che intende verificare l’effettiva titolarità dei diritti, piuttosto che la mera
titolarità formale degli stessi.
Altri autori, si affiancano a questa interpretazione facendo coincidere il
beneficiario effettivo con il soggetto che abbia in concreto il potere di decidere se
utilizzare personalmente o rendere disponibile ad altri il capitale o altri beni
oppure decidere sui redditi scaturenti da questi101.
Ciò detto, ad oggi il principale strumento per la ricostruzione del significato
da attribuire alla clausola è il Commentario Ufficiale in base al quale si possono
pacificamente escludere dalla nozione di beneficiario effettivo:
1. i soggetti che non sono considerati “possessori” del reddito ai fini
impositivi nel loro Stato di Residenza;
2. ogni altro soggetto conduit che, seppur al di fuori dell'ambito di un
rapporto di agenzia o nominee, abbia in pratica poteri molto limitati che lo
rendono, in riferimento al reddito considerato, un mero fiduciario o un
amministratore che opera per conto di terzi.102
101
VOGEL, On double taxation conventions.
A tal riguardo, l’Amministrazione finanziaria ( circ. 23/12/1996 n. 306/E; ris. 6 maggio
1997, n. 104/E ) ha chiarito che, per effettivo beneficiario “deve intendersi il soggetto cui il
reddito è fiscalmente imputabile; pertanto, come rileva lo stesso Commentario OCSE, non si
verifica il requisito in questione quando viene interposto un intermediario, come ad esempio un
agente o nominee, tra il beneficiario ed il debitore del provento”
102
118
Il contribuente potrà fornire prova della sussistenza del requisito di
beneficiario effettivo, ad esempio, producendo la seguente documentazione :
−
atto costitutivo o statuto sociale;
−
iscrizione nel locale registro
−
normative , delibere e nomine degli organi sociali;
−
bilancio e relativa certificazione;
−
dichiarazione dei redditi;
−
contratti di locazione degli immobili utilizzati dall’impresa;
−
copia delle fatture e delle utenze.
Nel prosieguo della trattazione, in particolare all’interno del paragrafo 2.6
(Giurisprudenza), si avrà modo di approfondire l’argomento attraverso l’analisi di
due interessanti sentenze: la pronuncia della Commissione tributaria provinciale
di Torino n. 14/7/10 e il caso della Bank of Scotland del 29 dicembre 2006.
2.5 Il regime impositivo del software alla luce del Modello di convenzione
OCSE.
Il software viene definito all’interno del commentario OCSE come un
programma, o una serie di programmi, contenenti istruzioni per un computer e
necessarie o per il funzionamento del computer stesso (software di base) o per lo
svolgimento di funzioni specifiche (software applicativo).
Esso è considerato come un’opera di ingegno soggetta a tutela giuridica e ai
fini dell’art. 12, viene fatto rientrate fra le opere scientifiche.
Come tutti gli intangibles, anche il software è caratterizzato da una particolare
natura e come tale è piuttosto difficile riuscire a classificare in maniera univoca i
proventi derivanti dal suo sfruttamento. In particolare, a seconda del tipo di
transazione posta in essere e dell’oggetto del trasferimento, la cessione del
software può dar luogo a royalties (art. 12), utili di impresa (art. 7) o capital gains
(art. 13).
119
Per avere una più chiara visione di insieme i diversi casi presentati dal
Commentario possono essere sintetizzati in tre categorie:
1. fattispecie contrattuali che danno origine al pagamento di royalties.
2. fattispecie contrattuali che non danno origine al pagamento di royalties
3. fattispecie contrattuali di incerta interpretazione.
Nella prima categoria rientrano i contratti di cessione del diritto allo
sfruttamento del copyright incorporato nel software. In particolare si fa
riferimento a contratti che permettono il trasferimento di quei diritti l’utilizzo dei
quali, in assenza di una apposita licenza, comporterebbe la violazione del diritto
d’autore: il diritto di duplicare, riprodurre, modificare e distribuire il software al
pubblico.103
All’interno della prima categoria rientra, altresì, il meno frequente contratto di
cessione del know-how legato al software e relativo alle idee e alle conoscenze
sottostanti quest’ultimo: algoritmi, linguaggi di programmazione. Si tratta del
caso in cui l’ideatore del software intenda trasferire, insieme allo stesso, anche le
fonti, la sorgente dell’intangible stesso.
Nella seconda categoria elencata troviamo innanzitutto il contratto di
trasferimento del diritto d’uso del software. In questo caso i diritti trasferiti in
relazione al diritto d’autore sono minimi, soltanto quelli necessari per far
funzionare il programma stesso (tra cui il diritto ad effettuare una copia del
programma). Pertanto, i corrispettivi legati all’uso del software sono proventi di
carattere commerciale e come tali non classificabili come royalties bensì come
utili di impresa.
Sempre in riferimento alla seconda categoria, si include il contratto di
cessione della proprietà del copyright. Si è di fronte infatti all’alienazione di un
diritto d’autore che corrisponde alla cessione di un bene immateriale che come
103
In riferimento, il Commentario riferisce a quei Paesi che non riconoscono, nei proprio
Trattati, il software nell’ambito delle opere letterarie, artistiche o scientifiche di provvedere a
inserire nei rispettivi trattati delle norme ad hoc per il software o estendere l’art 12 ad ogni
forma di diritto d’autore.
120
tale può essere produttivo di utili di impresa o capital gains, a seconda dei casi,
ma mai di royalties.
La terza ed ultima categoria comprende invece una tipologia di contratti
“misti” che contengono differenti prestazioni, un esempio è rappresentato dalla
cessione di un computer che incorpora un software, oppure ancora la vendita di un
software unitamente a servizi di assistenza tecnica. In questi casi “ibridi” il
legislatore internazionale suggerisce di dividere i corrispettivi nelle due parti
relative al software e alla cessione del bene o prestazione del servizio, ovviamente
dove ciò è possibile.
In conclusione, alla luce dei diversi suggerimenti che il legislatore
internazionale da attraverso il Commentario OCSE si può affermare che in
sostanza, il compenso pagato in relazione ad un software potrà rientrare nella
categoria delle royalties, ai sensi dell’art. 12 della Convenzione OCSE, se oggetto
del trasferimento è il diritto di utilizzazione del copyright, purché ciò non
comporti il trasferimento di proprietà del diritto stesso.
Al contrario, nel momento in cui il compenso viene corrisposto per l’impiego
del software, per usi personali o professionali, attraverso comportamenti che non
violano in alcun modo il diritto d’autore allora si parlerà di utili d’impresa o di
redditi di lavoro autonomo, rispettivamente ai sensi degli art. 7 e 14 del Trattato.
2.5.1 Tax treaty characterization issues arising from e-commerce.
Un ulteriore approfondimento delle modalità di classificazione dei redditi
derivanti dalle operazioni on line è stato effettuato da un gruppo di lavoro
dell’OCSE, il quale, nel 2008, ha provveduto a redigere un documento (“Tax
treaty characterization issues arising from e-commerce”) all’interno del quale
vengono elencate 28 operazioni e-commerce e la loro classificazione ai sensi della
disciplina OCSE.
121
Ancora una volta la variante che fa si che i corrispettivi vengano catalogati
come royalties e non come utili di impresa (o altro) è rappresentata dal
trasferimento del diritto di sfruttamento del copyright.
In ragione di ciò, il trasferimento di beni materiali o immateriali destinati
all’utilizzo personale dell’acquirente o della sua impresa non darà luogo a royalty
bensì a utili di impresa.
Le tipologie di operazioni rientranti nell’art. 12 della Convenzione riguardano
invece la manutenzione del software, operazioni di aggiornamento, la fornitura di
informazioni inerenti il know-how del software stesso.
Di seguito viene riportata la tabella mostrante le operazioni di e-commerce
prese in considerazione dal gruppo di lavoro OCSE con, a fianco, l’articolo del
Modello di Convenzione a cui appartengono i relativi corrispettivi.
122
Tipologia di operazione
1.
Acquisto on line di beni materiali
2.
Acquisto on line e download di prodotti
digitali
Acquisto on line e download di prodotti
digitali per scopi commerciali di
sfruttamento del copyright
Aggiornamenti e integrazioni
3.
4.
5.
7.
Software di durata limitata e altre licenze
per informazioni digitali
Software ad uso singolo e altri prodotti
digitali
Application hosting- licenza separata
8.
Application hosting- contratto congiunto
9.
Application service provider
6.
10. Corrispettivi per licenze ASP
11. Servizio di hosting del sito internet
12. Manutenzione del software
13. Data warehousing
14. Assistenza tecnoca su una rete di computer
15. Funzioni di ricerca
16. Consegna di dati esclusivi o ad alto valore
aggiunto
17. Pubblicità
18. Accesso elettronico a servizi di consulenza
professionale
19. Informazioni tecniche
20. Informazioni pratiche
21. Accesso ad un sito internet interattivo
22. Portali per shopping on line
23. Aste on line
24. Sales referral programs
25. Operazioni di acquisizione dei contenuti
26. Trasmissioni in tempo reale via internet
27. Carriage fees
28. Iscrizioni ad un sito internet che consente il
download di prodotti digitali.
Art. modello OCSE
7
7
12
7
7
7
7104
7
7
7
7
7
7
7
7
7
7
7
12
7
7
7
7
7
12-7105
7
7
7
104
Il corrispettivo di cui si parla può rientrare nell’ambito dell’articolo 12 nell’ambito di
Convenzioni che includono nella definizione di royalty anche “i compensi per l’uso, o la
concessione in uso di attrezzature industriali, commerciali o scientifiche”
105
L’operazione in esame darà origine a royalties quando il gestore del sito web remunera il
“content provider” per il diritto di produrre e divulgare al pubblico, tramite sito, un’opera
protetta dal diritto d’autore. Mentre, se il gestore commissiona al “content provider” la creazione
di nuovi contenuti di cui, per contratto, sarà l’unico titolare del copyright, allora il relativo
compenso rientrerà tra gli utili di impresa.
123
2.6 Giurisprudenza
Commissione tributaria provinciale di Torino n. 14/7/10
Un caso particolarmente emblematico è rappresentato dalla sentenza emessa
dalla Commissione tributaria provinciale di Torino n. 14/7/10 dell’11 febbraio
2010. In tale circostanza la Guardia di finanza, contestava ad una società italiana
l’applicazione, al momento del pagamento di royalties ad una società tedesca,
della ritenuta alla fonte del 5%, prevista dalla Convenzione contro le doppie
imposizioni Italia-Germania, in luogo dell’aliquota del 30% prevista dall’art. 25
comma 4 del DPR 600/1973.
La Guardia di finanza negava suddetto beneficio in quanto la società tedesca
non avrebbe avuto titolo per essere considerata beneficiario effettivo. Il vero
destinatario delle royalties sarebbe stata una società americana, unico titolare dei
diritti giuridici ed economici dei beni immateriali dati in concessione. Due in
particolare sono le questioni che si intende far notare in questo frangente: l’onere
della prova e l’applicazione della convenzione stipulata con lo Stato del
beneficiario effettivo.
Per quanto riguarda il primo aspetto la sentenza afferma che “(…) si è in
presenza di richiesta di applicazione di un’aliquota convenzionale più favorevole
rispetto a quella prevista dal regime ordinario di tassazione. Trattandosi di
un’eccezione alla regola, non vi è alcun dubbio che incomba a chi la richieda
l’onere di provare l’esistenza dei presupposti di fatto che la giustificano. E ciò a
prescindere dalle evidenti difficoltà pratiche, per l’Ufficio, di analizzare
fattispecie in capo ad un soggetto passivo di imposta non residente ed in
riferimento a una serie di operazioni effettuate al di fuori del territorio dello
Stato”.
Tale decisione sembra essere ulteriormente avvalorata dalla stessa
Commissione tributaria provinciale con la Sent. n. 124/9/2010 del 19 ottobre 2010
all’interno della quale si conferma che spetta al contribuente, nel momento in cui
124
quest’ultimo intenda usufruire di una ritenuta agevolata, dimostrare che ricorrono
tutti i presupposti che giustificano tale applicazione.
Un assunto di questo tipo non sembra avere punti critici ma, da una più attenta
analisi, viene fuori come lo stesso sia in contrasto con l’art. 2697 del codice
civile106 in virtù del quale ogni qualvolta il processo tributario ha ad oggetto
l’impugnazione di atti attraverso i quali l’Amministrazione finanziaria eserciti una
pretesa tributaria sarà su quest’ultima che dovrà gravare l’onere di dimostrare, in
fase istruttoria, la rispondenza al vero dei fatti costitutivi della pretesa.
Per contro, il contribuente avrà l’onere della prova in fase di ricorso a
fondamento dei propri motivi di impugnazione.
Orbene, quello che la Commissione tributaria sembra fare nel caso concreto è
un’inversione dell’onere della prova, ma un’inversione non nel senso “radicale”
del termine. Ciò che tale sentenza intende comunicare è che dal momento che le
disposizioni convenzionali prevedono l’applicazione di ritenute più lievi per
dividendi, interessi e royalties spetterà, in primis, al contribuente dimostrare che
ricorrono tutti i presupposti per la loro applicazione. Ciò non significa che in capo
all’Amministrazione finanziaria non sussista alcun onere probatorio, a
quest’ultima è richiesto di dar prova degli elementi sulla base dei quali ha fondato
l’atto impositivo.
Tutto ciò premesso, va da sé che più forte è la prova fornita dal contribuente
più arduo sarà il lavoro probatorio dell’Amministrazione. L’onere di quest’ultima
dipende direttamente da quello del contribuente.
Ciò che preme evidenziare in questa sede è che il contribuente, nel dimostrare
la sussistenza dei presupposti per poter beneficiare di una certa Convenzione, non
può basarsi su una prova meramente formale come ad esempio la presenza di un
contratto di utilizzazione dell’intangible fra la società italiana e la società tedesca.
Essendo infatti la clausola del beneficiario effettivo una clausola antiabuso,
una dimostrazione apparente svuoterebbe il significato della clausola stessa.
Nel momento in cui l’Ufficio, nel caso in esame, dimostri l’insussistenza dei
requisiti per l’applicazione della Convenzione Italia-Germania si sarebbe di fronte
106
Art. 2697 cc: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si
è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.
125
ad una violazione diretta della Convenzione ( e non ad un abuso della stessa).
Questa specificazione è importante in quanto la clausola del beneficiario effettivo
è inserita nel testo della Convenzione, il che implica che un eventuale non rispetto
della stessa comporta una violazione diretta e non un abuso.
Per ciò che concerne invece il secondo punto all’interno della sentenza si
afferma che: “trattandosi, come riconosciuto dagli stessi organi preposti alla
verifica, di transazione economica in realtà intercorsa tra la società italiana e la
società americana, appare equo ritenere applicabile alla fattispecie la ritenuta
nella misura del 10% di cui all’art. 12 della Convenzione Italia-Stati Uniti”.
A parere di alcuni studiosi107 tale decisione non sarebbe del tutto condivisibile
posto che quel che rileva nel caso di specie è il dualismo norma interna/norma
convenzionale. Come già specificato, ai sensi dell’art. 25 ultimo comma del DPR
600/1973, i compensi di cui all’art. 23 comma 2 lettera c) se corrisposti a non
residenti sono soggetti ad una ritenuta alla fonte del 30% applicata da colui che
corrisponde il compenso stesso.
L’art. 12 della Convenzione Italia-Germania dopo aver previsto che i canoni
corrisposti sono imponibili nel Paese di destinazione provvede a specificare che
tuttavia, tali compensi possono essere tassati anche nello Stato della fonte, in
conformità alle leggi di quest’ultimo, ma se il soggetto che percepisce i proventi è
il beneficiario effettivo degli stessi allora l’imposta applicata non può superare il
5%.
Orbene, secondo l’orientamento di alcuni, dall’analisi del testo pare pacifico
che il soggetto residente erogante sia sempre obbligato ad applicare la ritenuta alla
fonte, il fatto poi che il destinatario dei proventi sia il beneficiario effettivo incide
solo sul quantum della ritenuta. Perciò, seguendo tale teoria, in assenza del
requisito del beneficiario effettivo non è corretto parlare di “non applicazione” del
trattato Italia-Germania, è giusto dire che si applica il trattato nella parte in cui
non limita l’imposizione dello Stato della fonte.
107
Davide MARINI, “La nozione di beneficiario effettivo, tra onere della prova e scelta del
regime convenzionale applicabile” in Approfondimento da IL FISCO 30/2011
126
Pertanto, nel caso di specie in luogo della ritenuta del 5% occorrerebbe
applicare la ritenuta del 30% ai sensi dell’ordinamento interno e non l’aliquota del
12%, così come previsto dalla sentenza, in applicazione della Convenzione ItaliaStati Uniti.
Un orientamento di questo tipo parte da un’analisi letterale del testo della
Convenzione la quale si baserebbe sul fatto che in assenza dei presupposti che
legittimano l’applicazione dell’agevolazione convenzionale si passerebbe
automaticamente alla normativa interna (dello stato della fonte). Orbene, una tale
conclusione è lecita nel momento in assenza, tra lo Stato della fonte e lo Stato di
residenza del beneficiario effettivo, di una Convenzione contro le doppie
imposizioni.
Nel caso di specie la situazione è differente in quanto tra l’Italia e gli Stati
Uniti (Stato di residenza del beneficiario effettivo) esiste una Convenzione
sottoscritta, ciò legittima la Commissione tributaria ad applicare una normativa
diversa da quella dello Stato della fonte.
Si tratta, ancora una volta, di far prevalere la sostanza sulla forma: è pur vero
infatti che il dato letterale della Convenzione Italia-Germania prende in
considerazione solo due possibilità normative: quella convenzionale e quella
interna, ma è altrettanto vero che nel caso di specie entra in gioco anche un’altra
Convenzione quella firmata con gli Stati Uniti. Tale situazione legittima pertanto
la decisione presa dalla Commissione tributaria.
Caso Bank of Scotland, 29 dicembre 2006.
Particolare attenzione al ruolo ricoperto dal soggetto interposto (conduit) è stata
data dalla Corte amministrativa francese nel caso Bank of Scotland.108
Il caso trae origine da un contratto di usufrutto della durata di tre anni tra una
società statunitense e la Bank of Scotland, residente nel Regno Unito.
108
Conseil d’Etat, 29 dicembre 2006, Ministre de l’Economie, des Finances et de l’Industrie v.
Société Bank of Scotland, n. 283314.
127
In base a tale accordo quest’ultima avrebbe avuto diritto, per tre anni, alla
riscossione dei dividendi correlati alle azioni di una società francese a sua volta
controllata dalla società americana, il tutto può essere così schematizzato:
Società USA
Contratto di
usufrutto
controlla
Società FRANCESE
dividendi
Bank of Scotland
Una volta distribuiti i dividendi la Bank of Scotland ha inoltrato
all’Amministrazione francese la richiesta del rimborso della quota eccedente il
limite
convenzionale
dell’aliquota
insieme
al
rimborso
dell’importo
corrispondente al credito di imposta sui dividendi (avoir fiscal), secondo quanto
previsto dalla Convenzione Regno Unito/Francia.
L’Amministrazione francese, di fronte a suddetta richiesta, ha risposto con un
diniego riconoscendo il beneficiario effettivo dei dividendi non nella Bank of
Scotland, bensì nella società americana. Il ragionamento dell’Amministrazione
che giustifica tale decisione si baserebbe sul fatto che il contratto di usufrutto
sottoscritto tra la banca e la società USA nasconderebbe in realtà un prestito nei
confronti di quest’ultima della durata di tre anni, la cui remunerazione
consisterebbe proprio nel risparmio derivante dal credito di imposta che otterrebbe
la banca scozzese.
Il Consiglio di Stato francese ha riqualificato il contratto tra la Società USA e
la banca come un prestito, rimborsato attraverso la sussidiaria francese della
società americana.
Infine, la Corte di ultima istanza ha ritenuto che il soggetto interposto fosse
proprio la Banca scozzese, la cui partecipazione era esclusivamente finalizzata
allo sfruttamento del rimborso dell’avoir fiscal in base alla Convenzione Francia-
128
Regno Unito. Pertanto, riconoscendo la società americana come beneficial owner,
la Corte ha negato alla banca scozzese il risparmio di imposta.
RM 169/E del 30 luglio 1997
Questo tipo di esempio si ricollega alla tematica di classificazione dei
corrispettivi per l'utilizzo di software. In particolare, nel caso di specie il
contribuente pone un quesito in merito al trattamento fiscale dei corrispettivi
ricevuti da società estere, prive di stabile organizzazione in Italia, per la
concessione dell'uso di programmi software. Posto che il software viene utilizzato
dall'acquirente per scopi personali e non commerciali, il contribuente ipotizza che
il corrispettivo da lui ricevuto non possa essere classificato come royalty bensì
come utile di impresa.
Come si è già avuto modo di vedere all'interno del capitolo XX, i corrispettivi
derivanti dal trasferimento di software possono essere classificati come utili di
impresa royalty o capital gain a seconda del contenuto del contratto.
Ciò detto, il Ministero si trova d'accordo con quanto affermato dal
contribuente,e precisa che: “se l'acquisto del software è finalizzato al puro utilizzo
personale e commerciale, prescindendo da qualsiasi forma di riproduzione e
commercializzazione del software stesso, allora
il corrispettivo pagato sarà
configurabile come reddito di impresa o di lavoro autonomo – a seconda della
natura del percipiente- e non come royalty.”
Sentenza della Corte di Cassazione n. 21220 del 29 settembre 2006.
La sentenza in esame ha per oggetto un contratto sottoscritto tra una casa
discografica statunitense e una consociata italiana attraverso il quale quest'ultima
avrebbe ottenuto il diritto di sfruttamento di registrazioni dietro il pagamento di
royalties ai sensi dell'art. 12, paragrafo 2, della Convenzione Italia-USA.
129
Orbene, la Sentenza intende indicare con precisione l'esatta qualificazione dei
diritti in questione per poter applicare l'esatta ritenuta alla fonte. La Convenzione
Italia-USA, infatti, prevede differenti ritenute a seconda della tipologia di diritto
concesso:
1. 5% in caso di concessione di un diritto d'autore su opere letterarie,
artistiche, scientifiche;
2. 8% per la concessione di pellicole cinematografiche e di altri mezzi di
registrazione per trasmissioni radiofoniche o televisive;
3. 10% in tutti gli altri casi.
Nel caso in oggetto la casa discografica americana concedeva, in esclusiva,
alla consociata italiana il diritto di sfruttare le registrazioni master incluse in un
proprio catalogo e di “fabbricare supporti fonografici derivanti da registrazioni
master, di riprodurre adottare o usare altrimenti le registrazioni master”109 Alla
società italiana è stata contestata l'applicazione dell'aliquota del 5% in luogo di
quella del 10%.
La Corte di Cassazione, dopo aver ricordato il contenuto della “general rinvoi
clause”110 in cui si afferma il principio per cui espressioni non definite dalla
Convenzione devono essere interpretate secondo il significato che ad esse viene è
attribuito dalla legislazione dello Stato membro, si sofferma sulla definizione di
diritto d’autore nell’ordinamento italiano. In particolare, la Cassazione precisa
che, nell’ordinamento italiano, e in generale negli ordinamenti europei, si è voluto
separare il “diritto d’autore” dagli altri diritti “connessi al diritto d’autore”111 i
quali rientrano nella disciplina dei beni immateriali, ma sono autonomi rispetto ai
diritti d’autore in senso stretto.
109
Dragonetti, Piacentini, Sfondrini, Il regime impositivo delle royalties nel diritto tributario
internazionale, manuale di fiscalità internazionale, pg 721 e ss.
110
Art. 3 paragrafo 2 che così recita: 2. “As regards the application of the Convention at any
time by a Contracting State, any term not defined therein shall, unless the context otherwise
requires, have the meaning that it has at that time under the law of that State for the purposes of
the taxes to which the Convention applies, any meaning under the applicable tax laws of that
State prevailing over a meaning given to the term under other laws of that State.”
111
Neighbour rights, secondo l’espressione anglosassone.
130
Ciò detto, “i diritti relativi alla produzione di dischi fonografici e di
apparecchi analoghi” daranno origine a royalties assoggettabili ad una ritenuta del
10%.
CAPITOLO 3
Il fenomeno del transfer pricing e il suo legame con gli
Intangibles
Negli ultimi decenni, le multinazionali, nell’elaborazione delle proprie
strategie, sono state influenzate sempre più, da un lato, dal progresso tecnologico
che ha rimosso gli ostacoli alla circolazione di persone, beni e servizi e, dall’altro,
dalla modernizzazione dei sistemi fiscali, con una crescente interrelazione tra i
sistemi stessi e competizione mossa da alcuni Stati nei confronti della
maggioranza dei paesi industrializzati in materia fiscale.
Questa situazione ha, in alcuni casi, generato nelle multinazionali, con la
compiacenza di alcuni Stati e di alcune Amministrazioni finanziarie, la tentazione
di strutturare le proprie attività non tanto in funzione della realtà e delle necessità
aziendali quanto in funzione della minimizzazione (non ottimizzazione) degli
oneri fiscali.
Una delle tecniche più utilizzate per raggiungere tale obiettivo è la
pianificazione (non corretta) dei prezzi di trasferimento.112
Tale prezzo è sempre più oggetto delle attenzioni dei gruppi transnazionali e
delle autorità fiscali nazionali ed internazionali. Il tema del transfer pricing,
infatti, investe materie varie, quali la normativa fiscale, la normativa societaria e
civilistica in genere, la ragioneria e l’economia aziendale.
Nella comune accezione economica col temine Transfer Pricing si intende il
controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie
intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse , al fine
112
Per prezzo di trasferimento (transfer pricing) si intende, nella prassi, il prezzo al quale
viene compravenduto un bene o un servizio tra due parti appartenenti allo stesso soggetto
economico.
131
di verificare che non vi siano “aggiustamenti artificiali” di tali prezzi. Infatti, a
titolo di esempio, può verificarsi, nell’ambito dei rapporti infragruppo, la seguente
procedura elusiva :
La società X, residente in una nazione ad elevata pressione fiscale , acquista beni
e/o servizi dalla consorella Y, ubicata in un paese in cui vige un basso livello di
tassazione. Allo scopo di concentrare il più possibile l’utile nello Stato a più
bassa pressione fiscale, la società multinazionale potrà fissare un prezzo di
vendita dei beni e/o servizi della società Y molto elevato, in modo che il profitto si
concentri all’interno del Paese a bassa pressione fiscale e, nel contempo, tale
corrispettivo di riferimento non lasci spazio ad alcun margine di ricavo ad X ,
nell’ipotesi di rivendita di quanto acquistato.
Per quanto attiene più specificatamente all’ analisi effettuata in questa sede,
ossia la materia degli intangibles, valgono le stesse considerazioni. La
determinazione dei canoni relativi a trasferimenti di marchi, brevetti e licenze
produttive, nonché a programmi di ricerca e sviluppo commerciale viene condotta
ad un valore nettamente superiore a quello normale mediante una manipolazione
dei valori delle spese e dei compensi ad esse correlati.
In relazione alla materia dei servizi in genere, una pratica di transfer pricing
utilizzata piuttosto di frequente è quella della compensazione tra benefici ricevuti
e corrisposti tra companies appartenenti al medesimo gruppo. Le compensazioni
possono essere intenzionali o post-verifica; le prime costituiscono un
bilanciamento di due transazioni, bilanciamento che si verifica quando un’impresa
offre un vantaggio ad un’altra impresa e tale vantaggio viene compensato da
benefici ricevuti da quest’ultima, come la concessione dell’utilizzo di un brevetto
che ha come contropartita lo sfruttamento di un marchio. La seconda tipologia
invece, viene fatta valere a seguito di una verifica che abbia corretto i prezzi di
trasferimento.113
113
Ovviamente, avvalendosi delle compensazioni le imprese coinvolte potrebbero porre in
essere operazioni elusive ed, in tale senso, l’OCSE si è preoccupata di sollecitare le
amministrazioni finanziarie dei vari Stati aderenti ad individuare e valutare con estrema
attenzione comportamenti di questo genere.
132
A titolo di esempio: ad un’impresa sita in un Paese ad elevata fiscalità viene
concesso l’utilizzo del marchio della casa madre, sita in un Paese a bassa
fiscalità, senza pagamento di royalties, mentre, a compensazione di tale beneficio,
la controllata potrebbe cedere ad un prezzo esiguo le proprie merci alla
controllante. Attraverso un tale accordo la multinazionale si assicurerebbe
contemporaneamente il vantaggio di non vedersi applicata la ritenuta
convenzionale sui canoni per lo sfruttamento del marchio e mantenere bassi gli
utili nel paese ad elevata fiscalità.
Al fine di prevenire tali forme elusive, le amministrazioni fiscali dovrebbero
analizzare la struttura dell’operazione e gli accordi sottostanti.
L’analisi che lo scrivente intende effettuare in questo capitolo parte da
considerazioni generali che possano dare una visione d’insieme della complessa
tematica del transfer pricing sia a livello di fonti nazionali che di fonti
convenzionali. Ciò detto, ci si addentrerà nell’approfondimento della medesima
tematica con riguardo ai beni immateriali.
Attraverso tale studio si cercherà di dare spazio alle peculiarità tipiche di
questi ultimi e alle conseguenti difficoltà applicative e interpretative che, sia
l’Amministrazione finanziaria che la giurisprudenza, si trovano spesso ad
affrontare.
3.1 Fonti nazionali.
La disciplina dei prezzi di trasferimento in Italia è contenuta, oggi, all’interno
delle seguenti fonti legislative:
−
l’art. 110, comma 7 del DPR 917 del 22 dicembre 1986 (TUIR);
−
nell’art. 9 comma 3 del DPR 917 del 22 dicembre 1986 (TUIR);
−
nell’art. 53 del DPR 597 del 29 settembre 1973;
−
nell’art. 56 del DPR 597 del 29 settembre 1973.114
114
Risultano altrettanto importanti le Circ. del 22 settembre 1980 numero 32 e la Circolare
del 12 dicembre 1981 numero 42 all’interno delle quali viene data interpretazione dei concetti di
controllo e di valore normale.
133
Ma è dato rinvenire, nel nostro paese, disposizioni ascrivibili a questa area già
nel Testo Unico delle leggi sulle imposte dirette del 1958 ( DPR 645/1958).
L’articolo 110 comma 7 del Tuir impone al contribuente, e consente
all’Amministrazione Finanziaria Italiana, in sede di controllo sostanziale, di
valutare al valore “normale” le operazioni poste in essere tra impresa residente e
una società non residente, qualora tra le stesse vi sia un rapporto di controllo di
diritto o di fatto o entrambe siano controllate da un terzo soggetto ( Circolare 32
del 22/9/80 Min. Finanze ).
Ai fini dell’applicazione di suddetta disposizione l’articolo 9 comma 3 del
Tuir stabilisce che “per valore normale si intende il prezzo o corrispettivo
mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in
condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione,
nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa
riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito
i beni o i sevizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di
commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”.
Pertanto la ratio, alla base dell’art. 110, comma 7, del T.U.I.R. consiste
nell’individuare un criterio generale di corretta ripartizione della base imponibile
delle imprese multinazionali tra i vari Stati, in cui le imprese stesse operano, al
fine di tutelare l’integrità del prelievo tributario degli Stati coinvolti nelle
transazioni poste in essere ed evitare la doppia imposizione. Infatti ogni qualvolta
uno dei due sistemi impositivi interessati dalla transazione operi un incremento
del reddito del soggetto residente, ritenendo incongruo il prezzo concordato, tale
modifica dovrebbe essere accompagnata da una variazione speculare, apportata
dall’altro Stato, alla base imponibile della controparte (il c.d. correlative
adjustement ): quest’azione, infatti, è da ritenersi pressoché essenziale, al fine di
prevenire il problema di duplice imposizione dello stesso presupposto che si
innescherebbe in presenza di interventi unilaterali (art. 9 comma 2 mod. OCSE).
Ma i correttivi sinora adottati non appaiono del tutto soddisfacenti. Proprio
muovendo da tale aspetto, è dato rilevare la parziale inefficacia del “RULING”
introdotto dal legislatore con il D.L. 30/9/2003 n. 269, procedura che si avvia su
impulso del contribuente, al fine di giungere ad un accordo sulla specifica
134
tematica del Transfer Pricing, ma che non esplica alcun effetto al di fuori dei
confini nazionali.
Si precisa, inoltre, che il legislatore nazionale ha attribuito rilevanza fiscale
segnatamente alle operazioni poste in essere da “gruppi societari”, limitandosi,
però, ad annoverare le sole transazioni effettuate con società non residenti nel
territorio dello Stato, con le quali sussista un rapporto di controllo diretto o
indiretto (è preclusa, pertanto, l’applicazione di tale normativa alle operazioni
infragruppo, poste in essere fra imprese nazionali). Tale indicazione viene
specificata all’interno della Circ. n. 32 del 22 settembre 1980. Quest’ultima è
conforme nel contenuto a quanto previsto dall’OCSE nelle “Transfer pricing
Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations”.
Con riferimento all’articolo 110 comma 7 del TUIR la citata circolare
chiarisce che lo stesso è limitato al campo delle cessioni di beni e delle prestazioni
di servizi intercorrenti:
−
fra una società estera ed un’impresa italiana da essa direttamente
controllata;
−
fra una società estera ed un’impresa italiana da essa indirettamente
controllata attraverso un’altra società estera;
−
fra una società estera ed un’impresa italiana entrambe controllate da una
terza società estera.
Pertanto, in mancanza di uno solo dei suddetti presupposti l’applicazione
dell’articolo non può essere ammessa.
La Giurisprudenza e la prassi dell’Amministrazione Finanziaria hanno, in più
circostanze, rilevato la mancanza di adeguati strumenti normativi per “aggredire”
pratiche evasive/elusive, legate ai prezzi di trasferimento interni, ma il legislatore
tributario non ha saputo dare risposte a tali richieste.115
Lo strumento più efficace, utilizzabile dall’Amministrazione Finanziaria,
avallato anche da un ormai solido parere della Suprema Corte, è rappresentato,
115
In più occasioni si era prospettata l’ipotesi di estendere anche ai casi di Transfer Pricing
interno la disciplina dell’art. 110, comma 7, T.U.I.R. e, quindi, dare valore di presunzione, con
tutte le conseguenze che da ciò deriva, al valore normale dei beni e servizi ceduti nelle operazioni
infragruppo nazionali, ma tale ipotesi non si è concretizzata.
135
invece, dalla possibilità di contestare le scelte gestionali dell’imprenditore,
quando sono palesemente antieconomiche e sono poste in essere col solo fine di
realizzare un illegittimo risparmio di imposta. Si approfondirà tale aspetto nel
prosieguo della trattazione, in specifico, nella parte relativa i possibili profili
penali/elusivi del tema degli intangibles.
Le nozioni di base a cui occorre fare riferimento per l’applicabilità della
disciplina del transfer pricing sono:
3.1.1 Il concetto di Società non residente.
L’articolo 110 del TUIR fa riferimento al concetto di società non residenti.
Tale nozione acquista un più vasto campo di applicazione alla luce
dell’interpretazione offerta dalla Circ. 32 del 1980.
L’utilizzo del termine “società” ha dato origine a due differenti orientamenti:
−
il primo esclude l’applicazione delle normative sul transfer pricing alle
operazioni aventi ad oggetto accordi tra imprese residenti e soggetti esteri
privi di una struttura societaria;
−
il secondo orientamento, accolto dalla Circ. 32/1980, ritiene che l’istituto
possa essere applicato anche ad organismi societari privi del requisito della
plurisoggettività.
In
tali
circostanze,
tuttavia,
si
prevede
che
l’Amministrazione possa fare ricorso esclusivamente ai mezzi ordinari di
accertamento, senza l’assunzione di una presunzione assoluta.
Conseguentemente, di estrema importanza è la nozione di stabile
organizzazione, in relazione alla possibilità di tassare il reddito d’impresa nello
Stato dove lo stesso viene prodotto. Orbene, la Stabile Organizzazione si
caratterizza per due elementi :
−
l’esistenza di una sede fissa ( locali, materiali, attrezzature ) ;
−
l’esercizio di attività da parte dell’impresa mediante tale sede.
136
La Circolare in esame specifica che fra i soggetti esteri debbano comparire
anche le stabili organizzazioni, non localizzate in Italia, di società estere. Queste
ultime, infatti, non sono dotate di autonomia giuridica rispetto alla casa madre
straniera, per cui dar vita ad un rapporto commerciale con una di esse significa
creare un rapporto con la casa madre.
3.1.2 Il controllo.
L’interpretazione offerta dalla Circ 32/1980 stabilisce che il concetto di
controllo a cui fa riferimento l’art. 110 del TUIR non si esaurisce nella definizione
offerta dal Codice Civile all’interno dell’art. 2359. In base alla normativa
civilistica si parla di una situazione di controllo in tre casi:
−
nel caso di una società in cui un’altra società dispone della maggioranza
dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;
−
nel caso di una società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per
poter esrcitare un’influenza dominante;
−
nel caso di una società sulla quale un’altra società esercita un’influenza
notevole.
La Circolare in esame va oltre l’elencazione formale fornita dal Codice Civile,
essa infatti considera rilevanti anche quelle situazioni che di fatto asseriscono la
presenza di un contesto di controllo. Ci si riferisce alle circostanze in cui una
Società esercita un’ influenza effettiva sulle decisioni imprenditoriali di un’altra,
che permette un’alterazione dei prezzi di trasferimento.
Ne consegue che la disciplina sul transfer pricing trova applicazione non
soltanto nelle ipotesi di controllo dettate dall’art. 2359 del C.c., bensì tutte le volte
che le circostanze in cui operano le due Società facciano presupporre l’unicità di
governo delle due imprese.
137
3.1.3 Il valore normale.
Il concetto di “valore normale” si collega al principio di libera concorrenza
(arm’s lenght principle) alla base della disciplina del transfer pricing. Secondo
tale principio, il prezzo pattuito nelle transazioni commerciali tra imprese
associate deve corrispondere al prezzo che sarebbe stato convenuto tra imprese
indipendenti per transazioni identiche o analoghe sul libero mercato, da
identificarsi con il valore normale dei beni o servizi trasferiti.
Il parametro delle valutazioni infragruppo sarà quindi il valore normale di cui
il comma 3 dell’art 9 del TUIR dà definizione.116
3.2 Fonte convenzionale.
In ambito OCSE la materia ha formato oggetto di diversi studi approfonditi da
parte del comitato per gli affari fiscali. Il rapporto principale in materia risale
all’anno 1979 e in esso furono indicati i criteri base per la determinazione del
valore normale delle operazioni intercorse tra società appartenenti allo stesso
gruppo, allo scopo di fornire soluzioni idonee a ridurre i conflitti sia tra le
amministrazioni fiscali, sia tra queste ultime e le imprese multinazionali.
Tale documento, tuttavia, in considerazione soprattutto del notevole aumento
di operazioni, è stato rivisto e integrato dall’OCSE nel 1984 e nel 1987, fino alla
stesura, nel luglio 1995 del rapporto dal titolo “Transfer Pricing guidelines for
multinational enterprises and tax administrations”.
I capitoli da I a V sono stati pubblicati nel luglio del 1995. Nel 1996 il
rapporto si è arricchito di ulteriori capitoli tra cui il cap. VI, “Special
116
Art. 9, comma 3 del Tuir: “Per valore normale,(…), si intende il prezzo o corrispettivo
mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera
concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o
servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo piu' prossimi. Per la
determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del
soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di
commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso. Per i beni e i servizi
soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore”.
138
considerations for Intangible property”, che detta disposizioni per la valutazione
delle transazioni aventi ad oggetto beni immateriali, che rappresenta, per l’analisi
effettuata in questa sede, l’aspetto di maggior interesse. Nel luglio del 2010 viene
infine pubblicata una versione aggiornata delle linee guida del Transfer Pricing
che vede l’aggiornamento dei capitoli I (The arm’s lenght principle), II (Transfer
pricig methods), III ( Comparability analysis) e l’introduzione del nuovo capitolo
IX riguardante gli aspetti relativi alle operazioni di riorganizzazione aziendale.
Occorre altresì rilevare che la disposizione applicabile alle predette fattispecie,
in virtù del principio di specialità delle norme convenzionali, è quella contenuta
nell’art. 9 del Modello di Convenzione, che definisce il principio di libera
concorrenza. Esso stabilisce che qualora tra due imprese, nelle loro relazioni
commerciali o finanziarie siano definite “condizioni (…) diverse da quelle che
sarebbero state convenute tra due imprese indipendenti, gli utili che, in mancanza
di tali condizioni, sarebbero stati realizzati da una delle imprese, ma che a causa
di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa
impresa e tassati di conseguenza”.117
3.2.1 I metodi del Modello OCSE.
Al fine di ottenere una chiara visione di insieme, qui di seguito si
illustreranno, in maniera schematica, i metodi per la determinazione del prezzo di
trasferimento previsti dall’OCSE.
Si distinguono due macro-categorie:
1. i metodi tradizionali, basati sulla transazione:
−
confronto del prezzo (CUP);
−
metodo del prezzo di rivendita (Resale Minus);
−
metodo del costo maggiorato (Cost Plus);
139
2. metodi reddituali, basati sugli utili:
−
ripartizione dei profitti globali (Profit Split);
−
comparazione dei profitti netti (Transactional Net Margin
Method).
Qui di seguito si propone una breve definizione per ognuno dei metodi sopra
elencati:
−
Metodo CUP: prevede il confronto tra il prezzo applicato alla transazione
infragruppo e quello applicato a transazioni comparabili tra imprese sul
libero mercato.
−
Metodo del prezzo di rivendita: si riferisce al prezzo a cui un prodotto che
è stato acquistato da un’impresa associata viene rivenduto ad un’impresa
indipendente. Detto prezzo viene poi ridotto di un margine utile lordo
(cifra al quale il rivenditore copre i proprio costi).
−
Metodo del costo maggiorato: il quale determina il prezzo di trasferimento
aggiungendo ai costi sostenuti un margine di profitto lordo.
−
Metodo della ripartizione dell’utile: calcola, innanzitutto, l’utile da
ripartire tra le imprese associate derivante dalle transizioni controllate da
queste effettuate. Detto utile viene quindi ripartito tra le imprese associate
in base ad un fondamento economicamente valido.
−
Metodo basato sul margine netto della transazione: confronta gli indicatori
di profitto netto della transazione controllata con quelli di transazioni
comparabili con o tra terze economie.
117
Alle norme contenute nel Modello OCSE si affianca, a fini interpretativi , il Commentario
al modello medesimo che, con riferimento al già citato articolo 9, opera un espresso rinvio alle
Direttive OCSE sui prezzi di trasferimento.
140
3.3 Il transfer pricing dei beni immateriali.
Dopo aver illustrato, in maniera generica, i punti cardine della tematica del
transfer pricing, pare logico “entrare nel vivo” della trattazione affrontando
suddetta materia relativamente ai beni immateriali.
Si è più volte ricordato come la differente natura intrinseca dei beni in oggetto
porti con sé, come conseguenza, diversi trattamenti riservati agli stessi in più
aspetti dell’ambito fiscale. Pertanto, sull’onda di tale considerazione, pare pacifico
che anche in materia di transfer pricing gli intangibles possano godere di una
disciplina distinta.
3.3.1 La disciplina italiana
La circolare 22 settembre 1980 n. 32 prevede che, ai fini della determinazione
del valore normale delle transazioni aventi ad oggetto beni immateriali, possa
trovare applicazione uno dei tre criteri tradizionali adottati per le cessioni di beni
materiali (Metodo del confronto del prezzo, Metodo del prezzo di rivendita,
Metodo del costo maggiorato). A differenza dell’OCSE però, suddetta circolare
non fa distinzione tra beni immateriali commerciali e beni immateriali di
marketing.
L’applicabilità di uno dei tre metodi è subordinata alla sussistenza della
similarità delle transazioni, anche se, come si è spesso ricordato, il confronto non
è agevole a causa dell’unicità del bene immateriale, oggetto della transazione.
Per quanto concerne invece la determinazione del valore normale del canone
un’influenza determinante viene esercitata dal settore economico a cui appartiene
il bene immateriale.
L’Amministrazione finanziaria ha specificato che la determinazione della
royalty viene influenzata innanzitutto dalla metodologia tecnica, la quale
considera il vantaggio che il licenziatario potrà conseguire in relazione alla
possibilità di sfruttare il bene. Pertanto, i dati tecnici alla base della
determinazione del canone saranno:
141
−
l’effettuazione di ricerche e sperimentazioni;
−
l’obsolescenza del bene inferiore o superiore all’anno;
−
la vita tecnica dell’invenzione industriale;
−
l’originalità, complessità e portata tecnologica;
−
i
risultati
ottenuti
dallo
stesso
licenziante
mediante
l’utilizzo
dell’invenzione industriale;
Talvolta però, suddetti dati, da soli, non risultano sufficienti per una giusta
determinazione del valore normale. In questi casi l’Amministrazione finanziaria
dovrà combinare i dati tecnici co quelli giuridici rilevabili dalle clausole
contrattuali, come ad esempio:
−
diritto di esclusiva;
−
limitazione territoriale;
−
protezione accordata all’invenzione industriale dalla legislazione dello
Stato del licenziatario;
−
durata del contratto;
−
diritto di concedere sub-licenze.
Un altro punto importante per la valutazione dell’adeguatezza del canone
riguarda il vantaggio che sarà presumibilmente conseguito dalla società
licenziataria in conseguenza dello sfruttamento dell’intangible.
L’Amministrazione finanziaria, a tal riguardo, nella circolare 32/1980, ha
chiarito che “il vantaggio conseguibile dal destinatario delle invenzioni
industriali deve poi essere considerato temporalmente: in genere, infatti, un
contratto di licenza è stipulato quando la società beneficiaria effettivamente
abbisogna della tecnologia della consociata per esercitare la sua attività”.
Pertanto, pare pacifica la necessità che il licenziatario del bene immateriale
consegua, dal rapporto con il licenziante, un vantaggio reale ed effettivo o abbia
potuto prevedere un vantaggio al momento della stipula del contratto.
Per ciò che concerne la misura specifica del canone, si possono seguire diversi
criteri, legati all’entità della produzione o dei ricavi del licenziatario, piuttosto che
sui profitti. Talvolta, viene stabilita una somma una tantum, talvolta viene
concordato un canone periodico.
142
Ciò detto, l’amministrazione finanziaria ha ritenuto opportuno procedere ad
una predeterminazione di “valori normali” da ritenere congrui, alle seguenti
condizioni:
1. Canoni fino al 2% del fatturato potranno essere accettati quando
−
il contratto è redatto in forma scritta ed è anteriore al pagamento
del canone;
−
sia sufficientemente documentata l’utilizzazione e, quindi,
l’inerenza del costo sostenuto
2. Canoni tra il 2% e il 5% sono ritenuti congrui se, oltre a soddisfare le
esigenze del punto precedente :
−
risultino giustificati dai dati tecnici e giuridici;
−
sia comprovata l’effettiva utilità conseguita dal licenziatario.
3. Canoni superiori al 5% del fatturato saranno giustificati solo in casi
eccezionali, motivati dall’alto livello tecnologico del settore economico in
questione o da altre circostanze.
4. Canoni di qualunque ammontare, corrisposti a società residenti in Paesi a
bassa fiscalità potranno essere ammessi in detrazione e riconosciuti
congrui solo alle condizioni più onerose previste al punto 3.
3.3.2 L’onere documentale.
Particolare rilevanza riveste la tematica della documentazione, che rappresenta
un
importante
riferimento
nella
natura
dialettica
del
confronto
tra
Amministrazione Finanziaria e contribuente, in relazione alla disciplina del
transfer pricing e che permette di mettere in evidenza la recente novità introdotta
in Italia con l’art. 26 del D.L. n. 78/2010, convertito con la legge 122/2010.
143
In particolare, si constata che il fenomeno del transfer pricing in Italia ha
raggiunto una rilevanza tale da far si che il legislatore abbia ritenuto opportuno
intervenire dopo anni di silenzio.
Suddetto decreto legge, che testimonia, dopo anni di inerzia, la volontà del
legislatore di dare rapida attuazione alle indicazioni sul punto di fonte
convenzionale e comunitaria, (linee guida 22/7/2010) prevede una copertura dalle
sanzioni applicabili in caso di rettifica dei prezzi praticati in seno ad un gruppo
internazionale, nel momento in cui siano rispettati specifici obblighi documentali
e di comunicazione all’Amministrazione Finanziaria.
Più in dettaglio, si stabilisce che non è irrogabile la sanzione per infedele
dichiarazione se, nel corso di accessi, ispezioni o verifiche o altre attività
istruttorie, l’impresa documenta i criteri di determinazione dei prezzi di
trasferimento praticati con le altre imprese del gruppo non residenti.
L’obiettivo della nuova norma è, in particolare, quello di prevedere una
documentazione standard, che consenta di verificare la conformità al valore
normale dei prezzi di trasferimento praticati dalle imprese nelle operazioni
infragruppo internazionali.
Notevole rilievo, a tal riguardo, assume il tema dell’onere della prova (di cui
si è accennato in precedenza). Si tratta di stabilire a chi spetti, tra
Amministrazione finanziaria e contribuente, l’onere di fornire gli elementi di
prova della conformità (o meno) dei prezzi di trasferimento alle norme di legge.118
In attuazione dell’art. 26 del d.l. 78/2010, l’Agenzia delle Entrate, con
provvedimento del 22/9/2010 stabilisce lo schema della documentazione da
produrre per sfuggire alle sanzioni dell’infedele dichiarazione: “master file e
documentazione nazionale”.119
118
Si richiama, a tal proposito, la sentenza 13/10/2006 n. 22023, con la quale la Corte di
Cassazione ha stabilito che il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di
trasferimento applicati, se prima l’Amministrazione fiscale non ha provato il mancato rispetto del
valore normale.
119
Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate: “Dal 2010 la comunicazione del possesso della
documentazione sul transfer pricing andrà effettuata con la presentazione della dichiarazione dei
redditi . La comunicazione sarà effettuata sempre telematicamente. La mancata comunicazione
non avrà conseguenze se trasmessa in ritardo, ma prima che siano iniziati accessi, ispezioni,
verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali il soggetto abbia avuto
formale conoscenza. La documentazione sarà costituita da un “master file” e dalla “
documentazione nazionale”, destinati a raccogliere informazioni relative al gruppo e alla Società.
144
3.3.3 Giurisprudenza nazionale.
La giurisprudenza nazionale in merito al transfer pricing di beni immateriali
non è molto vasta, per cui risulta piuttosto difficile identificare un orientamento
consolidato. Tale constatazione trova fondamento non tanto nelle particolari
caratteristiche intrinseche del bene immateriale, quanto nella sostanziale
mancanza di transazioni indipendenti comparabili.
Una tematica particolarmente dibattuta nei procedimenti relativi al transfer
pricing è quella relativa all’onere della prova e agli obblighi di documentazione
che le imprese multinazionali devono adempiere.
Con riguardo al tema dell’onere della prova, la Corte di Cassazione ha
consolidato l’orientamento secondo cui l’onere della prova del mancato rispetto
del principio del “valore normale” nel rapporto tra consociate aventi sede in Stati
diversi spetti all’Amministrazione finanziaria.120
In taluni casi, gli organi giudicanti hanno condiviso le accuse dei verificatori
che si basavano su un mero confronto del prezzo con le royalties stabilite fra
contribuenti indipendenti, senza considerare che il potenziale profitto derivante
dallo sfruttamento dell’intangible asset fosse effettivamente paragonabile o meno.
In linea generale, si può comunque constatare una tendenza sostanzialmente
favorevole al contribuente sia da parte dei giudici di merito che di legittimità, i
quali hanno spesso rigettato le accuse dei verificatori in quanto basate su prove
inadeguate.121
La documentazione è diversa a secondo che si tratti di holding, sub holding, partecipate o stabili
organizzazioni. Le imprese controllate appartenenti a un gruppo multinazionale devono
predisporre la sola “documentazione nazionale”. Le piccole e medie imprese con volume d’affari o
di ricavi non superiore a 50 milioni di euro possono aggiornare la documentazione con periodicità
superiore all’anno”.
120
In diverse pronunce, infatti, la Corte ha affermato che nelle controversie aventi ad
oggetto i prezzi di trasferimento spetti all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare,
attraverso una ricostruzione analitica dei corrispettivi mediamente praticati tra parti
indipendenti, la supposta differenza fra i prezzi infragruppo mediamente praticati e il valore
normale delle cessioni o prestazioni. Occorre altresì rilevare come, in alcune occasioni, i giudici
abbiano avvallato l’operato degli Uffici fiscali, anche quando i verificatori abbiano ottenuto la
determinazione del prezzo infragruppo mediante la mera applicazione della misura delle royalties
contenuta nella circolare 32/1980, senza tener conto del fatto che tali misure devono
rappresentare solo un indizio per un successivo approfondimento di verifica.
121
A rigore, si segnale l’introduzione, da parte della giurisprudenza di legittimità, del
cosiddetto principio di economicità. Secondo tale principio, “l’imprenditore non ha l’insindacabile
145
Ciò detto, la mancanza di uno schema di riferimento da un lato, e la
percezione di una certa aleatorietà della tematica dall’altro, rendono piuttosto
difficile la creazione di un orientamento giurisprudenziale uniforme. Tutto questo
comporta maggiori difficoltà per i giudici stessi, i quali apportano spesso
argomentazioni confuse e incoerenti rispetto al principio di libera concorrenza
suggerito dall’OCSE.
Un caso particolarmente interessante è la sentenza del 19 novembre 1998
numero 387 con la quale la Commissione tributaria provinciale di Ravenna ha
disconosciuto la congruità delle royalties corrisposte da una società italiana alla
casa madre statunitense per lo sfruttamento economico di un marchio.
L’accordo commerciale prevedeva il pagamento di una royalty pari al 7% del
fatturato della società italiana, una percentuale che era stata giudicata
sproporzionata dall’Amministrazione finanziaria.
Infatti, come è stato affermato nel corso della trattazione, ai sensi della Circ.
32/1980 una royalty eccedente il 5% del fatturato è fiscalmente congrua solo in
casi eccezionali, ossia nel caso di beni ad elevato contenuto tecnologico. I
verificatori hanno constatato che nel caso di specie queste circostanze eccezionali
non sussistevano. Significativo è il fatto che il rapporto contrattuale, iniziato negli
anni 60, non aveva subito nel corso degli anni modifiche sostanziali; tutto ciò
lascia presupporre che l’oggetto contrattuale non sia in realtà caratterizzato da un
alto contenuto tecnologico. In più, il fatto che la società italiana stesse
sviluppando sempre di più il proprio settore di R&S per aumentare il proprio
know-how non ha fatto che avvalorare questa tesi.
Pertanto, l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto di poter quantificare nella
misura massima del 2% del fatturato la royalty in questione.
Come si avrà modo di approfondire nel prosieguo della trattazione, la
Sentenza relativa al caso degli stilisti Dolce e Gabbana risulta essere altrettanto
significativa.
diritto di scelta sulle proprie iniziative economiche, le quali devono essere coerenti con il principio
di economicità”.
146
3.3.4 L’attuale disciplina in ambito OCSE.
Come precedentemente accennato, l’OCSE dedica il capitolo VI delle Linee
Guida intitolato “Osservazioni specifiche relative ai beni immateriali” alle
cessioni infragruppo che hanno ad oggetto beni immateriali, proprio in
considerazione della difficoltà di valutazione dal punto di vista fiscale di tali
transazioni.
Nella valutazione del prezzo di libera concorrenza per i beni immateriali è
necessario partire da un’attenta analisi del valore di suddetti beni. Le metodologie
utilizzate per arrivare alla determinazione di un prezzo di libera concorrenza si
basano sui seguenti elementi:
•
Il valore di mercato: in quest’ottica viene preso in considerazione un certo
numero di transazioni realizzate tra soggetti indipendenti, realmente in
conflitto di interesse. Dal valore di queste transazioni (che ovviamente
dovranno essere comparabili con quella in esame) viene definito un range
di prezzi di “libero mercato” che costituirà il parametro di riferimento per
le categorie di beni immateriali esaminate.
•
Il costo storico o di produzione: un approccio che, per quanto ovvio,
considera determinante il costo sostenuto per produrre il bene.
•
I redditi derivanti dallo sfruttamento economico del bene: secondo tale
approccio il valore dell’intangible deriva dai flussi di reddito attualizzati,
tenendo conto di un adeguato costo del capitale.
Al fine di identificare in maniera esaustiva la tipologia di beni oggetto di
analisi, l’OCSE fornisce la seguente definizione: “il termine bene immateriale
comprende i diritti per l’utilizzo di beni industriali (come brevetti, marchi di
fabbrica, denominazioni commerciali, disegni o modelli) nonché i diritti di
proprietà letteraria ed artistica, e di proprietà intellettuale come il know-how e i
segreti industriali e commerciali”
147
Ciò detto, le Linee Guida passano ad una distinzione interna dei bei
immateriali che comprende i beni immateriali di marketing e i beni immateriali
commerciali rappresentati, rispettivamente, dai marchi di fabbrica e dai brevetti.
Dal momento che le differenze esistenti fra beni immateriali commerciali e
beni immateriali di marketing possono essere colte attraverso la diversità fra
brevetti e marchi pare utile mostrare, in breve, le caratteristiche di questi ultimi:
•
Il brevetto:
−
riguarda essenzialmente la produzione di beni;
−
può determinare lo sviluppo di un monopolio con riferimento a
determinati prodotti o servizi;
−
conferisce il diritto di utilizzare una certa invenzione per un
periodo limitato di tempo;
−
•
comporta ingenti investimenti in R&S.
Il marchio:
−
consiste in un nome o un simbolo che il proprietario di un bene
utilizza per promuovere il proprio prodotto;
−
può essere applicato a prodotti specifici o a linee di prodotti;
−
può conferire un particolare status al prodotto ma, a differenza dei
brevetti, non può sviluppare un monopolio in quanto i concorrenti
possono vendere prodotti simili nella misura in cui utilizzano segni
distintivi diversi;
−
può esistere per un tempo indefinito, la sua cessazione può derivare
da cause particolari come la rinuncia volontaria all’utilizzo,
sentenza giudiziaria ecc…
−
la creazione solitamente non è molto costosa ma il mantenimento e
la valorizzazione richiedono ingenti investimenti.
148
3.3.5 Determinazione del prezzo di libera concorrenza.
La determinazione del prezzo di libera concorrenza su beni immateriali può
risultare particolarmente complessa viste le caratteristiche intrinseche del bene che
rendono difficoltosa la rilevazione di beni di riferimento sul libero mercato.
Detto ciò, l’OCSE individua una serie di fattori che devono essere tenuti in
considerazione nell’analisi di comparabilità:
−
utili attesi dallo sfruttamento del bene;
−
limiti dell’area geografica in cui possono essere esercitati i diritti;
−
restrizione all’esportazione per i beni prodotti grazie ai diritti trasferiti;
−
l’investimento di capitali;
−
le spese di avviamento ed il necessario lavoro di sviluppo sul mercato;
−
la possibilità di concedere sub-licenze;
−
la rete di distribuzione del concessionario.
Fra i metodi di determinazione del prezzo, accennati nella parte iniziale del
capitolo, avendo riguardo delle caratteristiche che contraddistinguono i beni
immateriali, l’OCSE chiarisce che al fine di determinare il prezzo di libera
concorrenza, nel caso di una vendita o di una concessione in licenza per un bene
immateriale, è possibile utilizzare il metodo CUP ove il proprietario abbia
trasferito o concesso in licenza un bene immateriale comparabile in circostanze
comparabili ad imprese indipendenti.
Nel caso di vendita di beni che includono beni immateriali è possibile
utilizzare il metodo CUP o il metodo del prezzo di rivendita In particolare, in
presenza di beni di marketing l’analisi di comparabilità dovrebbe tener conto del
loro valore aggiunto, ponendo l’attenzione sul consenso del consumatore, sulla
localizzazione geografica, sulle quote di mercato, sul volume delle vendite ecc..
Mentre per quanto riguarda i beni commerciali occorrerà considerare il valore di
tali beni (protetti dal brevetto o da altri intangible con carattere esclusivo) e
l’importanza delle funzioni di R&S in corso.
Un maggior problema si ha in presenza di beni immateriali di elevato valore.
In questi casi, l’utilizzo di uno dei metodi tradizionali risulta particolarmente
complesso soprattutto quando entrambe le parti coinvolte nelle transazioni
149
possiedono beni immateriali di valore o beni unici. Al ricorrere di tali fattispecie
l’OCSE prevede la possibilità di utilizzare il metodo della ripartizione dell’utile.
3.3.6 Il nuovo progetto: il Discussion Draft OCSE.
Il capitolo VI delle Linee Guida OCSE relativo ai beni immateriali non è stato
oggetto di aggiornamenti dal 1995. Tale considerazione rende auspicabile un
intervento in seno a suddetto capitolo in virtù del fatto che, nonostante la validità
dei concetti ivi esposti, essi non risultano più sufficienti per affrontare le
problematiche che le attuali realtà di business presentano.122
Con questo obiettivo il 2 luglio 2010 il Comitato degli Affari fiscali
dell’OCSE ha lanciato una pubblica consultazione inerente le problematiche
relative al tansfer pricing dei beni immateriali.
Scopo del progetto è quello di incontrare i rappresentanti del settore privato
per poter discutere della tematica e giungere alla definizione di un discussion draft
entro il 2013123.
Il 25 gennaio 2011 il Working Party n. 6 del Committee on Fiscal Affairs
dell’OCSE (WP6 TPI) ha approvato il documento denominato “Transfer pricing
and Intangibles, scope of the OECD project”.
Si tratta di un documento programmatico attraverso il quale l’OCSE intende,
in primo luogo, focalizzare l’attenzione sulle difficoltà attualmente legate
all’insufficienza delle linee guida internazionali, con particolare riferimento alla
definizione, individuazione e valutazione dei beni immateriali, ai fini
dell’applicazione della disciplina del transfer pricing.
Lo “scoping paper” individua sette temi specifici quali aree di analisi ed
approfondimento.
122
P. VALENTE, “Transfer pricing e beni immateriali: il Discussion Draft OCSE del 6 giugno
2012”, in IL FISCO 33/2012.
123
Nel settembre del 2010 il WP6 TPI ha ricevuto i commenti dei rappresentanti del settore
imprenditoriale: Business and Industry Advisory Committee (BIAC). Questi ultimi identificano come
obiettivo principale quello di garantire la certezza per i contribuenti, riducendo in questo modo le
controversie in materia di transfer pricing e realizzare una serie di regole comuni per l’eliminazione
della doppia imposizione.
150
1. Framework per l’analisi degli aspetti di transfer pricing relativi ai beni
immateriali. In particolare, l’azione del WP6 TPI avrà un approccio simile,
a livello strutturale, a quello contenuto nel par. 3.4 delle Linee Guida per
condurre l’analisi di comparabilità.
2. Le linee guida non contengono una definizione di “intangibles” specifica
ai fini dell’applicazione della disciplina del transfer pricing, bensì una
lista non esaustiva dei beni immateriali più comuni. Lo “scoping paper”
non individua ancora un approccio specifico al tema, ma si limita ad
elencare una serie di argomenti che saranno oggetto di approfondimento.
L’obiettivo è quello identificare un bene immateriale e, in particolare,
comprendere se tale bene è stato usato o trasferito.
3. Specifiche
categorie
approfondimento,
di
beni
soprattutto
immateriali
alcuni
ancora
saranno
non
oggetto
di
sufficientemente
considerati, come i contratti alla base delle attività di ricerca e sviluppo,
l’avviamento, la redditività potenziale, il first mover advantage (inteso
come il vantaggio che un’azienda può ottenere andando ad occupare per
prima un certo segmento o nicchia di mercato) e altri “nuovi beni
immateriali”.
4. Profitti derivanti dallo sfruttamento di beni immateriali. Generalmente è
possibile individuare quale, tra le società intervenute in una transazione,
detenga la proprietà del bene. Ma è comunque possibile che la società che
non ha la proprietà del bene immateriale sia tenuta a partecipare , at arm’s
lenght, agli ulteriori profitti derivanti dallo sfruttamento del bene
immateriale, in virtù, per esempio, dei rischi e delle spese significative da
essa sostenute nelle fasi di sviluppo. Il tema dell’attribuzione dei profitti
economici derivanti dallo sviluppo o dallo sfruttamento di un bene
immateriale, in contrasto con il concetto di proprietà nella sua accezione
giuridica (legal ownership), è spesso legato al concetto di “economic
ownership”. Tali nozioni saranno oggetto di futuri chiarimenti.
151
5. Il W6 TPI delineerà i metodi valutativi da utilizzare per la determinazione
del valore dei beni immateriali e le linee guida generali per
l’individuazione del metodo più appropriato: con riferimento alla
determinazione dell’arm’s lenght remuneration. Il W6 TPI valuterà,
inoltre, l’applicazione dei metodi di valutazione finanziaria, già
riconosciuti dall’OCSE, e, in particolare, del discounted cash flow method.
6. Il progetto apporterà alcune modifiche alle indicazioni, contenute nel cap.
VIII, sui “Cost Contribution Arrangements” stipulati tra società
appartenenti a gruppi multinazionali per ripartire i costi e i rischi connessi
allo sviluppo, alla produzione o all’acquisto di beni immateriali, al fine di
coordinarle alla revisione del capitolo VI.
7. L’ultimo punto riguarda le problematiche relative alla riqualificazione
della transazione. In particolare, l’Amministrazione finanziaria non
dovrebbe avere il potere di modificare la struttura delle transazioni, ma nei
casi in cui la transazione differisce in modo netto da quella che ci sarebbe
stata fra parti indipendenti allora l’amministrazione può procedere alla
rettifica dei prezzi di trasferimento.
Nel novembre del 2011 il Presidente del WP6 TPI, Michelle Levac, ha accolto
favorevolmente le richieste pervenute dalla comunità degli imprenditori e visti i
progressi fatti si prevede di giungere al rilascio di un discussion draft prima del
2013.
Infatti, il 6 giugno 2012, il WP6 ha pubblicato il “Discussion Draft: revision
of the special considerations for intangibles in Chapter VI of the OECD Transfer
Pricing Guidelines and related Provisions” il quale si sostanzia in quattro punti
chiave:
1. Definizione di bene immateriale di seguito riportata:
“intangible is not a physical asset or a financial asset, and which is
capable of being owned or controlled for use in commercial activities.
Rather than focusing on accounting or legal definitions, the thrust of a
transfer pricing analysis in a matter involving intangibles should be the
152
determination of the conditions that would be agreed upon between
independent parties for a comparable transaction”.
Si tratta di una definizione basata sul concetto di controllo che comporta
una netta distinzione tra i beni immateriali e altre voci che “cannot be
owned, controlled or transferred by single enterprise, such as group
synergies and market characteristics, which, for this reason, cannot be
considered intangibles”.
In aggiunta, il Discussion Draft abbandona la suddivisione fatta nelle
attuali line guida tra marketing intangibles e trade intangibles.
2. Identificazione dei soggetti aventi diritto a partecipare ai proventi derivanti
dai beni immateriali. In merito il WP6 definisce la registrazione legale e
gli eventuali contractual arrangements come un buon punto di partenza
per poter definire chi ha diritto ad ottenere almeno parte dei proventi
derivanti dallo sfruttamento degli intangibles.
Tuttavia, tali elementi non devono distogliere da ciò che il WP6 intende
comunicare ossia che i profitti attribuibili ai beni immateriali devono
essere distribuiti a chi, di fatto, ha sopportato rischi e spese relativi alla
nascita, allo sviluppo e alla produzione del bene.
3. Le tipologie di transazione aventi ad oggetto i beni immateriali. In merito
vengono identificate due tipologie di transazione:
−
transazioni aventi ad oggetto l’uso di beni immateriali: gli
intangibles in questo caso sono semplicemente connessi alla
cessione di altri beni (materiali), non vi è alcun trasferimento di
beni immateriali;
−
transazioni aventi ad oggetto il trasferimento di beni immateriali:
in questo caso si è di fronte al trasferimento di intangibles o di
diritti legati a questi ultimi.
4. Determinazione delle condizioni di libera concorrenza nelle transazioni. In
merito il Discussion Draft non indica quale tra i metodi indicati nel
Modello OCSE sia il migliore ma si limita a specificare che nella scelta
153
del best method è importante individuare e capire fino in fondo il “global
business” della multinazionale e il grado di interazione esistente fra i beni
immateriali, oggetto della transazione, e i rischi, i costi, l’attività
dell’impresa.
Sezione VI
Abuso di diritto o diritto di abuso?
Premessa.
L’elusione fiscale può essere definita come “quella zona grigia, non meglio
definita, in cui l’Amministrazione finanziaria viene abilitata dall’ordinamento a
difendersi non da un semplice nascondimento di reddito (dall’evasione), ma
dall’uso improprio da parte dei contribuenti delle norme che predeterminano la
fattispecie impositiva a fini ingiustamente vantaggiosi”.124 In concreto, il
contribuente pur rispettando gli elementi oggettivi della fattispecie legale,
attraverso l’uso combinato di questi realizza effetti contrari alla ratio legis e
dunque non in linea con la corretta attuazione del principio di capacità
contributiva
Il rischio in un simile contesto è evidente: o che lo Stato non riesca a reagire
con sufficiente forza e che dunque non arrivi ad ostacolare operazioni di questo
tipo sempre più frequenti ed articolate, oppure, al contrario, che la reazione sia
eccessiva e scomposta tale da compromettere il principio di legalità (di rango
costituzionale) e il principio di predeterminazione della fattispecie impositiva.
Ma ancor più evidente risulta essere la situazione di forte incertezza con cui si
trova a dover convivere il contribuente quando si parla di “abuso di diritto”. In
campo tributario sta accadendo che la legislazione, spesso incerta e confusa, viene
interpretata dalla giurisprudenza (di legittimità) non tanto attribuendo ad essa il
154
significato proprio delle parole (secondo le intenzioni del legislatore), quanto
invece assegnando il senso che la stessa dovrebbe avere in armonia con un
determinato sistema, che sia quello tributario, civile o comunitario.125
A questo proposito, si vedrà il tentativo della Corte di Giustizia CE di offrire
una interpretazione di quello che potrebbe essere definito un principio antiabuso
attraverso una serie di sentenze tra cui spicca il caso Halifax. Analizzando
parallelamente il punto di vista della giurisprudenza comunitaria e quello della
Cassazione si vedrà come non sempre quest’ultima recepisca in maniera corretta
le interpretazioni offerte dalla Corte di Giustizia.
La prassi amministrativa, sullo sfondo, si adegua alla giurisprudenza.
Mentre ancora la dottrina spesso critica la legislazione, contesta la
giurisprudenza e la prassi amministrativa ed evoca, giustamente, lo Statuto dei
diritti del contribuente ma non propone un “modello” che si possa adottare, che
possa offrire sistematicità all’ordinamento tributario.126
Alla luce di quanto detto, il contribuente non sa come comportarsi.
Analizzando la questione dal punto di vista di un imprenditore infatti, l’incertezza
rappresenta, per quest’ultimo, un vincolo nelle scelte d’investimento. Per un
professionista risulta essenziale conoscere ex ante il rischio d’impresa che deriva
dalle scelte d’investimento che pone in essere. La tassazione, in tal senso, non è
un vincolo che blocca l’investimento come l’incertezza, bensì una variabile del
rischio. Emerge, dunque, il problema fondamentale della questione: l’incertezza
non è calcolabile mentre la tassazione, essendo una variabile chiara ed esplicita
del rischio d’impresa, può essere preventivamente calcolata, di qui, l’esigenza di
dare certezza di diritto al fenomeno dell’abuso.
Un altro aspetto determinante è il rapporto esistente fra Amministrazione
finanziaria e contribuente. E’ assai importante infatti, che fra i due soggetti si
instauri un dialogo fatto di fiducia e collaborazione.
124
Ivana Vacca, Elusione Tributaria: l’abuso di diritto tra norma comunitaria e norma interna.
Elusione fiscale e abuso di diritto, NEΩTEPA.
125
Roberto Lunelli, Senza affidabilità nella applicazione delle regole, non esiste un “diritto
tributario”, Elusione fiscale e abuso di diritto, NEΩTEPA.
126
L’obiettivo di creare un “sistema generale” in questo delicato ambito era contenuto nella
legge (delega) del 7 aprile 2003, n. 80. Questa sarebbe dovuta essere l’occasione in cui si sarebbe
adottata una soluzione di sistema ma in realtà tutto ciò che si è ottenuto è stata la
trasformazione dell’IRPEG in IRES con il D. Lgs. 344/2003.
155
L’Amministrazione finanziaria non può, e non deve, essere vista come un
nemico dal contribuente, ma al contrario deve essere da questi appoggiata nel suo
intervento di controllo e accertamento.
Al riguardo, particolarmente significativa risulta essere una dichiarazione del
Presidente Monti:
“Chi mette le mani nelle tasche dei contribuenti sono gli evasori”.
Se si instaurasse un vero rapporto di fiducia reciproca e collaborazione fra
contribuente e Amministrazione, sicuramente il carico fiscale potrebbe essere
ridimensionato in favore del contribuente.
Nella seconda parte della trattazione si curerà la questione relativa alla
revisione del regime sanzionatorio. Il problema è, ancora una volta, quello di
capire se, e in che modo, comportamenti ascrivibili all’elusione fiscale possano
rientrare nella disciplina dell’art. 4 del d. lgs. 74/2000 (dichiarazione infedele) e,
pertanto, essere penalmente rilevanti. Si tenterà di chiarire questi aspetti passando
dalla disamina del d. lgs. 74/2000 e dell’attuale disegno di legge delega127.
Seguendo tale orientamento si passerà successivamente all’approfondimento
del fenomeno del transfer pricing (già precedentemente trattato) in chiave penale.
In particolare, si vedrà in che modo le operazioni poste in essere da società
appartenenti allo stesso gruppo possano integrare comportamenti elusivi.
CAPITOLO 1
La giurisprudenza comunitaria, il caso Halifax.
La Corte di Giustizia della C.E. ha elaborato, nel tempo, un principio
antiabuso per contrastare l’elusione relativa ai tributi di sua pertinenza:
innanzitutto per l’IVA, ma anche nel campo dei dazi doganali, delle accise ed
eccezionalmente, per talune operazioni societarie ritenute meritevoli di una
disciplina comunitaria comune nell’imposizione dei redditi.
127
Disegno di legge delega: Disposizioni per la revisione del sistema fiscale.
156
Le sentenze più significative sono rappresentate dalle cause C-223/03, C419/02 e soprattutto la causa C-255/02 cosiddetta Halifax di cui di seguito si
propone una sintetica analisi.
Il caso trae origine dalla controversia tra alcune società inglesi (Halifax, Leeds
permanent Development Services, County Wide Property Investments) e i
Commissioners of Customs & Excise i quali hanno respinto le domande di
recupero/detrazione dell’IVA nell’ambito di un piano di riduzione del carico
fiscale del gruppo.128
In dettaglio, Halifax è una banca che esercita attività finanziaria, esente ai fini
Iva, che intende costruire quattro call center per la propria attività di impresa, da
realizzare su terreni presi in locazione o di sua proprietà. Tuttavia, essendo la
maggior parte delle proprie operazioni “attive” esenti da IVA, lo stesso avrebbe
potuto recuperare sui lavori ad esso fatturati soltanto una minima parte
dell’imposta assolta a monte.
Pertanto, l’operazione che la banca pone in essere è piuttosto articolata: la
banca finanzia una propria società interamente controllata, affinché questa possa
acquisire dalla stessa banca i diritti sugli immobili; la società controllata affida i
lavori, tramite altra controllata, a costruttori indipendenti; i lavori sono pagati da
Halifax in via anticipata alla prima società e poi da questa alla seconda. I contratti
con i costruttori indipendenti sono tenuti direttamente dalla banca. In sostanza,
l’istituto bancario, attraverso questo articolato intrico di contratti, tenta di
recuperare integralmente l’IVA assolta a monte sui predetti lavori di costruzione.
Il Fisco inglese contesta questo comportamento in quanto ritiene che tali
operazioni siano state messe in atto al solo fine di recuperare l’intero ammontare
IVA da parte dell’Halifax. A parere dell’Amministrazione finanziaria inglese è
l’istituto bancario ad ottenere prestazioni edilizie da parte dei costruttori
indipendenti in quanto, di fatto, è la stessa banca che finanzia l’intera operazione
attraverso prestiti alle proprie controllate. Pertanto, quest’ultima avrà diritto
soltanto al recupero della percentuale ordinaria di IVA.
128
Circolare Agenzia Ent. Dir. Centr. Normativa e contenzioso 13-12-2007, n. 67/E.
157
I giudici nazionali richiedono un parere pregiudiziale alla Corte di Giustizia in
merito a due questioni:
1. se possa essere considerata un’ operazione economica ai sensi della sesta
direttiva IVA un’ operazione condotta al solo scopo di ottenere un
vantaggio fiscale;
2. se le operazioni condotte al solo fine di evadere l’IVA possano essere
prese in considerazione applicando alle stesse la sesta direttiva secondo la
loro vera natura.
1.1 Sentenza della Corte di Giustizia.
Per quanto riguarda il primo punto, la Corte di Giustizia ha precisato che
operazioni come quelle oggetto del procedimento principale costituiscono cessioni
di beni o prestazioni di servizi e un’attività economica ai sensi della sesta direttiva
Cee poiché “soddisfano i criteri oggettivi sui quali sono fondate le dette nozioni,
per quanto siano effettuate al solo scopo di ottenere u vantaggio fiscale, senza
altro obiettivo economico”.
Pertanto, secondo la Corte, stabilire se una determinata operazione rientra fra
le attività economiche della sesta direttiva deriva non dalle ragioni o dagli scopi
che sottendono tali azioni bensì dal soddisfacimento dei criteri oggettivi su cui tali
azioni sono fondate.
La Corte, inoltre, pur riconoscendo al soggetto passivo il diritto di scegliere la
forma di conduzione degli affari che gli permetta di limitare l’onere fiscale ha
affermato che, nel settore IVA, si ha un comportamento abusivo quando “le
operazioni controverse (…) siano idonee a procurare un vantaggio fiscale la cui
concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse
disposizioni”.
Il sistema delle detrazioni previste dalla sesta direttiva prevede che un
imprenditore detragga l’IVA dovuta o pagata a monte su tutte le sue attività
economiche a prescindere dallo scopo o dai risultati di tali attività, purché queste
siano soggette a IVA.
158
Ancora, affinché si integri un comportamento abusivo, “deve altresì risultare
da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente
lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”.
Per ciò che concerne il secondo punto invece, la Corte specifica come in caso
di constatazione di un comportamento abusivo da parte del contribuente “le
operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la
situazione quale sarebbe stata senza le operazioni che quel comportamento hanno
fondato”.
Quanto detto pare in linea con le affermazioni spesso fatte dalla Corte di
Giustizia per cui le Direttive non impongono all’operatore un percorso
obbligatorio, lo lasciano libero di optare per operazioni che siano caratterizzate da
un minor carico fiscale purché il suo comportamento non contrasti con gli
obiettivi delle Direttive stesse.
Ciò detto, pare evidente come i principi espressi dai Giudici comunitari in tale
sentenza siano di grande interesse per le Amministrazioni finanziarie degli Stati
membri. In tale contesto, la Corte di Giustizia ha esplicitato la presenza, nel
sistema dell’IVA, di una clausola generale antiabuso per la lotta contro ogni
possibile frode, evasione ed abuso. In Italia, in particolare, gli effetti della
sentenza si sono disseminati nella Circolare n. 67/E del 13 dicembre 2007.
Un altro punto interessante che traspare dalle dissertazioni della Corte di
Giustizia è che le argomentazioni proposte per comprovare la presenza di una
clausola antiabuso nel sistema della sesta direttiva appaiono le medesime di quelle
sottese alla norma antielusiva di cui all’art 37bis del DPR 600/1973. Di qui la
questione se risultino applicabili le garanzie procedurali previste dall’articolo
37bis anche nel comparto IVA.
I giudici comunitari, in sostanza, individuano nell’abuso (o elusione) quelle
situazioni in cui “nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste
dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che
le traspone” il contribuente riesca ad ottenere un vantaggio fiscale a cui non
avrebbe avuto diritto in base alle suddette disposizioni.
159
Questa impostazione trova riscontro a livello nazionale nel momento in cui
l’Amministrazione finanziaria insieme alla giurisprudenza distinguono i concetti
di “evasione” ed “elusione”.
In sostanza, secondo la Corte di Giustizia un soggetto passivo ha il diritto di
scegliere la forma di conduzione dei propri affari meno onerosa dal punto di vista
fiscale129, ma, secondo una costante giurisprudenza, trova un limite nel divieto per
gli interessati di avvalersi abusivamente del diritto comunitario (“libertà
circoscritta”).
La sentenza pertanto pur non intravedendo un principio antiabuso all’interno
dell’ordinamento positivo, lo considera immanente nel sistema della sesta
direttiva e poiché alla Corte di Giustizia è riservato, in maniera esclusiva, il potere
di interpretare in maniera pregiudiziale le norme comunitarie, una sentenza della
Corte (come quella in esame) che stabilisce il significato di una norma
comunitaria fa si che la stessa integri la norma interpretata e diventi efficace.
Dopo aver individuato una clausola antiabuso generale in ambito IVA i
giudici comunitari hanno altresì precisato gli elementi guida che devono orientare
l’attività dell’Amministrazione finanziaria e dei giudici nazionali:
•
le operazioni controverse devono procurare un vantaggio fiscale la cui
concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse
disposizioni.’;
•
deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo
delle operazioni controverse è sostanzialmente l’ottenimento di un
vantaggio fiscale.
129
A questo proposito si esprime la Circolare del Ministero delle finanze n. 320/e del 19
dicembre 1997 che chiarisce: “non c’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a
scegliere fra due alternative che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a
disposizione”.
160
CAPITOLO 2
La giurisprudenza di Cassazione.
La Corte di Cassazione ha avuto, in questo contesto, un andamento non molto
stabile.
Inizialmente ha messo al primo posto l’autonomia contrattuale del
contribuente la quale non può essere limitata se non in presenza di specifiche
previsioni di legge; per cui in difetto si rimane nell’ambito della mera lacuna della
disciplina tributaria.
Nel 2005 si assiste alla svolta con due sentenze: Sent. n. 20398/2005 e Sent. n.
22932/2005. Con tali pronunce la Corte ritiene che nel diritto tributario
(normativa speciale) possano essere trasposti principi e criteri di diritto civile
(normativa generale) dichiarando che “l’applicazione del principio di divieto di
abuso di diritto si traduce nella individuazione di un difetto di causa che da luogo
alla nullità del contratto”.130
Infine nel 2006, in seguito alla sentenza Halifax, la suprema Corte ha
affermato che: “… la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha chiarito che
la 6° direttiva CEE (…) aggiunge alla tradizionale bipartizione dei
comportamenti tenuti dai contribuenti in tema di IVA, fra quello fisiologico e
quello patologico (…) una sorta di tertium genus, in dipendenza del
comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, comportante il recupero
dell’IVA detratta e l’eventuale rimborso in favore del soggetto che abbia posto in
essere l’operazione elusiva.(…)Pertanto nell’ordinamento comunitario e, quindi,
anche in quello interno deve considerarsi vigente il principio di indetraibilità
dell’IVA assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi”.
130
Le Sentenze qui citate affermano inoltre che: “nella disciplina anteriore all’entrata in
vigore dell’art. 37bis del D.P.R 29 settembre 1973 n 600, introdotto dall’art. 7 del D. lgs. 8 ottobre
1957, n. 358, pur non esistendo nell’ordinamento italiano una clausola generale antielusiva, non
può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal
concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono
trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio
fiscale”.
161
Sempre a partire dal 2006 la Corte fa diretta applicazione del principio
giurisprudenziale comunitario di divieto di abuso di diritto, rilevando:
•
che l’operazione deve essere valutata secondo le finalità essenziali, non
dovendo dare rilievo a ragioni economiche solo marginali o teoriche, in
linea con la sentenza Halifax131;
•
che tale principio ha validità erga omnes, ossia deve essere considerato di
generale applicazione e quindi che trascende non solo i limiti di area dei
tributi armonizzati ma l’intera materia tributaria132
Particolarmente drastico sembra essere il risultato raggiunto in quest’ultima
sentenza del 2008, per altro, confermata anche da altre pronunce della stessa
Suprema Corte133. Ma tanto audace orientamento si scontra con dubbi e
perplessità di chi non è dell’opinione che il principio giurisprudenziale
comunitario “dell’abuso di diritto” debba essere applicato soltanto ai tributi
armonizzati e non erga omnes.
Tale orientamento sembra aver convinto anche la Suprema Corte la quale,
successivamente, ha affermato che la clausola antielusiva di matrice comunitaria
può applicarsi solo all’Iva e ai tributi armonizzati.134
Ma questa, seppur tardiva, presa di coscienza non impedisce alla Corte di
Cassazione di statuire che “per gli altri tributi, e cioè quelli non armonizzati
quale ad esempio quelli diretti, lo stesso principio antiabuso e antielusivo è
desumibile dalla norma costituzionale, l’art 53 Cost., che sancisce il canone di
capacità contributiva”.135
La
posizione
assunta
dalla
Corte
riconosce
quindi
la
presenza
nell’ordinamento nazionale di un principio generale antielusivo immanente
nell’ordinamento la cui fonte può essere rinvenuta nei principi di capacità
contributiva e progressività dell’imposizione di cui all’art. 53 della Cost.
131
Così Sent. Corte di Cassazione, 29 settembre 2006 n. 21221
Così Sent. Corte di Cassazione 4 aprile 2008 n. 8772
133
Così Sent. Corte di Cassazione 21 aprile 2008 n. 10257.
134
Così Sent. Corte di Cassazione, Sez. trib., 19-05-2010, n. 12249
135
Così cass, sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30055 e n. 30057, Cass, sez. trib. 25 maggio 2009,
n. 12042.
132
162
Tale conclusione avrà non poche conseguenze tra cui un’applicazione
retroattiva del principio antielusivo di cui si tratterà nel successivo paragrafo.
2.1 La retroattività del “principio antiabuso”.
Un contribuente, in un ricorso alla Cassazione, ha denunciato la violazione e
la falsa applicazione dell’art. 37bis del DPR 600/1973 in quanto nell’affermare il
carattere elusivo del riconoscimento, nel 1999, di parte degli interessi in favore
dei soci, la Commissione tributaria non ha tenuto conto del fatto che la
disposizione antielusiva di cui all’art. 37 bis è entrata in vigore nel 2005 con
applicazione agli interessi e canoni maturati da 1° gennaio 2004.
Orbene, la Corte di Cassazione ha rigettato la doglianza del contribuente
affermando che tale circostanza non esclude il potere dell’Amministrazione di
contestare la deducibilità degli interessi in forza di un principio antielusivo
immanente nell’ordinamento rinvenibile nell’art. 53 della Cost.
Tale conclusione, a parere di molti136, non fa che minare la certezza del diritto,
l’affidamento e la prevedibilità delle conseguenze delle operazioni economiche
che, come si è detto all’inizio della presente sezione, rappresentano una variabile
determinante anche nell’attrazione di investimenti nel nostro Paese.
Tale considerazione però non sembra aver ostacolato la presa di posizione
della Corte che, tra l’altro, fino al 2008 non aveva mai annunciato un simile
orientamento con riferimento alle imposte dirette e in generale ai tributi non
armonizzati.
Giova altresì rilevare il disposto dell’art. 3 della legge 27 luglio 2000 n. 212,
che reca le disposizione in materia di statuto dei diritti del contribuente, il quale
recita: “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”.
Ciò detto, nessuno mette in dubbio l’importanza dell’art. 53 nella
giurisprudenza tributaria in quanto rappresenta una “garanzia” per il contribuente
contro un’eventuale applicazione arbitraria delle norme tributarie da parte
dell’Amministrazione. Ma risulta altrettanto vero che l’art. 53, da solo, non può
136
Per tutti, Prof. Gianni Marongiu in Abuso del diritto vs. irretroattività.
163
determinare la creazione di un obbligo tributario essendo necessaria la mediazione
di una disposizione di legge che espliciti in maniera chiara suddetto onere.137
2.2 L’onere della prova.
Per quanto riguarda l’onere della prova, la situazione risulta altrettanto
instabile dato che nell’aprile del 2008 la Corte di Cassazione ha affermato che
“incombe sul contribuente l’onere di fornire la prova dell’esistenza di ragioni
economiche , alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o
teorico”.
Sei mesi dopo la Corte afferma come l’utilizzo dello strumento dell’abuso di
diritto debba essere utilizzato con particolare cautela dato che la libertà di impresa
e di iniziativa economica sono libertà riconosciute dalla Costituzione e
dall’Ordinamento
comunitario.
Viene
precisato
inoltre
che
incombe
sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dover individuare gli aspetti concreti
che inducono a ritenere l’operazione in oggetto elusiva. Il contribuente, dunque,
interverrebbe in un secondo momento per dimostrare la sua buone fede e le
ragioni extra fiscali che l’hanno indotto a fare quelle determinate scelte.
La Corte di Cassazione pertanto, nel trasporre il principio dell’abuso di diritto
dal comparto comunitario a quello nazionale, valuta esclusivamente la finalità di
vantaggio fiscale di una certa operazione rispetto ad altre che portino agli stessi
risultati sostanziali.
In proposito, si palesa però un (ulteriore) rischio: i giudici potrebbero avere
difficoltà nel cogliere le ragioni economiche che spingono un imprenditore ad
optare per una specifica operazione. Spesso infatti tali motivazioni non risultano
essere così evidenti, per cui il giudice “in odore di abuso” dichiara inopponibili
all’Amministrazione operazioni con finalità sociali solo perché queste, a
differenza di altre a loro simili, comportano un legittimo risparmio di imposta.
137
Prof Gianni Marongiu in Abuso del diritto vs. irretroattività
164
Ciò detto, pare pacifico affermare come nel nostro ordinamento non esista una
“disposizione generale antiabuso”, ma solo alcune disposizioni specifiche che lo
contrastano. Nell’ambito tributario l’istituto giuridico che maggiormente si
avvicina a tale concetto è l’art. 37bis del D.P.R. 600/1973, ma quest’ultimo non
può essere considerato di valenza generica. Attualmente si ha infatti l’impressione
che la Corte di Cassazione intenda elevare a sistema un ordinamento come quello
tributario che si basa non su principi generali ma su regole speciali e contingenti.
Per fare questo parla di un principio anti-abuso generale che però di fatto non
esiste!
Il fatto che una lacuna di questo tipo all’interno dell’ordinamento vada
colmata è sicuramente corretto, ma questo non giustifica l’atteggiamento della
Corte che finisce per svolgere un ruolo sostitutivo in un comparto, come quello
legislativo, che spetta al Parlamento.
La finalità è nobile ma i mezzi non sono accettabili, come non è accettabile il
fatto che un imprenditore che ieri ha messo in atto operazioni conformi alla legge
e alla prassi dell’epoca debba oggi difendersi da accuse mosse neanche da una
nuova base legislativa ma da supposizioni giurisprudenziali. Questo clima di
instabilità porta ad un ulteriore rischio derivante dal fatto che le imprese italiane
possano essere indotte a delocalizzarsi all’estero.
Sicuramente ad oggi la concorrenza fiscale fra gli Stati è sempre più forte, e
una condizione di insicurezza legislativa, come quella attuale, penalizza un Paese
più ancora di un elevato livello di tassazione.
CAPITOLO 3
Confronto fra norma comunitaria e norma interna.
Giunti a questo punto, da un’analisi più approfondita della posizione
dell’Amministrazione e della Giurisprudenza nazionali si può constatare che
entrambe incentrano il fenomeno elusivo sull’assenza di valide ragioni
economiche alla base delle operazioni poste in essere dal contribuente. L’unica
differenza è che l’Amministrazione prende tale posizione in applicazione dell’art.
165
37bis del DPR 600/1973 mentre la giurisprudenza e la Corte di Cassazione si
ispirano al concetto di abuso elaborato in sede comunitaria.
La disciplina dell’art. 37bis è la medesima che in sede civilistica viene dettata
dall’art. 1344 c.c. sul contratto in frode alla legge il quale recita: “si reputa altresì
illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere
l’applicazione di una norma imperativa”138. Pertanto, come in sede civile è
considerato illecito il contratto che elude una norma imperativa così in ambito
tributario costituisce operazione in frode alle regole fiscali quella che aggira
obblighi e divieti.
Ciò detto, pare importante affermare come nel constatare l’elusività, in sede
tributaria costituisce elemento essenziale, prima ancora della sussistenza di
ragioni economiche, l’accertamento di un effettivo aggiramento di obblighi o
divieti della normativa tributaria. E’, ovvero, necessario il riscontro concreto di un
tentativo di violazione della ratio della norma fiscale; dovranno essere violati
principi fondamentali come: la doppia deduzione dei costi, il divieto di salto di
imposizione.
Emerge altresì, che non possano essere considerate elusive le scelte fatte dal
contribuente nell’ambito della legalità, ossia tra le diverse alternative che il
legislatore gli ha offerto.139
138
Esistono diverse teorie riguardo alla possibilità di considerare l’art. 1344 cc come
strumento di contrasto dei fenomeni elusivi. Autori come Fantozzi (Il diritto tributario)e Tesauro
(Istituzioni di diritto tributario, parte generale) rispondono negativamente in quanto l’art 1344cc
sarebbe posto a tutela di norme imperative di natura proibitiva, invece le disposizioni fiscali si
limiterebbero a disciplinarne gli effetti, senza stabilire se una negozio si può applicare o no.
Secondo altri (Lupi, Usufrutto di azioni: una norma antielusione non si può inventare, in Rass Trib
1995, 1963) gli atti negoziali ai fini tributari non rileverebbero in quanto tali, ma regredirebbero a
meri elementi della fattispecie, di conseguenza l’elusione tributaria non verrebbe arginata con il
ricorso al rimedio civilistico (art 1344 cc). A conclusione diversa è giunta invece la dottrina,
secondo cui all’elusione fiscale possono essere applicate norme civilistiche in quanto
nell’elusione si ravvisa una violazione del dovere solidaristico alla contribuzione (art 53 Cost.) e lo
schema della frode alla legge dovrebbe risolversi, sul piano tributario, non nella nullità civilistica
ma nell’irrilevanza fiscale dell’atto elusivo (Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme
antielusive, in Dir. e prat. Trib. 1992, 1767 e ss.)
139
CTP Padova, 07-03-2007, n.23: “Non costituisce operazione elusiva quella posta in essere
dopo aver scelto, fra più alternative, il percorso che corrisponde ad una fattispecie prevista dalla
vigente legislazione; segnatamente, la cessione di quote societarie con l’applicazione dell’imposta
sostitutiva del 12,50% non elude l’operazione di cessione di azienda, giacché difetta
l’aggiramento di obblighi e divieti…”
166
Tale linea di pensiero non risulta però particolarmente seguita considerando il
fatto che, secondo l’orientamento di alcuni140, costituiscono elusione operazioni
“eccessivamente complesse e articolate” rispetto a quanto prevede la norma. Una
simile presunzione porta a depotenziare completamente l’aspetto dell’aggiramento
di obblighi e divieti per dare esclusiva valenza all’esistenza o meno di ragioni
economiche extrafiscali. L’effetto rilevante è che perde di significato la
circostanza che il regime fiscale di favore di una determinata operazione sia
previsto ex lege.
In una logica di questo genere, se un gruppo di società ha una composizione
partecipativa tale per cui non può usufruire del consolidato fiscale e decide di
riorganizzarsi in modo da poter accedere alla facilitazione, questa operazione
potrà essere soggetta al sindacato dell’elusività.
Come precedentemente accennato, in sede comunitaria, la sentenza Halifax si
pone da fondamento del concetto di abuso di diritto in sede europea. La Corte di
Cassazione però, non sembra assimilare l’interpretazione della Corte di Giustizia
CE. Quest’ultima, come già affermato, individua l’abuso in quelle operazioni che
sono conformi al dettato della VI direttiva ma che tuttavia conducono ad un
vantaggio fiscale contrario all’obiettivo perseguito dalle stesse disposizioni.
Pertanto, si tratta di un contenuto molto simile a quello dell’art. 37bis, il quale non
vuole colpire qualsiasi vantaggio fiscale ma solo quello non giustificabile e
contrario alla ratio del suo istituto fiscale.
La Corte di Cassazione, al contrario, non fa alcuna distinzione tra vantaggio
fiscale legittimo o non legittimo, semplicemente individua l’abuso nel
perseguimento di un risparmio d’imposta.
In definitiva, le differenze interpretative sono evidenti, come è evidente che la
ricerca del fenomeno elusivo basata esclusivamente sulla presenza o meno di
ragioni economiche valide risulti non soddisfacente. La stessa indagine operata
dai giudici sulle motivazioni dell’operazione posta in essere dal soggetto non
140
RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. Trib. 1999 e TESAURO,
Compendio di diritto tributario, UTET 2002, che individuano i fenomeni elusivi nelle anomale
scelte negoziali dei contribuenti rispetto a quelle che hanno a disposizione, senza considerare la
coerenza di tali scelte con quelle del legislatore.
167
potrà mai essere sufficientemente obiettiva, ma di volta in volta impostata sull’
“estro” dei giudicanti.
Il problema, a questo punto, sembra chiaro: in ambito giurisprudenziale sta
maturando un’interpretazione che consente al Fisco di disapplicare ad nutum
regole scritte sulla base di un giudizio caso per caso sull’esistenza o meno di
valide ragioni extrafiscali che giustifichino l’operazione. Si tratta quindi di
interpretazioni
soggettive!
E’
altresì
vero
che
dovere
imprescindibile
dell’Amministrazione è quello di contrastare il soggetto che si sottrae (evadendo o
eludendo) ai suoi doveri di contribuente (art 53 della Cost.) ma è altrettanto vero
che la riserva di legge (art. 23 della Cost.) è un principio costituzionale.
Cercando di approfondire ulteriormente la tematica, pare utile suddividere la
questione in più aspetti.
Un primo aspetto da prendere in considerazione è il modus operandi
dell’Amministrazione nella sua attività di accertamento. E’ noto infatti che agli
uffici fiscali vengano assegnati precisi obiettivi, di efficienza, razionalizzazione
che vanno ad incidere non poco sull’attività accertativa portando, nei casi più
estremi, a “stressare” la pretesa impositiva fino ad arrivare ad accertamenti quanto
meno discutibili. Questa condizione risulta particolarmente evidente negli
accertamenti volti a contrastare fenomeni elusivi, divenuti ormai piuttosto
ripetitivi soprattutto nei confronti delle medie e grosse organizzazioni di impresa.
Un altro aspetto importante riguarda le scelte legislative. Tempo fa il
legislatore, nell’intento di raggiungere una maggiore competitività in campo
fiscale nei confronti degli altri Stati, ha introdotto una serie di istituti e di modelli
di operazioni che pur perseguendo risultati economici simili ad altre operazioni
sono caratterizzati da una imposizione più lieve. Si pensi, a titolo di esempio, alle
operazioni di fusione, scissione, trasferimenti di azienda, caratterizzati da una
disciplina di neutralità delle plusvalenze a differenza delle liquidazioni societarie,
o delle vendite di azienda. Un altro esempio è rappresentato dal consolidamento
fiscale che permette la compensazione di utili e perdite di società appartenenti allo
stesso gruppo. Tutte queste operazioni più “vantaggiose” per il beneficiario sono
state ricomprese, non a caso, nell’alveo dell’art. 37bis del DPR 600/1973; il che
168
significa che il legislatore consente/impone all’Amministrazione di accertare con
maggiore attenzione queste azioni.
Ciò detto, pare pacifica la seguente riflessione: nel momento in cui è il
legislatore stesso a mettere a disposizione delle alternative fiscalmente meno
onerose per il contribuente e che comportano risultati economici similari ad altre
operazioni pare irrazionale, se non addirittura irragionevole, l’idea che molti
manifestano secondo cui l’imposizione deve tendenzialmente attuarsi secondo il
modello più oneroso. Anzi, è vero il contrario. Una fusione tra due imprese è
differente dalla liquidazione di un impresa anche se in entrambe le operazioni gli
assets di una società vengono trasferiti in un’altra. Si tratta, in ogni caso, di due
forme giuridico/formali differenti, tant’è che il legislatore ha riconosciuto due
regimi differenti. Se tale diversità non fosse stata evidente, il legislatore avrebbe
percorso una diversa strada.
In linea generale, pare indiscutibile l’esigenza di una clausola antielusiva
all’interno dell’ordinamento fiscale, ma è altrettanto chiaro che tale clausola non
debba ostacolare o porre costantemente nel nulla altre regole scritte ma dovrebbe
andare a colpire ciò che ad altre leggi tributarie è sfuggito, ossia tutti i
comportamenti che il contribuente mette in atto, più o meno palesemente, contrari
alla ratio della legge fiscale. Appare chiaro, infatti, che ancorare l’accertamento
elusivo all’esistenza di valide ragioni economiche porta soltanto a sconfessare il
principio di legalità, di certezza del diritto e lo stesso principio di democraticità
dell’imposizione, in quanto la soggettività della decisione presa dal giudicante
sarebbe palese.
Meglio sarebbe cercare di individuare dei “paletti” a cui il contribuente deve
attenersi, distinguendo tra le scelte che il soggetto può legittimamente compiere e
quelle che invece osteggiano la ratio legale. Una logica di questo tipo sarebbe in
linea con le indicazioni della Corte di Giustizia CE e lo stesso art. 37bis.
Un’interpretazione di questo tipo permetterebbe il superamento di molte
difficoltà, ma la sua concreta applicazione è tutt’altro che semplice. La distinzione
tra lecito e illecito non è mai così netta e chiara, e, d’altro canto, la capacità del
contribuente di mettere in atto operazioni molto complesse per poter eludere la
169
legge accompagnata dalla maggiore preoccupazione dell’Amministrazione di
fronte all’aumento di suddetti atteggiamenti rende il tutto ancora più complicato.
CAPITOLO 4
Le soluzioni prospettabili.
4.1 Fautori e Negatori.
Sullo sfondo delle considerazioni finora esposte si può affermare che il tema
dell’abuso di diritto in ambito tributario parte da quattro problematiche principali:
1. l’esistenza o meno di una norma antiabuso generale in materia fiscale;
2. il rapporto di questa ipotetica nozione con il concetto di elusione ed
evasione;
3. le fonti, interne e internazionali;
4. il problema dell’autonomia negoziale e della certezza di diritto.141
Il ragionamento che accomuna sia coloro che sostengono la presenza di un
divieto generale di abuso sia coloro che invece non condividono tale visione è il
seguente: esistono disposizioni specifiche, come l’art. 37bis del DPR 600/73,
dalle quali si deduce che alcune tipologie di operazioni, come le fusioni, le
scissioni, cessioni di aziende ecc.., non possono essere fiscalmente riconosciute se
poste in essere al fine esclusivo di ottenere un risparmio di imposta.
Ciò detto, ci si chiede se da tale constatazione possa derivare che, in linea
generale, siano considerate elusive tutte le operazioni avvenute in un contesto tale
da far ritenere che la loro esclusiva finalità sia il risparmio di imposta. I negatori
sostengono che ciò non può essere vero perché la scelta legislativa è stata nel
senso di procedere per fattispecie tipiche, tassative e non estendibili per analogia.
La maggior parte dei negatori, però, sostiene che tale soluzione sia contraria ai
principi fondamentali come il principio di autonomia negoziale e di certezza del
diritto. Come già in precedenza ricordato, infatti, una volta che il contribuente ha
141
Paolo Gentili, “Spunti di metodo in tema di “abuso di diritto”, Elusione fiscale e abuso di
diritto, NEΩTEPA.
170
messo in atto un’operazione tipica o atipica ammissibile, non può, in forza di un
divieto non ben precisato di diritto tributario, essergli negata l’efficacia degli
effetti.
I fautori, dal canto loro, replicano affermando che l’autonomia negoziale non
è illimitata, lo stesso diritto privato ne contempla i limiti attraverso clausole poco
definite come la nullità per illiceità dei motivi, o per frode alla legge…per cui
perché non potrebbe essere compreso, fra suddette cause, anche il diritto
tributario? A conferma di ciò viene richiamato il diritto comunitario la cui
giurisprudenza ha costruito la regola del “divieto di abuso del diritto comunitario”
che prevede l’impossibilità di utilizzare norme comunitarie al solo scopo di
sfruttarne i benefici.
Tra i fautori si distinguono poi due gruppi:
coloro che valutano il negozio, considerato elusivo, come un fatto illecito;
coloro che valutano il negozio come semplicemente inopponibile
all’Amministrazione finanziaria. Questa seconda tesi è seguita da chi opta
non tanto per la nullità da illiceità ma più per la mancanza di volontà, per
la simulazione.
A metà tra i due punti di vista non mancano posizioni miste che combinano in
vario modo le prospettive appena esposte.
Continuando a mantenere posizioni così distanti non si riuscirà mai a trovare
una soluzione concreta generalmente condivisa.
4.2 Una possibile soluzione
Una possibile soluzione potrebbe essere quella di rovesciare il punto di vista:
ossia partire non tanto dall’analisi dell’operazione in chiave di diritto privato,
l’unico in grado di stabilire se un negozio è produttivo di effetti o meno, ma in
chiave di diritto tributario. La natura del problema che si sta affrontando infatti,
riguarda il rapporto tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria circa
l’operatività di una norma tributaria, sarà dunque in questo settore che dovrà
essere trovata una soluzione.
171
Occorrerà partire dall’interpretazione della norma tributaria attraverso
l’identificazione dei presupposti oggettivi, della sua ratio. Una volta stabilita la
corretta interpretazione della norma si dovrà verificare se il negozio analizzato sia
meritevole dei diritti soggettivi che la normativa tributaria gli conferirebbe.
In questa prospettiva, si considererebbe la nozione di “abuso di diritto” non
come un divieto, ossia una norma autonoma, ma come un criterio di
interpretazione delle norme attributive di diritti soggettivi. Ancora, l’abuso
identificherebbe tutte quelle situazioni in cui il contribuente pretenda di applicare
una norma attributiva di un diritto soggettivo andando oltre il presupposto
oggettivo che giustifica quella norma.
Da tali considerazioni si arriva a constatare che l’abuso non può riguardare
tutti i diritti, ad esempio dei diritti costituzionali non può abusarsi in quanto
considerati “assoluti” e “incomprimibili”, non si potrà mai arrivare alla
inapplicabilità concreta di essi.
Nell’ambito tributario occorre che si sia instaurato un rapporto tra
l’Amministrazione e il soggetto, ovvero che si sia verificato il presupposto
oggettivo necessario per l’assoggettamento del soggetto ad un obbligo tributario.
All’interno di tale rapporto il legislatore dovrà attribuire al contribuente dei diritti
soggettivi, ossia prevedere che al verificarsi di particolari fattispecie vi sia una
limitazione o una esclusione dagli obblighi di partenza.
Detto in altri termini, la norma costitutiva del rapporto tributario è la norma
generica, la “base”, mentre la norma attributiva dei diritti soggettivi è una norma
eccezionale che si sviluppa nel rapporto tributario. L’abuso maturerà nel momento
in cui il contribuente voglia utilizzare tali diritti soggettivi senza avere i
presupposti necessari. In questi casi tornerà ad operare il disposto tributario
generale.
Da quanto detto, emerge come la valutazione e la nozione del concetto di
abuso siano assolutamente oggettive. Le intenzioni, la volontà che spingono il
soggetto a stipulare un certo negozio sono utili ma non indispensabili ed è proprio
su questo punto che compare la differenza fra elusione (o abuso) ed evasione.
Come già ricordato, nel primo caso si utilizza una norma attributiva di diritti
soggettivi in assenza dei presupposti necessari, nel secondo caso invece si ha una
172
violazione diretta di tale ultima norma, e, questa volta, diventano rilevanti i
comportamenti soggettivi, la volontà del contribuente. Come ogni condotta illecita
deve configurarsi la componente soggettiva intenzionalmente dolosa.
Viste tali differenze anche gli effetti saranno diversi: l’elusione comporta
l’irrilevanza in concreto del negozio davanti al fisco, l’evasione invece
comporterà una sanzione.
In questo quadro, l’indagine sulle finalità economiche dell’atto diventano
essenziali, esse infatti rappresentano un criterio oggettivo per poter valutare se
ricorrono le ragioni astratte per cui la norma attribuisce determinati diritti
soggettivi al contribuente.
Le norme che stabiliscono la deduzione dei costi ad esempio (quindi
eccezionale rispetto all’obbligo di imposta sul reddito) hanno come presupposto il
fatto che tali oneri siano inerenti alla razionale gestione dell’azienda e questa è
anche la ragione (astratta) che giustifica tale agevolazione.
Si tratta, pertanto, di voler analizzare ragioni economico tributarie oggettive.
Non occorre interrogarsi sulla validità negoziale dal punto di vista del diritto
privato. Nel caso, ad esempio, del dividend washing, non sarebbe necessario
interrogarsi sulla natura delle operazioni di acquisto/rivendita di azioni. Esse, dal
punto di vista privatistico, sono reali ed efficaci, ma ciò che le rende “sospette” è
il fatto che potrebbero essere antieconomiche.
Il legislatore comunitario si trova d’accordo con questa interpretazione, come
si è precedentemente visto. Egli infatti, oltre alla sentenza Halifax, si esprime
anche attraverso l’art. 11 della direttiva 90/434/ CEE sulle operazioni di fusione
che così recita:
“uno stato membro può rifiutare di applicare in tutto o in parte le disposizioni dei
titoli II, III e IV o revocarne il beneficio qualora risulti che l’operazione di
fusione, scissione, di conferimento d’attivo o di scambio di azioni:
a) ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali la frode
o l’evasione fiscale; il fatto che una delle operazioni di cui all’articolo 1
non sia effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione
o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti, può
173
costituire la presunzione che quest’ultima abbia come obiettivo principale
o come uno degli obiettivi principali la frode o l’evasione fiscale…”
Con suddetta norma il legislatore dichiara come le operazioni straordinarie
non godano di neutralità fiscale “a prescindere”, ma, al contrario uno Stato
membro possa opporsi al trattamento di favore nel momento in cui accerti che tali
azioni contrastino con i presupposti economici della norma che prevede
l’agevolazione.
Alla luce di quanto detto, pare pacifico affermare che, fermo restando il
rilievo assunto dal principio antiabuso nell’esperienza giuridica, lo stesso presenti
ancora molti profili irrisolti e necessiti di una sistemazione compiuta allo scopo di
conferire al sistema piena coerenza rispetto ai principi di legalità, certezza del
diritto, legittimo affidamento e stabilità nei rapporti giuridici.
CAPITOLO 5
I riflessi penali dell’elusione fiscale.
5.1 La Riforma del 2000 e l’evasione da interpretazione.
Il tema della rilevanza penale dell’elusione fiscale nasce sostanzialmente con
la riforma della lettera f) dell’articolo 4 della legge 516/1982, operata dall’art. 6
del D.L. 83/1991. Attraverso tale modifica si prevede la penalizzazione di una
dichiarazione infedele ottenuta (anche) “…ponendo in essere altri comportamenti
fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali”.142
All’epoca, ai sensi dell’art. 10 della legge 408/1990, l’Amministrazione
finanziaria aveva la possibilità di disconoscere i vantaggi tributari derivanti da
operazioni “poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo
di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta”.
Pertanto, l’ordinamento di allora assegnava rilievo penale a talune forme di
condotte elusive particolarmente caratterizzate da connotati fraudolenti.
142
Alessio LANZI, Paolo ALDROVANDI, Manuale di diritto penale tributario, Cedam 2011, cap
IV.
174
La situazione cambia sensibilmente con l’avvento di una nuova riforma nel
2000 (d. lgs. 10 marzo 2000 num. 74) con la quale si da maggiore rilievo al dato
oggettivo dell’evasione e in particolare al momento della dichiarazione fiscale.
A seguito di tale riforma si sono aperte le porte della responsabilità penale
anche alle valutazioni interpretative, superando il limite rappresentato dai fatti
materiali previsto dalla legge 516/1982. A prova di ciò vi è l’art 7 relativo proprio
alle rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio.
Sempre in seguito a suddetta riforma si prevede la non punibilità quando il
contribuente si è adeguato al parere dell’Autorità (art. 16) ovvero quando la
norma presenti delle obiettive condizioni di incertezza (art 15). Il tutto al di fuori
dell’ipotesi di errore di diritto sul fatto, di cui al terzo comma dell’art. 47 c.p.143
Infine, non bisogna dimenticare la disposizione di portata generale dell’art. 5 del
codice penale secondo cui nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della
legge penale. Orbene, il problema sta nel delineare i confini fra queste quattro
norme, in particolare tra l’art 5 e l’art 16 (di cui si tratterà anche in seguito) e l’art
15 e 47, in modo da evitare che gli articoli derivanti dalla riforma del 2000 siano
solo doppioni di norme già esistenti nel codice penale e quindi del tutto inutili.
Secondo l’opinione di alcuni, la differenza starebbe nel fatto che gli articoli 15 e
16 “agirebbero in via oggettiva”144, ossia escluderebbero la punibilità del fatto a
differenza degli artt. 5 e 47 che fanno leva sul momento soggettivo.
Sulla base di tale considerazione, l’evasione da interpretazione non costutisce
reato quando i fatti non sono punibili ai sensi degli artt. 15 e 16 del D. lgs.
74/2000, mentre non costituisce reato per difetto di dolo ai sensi degli artt. 5 e 47
c.p.145
143
Art 147 c.p. 3° comma: “l’errore su legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità
quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato”.
144
David TERRACINA, Fatto, diritto e sanzioni penali nella sentenza Dolce e Gabbana, in Reati
tributari, Dialoghi tributari, pag. 299.
145
Quanto detto pare in linea con le considerazioni di LUPI in merito alla non punibilità
dell’evasione da interpretazione per difetto di dolo. L’autore sottolinea l’importanza
dell’elemento psicologico nell’azione del contribuente per evitare che qualsiasi condotta elusiva
venga additata come penalmente rilevante. In questo frangente, spetterebbe al giudice penale
verificare se la condotta tenuta dal contribuente sia stata effettivamente accompagnata dalla
volontà di evadere.
175
Insieme alla riforma del 2000, assume particolare importanza l’art. 37bis del
DPR 600/1973, introdotto dal d. lgs. 358/1997 che disciplina il tema dell’elusione
fiscale. Con quest’ultimo si prevede che siano inopponibili all’Amministrazione
finanziaria tutti quegli atti e fatti giuridici diretti ad aggirare obblighi e divieti
tributari e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti.
Alla luce di tali normative di riferimento le due fondamentali questioni che
sorgono in merito sono: “costituisce reato l’elusione fiscale?” e “può un abuso
di diritto in materia tributaria essere considerato reato?”146.
A livello strutturale le risposte a tali domande sarebbero immediatamente in
senso negativo per due sostanziali motivi: da un lato, per l’incompatibilità tra la
norma incriminatrice penale, che trova suo fondamento nella riserva di legge, e
una figura non normativamente tipizzata come l’abuso di diritto; dall’altro lato per
le differenti conseguenze che il legislatore prevede: all’evasione consegue una
sanzione criminale mentre all’elusione, ai sensi del citato art. 37bis, la semplice
inopponibilità all’Amministrazione degli atti e negozi giuridici posti in essere.
La tematica, però, può essere affrontata con un diverso approccio
metodologico: l’ordinamento prevede incriminazioni a modelli ai quali sia
riconducibile quanto viene designato con le locuzioni “abuso di diritto”, “elusione
fiscale”?
Ma per poter rispondere in maniera esaustiva sono altresì necessarie due
avvertenze: innanzitutto occorre capire in che cosa consistono le figure dell’abuso
di diritto e dell’elusione fiscale, se possono essere lette come sinonimi; in secondo
luogo è utile indagare se all’interno dell’ordinamento esistano fattispecie
descrittive di condotte tipiche riconducibili a suddette figure.
5.2 Le figure dell’abuso di diritto e dell’elusione fiscale.
La evidente mancanza di una definizione normativa, e quindi di una
tipizzazione, della figura dell’abuso di diritto e la non certo soddisfacente
176
descrizione del fenomeno elusivo dell’art. 37bis sembrerebbero già sbarrare ogni
ulteriore ricerca in quanto, in linea teorica, la mancanza di tipizzazione viola, già
di per se, il principio di legalità con l’altrettanta implicazione che le due figure
citate non possono rientrare nel mondo del diritto penale.
Una prima differenza fra elusione fiscale ed abuso di diritto sta nel fatto che
l’elusione è caratterizzata da una sommaria definizioneall’art.37bis. Quest’ultimo
però ricomprende nell’area dell’elusione fiscale soltanto alcune specifiche
operazioni. Ciò nonostante, la Corte di Cassazione ha applicato in diverse
sentenze una linea interpretativa secondo la quale la portata della norma in
discorso va oltre la tipologia dei casi che alla stessa sono riportabili in base ad una
interpretazione letterale. I giudici arrivano a tale conclusione sulla base della
convinzione della presenza di un principio antiabuso generale riscontrabile da una
corretta lettura dell’art. 53 della Cost. e dell’art 2 della Cost.147
Tale generalizzazione, tuttavia, trova uno specifico sbarramento in chiave
penale: il divieto di interpretazione analogica in malam partem che verrebbe
violato nel momento in cui si sanzionassero, come reati, casi non esplicitamente
previsti dal legislatore.
In questa prospettiva, fra abuso di diritto ed elusione fiscale ci potrebbe essere
un rapporto da genere a specie, in cui, quindi, l’abuso, ricavabile da norme
costituzionali, rappresenterebbe il genus, mentre l’elusione una sua specificazione
attraverso la quale, in un determinato settore dell’ordinamento, vengono utilizzati
diritti e facoltà riconosciuti al privato in modo da ottenere un risultato altrimenti
precluso dall’ordinamento stesso.
146
Francesco MUCCIARELLI, Abuso di diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in
Elusione ed abuso del diritto tributario a cura di Guglielmo Maisto.
147
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 23-12-2008, nn. 30055-30056: “(…) I principi
costituzionali della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione che informano
l’ordinamento tributario ostano al conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti attraverso strumenti
giuridici l’adozione ovvero l’utilizzo dei quali sia unicamente rivolto, in assenza di ragioni
economicamente apprezzabili, al risparmio di imposta, anche laddove non ricorra alcuna specifica
disposizione, e l’inopponibilità del negozio abusivo all’erario può essere rilevata d’ufficio anche in
sede di giudizio di legittimità”. Corte di cassazione, Sezioni Unite, 23-12-2008, n. 30057: “E’
inopponibile all’erario- in virtù di un generale principio di divieto di abuso del diritto in materia
tributaria, desumibile dall’art. 53 Cost.- il negozio con il quale viene costituito, in favore di una
società residente nel territorio dello Stato, con diritto di usufrutto sulle azioni o sulle quote di una
società italiana, possedute da un soggetto non residente,(…) allorché risulti che il negozio stesso
177
Alla luce di tali considerazioni si potrà limitare l’interrogativo iniziale ai casi
rientranti nel genus dell’abuso di diritto non specificatamente menzionati
all’interno dell’art. 37bis. In particolare, si tratta di valutare se un determinato
comportamento, a prescindere dai motivi che portano a definirlo abusivo/elusivo,
perfeziona una figura di reato.
Ancora una volta, però, ci troviamo a scontrarci con lo scoglio della tipicità,
principio secondo cui si sarebbe tentati di escludere le figure dell’abuso di diritto e
dell’elusione fiscale dal profilo squisitamente penalistico.
Sulla scia di tale ragionamento, però, alcuni studiosi hanno fatto emergere un
dubbio di fondo: può una norma incriminatrice, pur nel rispetto dei principi di
determinatezza e precisione secondo il principio di legalità, essere redatta in modo
da comprendere anche comportamenti dai tratti generici riconducibili alle figure
dell’elusione e dell’abuso di diritto?
A tale domanda si può rispondere con la seguente riflessione: il fenomeno
abusivo si contraddistingue non per il contrasto dello stesso con una specifica
disposizione ma per la sua contrapposizione con un interesse o un valore che la
norma stessa rappresenta. Ossia, colui che abusa del diritto è colui che persegue,
tramite esso, finalità diverse da quelle pensate dal legislatore.
Segue, che la violazione di “una disciplina specifica dell’esercizio di un
diritto” da luogo a “illecito”, mentre la violazione della ratio, della finalità di tale
disciplina da luogo ad una figura giuridica ben diversa: quella dell’abuso
(Giorgianni, pg 429). Un altro autore che segue questo ragionamento è Breccia;
secondo quest’ultimo l’attività abusiva si distingue da quella illecita anche per la
complessità dell’accertamento dell’abusività: nel campo dell’illecito, infatti, si
tratta di dover stabilire “in assoluto e in astrato” l’inesistenza di un diritto, in
ambito abusivo invece, occorre constatare l’illegittimità “delle modalità di
esercizio del diritto nelle circostanze di fatto”.
Un assetto di questo tipo crea una distinzione piuttosto netta fra dimensione
fraudolenta (e quindi penale) e dimensione elusiva (caratterizzata invece dalla
veridicità del dato registrato nelle scritture contabili).
non ha altre ragioni economicamente apprezzabili al di fuori di quella di conseguire un vantaggio
tributario”.
178
Alla luce di tali riflessioni pare chiaro che l’abuso di diritto non possa
rientrare fra le fattispecie penalmente rilevanti. Anche il ragionamento fatto a
monte circa la distinzione genere specie, rispettivamente tra abuso ed elusione
fiscale, non porta a mutamenti sul fronte del diritto penale in quanto né l’abuso né
l’elusione trovano la necessaria determinatezza e precisione richiesti dal diritto
penale.
Pertanto, le conclusioni sembrerebbero evidenti: la categoria dell’abuso di
diritto non può essere considerata una fattispecie penale per il suo netto contrasto
con il principio di legalità. Ancora, l’atipicità dei comportamenti alla base
dell’abuso di diritto si scontra con la necessaria tipicità richiesta a qualunque
fattispecie penalmente sanzionabile. Per di più, l’inclusione delle fattispecie che
costituiscono abuso di diritto fra quelle penalmente rilevanti si scontrerebbe con il
corollario della riserva di legge che vieta, in ambito penale, una interpretazione
analogica in malam partem.
Un altro aspetto che evidenzia ancora di più la differenza esistente tra abuso
ed illecito è rappresentato dalle diverse conseguenze che il legislatore ha previsto
per queste due figure. Per quanto riguarda la figura dell’abuso il legislatore ha
stabilito la netta inopponibilità del vantaggio tributario conseguito di fronte
all’Amministrazione, una conseguenza nettamente differente rispetto alla sanzione
prevista in ambito penale.
Alla luce di quanto detto sembrerebbe chiara la soluzione per cui il fenomeno
dell’elusione fiscale non possa mai inquadrarsi nelle fattispecie penalmente
rilevanti, ma così non è.
Un ulteriore ragionamento può essere fatto sulla base dell’analisi del già citato
d. lgs. 74/2000.
5.3 Tesi in favore della rilevanza penale dell’elusione fiscale.
Si tratta ora di esaminare l’unica previsione legislativa che per la sua
generalità e povertà descrittiva potrebbe ricomprendere anche condotte riportabili
allo schema dell’elusione fiscale: l’art. 4 del d. lgs. 74/2000 il quale recita:
179
“Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3. È punito con la reclusione da uno a tre anni
chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle
dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello
effettivo od elementi passivi fittizi (…)”
Tale norma, dunque, prevede come fatti sanzionabili la presentazione di
dichiarazioni annuali con “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello
effettivo” ovvero di “elementi passivi fittizi”.
Tutto gira intorno all’interpretazione degli “elementi passivi fittizi”, occorre,
in particolare, capire se ritenere o meno che quegli elementi indeducibili, poiché
risultanti
da
condotte
elusive
e
dunque
considerati
“inopponibili”
all’Amministrazione finanziaria ex art. 37 bis, possano costituire o meno
“elementi passivi fittizi”.
Le norme che lasciano del tutto proponibile la questione sono quelle degli
articoli 7, 1 e 16 del d. lgs. 74/2000 di cui di seguito si propone una breve analisi.
5.3.1 Le condizioni esimenti di cui all’art. 7 del d. lgs. 74/2000.
In suddetto articolo sono state evidenziate due condizioni esimenti, ossia due
fattispecie di esclusione della punibilità , entrambe in ipotesi di non sussistenza
del dolo di evasione.
La prima condizione, corrispondente al comma 1, dichiara l’irrilevanza delle
valutazioni i cui criteri siano stati indicati in bilancio, in particolare, nella nota
integrativa, essendo questa destinata ad evidenziare le delucidazioni sui criteri
applicati nella valutazione delle voci in bilancio. Il legislatore però, non si
sofferma sul grado di precisione che deve possedere l’indicazione in nota al fine
dell’operatività dell’esimente. Infatti, se da un lato la mera specificazione del
metodo di calcolo del valore (es. cost plus) non può essere considerata sufficiente,
dall’altro un’applicazione troppo rigorosa condurrebbe alla pericolosa necessità di
svelare segreti industriali e commerciali. Pertanto, appare ragionevole una
soluzione intermedia che richieda un “livello di specificazione” che possa indicare
in modo chiaro i metodi utilizzati senza entrare eccessivamente nel dettaglio.
180
Il secondo comma dell’art. 7 prevede invece la non punibilità delle
“valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura
inferiore al 10% da quelle corrette”. Viene prevista quindi una sorta di franchigia
al di sotto della quale non si è penalmente sanzionabili.
Pertanto, con l’art. 7, prevedendosi delle esimenti di fatti punibili in relazione
a violazioni di criteri di determinazione dell’esercizio, di rilevazioni e valutazione
estimative, si finisce con l’assegnare valenza penale, ai fini dei reati di
dichiarazione infedele e fraudolenta, ai costi indeducibili nel momento in cui la
loro patologia derivi dalle stesse violazioni. Dunque, il reato di dichiarazione
infedele comprenderebbe anche i costi indeducibili perché derivanti da condotte
elusive.
5.3.2 Articolo 16 del d. lgs. 74/2000.
L’articolo 16, espressamente intitolato “Adeguamento al parere del Comitato
per l’applicazione delle norme antielusive” prevede un’ulteriore condizione
esimente richiamando le disposizioni dell’art. 21 della legge 413/1991. Si
prevede, infatti, la non punibilità e la non rilevanza penale di una qualsivoglia
condotta che, previamente sottoposta al vaglio del Ministero delle finanze o del
Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive, abbia rispettato il
parere formulato a seguito di tale interpello o a seguito del silenzio-assenso
formatosi sulla relativa istanza.
Orbene, secondo il ragionamento di alcuni, una previsione di questo tipo,
implicitamente, da conferma che una condotta elusiva possa comportare
conseguenze penali in quanto viene fornita una previsione di non punibilità a
seguito di una apposita procedura posta in essere dal contribuente.
In sostanza, il solo fatto che il legislatore abbia nominato l’elusione all’interno
di una norma penale autorizzerebbe l’interprete a considerare elusione ed evasione
sinonimi.
181
5.3.3 Articolo 1 del d. lgs. 74/2000.
Per il caso di cui si sta trattando, i punti f) e d) dell’art. 1 risultano essere
particolarmente importanti. Il punto f) fornisce una generica e onnicomprensiva
definizione di “imposta evasa” recitando:
“per “imposta evasa” si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella
indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al
netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in
pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del
relativo termine”.
Nulla impedirebbe all’interprete di includere in suddetta definizione anche i
casi di “imposta elusa”.
A tutto ciò si aggiunga anche il disposto di cui al punto d) dell’art. 1 che
descrivendo il “fine di evadere le imposte” ricomprende anche la finalità di
“conseguire un indebito rimborso..”, in questo modo fa un implicito richiamo
all’art. 37bis del DPR 600/1973 che fa espresso riferimento agli indebiti rimborsi.
Secondo questa tesi, tralasciando le differenze strutturali esistenti tra elusione
ed evasione l’effetto raggiunto da entrambe le condotte è il medesimo: il mancato
pagamento di un’imposta dovuta.
Pertanto, alla luce delle considerazioni fin qui poste parrebbe errato escludere
a priori dalla fattispecie penale, e in particolare dall’art. 4 del d. lgs. 74/2000, la
condotta elusiva. Tale orientamento può essere visto come la prima tesi della
trattazione.
182
5.4 Tesi contraria alla rilevanza penale dell’elusione fiscale.
5.4.1 Art. 4 del D. lgs. 74/2000
Non mancano però voci e opinioni che sostengono invece una tesi contraria a
quella appena elaborata, ossia la non rilevanza penale dell’elusione.
Partendo dall’analisi dell’art. 4 del D. lgs. 74/2000, la legge penale concentra
il fuoco dell’incriminazione in due atti principali, la presentazione nella
dichiarazioni annuali di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello
effettivo oppure di “elementi passivi fittizi”.
Non sembra esserci nessun dubbio sul fatto che affinchè un’operazione possa
rientrare in suddetto articolo ci debba essere necessariamente una non
corrispondenza fra quanto riportato nella dichiarazione e quanto avviene nella
realtà.
In particolare, per ciò che concerne “l’omessa indicazione di elementi attivi”
si dovrà tener conto delle disposizioni tributarie che stabiliscono quale avrebbe
dovuto essere l’ammontare esatto.
Di conseguenza, l’omissione punibile ai sensi dell’art. 4 dipende dalla
presenza di una norma giuridica o da regole giuridiche relative al caso di specie.
Per far si che un’omissione rientri nell’art. 4 occorrerà dimostrare che tale
omissione sia penalmente significativa.
Per quanto riguarda invece “gli elementi passivi fittizi” un primo orientamento
si dice favorevole alla riconducibilità di comportamenti elusivi fra le fattispecie
dell’art. 4 quando questi consistono nell’esposizione in dichiarazione di “elementi
passivi (anche reali) indeducibili in quanto divergenti per eccesso rispetto a quelli
effettivi”.148 A sostegno di tale tesi ci sarebbe l’art. 7 dal quale si dovrebbe
dedurre che i costi non deducibili hanno carattere fittizio anche nel caso in cui
l’indeducibilità dipenda da criteri valutativi.
L’orientamento opposto considera non convincente la tesi appena esposta
innanzitutto per il significato letterale del termine “fittizio” che equivale a “ non
corrispondente alla realtà”. Pertanto, se i termini “fittizio”, “finzione” potrebbero
148
Gallo, op cit 324 pg 447
183
essere considerati sinonimi il carattere fittizio di un’operazione sta in una sua
inesistenza sul piano naturalistico, in una non corrispondenza fra quanto
dichiarato e quanto invece è reale.
5.4.2 Art. 7 del D. lgs. 74/2000
Anche il richiamo all’art. 7 non sembra essere convincente posto che esso
fissa una vera e propria presunzione legale di buona fede del contribuente. Se così
è, non può essere valido il reciproco opposto: al di fuori di queste casistiche ci
troviamo sempre e comunque nell’ambito di applicazione delle norme penali.
Questo non può essere perché innanzitutto il fatto punibile non può essere
identificato “per derivazione” ma solo con una previsione esplicita del legislatore;
inoltre accogliere la prima tesi significa dar luogo ad una interpretazione
analogica in malam partem.
5.4.3 Art. 16 del D. lgs. 74/2000
Per ciò che concerne l’art. 16, in risposta alla tesi sopra menzionata viene
innanzitutto menzionata la superfluità del disposto presente all’interno dell’art. 16,
dato che il riformato art. 5 del Codice penale ricomprende la casistica dell’errore
incolpevole nella quale rientra a pieno titolo l’errore derivante dall’affidamento in
pareri dell’autorità amministrativa descritto nell’art. 16.149
Ciò detto, contro la tesi iniziale vi è in primis la Relazione accompagnatoria
del decreto in cui si afferma che:
“…la disposizione di cui all’art. 16 è unicamente di favore per il contribuente
e non può in alcun modo essere letta, per così dire, “a rovescio”, ossia come
diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie elusive non rimesse alla
preventiva valutazione dell’organo consultivo”.
149
Sul punto NAPOLEONI, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario. Milano,2000.
184
In secundis, la stessa struttura delle figure dell’elusione e dell’evasione, come
si è più volte fatto notare in questa sede, sono molto diverse in quanto evocano
comportamenti nettamente diversi sotto ogni profilo. Senza contare che, come si è
più volte avuto modo di far notare, il concetto di elusione è sempre accompagnato
da quello di atipicità, caratteristica incompatibile con l’illecito penale che, per
dettato costituzionale, deve essere descritto in forma tipica ed esclusiva.
Ricondurre l’elusione fra i comportamenti penalmente sanzionabili sulla base
di una lettura distorta dell’art. 16 andrebbe contro ogni logica dato che
significherebbe che il legislatore avrebbe preferito ricomprendere l’elusione
fiscale fra gli illeciti penali non sulla base una esplicita previsione ma sulla base di
una interpretazione estensiva di una norma che dovrebbe favorire, sul versante
penale, il contribuente.
Diversa sarebbe la situazione nel caso in cui il legislatore avesse previsto un
obbligo generale per il contribuente di scegliere, fra due disposizioni, quella che
sarebbe per lui più gravosa. Ma dal momento che non c’è traccia nell’ordinamento
di una simile assetto l’abuso diventa un illecito atipico e, come tale, non rispettoso
del carattere fondante dell’illecito penale: che deve essere tipico e descritto in
forma tassativa dal legislatore.
5.4.4 Art. 1 del D. lgs. 74/2000
L’evasione di imposta rappresenta l’evento naturalistico che caratterizza la
maggior parte delle condotte disciplinate dal D. lgs. 74/2000. Pertanto, tutte le
volte in cui il contribuente versi un’imposta non corrispondente a quella dovuta
tecnicamente si rientra nella categoria “imposta evasa” ai sensi del D. lgs.
74/2000. Questo a prescindere dalle modalità con cui si compie l’atto evasivo, se
attraverso una violazione diretta di un dettato normativo o se attraverso l’elusione
dello spirito della legge.
Pare evidente però, che tale tesi non possa avere riscontro reale: tale elemento
non può da solo legittimare il ricorso ad una sanzione penale altrimenti il
contribuente sarebbe penalmente perseguibile tutte le volte che non abbia indicato
in maniera corretta in dichiarazione l’imposta dovuta. Tutto ciò non può essere
185
accettato dal momento che in proposito il legislatore è molto chiaro: affinché
venga integrata una fattispecie di reato è necessario non solo l’evento lesivo
rappresentato dall’evasione di imposta ma altresì che ciò sia frutto di una specifica
condotta. Detto in altri termini, ai fini della rilevanza penale è importante non solo
l’atto finale dato dall’evasione (comunque necessario per dare natura offensiva al
comportamento) ma è altrettanto rilevante la condotta assunta dal contribuente che
gli ha permesso di ottenere l’indebito vantaggio fiscale.150
5.5 Soluzioni alternative.
5.5.1 Il rimedio della disposizione speciale.
Entrambe le tesi presentano punti percorribili e punti più discutibili, ma
attraverso l’analisi congiunta dell’art. 37bis del DPR 600/1973 e dell’art. 4 del d.
lgs. 74/2000 si può arrivare ad un’ulteriore soluzione.
I punti fermi che derivano dalla lettura dei disposti delle due leggi sono: la
fattispecie penale di dichiarazione infedele richiede la presenza di “elementi
passivi fittizi” e che l’art. 37bis fissa regole sulla base delle quali taluni elementi
sono considerati indeducibili e quindi, forse, fittizi.
In una situazione del genere si potrebbe affermare che il medesimo fatto
concreto (ossia l’indicazione nella dichiarazione di elementi indeducibili perché
derivanti da condotte elusive) potrebbe ricomprendere due illeciti:
•
illecito penale, di cui all’art. 4 del d. lgs. 74/2000;
•
illecito amministrativo, di cui all’art. 37bis del DPR 600/1973.
In un quadro simile entra in gioco l’art. 19 del d. lgs. 74/2000 (principio di
specialità) secondo il quale nel concorso fra due illeciti si deve applicare la
disposizione speciale che in questo caso è rappresentata dall’art. 37bis. Una
soluzione di questo tipo comporterebbe dunque la completa irrilevanza penale
dell’elusione.
150
David TERRACINA, Fatto, diritto e sanzioni penali nella sentenza “Dolce e Gabbana”. In
Dialoghi Tributari 3/2012, pg 295 e seguenti.
186
Tale conclusione però presenta dei punti dubbi circa la specialità dell’art.
37bis. Infatti, a ben vedere, tale norma rappresenta il presupposto della fattispecie
penale di cui all’art. 4. Sulla base di operazioni inopponibili si creano dei costi
indeducibili che, se considerati nella dichiarazione, rendono quest’ultima infedele
e dunque rientrante nell’art. 4. Questa affermazione postula pertanto la non
specialità della sanzione amministrativa rispetto a quella penale, semmai quello
amministrativo sarà il presupposto di quello penale.
5.5.2 Il rimedio “dell’integrazione”.
Un ulteriore assunto che può essere esaminato in favore della rilevanza penale
dell’elusione può essere quello secondo il quale la disposizione penale richiami la
disposizione amministrativa secondo un fenomeno di “integrazione” del tutto
usuale.
Una situazione di questo tipo può sussistere però solo se la fonte integrata sia
anch’essa legislativa e risponda al requisito di “determinatezza”. Due condizioni
essenziali affinché il principio di legalità, e quindi la riserva assoluta di legge,
siano rispettati. Per quanto riguarda la fonte legislativa non vi sono problemi
essendo l’art. 37bis contenuto nel DPR 600 del 1973. Mentre c’è da chiedersi se
quest’ultimo disciplini in modo determinato e preciso le condotte elusive e
pertanto se l’individuazione di “elementi fittizi” in quanto indeducibili possa
avvenire nel pieno rispetto della legalità. A questa seconda domanda non si può
rispondere positivamente e, di conseguenza, crolla l’assunto iniziale.
Alla luce delle considerazioni fatte è evidente come non esista ad oggi una
risposta univoca e certa circa la rilevanza penale o meno delle condotte elusive.
Pare proprio, però, che il contesto normativo vigente non permetta di
assegnare indiscriminatamente valore penale a simili condotte. A tale conclusione
sembra pervenire anche la Corte di Giustizia delle Comunità europee la quale ha
affermato che: “la constatazione dell’esistenza di un abuso di diritto non deve condurre
ad una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e
187
univoco, bensì semplicemente a un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite
detrazioni dell’IVA assolta a monte”151
Al fine di rendere più chiara tale conclusione si potrebbe tentare di rispondere
alla seguente domanda: perché le conseguenze derivanti da comportamenti che
potremmo definire abusivi o elusivi ai sensi dell’art. 37bis del DPR 600/1973 non
possono essere ricondotti fra le fattispecie dell’art. 4 del d. lgs. 74/2000? Perché le
condotte elusive sono caratterizzate da liceità e atipicità e la loro rappresentazione
non comporta nessuno scarto rispetto alla realtà, non è presente nessuna finzione
visto che ogni elemento presentato risulta effettivo.
Così gli elementi attivi, come quelli passivi sono effettivi in quanto derivanti
da negozi giuridici adottati in base al principio di libertà di scelta delle forme di
negozio da adottare.
Ancora, l’elusione ha una natura nettamente diversa rispetto all’evasione il
che giustifica anche la differente tipologia sanzionatoria che l’ordinamento ha
previsto.
In merito, a livello nazionale, vi sono progetti di riforma delle disposizioni
antielusive da parte della “Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe
tributaria”, chiaro sintomo della serietà del problema e della necessità di trovarvi
una soluzione legislativa ad hoc.
Conclusivamente, si possono fare le seguenti considerazioni:
•
non c’è dubbio che il nostro ordinamento debba essere in grado di reagire
ai comportamenti elusivi del contribuente, soprattutto ora che tali
comportamenti si stanno facendo sempre più sofisticati;
•
è altresì necessario che tali interventi non siano “sconsiderati”, ossia spinti
dalla paura di non riuscire a riconoscere operazioni abusive. E’ importante
infatti che il legislatore non trasformi la reazione in una mera
disapplicazione di regole impositive scritte;
•
l’orientamento dell’Amministrazione finanziaria e della Corte di
cassazione in materia di abuso è basato sostanzialmente sull’assenza di
valide ragioni economiche extra-fiscali;
151
Corte di Giustizia CE-Grande Sezione, 21.12.2006, Halifax, n. 255
188
•
una linea di pensiero come quest’ultima mette in serio pericolo il principio
di predeterminazione ex lege, in quanto il nostro ordinamento è costellato
di regimi alternativi che il contribuente ha a disposizione in ragione delle
diverse forme giuridiche delle operazioni, senza contare che non esiste una
definizione univoca all’interno del nostro sistema del concetto di “valide
ragioni economiche”, il che comporta che tale valutazione verrà fatta in
maniera soggettiva dal giudicante caso per caso.
5.6 Il disegno di legge delega.
Di fronte a dette conclusioni una domanda sorge spontanea: come si può
bilanciare la libertà contrattuale del contribuente con le ragioni di prelievo
dell’Amministrazione fiscale?
Il recente disegno di legge delega sulle disposizioni per la revisione del
sistema fiscale parla di regimi alternativi, si arriva, ovvero, a definire una sorta di
libertà circoscritta per il contribuente, il quale potrà usufruire di un margine di
discrezionalità arginato alle possibilità che il legislatore gli consente di avere.
Rimane però pur sempre la possibilità che il contribuente utilizzi tali percorsi
alternativi per ottenere risultati diversi da quelli che il legislatore aveva previsto.
Tale eventualità, però, non può giustificare il sorgere di sanzioni penali dettate dal
fatto che il soggetto passivo abbia optato per un regime a lui più favorevole, ma
comunque lecito.
In questi termini sarebbe più logico distinguere fra scelte che il contribuente
può fare legittimamente e scelte invece che non può compiere perché contrarie
alla ratio della norma.
Questo approccio sarebbe in linea sia con le esplicite prescrizioni dell’art.
37bis del DPR 600/1973 sia con le indicazioni della Corte di Giustizia.
Per quanto riguarda la prima delle considerazioni appena menzionate,
particolarmente rilevante risulta essere l’intervento del già citato disegno di legge
189
delega il quale cerca di affrontare tale problematica concentrandosi su tre punti
principali:
•
la codifica della fattispecie abuso di diritto;
•
l’efficacia temporale;
•
come assicurare garanzie procedimentale al contribuente.
Pertanto, scopo principale di tale intervento normativo vuole essere un netto
contrasto all’elusione e all’evasione e, in particolare, l’attribuzione di “certezza di
diritto” al fenomeno dell’abuso. A tale finalità si ispira l’art. 6 del Disegno di
legge delega, all’interno del quale si esplicita come sia necessario l’intervento del
legislatore per l’introduzione di una norma generale di definizione dell’abuso di
diritto, unificata a quella dell’elusione (art. 37bis DPR 600/1973), in modo da
contrastare operazioni di tax planning unicamente finalizzate al risparmio
d’imposta e non economicamente giustificabili.
In aggiunta, si prevede, altresì, un’estensione di responsabilità ai professionisti
che partecipano alle illecite operazioni fiscali poste in essere dal contribuente. La
ratio nascosta dietro questa dichiarazione risulta abbastanza evidente: il
commercialista che professionalmente appoggia il proprio cliente in queste
operazioni non può che essere considerato un “complice” di quest’ultimo, e
dunque incorrere in una condizione di corresponsabilità.
Un altro punto del disegno di legge che merita di essere menzionato riguarda
la previsione di dettagliate regole procedimentali. Con esse si vuole garantire un
efficace contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria e un adeguato diritto di
difesa del contribuente in ogni grado di giudizio.
Insieme alla necessità di dover far maturare un miglior rapporto di fiducia fra
l’Amministrazione finanziaria e il singolo contribuente il disegno di legge si
esprime anche in merito alla tematica della rilevanza penale dell’elusione fiscale
all’interno dell’art. 9 che prevede una:
“Revisione
del
sistema
sanzionatorio
penale
secondo
criteri
di
predeterminazione e proporzionalità rispetto alla gravità del comportamento,
dando rilievo alla configurazione del reato tributario per i comportamenti
190
fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e utilizzo di documentazione
falsa; esclusione della rilevanza penale per i comportamenti ascrivibili
all’elusione fiscale. (…)”
L’esigenza di una previsione normativa chiara ed esaustiva in materia di abuso
di diritto emerge anche per un motivo di rivendicazione del ruolo del legislatore.
Troppo spesso ormai la Corte di Cassazione ha ricoperto il ruolo di “sostituto del
legislatore” dando origine a sentenze, spesso anche contraddittorie, su una materia
delicata come quella in esame. Un esempio tra tutti è la sentenza della Corte di
Cassazione sulla vicenda del marchio di Dolce e Gabbana che, rovesciando la
sentenza del GUP di Milano, dà rilevanza penale sia all’esterovestizione che
all’elusione fiscale. Un orientamento difficile da comprendere anche in ragione
del già citato principio del divieto di analogia in materia penale. Suddetto
principio trova fondamento nell’art. 25 Cost. all’interno del quale si recita che
nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima del fatto commesso. Un divieto che viene rivolto al giudice il quale dovrà
applicare la legge penale esclusivamente alla fattispecie concreta che rientra nel
precetto, in quanto è necessario che il cittadino sappia preventivamente e
puntualmente a cosa va incontro. L’applicazione analogica dell’ art. 4 del d. lgs.
74/2000 ai fenomeni elusivi non risulta compatibile con tale principio.
CAPITOLO 6
L’elusione fiscale e il transfer pricing.
Come già ampliamente affermato all’interno del sezione quinta, capitolo 3, la
materia del transfer pricing tratta quel fenomeno economico per il quale –
nell’ambito di transazioni commerciali effettuate tra società appartenenti al
medesimo gruppo, o comunque fra loro controllate- si realizza una determinazione
191
accentrata del prezzo pattuito come corrispettivo per il trasferimento di beni o
servizi ad oggetto di transazioni.152
Tale fenomeno viene disciplinato dal legislatore tributario nazionale
all’interno dell’art. 110 comma 7 del TUIR il quale recita:
“I componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello
Stato, che direttamente od indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono
controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei
beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e dei servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2,
se ne deriva un aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una
diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità
competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali procedure amichevoli previste dalle
convenzioni contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per
i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle
quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci di fabbricazione
o lavorazione di prodotti”.
Tale corrispettivo dunque, a seconda che sia percepito o erogato, comporterà
la nascita di un introito o di una spesa che possono chiaramente discostarsi, e
anche in maniera notevole, da quello che sarebbe il loro ammontare in
un’operazione del tutto similare ma tra soggetti non appartenenti al medesimo
gruppo.
Alla luce di questo fatto, l’imponibile di una società del gruppo con sede in
Italia può variare in maniera sostanziosa rispetto a quello che sarebbe il “normale”
esito di transazioni ordinarie.
In questi termini il fenomeno del transfer pricing rientra ampliamente nel
tema dell’elusione, in quanto consente di “modulare” la base imponibile di un
gruppo, soggetta a imposizione tributaria, a seconda delle esigenze fiscali di
quest’ultimo, attraverso operazioni di per sé lecite. In altri termini, tramite un
calcolo distorto dei prezzi di trasferimento, una società residente in un Paese ad
alta fiscalità tenterebbe di dirottare parte del proprio imponibile verso un Paese a
fiscalità ridotta dove ha sede una Società ad essa collegata.
152
Piergiorgio Valente, I rischi penal- tributari nella determinazione dei prezzi di
trasferimento, in Manuale del transfer pricing, cap. VI.
192
Il centro del problema sta nello stabilire se, a seguito di un determinato prezzo
di trasferimento, nella dichiarazione annuale si siano indicati elementi attivi
inferiori all’effettivo o elementi passivi fittizi ex art. 4 del d. lgs. 74/2000.
Al fine di rendere più chiaro suddetto procedimento, di seguito si propone un
esemplificazione del meccanismo che società tra loro collegate possono porre in
essere allo scopo di ottenere un risparmio d’imposta.
(A): impresa residente in un paese ad alta fiscalità
(B): impresa residente in un paese a bassa fiscalità
(A) e (B) appartengono allo stesso gruppo multinazionale.
X: bene/servizio scambiato.
VN(x): valore normale del bene/servizio = 30.
(A) ha la possibilità di dirottare parte del reddito verso il paese a bassa
fiscalità sfruttando l’appartenenza al medesimo gruppo societario di (B) e quindi
manipolando i prezzi di trasferimento dei beni/servizi. In particolare:
•
(A) cede a (B) il bene X ad un prezzo infragruppo di 20 < VN(x). Quindi
(B) paga ad (A) un corrispettivo più basso rispetto al valore normale del
bene, in questo modo una quota di reddito (10) rimane nel Paese a bassa
fiscalità.
•
(A) acquista da (B) il bene X ad un prezzo infragruppo di 40 > VN(x).
Quindi (A) paga a (B) un corrispettivo più alto rispetto al valore normale
del bene, in questo modo una quota di reddito pari a 10 verrà trasferita nel
Paese a bassa fiscalità.
Nel secondo caso il vantaggio complessivo è addirittura maggiore poiché
l’acquisto ad un prezzo sovrastimato del bene produce un duplice effetto fiscale:
trasferimento nel paese a bassa fiscalità di una porzione di reddito che
altrimenti sarebbe stata oggetto di imposizione nel Paese ad alta fiscalità;
registrazione in contabilità di un costo sovrastimato che opera un ulteriore
abbattimento della base imponibile di (A)
Con riferimento a tale specifico tema assume particolare rilevanza il disposto
dell’art. 7 del d. lgs. 74/2000 in relazione alle valutazioni estimative.
193
Con la locuzione “valutazioni estimative” si intende il quantum di elementi
attinenti l’imponibile. Pertanto, costituiscono “valutazione estimativa” la stima e
le attribuzioni di valori di mercato o normali (tra cui il calcolo del prezzo di
trasferimento). La nuova disciplina penale- tributaria del d. lgs. 74/2000 apporta,
infatti, come nuovo elemento la rilevanza penale, ai sensi degli art. 3 e 4,
dell’erronea applicazione dei criteri valutativi a differenza della abrogata L.
516/1982 che invece prevedeva punibili i soli casi in cui la falsità avesse ad
oggetto falsità materiali.
A prova di tutto ciò vi è appunto l’art. 7 del d. lgs. 74/2000 intitolato
“rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio” il quale dispone la non
punibilità “delle rilevazioni e delle valutazioni estimative” se dei criteri
concretamente adottati sia stata data idonea illustrazione nei documenti contabili.
Ciò in quanto l’esplicita esposizione nel bilancio dei criteri estimativi usati
permette di escludere l’ambito del dolo di evasione.
Questo inserimento testimonia l’astratta riconducibilità delle operazioni
contabili di carattere valutativo (come il transfer pricing) nelle fattispecie a rilievo
penale.
Giova altresì rilevare come costituisca reato non soltanto la mendace
rappresentazione contabile, contraria sia a principi tributari che civilistici, ma
anche la mera violazione tributaria. Questo pare in linea con l’intento del
legislatore di rendere punibile ogni valutazione che sottenda ad un’operazione di
stima finalizzata a determinare il valore di un bene.
Alla luce di quanto detto, pare pacifico affermare che il transfer pricing sia
ricompreso nell’ambito della disciplina penal- tributaria.
6.1 Rapporto transfer pricing e dolo specifico.
Il dolo nel diritto penale rappresenta l’elemento soggettivo del reato ed è una
condotta che presuppone un comportamento intenzionale. Per ciò che concerne, in
particolare, il “dolo specifico” esso si configura quando l’agente ha agito per una
194
determinata finalità la cui concreta realizzazione non è necessaria per integrare il
reato essendo sufficiente che essa sia strettamente perseguita.
Con riferimento al transfer pricing, a differenza della prestazione di un bene o
di un servizio, il prezzo di trasferimento non ha per oggetto solo la determinazione
del prezzo (mera questione fattuale) ma anche l’effettuazione di una stima. Di
conseguenza, qualora il contribuente, pur convinto della fondatezza della propria
interpretazione (quindi in buona fede), abbia utilizzato un criterio estimativo
errato che ha condotto ad una determinazione errata del prezzo di trasferimento
non potrà essere ritenuto responsabile ai sensi degli art. 3 e 4 del d. lgs. 74/2000.
Questo perché manca l’elemento soggettivo che caratterizza il reato penale ossia il
dolo. Tuttavia, tale argomentazione non può valere a priori in quanto si dovrà
valutare di volta in volta il caso concreto.
Inoltre, sarà escluso il dolo anche nel caso in cui il criterio di stima, seppur
non esatto, sia accompagnato da un prezzo di trasferimento sufficientemente
credibile e congruo.
6.2 L’onere della prova nel transfer pricing.
L’interpretazione tradizionale dell’art. 110 comma 7 del TUIR è sempre stata
nel senso che compete al contribuente la dimostrazione della validità , intesa come
corrispondenza al “valore normale”, delle valutazioni compiute nelle operazioni
concernenti i prezzi di trasferimento. Pertanto, per lungo tempo si è pensato che
l’Amministrazione finanziaria fosse sgravata dall’onere di concorrere alla
quantificazione delle operazioni intercompany.
Questa impostazione è stata di recente messa da parte a seguito di un
orientamento giurisprudenziale. In merito, particolarmente importante è stata la
sentenza della Cassazione, sezione tributaria del 16 maggio 2007, n. 11226 la
quale ha addossato l’onere della prova in capo all’Amministrazione finanziaria. Il
principio
di
diritto
scaturente
da
suddetta
sentenza recita:
“incombe
all’Amministrazione finanziaria dimostrare che in concreto la regola di
assorbimento della garanzia costituisce in realtà metodo elusivo per scaricare i
costi (riducendo gli utili) nel Paese di più bassa fiscalità”.
195
Tale decisione si caratterizza, dunque, per l’affermazione del principio
secondo cui l’onere della prova dell’accertamento del mancato rispetto del
principio del valore normale di cui all’art. 110 comma 7 del TUIR non grava sul
contribuente, il quale, in sede di accertamento, dovrà giustificare i prezzi di
trasferimento determinati, bensì sull’Amministrazione.
A prova di tale impostazione vi sono altre decisioni in particolare quella del
CTP Milano, sez. V, 26 marzo – 11 giugno 2007 n. 194. In tale sentenza si precisa
che:
“la regolamentazione del transfer pricing è volta ad evitare che all’interno di un gruppo
societario compaiano trasferimenti di utili attraverso l’applicazione di prezzi inferiori al normale
ordinario valore dei beni, in modo tale da sottrarli al sistema di tassazione italiano a favore di un
regime estero inferiori e quindi più favorevole. Pertanto, la prova fornita dall’Ufficio volta a
dimostrare l’intento elusivo, dovrà essere rigorosa, ossia dovrà essere fornita attraverso elementi
gravi, precisi e concordanti, che diano la dimostrazione che ad una società avrebbero dovuto
applicarsi criteri diversi rispetto a quelli praticati ad altre società non appartenenti al gruppo”
Nel caso di specie si tratta di royalties corrisposte in base ad un contratto di
franchising con una società estera. La società verificata aveva utilizzato dei
contratti che aveva stipulato con altre società indipendenti che avevano previsto le
stesse condizioni di cui al contratto sopra. L’ufficio aveva ritenuto tale
comparazione non possibile in quanto la situazione economica delle società
indipendenti era completamente diversa. La commissione tributaria provinciale
non ha però ritenuto sufficiente tale elemento per l’operatività della presunzione
elusiva.
Un’altra recente decisione applicativa del medesimo principio è quella del
CTP di Pisa sezione II del 26 febbraio – 9 maggio 2007 n. 52 nella quale si
afferma che:
“in materia di transfer pricing grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare la
ricorrenza dei presupposti dell’elusione da parte del contribuente. Nello specifico l’A.F. dovrà
dimostrare in modo adeguato che le differenze tra il prezzo praticato ai soggetti infragruppo,
raffrontato con le ordinarie condizioni di mercato, non abbiano una adeguata giustificazione
196
economica. Pertanto l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione ricade
sull’Amministrazione che intenda operare le rettifiche. Solo dopo tale positivo accertamento,
l’onere della prova si inverte e sarà quindi il contribuente che dovrà dimostrare la correttezza dei
prezzi di trasferimento applicati”.
Alla luce di quanto finora visto, pare pacifico affermare che l’orientamento
giurisprudenziale propenda per gravare dell’onere della prova, in materia di
transfer pricing, l’Amministrazione finanziaria. C’è da domandarsi se tale
orientamento possa essere esteso anche in campo penale- tributario, ossia per il
reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del d. lgs. 74/2000 a seguito della
trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica da parte dei verificatori.
La risposta, in tale contesto, dovrà essere negativa in quanto il processo
penale è caratterizzato da peculiarità autonome e distinte rispetto al processo
tributario, il quale si è modellato, con alcune distinzioni, sullo schema del
processo civile.
Nel processo penale, infatti, la regola generale prevede che sia sempre
l’accusa a dover dimostrare l’esistenza dei fatti e la colpevolezza dell’imputato,
senza che mai debba essere quest’ultimo a provare in primis la propria non
colpevolezza
Nell’ambito penale-tributario dunque il giudice dovrà prescindere da qualsiasi
presunzione o inversione dell’onere della prova ma dovrà basarsi sui classici
canoni penali della “prova a carico dell’accusa” e del “libero convincimento del
giudice”.
6.3 “L’onere documentale” in capo al contribuente.
In tale scenario giova altresì ricordare il nuovo comma 2ter dell’art. 1 del d.
lgs. 471/1997, introdotto dall’art. 26 del d.l. 78/2010, convertito con legge n.
122/2010 di cui si è parlato nella precedente sezione, all’interno del capitolo 3,
paragrafo 3.3.2.
Tale normativa prevede che in caso di rettifica del valore normale dei prezzi di
trasferimento nell’ambito di operazioni fra imprese collegate, il contribuente non
197
sarà punibile qualora consegni la documentazione indicata in apposito
provvedimento dal Direttore dell’Agenzia delle entrate idonea a dimostrare la
congruità dei prezzi di trasferimento praticati al valore normale dei beni.153
Pertanto, si assegna il massimo rilievo alla trasparenza oggettiva dei metodi
utilizzati per il calcolo dei prezzi di trasferimento. Una disciplina di questo tipo
ricorda il disposto del primo comma dell’art. 7 del d. lgs 74/2000 all’interno del
quale tale trasparenza oggettiva viene ripagata con la non punibilità (penale).
In ogni caso, la mancanza di suddetta documentazione, pur non comportando
l’automatico rilievo penale del fatto, provoca l’instaurarsi di una “presunzione di
illecito” che darà del filo da torcere in sede penale.
In conclusione, alla luce dell’intricata questione di cui si è tentato di dare
notizia, pare pacifico affermare che l’ipotesi criminosa normalmente applicabile
in materia di transfer pricing è quella di cui all’art. 4 del d. lgs. 74/2000
(dichiarazione infedele). In particolare, potranno verificarsi diverse situazioni:
•
viene contestata la scelta del metodo seguito dal contribuente, in tal caso la
difesa dovrà dimostrare che in base alla normativa OCSE e alla prassi
internazionale tale metodo risulta essere il più idoneo;
•
viene contestato non il metodo bensì la corretta applicazione di esso, in tal
caso la difesa dovrà apportare elementi che giustifichino tale scelta;
•
i verificatori non tengono conto di altri elementi di fatto (es. determinati
costi sostenuti), in tal caso la difesa dovrà mettere in evidenza tali
importanti elementi, oggetto di omissione da parte dei verificatori.
Nel caso in cui il giudice ritenga vi siano gli estremi per l’infedeltà della
dichiarazione (e ciò ricomprende anche l’elemento soggettivo del dolo ai sensi
dell’art. 4) egli dovrà provvedere a determinare se è stata superata la franchigia, di
153
Il provvedimento dell’Agenzia delle entrate, a cui la norma fa esplicito riferimento, è stato
emanato il 29 settembre 2010. In ragione delle disposizioni ivi contenute il contribuente è tenuto
a predisporre, conservare e comunicare all’Amministrazione finanziaria una cospicua
documentazione (Masterfile e documentazione nazionale) che attesti il rispetto del “valore
normale” della merce scambiata. Per la consultazione del testo del provvedimento si rinvia alla
nota 119.
198
cui all’art. 7 comma 2 del d. lgs. 74/2000, del 10%, perché in caso di risposta
negativa il fatto costituirà solo illecito tributario, non penale.
In caso di superamento della percentuale, il giudice dovrà, altresì, verificare se
a bilancio (in particolare nella nota integrativa) risulta esserci l’indicazione dei
criteri di valutazione seguiti, e se la descrizione di questi ultimi è sufficientemente
precisa da far “scattare” la condizione esimente di cui al primo comma dell’art. 7
del d. lgs. 74/2000.
In un quadro di questo genere, la carente trasparenza che caratterizza il tema
dei riflessi penali dell’elusione fiscale non aiuta certamente l’inquadramento dei
rischi penali-tributari nella determinazione dei prezzi di trasferimento. In ragione
di ciò, pare lecito affermare quanto sia necessario un intervento repentino del
legislatore affinché venga chiarito, uno volta per tutte, il ruolo delle condotte
elusive nell’ambito penale.
199
CAPITOLO 7
Il caso Dolce & Gabbana.
Alla luce delle tematiche fin qui trattate, con particolare riferimento all’abuso
di diritto e ai suoi possibili riflessi in chiave penale, ricopre un ruolo centrale la
sentenza del tribunale di Milano (Uff. GUP, 1 aprile 2011- 29 aprile 2011) e la
ancora più recente pronuncia della Seconda Sezione della Corte di Cassazione (22
novembre 2011- 28 febbraio 2012) in merito al caso Dolce e Gabbana.
Il caso risulta essere molto interessante in quanto va a toccare tematiche molto
attuali e vicine agli argomenti discussi in questa sede.
Fra gli imputati spiccano i nomi dei due noti stilisti Stefano Dolce e
Domenico Gabbana (soci al 50% della D&G s.r.l., proprietaria dell’80% del noto
marchio Dolce & Gabbana) i quali, nel marzo del 2004, costituiscono due società
in Lussemburgo: la Gado s.a.r.l. e la Luxemboug s.a.r.l.. Il legame fra suddette
società può essere così schematizzato:
D&G s.r.l.
Dolce &Gabbana
(con sede in Italia,
Luxembourg s.a.r.l.
D. Dolce e S. Gabbana
possiede
(sede in Lussemburgo)
Gado s.a.r.l.
possiede
sono soci al 50%)
(sede in
Lussemburgo)
I due stilisti, una volta costituite le società lussemburghesi, nello stesso mese
cedono il noto marchio Dolce & Gabbana alla Gado s.a.r.l. al prezzo di euro
360.000.000. Il 31 luglio 2004 viene stipulato un contratto di licenza dei marchi
appena ceduti attraverso il quale la Gado s.a.r.l. concede il diritto di sfruttamento
degli stessi alla D&G s.r.l dietro la corresponsione di royalties.
Per avere una più chiara visione d’insieme a pagina 216 si propone un grafico
che sintetizza la situazione appena descritta.
Agli stilisti vengono contestate le seguenti azioni:
•
l’istituzione di due società fittizie in Lussemburgo al solo scopo di
ottenere un indebito risparmio di imposta, in quanto l’amministrazione
200
vera e propria, a parere dell’accusa, continuava a essere a Milano presso la
D&G s.r.l (“esterovestizione”);
•
l’acquisto simulato del marchio di moda da parte della Gado s.a.r.l. ad un
prezzo notevolmente inferiore rispetto a quello di mercato (€
1.193.712.000);
•
il pagamento di royalties da parte della Gado s.a.r.l nei confronti della
D&G s.r.l (tassate così, in base agli accordi con il Fisco lussemburghese,al
4%) in modo da ottenere un ribasso della base imponibile in Italia, essendo
questi canoni, per la società milanese, dei costi periodici;
•
la predisposizione e l’organizzazione di consigli d’amministrazione fittizi
in Lussemburgo e il posizionamento di apparenti dipendenti con funzione,
in realtà, di meri segretari;
•
la creazione di uno “schermo territoriale estero” in quanto la reale titolarità
dei marchi, attraverso la catena societaria, appartiene ancora alle persone
fisiche residenti in Italia.
I capi d’accusa nei confronti degli imputati sono di truffa ai danni della Stato
ai sensi dell’art.640, comma 2 del codice penale, mentre, nei confronti dei due
stilisti Dolce e Gabbana, si aggiunge anche l’accusa di dichiarazione fiscale
infedele ai sensi dell’art.4 del d. lgs. 74/2000.
Come accennato, in merito a tale caso, sono state pronunciate due sentenze,
quella del GUP di Milano e successivamente quella della Corte di Cassazione su
ricorso del procuratore della Repubblica di Milano e dell’Agenzia delle Entrate di
Milano.
Segue l’analisi della prima sentenza pronunciata dal GUP di Milano.
201
7.1 La Sentenza del GUP di Milano.
Il GUP di Milano, in data 1 aprile 2011, ha pronunciato la sentenza di “non
luogo a procedere in quanto il fatto non sussiste” nei confronti di tutti gli
imputati.
Il Giudice per le indagini preliminari, Dr. Simone Luerti, ha percorso in
maniera molto chiara le accuse formulate sia dal Pubblico Ministero sia
dall’Agenzia delle Entrate arricchendole di riflessioni che conducono alla tesi da
Lui stesso sostenuta.
7.1.1 Accusa di dichiarazione infedele ai sensi dell'art. 4 del D. Lgs. 74/2000.
L’accusa di dichiarazione infedele ai sensi dell’art. 4 D. L.vo 74/00 è stata in
questo modo formulata dall’Agenzia delle Entrate:
“Reato di cui all’art. 4 D. L.vo 74/00 perché al fine di evadere l’imposta sui
redditi, nella dichiarazione annuale dei redditi delle persone fisiche per il periodo
di imposta del 2004 indicava elementi attivi per un ammontare inferiore a quello
effettivo pari a € 416.856.000 con una imposta IRE evasa pari a € 187.585.200.
ADD. Regionale pari a € 5.835.984 ed un attivo dichiarato pari a € 28.659.992
anziché € 445.515.992”.
Oggetto di censura sarebbe, pertanto, il prezzo stabilito dai due stilisti per la
vendita del loro marchio alla società Lussemburghese (360 milioni di euro) in
quanto non sarebbe in linea con il “valore normale” e che quindi viene considerato
tout court simulato.
Il prezzo a cui gli intangibles avrebbero dovuto essere venduti, secondo una
stima fatta dalla stessa Agenzia delle Entrate, è di euro 1.193.712,00. A tale valore
dovrebbero poi essere sottratti 360 milioni già dichiarati e sulla differenza
dovrebbero essere calcolate le imposte evase. A questo corrisponde il
ragionamento fatto dagli accusatori per cui i due stilisti avrebbero dichiarato
elementi attivi per un ammontare inferiore rispetto a quello effettivo.
202
L’operazione contestata in cifre può essere così schematizzata154:
L’OPERAZIONE CONTESTATA IN CIFRE
Prezzo di cessione del marchio:
360 milioni €
Prezzo di cessione ricostruito dal Fisco:
1.193 milioni €
Ammontare dell’accertamento:
387 milioni di € a
testa (incluse sanzioni)
Prezzo di cessione del marchio risultante dalla
731 milioni €
Sentenza del Ctp Milano:
Ammontare della cartella notificata ai due stilisti a
119 milioni di € a
titolo di iscrizione provvisoria (e sospesa):
testa (tributo accertato
e interessi)
La valutazione del marchio operata dalla commissione tributaria di Milano
(731 milioni) è stata effettuata con il “metodo dei tassi di royalties” (relief from
royalties). Tale metodo si basa sul fatto che un’azienda è costretta a pagare il
legittimo proprietario di un marchio quando quest’ultimo gli concede il diritto di
utilizzarlo nella propria attività. Dal momento che la proprietà del marchio solleva
l’azienda dall’obbligo di pagare royalties questo rappresenta un miglioramento
delle performances dell’azienda.
La formula di valutazione è la seguente:
n
valore del marchio: ∑ Si x r x Vi
I
dove:
Si= vendite attese su un orizzonte corrispondente alla vita residua del marchio;
g= tasso di crescita delle vendite attese
r= tasso di royalty, scelto per via di comparazione con casi omogenei dedotti dal
mercato;
Vi= coefficiente di attualizzazione;
154
Fabio Tassi, Gianni Macheda, D&G, ruoli Equitalia congelati, in Italia Oggi.
203
i= tasso di attualizzazione;
n= orizzonte temporale rilevante ai fini della valutazione.
Nel caso Dolce e Gabbana la valutazione viene riferita all’anno 2004 e i dati da
inserire nella formula sono i seguenti:
•
Ricavi dell’anno 2004 = 505 milioni di €
•
Orizzonte temporale = 12 anni
•
Tasso di crescita del periodo 2005-2010:
2005 = 2004 +2004 x 13,2%
2006 = 2005 +2005 x 9,6%
2007 = 2006 +2006 x 7,6%
2008 = 2007 +2007 x 6,4%
2009 = 2008 +2008 x 5,5%
2010 = 2009 +2009 x 4,9%
•
Tasso di crescita del periodo 2011-2016: 5%annuo.
•
Tasso di royalty: 6%
•
Tasso di attualizzazione: 8,8%155
Secondo la riflessione operata dal Giudice i punti fermi da prendere in
considerazione sono i seguenti:
in primis, la cessione dei marchi non è stata simulata ma reale ed effettiva dal
momento che gli stilisti hanno effettivamente percepito i 360 milioni dichiarati.
155
La fonte dei dati e delle formule “Il Fisco”, 26/2012, Marchio “Dolce & Gabbana”: valutato
730 milioni di euro di Flavio DEZZANI e Luca DEZZANI. I due autori, oltre a presentare il metodo
adottato dal CTP di Milano, rilevano come il calcolo sia errato, dal momento che dai calcoli da
loro effettuati il risultato finale non è di 731 milioni di euro bensì 337 milioni di euro. La tabella
qui di seguito riportata, ripresa dallo stesso articolo, è a dimostrazione di quanto detto:
2004 2005 2006 2007
Fatturati
aggregati
2008 2009
2010
2011 2012 2013 2014 2015
2016
505
572
627
674
717
757
794
834
876
920
966
Royalties al 6%
convenzionale
30
34
38
40
43
45
48
50
53
55
58
61
64
Anni di
attualizzazione
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
29
29
29
29
28
27
26
25
24
24
23
22
21
Valore attuale
8,88%
Totale
1.014 1.065 10.320
204
619
337
A tal proposito, nella sentenza si dichiara come l'articolo 9 del TUIR, che
disciplina il concetto del valore normale, non sia stato utilizzato in maniera
appropriata. In sintesi, il Giudice afferma che la differenza esistente fra il valore
assegnato all'intangible e il “valore normale” del bene “..non può essere utilizzato
come unico elemento di prova dell'evasione, pena la violazione dell'intangibilità
dell'autonomia contrattuale, ma anche del principio costituzionale della capacità
contributiva”. (Cit. pag 14 Sentenza).
Ancora una volta entra in gioco il ruolo dell'elusione fiscale e dell'abuso di
diritto sul quale il Giudice spende una riflessione. Egli dichiara che nel caso di
specie il carattere abusivo deve essere escluso sussistendo ragioni extra fiscali
individuate nella necessità di dare un orientamento internazionale alla società di
moda e nell’esigenza di allontanarsi dal rischio che questa venga influenzata dalle
vicende personali dei due stilisti unici titolari, fino a questo momento, dei marchi.
Nel prosieguo, viene altresì toccato il già noto tema della rilevanza penale di
suddette nozioni e, in più momenti, il Giudice nega la possibilità che l’abuso di
diritto possa rientrare fra le fattispecie penali. In tale frangente ricopre un ruolo
decisivo il principio di legalità che sancisce il vincolo insormontabile per cui il
fatto illecito debba essere descritto in maniera precisa da una norma di legge.
In aggiunta, il Giudice si preoccupa di precisare i presupposti del delitto di
dichiarazione infedele:
•
l’effettiva percezione, da parte del contribuente, di una somma superiore a
quella dichiarata il cui accertamento può essere eseguito solo in sede
penale;
•
la tenuta irregolare delle scritture contabili.
Nel caso di specie, non si è di fronte a nessuna di tali condizioni dal momento
che il reddito dichiarato corrisponde a quello effettivamente percepito, ossia 360
milioni di euro mentre, per quanto riguarda il secondo punto, “non sono
dimostrate, ma soprattutto nemmeno affermate, la tenuta irregolare delle scritture
In caso di errore il CTR della Lombardia potrebbe prenderlo in considerazione in sede di appello
della sentenza della CTP della Lombardia.
205
contabili, né meno che mai l’esistenza di contabilità in nero”.(citaz. Pag 16
Sentenza).
Ci si collega, altresì, al significato letterale del d. lgs. 74/2000 all’interno del
quale il legislatore parla di sola “ imposta evasione”, trascurando, potremmo dire
volontariamente, il concetto di “imposta elusa”.156
Proseguendo l'analisi sul valore di cessione dei marchi, nella Sentenza si da
altresì rilevanza al fatto che tale valore sia stato determinato da una nota società di
consulenza internazionale, la Price Waterhouse Coopers (la quale ha stimato il
valore degli intangibles in 355 milioni di euro). A questa si sono aggiunte,
successivamente, altre numerose stime (della Interbrand srl, della Guardia di
finanza, nettamente differenti l’una dall’altra) a cui il Giudice non ha voluto
aggiungerne ulteriori, in fase di istruttoria, in quanto, a Suo parere, avrebbero
soltanto rappresentato ulteriori cifre.
A questo proposito, l'accusante suppone che suddetto valore sia nato
dall'ignoranza della PWC in merito al progetto dei due stilisti di trasferire i marchi
in Lussemburgo riuscendo quindi a godere di un regime di tassazione nettamente
inferiore rispetto a quello nazionale.
Ma tale constatazione viene rigettata dal Giudice in quanto, in primis, anche la
stima calcolata dalla Guardia di Finanza risulta essere vicina a quella conteggiata
dalla PWC (550 milioni di euro) e, in secundis, non esistono elementi
comprovanti un possibile accordo tra gli stilisti e la società di consulenza.
In ultimo, non pare superfluo aggiungere come il calcolo del valore normale
operato dall’Agenzia delle Entrate (1.193 milioni €) non sia pienamente legittimo
tenendo conto che quest’ultima, essendosi costituita parte civile, non può offrire
una stima del tutto obiettiva. (pg. 10-11 Sentenza)
156
Art. 1F d. lgs. 74/00: “per imposta evasa si intende la differenza tra l’imposta
effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel
caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di
acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della
dichiarazione o della scadenza del relativo termine.
206
7.1.2 Accusa di truffa ai danni dello Stato.
L’ipotesi prescelta invece dal Pubblico Ministero si concretizza nell’accusa di
truffa ai danni dello Stato.
I comportamenti contestati, in questo frangente, sarebbero:
•
cessione simulata dei marchi,
•
prezzo di vendita dei suddetti inferiore rispetto al valore normale,
•
l’esterovestizione della società acquirente degli stessi che fa si che il
flusso di redditi derivante dai contratti di licenza (royalties) venga
illegittimamente deviato dall’Italia.
Le accuse formulate in questo frangente attengono alla natura apparentemente
estera della società Gado sarl, in particolare l'accusa di esterovestizione si
sostanzia in:
•
sede fittizia presso AlterDomus (domicilio di diritto);
•
gestione italiana e dall'Italia;
•
consigli di amministrazione apparentemente tenuti in Lussemburgo;
•
personale italiano con mansioni meramente segretariali;
•
oggetto principale dell'attività di impresa in Italia;
•
ragioni esclusivamente fiscali della costituzione della società e
dell'acquisto dei marchi. (citaz pg 18 sentenza)
In merito, il Giudice, dopo aver ricordato cosa si intende per esterovestizione
apporta una serie di argomentazioni per screditare le accuse sopra citate,
precisando come in realtà gli imputati si siano limitati ad esercitare un diritto
riconosciuto dalla Comunità europea: il diritto di stabilimento.
Riguardo, invece, all’attività svolta dalla società lussemburghese, a pagina 20
della Sentenza si afferma:
“non bisogna confondere (come a tratti sembra fare la GdF) l’attività del Gruppo
Dolce&Gabbana con la GADO sarl, che è una società costituita in Lussemburgo
e che “fa il mestiere” di essere proprietaria dei marchi Dolce&Gabbana:
207
mestiere che implica iscrivere i marchi nell’apposito registro, esercitare attività
di tutela delle contraffazioni, stipulare contratti di licenza e percepire le relative
royalties. Tutto questo è svolto in Lussemburgo e non in Italia (…)”.157
Ulteriore terreno di scontro sono le e-mail che la Guardia di Finanza
utilizzerebbe come prova della esterovestizione della GADO sarl. In realtà, come
si deduce dalla sentenza stessa, queste comunicazioni mostrano soltanto “l’attività
di costruzione degli uffici Gado”158, per cui non possono essere considerate
sufficienti come prova di una improbabile estero vestizione.
Per ciò che concerne i ruoli ricoperti dai dipendenti, non sembra trovar
fondamento neanche l’accusa nei confronti dei ruoli da essi ricoperti, essendo
dimostrato che non siano solo meri segretari, ma, come nel caso di Maria Grazia
Bergomi, spesso assumono i medesimi ruoli che detenevano in Italia.
In ultimo, in merito agli “apparenti consigli di amministrazione”, il Giudice
non trova sufficienti prove a dimostrazione del fatto.
Concludendo, la decisione ultima del Giudice sembra essere diventata, a
questo punto, piuttosto evidente e può essere sintetizzata in questa dichiarazione
riportata a pagina 25 della Sentenza:
“la contestata natura artificiosa delle condotte poste in essere a vario titolo
dagli imputati non è affatto scontata né evidente. Oltre alla cessione dei marchi
reale e non fittizia, di cui si è già ampiamente parlato, si osserva che l’intera
operazione, come tale si è realizzata alla luce del sole, dagli incarichi ai
professionisti agli atti costitutivi delle società, fino alle loro denominazioni.”
157
A questo proposito si rimanda al capitolo IV della tesi, in particolare ai paragrafi 4.5 e 4.6
all’interno dei quali si discute in merito alla possibilità che Società, il cui compito è di mera
gestione dei beni immateriali, possano considerarsi commerciali. La Gado sarl sembra rientrare in
questa categoria, avendo come compito la gestione e la commercializzazione del marchio
Dolce&Gabbana. Come si è più volte ricordato, vista la particolarità degli intangibles, per le
motivazioni in questa sede presentate, essi possono essere considerati beni di natura
intrinsecamente commerciale.
158
Pagina 20 della Sentenza.
208
7.2 La sentenza 7739/12 della Seconda Sezione Penale della Corte di
Cassazione.
Su ricorso del Procuratore della Repubblica di Milano (unitamente
all’Agenzia delle Entrate), la Corte di Cassazione annulla la sentenza del GUP di
Milano con rinvio al Tribunale di Milano il quale dovrà applicare i principi
enunciati.
Le argomentazioni proposte in sede di Cassazione possono essere ricondotte a
due principi essenzialmente:
1. la rilevanza penale dell’elusione fiscale;
2. l’indipendenza delle valutazioni del Giudice penale rispetto a quelle
dell’Amministrazione finanziaria e/o del Giudice tributario.159
Per quanto riguarda il primo punto, la Corte di cassazione ritiene che i
comportamenti contestati agli imputati siano riconducibili all’art. 4 del D. lgs.
74/2000. In particolare si sofferma, per sostenere la propria tesi, su punti trattati in
questa sede proprio in merito ai profili penali dell’elusione fiscale.
Le argomentazioni fanno leva sul concetto di “evasione”, definito all’art. 1 di
suddetto decreto il quale considera “l’imposta evasa” come la differenza fra quella
pagata (in meno) o del tutto non pagata e quella dovuta. In una definizione così
generica potrebbe pienamente rientrare il concetto di elusione.160
Un’altra argomentazione, anch’essa già conosciuta in questa sede, riguarda la
causa di non punibilità prevista dall’art. 16 del d. lgs. 74/2000. Secondo i Giudici
della Corte, infatti, non avrebbe avuto senso l’inclusione, da parte del legislatore,
dell’elusione fiscale all’interno di suddetto articolo se la stessa non avesse avuto
rilevanza penale. Attenzione però che le “tipologie” di elusione a cui la Corte, in
questa Sentenza, riconosce rilevanza penale sono quelle ricomprese negli art. 37,
comma 3 e 37bis del DPR 600/1973. Pertanto, non troverebbe corrispondenza in
159
Riv. trim. dir, pen. econ. 4/2011
Tesi condivisa anche da: Gallo (Rilevanza penale dell’elusione in Rass. Trib), Martini (Reati
in materia di finanza e tributi, Milano 2010), Tabellini (L’elusione della noma tributaria, Milano
2007).
160
209
campo penale la clausola generale antielusiva elaborata dalla Corte di Giustizia
CE e dalla stessa Corte di cassazione (pag. 59 della Sentenza).161
Ulteriore dimostrazione apportata dai Giudici di Piazza Covour riguarda la
nuova politica inaugurata dalla riforma del 2000 in materia penale tributaria. Al
riguardo, si afferma come “il legislatore abbia voluto abbandonare il modello del
c.d. reato prodromico”, che si concentrava nel reprimere la fase preparatoria
dell’evasione, per adottare un nuova impostazione che si concentra nella
punizione della dichiarazione annuale del contribuente.162 Pertanto, l’atto elusivo
non potrebbe considerarsi completamente irrilevante ai fini penali.
A supporto della fondatezza delle proprie argomentazioni la Corte si
concentra su tre considerazioni:
1. la rilevanza penale dell’elusione fiscale non si porrebbe in contrasto con la
giurisprudenza della Corte di Giustizia CE poiché la Sentenza in questione
non sarebbe di portata generale ma varrebbe soltanto nel caso specifico
trattato;
2. il medesimo assunto non si scontrerebbe neanche con il diritto di
stabilimento (citato all’interno della Sentenza del GUP di Milano, come si è visto)
sancito dalla giurisprudenza comunitaria in quanto, secondo la Corte, tale
principio non escluderebbe la possibilità che uno Stato membro adotti tutte
le misure necessarie affinché i propri contribuenti non abusino del diritto
stesso;
3. in ultimo, non contrasterebbe nemmeno con il principio di legalità,
essendo il ragionamento della Corte un risultato interpretativo “conforme
ad una ragionevole prevedibilità”. In merito la Corte aggiunge, altresì,
due ulteriori interpretazioni:
in primis, l’assunto trattato non si porrebbe in contraddizione con la riserva di
legge di cui all’art. 23 della Costituzione in quanto non consiste “nell’imposizione
di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge bensì nel disconoscimento degli
effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione
161
Per la Cassazione: Cass. Civ., sez. un. 2009,9,I, 1873 ss, e ivi, 10, I, 2131; per la Corte di
Giustizia CE: : 21.02.2006, causa C-255/2002.
162
Riferimento a pagina 60 della Sentenza.
210
delle
norme
fiscali.
Esso
comporta
la
inopponibilità
del
negozio
all’Amministrazione finanziaria”.
In secundis, la Corte specifica che affinchè un’operazione venga considerata
elusiva è necessaria l’assenza di ragioni extra fiscali che la giustifichino e pertanto
“il carattere abusivo va escluso quando sia individuabile una compresenza, non
marginale, di ragioni extra fiscali”.
Ciò detto, si passa ora all’analisi del secondo punto sopra menzionato:
l’indipendenza delle valutazioni del Giudice penale rispetto a quelle
dell’Amministrazione finanziaria e/o del Giudice tributario.
La riflessione operata dalla Corte parte dal presupposto che le competenze del
giudice penale siano indipendenti rispetto a quelle del Giudice tributario e
dell’Amministrazione finanziaria. Spetterebbe, pertanto, al Giudice penale
definire se una società sia residente in Italia o all’estero a prescindere dalle
considerazioni fatte dall’Amministrazione finanziaria.
Ciò non significa che le valutazioni di quest’ultima non debbano essere prese
in considerazione, ma saranno oggetto di un’autonoma valutazione da parte della
Corte di Cassazione, non saranno, ossia, vincolanti.
Visti gli elementi presentati la Corte decide per l’annullamento della Sentenza
di Milano provocando non poche polemiche.
7.2.1 Considerazioni in merito alla Sentenza della Corte di Cassazione.
Alla luce dell’analisi fin qui svolta non poche sarebbero le obiezioni da
esporre alla valutazione effettuata dalla Corte di Cassazione.
Le prime argomentazioni, riferite agli articoli 1 e 16 del d. lgs. 74/2000, sono
già state ampliamente analizzate e, successivamente rigettate, nel capitolo 5 della
presente sezione.
Pare invece interessante soffermarsi sul punto toccato dalla Corte inerente il
nuovo orientamento del legislatore della riforma del 2000.
211
Ci si trova d’accordo sul fatto che, dopo suddetta riforma, il legislatore si
concentri maggiormente sul momento della dichiarazione ma, su parere di alcuni
studiosi163, non si capisce come tale (esatta) considerazione possa avvalorare la
tesi della rilevanza penale dell’elusione fiscale. E' pur vero infatti, che la
dichiarazione annuale sia oggetto di maggiore attenzione, ma ciò non
giustificherebbe una riconduzione della stessa fra le fattispecie penali.
Non pare superfluo ricordare come l’art 4 del d. lgs. 74/2000, nel quale la
Corte vuole far rientrare l’elusione, non sia una fattispecie “a forma libera” ma al
contrario “a condotta vincolata”164. Ossia non si è di fronte ad una nozione che
incrimina “chiunque si sottragga al pagamento delle imposte sui redditi”.
Ancora una volta il nodo centrale della norma in esame sono le indicazioni di
“elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo” e “elementi passivi
fittizi” che, come già affermato più volte, non possono essere facilmente
ricondotti all’abuso di diritto.
Si fa sempre più evidente, dunque, la consapevolezza che la tesi per cui
l’elusione fiscale possa rientrare a pieno diritto nell’ambito penale sia sempre più
difficile da accettare, in quanto significherebbe violare principi che da sempre
fungono da fondamento nel nostro ordinamento come il principio di riserva di
legge, di irretroattività della norma penale (costruita ex post nel caso di specie).
In merito, invece, all’accusa di dichiarazione infedele si è visto come il nodo
centrale consista nella valutazione “normale” del prezzo di cessione dei ossia la
tematica trattata nel capitolo 6 della presente sezione “l’elusione fiscale e il
transfer pricing”.
Il caso Dolce&Gabbana presenta, infatti, i tipici connotati del caso
esemplificato in suddetto paragrafo: la domanda che i Giudici si pongono è se i
due stilisti abbiano “manovrato” il calcolo del prezzo di cessione, magari
attraverso un accordo con la società di consulenza coinvolta, in modo da ottenere
un risparmio di imposta. A tale quesito sono seguite tutta una serie di valutazioni
e di stime alcune delle quali, come si è visto, molto distanti l’una dall’altra.
163
164
Giovanni Flora, prof. Ordinario dell’Università di Firenze, Riv. trim. dir. pen. econ 4/2011
Cit. Giovanni Flora, in “Attualità”. Riv. trim. dir. pen. econ 4/2011.
212
Tralasciando per un momento l’oggettività e la correttezza di tali valutazioni,
pare pacifico affermare che sia più che legittimo domandarsi se il prezzo di
cessione stabilito dalle parti sia congruo o meno, vista anche l’importanza e la
portata di un simile trasferimento di proprietà, ma altrettanto non si può dire in
merito ad una possibile catalogazione di un’operazione come la presente (di
transfer pricing) fra gli illeciti penali.
La spiegazione sta nel fatto che comportamenti non occultati ma regolarmente
registrati non possono essere considerati fraudolenti. Al contrario, nel caso in cui
il prezzo di cessione fosse fittizio, o derivasse da una falsa documentazione allora
i connotati fraudolenti e decettivi avrebbero fatto scattare la responsabilità penale.
Ma questo non sembrerebbe il nostro caso, dal momento che, come il GUP di
Milano ha affermato, “tutta l’operazione è avvenuta alla luce del sole” e i due
stilisti hanno effettivamente incassato 360 milioni di euro dalla cessione.
L’orientamento che pare più convincente potrebbe essere quello per cui il
discostamento fra il valore dato ad un determinato bene e il suo “valore normale”
possa essere considerato un “indizio di evasione”, ma se a questo non si
aggiungono ulteriori elementi di prova il solo “dubbio” sul prezzo di trasferimento
non può integrare una fattispecie penalmente rilevante.
Vero ciò, occorre altresì soffermarsi su un'altra possibile argomentazione: la
Corte di Cassazione, con tale sentenza, ha inteso “marcare il territorio” invaso in
maniera inopportuna dal GUP di Milano. Quest’ultimo infatti, non si è limitato a
valutare le accuse mosse contro i due stilisti nel caso di specie ma ha voluto
addentrarsi in una generale trattazione in merito alla rilevanza penale dell’elusione
fiscale. Pare dunque lecita la preoccupazione della Corte di Cassazione che, vista
la portata mediatica del caso, teme che da una circostanza specifica come questa
possa nascere un principio giuridico di portata generale. L’annullamento della
sentenza del GUP vuole permettere a quest’ultimo di riflettere sul caso concreto
evitando di intraprendere strade di portata generale.
Compito del GUP di Milano è quello di giudicare e valutare la natura penale o
meno di una particolare operazione latu sensu, non spetta certo a questa sede
scrivere un trattato definitivo sulla rilevanza penale dell’elusione. Compito che,
213
tra l’altro, non spetta neppure alla Corte di Cassazione la quale si preoccupa di
precisare che la sentenza in esame non pretende di sancire tout court la rilevanza
penale dell’elusione.165
In ragione di quanto detto la Corte, nel caso di specie, fa una netta distinzione
tra le competenze del giudice penale e quelle del giudice tributario precisando che
spetta solamente al primo stabilire se la società, ai soli fini fiscali, sia residente in
Italia oppure all’estero come sempre al primo spetta stabilire la presenza o meno
dell’elemento psicologico del reato.
La vicenda processuale che vede coinvolti i due stilisti Dolce e Gabbana
mostra quella che è la situazione del nostro sistema penale-tributario. Un sistema
ricco di limiti, difetti e contraddizioni.
Tuttavia, proprio per la mancanza di strumenti teorici sufficientemente chiari
che possano guidare legislatore ed interpreti in una materia ostica come quella del
penale-tributario non pare logico (e neanche giusto) addossare alla giurisprudenza
l’onere insostenibile della chiarezza.
Vista l'attualità e la delicatezza dell'argomento pare assolutamente necessario
un repentino intervento del legislatore che definisca, in maniera univoca, in primis
i concetti di abuso ed elusione fiscale e, di conseguenza, se gli stessi possano
rientrare o no fra le fattispecie penali.
Sembra muoversi in questa direzione il disegno di legge delega, nominato in
questa sede, sulle Disposizioni per la revisione del sistema fiscale.
Le opinioni, come si è visto, sono numerose e spesso discordanti, ma un punto
fondamentale su cui tutti dovrebbero essere d'accordo è il fatto che nessuno può
sostituirsi al legislatore.
Troppo spesso ormai si assiste al tentativo, da parte della Giurisprudenza, di
interpretare in modo non propriamente letterale le norme di legge, dimenticando
che se il legislatore ha deciso di comprendere (o non comprendere) un
165
La Cassazione rileva che “deve affermarsi il principio che non qualunque condotta elusiva
ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica
ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge…In altri termini, nel campo penale non può
affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva … mentre può affermarsi la rilevanza
penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva”, facendo
riferimento alle condotte di cui all’art. 37bis del DPR 600/1973.
214
determinato caso nell'alveo di competenza della norma in esame tale scelta non è
avvenuta casualmente, ma sarà frutto di un ragionamento (giusto o sbagliato che
sia).
Come ha più volte sottolineato Lupi, ognuno deve fare il proprio mestiere e
acquisire la consapevolezza del proprio ruolo e dei proprio compiti all’interno
dell’ordinamento rappresenterebbe senz’altro un grosso passo avanti.
Si auspica, pertanto, un rapido intervento in materia di abuso in modo che la
magistratura, ma soprattutto i contribuenti persone fisiche e persone giuridiche,
possano contare su regole fisse e su una certezza di diritto che da troppo tempo
ormai sembra essere diventata un miraggio.
215
Illustrazione grafica della cessione del marchio D&G con successivo contratto di licenza tra la Gado sarl e la D&G srl.
Generosa
s.r.l.
D&G s.r.l.
(Stefano Gabbana e
Domenico Dolce)
Cede l’11% del
Società della
marchio Dolce
famiglia Dolce.
&Gabbana
Cede l’80% del
marchio Dolce
Famiglia
&Gabbana
Dolce s.r.l.
360.000.000 €
Gado s.a.r.l.
Cede il 9% del
marchio Dolce
&Gabbana
Detiene il 100% del
marchio Dolce &Gabbana.
Concede in licenza il marchio
(80% + 11% + 9%)
Dolce &Gabbana.
Pagamento di royalties.
216
****
Conclusioni
Giunti al termine della trattazione mettere in evidenza risultati e conclusioni
pare essere un’impresa tanto ardua quanto l’elaborazione dello studio stesso. Tale
difficoltà nasce dalla carente, se non addirittura assente, disciplina che riguarda i
proventi derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale.
A ben vedere, infatti, la presenza di una autonoma categoria in ambito
comunitario e convenzionale, che non trova una rispettiva coincidenza in ambito
nazionale, altro non fa che confermare l’intenzione, esposta nell’introduzione al
presente studio, di sollevare una questione di vera e propria lacuna legislativa.
Ciò detto, tutta la trattazione si sviluppa mostrando le difficoltà interpretative
che
gli
operatori
economici
e
la
giurisprudenza
stessa
incontrano
nell’inquadramento delle royalties nell’ordinamento tributario nazionale. A questo
proposito vengono elaborate diverse tesi che conducono a risultati interpretativi
diversi, ma mai esaustivi e condivisibili sotto ogni punto di vista.
Orbene, in merito a questo punto pare pacifica la seguente riflessione: le
evidenti difficoltà nel dare una collocazione definitiva alle royalties fra le
categorie di reddito esistenti nel nostro ordinamento tributario, riscontrate non
solo dagli studiosi ma anche da chi mette in pratica il diritto quotidianamente,
come la Magistratura, non sono forse il segnale che la strada intrapresa non sia
quella corretta?
Ossia, se tali proventi sono caratterizzati da connotati tanto particolari da non
riuscire ad essere indirizzati verso una specifica categoria di reddito, forse sarebbe
il caso di domandarsi se tale categoria esista o debba essere ancora creata.
Tale argomentazione viene ulteriormente avvalorata nell’ultima sezione
dedicata all’abuso di diritto. Viene alla luce, infatti, come l’incertezza che
circonda il concetto di abuso, che si collega perfettamente alla tematica del
transfer pricing dei beni immateriali, sia l’ennesima dimostrazione che il
legislatore nazionale, e si badi bene solo quest’ultimo, debba ammettere una
217
revisione del sistema che si sostanzi nella creazione di nuove norme di legge che
disciplinino in maniera chiara, esplicita ed esaustiva principi, come l’abuso di
diritto, e nuove fattispecie reddituali, come le royalties.
Un simile intervento richiede tempo, ma pare essere l’unica soluzione
prospettabile vista anche la posizione assunta in merito dal legislatore comunitario
e convenzionale.
Se il legislatore comunitario avesse potuto “imporre” ai singoli Stati un
regime autonomo per i canoni all’interno delle discipline tributarie nazionali
avrebbe dato inizio ad una vera e propria rivoluzione del sistema. Ma così non è
stato, e l’interprete si trova, ad oggi, a dover operare su livelli normativi diversi a
seconda della natura comunitaria o meno del reddito.
Un’altra possibile soluzione potrebbe essere quella di estendere per via
analogica il disposto di altre norme già esistenti inglobando in esse, come si è
tentato di fare, anche il regime delle royalties, ma non si arriverebbe mai ad una
totale coincidenza di caratteristiche.
Come si è visto, una simile alternativa è stata prospettata dalla Corte di
Cassazione in riferimento, però, al principio dell’abuso di diritto. La sua fonte è
stata identificata nel disposto dell’art. 53 della Cost. con tutte le conseguenze,
piuttosto discutibili, che ciò ha comportato.
Alla luce di suddette considerazioni pare pacifico sostenere che una lacuna di
fondo esista e che il legislatore, e solo quest’ultimo, debba colmarla in nome di
quella certezza di diritto a cui i contribuenti, e non solo, auspicano come
prerogativa necessaria per poter esercitare pienamente i propri diritti e i propri
doveri verso lo Stato.
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