RACCOLTA DI APPUNTI PER SCIENZE UMANE a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Cari colleghi dopo aver letto tutti i libri “consigliati”, dopo aver fatto tutta una serie di ricerche ed approfondimenti, ho messo insieme tutte le informazioni che ho ritenuto utili (e sufficienti) per affrontare l’esame di Scienze Umane. Con il solito spirito di collaborazione li metto a disposizione di tutti i colleghi (che ne avessero bisogno). Ho impaginato tutto il materiale, secondo una logica consequenziale, nei seguenti Capitoli: 1- Storia della Medicina 2 - Filosofia Morale 3 - Bioetica 4 - Psicologia P.S.: sono circa 130 pagine … ma i 3 libri ammontano a quasi 600 pagine (senza contare Storia della Medicina). pag 2 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) STORIA DELLA MEDICINA La Medicina Greca Nelle prime fasi, la medicina occidentale (non ci occuperemo della medicina orientale) era una medicina teurgica, in cui la malattia era considerata un castigo divino, concetto che si trova in moltissime opere greche, come l'Iliade, e che ancora oggi è connaturato nell'uomo. Il simbolo della medicina è il serpente, animale sacro perché ritenuto, erroneamente, immune dalle malattie. Secondo un'altra versione nel simbolo non è rappresentato un serpente, ma l'estirpazione della Filaria o serpente di Medina. Comunque, il serpente aveva un'importante funzione pratica nella medicina antica: nel tempio di ogni città c'era una sorta di cunicolo con i serpenti. Il tempio, infatti, non era solo un luogo di devozione, ma anche un luogo dove si portavano i malati: la fossa dei serpenti serviva a spaventare il paziente, a cui probabilmente venivano date anche delle pozioni, per indurre uno stato di shock e fargli apparire il dio che così lo guariva. Col passare del tempo la medicina prese sempre più le distanze dalla religione sino ad arrivare alla medicina razionale di Ippocrate, che segnò il limite tra razionalità e magia. Le prime scuole si svilupparono in Grecia e nella Magna Grecia, cioè in Sicilia e in Calabria. Tra queste, fu importantissima la scuola pitagorica. Pitagora, grande matematico, operava nell'isola di Samo, ma si spostò a Crotone quando il tiranno Policrate prese il potere nella sua città. Egli portò nella scienza naturale, ancora non definibile medicina, la teoria dei numeri: secondo Pitagora alcuni numeri avevano significati precisi e, fra questi, i più importanti erano il 4 e il 7. Il 7 ha sempre avuto un significato magico, per es. nella Bibbia un numero infinito è indicato come 70 volte 7. Tra l'altro il 7 moltiplicato per 4 dà 28, cioè il mese lunare della mestruazione, e 7 per 40 dà 280, cioè la durata in giorni della gravidanza. Sempre per la connotazione magica del 7 si diceva che era meglio che il bambino nascesse al 7° mese piuttosto che all'8°. Anche il periodo di quarantena, cioè i 40 gg che servirebbero per evitare il contagio delle malattie, è derivato dal concetto di sacralità del numero 40. Tuttavia la scuola pitagorica non si limitò a questo, ebbe importanti allievi e in quel periodo nacquero delle scuole filosofiche molto importanti. Talete elaborò un'importante sistema secondo cui l'universo era costituito da 4 elementi fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco. In questo periodo venne dato grande rilievo anche alle qualità, secco e umido, freddo e caldo, dolce e amaro, etc. Un grande allievo di Pitagora, Alcmeone di Crotone, nel VI-VII secolo a.C. fu il primo ad avere l'idea che l'uomo fosse un microcosmo costituito dai 4 elementi individuati da Talete. Secondo lui dall'equilibrio degli elementi, che chiamò isonomia o democrazia, derivava lo stato di salute, mentre lo stato di malattia derivava dalla monarchia, ovvero dal prevalere di un elemento sugli altri. Alcmeone fu anche il primo ad individuare nel cervello l'organo più importante. Sino ad allora era stata data pochissima importanza al cervello, che era sempre sfuggito all'osservazione: all'epoca greca il corpo era sacro e non si praticavano dissezioni, ma veniva visto pag 3 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) negli animali sacrificati come una massa gelatinosa e fredda di scarso interesse. Alcmeone stabilì che il cervello doveva essere l'organo che comandava l'organismo. Pare che si fosse anche reso conto, fatto poi smentito da altri, che i nervi servissero per condurre gli impulsi nervosi, ma questa notizia non ha lasciato traccia nella storia della scienza di allora. La vera e propria medicina razionale è da attribuire ad Ippocrate (V sec. A. C.), padre della medicina. Ippocrate visse tra il 460 e il 370 A.C. nell'isola di Coo o Cos, nel Dodecanneso, dove si sviluppò la scuola razionale, cui vanno ascritti molti dei pensieri attribuiti ad Ippocrate, che visse nei 50 anni di pace periclea, periodo in cui fiorì la filosofia. Operò nell'area del Mediterraneo e nei suoi viaggi toccò la Sicilia, l'Egitto, Alessandria, Cirene, Cipro. La base della medicina razionale è la negazione dell'intervento divino nelle malattie. Anche la famosa malattia sacra, l'epilessia, fu attribuita ad una disfunzione dell'organismo. La concezione di Ippocrate si rifaceva a quella di Talete ed in parte anche a quella di Alcmeone di Crotone, quando diceva che l'uomo è il microcosmo ed il corpo è formato dai 4 elementi fondamentali, nell'ordine aria, fuoco, terra ed acqua. Secondo Ippocrate e la sua scuola (pare che addirittura si trattasse di suo genero Polibio), agli elementi del corpo umano corrispondevano, in base a delle qualità comuni, degli umori: all'aria, che è dappertutto, corrispondeva il sangue; al fuoco, caldo, corrispondeva la bile; alla terra, per il colore, corrispondeva un umore scuro in realtà inesistente, forse osservato nella pratica dell'auruspicina, durante il sacrificio degli animali. Il sangue della milza, venoso, molto scuro fu forse ritenuto essere un altro umore, diverso dal sangue, e fu chiamato bile nera, atrabile in latino e o melaina kole' in greco; infine all'acqua corrispondeva il muco, o pituita o flegma, comprendente tutte le secrezioni acquose del nostro corpo (saliva, sudore, lacrime, etc.), localizzato principalmente nel cervello, che era umido e freddo come l'acqua. Agli umori furono fatte corrispondere anche le stagioni: la prima stagione, quella del sangue e dell'aria corrispondeva alla primavera, l'estate era quella del fuoco e della bile, l'autunno era quella della terra e dell'atrabile e l'inverno era la stagione dell'acqua, della pituita e del cervello. Fu fatto anche un parallelismo con le quattro età della vita, infanzia e prima giovinezza, giovinezza matura; età virile avanzata, ed infine età senile. Ippocrate, rifacendosi a quello che aveva detto Alcmeone di Crotone, sosteneva che la malattia derivasse dallo squilibrio, senza parlare più di democrazia o monarchia per non offendere i tiranni, e che dove c'era equilibrio tra gli umori c'era la salute; le cure consistevano nel rimuovere l'umore in eccesso. La sua teoria spiegava anche i vari temperamenti: un soggetto collerico aveva troppa bile, quello flemmatico troppo muco. Al centro della concezione di Ippocrate non c'era la malattia, che si spiegava in modo olistico, ma l'elemento più importante era l'uomo. Questo fece la fortuna della scuola ippocratica nei confronti della scuola rivale di Cnido, che invece era focalizzata sulla malattia con una concezione riduzionistica, simile a quella odierna. La scuola di Ippocrate prevalse proprio perché si occupava dell'uomo, mentre l'altra occupandosi pag 4 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) delle malattie e non avendo gli elementi necessari per farlo si estinse, quella di Ippocrate proseguì. Alla base delle concezioni di Ippocrate c'era una filosofia profonda e pratica e un notevole buonsenso. I principi fondamentali erano di lasciar fare alla natura, cioè alla forza guaritrice della natura, di osservare attentamente il malato ed intervenire il meno possibile, fare attenzione all'alimentazione e alla salubrità dell'aria. Per eliminare lo squilibrio era necessario rimuovere la materia in eccesso, detta materia peccans. I mezzi a disposizione per l'eliminazione della materia peccans erano il capipurgio (= purga del capo), che consisteva nell'indurre lo starnuto con droghe come il pepe, il clistere, oppure il salasso o sanguisugio. Quest'ultima pratica fu molto usata dai seguaci di Ippocrate, soprattutto nell'epoca romana di Galeno, con conseguenze gravissime, perché il levare il sangue ad un malato non era utile ed era spesso causa di morte. Ippocrate comunque raccomandava di utilizzare questi mezzi con la massima parsimonia. I testi di Ippocrate, o i presunti tali, furono commentati nelle università sino al 1700. Questi testi comprendono una serie di aforismi tra cui il famoso "La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione è fuggevole, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile", che sono alla base della sua filosofia ed invitano a pensare attentamente e ripetutamente prima di intervenire. Ippocrate quindi creò una medicina olistica, basata sull'uomo o microcosmo, predicando l'uso della terapia disponibile con il massimo della parsimonia. Tra l'altro i rimedi erano pochi perché allora non esisteva la farmacologia ed un primo accenno all'erboristica venne da un allievo di Aristotele, Teofrasto, circa un secolo dopo. Ippocrate è ricordato anche perchè espresse i primi concetti di etica medica, arrivati sino ai giorni nostri, ed è infatti attribuito alla sua scuola il giuramento di Ippocrate, che codifica la figura del medico. - "Giuro ad Apollo medico, Asclepio, Igea e Panacea, prendendo come testimone tutti gli dei e le dee, di tenere fede secondo il mio potere e il mio giudizio a questo impegno: giuro di onorare come onoro i miei genitori colui che mi ha insegnato l'arte della medicina (concetto di allievo e maestro) e di dividere con lui il mio sostentamento e di soddisfare i suoi bisogni, se egli ne avrà necessità; - di considerare i suoi figli come fratelli, e se vogliono imparare quest'arte, di insegnarla a loro senza salario nè contratto; - di comunicare i precetti generali, le nozioni orali e tutto il resto della dottrina ai miei figli, ai figli del mio maestro e ai discepoli ingaggiati ed impegnati con giuramento secondo la legge medica, ma a nessun altro (concetto della casta). - Applicherò il regime dietetico a vantaggio dei malati, secondo il mio potere e il mio giudizio, li difenderò contro ogni cosa nociva ed ingiusta. - Non darò, chiunque me lo chieda, un farmaco omicida (rifiuto dell'eutanasia), nè prenderò iniziativa di simile suggerimento, nè darò ad alcuna donna un pessario abortivo. - Con la castità e la santità salvaguarderò la mia vita e la mia professione. Non opererò gli affetti da calcoli e lascerò questa pratica a professionisti". pag 5 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) (È questo un anatema contro la chirurgia, che trova la sua giustificazione nel fatto che la chirurgia allora aveva esiti disastrosi. Non c'era nessuno stimolo a studiare l'anatomia, perchè si pensava che le malattie fossero causate dallo squilibrio degli umori e gli organi non avessero nessuna importanza; quindi la chirurgia era un qualcosa di empirico, uno tagliava senza sapere cosa andava a tagliare, non c'erano i concetti della asepsi, della anestesia. La chirurgia fu considerata una pratica artigianale secondaria senza utilità, non una scienza, sino alla fine del 1700. Gli artigiani la praticavano di nascosto, tramandandosi tra loro i segreti. I chirurghi e i medici indossavano anche un diverso abbigliamento: i medici, in quanto laureati e magistri togati, potevano portare la toga a differenza dei chirurghi, che invece erano persone indotte e non conoscevano il latino, che in epoca medioevale e moderna era la lingua dei dotti (nelle incisioni del '500, del '600 e anche del '700 si distinguono i medici con la toga lunga sino ai piedi dai chirurghi con le gambe scoperte). Questo corollario fu benefico nell'immediato, ma portò alla pratica della chirurgia da parte di persone prive di ogni conoscenza teorica.) - "In qualunque casa io entri sarà per utilità dei malati, evitando ogni atto di volontaria corruzione, e soprattutto di sedurre le donne, i ragazzi, liberi e schiavi. - Le cose che nell'esercizio della mia professione o al di fuori di essa potrò vedere o dire sulla vita degli uomini e che non devono essere divulgate le tacerò, ritenendole come un segreto (concetto di segreto professionale). - Se tengo fede sino in fondo a questo giuramento e lo onoro, mi sia concesso godere dei frutti della vita e di quest'arte, onorato per sempre da tutti gli uomini e se lo violo e lo spergiuro che mi accada tutto il contrario". Anche se in Grecia il corpo era tabù, l'enorme sviluppo delle arti figurative, soprattutto della scultura, presuppone delle conoscenze anatomiche tali da far ritenere che in Grecia venisse praticata la dissezione. Di certo si sa comunque che la dissezione venne praticata poco dopo gli ippocratici e trovò la massima espressione nella scuola alessandrina. Il più grande scienziato e biologo dell'antichità fu Aristotele (384/3 A.C.-322/1 A.C.), che contribuì enormemente non tanto alla medicina in sé, quanto alla scienza naturale, e a lui si deve la prima classificazione degli animali (al suo allievo Teofrasto quella delle piante). Purtroppo alcuni passi di Aristotele, forse interpretati male, portarono ad un errore che ebbe gravi conseguenze sull'evoluzione della scienza: pare che egli sostenesse che certi animali inferiori gli insetti (il cui nome deriva dalla evidente segmentazione del corpo nelle sue componenti) originassero dalla materia in decomposizione per generazione spontanea e che quindi non fosse possibile limitarne la crescita. Questo concetto iniziò ad essere attaccato alla fine del '600. Aristotele elaborò un sistema fisiologico incentrato sul cuore, in cui, secondo lui, ardeva una fiamma vitale mantenuta da uno spirito, detto pneuma o spirito vitale, che dava calore. Il polmone e il cervello avevano soprattutto una funzione di raffreddamento. Il cuore era l'organo più importante perchè quando il cuore si ferma l'uomo muore. Inoltre Aristotele nei suoi studi di embriologia notò che il cuore comincia a battere nelle fasi iniziali dello sviluppo dell'organismo: primum oriens, ultimum moriens. pag 6 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Nella sua teoria il calore era la cosa più importante e dava la vita. Egli sosteneva che l'uomo, avendo molto calore, riusciva ad utilizzare tutte le risorse del suo organismo e a produrre lo sperma. La donna, invece; non aveva abbastanza calore, per cui parte del sangue era eliminata come sangue mestruale. Lo sperma col calore agiva sul mestruo, producendo l'embrione. La riprova, secondo Aristotele, della validità della sua teoria era che questo calore derivato dallo sperma, nel periodo del puerperio, faceva sì che la donna producesse il latte: nella maggior parte dei casi non si presentava la mestruazione proprio perché questo sangue in abbondanza veniva trasformato in latte grazie al calore. Aristotele fu anche maestro di Alessandro Magno, che portò al massimo la fioritura della cultura ellenica, che si espanse in tutto il Mediterraneo. Ma la massima espansione portò successivamente al crollo. La Medicina Ellenistico-Romana. La Medicina Araba. Il Medioevo. Alessandro Magno conquistò tutto il Mediterraneo ma, come spesso accade, la massima espansione portò alla caduta dell'impero alessandrino. Il potere fu ripartito fra i suoi vari generali e l'impero venne diviso in numerosi regni. Tra i più importanti regni vi sono quello di Pergamo e, soprattutto, quello tolemaico in Egitto. Qui la cultura greca si fuse con quella egiziana. Nell'impero tolemaico, ad Alessandria d'Egitto, si sviluppò un movimento culturale di vastissime proporzioni. Venne costruita anche la biblioteca più grande e famosa dell'antichità, che costituiva la summa del sapere dell'epoca e che, nei secoli successivi, andò incontro ad alterne vicende: fu incendiata da Cesare e da altri imperatori romani e fu distrutta definitivamente intorno al 640 da un califfo arabo. Questa biblioteca era una vera e propria università, in cui operavano scienziati formatisi alla scuola aristotelica che, però, praticavano le dissezioni sugli animali, ma anche sull'uomo. L'Egitto era una terra in cui da secoli, per non dire millenni, si faceva uso di pratiche funerarie che prevedevano la dissezione dell'uomo come preparazione alla mummificazione. Ecco che quindi acquistò importanza la tecnica dell' esame sul cadavere, inteso non semplicemente come dissezione, ma, come avverrà anche nel nascimento, quale momento fondamentale dell'attività del medico. Assai importante fu ad Alessandria la scuola empirica, secondo la quale l'attività del medico comprendeva tre momenti fondamentali: l'anamnesi, l'autopsia, (intesa però come ispezione, visita diretta del medico sul malato), e la diagnosi. Anche tale scuola aveva dei principi molto affascinanti, che richiamano quelli odierni, tuttavia fallì in quanto non vi era la possibilità concreta di fare una diagnosi accurata e, di conseguenza, una terapia ad hoc, viste le scarse cognizioni, in termini di malattie, in loro possesso. Contemporaneamente alla scuola empirica, in Alessandria si diffusero anche la scuola dogmatica, che era la continuazione della scuola d'Ippocrate, e la scuola metodica, che fu quella che ebbe maggior successo pag 7 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Talete elaborò un'importante sistema secondo cui l'universo era costituito da 4 elementi fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco. In questo periodo venne dato grande rilievo anche alle qualità, secco e umido, freddo e caldo, dolce e amaro, etc. Ad Alessandria sono vissuti due grandi scienziati, estranei alle scuole su viste, Erofilo (330 A.C.) (1) ed Erasistrato (304 A.C.-250 A.C.). Quest'ultimo era un grande medico a cui va il merito d'aver riconosciuto, per primo, che le arterie sono anch'esse dei vasi, in contrapposizione a quanto affermato da Aristotele, secondo il quale le arterie non trasportavano sangue ma pneuma (2). Inoltre egli diede molta importanza allo studio del polso, al concetto di temperatura del corpo ecc., contributi che tuttavia nel corso dei secoli vennero persi (3). Come già detto, la scuola più importante ad Alessandria fu la scuola metodica. Questa si i faceva non alla filosofia dei quattro elementi, ma alla filosofia rivale, alla teoria atomistica di Democrito (vissuto tra il V e il IV sec A.C.). La concezione ippocratica era di tipo finalistico, analogamente a quella aristotelica, mentre alla base della teoria democritea vi era il caso. Secondo tale scuola era necessario valutare le cose così come apparivano nel mondo reale, bisognava porre attenzione allo stato fisico del malato. Grande importanza, secondo loro, aveva lo stato dei pori: a seconda che questi fossero aperti o chiusi si aveva una condizione, rispettivamente, di rilassatezza o di tensione; e bisognava far di tutto perché i pori rimanessero aperti in modo normale, quindi fare attenzione a come ci si lavava, alla temperatura dell'acqua... Questo concetto fu la causa dell'estrema scarsità d'igiene esistente nel medioevo, in quanto venne male interpretato e inteso come la condanna dell'acqua in quanto causa della chiusura dei pori. Nell'epoca greca e poi romana ci fu un grandissimo sviluppo dell'igiene. I bisogni fisiologici non venivano più espletati nell'ambiente esterno o in luoghi aperti comuni (vicoli, spiazzi..), ma in apposite costruzioni, le latrine pubbliche, dotate di sistema idrico e di sistema fognario. A Roma vi era un efficace apparato fognario oltre ad un efficientissimo sistema idrico. In ogni casa, non solo in quelle dei ricchi, ma anche nelle insulae, che erano le case popolari dell'epoca, vi era una fontana, l'acqua corrente, portata in ogni casa dagli acquedotti. Questi acquedotti, costituiti da tubi di piombo, materiale molto malleabile, furono imputati del crollo dell'impero romano, a causa della malattia causata dai sali di piombo, il saturnismo. In realtà pare che non fosse tanto l'acqua inquinata a determinare tale malattia, ma il vino. L'acqua , infatti, non depurata proveniente da zone montane, era ricca di sali di calcio, i quali, col tempo, depositandosi sulle pareti delle tubature, costituivano un rivestimento capace di trattenere i sali di piombo, che non venivano più a riversarsi nell'acqua corrente. Il vino risultava invece, alla fine , ricco di sali di piombo, che sono solubili, in quanto questi venivano utilizzati, alla stregua del bisolfito usato oggi, per controllare la fermentazione del vino. A Roma la medicina era praticata in ambito familiare (il medico di famiglia era il pater familias, che aveva il potere assoluto sulla famiglia) e nessuna teoria vera e propria vi era alla sua base, risultando, perciò, una scienza empirica, anche se razionale. Grande importanza ebbe l'erboristica anche se, anch'essa, usata in maniera molto empirica. pag 8 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) La medicina arrivò a Roma con la conquista della Grecia. A Roma fare il medico era considerata cosa disdicevole, che poteva fare solo uno straniero. Siccome la Grecia, dopo la conquista romana, era poverissima per le numerosissime guerre che l'avevano dilaniata, ci furono numerosi medici che si vendettero come schiavi per poter andare a Roma ad esercitare la propria arte. Molti di questi divennero famosi e si comprarono la libertà, divenendo dei liberti. La setta che ebbe maggior fortuna fu la setta Metodica (4), con Asclepìade e il suo allievo Temisòne, che influenzò moltissimo la cultura medica romana. Ci furono inoltre a Roma importantissimi trattatisti, tra cui il fondatore della botanica farmaceutica, Dioscuride Pedànio (I sec. D.C.), che pubblicò un libro, intitolato De materia medica, che rimase come base della farmacologia fino al primo '800; Sorano di Efeso (I / II sec.), medico ellenista, che pubblicò un trattato di ginecologia e soprattutto Aulo Cornelio Celso (14 A.C.37 D.C.) con il suo trattato De Medicina.Questi fece una sorta di enciclopedia medica in cui trattò argomenti di chirurgia, di medicina dal punto di vista di un erudito, piuttosto che da quello di un conoscitore dell'argomento, facendo un grande elenco di pratiche comuni a Roma. Da qui possiamo però farci un'idea dello sviluppo raggiunto dalla chirurgia in quell'epoca, soprattutto in alcuni campi, quali l'odontoiatria (5). L'elemento più caratteristico però dell'ambiente sanitario romano era il concetto di igiene. I romani si lavavano moltissimo, ne è un esempio l'uso e il numero delle terme allora esistenti. Il medico più importante dell'epoca romana, che lasciò una traccia importantissima nella cultura occidentale, fu Galéno (129 D.C.-200 D.C.) il pergameno (6). Questi era figlio dell'architetto dei re, proveniva dunque da una famiglia facoltosa, che dopo il tirocinio ad Alessandria passò a Roma, dove fece il medico dei gladiatori, acquisendo quindi una certa infarinatura anatomica, anche se, seguendo i concetti greci, si dedicò soprattutto alla dissezione degli animali. Tra questi i più studiati erano il maiale ("l'animale più simile all'uomo", a detta di Galeno) e la scimmia (7). Galeno intuì l'importanza fondamentale degli organi e di molti anche il loro effettivo ruolo; ad esempio capì che le vesciche urinarie non producevano urina, ma che questa proveniva dagli ureteri (lo dimostrò legando gli ureteri), descrisse per la prima volta il nervo ricorrente. Ebbe molta importanza come medico pratico: basandosi sulle piante medicinali introdusse farmaci di grandissima importanza, introdusse, ad esempio, l'uso della corteccia di salice, del laudano (tintura di oppio) come anestetico. Però insieme a questi reclamizzò dei farmaci completamente inutili, tra cui la triaca o teriaca (8), cioè un brodone in cui erano presenti le cose più strane: sterco di capra, pezzi di mummia, teste di vipera.. L'unica cosa buona di questo intruglio era il fatto che veniva fatto bollire a lungo per cui il materiale contenuto all'interno era sterile. Venne utilizzata fino alla fine del 1700; veniva prodotta generalmente una volta l'anno nelle varie città sotto la responsabilità del magistrato e venduta poi nelle farmacie. Nonostante le sue numerose intuizioni, poiché la teoria più accettata all'epoca era quella ippocratica, egli, pur con qualche introduzione di elementi estranei, sposò la teoria degli umori. Anzi, esasperò l'aspetto terapeutico della materia peccans. Tra la materia peccans vi era il pus, che venne chiamato da Galeno "bonum et laudabile", perchè era espressione di materia peccans che doveva essere eliminata: aveva capito che il pus era una sostanza da eliminare. Purtroppo, però, soprattutto dagli epigoni di Galeno tale teoria venne sfruttata in senso stretto: dicevano infatti che le ferite non dovevano guarire per prima intenzione, ma doveva pag 9 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) formarsi prima pus: era quindi necessario bruciare la ferita in maniera tale da provocare la sua formazione, perchè solo così le ferite guarivano meglio. Tale concetto restò valido sino alla fine del 1500. Galeno portò, inoltre, all'esasperazione anche altre metodiche terapeutiche, quali il salasso. Nel suo concetto introdusse anche il concetto metodista dei pori: ciò, però, fu travisato ed interpretato come un invito, fatto da Galeno, a non lavarsi. Galeno elaborò un teoria fisiologica per capire come funzionava il nostro corpo e come si muoveva il sangue. Sulla base di molte affermazioni di Aristotele (fu il primo a considerare la digestione come una sorta di cottura, parlava di una concotio degli alimenti che avveniva nello stomaco) affermò che gli alimenti, che contenevano le sostanze nutritizie, dopo la concotio, attraverso le vene meserraiche (allora non si conoscevano i vasi chiliferi), venivano portati al fegato.. Questo era l'organo principale della circolazione. Per Aristotele era il cuore l'organo più importante, per Galeno il fegato. Nello stomaco tale materiale diventava sangue e si arricchiva di uno spirito chiamato spirito naturale. Gran parte di questo sangue, dal fegato andava in periferia, attraverso le vene, dove veniva consumato come nutrimento. Una parte, invece, attraverso la vena Cava, passava al cuore, sede in cui arde la fiamma vitale, nel quale si arricchiva dello spirito vitale; in particolare il sangue giungeva al cuore destro e da qui, attraverso dei pori, giungeva al cuore sinistro. Da qui, attraverso le arterie, considerate dei vasi, il sangue giungeva soprattutto al cervello. Prima di giungere però al cervello, il sangue passava attraverso un sistema mirabile situato nel collo (9). Nell'encefalo il sangue si arricchiva di un ulteriore spirito, lo spirito animale, quindi, attraverso i nervi, considerati il terzo sistema di vasi, giungeva in periferia dove poteva dare la vita. Questa teoria non presuppone una circolazione del sangue, bensì solo un movimento: a suo giudizio si muoveva secondo il moto delle maree. Questa, naturalmente, era una teoria facilmente confutabile. In realtà, secondo tale concezione, il sangue sarebbe dovuto essere una quantità enorme: infatti, se man mano che il sangue giungeva in periferia si consumava, è logico che se ne sarebbe dovuto ingerire una quantità notevole in continuazione. Per confutarla sarebbe bastato prendere un animale e sgozzarlo, come fece 1500 anni dopo Harvey. Secondo la teoria galenica, inoltre, a livello del cervello il sangue veniva filtrato e si veniva così a creare uno spurgo, rappresentante ciò che di impuro il sangue conteneva, e che, attraverso la lamina cribrosa (chiamata così per l'appunto) colava giù dando origine alle lacrime. Una teoria affascinante che, tuttavia, non era fondata su basi sperimentali e che portò poi alla cristallizzazione di tutto il sapere medico-scientifico, in quanto questa teoria si sposava bene con la dottrina cristiana. Questa teoria divenne quasi un dogma. Nel 1500, al tempo del grande medico Vesalio, era ancora valida. Tra le trattazioni rese così inattaccabili, oltre a quella sul sangue, già vista, vi è quella anatomica. Una anatomia, tuttavia, fondata sullo studio di animali che quindi non aveva nessuna funzionalità pratica, reale. A riprova dell'intoccabilità di Galeno è dimostrativo il fatto che, nonostante tutte le prove rappresentate dai numerosi scheletri presenti sotto gli occhi di tutti, si continuasse ad affermare che gli omeri fossero curvi, e che quelli dritti non erano altro che ingannevoli scherzi della natura. pag 10 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Dopo Galeno ci furono una moltitudine di medici che operarono nell'impero d'occidente ma soprattutto in quello d'oriente, con conseguente passaggio del sapere dall'Occidente all'oriente. Sulla scia della grande importanza data all'igiene, in epoca romana sorsero i primi veri e propri ospedali, costruiti secondo precise norme igieniche quali smaltimento dei rifiuti, sistema idrico, libera circolazione dell'aria, come dimostrano le numerose finestre di cui erano dotati, che possiamo tutt'oggi vedere e di cui Vitruvio racconta. Col trasferimento del potere a Bisanzio, ci fu anche il trasferimento della cultura medica. In questa città vi furono medici famosi, quali Paolo di Egina, che tuttavia non fecero altro che ripetere quanto detto da Galeno e seguaci. Avvenne tuttavia a Bisanzio una disputa tra il vescovo Cirillo e il vescovo Nestore. Quest'ultimo perse e fu cacciato da Costantinopoli; si rifugiò quindi in Medio oriente, nelle zone dell'lraq. ed in Egitto. Nestore portò con sè tutto il bagaglio culturale classico, compreso quello medico, ponendo quindi le basi allo sviluppo di una concezione medica simile a quella presente nell'antica Roma. Grande importanza fu data all'igiene: vennero costruiti ospedali avanzatissimi, a immagine di quelli romani, a Bagdad, in altre città dell'Iraq e al Cairo. Tuttavia anche in questa epoca araba non si dava importanza, continuando sul concetto della medicina olistica, all'anatomia. Rimaneva, tuttavia, ben saldo il concetto dell'igiene avanzata, del lavarsi molto (10) . Nella medicina araba ebbe grande influenza anche la religione. Uno dei concetti del Corano era che non bisognava toccare il corpo umano per evitare che uscisse il sangue, in quanto insieme a questa sarebbe uscita anche l'anima; ciò pose un veto alla possibilità di eseguire dissezioni. Nella religione cattolica, invece, non vi è nessun ostacolo di carattere religioso alla dissezione: il corpo è qualcosa di secondario, ciò che importa è l'anima. In oriente, invece, tale norma proibiva la dissezione nelle 24 ore successive alla morte, per paura che venisse persa l'anima. Per ovviare a ciò gli arabi inventarono il dermocauterio, ancora oggi usato (si pensi al bisturi elettrico) per bloccare temporaneamente i vasi (11) durante l'operazione chirurgica. All'ora all'escara faceva seguito la suppurazione; si veniva così a creare il pus, bonum et laudabile, nel pieno rispetto dell'iter terapeutico del tempo, ma portava spesso il paziente alla morte. Agli Arabi va, inoltre, il gran merito d'aver tramandato gli scritti greci antichi, che ad essi erano giunti attraverso, ad esempio, i nestoriani, o che si erano fatti portare in dono dai vari principi occidentali, e che scrupolosamente traducevano in lingua araba lasciandovi il testo greco a fronte. La civiltà araba ebbe il massimo sviluppo in Europa nella Spagna islamica, a Cordoba, in particolare, vi furono grandi medici, quale, ad esempio, Maimonides, Giuannizzius, Rhazes Albucasis, ed i grandi commentatori di Aristotele Avicenna (980-1037) e Averroè. Il periodo della civiltà moresca (12) in Europa fu il culmine della civiltà araba. Dopo la disfatta dei mori l'impero arabo crollò e il loro sapere tornò in Europa, in particolare a Montpellier e a Salerno. pag 11 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Mentre nell'oriente arabo si sviluppò una società avanzatissima, basata soprattutto sul patrimonio antico, classico, sorretta dalla nascente concezione islamica, in cui si traducevano e si commentavano testi antichi, si studiava Aristotele., in Occidente, invece, questo fu il periodo dell'oscurantismo e si ritornò alla medicina teurgica (siamo in pieno medioevo): i santi venivano chiamati adiuvanti e alle loro reliquie venivano attribuiti poteri miracolosi. Vere e proprie guerre venivano combattute per tali reliquie (13). In questo periodo particolarmente diffuso era il concetto della agiolatria. Tra i santi adiuvanti, i più famosi erano i santi Cosma e Damiano (14) : erano i patroni sia della famiglia de Medici che dei medici, ed erano detti anargiri perché curavano gratis.. A loro venne attribuito un "miracolo": attaccarono la gamba di un negro ad un poveraccio cui era stata amputata. Vi erano santi protettori per ogni organo e contro ogni malattia: Santa Lucia protettrice degli occhi, Santa Apollonia dei denti, San Biagio della gola, San Fiacre proteggeva dalle emorroidi, Sant'Antonio dalla lebbra, San Rocco dalla peste. Dopo la caduta del regno arabo, gli scienziati della Spagna mussulmana, come già detto, si rifugiarono soprattutto in Francia, a Montpellier, e in Italia a Salerno, dove fiorì la cosiddetta scuola salernitana, che, secondo la leggenda, fu fondata poco prima del 1000 da un greco, da un latino e da un ebreo. In questa scuola confluirono una marea di manoscritti greci ed arabi; si ebbe perciò un ritorno alla cultura greca e classica e alla medicina ippocratica. In questa epoca grande importanza venne data alla moderazione della dieta e del vino. Non solo, vennero formulati consigli su ciò che bisogna fare e ciò che, invece, non bisogna fare. Ad esempio non bisogna eccedere nelle pratiche amorose, non bisogna leggere a lume di candela, non bisogna sforzarsi troppo nella defecazione, non bisogna eccedere nel vino. Ritornarono i principi dell'igiene, del lavarsi molto, della salubrità dell'aria. Grande importanza fu data al concetto del temperamento: se ne individuavano quattro: il temperamento gioviale, il temperamento amoroso, quello collerico e quello flemmatico. Grande importanza veniva data a ciò che si mangiava, soprattutto in relazione al temperamento: se uno era molto collerico. voleva dire che aveva troppa bile, troppo fuoco. per cui bisognava smorzare tale temperamento facendogli mangiare pesce di palude, che è freddo, oppure la folaga (che era ritenuta un pesce); all'esame del malato e all'esame delle urine; vi fu un certo sviluppo della chirurgia, ma non della condizione dei chirurghi, i quali erano sempre considerati degli aggregati (come l'abito stesso sottolinea) e non dei medici. In questo periodo sorsero inoltre le Università. Prima esistevano gli Studia, che erano istituti sponsorizzati dalla comunità civile laica, mentre le università erano qualcosa di spontaneo, che si venivano a formare per iniziativa di gruppi isolati di studenti ("Universitas studiorum"), girovaghi, che si sceglievano un maestro valido e, pagandogli un salario, si ponevano come suoi allievi. Il potere in questo caso era nelle mani degli studenti, che potevano cambiare insegnante quando volevano se non soddisfatti. Federico Barbarossa fu il primo che finanziò questi studenti, diede loro il beneficio fiscale se si fermavano nella sua città. In seguito ci mise lo zampino la Chiesa e le Università potevano diventare tali solo quando vi erano le bolle papali. La prima università del mondo occidentale con bolla papale fu l'Università di Bologna. Le prime Università tuttavia erano formate dalle scienze liberali del trivio (retorica, dialettica e grammatica) e del quadrivio (matematica, geometria, pag 12 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) astronomia (15) e musica (16). La medicina entrò tra le discipline universitarie solamente circa 150 anni dopo: a Bologna, il medico Taddeo degli Alderotti dimostrò che la medicina riusciva ad argomentare contro i retori, riuscendo così a portare la medicina alla pari delle altre discipline universitarie. La medicina nei secoli XIII-XVI. Università, Ospedali, Rivoluzione Anatomica. La scorsa volta abbiamo visto come la medicina sia entrata tardivamente nelle università, diventando una materia di insegnamento solamente nel tardo 1200. E' grazie all'opera di Taddeo degli Alderotti (1223-1303) che la medicina entrò a pieno titolo a Bologna. Dopo Bologna ci furono altre università; la seconda in Italia fu Padova (per merito di studenti che da Bologna si trasferirono a Padova), ci furono poi Napoli, Siena, Roma, Pisa, Pavia etc. Ricordiamo altre università europee: Parigi, Montpellier, Oxford, Cambridge, Salamanca, Coimbra, Heidelberg , Praga, Vienna etc. L'Università di Sassari fu fondata nel 1616, quella di Cagliari, nel 1634. Un'altra istituzione che nacque nel medioevo furono gli ospedali. I primi ospedali sorsero come ospizi per persone non abbienti, più che come luoghi di cura. Solo negli ospedali femminili si potevano tenere animali. Le condizioni igieniche erano alquanto sommarie, ad esempio: non venivano mai cambiate le lenzuola, (nelle diapositive osserviamo due pazienti nello stesso letto e monache che preparano feretri nella stessa stanza). Non doveva però mancare l'immagine del Signore, in quanto gli ospedali erano considerati dei luoghi dove ci doveva essere la presenza guaritrice dello spirito santo. Gli ospedali medievali (ma questo andò avanti fino all'età moderna, e vale anche per l'ospedale civile vecchio San Giovanni di Dio) hanno la porta rivolta verso il Vaticano, perché lo Spirito Santo possa entrare meglio. Erano costituiti con una cappella che potesse essere vista da tutti i reparti ospedalieri. Il primo ospedale fu quello di Santo Spirito a Roma, il secondo fu quello di santa Maria Novella, a Firenze costruito grazie ad una elargizione di Folco Portinari, il padre di Beatrice ricordata da Dante. Nel 200-300 si riprese a fare la dissezione. Si ebbe un certo periodo di stallo intorno al 1299 perché il papa Bonifacio VIII (diede la Sardegna ai Catalani) promulgò una bolla papale chiamata "De sepolturis", in cui si vietata la manipolazione dei cadaveri, cioè non potevano essere ridotti in scheletro e bolliti. Questo aveva due scopi principali: 1) limitare il florido commercio di reliquie; 2) si era sviluppato (soprattutto ad opera dei navicellari napoletani) un florido commercio di ossa di guerriero supposto morto in terra santa. La bolla cui si è accennato non aveva alcuna intenzione di impedire le dissezioni, però in pratica le bloccò. Pochi anni dopo, le dissezioni ripresero grazie ad altri papi che capirono l'equivoco e divulgarono delle bolle che permettevano le dissezioni in particolari periodi dell'anno (soprattutto in quaresima sulle donne, da taluni ritenute prive di anima, e solo successivamente sugli uomini). Da illustrazioni dell'epoca appaiono chiari il ruolo assunto nella pratica della dissezione e dal medico togato (laureato, legge Galeno) e dal chirurgo inserviente: il primo indossava una lunga toga da cui spuntano solo le scarpe (per evidenziare la sua statura culturale), mentre il secondo, che è colui, che opera indossa una corta toga (si vedono le gambe per dimostrare il rango inferiore). Le ossa del cadavere erano ossa umane, quindi pag 13 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) diverse da quelle descritte da Galeno (ossa di maiale) e chi aveva ragione non era la natura ma Galeno: era uno scherzo della natura quello di far vedere le ossa come dritte quando in realtà erano curve. Ma le asserzioni di Galeno costituivano un dogma che non poteva essere criticato. I chirurghi non avevano accesso alle conoscenze anatomiche perché non conoscevano il latino, ragion per cui l'anatomia diventava una sorta di esercizio filosofico. La prima dissezione ufficiale fu praticata all'università di Bologna da Mondino de' Liucci (1270- 1326). Nel frontespizio dell' Anatomia Mundini si vede che la dissezione era qualcosa di mediato, un commento ai testi galenici. Mondino fu il più importante dei precursori di anatomia vera e propria. Ci furono altri anatomici come Guido da Vigevano che faceva dissezioni sui cadaveri appesi. Per capire per quanto tempo andò avanti la pratica di sezionare gli animali, nel frontespizio di uno dei primi libri di anatomia in italiano (1632), tradotto dal trattato scritto in spagnolo da Juan de Valverde e conservato nella Biblioteca di Cagliari. Nel libro (1632) si vede un cranio con a destra e a sinistra il maiale e la scimmia a coda corta (animali fondamentali della anatomia galenica). Chi praticò l'anatomia reale furono gli artisti. Alcuni di essi rinunciarono al salario per avere a disposizione delle salme dai vescovi (Leonardo, Michelangelo). Soprattutto Leonardo da Vinci (1452-1519) fu un finissimo anatomico. Si fecero numerosissime scoperte che vennero riprodotte fedelmente nei codici che rimasero più o meno segreti, sino a quando un allievo di Leonardo (1600) vendette questi codici ai reali d'Inghilterra, ed oggi costituiscono il codice Windsor. Però questo non influenzò affatto l'anatomia. Leonardo, in verità, voleva fare un atlante insieme ad un anatomico, Marco Antonio della Torre, che però morì giovanissimo. Anche Michelangelo voleva fare un atlante di anatomia insieme a Realdo Colombo, ma anche questo si concluse nel nulla. Accanto allo studio anatomico che era praticato dagli artisti, ci fu chi mise in discussione tutta la teoria ippocratica-galenica: Paracelso (1493-1541) medico filosofo (con vene di pazzia). È considerato il fondatore della iatrochimica, ma in realtà era un alchimista, poichè dava importanza agli elementi chimici. Gli elementi chimici che lui considerava alla base dell'universo erano il sale, lo zolfo, il mercurio (qualcosa che tutto sommato si rifaceva alla concezione degli elementi). Praticava l'alchimia: diceva che alla base delle malattie c'è un'alterazione della chimica di questi elementi. Per la prima volta utilizzò l'etere e si accorse che questo aveva capacità anestetiche (questa pratica andò scemando e venne riscoperta in America 300 anni più tardi). Utilizzò anche il Laudano per lenire i dolori e altri composti chimici come l'antimonio. La sua fisiologia rimase piuttosto confusa anche se certamente in opposizione con quella galenica. La religione cattolica non presenta impedimenti contro la dissezione, perchè il corpo è solo un elemento per contenere l'anima, infatti: pulvis eris, pulvis reverteris. Ci furono dei grandi anatomici che iniziarono a praticare l'anatomia da soli, senza l'interposizione del servo chirurgo: ad esempio Berengario da Carpi (1460-1530), Giambattista Canani (1515-1579); ma il grande sviluppo dell'anatomia si ebbe grazie ad Andrea Vesalio (1514-1564) (figlio del farmacista dell'imperatore Carlo V). Dopo aver frequentato università famose, come Parigi, ed aver ricevuto una educazione classica galenica, quando era ancora molto giovane, divenne professore di anatomia pag 14 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) a Padova. Pubblicò un opera monumentale nel 1543 "DE HUMANI CORPORIS FABRlCA" in cui descriveva il corpo umano visto in una dissezione operata da lui stesso. La dissezione divenne autopsia nel senso ellenistico, qualcosa che si vedeva con i propri occhi. Si può notare l'orgogliosa affermazione dell'uomo rinascimentale che diceva: le cose le vedo io. Nel frontespizio della sua opera osserviamo l'anatomico (Vesalio stesso) che opera direttamente sul cadavere. Questa tavola è opera del pittore che servì a Vesalio per fare i disegni che corredano il libro: Giovanni Stefano Calcar allievo di Tiziano. Nelle tavole di Calcar c'è una raffigurazione molto precisa del corpo umano: in piedi e con paesaggi di fantasia. Le tavole non venivano colorate perchè era troppo dispendioso. Vesalio corresse Galeno in 250 punti. Però non attaccò la concezione galenica del movimento del sangue anche se lo demolì, dimostrando che non esistevano pori nel cuore, non esisteva il circolo mirabile, ma li si fermò. Nello stesso anno venne pubblicato il "DE REVOLUTIONIBUS ORBIUM CELESTIUM", di Nicolò Copernico, libro che confutava la teoria geocentrica della terra. Il 1543 è l'anno della storia dell'uomo da ricordare perché vengono confutati due tra i più importanti miti scientifici dell'epoca: la concezione ANTROPOCENTRICA e la concezione GEOCENTRICA. La scuola di Padova era la più importante. Gli studenti vi si recavano divisi per nazioni e parlavano il latino. A Padova si riuscì, fin dall'inizio, a fare in modo che le lauree non venissero conferite dal Vescovo (come in tutte le altre università, con la bolla papale); venivano, però, conferite dal sindaco. Il fatto ebbe una importanza notevolissima perché per alcuni anni dopo la controriforma, (mentre nelle altre università cattoliche i protestanti non andavano più perché dovevano giurare fiducia alla fede cattolica), a Padova, fino a quando la repubblica di Venezia riuscì a contrastare politicamente l'influenza del papato, si recavano numerosi protestanti,. L'intolleranza religiosa dovuta alla controriforma fu una delle cause del declino delle università italiane. A Padova Vesalio ebbe dei grandi successori. La storia di Vesalio é per certi versi oscura. Poco dopo aver pubblicato il libro (aveva 27 anni) lasciò l'insegnamento. Secondo alcuni ciò fu determinato dalle critiche dei galenisti (che erano feroci) in realtà pare che il motivo fosse un altro. Ebbe un'offerta, assai allettante dall'imperatore Carlo V, che gli propose di diventare suo medico personale. Vesalio accettò, ma dopo un certo periodo pensò di tornare a Padova perché il Senato veneto lo richiamò in patria. Purtroppo ebbe un incidente: (il suo protettore, Carlo V, era morto ed il successore, Filippo II, non gli era molto affezionato) fece una dissezione di un uomo che pare non fosse morto. Intervenne l'inquisizione , Vesalio fu processato e riuscì ad ottenere il perdono grazie alla promessa di un pellegrinaggio in Palestina. Andò in Palestina con in tasca un brevetto del senato veneto che lo rivoleva a Padova, ma nel viaggio di ritorno, quando la nave attraccò all'isola di Zante , morì, probabilmente di peste. Venne sepolto a Zante, ma non si conosce la sua tomba (1564). Fu uno dei più grandi geni dell'umanità perchè infranse il grande dogma galenico e affermò l'anatomia come scienza dovuta all'osservazione diretta. Anatomici seguaci di Vesalio furono: Realdo Colombo, Gabriele Fallopia (15231562), Girolamo Fabrici di Acquapendente (1533-1619). Si ricorda anche Giulio pag 15 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Casserio (1552-1616), inserviente non colto che studiò il Latino e divenne Professore. Fu il fondatore della anatomia comparata (diede un grosso contributo allo studio della laringe). Altro grande anatomico, che operò a Roma fu Bartolomeo Eustachi (1500/15101574): scrisse un trattato quasi superiore a quello di Vesalio, non dal punto di vista artistico, ma dal punto di vista scientifico. Questo trattato andò a finire nel dimenticatoio fino agli inizi del 700, quando Lancisi lo scoprì riuscì ad influenzare ugualmente la scienza: conteneva dettagli che Vesalio aveva omesso. Fabrizio di Acquapendente (1533-1619) fu un grandissimo chirurgo e fu professore a Padova dal 1565 al 1616. Pubblicò numerosi trattati di chirurgia e fu il maestro dello scopritore della circolazione del sangue. Costruì a Padova il primo teatro anatomico stabile al mondo. Il teatro era circolare, gli studenti stavano in piedi ed il tavolo era al centro, in modo da avere una visione precisa del cadavere disteso sul tavolo. Sotto il tavolo c'era un canale che serviva per eliminare i rifiuti e far arrivare i cadaveri. Gli altri teatri fino ad allora conosciuti erano mobili. Da allora l'anatomia divenne qualcosa di sociale. A Fabrici di Acquapendente si deve anche un altro merito: l'idea di colorare le illustrazioni. Affidò il lavoro a valenti pittori rimasti sconosciuti e regalò le tavole (oltre 200) alla biblioteca Marciana di Venezia, dove rimasero sconosciute fino al 1910, quando l'anatomico Sterzi le scoprì. La più celebre anatomia mai eseguita è quella di Rembrant, conservata al museo dell'Aia. Artisticamente è uno dei migliori quadri al mondo: si osserva Nicolao Tulpius (1593-1674), che aveva studiato a Padova, che illustra ai sui colleghi una dissezione. Dal punto di vista anatomico, però, è un disastro. Questo sta a dimostrare come l'anatomia diviene una specie di natura morta. Le prime anatomie italiane sono rappresentazioni di macellerie. Tra i pittori più famosi ricordiamo Bartolomeo Passarotti della scuola Bolognese (50 anni prima di Rembrant) autore di una anatomia che rappresenta la dissezione di un cadavere alla presenza di personaggi famosi. La chirurgia andava avanti come nel medioevo, dove c'era stato un blocco dell'attività chirurgica dei monaci. A seguito della Bolla (1215) ECCLESlA ABHORRET A SANGUlNE, i Monaci avevano lasciato la chirurgia che veniva praticata da persone non colte. Nell'Umbria e nelle Marche vicino a Norcia e a Preci, l'abbazia di santo Eutichio era un importante centro di cultura chirurgica. I monaci istruivano i contadini del luogo. Norcia era, tra l'altro, già nota per la tradizione millenaria della castrazione degli animali (c'era già gente che aveva una certa pratica chirurgica). I Norcini (da Norcia) e i Preciani (da Preci) diventarono artigiani abilissimi e tramandarono di padre in figlio i segreti chirurgici. I Preciani diventarono famosi soprattutto per la cura dell'occhio (da ricordare la famiglia degli Scacchi). I Norcini facevano operazioni di chirurgia plastica molto avanzate, operavano di cataratta, estrazione di calcoli. Essi praticavano anche la castrazione dei bambini per procurare voci bianche per i cori delle chiese in qunto le donne non vi erano ammesse. La chirurgia spicciola (estrarre denti, curare ferite, ecc..), era praticata dai barbieri: la loro insegna è ancora oggi il bastone bianco (come le bende) e rosso (come il sangue). pag 16 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Lo sviluppo dell'anatomia portò all'utilizzo della stessa per la chirurgia, rimanendo però riservata all'elite. Ci furono medici famosi che divennero anche chirurghi (questo avvenne soprattutto in Francia) Ricordiamo Ambroise Parè (1510-1590) che creò la confraternita di Cosma e Damiano, staccata da quella dei barbieri (non erano ancora medici togati perché non conoscevano il latino in maniera ufficiale). Operavano in Francia dal 500 in poi. Ambroise si ricorda anche perché divulgò la notizia di non usare l'olio bollente sulle amputazioni. Racconta in un suo trattato che mentre seguiva una campagna in Piemonte, e non aveva più olio bollente da mettere sulle gambe amputate (si pensava che l'olio bollente servisse per estrarre la materia peccans), un norcino, sulla scorta di quanto pubblicato da Bartolomeo Maggi (14771552), gli consigliò di usare l'olio di rosa (che contiene fenolo, un blando disinfettante) e con grande meraviglia si rese conto che i malati trattati con olio di rosa stavano meglio di quelli trattati con olio bollente. Diede importanza estrema all'anatomia e alle dissezioni. Il secolo XVII: Rivoluzione Scientifica. Circolazione del Sangue. La dottrina del Contagio. Fabrizio Hildanus (1545-1599) sosteneva che non si doveva far venire il pus nelle ferite di seconda intenzione e che si doveva procedere alla legatura dei vasi prima delle operazioni. Gaspare Tagliacozzo imparò il metodo di ricostruzione del naso dai Norcini, che operavano soprattutto nell'Italia meridionale. La ricostruzione del naso era importante, visto che era soggetto a distruzione per via di molte malattie, come la tubercolosi e la sifilide, e per via delle frequenti mutilazioni della faccia dovute alle armi da fuoco. Il metodo di Tagliacozzo era quello di prelevare un lembo cutaneo dal braccio con cui ricostruire il naso. Divenne celeberrimo in tutta Europa e venivano da tutto il mondo per farsi curare da lui. Dopo la sua morte la sua opera fu continuata da un allievo, ma per poco tempo. Infatti ci fu la Controriforma, dovuta ad un irrigidimento della morale cattolica, che impedì di porre mano su ciò che era stato creato da Dio. Così il cadavere del Tagliacozzo fu estratto dal cimitero consacrato e sepolto in una zona non consacrata, mentre il suo allievo fu imprigionato. Quindi il Tagliacozzo venne colpito dopo la morte dall'Inquisizione, in quanto era peccato fare qualcosa che era contro il creatore e cioè ricostruire una parte del corpo. Il suo lavoro è comunque rimasto grazie ad un suo trattato sulla chirurgia plastica. (DE CHIRURGIA CURTORUM). Questa chirurgia venne riscoperta solamente nell'800 inoltrato quando venne usato il sistema della plastica indiana, che era più semplice ma anche molto più deturpante. Consisteva nel togliere dei pezzi di cute dalla fronte e metterli sul naso; in pratica bisognava girare un lembo di cute, ma il problema era che rimaneva una cicatrice molto brutta sulla fronte. La fine del '500 e il '600 furono caratterizzati dalla rivoluzione scientifica operata in gran parte da Galileo Galilei (1564-1642). Questi era figlio di un famoso musicista pisano ed il padre avrebbe voluto che si laureasse in medicina, ma lui preferì interessarsi di matematica. Fu il primo a introdurre il calcolo matematico negli pag 17 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) esperimenti scientifici. Galileo abbracciò la teoria democritea, in contrapposizione alla teoria aristotelica finalistica secondo cui tutto quello che accade in natura ha uno scopo. Democrito sosteneva che l'universo e gli organismi erano formati da atomi in un continuo e casuale movimento, quindi la filosofia democritea si basava sull'osservazione e non sul finalismo come era quella di Aristotele: sul come, non sul perchè. Galileo diede notizia nel Sidereus nuncius di essere riuscito a dimostrare sperimentalmente la teoria di Copernico: infatti utilizzando il cannochiale mostrò l'esistenza dei satelliti di Giove e dimostrò che il sole era al centro dell'universo, e non la terra; quindi dimostrò che la teoria Tolemaica era falsa. Per queste dimostrazioni Galileo ebbe grossi problemi con l'Inquisizione; quando lasciò Padova, presso la cui Università insegnava, fece l'errore di andare a Firenze, Città che allora era molto vicina al Papa al contrario di Venezia che invece godeva ancora di una certa autonomia perchè politicamente forte e lontana da Roma. Fu perseguitato dall'Inquisizione. Galileo ebbe anche il merito di usare il cannocchiale, non solo per vedere le cose grandi ma anche per vedere quelle piccole, e consigliò ai suoi allievi di usare il microscopio. Fu Francesco Stelluti (1577-1652), un suo allievo, a chiamare lo strumento microscopio. C'è una tradizione senza nessuna base storica, secondo cui chi scoprì il microscopio fu l'olandese Zacharius Jansen; in realtà l'unica cosa certa è che costui costruiva lenti. L'uso del microscopio per osservare le cose invisibili è da attribuire solo a Galileo; ciò è documentato in una sua lettera in cui esorta i suoi allievi a usare il microscopio. Sicuramente l'apporto più importante alla scienza fu l'uso della matematica, necessaria per quantizzare l'esperimento. Poiché Galileo era un fisico egli aveva elaborato la teoria secondo cui il corpo umano era una macchina e gli organi delle minute macchine: bisognava pertanto ricercare la macchina elementare. I microscopi di Galileo avevano dei grossi problemi perché presentavano dei difetti di rifrazione e riflessione della luce, per cui si vedevano molte immagini illusorie: ciò comportò feroci critiche al microscopio. Marco Aurelio Severino (1580-1656). Nato a Tarsia (Calabria) fu professore di Anatomia e Medicina a Napolo. Egli abbracciò appieno la filosofia galileiana e usando il microscopio descrisse addirittura l'utero dello scarabeo (che, naturalmente, ne è privo) . Dimostrò tuttavia che negli insetti ritroviamo gli organi che ci sono negli animali superiori; sosteneva anche che il microscopio doveva servire a vedere cose invisibili e che l'anatomia non doveva essere considerata come "arte del tagliare" ma servire per scomporre e per andare a ricercare gli atomi. (Anatomia dissutrix non dissectrix) Severino fu anche un grande chirurgo e pubblicò (1632) il primo trattato illustrato di patologia chirurgica. A Napoli ci fu una epidemia di difterite e lui praticando la laringectomia salvò molte vite. In periodo di peste non scappò dalla città, come pag 18 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) fecero molti altri medici, ma rimase a curare i malati; purtroppo però si ammalò anche lui di peste e morì. Lo studio microscopico degli insetti evidenziò che cose che sembravano assolutamente grossolane erano invece molto complicate. Molti allievi della scuola di Galileo, con degli artifizi, riuscirono a mettere in evidenza delle strutture molto fini, dando perciò il via alla cosiddetta anatomia scompositiva o artificiosa. Per esempio Giovanbattista Odierna (1597-1660) a Palermo, bollì l'occhio di una mosca e dimostrò che era formato da una miriade di cristallini che permettevano alla mosca di vedere. a 360°. Oltre al microscopio si poteva usare il microscopio naturae; infatti Auberio, che era un allievo di Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) a sua volta allievo di Galileo, per dimostrare come era fatto il testicolo studiò quello del maiale, animale che aveva già colpito Galeno proprio perché gli organi vegetativi erano simili a quelli dell'uomo, e mise in evidenza i tubuli seminiferi, la struttura dei tubuli efferenti e l'epididimo, che poi furono comparati con quelli dell'uomo. Quindi qualsiasi cosa andava bene pur di riuscire a capire come è costruito e come funziona il corpo umano. Il fatto che la matematica e la misurazione dell'esperimento fossero cose essenziali portò a delle conseguenze qualche volta al limite del possibile; per esempio ci fu un grande scienziato Santorio Santorio (1561-1636), istriano e allievo della scuola galileiana, che trascorse gran parte della sua vita in una bilancia dove si pesava quando mangiava e dopo aver defecato, misurando ciò che rimaneva dopo aver mangiato: ebbe così l'intuizione dell'esistenza del metabolismo. Egli capì anche che la sudorazione serviva all'eliminazione del calore; fu anche il primo a fare la misurazione del polso e ad usare il termometro per misurare la febbre. La scienza galileiana aveva come base l'esperimento: bisognava dare un significato alle cose solo dopo averle osservate e misurate. Gaspare Aselli (1581-1626) (scoperta dei vasi chiliferi). Era un medico milanese, professore all'Università di Pavia (a Milano l'Università non c'era). Facendo un esperimento su un piccolo cane, in cui voleva dimostrare come avvenivano le escursioni diaframmatiche e anche come potevano cessare con la resezione del nervo frenico, quando aprì l'addome sotto il diaframma vide una rete bianchissima nelle maglie del mesentere e si rese conto di aver fatto una grande scoperta, cioè di aver scoperto il quarto tipo di circolazione. Quando volle mostrare questa scoperta all'Università di Pavia usò un grosso cane randagio, ma dopo averlo aperto davanti a tutti non vide niente. Così Aselli, dopo un momento di sconforto, pensò che la differenza tra i due cani era che il primo aveva mangiato mentre il secondo cane, che era un randagio, non aveva mangiato. Allora decise di ripetere l'esperimento con un terzo cane, che aprì dopo averlo fatto mangiare. Questa volta finalmente vide la rete dei vasi chiliferi e poté dimostrare la loro esistenza all'Università. In seguito pubblicò un atlante che conteneva le prime stampe a colori. Un grosso errore che fece Aselli fu quello di confondere un linfonodo con un organo che lui chiamò pancreas. Ancora non si conosceva il sistema linfatico, che verrà scoperta solo qualche decennio dopo: prima Jean Pequet (1622-1674) scoprì la cisterna del chilo e poi, l'intera circolazione pag 19 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) linfatica venne descritta da un medico romano Giovanni Guglielmo Riva (16271677), e da Thomas Bartholin (1616-1680). Va ricordato che Bartolomeo Eustachi aveva già descrito il dotto toracico del cavallo nel 1564. William Harvey (1578-1657). Studiò a Padova dove fu allievo di Fabrizio e di Casserio. Egli si interessò della circolazione del sangue. Innanzitutto misurò la quantità di sangue che c'è nel corpo (prese un animale a cui tagliò una vena e estrasse tutto il sangue) e vide che era molto limitata. Questo fatto era quindi in contrasto col concetto galenico secondo cui il sangue veniva continuamente prodotto per essere assorbito dalle strutture periferiche. 1628: data storica in cui Harvey pubblicò il suo trattato intitolato Exercitatio Anatomica de Motu cordis et sanguinis in animalibus. Harvey, usando le stesse tavole di Fabrizio d'Acquapendente, dimostrò che nelle vene il sangue non aveva decorso centrifugo, come invece sosteneva Galeno, secondo cui il sangue andava dal fegato alla periferia. Fabrizio aveva interpretato quelle tumefazioni che si vedono quando si comprime una vena (e dovute alle valvole venose) come delle porticine che servivano per rallentare il flusso dal centro alla periferia, Harvey dimostrò esattamente il contrario: infatti aveva visto che, mettendo un laccio ad una vena, che pertanto diventa turgida, e poi chiudendo altri due segmenti, il sangue non va dal centro alla periferia ma dalla periferia verso il centro. Quindi Harvey capì il meccanismo della circolazione venosa, capì che il cuore era come una pompa che metteva in circolo il sangue, ma non riuscì a trovare l'anello di congiunzione tra le arterie e le vene perché non riusciva a vedere i capillari. I capillari vennero poi scoperti, più tardi, da Malpighi negli animali a sangue freddo ed in quelli a sangue caldo da Spallanzani che confermò le precedenti osservazioni di William Cowper (1666-1709). Questa nuova teoria ebbe diversi consensi ma anche molte critiche, anche perché il concetto della circolazione fu associato a idee politiche sulla circolazione del potere. Perciò Harvey all'inizio fu criticato moltissimo ma poi la sua teoria si affermò declassando il fegato che da organo principale divenne invece solo l'organo che secerne la bile. Addirittura ci fu un famoso anatomico Thomas Bartholin (maestro di Stenone) che pubblicò le exequiae del fegato. Questione del contagio. Nonostante nel '300 e nel '600 ci fosse stata la peste, e nonostante ci fossero molte malattie endemiche come la lebbra e la tubercolosi ( che allora non era considerata una sola malattia ma comprendeva 6 o 7 malattie diverse) non si sviluppò il concetto di contagio da organismi viventi (contagio vivo). In pratica non si capiva come si trasmettessero le malattie: l'idea più accreditata era che gli odori (miasmi) portassero il contagio, ma non si capiva assolutamente quale fosse lavia di trasmissione. Non c'era nessun concetto di igiene, i malati venivano messi su letti con lenzuola sporche che poi venivano riciclate senza lavaggio. Questo portò alla diffusione di malattie, soprattutto nelle zone molto affollate. pag 20 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) In Sardegna c'è il tipico esempio di come malattie come la peste attecchissero soprattutto nelle città, ma non nei villaggi. Il veicolo della peste è una pulce. In realtà sono i ratti che si ammalano di peste, poi la pulce la trasmette all'uomo, quando poi la peste diventa veramente epidemica allora c'è la peste polmonare che permette il contagio diretto uomo-uomo. La peste venne dall'Oriente e pare che sia stata portata a Messina da una nave di genovesi, scappati dalla città che presidiavano perchè era stata assediata dai turchi Questi però avevano buttato dei cadaveri di appestati nella città, così alcuni marinai si ammalarono e portarono la peste a Messina da dove poi si diffuse in tutta l'Italia e in tutta l'Europa. La scomparsa della peste fu favorita e dal fatto che intorno alla fine del 600 ci fu un'invasione di ratti marroni che soppiantarono il ratto nero, che era molto più recettivo alla peste, e anche perché si cominciò a evitare di costruire i solai in legno dove potevano albergare i topi (questo accadde soprattutto nelle zone calde). Un'altra ipotesi sostiene che ciò è dovuto alla comparsa di un germe meno virulento che permette l'immunizzazione dei ratti. Quasi contemporaneamente alla pubblicazione dell'opera di Vesalio (1514-1564), c'era stato un famoso anatomo medico veronese Gerolamo Fracastoro (1478/91553), il quale diede il nome ad una malattia endemica che si era appena sviluppata: la sifilide. La sifilide scoppiò per la prima volta in modo epidemico alla fine del '400 durante l'assedio di Carlo VIII a Napoli (1496); finchè l'Italia fu la nazione leader i napoletani chiamarono la sifilide male francese, mentre, quando l'Italia decadde, i francesi la chiamarono mal di Napoli. La sifilide forse era dovuta ad una recrudescenza di una malattia che ha cambiato fisionomia ma che era già endemica nell'oriente arabo, oppure un'altra teoria dice che venne portata dall'America ad opera dei marinai di Cristoforo Colombo. Si riconobbe subito che la sifilide era dovuta al contagio sessuale e si diceva che si era sviluppata dall'amplesso di una prostituta con un lebbroso. Fracastoro diede il nome alla sifilide in un famoso poemetto, dedicato a Pietro Bembo, e parlò anche del legno santo che era uno dei principi terapeutici di allora: si trattava di un legno (guaiaco) che provocava una grande sudorazione. Si pensava che anche la sifilide fosse una malattia da curare secondo i principi ippocratici, per cui bisognava eliminare la materia peccans: in questo caso si doveva togliere l'eccesso di flemma con l'uso di farmaci che provocassero la sudorazione, come il legno guaiaco e il mercurio. La sifilide è una malattia che fece la fortuna dei medici perché nel 30% dei casi guariva da sola e, quando un malato guariva, il medico sosteneva che era merito delle sue cure, anche se in realtà non era così. Per combattere la sifilide si somministrava il mercurio che essendo tossico per le ghiandole salivari e per quelle sudoripare, provocava una secrezione potentissima. Al tempo, il trattamento proposto per ovviare a ciò era quello di mettere un ferro incandescente sulla testa del malato, perché si credeva che la saliva ed il sudore derivassero dal cervello. Un altro effetto del mercurio era quello di annerire i denti, costringendo le nobildonne a limarsi i denti per nascondere il fatto che stavano facendo la terapia mercuriale contro la sifilide. Fracastoro sosteneva che esistessero degli organismi viventi invisibili, da lui chiamati seminaria, che portavano il contagio. pag 21 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Questi seminaria si potevano trasmettere non solo per contatto diretto ma anche con vestiti, lenzuola, oggetti. Un'altra malattia che allora era endemica era la lebbra. La lebbra in Sardegna attecchì proprio perché è una malattia ad incubazione molto lenta (simile alla tubercolosi anche se i due microrganismi sono rivali, infatti dove c'è la lebbra non c'è la tubercolosi e viceversa). La lebbra è una malattia che si sviluppa nel giro di decenni, e in Sardegna c'erano molti focolai che andarono avanti fino all'età moderna (infatti è uno degli ultimi posti dove ci sono stati i lebbrosari). Occorre un contagio prolungato per prendersi la lebbra, quindi è difficile che le persone che girano molto la contraggano. La lebbra era considerata una malattia da temere, oltretutto aveva dei risvolti sociali molto particolari; infatti quando si scopriva che uno era lebbroso (siamo nel tardo medioevo e all'inizio dell'età moderna) gli veniva fatto addirittura il funerale e perdeva qualsiasi diritto. I lebbrosi venivano tenuti in luoghi appartati ma venivano mantenuti a spese della comunità; questo spiega il perché di persone indigenti che per sopravvivere si dichiaravano lebbrosi, in modo da avere l'assistenza pubblica. Fine '600 - Inizio '700. Generazione Spontanea. Genesi acarica della scabbia. Anatomia microscopica. Le cere anatomiche. Nel corso delle pestilenze, i medici giravano vestiti in modo un po' particolare: con una specie di becco d'uccello sul naso, che conteneva una spugna con dei profumi, perché si credeva fossero gli odori a causare la malattia (tesi chiaramente falsa). Verso la fine delle 600 (1668) ci fu un'importante scoperta da parte di Francesco Redi (1626-1698), allievo di Galileo: egli prese un grosso vaso e vi mise un pezzo di carne, poi coprì il vaso con una garza e notò che su questa si formavano delle uova che seminate poi sulla carne, davano luogo alle larve. Dimostrò quindi che la generazione spontanea non era valida. Redi fu anche fondatore della parassitologia; fece degli importanti esperimenti su come debellare i vermi. Alcuni farmaci, tuttora utilizzati contro i vermi, sono stati introdotti da lui. Un'altra malattia dei nostri antenati è la rogna (o scabbia) dovuta ad una specie di acaro (= atomo di carne), che veniva considerato una particella di materia peccans, perché si pensava che la rogna fosse dovuta ad un eccesso di melaina kolè, di umore nero, quindi bisognava curarla con delle sostanze che eliminassero questa melaina kolé, e non curandola in modo topico. Cosimo Bonomo (1666-1696), allievo di Redi e medico delle galere (termine che noi usiamo per prigione ma al tempo erano le navi dove venivano mandati i carcerati che scontavano la pena remando, carcerati peraltro molto soggetti alla rogna) cercò il modo per debellarla e stabilì che bastavano dei bagni antisettici, fatti per un certo periodo di tempo, per uccidere anche le larve derivate dalla schiusa delle uova formate all'interno della cute e quindi per eliminare la malattia. Grazie all'aiuto di Giacinto Cestoni (1637-1718) isolò l'acaro e lo descrisse come si vede al microscopio. Comunicò questo a Redi ed il tutto fu pubblicato nel 1687. Nel 1834 uno studente, Simone Renucci, corso, pag 22 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) durante una lezione sulla scabbia tenuta all' ospedale San Luigi di Parigi dal famoso Prof. Alibert, fece notare al professore che in Corsica le persone malate venivano lavate con soluzioni disinfettanti. Il professore rimase sorpreso di ciò, poiché il trattamento scoperto da Bonomo era rimasto circoscritto alla Toscana poi esteso alla Corsica e Sardegna, ma non al resto dell'Europa. In quel periodo, Marcello Malpighi (1628-1694), allievo di Galileo, sostenne che tutti gli organi erano formati da delle minute macchine, le ghiandole. Questo è vero e falso nello stesso tempo. Infatti è vero che si può riconoscere una struttura ghiandolare nel fegato, nel rene, ma questo non vale per il cervello o altri organi. Comunque Malpighi fece altre scoperte importanti: gli strati dell'epidermide, il glomerulo renale, i corpuscoli della milza, i globuli rossi, ma il suo genio deriva dall'essere riuscito a distinguere ciò che era artefatto da ciò che era realtà, perché i microscopi di allora davano immagini veramente fallaci. Scoprì inoltre i capillari nel polmone di rana (animale a sangue freddo) completando lo schema di Harvey. Antony Leeuwenhoek (1632-1723) , commerciante di tessuti, appassionato di microscopi, tanto da costruirsene uno con le sue stesse mani, riuscì a vedere delle cose straordinarie che, non essendo dotto e non sapendole interpretare, mandava alla Royal Society di Londra che le pubblicava, dopo traduzione, senza commentarle. Per esempio, Leeuwenhoek si rese conto che esistevano degli esseri viventi piccolissimi nella placca dentaria. Una persona che usava il microscopio con lui, un suo allievo, scopri lo spermatozoo. Questo commerciante descrisse tantissime altre cose che però, essendo solo delle osservazioni, venivano ignorate e magari venivano apprezzate e verificate decenni dopo. Tornando a Malpighi, il concetto di ghiandola fu dato da un famoso scienziato danese, Niccolò Stenone (1638-1686) che per caso scoprì il "dotto di Stenone" che in realtà veniva considerato un vaso. Un professore di anatomia, Blasius, cercò di appropriarsi di questa scoperta e la pubblicò, suscitando l'ira di Stenone. Fece altri studi, e oltre a descrivere il dotto, descrisse anche le ghiandole, sostenne che la saliva, derivata dal sangue, veniva prodotta dalla ghiandola e veicolata dal dotto nella bocca. Stesso discorso per le ghiandole lacrimali: anche queste derivano dal sangue le lacrime. Stenone fece anche altre scoperte, per esempio fu il primo ad avere il coraggio di dire che il cuore era un semplicemente un muscolo e non conteneva l'anima e a chiamare ovidutti le tube uterine, stabilì inoltre l'omologia tra le ovaie dei mammiferi e quelle degli uccelli; a Firenze si cimentò nello studio dell'anatomia della terra. Anche in questo campo fece importanti scoperte: fu il primo a scoprire i principi della sedimentologia, sostenendo che gli strati più antichi sono quelli più profondi, e a mettere in dubbio che la terra avesse solo quattromila anni. Formulò una legge (regola di Stenone) che permette di distinguere un cristallo di quarzo da un diamante: il cristallo cresce "non mutatis angulis" (con gli angoli uguali) e quindi si può riconoscere per gli angoli. Successivamente Stenone divenne prete e per questioni di coerenza abbandonò la scienza. Venne mandato missionario nelle regioni luterane e morì in condizioni di estrema povertà, avendo dato tutto ai poveri. Il granduca di Firenze Cosimo III, volle che il suo corpo fosse trasferito a Firenze e fu sepolto prima nella cripta, poi nella basilica di San Lorenzo. Fu nominato beato e protettore degli scienziati nel 1988 dall'attuale Pontefice. pag 23 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Tra i personaggi importanti della fine del 600 ci fu Bernardino Ramazzini (16331714). Ramazzini aveva un operaio che andava da lui a pulire i cessi, che dopo qualche tempo divenne cieco. Allora Ramazzini, incuriosito fece delle indagini e accertò che anche altri lavacessi erano diventati ciechi. Stesso discorso per gli spazzacamini: molti avevano il cancro, Capì che molti lavori hanno un'influenza sulla salute e pubblicò un trattato sulla medicina del lavoro (DE MORBIS ARTIFICUM) dove descrive molte malattie legate alla situazione lavorativa. I medici dell'epoca si rendevano conto di come la terapia fosse qualcosa di disastroso. Thomas Sydenham (1624-1689) e Hermann Boerhaave (1668-1738) praticarono il ritorno all'ippocratismo, cioè alla cautela assoluta nel trattare il malato e dissero che bisogna avere gli ospedali come luoghi di cura. La prima clinica universitaria fu fondata infatti a Leida in Olanda, dove lavorava Boerhaave, università che era stata regalata, più di un secolo prima, dal principe d'Olanda agli abitanti come premio per avere valorosamente combattuto contro gli spagnoli nella guerra dell'indipendenza. Per quanto riguarda la chirurgia del primo 700, i chirurghi dovevano operare rapidamente, perché più durava l'operazione, maggiori erano i rischi d'infezione; il paziente era tenuto fermo dagli inservienti e in genere, prima dell'operazione, veniva intervistato da un padre spirituale. La maggior parte dei chirurghi non conoscevano l'anatomia, erano considerati persone indotte. Colui che promosse lo sviluppo della chirurgia nell'Europa centrale fu Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800) che fu arruolato nell'esercito austriaco come chirurgo. Era una persona molto intelligente, entrato nelle grazie del comandante del suo Reggimento, divenne il medico di Giuseppe II, primogenito di Maria Teresa, imperatrice d'Austria. Brambilla usò la sua influenza su Giuseppe II affinchè ai chirurghi venisse insegnato il latino, per poter studiare i testi scientifiche e per essere quindi messi alla pari dei medici. La prima cosa da fare era l'insegnamento del latino e poi mostrare come era fatto il corpo umano. Perciò grazie a lui fu fondata una grande accademia a Vienna, lo Josephinum, in cui si praticava l'insegnamento del latino ai chirurghi; non solo: furono fatte arrivare da Firenze delle splendide cere anatomiche (tuttora presenti allo Josephinum) al fine di istruire gli allievi soprattutto in anatomia umana, scienza resa importante dall'insegnamento di Morgagni. In conclusione riuscì così a parificare medici e chirurghi; infatti nelle università imperiali è presente un simbolo di ciò: due donne, entrambe togate, che si tengono per mano e rappresentano rispettivamente: una la medicina, l'altra la chirurgia al di sopra di una scritta: "IN UNIONE SALUS". Il pensiero di Brambilla si inserisce in un discorso che venne fatto a Firenze da Felice Fontana (1730-1805). Fontana, abate e prezioso consigliere del granduca di Firenze, ebbe l'idea, per istruire i chirurghi, di allestire dei calchi in cera di preparati anatomici. Questa idea era utile per 3 motivi: 1) perché gli atlanti a colori costavano moltissimo, 2) perché i chirurghi non conoscevano il latino, 3) perché in assenza delle tecniche del freddo era difficile conservare i cadaveri. Quindi Fontana allestì al Museo La Specola di Firenze, con l'aiuto di vari anatomici, una vera e propria officina di ceroplastica in cui si facevano i calchi dei cadaveri che prima si facevano in gesso e poi si voltavano in cera ad opera di abili artisti. pag 24 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Carlo Felice mandò l'anatomico Francesco Antonio Boi (1767-1855) nativo di Olzai, da Cagliari a Firenze, proprio per avere dei modelli in cera, da esporre nel suo museo. Le cere furone realizzate dal grande Clemente Susini su dissezioni effettuate dal Boi e sono dei veri capolavori che si possono tuttora ammirare nel Museo Susini di Cagliari. Altro scienziato del primo 700 fu Domenico Cotugno (1736-1822) che scoprì il liquor cefalorachidiano, descrisse la sciatica, e notò per la prima volta la presenza di albumina nelle urine dei nefropatici. Luigi Galvani (1737-1798), anatomico a Bologna scoprì l'elettricità animale, anche se secondo alcuni una parte del merito andrebbe riconosciuto alla moglie, la quale, mentre preparava delle rane, toccò con un cucchiaio di bronzo le zampe dell'animale e notò che si contraevano. In seguito a ciò Galvani fece esperimenti e parlò per la prima volta di elettricità animale. Volta, però, dimostrò che non era elettricità animale, bensì un fenomeno fisico. Altro importante anatomico e chirurgo fu Antonio Scarpa (1752-1832), che operò a Modena e, soprattutto, a Pavia dove fu chiamato da Brambilla. Diede importanti contributi all'anatomia dell'occhio, dell'orecchio (endolinfa e timpano secondario), al trattamento chirurgico delle ernie ed a quello degli aneurismi. Scoprì il nervo nasopalatino ed insieme al Vick D'Azyr i nervi olfattivi; descrisse i nervi cardiaci. Contribuì grandemente alla definizione dell'anatomia topografica, soprattutto di quella degli arti inferiori, ed è considerato, insieme a John Hunter il fondatore dell'Anatomia Chirurgica. XVIII Secolo. Anatomia clinica e Patologia d'organo. Spallanzani. Jenner. Le cere anatomiche erano un mezzo visuale per insegnare e diffondere 1'anatomia. L'anatomia era ancora un patrimonio dei medici dotti, che conoscevano il latino e che avevano accesso ai trattati e non dei chirurghi, personaggi di secondo piano, nella maggior parte dei casi barbieri, persone che non avevano avuto un'istruzione classica e nessun accesso alle opere scientifiche. Le cere anatomiche furono prodotte su larga scala a Firenze e poi diffuse in tutta Europa. Descriviamo ora come si faceva un preparato anatomico: dell'organo in esame (ad esempio il cuore) si faceva un calco col gesso , che prima dell'indurimento si apriva in due con una cordicella, e poi lo si riempiva di cera (sistema a cera a persa); poi la cera veniva colorata ed infine la mano dello scultore definiva le cose. Le cere di Cagliari furono fatte da Clemente Susini (1757-1814), e la mistura della cera contiene delle sostanze anche preziose, come scagliette d'oro e perle macinate, utilizzate per dare brillantezza alla cera stessa. Inoltre le cere soffrono più il freddo del caldo, perché essendo la cera una mistura con altre sostanze a differente grado di dilatazione, quando la temperatura va sotto zero, basta una minima vibrazione per rovinarle. Questo a Cagliari non succede mai, per cui le cere di Cagliari hanno il privilegio di non essere mai state restaurate al contrario di quelle delle grandi collezioni di Firenze e di Vienna (Le cere di Vienna sono ,in parte, copie di quelle di Firenze, prodotte a Firenze e portate a Vienna da Giovanni Alessandro Brambilla). pag 25 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800) fu, per quanto riguarda l'Europa centrale, colui che parificò la chirurgia e la medicina. In altri paesi ciò era avvenuto in modo più fisiologico, cioè i chirurghi erano diventati talmente bravi che erano entrati nella categoria dei medici. Questo avvenne in Inghilterra dove visse un grande chirurgo John Hunter (1728-1793). Hunter fece un esperimento su se stesso: poiché sosteneva che non poteva esserci un soggetto con due malattie, per stabilire se la blenorragia e la sifilide erano due malattie diverse o no, si inoculò nel glande del pus proveniente da un soggetto con la blenorragia per vedere se sarebbe comparsa la blenorragia o la sifilide. In realtà si ammalò di sifilide perché quel soggetto aveva entrambe la malattie e fu fortunato perché ne guarì. Questo esperimento che venne pubblicizzato in tutto il mondo portò ad una confusione. In Italia ci furono dei grandi chirurghi e dei grandi medici. Tra i medici ricordiamo Domenico Cotugno (visse a Napoli, 1736-1822) che scoprì il liquor cefalorachidiano, i liquidi endolabirintici, descrisse per la prima volta la sciatica che chiamò ischiade nervosa e notò la presenza di albumina nelle urine di pazienti nefropatici. Luigi Rolando (1773-1831) a Sassari fu autore del saggio "La vera struttura del cervello dell'uomo e degli animali. Egli seguendo 1' idea della corrente animale, toccando la corteccia di un maiale su un lato davanti alla scissura centrale del cervello (scissura rolandica), dimostrò la contrazione muscolare. Rolando paragonò il cervelletto ad una pila. Il vero fondatore della medicina clinica moderna fu Giovanni Battista Morgagni (1682-1771). Questi apparteneva come derivazione alla scuola galileiana, perchè era allievo di Antonio Maria Valsalva (1666-1723), il quale a sua volta era allievo di Malpighi, Malpighi di Borelli, e questi era allievo di Galileo. Morgagni aveva una concezione iatrofisica ; egli però non usava il microscopio, usava 1'occhio: aveva la tendenza a cercare di scoprire il funzionamento del corpo umano inteso come macchina. Il Morgagni si riferì a delle precedenti pubblicazioni. Quella più accurata risaliva alla fine del '400: a Firenze c'era stato Antonio Benivieni (1443-1502) che aveva fatto diverse autopsie e le aveva correlate con la causa di morte; il suo libro è intitolato "De abditis morborum causis" (1e cause nascoste delle malattie). Un altro trattato pubblicato nel tardo 600 era stato il "Sepulcretum" di Theophile Bonet (1620-1689), in cui erano descritti molti casi di reperti ottenuti al tavolo anatomico. Però in tutti questi trattati manca la correlazione tra storia clinica e reperto anatomo-patologico. Col Morgagni ci fu un ritorno al tripode alessandrino che consisteva nella storia clinica, nell'autopsia e poi nella diagnosi clinica. Il Morgagni raccolse ben settecento quadri autoptici, correlò il quadro autoptico con la storia clinica del paziente, dimostrò che per la stragrande maggioranza delle malattie vi era una patologia d'organo. Allora non c'erano mezzi per fare 1'autopsia in vivo (autopsia intesa come nella concezione alessandrina, cioè come esame del malato con i propri occhi), quindi 1'autopsia era veramente la dissezione, ma il concetto era quello di correlare la storia clinica con la malattia. Il Morgagni è stato un anatomico celeberrimo, era chiamato sua maestà anatomica in Europa, perché aveva pubblicato alcuni appunti di anatomia "Adversaria Anatomica", che divennero molto famosi per la revisione di cose che erano già state pag 26 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) viste, che fece con una notevole precisione. La sua opera maggiore, una pietra miliare per la nascita della medicina moderna, apparve nel 1761 in 5 volumi, dedicati alle più importanti accademie mediche nel mondo di allora. Fu pubblicato in latino ed intitolato "De Sedibus et causis morborum per anatomen indagatis" (sulle sedi e le cause delle malattie studiate attraverso 1'anatomia). Egli raccolse 700 casi clinici, alcuni appartenevano anche a Marcello Malpighi (1628-1694) e un buon numero erano appartenuti al suo maestro Antonio Maria Valsalva (1666-1723), anatomico che fece importanti scoperte soprattutto sull'orecchio. Questo trattato destò grande interesse in tutto il mondo di allora, tanto è vero che dopo due anni, la prima edizione era esaurita. Furono fatte molte altre edizioni e furono tradotte in tutte le lingue d'Europa. Una delle ultime edizioni fu in italiano, sia perché i dotti parlavano il latino (fino alla rivoluzione francese la lingua dei dotti era il latino), sia perché in Italia il "verbo morgagnesco" ebbe difficoltà ad attecchire. I principi di Morgagni invece, furono applicati all'estero e furono alla base dello sviluppo della clinica negli altri paesi. Inflenzò però Domenico Cotugno ed ebbe come allievo Antonio Scarpa. Proprio nello stesso periodo in cui Morgagni pubblicò il suo trattato, nel 1761 uscì in Austria un altro piccolo trattato "De Inventu Novo" in cui il figlio di un bottaio, Leopold Auenbrugger (1722-1809), descrisse la percussione come un mezzo per poter osservare in vivo le alterazioni degli organi toracici. Questo libro rimase lettera morta, fino a quando ai primi dell'800, il medico di Napoleone Jean Nicolas Corvisart (1755-1821) lo riscoprì. Auenbrugger era ancora vivo, e a distanza di 3040 anni dalla pubblicazione, ebbe la sua parte di gloria. Nel 700 un problema molto importante era quello della respirazione e della combustione. Era stato ipotizzata (da Stahl) l'esistenza di una sostanza, il flogisto, che consumandosi dava il fuoco. Questo concetto però non spiegava alcuni esperimenti che erano stati fatti dalla scuola di Oxford. Per esempio, collocato un animale sotto una campana con una candela accesa, man mano che la candela bruciava l'animale dava segni di asfissia, fino a morire. Non si capiva quale nesso esistesse con il flogisto; si diceva che quell'aria era diventata "aria fissa". Fu un inglese, Joseph Priestley (1733-1804), il primo ad affermare che doveva essere qualche gas che veniva consumato. Chi dimostrò che questo gas era l'ossigeno fu Antoine Laurent Lavoisier (17431794), grandissimo scienziato e fondatore della chimica moderna. Lavoisier venne ghigliottinato per la sua condizione di aristocratico. La storia dice che prese il fatto di essere ghigliottinato come una seccatura. Subito dopo la scoperta dell'ossigeno, l'abate Lazzaro Spallanzani (1729-1799), uno dei più grandi scienziati mai esistiti, mise in relazione il consumo di ossigeno con la respirazione tessutale. Lo Spallanzani era uno sperimentatore feroce: per dimostrare 1'azione dei succhi gastrici infilò nel suo stomaco una spugnetta con dentro della carne che poi tirava fuori dopo alcune ore, per constatare 1'effetto del succo gastrico. Era un vivisezionatore; capì anche che, durante il volo, i pipistrelli si orientano con gli ultrasuoni. Spallanzani è famoso soprattutto nel campo della riproduzione. Fu il primo a dimostrare, mettendo delle specie di "mutande" al rospo, che senza il contatto del liquido seminale con l'uovo non si aveva la fecondazione. Fu il primo che operò la pag 27 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) fecondazione artificiale nella cagna. Fece un'altra scoperta, confermando quanto visto da William Cowper (1702 ) nel mesentere del gatto e del cane, dimostrò la presenza dei capillari nel pollo, chiudendo il cerchio del circolo sanguigno anche negli animali a sangue caldo. Tra le scoperte più importanti dello Spallanzani ( per cui Pasteur lo riverì come il più grande scienziato mai esistito) vi fu quella di aver confutato la tesi della generazione spontanea. Il problema della generazione spontanea era fermo ancora a Redi, che aveva dimostrato che gli insetti derivavano da altri insetti. C'erano stati dei precursori, per esempio, tra gli italiani, Antonio Vallisneri (1661-1730), medico padovano, che aveva sostenuto 1'esistenza di "Semi" in aria, simili a quelli descritti da Fracastoro; Carlo Francesco Cogrossi (1682-1769) aveva affermato che nella peste bovina c'erano degli organismi viventi che trasmettevano la peste. Entrambe queste tesi però erano cadute nel vuoto. Un irlandese, John Turbeville Needham (1713-1781), pensava che gli "infusori" (che si vedevano perché erano dei protozoi) derivassero dal fluido contenuto nella fiasca, e quindi derivassero dalla materia e non da altri protozoi. Questo esperimento fu condiviso da Georges Buffon (1707-1788), il più grande naturalista dell'epoca. Ma Spallanzani lo confutò, dimostrando che se si praticava veramente una sterilizzazione (fu lui il primo che mise in atto questo procedimento, applicato successivamente anche da Pasteur) col calore i protozoi non si formavano. Quindi dimostrò che per avere dei protozoi bisognava avere altri protozoi. Questa fu la prima dimostrazione che esseri molto piccoli derivavano da altri esseri molto piccoli. Alla fine del 1700 ci fu una grande scoperta di carattere empirico. Un chirurgo inglese Edoardo Jenner (1749-1823), allievo di John Hunter, si accorse per caso che le mungitrici, che avevano in passato contratto il vaiolo bovino, quando si ammalavano di vaiolo guarivano sempre. Il vaiolo allora era la malattia più terribile. La peste si era placata a causa del cambio dei ratti e delle migliori condizioni igieniche. Vi erano ancora flagelli terribili come la tubercolosi, però il vaiolo colpiva soprattutto i bambini. C'erano stati già tentativi precedenti risalenti al tardo '600 di indurre la resistenza alla malattia col sistema della vaiolizzazione. La vaiolizzazione era il sistema di innesto del vaiolo: si prelevava, da un malato che stava per guarire, un po' di pus e lo si iniettava ad un soggetto sano, provocando il vaiolo. Molte volte questo procedimento era letale e molti bambini morirono. La vaiolizzazione era stata promossa dalla moglie dell'ambasciatore inglese a Costantinopoli (Lady Montagu), perché nell'oriente si praticava da tempo tale sistema. La stessa era poi stata introdotta in Italia dai medici greci che operavano soprattutto a Venezia. Questi avevano trovato un grande fautore nel Papa Benedetto XIV (Papa Lambertini) il quale cercò di introdurre la vaiolizzazione nello stato pontificio. La scoperta di Jenner risolse il problema del vaiolo. Jenner fece la prima inoculazione su suo figlio: prese un pò di pus dalla pustola di una vacca, lo iniettò nel figlio e vide dopo che si era formata la pustola del vaccino (che si chiamava ancora innesto) che il bambino era immune dal vaiolo. La vaccinazione destò un interesse grandissimo, anche se ci fu una violenta opposizione da parte di certi ambienti, soprattutto ecclesiastici nei quali essa venne ritenuta un insulto al creatore essendoci una commistione tra il bruto, cioè' 1' animale, e 1' uomo. Quindi questa vaccinazione venne praticata su larga scala perché le idee della rivoluzione francese prevalsero . pag 28 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Al di fuori dell'Inghilterra, divenne la bandiera della sinistra, dei giacobini. I giacobini vaccinavano, i codini (reazionari) no. In Italia un milanese Luigi Sacco (1769-1836) diffuse negli stati della repubblica cisalpina la vaccinazione, per cui ci fu un crollo verticale della morbilità del vaiolo. Pietro Leo portò la vaccinazione in Sardegna. Egli fu anche professore di anatomia; aveva imparato a vaccinare durante la rivoluzione francese a Parigi. Altri fautori della vaccinazione vaccinazione in Sardegna furono Francesco Antonio Boi e Sebastiano Perra (1772-1826) che scrisse (1808) un libro su di essa. Dopo un primo periodo in cui venne praticata saltuariamente, la vaccinazione si diffuse più tardi ad opera di un altro professore di anatomia: Giovanni Falconi (1817-1900). Riprendiamo ora il discorso del "contagio" vivo . Tra gli allievi di Spallanzani ci fu Giuseppe Baronio (1759-1811) che proprio sulla scorta di quello che aveva appreso da Spallanzani, fece i primi innesti di cute negli animali, divenendo un precursore dell'innesto cutaneo e della chirurgia plastica. Agostino Bassi (1773-1856) era un avvocato, figlio di ricco proprietario terriero, il quale aveva la passione per la biologia. Il padre non voleva che facesse il biologo, ma che si occupasse delle sue terre e che entrasse nella amministrazione imperiale. Egli comunque seguì costantemente le lezioni dell'abate Spallanzani, fino a quando questi morì. Un giorno le sue bigattaie (le bigattaie sono i filari su cui si conservano i bacchi da seta) furono funestate da una malattia terribile, il mal del calcino o del calcinaccio o moscardino, che uccideva improvvisamente i bachi, riducendoli a dei pezzi di gesso. Il Bassi, messosi pazientemente a studiare per cercare di capire se c'era un organismo vivente alla base di questo fenomeno, scoprì un fungo, che fu chiamato Botritis o Beauveria Bassiana, che provocava la morte dei bachi. Egli trovò anche un disinfettante per difendersi da questo fungo e per ripulire le bigattaie. Il suo trattato "Del Mal del Segno, Calcinaccio o Moscardino" venne tradotto in francese e diffuso in Europa. Subito dopo ci fu la scoperta dell'eziologia fungina di certe malattie come la tigna dei capelli. Il lavoro di Bassi influenzò moltissimo Louis Pasteur (1822-1895) (nello studio di Pasteur c'erano sia il ritratto di Spallanzani, sia quello di Bassi). Allora si vedevano solo i funghi e i protozoi, il microscopio non era ancora arrivato a visualizzare i batteri. Solo negli anni 20 dell'800 Gian Battista Amici (1786-1863), un astronomo che costruiva telescopi, inventò il prisma di riflessione. (Poi il microscopio fu perfezionato soprattutto da inglesi e tedeschi). Questo permise un aumento del potere di risoluzione del microscopio. Il Bassi nel suo libro scrisse: "sarei molto lieto se in futuro le mie scoperte potranno servire ad aprire la strada allo studio e alla cura delle malattie che uccidono 1' uomo, tra cui il colera". Proprio su questa indicazione un anatomico italiano Filippo Pacini (1812-1883) scoprì nelle feci dei colerosi il vibrione colerigeno, però la scoperta era troppo avanzata e rimase lettera morta. Nel 1883 Robert Koch (1843-1910) scoprì il vibrione del colera, ma ci si accorse che in realtà la cosa era stata già descritta in modo chiarissimo da Pacini. Ci fu un lungo pag 29 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) contenzioso che fu risolto dando la priorità a Pacini; dal punto di vista pratico questa priorità era inesistente perché non si diffuse nell'ambiente scientifico essendo troppo precoce. Finalmente si era trovato un modo per identificare le malattie. Ci fu un ritorno alla vecchia scuola di Cnido, così la malattia, e non più 1'uomo, ritornò ad essere al centro dello studio. In questo periodo invece c'erano i mezzi per diagnosticare le malattie: il mezzo che aveva trovato Morgagni (1682-1771) era il bisturi sul cadavere, ma già Auembrugger aveva mostrato che si poteva anche fare l'autopsia con la percussione. Più avanti, nel primo '800, un francese, Renè Theophile Laennec (1781-1826), inventò lo stetoscopio, in origine costituito da un tubo di legno che serviva per ascoltare il torace. Infatti non si poteva poggiare l'orecchio sul torace del malato, soprattutto nel caso il paziente fosse una donna, in particolar modo se di condizioni agiate; al medico era concesso solo ispezionare le urine e misurare il polso radiale. Siamo quindi arrivati ad un altro passo della semeiotica: dopo l'ispezione, la palpazione e la percussione abbiamo l'auscultazione. La "autopsia" si fa sul vivente, nel quale si cercano le cause della malattia intesa come entità morbosa, prescindendo dall'uomo . Questo è il principio riduzionistico che è alla base della medicina moderna. Prima parte del XIX Secolo. La Semeiotica. L'Assistenza. La Patologia Cellulare. La Microbiologia. Laennec, allievo di Corvisart (medico di Napoleone), ideò la costruzione di un tubo che chiamò stetoscopio, il precursore dei fonendoscopi moderni, che permetteva l'ascoltazione del respiro, dei battiti cardiaci etc. Già nel primo '700 tutti i tempi del processo semeiologico: osservazione, palpazione, percussione e ascoltazione sono stati messi a punto. Laennec, che poi morì di tisi, diede dei contributi molto importanti alla definizione di molte malattie polmonari: le polmoniti, la tubercolosi, che ancora non era considerata una malattia unica, ma si pensava che esistessero tre tipi di malattia (tisi o consunzione, lupus, scrofola [era la TBC linfoghiandolare]). Diede comunque importantissimi contributi con l'uso dello stetoscopio. L'importanza dello stetoscopio derivava dal fatto che non si poteva ascoltare con l'orecchio il petto di una donna: era assolutamente impensabile che un uomo potesse poggiare l'orecchio a contatto con la mammella di una donna, e tale strumento serviva soprattutto a questo. Manuel Garcia (1805-1906) era un tenore che, per vedere come erano le sue corde vocali, inventò il laringoscopio. In questo periodo venne inventato l'esofagoscopio: un medico vide un ingoiatore di spade ed ebbe l'idea di mettere anziché la spada una luce all'estremità di un tubo per vedere l'esofago. Si illuminava dall'alto con la fiamma pag 30 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) della candela che rifletteva su uno specchietto e permetteva di vedere, tramite un tubo cavo, l'interno dell'esofago. Uno dei problemi più importanti della chirurgia, a parte la sepsi, perchè si operava a mani nude, era il fatto che non esisteva l'anestesia. Fu scoperta casualmente in America da diversi personaggi tra cui Horace Wells (1815-1848) e William Green Morton (1819-1868). In America, durante le feste, si faceva uso di etere, e capitava che le persone, sotto quest'effetto, non sentivano più il dolore. Questo venne subito utilizzato per l'estrazione dei denti. Successivamente ci fu una terribile disputa su chi l'avesse scoperto per primo, tant'è vero che fu messo in palio un premio, mai riscosso. Oltre all'etere si utilizzavano il il protossido di azoto ed il cloroformio; l'anestesia con cloroformio fu praticata alla regina Vittoria in occasione del parto del principe Leopoldo. Nello stesso periodo ci fu la comparsa delle istituzioni sanitarie, la prima di queste fu la Croce Rossa. Avvenne per un episodio nel corso della battaglia di Solferino: c'era un ricco finanziere svizzero, Henry Dunant (1828-1910), che aveva degli interessi minerari in Algeria e che, per avere una concessione, doveva conferire direttamente con l'imperatore Napoleone III. Questi stava nel campo di battaglia e Dunant si recò a Solferino. Non potè parlare con l'imperatore, ma rimase talmente impressionato dallo stato nel quale venivano lasciati i feriti sul campo di battaglia che subì una sorta di folgorazione: lasciò perdere tutte le sue attività per dedicarsi a questo problema e, con molti sacrifici (divenne poverissimo), riuscì a convincere i governi a far sì che venisse istituita questa associazione neutrale che, in onore della Svizzera, fu denominata Croce Rossa. La bandiera della Croce Rossa è il negativo della bandiera della Svizzera. Ci fu un congresso mondiale dove venne sancita la neutralità di questo organismo, dando quindi la possibilità di togliere i feriti dal campo di battaglia e di curarli. Dopo la Croce Rossa fu fondata la Mezza Luna Rossa per i paesi islamici. Fu una grandissima conquista per l'umanità. Altrettanto importante fu anche l'opera di Florence Nightingale (1820-1910). In passato non si concepiva la presenza di un corpo di infermiere, ma erano presenti solo persone di livello culturale molto basso (inservienti, ex prostitute, carcerate obbligate a lavorare negli ospedali) finché una nobildonna, appartenente all'aristocrazia inglese, nella evenienza della spedizione di Crimea, insistette perché ci fosse la formazione di un corpo di infermiere al seguito dell'esercito inglese. Lo fece praticamente a sue spese e questo corpo di infermiere diede prove eccezionali della loroimportanza nell'assistere il malato. Scoppiò una terribile epidemia di colera, e queste donne furono bravissime a curare i pazienti , nel mettere a punto le misure igieniche . Tornate in patria, vennero coperte di onori e la Nightingale ottenne al St Thomas's Hospital la creazione della prima scuola di infermieri specializzati. pag 31 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Nei primi anni del 1800 furono rese efficaci le misure di polizia sanitaria: la quarantena e lo scambio delle merci vennero regolati in maniera più seria. Nel 1800 in Francia, prima di Laennec, c'era stato Marie Francois Xavier Bichat (1771-1802) che aveva criticato l'uso del microscopio in quanto questo strumento, come era fatto allora, era assolutamente inutile. Egli diceva che occorreva tornare all'antico, e cioè usare metodi artificiali come la bollitura (come faceva Malpighi) e scomporre il corpo nelle sue unità fondamentali che, secondo lui, erano i tessuti. Bollendo la lingua, riusciva a spellarla, a notare sotto l'epitelio le papille, e ancora, poteva continuare a delaminare la lingua; sosteneva che le lesioni bisognava cercarle nei tessuti. Si passa ad un livello più sottile rispetto a quanto sostenuto dal Morgagni, perchè diceva che bisognava cercare le lesioni nei tessuti. La curiosità sta nel fatto che Bichat, nel suo libro Anatomia Generale, in cui viene negato l'uso del microscopio, coniò il termine di istologia. L'idea venne ripresa da uno scienziato tedesco, un anatomopatologo, Rudolf Wirchow, dopo che era stata formulata la teoria della cellula da parte di un botanico, Mathias Jacob Schleiden (1804-1881), il quale affermò che i tessuti vegetali erano formati da cellule. Questo fu ripreso da un grande istologo: Theodor Schwann (1810-1882) . Egli dimostrò (1839) questa teoria negli animali: la teoria cellulare (1839). Rudolf Virchow (1821-1902) nel 1859 portò l'attenzione sul fatto che le lesioni delle malattie si potevano riscontrare a livello cellulare e quindi pubblicò il suo famoso trattato "La patologia cellulare". Fu fondatore dell'istopatologia, ancor oggi base della diagnostica, coniò il termine di leucemia e la descrisse, fu un grande antropologo. Virchow, infatti , fu colui che dimostrò che nell'uomo non esistevano delle razze, tanto è vero che Hitler non gli perdonò mai il fatto di aver negato l'esistenza di una razza tedesca. Fu anche un uomo politico di sinistra e si impegnò per migliorare le condizioni igieniche dei minatori. Tuttavia prese anche dei "granchi": non credeva alla dottrina del contagio attraverso i germi formulata da Pasteur. Altre scoperte importanti furono la teoria dell'evoluzione di Charles Darwin (18091882) e le leggi della genetica individuate verso il 1870 da Gregor Mendel (18221884) e riscoperte trentanni dopo da Hugo deVries (1848-1935). Queste ultime leggi furono inizialmente ignorate e poi riscoperte dopo trent'anni. Un'altra conseguenza della teoria cellulare fu l'uso dei coloranti per dimostrare le lesioni che Virchow era riuscito a dimostrare solo in parte perchè aveva a disposizione solo il carminio. Poco dopo vennero introdotti altri coloranti come l'ematossilina-eosina e vennero affinate le tecniche di preparazione dei tessuti: microtomia, inclusioni in paraffina, ecc. C'erano però dei grossi problemi per quanto riguardava il sistema nervoso, che era quasi impossibile da studiare, perché con i metodi in uso si vedeva solo il nucleo, una parte del citoplasma, ma non i prolungamenti cellulari, per cui non si riusciva ad avere un'idea della neuroanatomia. Il metodo per studiare il sistema nervoso (reazione nera) fu messo a punto da Camillo Golgi (1843-1926): grazie a questa metodica si mettevano in evidenza i prolungamenti cellulari (il metodo di Golgi utilizza l'argento ed è detto reazione nera). Un emulo di Golgi, Santiago Ramon y Cajal (1852-1934) mettendo insieme nozioni pag 32 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) quali il concetto di neuroni come entità cellulari indipendenti, formulato da Vilhelm His (1831-1904) e poi da Charles Scott Sherrington (1857-1952), il concetto di neurite come prolungamento cellulifugo e quello di dendrite come prolungamento cellulipeto, riuscì guardando, le cellule della retina, a mettere insieme le prime vie nervose su base morfologica. In seguito si è visto che il senso della corrente dipende dalla natura della sinapsi, non dalla sua posizione. Osservando preparati d'argento con il microscopio, sembra di vedere una rete. Perciò Golgi sosteneva che i neuroni non erano entità separate ma connesse ad una rete nervosa. Cajal estrapolò il concetto di cellula, come unità indipendente, ai neuroni e fu colui che diede dei contributi formidabili alla neuroanatomia. Cajal era spagnolo, ma la Spagna in quel periodo era silente dal punta di vista scientifico, Golgi era di Pavia, città, fino al 1860, sotto il dominio austriaco; ciò permise che tutte le scoperte italiane venissero diffuse in Europa centrale e tradotte in lingua tedesca. Al termine del dominio austriaco l'Italia ridiventò un paese provinciale e la scoperta di Golgi venne poco recepita all'estero. Cajal, invece, diffuse le sue scoperte andando ai congressi e parlando e scrivendo in francese e tedesco. Nel 1906 ebbero insieme il premio Nobel. Golgi diede, inoltre, notevoli contributi a studi di patologia sulla malaria; mise in relazione la comparsa della febbre con la fuoriuscita del parassita nel sangue. Sul contagio delle malattie non vi erano stati molti progressi: c'era una elevata mortalità fra le donne che partorivano nelle divisioni ospedaliere frequentate dai medici e dagli studenti, mortalità che risultava più bassa fra quelle che lo facevano a casa o nelle divisioni tenute da infermiere ostetriche. L'aiuto ostetrico di una clinica viennese, Ignac Fulop Semmelweiss (1818-1865), fu colpito da tale fenomeno e pensò che probabilmente erano responsabili i medici e gli studenti di medicina che palpavano senza guanti nelle parti intime le donne, passando da una malata all'altra. Oltretutto l'igiene era scarsa anche all'interno dell'ospedale, dove le lenzuola si cambiavano una volta al mese. Semmelweiss obbligò medici e studenti a lavarsi le mani tra una visita e l'altra con il cloruro di calcio: fu comunque un uomo dal carattere difficile, fu perseguitato psicologicamente tanto che fu costretto ad andarsene a Budapest. Ebbe problemi mentali e per questo fu ricoverato in una clinica psichiatrica. Quando si diffuse la pratica di igiene ospedaliera, si resero conto che aveva ragione. All'inizio della seconda metà del 1800 erano completamente sconosciuto il concetto di contagio: si operava a mani nude ignorando cosa fossero le cognizioni igieniche Questa situazione ebbe fine grazie a Louis Pasteur (18221895). Fu un chimico organico incaricato dal governo francese di studiare i meccanismi di fermentazione che permettevano la produzione del vino e della birra e si rese conto che essi erano dovuti all'azione di microrganismi detti saccaromiceti. Mise anche a punto un processo per la conservazione degli alimenti col calore: la "pastorizzazione" usato ancora oggi. Fu anche incaricato di appurare o meno da veridicità sulla generazione spontanea. Sulla base delle scoperte di Spallanzani e Bassi, arrivò alla conclusione che esistevano i batteri, che erano germi responsabili di malattie. Verso i quarant'anni ebbe un ictus, ma ciò non gli impedì di continuare a fare importanti scoperte. Trovò inoltre il modo di attenuare i germi attraverso trattamenti opportuni, e mise a punto sieri e vaccini (termine da lui coniato in onore di Jenner) importantissimi come il il vaccino per immunizzare gli animali contro il pag 33 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) carbonchio ed il siero e il vaccino antirabbico. Quest'ultima scoperta entusiasmò il mondo intero quando Pasteur vaccinò con successo il pastorello Meister, morso da un cane, e diversi contadini russi, invatigli dallo Czar. Altro grande microbiologo fu Robert Koch (1843-1910), premio Nobel 1905, a cui la moglie per il trentesimo compleanno regalò un microscopio. Fu autore dei famosi postulati di Koch, secondo cui quando si scopre una malattia il germe responsabile va isolato, coltivato in vitro, reinserito nell'animale per dare nuovamente la malattia e di nuovo isolato. Nel 1882 scoprì il bacillo responsabile della tubercolosi e pensò di aver scoperto anche la terapia grazie alla tubercolina: purtroppo fu un tragico errore perché tale sostanza ha solo valore diagnostico e non terapeutico. Nel 1884 scoprì il bacillo del colera, descritto però vent'anni prima da Filippo Pacini, ispirato da Agostino Bassi. L'articolo di Pasteur sulla teoria della generazione spontanea finì tra le mani di un chimico inglese che lo fece vedere al chirurgo Joseph Lister (1827-1912) , operante ad Edimburgo, che fu impressionato da tale ipotesi (i germi erano i responsabili dell'infezione) c .Ispirandosi al fatto che per bonificare le fogne di una cittadina inglese era stato usato il fenolo, nebulizzò tale sostanza sul tavolo operatorio durante l'intero intervento chirurgico, ottenendo una drastica riduzione dei decessi per sepsi della ferita. Tale processo venne chiamato antisepsi. Più tardi si capì che la sterilizzazione preventiva (asepsi) introdotta da Ernst von Bergmann (1836-1907), chirurgo tedesco, era più pratica ed efficace dell'antisepsi. L'uso dei guanti in gomma fu introdotto dal chirurgo americano William Halstead (1852-1922). La teoria dei germi, basata sugli studi di Pasteur, Koch, Emil von Behring (18541917), Shibasaburo Kitasato (1852-1931), Almroth Edward Wright (1861-1941) e molti altri, ebbe, almeno nel mondo occidentale, un influenza grandissima anche sulla vita di tutti i giorni e, persino, sulla economia. Fu la paura dei germi a far sì che le donne smettessero l'uso delle sottovesti multiple e delle gonne lunghe tipiche dell'età vittoriana e che gli uomini si radessero il viso. Un'altra conseguenza fu la nascita della moderna industria degli apparecchi igienico-sanitari, dei disinfettanti per le case e quella degli accessori usa e getta: carta igienica, assorbenti, bicchieri e fazzoletti di carta, etc. Secoli XIX-XX. Le specializzazioni. La malaria. I Chemioterapici. Gli Antibiotici. Le ultime scoperte. Giuseppe Brotzu e la Cefalosporina. Alla fine dell'800 la chirurgia aveva ormai fatto passi da gigante, infatti si avevano le conoscenze anatomiche, veniva effettuata l'anestesia, c'era il concetto di asepsi, però mancava ancora una componente importante: la monitorizzazione delle condizioni del paziente durante l'intervento chirurgico. Infatti quando il chirurgo operava un paziente sotto anestesia non si accorgeva se esso stava per morire o meno. Colui che inventò l'apparecchio per monitorare il paziente fu Scipione Riva-Rocci (1863-1937) (allievo di Carlo Forlanini, 1847-1918), che nel 1896, utilizzando semplici oggetti (un calamaio, del mercurio, un tubo di biciclette), mise a punto un apparecchio che, per le sue piccole dimensioni, poteva entrare in sala operatoria o nelle guardie mediche; infatti, erano già stati inventati degli strumenti che misuravano pag 34 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) la pressione sanguigna, ma erano molto ingombranti e difficili da usare. L'uso dello sfigmomanometro fu poi perfezionato utilizzando l'auscultazione dei toni cardiaci scoperti dal russo Nicolaj Sergievich Korotkov (1874-1920) : fu così possibile misurare anche la pressione arteriosa minima. Lo sfigmomanometro di Riva-Rocci incuriosì Harvey Cushing (1869-1939), famoso neurochirurgo americano, che venne in Italia appositamente per vederlo e poterlo introdurre nelle sale operatorie. Cushing portò lo sfigmomanometro in America e da lì si diffuse in tutto il mondo; chiaramente fu poi perfezionato. In quel periodo (fine '800) l'umanità era flagellata da diverse malattie infettive, tra queste la Febbre Gialla, la Malaria e altre. A proposito della Malaria dobbiamo ricordare che in Sardegna la popolazione risultava più resistente nei confronti di questa patologia, perché vi era una grossa percentuale di portatori della tara eritrocitemica, per cui il Plasmodio non trovava un ambiente adatto alla sua crescita negli eritrociti alterati. Invece i colonizzatori non erano protetti e venivano decimati dalla Malaria; per questo motivo solo pochi gruppi riuscirono ad impiantarsi in Sardegna: carlofortini, Greci e ad abitanti del delta del Po (tutti provenienti da zone di endemia malarica, e in cui era diffusa la tara eritrocitemica). Un allievo di Pasteur, Alphonse Laveran (1945-1922), scoprì l'agente eziologico della malaria cui diede il nome di "oscillatorium malariae" (fu poi chiamato "Plasmodio" dai due malariologi italiani Ettore Marchiafava, 1847-1935, e Angelo Celli, 1857-1914). Walter Reed (1851-1902) invece, scoprì il ruolo di una zanzara nella trasmissione della febbre gialla, mentre Ronald Ross (1857-1932), dimostrò il ciclo della malaria negli uccelli. In realtà chi diede il contributo più importante per capire il ciclo biologico del Plasmodio nell'uomo fu Giovanni Battista Grassi (18541925), che identificò il vettore nelle zanzare del genere Anopheles; per motivi politici, tuttavia, il Nobel fu assegnato a Ross. In Sardegna la malaria fu debellata solo nel 1950 dalla Fondazione Rockfeller dopo una massiccia campagna di bonifica del territorio con l'insetticida DDT, che impegnò 30.000 uomini e durò 4 anni. Il quartiere generale dell'operazione era situato a Cagliari presso le scuole Riva di piazza Garibaldi. Tra le altre malattie dell'epoca ricordiamo: - La Pellagra: sebbene non fosse ancora stata scoperta l'esistenza delle vitamine si cominciava a capire che alla base di questa malattia descritta da Francesco Frapolli nel 1771 e molto diffusa nella pianura lombardo-veneta, c'era un qualche fattore collegato con la monodieta a base di mais. La malattia, che dava gravi complicazioni a carico del sistema nervoso, venne debellata quando si introdusse un'alimentazione variata, contenente le vitamine necessarie. "L'Anemia dei minatori": questa malattia (chiamata anche anemia del Gottardo) colpì molti lavoratori impegnati nella costruzione di grandi opere pubbliche di fine secolo (per esempio il Traforo del San Bernardo). Essa è dovuta ad un parassita ematofago del genere Anchylostoma (scoperto da Angelo Dubini, 1813-1902) che si sviliuppa negli ambienti caldo umidi e penetra nell'organismo attraverso la cute dei piedi di soggetti scalzi. La malattia era molto diffusa anche nel Sud degli USA dove veniva chiamata "malattia del verme uncino". pag 35 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Nel 1895 il fisico tedesco Wilhelm Konrad Roentgen (1845-1913) scoprì casualmente che i raggi emanati da un tubo catodico potevano attraversare lo scheletro e impressionare una lastra fotografica: in questo modo nasce la radiologia (la prima radiografia da lui fatta della mano della moglie, fece il giro del mondo). Naturalmente l'uso smodato dei raggi X senza nessuna protezione ebbe gravi conseguenze nei medici che li adoperarono senza conoscerne gli effetti lesivi (i radiologi morirono di radiodermite o di tumore). Un grande progresso nella radiografia si ottenne successivamente grazie all'americano Walter Canon (18711945) che introdusse l'uso dei mezzi di contrasto che permettevano di visualizzare organi altrimenti invisibili. Poi, gradualmente, vennero messe a punto nuove tecniche come l'ecografia (che utilizza gli ultrasuoni) cui seguirono la TAC e la Risonanza magnetica. Un'altra grande scoperta all'inizio del secolo, importante per la medicina e la chirurgia, fu la scoperta dei gruppi sanguigni ad opera del medico austriaco Karl Landsteiner (1868-1943). Grazie a questi si capì finalmente il meccanismo che rendeva incompatibile il sangue di soggetti diversi. Agli inizi del '900 furono fatte grandi scoperte anche in campo batteriologico: fu identificato il bacillo della difterite, furono scoperti diversi vaccini. Fu anche identificato - nel 1905 - dal tedesco Fritz Richard Schaudinn (1871-1906) il Treponerna Pallidum, agente eziologico della sifilide, malattia allora diffusissima; e questa fu una scoperta epocale. Alcuni anni dopo (1910) un bravissimo batteriologo, Paul Ehrlich (1854-1915), mise a punto per la prima volta un farmaco di sintesi (chemioterapico) capace di aggredire un germe: appunto il germe della sifilide. Egli si era reso conto che certi coloranti si legavano ai batteri, per cui pensò di trovare qualche sostanza che si legasse ai batteri e li uccidesse. Provò 606 composti e proprio l'ultimo di questi, a base di arsenico, si dimostrò efficace: lo chiamò Salvarsan. Essendo tossico fu poi sostituito dal Neosalvarsan, meno tossico. Nel frattempo entrano nella scena scientifica le donne, per esempio: - il fisico Marie Curie (1867-1934) che vinse due premi Nobel, uno per la fisica e l'altro per la chimica per le sue scoperte sulle radiazioni che vennero subito applicate per la cura dei tumori; - Gerthy Theresa Cori (1896-1984), biochimico, rumena, che studiò il ciclo dei pentoso fostati; - Helen Taussig (1898-1986); che studiò le malformazioni cardiache e indicò quali dovessero essere i trattamenti chirurgici da effettuare sui bambini affetti dal morbo blu (tetralogia di Fallot). Tra l'altro, intorno agli anni '50, il governo americano le diede l'incarico di scoprire la causa delle malformazioni congenite che colpivano un gran numero di bambini. La Taussig scoprì che alla base di tutto c'era il Talidomide, un sonnifero che le madri usavano durante la gravidanza Donne laureate in Filosofia: - Elena Cornaro Piscopio, Padova 1678; - Laura Bassi, Bologna 1732, che fu anche la prima cattedratica di una disciplina scientifica (Fisica Sperimentale: Bologna, 1776) pag 36 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Donne laureate in Medicina nel mondo: - Elizabeth Backwell, New York 1849 Donne laureate in Medicina in Italia: - Ernestina Paper, Firenze 1877 (originaria di Odessa). Primo anno a Zurigo (dove la prima donna medico si laurea nel 1867) - Maria Valleda Farnè, Torino 1878 - Anna Kuliscioff, Napoli,1887 - Maria Montessori, Roma 1894. In Sardegna: - Adelasia Cocco in Floris, Sassari 1913, - Caterina Lombardi di Bosa, Cagliari 1925 , pediatra. Agli inizi del '900, alla luce di nuove scoperte, fiorirono molte scienze tra le quali la vitaminologia e soprattutto l'endocrinologia, il cui fondatore fu Charles Edward Brown Sequard (1817-1894). La scoperta più importante in questo campo fu effettuata intorno agli anni venti a Toronto da Charles Herbert Best (1899-1978), Frederick Grant Banting (1891-1941) e John James R. Mac Leod (1876-1935) (gli ultimi due furono per questo insigniti del premio Nobel - 1923);essi scoprirono che il diabete, malattia diffusa e in quel tempo mortale, si poteva curare con l'insulina, ormone prodotto dal pancreas e da questo estraibile. Qualche anno più tardi e precisamente nel 1935, Gerhard Domagk (1895-1964) allievo di Erhlich, partendo da un derivato della anilina scoprì il prontosil-rubro, precursore di una classe di chemioterapici: i sulfamidici. Queste scoperte erano veramente importanti perché allora le malattie infettive decimavano la popolazione, tant'è che le aspettative di vita si aggiravano intorno ai 40 anni. Da qui l'importanza dei sulfamidici che, sebbene un po' tossici, furono subito prodotti su larga scala, anche perché la molecola di base, l'anilina, era un brevetto internazionale per cui la sua produzione non divenne un monopolio. Riguardo a quest'argomento dobbiamo dire che, qualche tempo dopo, un gruppo di scienziati dell'Istituto Pasteur di Parigi tra cui Federico Nitti (1905-1947) e Daniel Bovet ( 1907-1992), scoprirono il motivo per il quale i sulfamidici funzionavano in vivo e non in vitro (in coltura): per essere attivi infatti era necessario che una parte della molecola venisse sequestrata quando il farmaco entrava nell'organismo. Daniel Bovet, che fu poi professore di farmacologia all' università di Sassari ottenne (1957) il premio Nobel per gli studi sugli antistaminici. Nel frattempo, nel 1928, era stato scoperto il primo antibiotico: la penicillina. Il batteriologo Alexander Fleming (1881-1955) notò che in una piastra che aveva lasciato vicino alla finestra, si erano formate delle aree di inibizione in cui i germi non erano cresciuti. Pensò che ci potesse essere un qualcosa che aveva bloccato la crescita dei microrganismi, chiese quindi ad un collega di analizzare quella piastra e questi vi trovò un fungo; però nella prima analisi sbagliò e, invece del "Penicillum Notatum" (che effettivamente aveva un potere inibente sulla crescita dei batteri) identificò un altro Penicillum, non efficace. Fleming si accorse dell'errore e pubblicò il lavoro sul Penicillum Notatum, che però rimase come una sorta di cura biologica pag 37 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) tant'è che in quel periodo l'estratto di Penicillun veniva usato solo per pulire le colture di batteri, non come farmaco. Quando durante la Seconda Guerra Mondiale, fu necessario un farmaco utile per combattere almeno una parte delle numerose infezioni, fu dato l'incarico a Fleming, ad un chimico ebreo di origine tedesca Ernst Boris Chain (1906-1979), ed ad un medico australiano Howard Walter Florey (1898-1968), di far sì che quella sostanza diventasse un farmaco. Vennero impiegati allo scopo ingenti capitali ed al più presto si iniziò a produrre, in America, su larga scala, la Penici1lina (1941). Divenne però un monopolio degli alleati, per cui per averla, in Italia; si doveva pagarla "oro" al mercato nero. Dopo la Penicillina fu scoperto (1944) da Selman Abraham Wacksman (1888-1973) un altro antibiotico: la Streptomicina; questo farmaco risultò efficace contro il Micobatterio tubercolare e anche se tossico è ancora oggi usato. Questi sono anni di grandi progressi per la medicina: All'epoca in cui nacque i contraccettivi erano considerati un crimine in tutto il mondo. Margaret Sanger ( 1879-1966), sesta figlia in una famiglia cattolica di immmigrati irlandesi residente a Corning (New York), all'età di 19 anni, vide la madre, cinquantenne, morire di tubercolosi dopo 11 parti e sette aborti. Diventata infermiera, dedicò la sua vita a rendere legali le pratiche anticoncezionali e a renderle disponibili a tutte le donne. Nel 1914 coniò il termine: "controllo delle nascite" e cominciò subito a fornire alle donne informazioni sugli anticoncezional allora disponibili. Dopo diversi arresti e numerose condanne fondò la Lega Americana per il Controllo delle Nascite e spese i restanti trent'anni della sua vita nel tentativo di rendere disponibile un contraccettivo efficace e sicuro. All'inizio degli anni 50, tuttavia, malgrado le numerose battaglie vinte, Ella non era affatto soddisfatta degli anticoncezionali allora disponibili. Infatti dal 1842, anno in cui in Europa fu inventato il diaframmma e dal 1869, anno dell'introduzione del primo preservativo in gomma, non vi erano stati ulteriori progressi. Era dal 1912 che Margareth Sanger sognava la "pillola magica" in grado di assicurare alle donne una contraccezione economica e sicura. La sua ricerca ebbe termine quando, nel 1951, incontrò Gregory Goodwin Pincus (19031967) un medico esperto in riproduzione umana che era stato appena espulso dall'Università di Harward per aver pubblicato un libro sula fertilizzazione in vitro di uova di coniglio. Pincus, che era assai interessato al progetto dela Sanger e voglioso di metterlo in atto, era alla ricerca di fondi per poterlo realizzare. Poco dopo, la Sanger gli trovò una finanziatrice nella sua ricca amica Katharine McCormick (1875-1967), una delle prime donne al mondo, in possesso di una laurea in ingegneria. Nella sintesi degli ormoni , Pincus fu aiutato dai chimici Russell Marker and Carl Djerassi, mentre la sperimentazione clinica fu condotta, nell'isola di Portorico, dal medico cattolico John Rock (1890-1984). La loro collaborazione portò, nel 1960, alla realizzazione dell'Enovid, il primo contraccettivo orale. In Italia il controllo delle nascite venne legalizzato solo nel 1971. Georges Papanicolau (1883-1962) mise a punto un mezzo per la raccolta e la colorazione degli strisci vaginali (il Pap-test); grazie a lui la prevenzione dei tumori della cervice uterina fecero "passi da gigante". pag 38 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Gregory Pinkus (1903-1967) sperimentò la "pillola", il contraccettivo orale, che oltre agli indubbi benefici portò, del resto, alla liberalizzazione dei costumi sessuali. Scoperta dell'Anemia Drepanocitica (prima malattia molecolare), dovuta alla mutazione di una a.a. nella catena proteica delle Hb (Linus Carl Pauling, 19011994). Scoperta del modello a doppia elica del DNA (James Dewey Watson (1928-2004) e Francis Harry C. Crick 1916-1953). Altra importantissima scoperta fu quella dei mediatori chimici (Julius Axerold, Ulf Svante von Euler, e Bernard Katz). Negli anni '60 si inizio anche a parlare di trapianti d'organo. Il pioniere di questi interventi (ai primi del 900) fu uno scienziato francese, trapiantato in America, Alexis Carre1 (1873-1944) che riuscì a mantenere vive in piastra cellule umane e poi provò ad effettuare trapianti sugli animali. Il primo trapianto vero e proprio di cuore fu eseguito in Sudafrica nel 1967 da Christian Barnard (1922-2001) (trapianto di cuore); i primi da lui effettuati fallirono perché mancava la Ciclosporina (che fu introdotta verso il 1983): si tratta di un farmaco che inducendo immunosoppressione impedisce il rigetto (cioè l'aggressione dell'organo "nuovo" da parte del sistema immunitario del ricevente) per cui quei soggetti sopravvissero solo per poco tempo dopo l'intervento. In Italia il trapianto di cuore fu effettuato nel 1985 a Padova da Vincenzo Gallucci (1935-1991 ; il secondo a Pavia, nello stesso mese e nello stesso anno, da Mario Viganò che fece anche il primo trapianto riuscito di cuore-polmone ed il primo impianto di cuore artificiale permanente. Il primo trapianto di fegato, fu eseguito nel 1967 in Colorado e nel 1982 in Italia da Raffaello Cortesini. Inoltre è merito di una studiosa italiana Rita Levi Montalcini la scoperta del Nerve Growth Factor, importante fattore di crescita implicato tra l'altro nella prevenzione di certe malattie come l'Alzheimer; questa scoperta le permise di vincere il premio Nobel per la medicina. pag 39 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) FILOSOFIA MORALE La questione antropologica Sull’idea di natura umana, piatto ghiotto per il filosofo, s’addensano innumerevoli dibattiti, resi ancor più delicati dall’interrogativo su che cosa essa significhi e se sia possibile cambiare la natura umana. Intervenendo sull’uomo in maniera influente ma per molti aspetti ancora ignota quanto agli esiti e alle conseguenze, le biotecnologie postulano un’adeguata conoscenza di chi sia l’uomo e di che cosa egli abbia soprattutto bisogno. Ma proprio questo essenziale elemento è divenuto problematico, anzi particolarmente arduo da inquadrare. La più alta e complessa controversia, da gran tempo in corso e che accende gli animi ovunque, è appunto la controversia sull’ humanum. Sembra che quanto più le scienze cercano di stringere da presso la conoscenza dell’uomo, tanto più questa si divincoli e sfugga alla presa dei saperi scientifico-analitici, lasciando dietro di sé interrogativi e tensioni. Il crocevia dove scienza-tecnica e persona si incontrano è divenuto un incrocio problematico, nel quale le scienze cercano di trasmettere una nuova comprensione dell’umano. La sfida si era già dispiegata dinanzi all’occhio scrutatore di Pascal. “Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa comunicazione che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze astratte non si addicono all’uomo, e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondirne lo studio, che gli altri con l’ignorarle. Ho perdonato agli altri di saperne poco, ma credevo almeno di trovare molti compagni nello studio dell’uomo. Sbagliavo: son meno ancora di quelli che studiano le matematiche” (1). Sembrerebbe che la situazione contemporanea falsifichi l’assunto pascaliano, tante sono oggi le discipline e le scienze che si occupano dell’uomo. Ad una considerazione un poco più attenta risulta però che, a fronte di una grande varietà di saperi che si rivolgono ad aspetti dell’uomo – in particolare al corpo – si trova un grande vuoto quando si cerchi una considerazione interale dell’uomo. Nell’epoca dell’essor delle scienze umane di ogni tipo diventa ancor più vero dire che l’uomo è un essere sconosciuto che deve sempre e nuovamente venire riscoperto come ai tempi di Pascal. Questi propone l’impegnativa domanda antropologica pochi anni dopo l’infausta separazione cartesiana fra pensiero/mente e corpo/estensione, secondo cui l’io risiede nel pensiero e il corpo – affidato alla contingenza e all’inessenziale – è pronto per essere attribuito alla regia della scienza e a entrare nell’area del dominio tecnico. Il presupposto di non poche utilizzazioni recenti delle scoperte genetiche e biologiche può venire individuato con sicurezza nel dualismo cartesiano, molto comodo e altrettanto improbabile, e verso la pag 40 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) cui riproposizione occorre mantenere un’alta vigilanza intellettuale. La semplicistica divisione dei compiti fra scienza e filosofia – alla scienza la res extensa e alla filosofia il pensiero – è diventata un ostacolo al sapere, in specie a quello vertente sulla vita che si rifiuta nella maniera più totale a essere ridotta a mera estensione. Intanto un nuovo naturalismo è in cammino. Dal lato degli orientamenti della cultura occorre infatti considerare che la koiné naturalistica sta sostituendo nella cultura la koiné ermeneutica, rimasta in auge alquanto a lungo. Di questa tendenza è segno grande il tentativo di pervenire ad un’integrale naturalizzazione della mente/anima come parte di un processo indirizzato all’integrale naturalizzazione dell’uomo: l’uomo dunque risolto nella vita della physis, nel suo divenire evolutivo e cieco. Sembra crescente la persuasione che la concezione scientifica del mondo porterà necessariamente ad un paradigma antropologico apertamente naturalistico. Il progetto che fa da sfondo a varie espressioni della scienza e della filosofia attuale consiste nel riportare tutto l’uomo a res naturalis vitalis, cancellando in lui la res cogitans come fenomeno irriducibile al biologico. L’anima come ‘spettro nella macchina’ sarebbe solo il cattivo frutto nato da un dogma, la res cogitans cartesiana. In realtà non vi sarebbe alcuno ‘spettro nella macchina’ da cercare, nessuna anima come entità a sé da studiare, perché la psiche e i fatti psichici si riconducono soltanto a fisica. In questa linea viene a conclusione contraddittoria – grandiosa eterogenesi dei fini – l’aspirazione di Nietzsche a preparare l’avvento dell’oltreuomo (Ubermensch): quell’aspirazione non si è minimamente realizzata e ha dato invece l’avvio al suo contrario, alla diminuzione dell’uomo, alla produzione del sottouomo. Non dobbiamo sottovalutare il rischio che un esteso naturalismo antropologico conduca infine a un deciso nichilismo sull’uomo: l’uomo ridotto, l’uomo come “null’altro che”, infine l’uomo come prodotto casuale dell’evoluzione quale ultima parola dell’evoluzionismo nichilistico. Intanto si può sostenere che il naturalismo evoluzionistico rifiuta l’idea di essenza/natura come qualcosa di stabile e di ‘eterno’, spingendo così la filosofia a recuperare questo concetto. Larga parte della discussione morale e antropologica contemporanea scaturisce dagli sviluppi incalzanti delle scienze della vita e delle neuroscienze: stiamo assistendo ad una vera rivoluzione che concerne le sorgenti della vita e che potremmo chiamare rivoluzione del genoma e del DNA. Essa rimette in discussione le nozioni di identità (chi siamo come uomini? Chi sono io?), di rispetto della persona, di responsabilità verso se stessi e gli altri, che costituiscono la base della civiltà. Negli ultimi lustri si è imposta all’attenzione la ‘questione antropologica’, ormai prepotentemente affiancatasi alle classiche grandi questioni pubbliche che prendono pag 41 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) da tempo il nome di ‘questione istituzionale democratica’ e ‘questione sociale’, le quali hanno dato almeno in Occidente il tono a due secoli di storia. Rispetto a queste problematiche la questione antropologica presenta caratteri più radicali ed appare destinata a diventare sempre più pervasiva. L’uomo è messo in questione tanto nella sua base biologica e corporea quanto nella coscienza che forma di se stesso. E ciò non soltanto astrattamente, ma praticamente, perché le nuove tecnologie incidono sul soggetto, lo trasformano, tendono ad operare un mutamento nel modo di intendere nozioni centrali dell’esperienza di ognuno: essere generato oppure prodotto, nascere, vivere, procreare, cercare la salute, invecchiare, ecc. Se è vero che la più gelosa questione sollevata dalle bioscienze è quella antropologica, il nome finora universalmente impiegato di bioetica per denominare la riflessione sui temi di cui sopra, appare inappropriato perché tende a velare che buona parte degli interrogativi detti bioetici sono in realtà problemi non di morale ma di antropologia (e spesso anche di ontologia). Ora tanto le scienze della vita che trovano un punto di elezione nella genetica e nella biologia molecolare, quanto le neuroscienze sono nuclei meritevoli di particolare attenzione per i problemi antropologici che sgorgano dai due ambiti. Nel primo caso è in gioco la possibilità di pervenire, manipolando il genoma umano, ad una nuova forma dell’umano (l’espressione è volutamente indeterminata perché siamo alle prese con reali dubbi sulle possibilità e gli esiti delle manipolazioni genetiche), nell’altro emergono i problemi del funzionamento del cervello, dell’intelligenza artificiale, del rapporto fra mente e cervello (identità, differenza?) e quello non meno cruciale dell’anima e della psiche. Se in questo scritto ci dedicheremo al primo aspetto ciò è dovuto al fatto che mentre il dibattito sulle neuroscienze è da tempo avviato, quello sulla natura umana e la genetica appare più decisivo e forse meno avanzato. L’indirizzo generale metodico sarà di comprendere quanto sta accadendo, evitando l’atteggiamento della paura come quello dell’entusiasmo: neque lugere, neque ridere sed intelligere. Per comprendere occorre aggiungere che il discorso sulle biotecnologie chiama in causa i saperi, l’antropologia, in specie la filosofia. Quanto più avanza la scienza, tanto più indispensabile diventa la filosofia, oggi in specie una filosofia che si allontani dallo spensierato orientamento antiessenzialistico che predomina alla grande in filosofia e nelle scienze, sul quale osserva Jonas: “L’antiessenzialismo della teoria dominante che conosce solo i risultati de facto della casualità evoluzionistica e non conosce alcuna essenza valida, che li possa sanzionare, affida il nostro essere a una libertà senza norme” (2). Il rifiuto apriorico delle essenze, equiparate a un suono (flatus vocis) senz’altro significato, è atteggiamento diffuso, mentre l’antiessenzialismo altro non è che una forma di pag 42 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) nichilismo. Abbiamo perciò estremo bisogno di un rinnovato sapere sulla natura dell’uomo e sul suo posto nell’universo. Non si tratta di svolgere un discorso primariamente religioso, sebbene anche la religione possa intervenire nell’ambito biotecnologico e antropologico con le sue prospettive. L’approccio alla ‘bioetica’ tramite l’idea di natura umana appare ‘laico’, se vogliamo far ricorso a questo aggettivo alquanto usurato e polisenso almeno nel contesto culturale italiano: laico dovrebbe significare razionale, fondato sulla cosa stessa, ontologico. Dopo aver scelto il titolo della mia relazione, mi sono reso conto che col riferimento alla natura umana esso richiama quello di due notevoli saggi recenti di J. Habermas e di F. Fukuyama. Il titolo del primo suona: Il futuro della natura umana e l’altro “L’uomo al di là dell’uomo” (traduzione dell’originale inglese: Our posthuman future). L’evento conferma che nelle tecnologie della vita è in gioco il significato stesso di uomo e di natura umana, qualcosa che concerne l’autocomprensione del genere, l’antropologia prima ancora che l’etica. Gli esiti collegati non potranno non esercitare un profondo e per ora poco prevedibile influsso sulla politica: è possibile che le conseguenze dell’impiego delle biotecnologie siano ben superiori a quelle accadute col crollo del muro di Berlino. Negli approcci di Habermas e Fukuyama, nati in contesti culturali diversi e avendo alle spalle prospettive filosofiche e antropologiche forse lontane, la domanda centrale suona all’incirca: il concetto di natura umana che si ritiene rilevante tollera o meno che l’uomo sia costruibile e dunque manipolabile entro confini volta a volta determinati? Tale questione ne introduce un’altra che non sempre emerge in maniera diretta ma che influisce sull’intero dibattito: è possibile cambiare la natura umana? Desidero attirare l’attenzione sul fatto che essa di per sé solleva una questione di possibilità ontologica, non di liceità morale. La domanda, se è imposta dalle applicazioni biotecnologiche all’ambito delicato e antropologicamente geloso dell’embrione, della fecondazione extracorporea, dell’intervento sul genoma umano, genera problemi di alta complessità per il cui schiarimento sembra impossibile non ricorrere alla riflessione filosofica sull’uomo e al concetto di natura umana. Nell’ ‘800 si era ancora persuasi di ciò e di conseguenza il filosofo morale responsabile componeva trattati di antropologia in ausilio della scienza morale e della politica. Con l’ingresso del nichilismo speculativo, di cui costituisce una manifestazione l’essor del pensiero debole, non si ritengono più possibili risposte filosofiche solide ai temi della vita buona, della natura umana, di un’etica sostantiva e non soltanto procedurale e formale (3). Un ‘debolista’ di classe quale è J. Habermas cerca da almeno vent’anni di promuovere questa prospettiva che implica una diversa autocomprensione dell’uomo e della filosofia: “Oggi, superata la metafisica, la filosofia non crede più in risposte vincolanti sulle questioni della condotta di vita, personale e collettiva che sia” pag 43 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) (p. 5). La filosofia “si limita a indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti. Certo tutto questo può sembrare deludente. Ma che obiezioni potremmo mai sollevare contro questa astensione ben giustificata?” (p. 7). Dinanzi a questa corriva rinuncia - cui curiosamente contravviene Habermas stesso che di fatto nelle pagine successive difende posizioni sostantive - si fa più chiaro che le questioni sollevate dalle biotecnologie richiedono di porre nuovamente la domanda sulla natura umana, senza risparmiarci alcune necessarie spese intellettuali. La riflessione scientifica e filosofica non sa però come farlo: anzi sussistono al presente obiezioni così forti contro tale concetto che potrebbe forse convenire chiudere il dossier e allontanarci in silenzio. E’ perciò ancor più significativo che Habermas e Fukuyama lo richiamano in servizio, il primo già nel titolo: ma con quali modalità? Qui le vie tendono a divergere; per rendercene conto è opportuno ripercorrerle in modo succinto. Successivamente svolgeremo qualche spunto sulla natura umana, adottando una riflessione ontologica sull’uomo, non un cammino di antropologia filosofica. I due approcci risultano notevolmente diversi. La riflessione ontologica è più sobria, incisiva, capace di stabilire i limiti – molto vasti – entro cui si muove la complessità dell’uomo, mentre l’antropologia filosofica è disciplina dallo statuto alquanto incerto e ondivago. Socrate e i suoi molti successori erano interessati all’uomo, non all’antropologia filosofica, ambito novecentesco che può esibire caratteri variabili dal conservatorismo al progressismo, e che è spesso connesso a filosofie della storia altrettanto diversificate. Di gran lunga precedente all’antropologia filosofica, la riflessione ontologica sulla natura umana non nutre nostalgie dell’uno o dell’altro tipo. Standosene alla ‘oggetto’ essa apre il significato di che cosa sia esser uomo e quali siano le sue possibilità, quale sia l’umanità dell’uomo. Tenta di rispondere alla domanda: che cosa fa dell’uomo un uomo? Quanto manca crudelmente alla bioetica è proprio questa riflessione che - individuando nell’umano il “fondamentale” e lo “storico” e percependo che le quasi illimitate manifestazioni storiche dell’umano sono possibili solo entro i limiti di campo stabiliti dal fondamentale - può delineare i tratti comuni e universali dell’uomo, ossia costanti antropologiche e inclinazioni umane basali che fluiscono dalla natura umana e che stabiliscono il confine fra ciò che è umano e quanto umano non è. Habermas: un approccio etico per stabilire il futuro della natura umana Qualificandosi come postmetafisico, il pensiero habermasiano adotta due esclusioni coerentemente dichiarate: l’esclusione della trascendenza, la riluttanza a ricorrere ad pag 44 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) un concetto ontologico di natura umana. Qui ci occuperemo solo del secondo aspetto. La bioetica postmetafisica ha percepito che i problemi detti bioetici sono spesso più propriamente problemi antropologici, ma non ritiene percorribile la strada di un approccio ontologico all’antropologia: piuttosto quello di un cammino etico, significativo ma forse insufficiente per evitare che la scienza sia ritenuta l’unica forma di conoscenza e che la natura umana sia sottoposta ad un continuo processo di ridefinizione (4). Esula dai miei scopi l’esposizione compiuta delle posizioni di Habermas: ci concentreremo sui due casi, cui egli destina adeguato spazio, costituiti dalla diagnosi di preimpianto sull’embrione e dagli interventi di modificazione del genoma. Essi aprono scenari nuovi la cui rilevanza morale “oltrepassa ampiamente la sostanza delle tradizionali questioni politiche” (p. 19), e richiede attenti e lenti processi di rischiaramento normativo sottratti alle pressioni degli interessi e delle preferenze. Questi viceversa pesano per l’autore in un’eugenetica liberale che “trascurando ogni differenza fra interventi terapeutici e interventi migliorativi – rimette alle preferenze individuali degli utenti del mercato il compito di definire gli obiettivi degli interventi correttivi” (p. 22). Nel caso del test preimpianto sull’embrione l’autore chiede se sia compatibile con la dignità della vita umana l’essere generato con riserva, cioè giudicato degno di vita e di sviluppo, oppure no, in base agli esiti di una prova genetica. Nel caso della manipolazione genetica si domanda se essa non tocchi la stessa identità di genere, e non intacchi la distinzione fra ciò che è spontaneamente cresciuto e ciò che è prodotto tecnicamente. Dalle due questioni emergono altre fondamentali domande, ossia 1) se l'insieme di questi processi non cambi la nostra comprensione etica del genere; 2) se la conoscenza ex post della programmazione genetica del proprio patrimonio ereditario effettuata da altri non riduca gli spazi creativi della propria autonomia individuale negando al soggetto di considerarsi l’autore indiviso della propria vita, e comprometta le relazioni idealmente simmetriche fra persone e libere e uguali. “Stiamo chiedendoci se possiamo giustificare la tutela di predisposizioni genetiche integre, non manipolate, facendo appello alla indisponibilità dei fondamenti biologici della nostra identità personale. La tutela giuridica potrebbe trovare espressione in una sorta di ‘diritto a un patrimonio genetico non compromesso da interventi artificiali’. Un diritto che è già stato proposto dal Consiglio di Europa e che non pregiudicherebbe affatto la liceità di una eugenetica negativa fondata in sede terapeutica” (p. 29). Secondo l’autore l’ingegneria genetica potrebbe “modificare la nostra autocomprensione di ‘esseri di genere’, nel senso che essa potrebbe intaccare, assieme alle moderne concezioni del diritto e della morale, anche i non aggirabili fondamenti normativi dell’integrazione sociale” (p. 29). Conseguentemente pag 45 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) egli fa appello all’indisponibilità dei fondamenti biologici della nostra identità personale. Perciò la strumentalizzazione della vita embrionale - quale emerge nell’idea che il nuovo concepito è generato con riserva e ammesso alla vita dopo un test genetico – “mette a rischio quella autocomprensione etica del genere che è discriminante per poter decidere, anche rispetto al futuro, se noi vogliamo continuare a intenderci come esseri che agiscono e giudicano in termini morali” (p. 71). In genere un grave problema soggiacente è se sia lecito cambiare il mix finora vigente di naturale e di volontario, spostando il confine fra caso e decisione; e di rischiare nel test preimpianto, “la strumentalizzazione di una vita umana – generata con riserva – rispetto alle preferenze e agli orientamenti di valore nutriti da terzi” (p. 33). Ciò violerebbe per Habermas l’obbligo reciproco che gli uomini come membri di una comunità morale si danno vicendevolmente, obbligandosi l’un l’altro e accettando una simmetria di relazioni. In altre parole gli esseri umani non sono individualizzati solo dalle sequenze del DNA ma pure dal processo di socializzazione: “Solo nella sfera pubblica di una comunità linguistica, l’essere di natura si costituisce come individuo e come persona dotata di ragione” (p. 37). Processo di costruzione sociale dell’io, cui Habermas attribuisce più rilievo che Fukuyama. La critica del liberalismo eugenetico da parte di Habermas non si indirizza alla valenza terapeutica delle biotecnologie, ma a quella programmatoria e decisoria di interventi ‘migliorativi’. Il perno dell’argomentazione risiede nel fatto che l’intervento migliorativo rischia di alterare quell’uguaglianza casuale della nascita cui tutti i cittadini devono l’inizio del loro esclusivo destino di socializzazione. Mantenendo giuridicamente indisponibile la casualità della nascita, i cittadini si garantiscono uguaglianza di accesso alla comunità ideale dei soggetti morali e alla comunità reale dei cittadini. La peculiarità del discorso habermasiano risiede nell’assunto che su piano morale nonostante i vantaggi che le biotecnologie arrecano - non ci sono sufficienti motivi per pagare il prezzo alto che esse esigono. Egli ritiene che la grande spinta per un uso disinvolto della tecnica in ogni campo della vita, non esclusi i fondamenti biologico-genetici della specie umana, stia sollevando e debba sollevare una reazione riflessiva che si confronti con le nuove tecniche e individui nuclei umani indisponibili all’oggettivazione tecnologica. Egli chiede: “possiamo considerare l’autotrasformazione genetica della specie come un mezzo per accrescere l’autonomia individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio l’autocomprensione normativa di persone che conducono la loro vita portandosi mutuo ed ugual rispetto?” (p. 31). In Habermas assume speciale rilievo un’etica del genere che assume come primari i temi dell’uguaglianza e della reciprocità. pag 46 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Il problema dell’uguaglianza umana verrà infatti reso assai più acuto dalle pratiche prenatali tanto di prevenzione della nascita di un bambino tarato, quanto di eugenetica in cui si procede a selezionare e ‘migliorare’ l’esito (il bambino). In effetti con la diagnosi pre-impianto sull’embrione, alcuni singoli si arrogano il diritto, che loro non compete, di stabilire che cosa è degno di vivere e che cosa no. Inoltre “Se si accetta come normale la generazione e l’impiego di embrioni ai fini della ricerca medica, si trasforma anche la percezione culturale della vita umana prenatale, con il risultato di rendere sempre meno affilato il sensorio morale che stabilisce i limiti entro cui far valere il calcolo ‘costi-benefici’. Oggi noi avvertiamo come oscena questa prassi di reificazione. Ci chiediamo anzi se vorremmo davvero vivere in una società in cui il rispetto narcisistico per le preferenze personali venga affermato al prezzo di un’insensibilità verso i fondamenti normativi e naturali della vita” (p. 23). Il fatto è che l’alterazione, sia pure migliorativa, del genoma, e la programmazione eugenetica introducono nuove forme di disuguaglianza fra gli uomini. Conseguentemente l’autore suggerisce l’indisponibilità dei fondamenti genetici della nostra esistenza corporea (p. 25) e sostiene il diritto a un patrimonio genetico non manipolato, per cui sono possibili interventi ‘negativi’ di tipo terapeutico e non interventi ‘positivi’ di manipolazione e alterazione. Ciò presuppone una condizione data o naturale del genoma, e un recupero almeno parziale del concetto di natura umana, che l’autore opera differenziando in senso nettamente antistoricistico e antidebolistico natura (umana) e cultura, la prima universale e la seconda invece chiaramente situata: “Non si tratta dunque della cultura che è in ogni luogo diversa, bensì dell’immagine che le diverse culture si fanno dell’uomo: di quell’uomo che è in ogni luogo identico a sé sul piano della universalità antropologica” (p. 41). E’ notevole che l’assunto habermasiana vada in direzione opposta alle posizioni che intendono l’idea di natura come irrimediabilmente culturale e situata. La preservazione del genoma umano adombrata nelle posizioni suddette può essere considerata come un’istanza morale normativa di rispetto dell’essenza umana, seppure quest’ultimo termine venga raramente impiegato. Essa introduce un dubbio fondato sulla possibilità di rispettare la dignità umana se accettiamo di manipolare le sue basi genetiche e biologiche. Fukuyama: il tentativo ‘neoaristotelico’ di ristabilire il concetto di natura umana In Our Posthuman Future (trad. it. L’uomo oltre l’uomo, cui ci riferiremo) F. Fukuyama elabora la sua prospettiva sulle biotecnologie, imperniandola attorno al concetto di natura umana che assume importanza reggente nella sua prospettiva. Negli intenti dell’autore l’argomentazione vuole seguire il modello aristotelico di dissertazione in pag 47 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) merito alle questioni di natura e di politica (p. 21). Muovendosi in senso contrario all’antiessenzialismo prevalente, l’autore non rifiuta a priori i concetti di natura umana e di diritto naturale: “La natura umana esiste, è un concetto pregnante e ci ha fornito un elemento di continuità nella nostra evoluzione come specie. Insieme alla religione, rappresenta ciò che definisce i nostri valori fondanti. La natura umana attribuisce la forma e stabilisce i confini dei tipi possibili di regime politico, quindi una tecnologia abbastanza potente da rimodellare ciò che siamo può dar luogo a conseguenze perniciose per la democrazia liberale e per la stessa natura della politica… Sebbene vi fossero forti divergenze fra chi cercava di definirla [la natura umana], nessuno contestò mai la sua importanza come fondamento dei diritti e della giustizia. Sostenitori del concetto di diritto naturale furono i padri fondatori degli Stati Uniti…Negli ultimi cento o duecento anni, però, tra gli intellettuali e gli accademici di filosofia questo concetto è caduto in disgrazia” (p. 14 e p. 22). Oltre Fukuyama allude al “pregiudizio contemporaneo contro il concetto di natura umana” (p. 23), e alla possibilità che le biotecnologie ce la facciano perdere: “Ma in che cosa consiste questa essenza umana che potremmo rischiare di perdere? Per un fedele potrebbe essere un dono divino, la scintilla con cui nascono tutti gli esseri umani. Da un punto di vista laico, invece, si potrebbe trattare di qualcosa che appartiene alla natura, cioè le sue caratteristiche tipiche condivise da tutti gli esseri umani in quanto tali. In fin dei conti questa è la posta in gioco nella rivoluzione biotecnologica” (p. 140), e con essa la stessa base del senso morale umano. Se è frequente assegnare scarso rilievo a parole all’idea di natura umana, quando ci troviamo impegnati a dibattere questioni di diritti e di politica, presupponiamo l’esistenza di un’essenza/natura umana universale e immutabile quale base naturale o fondamento dei diritti naturali. “Anche se i circoli filosofici accademici danno poco credito a concetti come quello dei diritti naturali, gran parte della nostra attività politica si fonda sull’esistenza di un’ ”essenza” umana immutabile di origine naturale, o meglio, si basa sulla nostra convinzione che tale essenza esista” (p. 296). La scelta metodica di non poter emarginare l’idea di natura umana merita una sottolineatura, anche in rapporto alla scelta diversa praticata sino a pochi anni fa dalla filosofia politica di un Rawls, di un Dworkin fondata su un approccio procedurale e contrattualistico. Esso, forse idoneo per i bisogni di un pensiero volto a problemi politici usuali, si manifesta in seria difficoltà nell’affrontare i dilemmi proposti dalle biotecnologie, che richiedono un ri-aggancio all’idea di natura e un allontanamento dalla prospettiva kantiana. Questa, in cui complessivamente si manifesta un rapporto disturbato con la natura, procedendo a separare natura e libertà, assume che l’etica opera realmente solo quando volontà e libertà si esprimono separatamente dalle inclinazioni della natura (umana). pag 48 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) L’elaborazione filosofica dell’idea di natura umana non si spinge peraltro molto in là nelle pagine di Fukuyama, per cui il richiamo ad Aristotele appare forse sovradeterminato. Non vi è infatti ricorso all’analisi ilemorfica e alla categoria essenziale di forma, necessaria per stabilire il concetto di natura: la teoria darwiniana che nessuna specie è portatrice di un’essenza particolare significa appunto cancellare le forme specifiche. “La definizione di ‘natura umana’ cui farò riferimento in queste pagine è la seguente: la natura è la somma delle caratteristiche e dei comportamenti tipici della specie umana, originati da fattori genetici piuttosto che ambientali” (p. 177s). In questo approccio orientato al gene e che con la tipicità chiama in causa la statistica, l’idea di natura umana in Fukuyama pare ricondursi ad una sommatoria di fattori certo notevoli ma che nella loro molteplicità e dispersione non sembrano in grado di designare l’essenza/natura, richiamando invece sue manifestazioni operative di vario genere. Impiegando la concettualità aristotelica, la determinazione di Fukuyama sembra includere tanto proprietà essenziali come il linguaggio, la razionalità, il senso morale, quanto proprietà accidentali come la statura, il peso, il colore della pelle, la maggiore o minore loquacità. Un’elaborazione più approfondita dell’idea di natura (umana) dovrebbe a mio parere richiamare in servizio le prospettive di Aristotele e di Tommaso, riprese dalle rispettive tradizioni, almeno secondo due direttrici: a) l’assunto secondo cui la natura è un invariante che stabilisce i caratteri essenziali del genere umano, include un elevato grado di universalità e difende un carattere cui come uomini siamo legati, ossia che tutti partecipiamo a qualcosa di comune, di invariante, di metaculturale; b) l’idea di natura (e di vita) come principio immanente di autocostruzione e di automovimento (5). La seconda accezione sembra applicarsi validamente alle attuali scoperte genetiche dove il genoma appare come un codice interno di autocostruzione e di ‘programmazione’ dell’individuo, qualcosa che concerne il lato della ‘forma’ e che potrebbe favorire il superamento del paradigma deterministico. In effetti la struttura genetica dell’uomo rappresenta non una forma che ci determina in un solo modo (determinatio ad unum), ma una forma che schiude un campo di possibilità, un ventaglio di linee aperte, e che verrà orientato e ulteriormente determinato dalla libera attività del soggetto. Non dunque un soggetto ricondotto al determinismo genetico di chi sostiene che noi siamo i nostri geni, gradino estremo di un processo riduzionistico che dapprima riduce l’uomo a corpo, e successivamente il corpo al genoma. Un concetto di natura umana non-ontologico e non-universalistico ma di tipo esclusivamente storico e culturale è esposto al serio svantaggio di non essere universalizzabile, di poter lasciare nelle mani dei potenti di turno lo stabilire chi appartiene alla natura umana e chi no. Nella presupposta riduzione storico-culturale pag 49 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) dell’idea di natura umana si individua un limite maggiore del “Manifesto di bioetica laica” pubblicato nel 1996: “Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine fra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea di natura… i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che è naturale e ciò che naturale non sarebbe” (Il sole-24 ore, giugno 1996, p. 27). Al di là dell’uso equivoco del termine ‘natura’, nel testo al concetto di natura si sottrae ogni oggettività e normatività, sostenendo che essa sia totalmente culturale, dipendente soltanto dalle scelte e dai valori degli uomini. Il problema del rapporto fra natura e cultura è dunque segato alla radice. Poiché la natura umana è in ipotesi un costrutto culturale e storico, non esisterà nulla di naturale e nulla di innaturale, ma tutto sarà convenzionale e storico: siamo dinanzi ad una forma esplicita di “nichilismo delle essenze”. Nell’intento di dissolvere le essenze si manifesta infatti un volto fondamentale del nichilismo, cui si è già alluso (6). Tale nichilismo delle essenze si può anche chiamare un ‘antinaturalismo’ oppure un ‘denaturalismo’, intendendo appunto con ciò la posizione filosofica che ritiene nullo e privo di senso il concetto di natura/essenza, come accade nelle posizioni nominalistiche, empiristiche (Hume), dualistiche secondo il dualismo Sein-Sollen (Kelsen). Difficilmente potrà essere recuperata la nozione autentica di essenza senza oltrepassare la razionalità pragmatica, strumentale e debolistica che oggi viceversa prevale. Osservo inoltre che nella posizione dipinta sono contenute le premesse per abolire la differenza fra malattia, salute, terapia (su ciò più avanti). La natura umana e l’impossibilità di cambiarla Sotto questo titolo affrontiamo una questione filosofica decisiva, il che significa moltiplicarne le difficoltà se si considera che l’orientamento delle numerose e contrapposte scuole filosofiche contemporanee si unifica nella diffusa propensione scettica. La riflessione sulla natura umana non sfugge a tale temperie, di cui anzi sembra soffrire in modo particolare in quanto produce crescenti difficoltà teoretiche, che bloccano l’argomentazione razionale e finiscono per addossare le decisioni sulle biotecnologie alla scienza, alla politica, al diritto. E’ nelle biotecnologie problema scottante, sotteso ad ogni discussione su di esse ma spesso alluso solo di sbieco e senza che sia oggetto di una discussione in pari con il suo rilievo, se sia possibile cambiare la natura umana. La modernità può essere letta in vari suoi aspetti come un tentativo di cambiare o andare contro inclinazioni fondamentali della natura umana, nel comunismo mediante l’abolizione della proprietà privata e nel tentativo di pag 50 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) far prevalere la solidarietà di classe contro quella del gruppo familiare, nelle biotecnologie con l’intento di pervenire all’oltreuomo trasformando la natura umana. A questo crocevia si materializza l’interrogativo sulla trasformabilità dell’uomo, in merito al quale una risposta può essere trovata solo se le domande giuste sono state formulate. Ora sembra che perfino la domanda sia diventata difficile nel senso che l’idea di natura umana, che ha forti radici nel senso comune e che è poi elaborata filosoficamente, è diventata qualcosa di estraneo su cui l’accordo è raro e il disaccordo frequente: in larga parte della cultura scientifica e filosofica paiono mancare i presupposti minimi per poter impostare con speranza di successo l’argomento. D’altra parte la diffidenza contemporanea verso il concetto di natura umana non ha ragione di esistere, una volta che si è determinata la natura umana in modo adeguato tramite una determinazione essenziale capace di ospitare una grande varietà di comportamenti. L’uomo pratica il mestiere di cercatore e cacciatore delle essenze molto più frequentemente di quanto si pensi e – più curiosamente ancora – continuerà a praticarlo contro ogni invito scettico e utilitaristico di smettere un tentativo considerato inutile, superato, sterile. Non verrà mai il tempo in cui non chiederemo più “che cosa è l’uomo?” Una volta afferrata l’idea di essenza, si percepisce che le essenze sono immutabili, ‘eterne’, non soggette alla presa della volontà di potenza e di trasformazione. Se l’uomo è un essere dotato di logos (ragione e linguaggio), se è un animal rationale, intuiamo agevolmente che sino a quando ci sarà l’uomo, egli avrà queste qualità essenziali; e che è del tutto impossibile trasformare l’uomo togliendogli tanto la ragione quanto il linguaggio. Che le essenze siano eterne e immutabili significa esattamente questa impossibilità, la quale rilancia però la domanda su che cosa nel soggetto umano è aperto alla trasformazione biotecnologica. All’indagine si aprono tre cammini. 1) Possiamo mutare un gran numero di elementi ‘accidentali’, ossia elementi che fanno parte dell’uomo, ma non ne stabiliscono l’essenza, quali sono la statura, il grado di intelligenza, il colore degli occhi, il sesso, la magrezza o la grossezza, la velocità dei movimenti, ecc.. Dio mi guardi dal sostenere che accidentale significhi secondario e ininfluente! Un uomo privo di molte malattie di origine genetica e dotato di memoria acuta e di gradevole aspetto si trova avvantaggiato rispetto ad un altro senza tali proprietà. Molte qualità dunque che definiamo col linguaggio preciso della filosofia come accidentali, rivestono per noi e per gli altri massimo rilievo, ma il loro mutamento non provoca un cambiamento di natura, non produce una trasformazione sostanziale, cioè un cambiamento da un ente-sostanza a un altro ente-sostanza appartenente ad un diverso genere. Sostenere l’immutabilità delle nature non significa minimamente negare il mutamento, la trasformazione e il loro impatto sulla nostra vita, ma neanche significa pag 51 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) accogliere l’idea che mutamenti di quantità a un certo momento si ribaltino in mutamenti di qualità, ossia di essenza. 2) Un’altra importante linea di argomentazione concerne il livello morale, dove l’intervento delle biotecnologie sull’uomo può generare una diversa sensibilità morale, non nel senso di mutare oggettivamente la linea che divide bene e male, ma di cambiarne la percezione che ne abbiamo, variando la nostra attenzione etica. Trasformazioni accidentali dell’uomo possono alterare il senso morale fondamentale che portiamo in noi, ossia accentuare, indebolire o colorare diversamente le inclinazioni basali inscritte in noi e che sono alla base della moralità. Ciò può accadere rinforzando alcune inclinazioni (ad es. l’inclinazione a persistere nell’esistenza con l’allungamento della vita) e indebolendone altre come l’inclinazione a conoscere la verità. Oltre al problema di acquisire conoscenza della eventuale relazione causale fra geni e inclinazioni, si pone quello di mantenere desto il moral sense, evitando che differenze indotte biotecnologicamente snaturino il senso di uguaglianza di natura, di rispetto dell’altro, di desiderio di conoscenza, di sentimenti di giustizia, di pietas per il debole, che sono propri dell’uomo; in certo modo quella che Habermas chiama l’autocomprensione etica del genere. 3) Con trattamenti del genoma è possibile influire sulle relazioni umane e quelle sociali, modificando le differenze fra individui e cambiando la percezione che il soggetto ha di se stesso come singolo e nel rapporto con gli altri. Il fatto è che risulta possibile impiegare in modo ancipite le tecnologie genetiche, per aumentare le differenze oppure per diminuirle, per una politica razzista e antiegualitaria alla Nietzsche oppure per una politica egualitaria giacobina. Nel primo caso col ricorso all’eugenetica potenziante arriveremo finalmente a dare concretezza alla profezia nicciana dell’Ubermensch, finora sempre smentita, nella versione del superuomo genetico? E con l’altro arriveremo agli schiavi felici tutti uguali? L’influsso politico e sociale delle biotecnologie apre un campo immenso e per ora poco battuto, che si affianca a quello altrettanto delicato delle conseguenze morali delle trasformazioni biotecnologiche. Pur senza assumere che i soli mutamenti del soggetto siano dovuti alla linea genetica, nelle trasformazioni genetiche vi saranno geni la cui manipolazione condurrà a trasformazioni accidentali lievi dell’uomo; e altri geni la cui manipolazione produrrà trasformazioni accidentali profonde dell’uomo: pensiamo ipoteticamente a manipolazioni che incidano sulla forza della mente e le abilità cognitive, oppure sull’inclinazione sessuale. La plausibilità tecnica di queste prospettive rilancia il tema della loro liceità. Ma che dire quando con mix fra corredo genetico umano e non umano si creerà – come evento certo del tutto ipotetico – una chimera? In tal caso non vi è stata alcuna trasformazione della natura umana che di essa conservi pag 52 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) qualcosa di riconoscibile, ma suo abbandono. Si è prodotta una trasformazione sostanziale il cui esito è un ente non-umano, che non partecipa più della natura umana in quanto dotata di ragione, linguaggio, senso morale, ecc. La ‘morale della favola’ è che cambiare la natura umana non è possibile, abbandonarla sì (7). L’aver stabilito che non si può cambiare la natura umana potrebbe avere l’esito paradossale del quietismo: non preoccupiamoci di come andranno le cose perché comunque avremo sempre a che fare con uomini, non potremo evadere dalla natura umana! Esito infausto in quanto se non possiamo cambiare l’essenza umana, diventa proprio allora acutissima la domanda sull’entità dell’intervento manipolativo ‘accidentale’ che è lecito praticare. Poiché esso è l’unico alla nostra portata, ci interpella più che mai. Ed è a questo crocevia che sorgono gli interrogativi più decisivi: quali criteri dovranno regolarlo? Chi è abilitato a intervenire? Solo i singoli o anche la società politica tramite regolamentazioni? Ricerca sugli embrioni umani, loro produzione a scopi riproduttivi e/o terapeutici, creazione di cellule staminali embrionali con distruzione di embrioni, utilizzo dei cosiddetti embrioni sopranumerari, clonazione di ogni tipo e scopo: ognuno di questi punti scottanti alla confluenza di intenti di conoscenza scientifica, scopi terapeutici, corposi interessi economici, consiglia interventi legislativi propri della responsabilità politica, che facciano perno su valori e diritti riconoscibili ai soggetti impegnati nel processo biotecnologico. Ed è su questi aspetti che ferve la battaglia bioetica in tutto il mondo, nel confronto fra posizioni libertarie permissive, posizioni che pongono limiti ricorrendo alla leva di un’etica della responsabilità anche collettiva, posizioni ispirate da una morale utilitaristica in cui il fine giustifica i mezzi, posizioni ontologiche che individuano nuclei indisponibili i quali non possano essere assoggettati al criterio dell’utile e della convenienza terapeutica per altri. Per quanto concerne l’ingegneria genetica le domande suonano: in che senso i fondamenti genetici della nostra natura corporea sono indisponibili? Esiste un diritto naturale ad un patrimonio genetico non manipolato? Un diritto naturale tanto della specie quanto dell’individuo? Qual è il grado di determinismo genetico che si profila in base agli esiti delle scienze? Uno dei maggiori rischi dell’eugenetica liberale è la richiesta di allentare i controlli in favore dell’autonomia individuale, che spesso conduce al piano inclinato del ‘fai da te’, in cui potrebbe affermarsi l’idea che ogni trasformazione accidentale è lecita perché non muta la natura umana. In realtà molti altri fattori possono intervenire nella valutazione etica, legati al rapporto con gli altri e ai valori fondamentali che devono essere rispettati. Una trasformazione accidentale innocente sembra quella concernente l’aumento di statura. Eppure non può essere concessa senza beneficio di inventario perché soggetti differenziati in statura molto al di là delle normali differenze naturali possono dar origine a pericolose discriminazioni. Il gruppo di pag 53 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) coloro che sono altissimi per manipolazione può sviluppare sentimenti di superiorità e di dominio verso gli altri e viceversa questi sentimenti di soggezione e al limite di sudditanza verso gli alti. Affermare ‘io sono mio e faccio di me quello che voglio’ è un’espressione antisociale che le biotecnologie potrebbero rendere frequente. Oltretutto è prevedibile un incremento di difficoltà per l’io: difficoltà a raggiungere un’unità di senso della propria vita, a mettere insieme i suoi pezzi in modo che compongano uno schema unitario. I problemi di identità sono fra i più complessi, ed è diagnosticabile un loro aumento in un soggetto che già ora spesso appare psicologicamente labile e frammentato, e che si troverà a fronteggiare nuove sfide alla percezione della sua identità. Persona e unità dell’uomo L’analisi svolta ha chiamato in causa il concetto di natura umana, lasciando però nello sfondo quello di persona e la domanda sull’unità dell’uomo, su cui un richiamo appare ora necessario, dal momento che le trattazioni antropologiche e morali sulle biotecnologie sembrano dimenticarli o comunque assumere come allant de soi la completa separabilità fra corpo e anima. Questa separabilità induce a trascurare l’indagine concernente i riflessi della manipolazione corporea sulla vita della psiche. In proposito si verifica come una visione antropologica ipersemplificata diventa un via libera etico ad intervenire sull’uomo, ponendosi di fatto come un’autorizzazione al dominio delle biotecnologie sulla dimensione corporea. Chi è l’uomo e che cosa la persona? su questi temi la storia della filosofia ha percorso un cammino di progresso dai Greci a noi, in cui centrale è stato l’apporto della riflessione biblico-cristiana. Infatti nella nota definizione aristotelica che suona: homo est animal rationale (Zoon logon echon), l’uomo è definito mediante il genere prossimo e la differenza specifica e perciò con l’intento di determinare l’essenza o natura umana, in una maniera che forse non rende pienamente ed esplicitamente ragione della sua originalità e non-assimilabilità ad elemento del cosmo. Dopo l’avvento del cristianesimo incontriamo in Boezio la prima decisiva determinazione della persona: rationalis naturae individua substantia. Aristotele definisce l’uomo mediante il riferimento alla sua natura/essenza, Boezio la persona nella sua sostanzialità spirituale, ossia nella sua identità metafisica inoltrepassabile, come qualcosa di originale e di irriducibile ad altro, al cosmo. Tuttavia le due determinazioni si collegano nel senso che la prima incammina verso la seconda, poiché è proprio della natura umana individuata in un singolo l’essere persona. Ogni essere che è dotato di natura umana e appartiene per la sua dotazione genetica al genere umano è per ciò stesso persona (8). pag 54 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Nonostante le rielaborazioni, gli opportuni approfondimenti e le critiche più o meno pertinenti cui è stata sottoposta, la determinazione boeziana si pone come un punto di svolta nella storia universale della filosofia e come un riferimento assolutamente imprescindibile: con essa il grandioso tema della persona, introdotto per sempre nella cultura, continuerà a dare i suoi frutti e a compiere il suo percorso nella storia universale. Un cammino che è ancora al suo inizio, se si pone mente alle aree di civiltà ancora alquanto ristrette in cui è riconosciuto il ‘principio-persona’. Numerosi spazi geoculturali solo recentemente cominciano ad incontrarlo, sì che esso celebrerà la sua fecondità quando sarà riconosciuto universalmente, ben oltre il mondo storico in cui prese forma (9). Se vogliamo evitare espressioni vuote, parlare di dignità della persona significa che l’uomo ha valore, che non si riduce a cosa. Ciò induce a cercare l’ “irréductible dans l’homme, ossia ciò che è originariamente e fondamentalmente umano, [di] ciò che costituisce l’originalità piena dell’uomo nel mondo…Irréductible significa anche tutto ciò che nell’uomo è invisibile, che è totalmente interiore, e per cui ogni uomo è come il testimone evidente di se stesso, della propria umanità e della propria persona” (10). Le posizioni personaliste affermano appunto che nell’uomo vi è qualcosa di irriducibile alla natura cosmica: l’uomo non è un oggetto del mondo, qualcosa di riducibile al cosmo, ma un ente dotato di autocomprensione ed esperienza di sé come eventi spirituali. Il personalismo si colloca agli antipodi del recente radicalismo antropologico, diffuso nella cultura anglosassone e forse in specie statunitense, che prima mette da parte l’idea di persona e poi quella di natura/essenza umana, per approdare all’uomo come prodotto del caso. Una volta che sia stato acquisito che la dignità di fine dell’individuo umano è salvaguardata se questo è persona, ossia una totalità concreta, un tutto che non è subordinato alla specie, e non vale perciò solo come un mero e transitorio punto di addensamento dei rapporti sociali, rimane ancora aperta la domanda sulla ‘incisività antropologica’ delle biotecnologie dal punto di vista della retroazione sullo ‘psichico’ dell’intervento sul corporeo. Difficile questione, che non sembra poter ricevere risposta adeguata se non si prende in conto un’antropologia unitaria, in cui cioè l’uomo esiste come essere unitario, come un tutto, corpore et anima unus. Molto dubbio appare l’assunto secondo cui sarebbe possibile intervenire quasi illimitatamente sulla corporeità umana quasi che essa non facesse parte della persona e il corpo fosse un indifferente, qualcosa che può venire affidato senza problemi alla tecnica, e la cui manipolazione risulterebbe senza effetti sulla persona. Se questa è tale nell’unità dell’anima e del corpo, nell’unità delle sue inclinazioni tanto spirituali quanto biologiche, la considerazione antropologica dovrà prendere le distanze dal dualismo cartesiano fra res extensa e res cogitans che spesso è il pag 55 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) presupposto implicito del modello di uomo che le biotecnologie presuppongono, quando non sia invece uno schietto monismo materialistico. Una corporeità separata dalla persona e analizzata in vitro non è più portatrice di senso e finisce nel meccanicismo. Analogamente deve dirsi per la complessa sfera della sessualità umana che rimane incompresa nel dualismo e nel monismo. Tali inconvenienti non sono facilmente aggirabili muovendosi solo sul piano di un’argomentazione morale, che intenda allontanare i rischi delle biotecnologie ricorrendo all’etica del genere. pag 56 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) BIOETICA Gli scopi della Medicina Pur nelle perduranti, ma in sostanza non decisive differenze di opinione dottrinale sui concetti di salute, malattia, disturbo e infermità, si può riconoscere che l'indiscussa matrice universale della medicina è costituita dalla comune natura umana che implica malattia e dolore fisico e morale anche in relazione alla paura del futuro e della morte. Rispetto al passato l'insieme delle conoscenze scientifiche e l'interscambio delle conoscenze e delle pratiche mediche costituisce un patrimonio comune a tutti. Il benessere del paziente è considerato ovunque un obbligo prioritario del medico, ed un altrettanto ineludibile obbligo della società intera, che deve operare per rendere ugualmente accessibile a tutti un'assistenza sanitaria adeguata. E' sempre più condiviso - e mira ad essere universale in tutte le culture - il riconoscimento del diritto del paziente all'autonomia e, soprattutto, all'informazione che deve precedere l'eventuale consenso ai trattamenti che il medico propone, ed anzi ha il dovere ed il diritto di proporre sulla scorta delle conoscenze del momento storico e le specifiche necessità del paziente. Sono tutti valori universali e fondamentali, che almeno, in linea di principio, conferiscono alla medicina la sua identità attuale e sono compatibili anche con tradizioni nazionali e regionali. Ciò nonostante, la ricerca di una completa intesa sugli scopi della medicina e, ancora di più, sui significati specifici di tali scopi, produce contrasti di non facile conciliazione, specie relativamente agli aspetti più innovativi e di confine degli atti medici attuali. Il recente Rapporto dello Hastings Center - intitolato appunto "Gli scopi della medicina: nuove priorità" - si è chiesto, tra l'altro, se sia giustificato proporre per la medicina degli scopi cui si possa attribuire una validità universale cioè degli scopi che devono essere comuni a tutte le culture ed altri che sono il segno distintivo delle varie culture di appartenenza. Chiedendosi dunque se gli scopi della medicina siano modelli intrinseci alla medicina stessa o costruzioni sociali, il Rapporto dell'Hastings Center rileva che, sulla natura della medicina e sui suoi scopi esistono due concezioni che, pur contrastanti, si sono a lungo integrate. Secondo la prima concezione la medicina ha degli scopi intrinseci suscettibili di essere "scoperti". La seconda concezione ammette che gli scopi che si crede di "scoprire" siano in genere costruiti socialmente e legati al tempo e alla storia. I sostenitori della prima concezione sostengono che gli scopi appropriati della pag 57 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) medicina rappresentano la risposta tipica della pratica medica alla esperienza umana universale della malattia, ispirata dal bisogno di guarire, aiutare, assistere e curare, ed iniziata con il rapporto diadico medico-paziente, sul quale la medicina mantiene e rafforza la propria vitalità. Quindi, pur nel riconoscimento del dovere di una maggior trasparenza riguardo sia ai limiti interni della medicina che ai condizionamenti culturali che essa riceve dall'esterno, resta necessario individuarne scopi e fini in funzione della sua intrinseca vocazione alla promozione e difesa della salute umana e alla tutela del paziente. La seconda concezione, secondo cui gli scopi della medicina sono una costruzione sociale, nasce invece dalla constatazione che col cambiare delle epoche e delle culture cambiano anche la natura della medicina e i suoi scopi. Il modo di interpretare la malattia, le infermità e i vari disturbo, nonché la risposta a queste esperienze è complesso e dinamico, caratterizzato da molte pratiche cliniche senza un nucleo sostanziale stabile. Conoscenze e pratiche rispecchiano i tempi e le società nelle quali la medicina opera e quindi sono poste al servizio di tutti gli obiettivi che la società reputa apprezzabili, sottostando agli stessi vincoli che condizionano le altre istituzioni sociali. Nel conflitto tra queste due visioni della medicina emerge il problema di stabilire se spetti alla medicina stessa di definire dal suo interno la propria storia e le proprie tradizioni, i propri valori e la propria direzione, oppure se essa deve lasciare questo compito alla società. L'Hastings Center ritiene che una valida risposta a questa alternativa sia, in luogo della contrapposizione, un dialogo continuo con la società, nel corso del quale ciascuno dei due interlocutori cerca la propria sfera legittima, i propri diritti e i propri doveri. Si dà tuttavia per scontato che il punto di partenza della medicina debba essere costituito dalla sua stessa storia e dalle sue tradizioni. D'altro canto i medici, gli operatori dell'assistenza sanitaria ed i pazienti fanno parte della società, per cui si ritiene prevedibile che mai sarà possibile tracciare una linea divisoria netta tra le istituzioni della medicina e le altre istituzioni sociali. In questa prospettiva di dialogo si dovrà primariamente tenere conto di vincoli e di prospettive che, sul versante della medicina, collocano la bioetica e l'etica medica in posizione prioritaria. Uno degli aspetti più attuali e rilevanti dell'individuazione degli scopi della Medicina, destinato ad accentuarsi in futuro, è costituito dal continuo mutare delle esigenze strutturali, organizzative ed economiche prodotte dal quasi incessante progresso medico il che implica anche un costante monitoraggio ed una progettazione evolutiva. Non sono dunque solo i mezzi - ma indubbiamente anche questi - bensì gli scopi stessi della medicina a dover essere riesaminati ex novo, sia pure in misura parziale, anche per verificarne la compatibilità con le risorse umane ed economiche pag 58 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) di cui la società dispone. In questo riesame si deve evitare di considerare i traguardi raggiunti come un obiettivo stabile, una tappa verso sicuri successi ulteriori. Si tratterebbe di una visione ottimistica infondata, basata sull'erronea idea che sia vicina e definitiva la sconfitta delle malattie. Perfino molte malattie infettive, ritenute debellate, stanno riemergendo anche nei paesi che più sono attrezzati a combatterle, mentre perdura la loro diffusione e la loro gravità in molte aree del globo, sia in rapporto a condizioni ambientali intrinseche sia alla scarsa disponibilità di risorse economiche che, d'altro canto, si rilevano insufficienti perfino nei paesi più ricchi. Non vi è dubbio che l'attenzione prevalente, in questi ultimi anni, si sia concentrata soprattutto sugli strumenti e sui mezzi della medicina e dell'assistenza sanitaria, piuttosto che sui loro scopi. Hanno dunque prevalso le analisi sugli aspetti gestionali e organizzativi, sui costi e sul problema dei finanziamenti, sulla questione delle privatizzazioni, sulle innovazioni politiche e burocratiche, ed altri di interesse indubbiamente rilevante. L'analisi bioetica, progredita in modo incessante ed apprezzabile, si è concentrata principalmente su problemi singoli, quelli di maggiore attualità, richiedenti con maggiore urgenza valutazioni e decisioni. Ma il nucleo centrale degli scopi attuali della medicina che qui cerchiamo di individuare è rimasto un po' in ombra, probabilmente proprio a causa della complessità che lo connota. Nell'elencare le finalità nodali, e tradizionali, che connotano la Medicina il rapporto dell'Hastings Center, con cui appare opportuno confrontarsi, si chiede se la medicina debba essere sempre necessariamente "nemica dell'invecchiamento e della morte" e quindi fino a che punto essa debba spingersi nel prolungare la vita umana, specie se questa sta spegnendosi. Si chiede anche se davvero, ed in assoluto, sia valido lo scopo tradizionale della promozione e del mantenimento della salute , se il termine "salute" possa avere significati diversi nelle diverse stagioni della vita e se davvero malattie e infermità non devono essere mai accettate e anche se sia ragionevole, mediante gli attuali mezzi della medicina predittiva basata sui test genetici, conoscere in largo anticipo la probabilità di andare incontro a determinate malattie nel corso della vita. La lista delle domande si estende a chiedere se la medicina deve occuparsi (per contribuire a risolverli con i propri mezzi) anche delle " angosce della vita quotidiana", dei problemi esistenziali, psicologici e spirituali che le persone necessariamente incontrano nel corso della loro vita anche in relazione alla violenza sociale, ai rischi ambientali e altri aspetti della vita comprendendovi anche dolori e sofferenze di vario tipo, fisiche e psichiche e quindi il problema se sia o meno compito della medicina anche l'eutanasia e l'aiuto al suicidio. Si colloca dunque in posizione centrale il pag 59 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) problema dei confini della medicina. Possiamo dire che in linea di massima essi potrebbero essere prospettati indicativamente dalla stessa classe medica, lasciando però alla società il compito di affidare ai medici tutti i compiti che essi siano in grado di assolvere a beneficio del benessere di ciascun cittadino. Ma in questa eventuale, flessibile visione, ci si dovrà chiedere se la medicina sia in grado di dare risposta a questioni di questa proporzione e se queste eventuali tentazioni - peraltro in qualche misura già in atto - non portino ad una ipermedicalizzazione della società con tutte le sue conseguenze dannose. Tra gli aspetti collaterali della medicina - che non possono essere certo inclusi negli scopi ma sono correlati a questi e quindi a funzioni della Medicina che rispondono a peculiari esigenze della società - si deve segnalare il suo rapporto con l'economia, non soltanto sotto il profilo delle risorse che essa assorbe dalla collettività per finalità di natura primariamente sanitaria, ma anche per l'indotto che essa a sua volta produce alimentando l'industria e il commercio dei prodotti necessari all'attività medica, e quindi i profitti, i conseguenti investimenti e le ricadute occupazionali. Medicina e assistenza sanitaria diventano così forze significative nella vita politica, sia a livello nazionale che internazionale, il cui impatto nella vita della società ha raggiunto livelli tali da richiedere una riflessione a spettro particolarmente ampio per consentire sia una valutazione globale aggiornata, sia proposte specifiche e non già generici richiami, pur doverosi, al rispetto di norme deontologiche e giuridiche, queste ultime, peraltro, quasi assenti in Italia per quanto riguarda le basi e le regole fondamentali dell'attività medica. Il problema che deve essere previamente affrontato e risolto è costituito dunque dall'estensione dell'area di competenza e di attività della Medicina. Con riferimento alla Medicina Scientifica, appare evidente, almeno in linea teorica, che tutti i problemi che emergono dalla vita delle società, - nelle multiformi espressioni moderne, quando si prospettino effetti psicofisici negativi, reali o potenziali, per i singoli e le collettività - implicano inevitabilmente il loro studio biomedico, e un'analisi delle conseguenze applicative, quando possibili. Questi problemi appartengono alla vasta area che viene comunemente designata come Medicina Pubblica la quale coinvolge primariamente, ma non esclusivamente, istituzioni e strutture pubbliche statali e parastatali. L'Igiene è tradizionalmente, e nella sua successiva evoluzione, la branca della Medicina che nelle sue articolazioni attuali (Medicina Sociale ed Epidemiologia, Medicina della Comunità, Medicina del Lavoro e Igiene Industriale ed agricola ecc.), cerca di monitorizzare le condizioni "igieniche" dell'aria, delle acque, dei suoli, degli alimenti, delle industrie e delle aree abitative adiacenti individuando i fattori di rischio di malattia od anche di disagio più svariati, da quelli batterici e virali, a quelli chimici e pag 60 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) fisici (oggi includenti le radiazioni atomiche ed elettromagnetiche), fino ai fattori di stress psicofisico. Le indicazioni di Prevenzione Primaria che ne scaturiscono rappresentano una delle frontiere più importanti finalizzate al monitoraggio costante dell'evolvere dei rischi connessi alla evoluzione tecnologica. E' superfluo aggiungere che in quest'area le connessioni della Medicina con vaste aree del sapere odierno costituite dalla chimica, dalla fisica e, ovviamente, dalla biologia - sono strettissime e di essenziale rilevanza. L'individuazione dei fattori di rischio di malattia può essere effettuata con valutazione a priori, in genere basata su considerazioni di possibilità scientifica del ruolo patogeno di un determinato fattore ed eventualmente sulla base della sperimentazione sull'animale. Un esempio tipico è quello della temuta azione patogena delle radiazioni elettromagnetiche - sempre più diffuse - circa le quali esiste ormai un'ampia letteratura, peraltro con pareri non conclusivi. I fattori di rischio di malattia sono peraltro ricercati, e non sempre individuati in verità, in misura prevalente a posteriori, dopo la constatazione di manifestazioni morbose già verificatesi nell'uomo delle quali si ricercano gli agenti eziologici al fine ultimo di prevenirne la diffusione e l'azione. Questa è l'area più specificamente clinica nella quale, a ben vedere, è corretto collocare anche la prevenzione secondaria in quanto attività indirizzata a cogliere tempestivamente l'esistenza o meno di patologie già in atto nella loro fase iniziale, come tali più suscettibili di trattamenti terapeutici ed igienici -attraverso l'allontanamento dal rischio, se possibile - e idonei a garantire il successo. Da queste elementari considerazioni risulta evidente l'ampiezza del fronte sul quale la medicina si collega con una grandissima parte dell'attività umana individuale e collettiva. E' un'area che ha raggiunto la sua attuale estensione a partire dalla rivoluzione industriale (anche nella medicina antica, peraltro, si è sempre data grande importanza a precetti igienici elementari ed individuali) avendo come significativo precedente, per i rischi lavorativi, l'opera di Bernardino Ramazzini De Morbis Artificum Diatriba (1700). Una parte rilevante dei problemi di cui si occupa la Bioetica moderna appartiene, in sostanza, proprio a quest'area. Infatti le tecniche di bioingegneria utilizzate per la produzione di piante ed animali transgenici, oltre a costituire un problema ecologico generale (relativo alla qualità della vita, alle risorse alimentari, alla sopravvivenza delle specie animali, alla biodiversità ecc.), rappresentano rischi di possibile rilevanza igienistica di cui si deve occupare la Medicina Scientifica ipotizzando la natura dei singoli rischi ed accertandone il grado e l'eventuale già avvenuta attuazione. Nel settore della Medicina Pubblica devono essere menzionate, come aspetto particolare degli scopi e funzioni della medicina tutte le attività, svolte dai medici, di tipo medico- pag 61 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) legale che sono il passaggio obbligato di molta parte delle erogazioni a contenuto economico proprie del cosiddetto "stato sociale" (prestazioni per invalidità pensionabile, invalidità civile, infortuni e malattie professionali, cause di servizio) cui si devono aggiungere quelle appartenenti alla sfera dell'assicurazione privata per responsabilità civile, infortuni, invalidità e spese per malattia. Il loro indotto economico, di grande rilevanza, entra in connessione con il problema della distribuzione delle risorse e quindi delle esigenze generali della Medicina, nella ricerca e nell'attività sanitaria. Anche queste attività medico-legali si sono realtà sviluppate organicamente, e progressivamente, a partire dalla fine del secolo diciannovesimo e diffuse soprattutto nella seconda metà del secolo ventesimo. Tutte le prestazioni previdenziali pubbliche che implicano accertamenti e valutazioni medico-legali sono inderogabilmente effettuate da medici. Esse si estendono agli aspetti medico-legali della sanità militare, all'invalidità civile, agli handicap ed alla causalità di servizio e quindi a parte rilevante del vasto bacino dell'assicurazione privata. In questi settori non si possono prospettare singoli problemi bioetici in senso stretto. Ma se si riflette invece sul problema bioetico dell'allocazione delle risorse che emerge da tempo nella sanità assistenziale, appare invece evidente che il bilanciamento globale delle ripartizioni, cioè delle scelte di investimento e di quelle di rinuncia, può comportare un riesame globale delle attività mediche che implica non solo prospettive di radicali riforme ma anche una riconsiderazione della funzione medico-legale, delle sue regole e della sua prassi, che tante distorsioni ed equivoci hanno sofferto in questi ultimi decenni. Dopo quanto detto è tuttavia opportuno ricordare che il campo tradizionale della Medicina che è ritenuto coincidere, dall'opinione pubblica e dagli stessi medici, con gli scopi primari della medicina, è quello della diagnosi, della terapia e della prognosi. Nella ricerca dei fenomeni che connotano la prassi medica scientifica nella attuale fase storica, e dai quali si deve partire per un bilancio degli scopi/rischi/costi/benefici, si può tentarne l'individuazione avendo a mente le finalità bioetiche che la nostra analisi si propone e richiamando riassuntivamente anche concetti in parte già espressi. Questi caratteri possono essere considerati i seguenti : - aumento esponenziale, per qualità e numero, delle prestazioni attraverso la produzione incessante di mezzi diagnostici e mezzi terapeutici, sia farmacologici che strumentali - invasività di molti mezzi, anche di natura farmacologica, e correlata rischiosità di complicanze ed effetti collaterali - mescolanza costante di premesse scientifiche sperimentalmente controllate e di applicazioni di fatto empiriche nei singoli casi, nel dinamismo incessante delle proposte diagnostiche e terapeutiche - difficoltà di pag 62 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) applicare alla sanità, pubblica e privata, il modello generale organizzativo tipico della società industriale/post-industriale per l'attuazione di una attività di servizi connotata dal " caso per caso", di tipo essenzialmente artigianale - estensione progressiva del concetto di "terapia" a trattamenti, configuranti atto medico la cui giustificazione "terapeutica" viene ricercata nei "desideri" e nei disagi psichici che possono conseguire alla loro mancata soddisfazione (chirurgia estetica, fecondazione assistita), ovvero nel rifiuto della sofferenza estrema (eutanasia, aiuto al suicidio). ampliamento progressivo del numero degli individui che, per la crescita dell'età media, per le migliorate condizioni sociali, per l'efficacia della medicina nel prolungare la vita in pazienti affetti da malattie croniche gravi ed anche per lo smantellamento delle istituzione psichiatriche manicomiali, richiedono assistenza permanente (medica, infermieristica, volontaristica) in strutture od anche a domicilio. Tutto questo insieme di fenomeni, impressionante per le sue dimensioni e la sua complessità, spiega la continua crisi della professione medica e più in generale, della sanità pubblica e privata. Esso fornisce una spiegazione del conflitto crescente che si è creato tra cittadini sani ed ammalati e classe medica, che sfocia quasi sistematicamente nelle aule giudiziarie penali e civili e che rappresenta uno dei maggiori problemi della medicina nell'attualità e nel prossimo futuro. I rischi nella valutazione costi/benefici I rischi della Medicina Scientifica (essenzialmente "commissivi" a differenza di quelli, soprattutto "omissivi" delle Medicine Non Convenzionali) devono essere presi, ormai, come punto di riferimento per una corretta valutazione del rapporto costi/benefici, che ha una posizione centrale nella individuazione dei limiti che è opportuno porre alla dilatazione dell'attività medica, cioè dei suoi scopi. Ai rischi, la cui attuazione si traduce in costi umani (ed implicitamente anche economici) dovuti a complicanze, effetti collaterali o secondari o indesiderati, malattie iatrogene è dedicata una vastissima letteratura scientifica che se ne occupa sia direttamente che indirettamente in occasione della presentazione pubblica (in riviste, libri, convegni) di proposte terapeutiche nuove o di esperienze sperimentali e applicative. Non vi è trattato di Medicina Interna o di Chirurgia, o di patologia di qualsiasi branca disciplinare specialistica che, nella trattazione di una determinata malattia, non faccia seguire ai tradizionali paragrafi della definizione, dell'eziologia e patogenesi, della sintomatologia, anche quello delle varietà cliniche e del decorso con le correlative, possibili complicanze spontanee, di per sé indipendenti dall'intervento del medico. Si tratta di "complicanze" che in molte malattie possono portare alla malattia cronica con vari gradi di invalidità o addirittura alla morte. Queste complicanze possono pag 63 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) confondersi, clinicamente, con quelle che più propriamente devono essere indicate come complicanze iatrogene. Comunemente si tende a qualificare malattia iatrogena in senso stretto quella che, prodotta dal trattamento diagnostico o terapeutico del medico, ha il carattere della neomalattia rispetto a quella già in atto e che ha richiesto il trattamento. E' una distinzione che può rimanere a patto che la si consideri una categoria particolare della classe generale delle "complicanze iatrogene". Il fenomeno della patologia iatrogena, in crescita esponenziale, risulta un problema centrale nell'espansione ulteriore dei trattamenti medico-chirurgici perché è una delle cause - seppure non la sola - dei conflitti tra medici e pazienti che sfociano in cause penali e civili per responsabilità medica e, conseguentemente, intimoriscono i medici (producendo il fenomeno distorto della cosiddetta Medicina Difensiva), inducono le compagnie assicuratrici a restringere progressivamente l'area della copertura garantita ai medici ed alle strutture sanitarie. Le comuni espressioni di complicanze, effetti collaterali o secondari o indesiderati, malattie iatrogene richiedono alcune precisazioni e chiarificazioni. I cosiddetti effetti collaterali detti anche eufemisticamente effetti "indesiderati" o reazioni avverse ("adverse reactions") - che sono in genere elencati ormai nei foglietti illustrativi di qualsiasi specialità medicina autorizzata - talora connessi a sovradosaggio assoluto o relativo ovvero all'esistenza di controindicazioni ignote o trascurate o ad interazioni con altri farmaci, vengono in genere considerati di minore rilevanza e quindi di più elevata e quasi implicita tollerabilità. Anch'essi, in verità, appartengono alla grande classe delle "complicanze iatrogene" ed è opportuno ribadirlo per la necessità di una classificazione globale più razionale. Inoltre essi possono assumere in certi casi alti livelli di dannosità, transitoria o irreversibile, fino alla morte. Tra questi effetti collaterali non si è soliti includere, peraltro erroneamente, quelli connessi agli interventi chirurgici di qualsiasi tipo. In questo ambito si definiscono "complicanze", in genere, le anomalie del decorso postoperatorio rispetto a quello più comune. Tuttavia una riflessione più attenta induce ad accomunare le conseguenze "normali" dell'intervento chirurgico anche quello più modesto e locale, nell'ambito quantomeno degli "effetti collaterali" sgradevoli ma tollerati. Così il dolore post-operatorio, l'esistenza della ferita operatoria che deve cicatrizzare, gli spiacevoli effetti, sia oppure transitori, dell'anestesia. Non esiste infatti alcuna differenza concettuale tra questi impliciti effetti collaterali e quelli prodotti da molti farmaci: come ad esempio i disturbi intestinali dopo una terapia antibiotica per via orale. Le complicanze che la malattia di per se stessa può produrre entrano spesso in concorso di aggravamento con la patologia iatrogena nei suoi vari aspetti. Ne pag 64 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) consegue la conclusione che la molteplicità attuale dei trattamenti medici e chirurgici, poiché potenzialmente gravata da svariati rischi di dannosità collaterale, transitoria o permanente o addirittura mortale, del tutto autonoma oppure concorrente con la malattia che ha richiesto il trattamento, rappresenta una condizione di base che deve essere conosciuta dai pazienti (e dai loro congiunti) ed essere inclusa esplicitamente nell'alleanza terapeutica. Lo spettro qualitativo e quantitativo di questi fenomeni dannosi non può essere più sottovalutato dai medici - che tendono a proseguire il proprio cammino sul ciglio dell'ipermedicalizzazione, in cui spesso sconfinano - né tantomeno dai pazienti e dai loro congiunti che richiedono sempre più frequentemente prestazioni mediche alimentando un circolo negativo che si avvale degli stessi meccanismi che dominano la società dei consumi. L'offerta di medicina spesso in eccesso di indicazioni - trova riscontro in una richiesta crescente da parte del pubblico di controlli della salute e di cura di disturbi e di vere malattie. E' questa una situazione non paragonabile a quella della prima metà del secolo ventesimo in cui i malati, ed i loro congiunti, erano spesso riluttanti ad avvalersi dell'ospedale e le prestazioni mediche erano prevalentemente domiciliari ed ambulatoriali. Nella più ampia prospettiva si collocano le riflessioni critiche di Ivan Illich che ha elaborato gli interessanti concetti di iatrogenesi clinica, di iatrogenesi sociale e iatrogenesi culturale. Egli definisce iatrogenesi clinica "non soltanto il danno che i medici infliggono nell'intento di guarire o di sfruttare il paziente, ma anche quegli altri danni che discendono dalla preoccupazione del medico di tutelarsi da un'eventuale denuncia per malapratica": è l'anticipazione del concetto di Medicina Difensiva. Iatrogenesi sociale è stata denominata quella di secondo livello, per cui "la pratica medica promuove malessere rafforzando una società morbosa che spinge la gente a diventare consumatrice di medicina curativa, preventiva, del lavoro, dell'ambiente, ecc". La iatrogenesi di secondo livello si manifesta in vari "sintomi di supermedicalizzazione sociale" che costituiscono quella che Illich chiama "espropriazione della salute". E' denominata infine iatrogenesi culturale quella di terzo livello nel quale le professioni sanitarie "hanno, sulla salute, un ancor più profondo effetto negativo d'ordine culturale in quanto distruggono la capacità potenziale dell'individuo di far fronte in modo personale e autonomo alla propria umana debolezza, vulnerabilità e unicità. Il paziente in preda alla medicina contemporanea non è che un esempio dell'umanità in preda alle sue tecniche perniciose". La sperimentazione sull'uomo Nella vasta area dei rischi e costi umani delle prestazioni mediche, e dei danni che conseguono al suo verificarsi, occupa uno spazio particolare e nodale la pag 65 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) sperimentazione, che è un processo connaturato intrinsecamente allo sviluppo della medicina e della chirurgia. Nella comune accezione si è soliti limitare il significato del sostantivo alla sperimentazione normativamente regolamentata la quale riguarda principalmente nuovi farmaci e solo marginalmente nuovi prodotti tecnologici. Si tratta di un'attività di ampia portata che coinvolge strutture sanitarie in gran parte del mondo sviluppato e che è sostenuta dall'industria alla quale le norme di buona pratica clinica attualmente divenute oggetto della direttiva europea n. 20/2001 richiedono una documentazione scientifica, di base e derivante dalla sperimentazione sull'animale e sull'uomo, che dimostri sia l'efficacia sia la tollerabilità (invero spesso relativa) del prodotto e della tecnica. In realtà il concetto di sperimentazione deve essere esteso a molta parte della prassi medica sia nei suoi aspetti storici che in quelli attuali, e nei suoi effetti su ogni singolo paziente. Dobbiamo distinguere, infatti, tra la sperimentazione sull'uomo a fine specifico o propriamente detta, e la sperimentazione a fine non specifico situazione di ben più vasta portata e dai confini non agevolmente disegnabili, che è la conseguenza del dinamismo applicativo di nuove proposte diagnostiche e terapeutiche incessantemente immesse nella professione. Questa seconda categoria assume di fatto il carattere sostanziale, benché informale, di sperimentazione sull'uomo che si attua durante il processo di diffusione tra i medici di un nuovo farmaco o metodo nel suo conseguente apprendimento e perfezionamento, da parte di ciascuno medico od équipe. E' un processo che spesso si conclude con la definitiva adozione del farmaco o di una determinata tecnica diagnostica o terapeutica, ma altrettanto spesso con il loro abbandono a causa degli eccessivi inconvenienti o della comprovata inefficacia. Negli ultimi anni organismi internazionali hanno richiamato con sempre maggiore rigore il dovere etico di controllare la sperimentazione sull'uomo. Numerosi sono stati i documenti prodotti su alcuni dei quali il Comitato Nazionale per la Bioetica ha fornito il proprio contributo di critica e di proposta. I documenti più importanti sulla sperimentazione sull'uomo regolamentata in base a dichiarazioni internazionali, norme comunitarie e nazionali sono essenzialmente i seguenti. La Dichiarazione di Helsinki I - approvata dalla 18ma Assemblea Medica Mondiale nel 1964 e quindi emendata nel 1975, nel 1983, nel 1989, 1996 e nel 2000 nel corso della 52ma assemblea dell'associazione - costituisce il documento fondamentale della sperimentazione sull'uomo a fine specifico e rappresenta la più nota ed importante legittimazione a livello internazionale di pratiche di ricerca biomedica che hanno la finalità "di migliorare le procedure diagnostiche, terapeutiche e profilattiche e la comprensione dell'eziologia e della patogenesi della malattia". Nell'edizione del 2000 sono fissati 32 principi fondamentali per tutta la ricerca medica. Questa forma di sperimentazione sull'uomo a fine specifico si prefigge specifiche finalità di ricerca pag 66 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) scientifica, prevalentemente di natura applicativa e non "pura", per accertare l'efficacia e la tollerabilità di farmaci a fine terapeutico, o diagnostico, già registrati ovvero da registrare; od anche per verificare comparativamente il valore di nuove procedure tecniche di vario tipo. Tale sperimentazione viene anche definita "terapeutica" in quanto, pur avendo l'obiettivo di acquisire nuove conoscenze possiede una potenzialità diagnostica e terapeutica in favore del paziente. Si può invece definire "non-terapeutica" quella sperimentazione sull'uomo che ha lo scopo essenziale di verificare determinate ipotesi scientifiche senza tuttavia alcun beneficio diretto per il paziente o per il volontario sano che accetta di partecipare. La metodologia generale di questa sperimentazione vera e propria - cioè effettuata secondo regole scientifiche in genere ormai standardizzate - si basa principalmente sui cosiddetti trials clinici randomizzati (RCTs). Questi "trials" hanno una connotazione ben precisa in quanto costituiscono uno studio longitudinale in cui si impiegano uno o più gruppi di controllo rispetto al gruppo che subisce il trattamento, ed in cui l'assegnazione ad uno dei due bracci dello studio dei soggetti utilizzati per l'esperimento viene effettuata a caso (at random). Nel gruppo di controllo può essere prevista la somministrazione di un placebo ovvero di una usuale terapia standard. Spesso l'assegnazione ed il tipo di trattamento non sono noti al paziente ma solo al medico (cieco singolo), mentre altre volte non sono noti neppure al medico (doppio cieco). Questi artifizi hanno lo scopo di evitare che nella valutazione dei risultati vi siano interferenze da parte dei pregiudizi del ricercatore il quale, in tal modo, può anche studiare gli effetti puramente psicologici, suggestivi, esercitati dal trattamento sul paziente di controllo. Il Ministero della Sanità ha adottato con decreto 15 luglio 1997 le Linee-Guida di Buona Pratica Clinica per l'esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali (Unione Europea, 1996) che rappresentano un approccio rigoroso finalizzato ad evitare danni ed abusi sui pazienti che si sottopongono a sperimentazione non di rado gravate da rischio di danno iatrogeno diretto od indiretto (per omissione di cure in soggetti trattati con solo placebo). Ancora a livello di Unione europea, il 4 aprile 2001, Parlamento europeo e Consiglio hanno adottato la direttiva n. 2001/20, concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri dell'Unione relative all'applicazione delle norme di buona pratica clinica nella esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso umano. Tale direttiva è entrata in vigore il 1° maggio 2001 e dovrà essere recepita negli ordinamenti degli Stati membri entro il 1° maggio 2003. Tra le novità introdotte dalla disciplina comunitaria, è possibile ricordare, in estrema sintesi, le modalità di concessione o di revoca del consenso informato, in particolare nel caso di minori e di soggetti incapaci, il diritto di tutti i soggetti coinvolti nella sperimentazione di rivolgersi ad una persona indipendente dal ricercatore per pag 67 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) ottenere informazioni supplementari sullo svolgimento della sperimentazione stessa (c.d. punto di riferimento), le misure in materia di tutela della riservatezza e di scambio di informazioni tra i Paesi membri, la semplificazione della procedura di autorizzazione dell'avvio della sperimentazione e le misure intese a rafforzare il ruolo del Comitato etico soprattutto nella fase di esecuzione degli studi clinici. Non altrettanto può dirsi, invece, per la fase di approvazione degli studi, nell'ambito della quale i Comitati sono chiamati a svolgere compiti meno incisivi di quelli previsti, ad esempio, dalla normativa italiana in materia di sperimentazione clinica dei farmaci (sul punto si veda il documento del CNB Orientamenti peri Comitati Etici in Italia del 13 luglio 2001)". La direttiva sancisce, inoltre, il rilievo giuridico delle norme di buona pratica clinica, attribuendo formalmente ad esse efficacia vincolante. Particolarmente significativa, in quest'ottica, è la prevista "comunitarizzazione" delle norme di GCP, nel senso che la Direttiva attribuisce alla Comunità la competenza necessaria per adottare e rivedere nel tempo, allo scopo di tener conto del progresso scientifico, i principi di buona pratica clinica adottati a Helsinki, sopra ricordati. Si tratta di un importante sviluppo, che permetterà la formulazione delle norme di GCP applicabili in ambito comunitario da parte di organismi dotati di una legittimazione politica e istituzionale (e non solo tecnica), in grado di formalizzare in norme giuridiche gli orientamenti derivanti dalla buona pratica clinica. Nell'ambito del Consiglio d'Europa, l'organizzazione internazionale creata nel 1948 per tutelare i diritti e le libertà fondamentali, di cui oggi fanno parte 43 Stati europei, è in fase di avanzata elaborazione il Protocollo sulla ricerca biomedica addizionale alla Convenzione di Oviedo sulla biomedicina sopra richiamata, che diverrà vincolante per gli Stati contraenti una volta completate le procedure di ratifica previste degli ordinamenti nazionali. In tale protocollo sono fissati l'oggetto e lo scopo della ricerca, alcuni principi generali, il ruolo dei comitati etici, l'informazione ai soggetti che partecipano alla ricerca al fine di ottenerne un consenso informato, la riservatezza, la sicurezza e la supervisione, ed alcune situazioni speciali come le condizioni cliniche di emergenza e quelle delle persone private della libertà, la ricerca nelle donne gravide ed in allattamento. I cardini fondamentali del Protocollo sono la prioritaria protezione della dignità ed identità dell'essere umano per garantire a ciascuno, senza discriminazioni, il rispetto della sua integrità ed degli altri diritti e le libertà fondamentali riguardo a qualsiasi ricerca che implichi interventi sull'uomo. L'interesse e il benessere dell'essere umano che partecipa alla ricerca devono prevalere sull'interesse della società e della scienza. La ricerca biomedica deve essere eseguita volontariamente e soggetta alle previsioni del Protocollo e di altre pag 68 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) regole che assicurano la protezione dell'essere umano; quando richiede interventi è giustificata solo se non esiste alcuna alternativa di comparabile efficacia; non deve comportare rischi sproporzionati rispetto ai suoi benefici potenziali; infine deve essere scientificamente giustificata secondo criteri di qualità scientifica, ed eseguita secondo le regole e gli standards della professione, sotto la supervisione di un qualificato esperto. Questi principi sono in sostanza sovrapponibili con quelli, più analiticamente considerati dall'ultima edizione della Dichiarazione di Helsinki dell'Associazione Medica Mondiale della quale si segnalano specificamente alcuni punti come la considerazione per l'impatto sull'ambiente ed il benessere degli animali usati nella ricerca (art.12) ; il ruolo di controllo del comitato etico e l'esigenza della sua certa indipendenza dal ricercatore, dallo sponsor e da altre possibili forme di indebita influenza (art.13); il permanere della responsabilità delle conseguenze della ricerca sul ricercatore indipendentemente dal consenso informato ottenuto (art. 15); i medici, dopo aver attentamente valutati i rischi del paziente, anche sotto il profilo della loro gestibilità, devono cessare l'esperimento se i rischi si rivelano superiori ai potenziali benefici (17). Altri principi fondamentali sono la maggiore rilevanza degli obiettivi rispetto ai rischi, specie nel caso di volontari sani (art.18) e la ragionevole probabilità che le popolazioni in cui la ricerca viene compiuta possano beneficare dei risultati della ricerca (art. 19). Per quanto riguarda i soggetti mentalmente incapaci e di minore età la selezione dei soggetti che partecipano alla ricerca deve essere particolarmente rigorosa, non solo ottenendo l'assenso del legale rappresentante (ed anche quello del minore se ha raggiunto un grado di maturazione sufficiente ) ma anche garantendo che si tratti di indagini necessarie a promuovere la salute della popolazione di riferimento e che non possono essere eseguiti su soggetti mentalmente capaci (artt. 23-26). Di interesse altrettanto rilevante sotto il profilo etico, è "la sperimentazione a fine non specifico" di natura diagnostica e terapeutica ai cui profilo etici la letteratura scientifica ha dedicato un marginale attenzione. Tale tipo di sperimentazione sull'uomo - sostanziale, ed informale, regolata apparentemente dal principio del consenso informato e della responsabilità del medico - si realizza in tutti i processi di introduzione di un nuovo metodo diagnostico e terapeutico e, a ben vedere, rappresenta l'essenza del dinamico processo storico che caratterizza i trattamenti medico-chirurgici. In questo ambito è necessario includere anche i tentativi terapeutici "sperimentali" estremi - in mancanza di alternative, ovvero di fronte all'assoluta inefficacia dei metodi usuali- che pure vengono usualmente inclusi nella categoria della sperimentazione vera e propria. Questo versante appartiene a tutta la storia del progresso medico il quale si è realizzato a costi umani elevati, non solo nel passato, neppure troppo lontano, quando il medico era privo di mezzi efficaci e pag 69 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) sufficientemente sicuri, ma anche nell'era attuale. Qualche esempio può meglio chiarire l'assunto. Nello straordinario cammino percorso dalla cardiochirurgia la possibilità di operare a torace aperto, con cuore immobile essendo il sangue convogliato nella circolazione extracorporea per la durata dell'intervento, è stata dapprima prospettata, poi attuata nell'animale da esperimento, quindi realizzata su pazienti per i quali si riteneva indicata una terapia cardiochirurgica. L'apprendimento delle nuove tecniche, la decisione di applicarle all'uomo, lo studio dei risultati e degli inconvenienti, la correzione dei metodi mano a mano che si sono appalesate le difficoltà, sono avvenuti tutti attraverso una attività pionieristica per sua natura "sperimentale" applicata direttamente sull'uomo, attuata su singoli pazienti che hanno accettato l'alea riguardo ai risultati che connota inevitabilmente le prime esperienze. E' chiaro che questo tentativi non rientrano nella tipologia dei trials sperimentali, in genere attuati per lo studio dell'efficacia dei farmaci. Si tratta infatti di decisioni direttamente terapeutiche, benché precedute da studi sull'animale e dall'allestimento di adeguati strumenti. I costi di queste fasi pionieristiche sono notoriamente un tasso elevato di complicanze e di mortalità che, tuttavia, per tornare all'esempio citato, ha fornito ai cardiochirurghi la possibilità di perfezionare le tecniche fino al raggiungimento di una soddisfacente standardizzazione. "Sperimentale" è da considerarsi, sotto questo profilo, non solo la primissima fase delle varie altre applicazioni chirurgiche di avanguardia ma anche l'apprendimento generalizzato delle tecniche da parte dei chirurgi, per ciascuno dei quali sono in genere necessari periodi più o meno lunghi di apprendistato, con i correlativi ed inevitabili costi a carico dei pazienti che, senza piena consapevolezza del loro ruolo, hanno dato il consenso al nuovo tipo di trattamento. Quanto detto ha solo lo scopo di evidenziare che di fatto molta parte del progresso medico passa inevitabilmente attraverso fasi sperimentali sull'uomo che pure non sono esplicitamente riconosciute come tali. I pazienti ed i loro famigliari forse ne sono in qualche misura consapevoli: ciononostante appare sorprendente come essi cerchino, spesso ad ogni costo e specie nei casi più gravi, di sottoporsi alle terapie più nuove e per questo motivo più incerte. Tale è il timore della malattia e della morte, e tale la forza della speranza, e la fiducia nel progresso medico, che ogni proposta che sembri aprire uno spiraglio di migliorare la salute e soprattutto di salvezza o prolungamento della vita è accolta spesso senza esitazione. In tal modo si spiegano "i viaggi della speranza "e, specie in campo oncologico, il cedimento di fronte alle più disparate proposte di terapie alternative, spesso del tutto infondate sotto il profilo scientifico. Ne approfittano, purtroppo, medici e non medici, irresponsabili od avidi. Ma di questa disponibilità fiduciosa dei pazienti e delle loro famiglie si avvalgono anche i medici migliori che, senza queste adesioni coraggiose cariche di speranza, mai potrebbero realizzare pag 70 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) concretamente le proprie proposte, non di rado temerarie, e migliorarne l'attuazione attraverso l'esperienza in vivo. Anche la molteplicità delle terapie collocate al confine, ed oltre, della medicina ufficiale, cioè nel territorio delle varie medicine alternative, risponde allo stesso meccanismo psicologico e finisce con l'assumere di fatto carattere "sperimentale". In questi settori la possibile dannosità si esplica più che altro nella più o meno lunga privazione, per il paziente, di terapie ufficiali consolidate. E' evidente che in questo ambito il consenso è ancora più disinformato di quanto non lo sia quello dato alle esperienze di frontiera della medicina ufficiale, mentre invece occorre promuovere la consapevolezza del paziente sui rischi per la sua salute. Concludendo su questo complesso e difficile tema, bisogna prendere atto che nel progresso medico, sia quando ancora si ignorava la natura delle malattie e la medicina era incapace di prestare cure realmente efficaci, sia nell'attuale fase di grande sviluppo della Medicina Scientifica, l'empirismo ha prevalso e tuttora prevale in quanto la medicina implica una valutazione caso per caso e aspetti sostanzialmente sperimentali, benché attualmente sotto la guida di regole di massima cui si attribuisce -non sempre con piena ragione- valore scientifico certo. Il problema del rapporto medico-paziente La posizione del medico nella società è da considerarsi da sempre collocata in un'area di ambiguità che non solo non si è dissipata nel corso dei secoli ma sta accentuandosi alla fine di questo secolo prospettando scenari futuri forse ancora più difficili. Non sarà facile, questo chiarimento, né potrà essere comunque definitivo. E' certo, però, che si impone ormai un colloquio, tra gli indirizzi interni alla corporazione dei medici - condensati nei codici deontologici che sempre più si sforzano di tenere conto delle esigenze dei cittadini sani e malati - e le richieste espresse dalla società, non solo attraverso leggi (peraltro quasi insussistenti relativamente al nodo che qui cerchiamo di individuare) ma anche attraverso una appropriata informazione collettiva, tuttora insoddisfacente perché deformata e priva di chiarezza proprio sul nodo centrale del rapporto tra scienza ed operatività medica , da un lato, ed obiettivi condivisi dalla società, dall'altro. In quest'ottica, la direttiva comunitaria sull'applicazione delle norme di buona pratica clinica nella sperimentazione clinica dei medicinali, sopra richiamata, attribuisce a tutti i soggetti coinvolti nella sperimentazione il diritto di rivolgersi ad una persona indipendente dal ricercatore per ottenere informazioni supplementari sullo svolgimento della sperimentazione stessa (c.d. punto di riferimento). Tra i temi centrali del dibattito sul difficile problema del rapporto medico/paziente figura quello che riguarda il cosiddetto paternalismo medico ed il correlato problema dell'autonomia del paziente, il più difficile da pag 71 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) sciogliere nella fase attuale, e che tale sarà forse anche in futuro, a causa della intricata complessità che è sopravvenuta nella sanità degli ultimi cinquant'anni. E' utile, per comodità espositiva, prendere spunto da una schematica divisione in tre fasi evolutive del rapporto medico/paziente che è stata utilizzata nel 1985 da Mark Siegler, del Center for Clinical Ethics di Chicago. Già allora l'autore, riassumendo invero concetti già noti, rilevava che negli Stati Uniti, conclusosi il primo periodo durato millenni, denominato Era del Paternalismo (Age of Paternalism), vi aveva fatto seguito il secondo periodo denominato Era dell'Autonomia (Age of Autonomy), di breve durata perché rapidamente sostituito dal terzo periodo designato da Siegler Era della Burocrazia Parsimoniosa (Age of Bureaucracy, detta anche Age of Parsimony). Questa categorizzazione, certamente utile dal punto di vista concettuale, non va però interpretata rigidamente quasi rappresentasse effettivamente il succedersi ordinato di ere geologiche, ma piuttosto come l'enucleazione di tendenze più generali, che nella realtà sovrappongono, si influenzano l'un l'altra, con continue oscillazioni conservative o evolutive. In Italia il succedersi di questi periodi è posticipato di pochi decenni, perché pur essendo ancora viva la dottrina antipaternalistica dell'autonomia, già ci si trova di fatto nel pieno dell'era della burocrazia, od era della parsimonia, caratterizzata dalla restrizione delle risorse economiche. Si designa come paternalismo (termine che T.L. Beauchamp attribuisce a Kant e Stuart Mill sia nel suo significato generale che in quello applicato ai trattamenti medici) la "interferenza nella libertà della persona di azioni giustificate da ragioni riguardanti esclusivamente il benessere, il bene, la felicità, i bisogni, gli interessi o valori della persona coercizzata" (Dworkin). Nell'Encyclopedia of Bioethics edita da W.T. Reich, Bruce Miller ritiene che il "paternalismo" nei trattamenti medici consista nel curare un paziente contro la sua volontà, in base al principio che il medico è professionalmente obbligato a provvedere alle cure nell'interesse del paziente, perché egli conosce meglio del paziente ciò che è bene per lui ("doctor knows best"). Invero non è esatta la tesi secondo cui il paternalismo sarebbe un retaggio della medicina antica perché la lettura dei testi ippocratici, ed altri riferimenti, tra cui un noto passo di Platone se le Leggi (IX), inducono a ritenere che la deontologia medica antica non abbia affatto prescritto un rapporto autoritario del medico nei confronti dei suoi pazienti ma al contrario un rapporto basato sul dialogo, la persuasione e il continuo aggiornamento sull'evoluzione della malattia dal paziente al medico, per consentirgli le necessarie modifiche del trattamento. L'antipaternalismo (che l'ultima edizione dell'Encyclopedia of Bioethics ritiene in declino) è oggi uno dei principali pilastri della dottrina dell'autonomia del paziente, elaborata nel secondo dopoguerra di questo secolo ed pag 72 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) implica un giudizio negativo che sembra molto condiviso pur essendo palesemente sommario, elaborato per comodità di contrapposizione dialettica. Ma si riconosce tuttavia che anche questo principio ammette deroghe proprio a livello del nodo cruciale di tutto il problema paternalismo/autonomia, cioè nei casi di estrema emergenza, con sicuro rischio per la vita del paziente nei quali il paternalismo viene "giustificato" travalicandosi così, almeno in parte, l'autonomia del paziente. Per tale motivo alcuni autori sono stati indotti, per superare gli ostacoli che la pratica frappone alle rigide impostazioni teoretiche dell'autonomia, a coniare le espressioni di paternalismo debole contrapposto a paternalismo forte (Ten, Feinberg, lo stesso Dworkin) lasciando peraltro nell'incertezza circa i criteri oggettivi di distinzione del primo rispetto al secondo. Il "paternalismo debole" sarebbe una "concessione" in deroga al rigidi criteri dell'autonomia in quanto si ammette che per un soggetto mentalmente incapace di decisione, il quale rifiuti una cura utile e necessaria, sia possibile ottenere un "consenso vicario" per tutelare il suo interesse. Si tratta di situazioni comuni nella pratica clinica, specie nel caso dei minori e degli adulti di ridotta capacità mentale, nelle quali risulta evidente la necessità di un rapporto con il paziente di tipo "paterno-fraterno" e per le quali il termine "paternalismo" finisce per essere in parte improprio perché inidoneo a descrivere la quasi infinita gamma di situazioni individuali che caratterizzano il dinamico rapporto diadico medico-paziente. Lo schematismo eccessivo che caratterizza la contrapposizione bipolare paternalismo/autonomia-antipaternalismo è attenuata nella individuazione di quattro modelli di rapporto medico-paziente proposta da Emanuel ed Emanuel nel 1992. Il primo modello, quello più tradizionale, è appunto il modello paternalistico detto talora anche "genitoriale" o "sacerdotale" (priestly) nel quale il rapporto medico-paziente tende ad assicurare che il paziente riceva le prestazioni che meglio garantiscano la sua salute ed il suo benessere. E' il medico che valuta le condizioni del malato e stabilisce i mezzi diagnostici e terapeutici più consoni a questo obiettivo presentandogli una informazione selezionata che lo incoraggia a prestare il suo consenso agli interventi che il curante ritiene i migliori per lui: fino al punto di informarlo autoritariamente delle proprie decisioni e quindi procedere alle prestazioni. Questo modello assume che il medico sia in possesso di criteri obiettivi per stabilire la scelta migliore, che il paziente accetti la proposta (anche se non la gradisce), ed infine che nel rapporto tra autonomia e benessere, scelta e salute, l'autonomia del paziente sia collocata in un secondo piano. In tal modo diventa massima l'obbligazione del medico, che assume su se stesso tutta la responsabilità compresa quella di acquisire il parere di altri medici quando la sua competenza sia insufficiente. pag 73 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Gli altri tre modelli - informativo o scientifico, interpretativo, deliberativo - si collocano nell'area della dottrina dell'autonomia (cfr. infra). La fase cosiddetta del "paternalismo" - sulla quale nella seconda metà del secolo ventesimo si sono rivolte le accuse di autoritarismo e di autoreferenzialità - è durata migliaia di anni durante i quali il legame tra medico e paziente è stato essenzialmente diadico e pochi estranei, eccetto i famigliari, potevano penetrare in questo personale, magico regno delle cure. Era un modello di medicina basato, più di quanto non lo sia oggi, sulla fiducia nella capacità tecnica del medico e sulla sua statura morale, sostenuta dall'attribuzione di poteri magici del curante, ed era caratterizzata dalla dipendenza del paziente e dal controllo esercitato dal medico. I risultati della medicina durante questo lungo periodo sono stati notoriamente assai modesti per la sostanziale assenza di conoscenze autenticamente scientifiche, fatta eccezione per i dati provenienti dalla osservazione dei sintomi più appariscenti delle malattie. Il sistema sanitario del passato, nella sua semplicità e "povertà", aveva anche taluni importanti aspetti positivi. Era, anzitutto, a basso costo. Se non poteva in genere fornire vere cure (cure) forniva una assistenza (care) sintomatica e dava molto valore all'informazione (intesa come prognosi) che era un mistero conosciuto solo dal medico esperto il quale la somministrava al paziente in "dosi" misurate. Nel contempo era una medicina che, poco idonea a trattare l'aspetto fisico della malattia, si dedicava molto all'aspetto psicologico e si basava sull'insegnamento di principi di igiene e di medicina preventiva secondo le modeste conoscenze dell'epoca. In questo sistema il medico era la sorgente dell'informazione, del supporto psicologico, e dell'assistenza sintomatica. Ci si può oggi chiedere, quasi increduli, come una medicina così povera di nozioni e di strumenti, abbia potuto dominare le menti ed i corpi dei nostri predecessori per così lungo tempo. Ma le spiegazioni si possono trovare non solo nel fatto che non esistevano alternative alla medicina prescientifica, ma anche nella perdurante ricerca, da parte del paziente di un rapporto di tipo "paterno-fraterno" tuttora costante sentimento di larga parte della popolazione, a causa della componente psicologica legata alla sofferenza e alla necessità di essere rassicurati anche nei casi più gravi. E' certo questa la ragione principale che spinge milioni di pazienti dei paesi più sviluppati a rivolgersi alle pratiche di cura alternative non scientifiche e a preferirle alle prestazioni della medicina scientifica. La dottrina dell'autonomia del paziente e il modello contrattualistico si richiamano al concetto di autonomia in filosofia morale ed in bioetica che riconosce la capacità umana di autodeterminazione ed il principio che l'autonomia di ogni persona deve essere sempre rispettata. Il problema è quello di formulare un preciso concetto di autodeterminazione e di stabilire come ed in quale misura l'autonomia del singolo pag 74 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) individuo debba essere rispettata. In bioetica clinica (o, se si preferisce, nell'etica medica) il diritto all'autonomia del singolo paziente può entrare in tensione conflittuale con l'obbligo professionale del medico di beneficialità nei confronti del proprio paziente. La dottrina dell'autonomia contrappone di fatto il modello contrattualistico di medicina (per il quale è il paziente che decide) al modello paternalistico. E' probabile che essa sia sorta principalmente a causa dell'aumento di conseguenze negative iatrogene, dirette od indirette, dei trattamenti diagnostici e terapeutici. Da queste situazioni, e non a caso nell'aula di un tribunale civile statunitense in cui si celebrava, nel 1957, un processo per risarcimento danni da responsabilità medica (Salgo V. Leland Stanford, Jr. University Board of Trustees), è nata la dottrina del consenso informato intimamente correlata con quella dell'autonomia perché richiede che il paziente venga portato a conoscenza non soltanto dei trattamenti cui verrà sottoposto ma anche delle possibili conseguenze negative al fine di lasciargli l'autonoma possibilità di accettare o rifiutare il trattamento anche a rischio della salute e della vita. La decisione della Corte è stata seguita da un'ulteriore decisione della Kansas Supreme Court (Natanson V. Kline, 1960). Le conoscenze scientifiche sviluppate nel corso di pochi secoli, ma cresciute esponenzialmente nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, non potevano non diventare, nei limiti del possibile, patrimonio da condividere tra medici e cittadini sani e ammalati, in una società sostanzialmente liberale in cui vi è libera circolazione delle idee e delle nuove conoscenze, favorita da potenti mezzi di comunicazione, a disposizione di tutti. Né era possibile che l'accresciuta rischiosità dei mezzi della medicina e della chirurgia, e dei danni conseguenti all'attuazione del rischio, non richiamasse l'attenzione sui diritti dei malati e dei loro congiunti. Era quindi inevitabile che si elaborassero principi di difesa dei malati di fronte a proposte mediche a sempre più largo spettro, più invasive nel corpo e nella psiche, non più ispirate, come nel passato, a conoscenze confuse ed arbitrarie - e come tali di fatto impossibili da trasmettere correttamente a causa della mancanza di basi attendibili bensì a conoscenze scientifiche credibili. Questa nuova esigenza, d'altro canto, è correlabile anche alla progressiva e rapida scomparsa dell'analfabetismo, alla disponibilità per tutti dei mezzi di comunicazione di massa (la televisione più ancora che la stampa) e alla sempre maggiore consapevolezza dei propri diritti, dovuta all'evoluzione sociale e politica. Il secondo dei quattro modelli di rapporto medico/paziente disegnati dagli Emanuel è il modello informativo chiamato talora anche modello scientifico o "engineering" o "consumer model". In questo modello, che corrisponde tipicamente alla dottrina dell'autonomia, l'obiettivo dell'interazione medico-paziente è per il medico dare al pag 75 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) proprio paziente tutte le informazioni indispensabili, lasciandolo libero di scegliere le prestazioni che preferisce e che il curante eseguirà. Le informazioni concernono la possibile natura della malattia, i mezzi diagnostici e terapeutici necessari per precisarla e curarla, la natura e la probabilità dei rischi e benefici, ed ogni eventuale incertezza nelle conoscenze mediche. In questo modello si realizza una netta distinzione tra i fatti ed i valori: i valori di riferimento del paziente sono a lui stesso conosciuti e definiti ma egli manca invece di adeguate notizie sui fatti. E' compito del medico illustrare questi ultimi mentre spetta alle valutazioni del paziente, in base ai suoi propri criteri, effettuare la scelta definitiva. Non vi è ruolo, in questo modello, per i valori professati dal medico, né per i suoi giudizi sulla scelta del paziente. In altri termini il medico agisce da tecnico che mette a disposizione del paziente gli elementi necessari perché egli possa decidere e possa esercitare il controllo sull'operato del professionista. In tal modo l'autonomia del paziente ha una chiara e decisiva prevalenza. Il terzo modello degli Emanuel è il modello interpretativo il quale si colloca in una posizione di mediazione rispetto all'estremismo irrealistico del modello informativo. L'obiettivo è quello di individuare i valori di riferimento del paziente e ciò che egli realmente desidera, e di aiutarlo a scegliere quegli interventi che siano in armonia con quei valori. Anche in questo modello l'informazione è basilare ma il medico assiste il paziente anche nell'analizzare, articolare ed interpretare i suoi propri valori e quali mezzi possono meglio realizzarli. Per far ciò il medico collabora con il paziente, spesso ignaro egli stesso dei propri valori e fini, nell'individuarli ed anche nel collocarli in una scala di priorità. Solo allora il medico determina quali trattamenti diagnostici e terapeutici realizzano meglio l'obiettivo ma non li impone al paziente, il quale resta alla fine l'arbitro di ogni decisione. Il medico, in questo modello, agisce come un consigliere che aiuta il proprio paziente a conoscere e a scegliere. L'obbligazione di diligenza del professionista, in questo modello, implica dunque un impegnativo processo di coinvolgimento nel quale l'autonomia del paziente risulta sufficientemente rispettata. Il quarto modello degli Emanuel è il modello deliberativo. In questo modello i valori del paziente non sono considerati necessariamente precostituiti e fissi bensì sono considerati aperti allo sviluppo ed alla revisione attraverso la discussione. L'obiettivo dell'interazione medico-paziente è quello di aiutare quest'ultimo ad individuare i valori più strettamente correlati con il bene della salute che possono realisticamente essere raggiunti in una determinata situazione clinica. Il medico dunque deve partire dall'informazione sulle condizioni di salute e da questa base aiutare il paziente ad individuare i tipi di valori implicati nelle possibili opzioni diagnostiche e terapeutiche. pag 76 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Ciò avviene attraverso una discussione che tralascia ogni possibile implicazione di problemi non medici e comunque non è coercitiva. In questo modello il medico è visto come un insegnante od un fratello che coinvolge il paziente in un proficuo dialogo, in un bilanciamento dei pro e dei contro su ciò che può essere il meglio per lui in quella determinata situazione. Il recente rapporto dell'Hastings Center su Gli scopi della medicina: nuove priorità le cui riflessioni sono in molta parte condivisibili, sintetizza in modo efficace i principi che sono a fondamento dell'autonomia, pur apparendo anch'esso carente nello studio della loro compatibilità con le esigenze della pratica medica. Il Rapporto ritiene che il riconoscimento sempre più determinato ed esplicito del rispetto che si deve alle persone, implicante il diritto all'autodeterminazione - cioè, all'autonomia del paziente in medicina e nell'assistenza sanitaria, sancito da moltissime dichiarazioni internazionali, costituisca un progresso importante della medicina contemporanea .Vi si afferma inoltre che se l'interesse centrale della medicina è stato sempre la salute degli individui, più recentemente è stata avanzata l'idea che scopo della medicina, forse anzi il suo scopo per eccellenza, possa essere quello dell'autonomia nel suo significato più ampio: l'autodeterminazione nella scelta di come vivere. Tuttavia se il fine ultimo della salute fosse quello di consentire una vita propria scegliendo liberamente tra tutte le possibilità senza gli impedimenti insiti nella malattia e nelle infermità e quindi se la salute favorisce la possibilità della libertà, sarebbe un errore vedere nella libertà uno scopo della medicina. La salute, afferma il Rapporto, è condizione necessaria, ma non sufficiente, dell'autonomia, e la medicina non può ovviare a questo limite. Infatti alla promozione della libertà cooperano molte altre istituzioni, come ad esempio la scuola, per cui la medicina chiaramente non può realizzarla da sola, anche se a volte può offrire contributi importanti al miglioramento dell'autonomia stessa. L'ambito della medicina è il bene del corpo e della mente, continua il rapporto dell'Hastings Center non il bene complessivo della persona. Al conseguimento di quest'ultimo la medicina può dare solo dei contributi importanti e, anche quando lo fa, esclusivamente per alcuni aspetti della vita. A ben riflettere, la cosiddetta era dell'autonomia si connota per l'aver messo in discussione ancora una volta (cioè come in altre occasioni del passato) i limiti del medico i quali si correlano al più vasto problema dei limiti della medicina. Nella cosiddetta era dell'autonomia, fa rilevare Siegler, l'obiettivo della cura (cure) è risultato prevalente rispetto al "prendersi cura" (care) ed alla prevenzione della malattia. I costi economici connessi alla rapida evoluzione scientifica e tecnologica che ha prodotto la dottrina dell'autonomia, non sono stati considerati, per qualche decennio, un fattore rilevante e comunque non certo da ritenere prioritario rispetto ad pag 77 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) altri ed in particolare l'autonomia del paziente, i suoi bisogni ed i suoi desideri.. Durante questo periodo, già seguito, a quanto è ormai da ritenere, dall'"era" della parsimonia, il rapporto diadico tra medico e paziente ha cominciato a diluirsi ed allentarsi, specie in ambito ospedaliero, a causa della pluralità delle prestazioni compiute da più sanitari a favore di uno stesso paziente (frammentazione e pluralizzazione del rapporto), in una specie di catena di montaggio a forte impronta tecnologica, resa necessaria dalla complessità dell'organizzazione sanitaria. La bilancia, perlomeno teorica, del potere si è fatta pendere lentamente e progressivamente dal medico al paziente a causa, soprattutto, del nascere della dottrina del consenso informato e della minaccia potenziale dei processi contro i medici per colpa professionale e per violazione della regola del consenso. Negli Stati Uniti la dottrina dell'autonomia nelle sue forme esasperate, è stata considerata a carattere libertario e consumistico ed è da tempo sottoposta a revisione critica da parte di autorevoli bioeticisti (Clements e Sider, 1983; Callahan, 1984; Thomasma, 1984,Veatch, 1995). La loro tesi era quella opposta, cioè quella che ritiene prioritario compito dei sanitari il mantenimento ed il ripristino della salute. E' questo, del resto, il passaggio cruciale che segna la differenza tra la rigida concezione dell'autonomia e le regole antiche dell'etica medica. In un esame più allargato del difficile problema, il citato Rapporto dell'Hastings Center tenta una mediazione, affermando che come è un errore fare dell'autonomia un obiettivo fondamentale della medicina, così è un errore erigere a scopo primario della medicina il benessere complessivo della società: la prima sarebbe una visione eccessivamente individualistica, la seconda una visione eccessivamente comunitaristica. Non è nei poteri della medicina di determinare il bene complessivo della società. Per giocare un ruolo generale nella promozione del benessere sociale, al di là di quello più limitato di provvedere alla salute dei cittadini, la medicina dovrebbe essere in grado di pronunciare giudizi di carattere più generale e di stabilire quando le sue capacità possano essere poste al servizio degli scopi della società o subordinate ad essi. Ma essa non è in grado di farlo; e qualora tollerasse di venire impiegata a questi scopi, metterebbe a repentaglio la propria integrità e il conseguimento dei propri scopi. Una società che si servisse della medicina per cancellare gli inadatti, per servire fini politici di parte, per farne l'ancella dell'autorità politica o anche solo l'esecutrice della volontà del popolo, le farebbe perdere ben presto la sua centralità e la sua integrità. In realtà il principio morale dell'autonomia del paziente entra in conflitto con il doveri del medico solo in circostanze estreme, che possono giustificare l'elaborazione di due dottrine contrapposte: quella che ritiene sempre prevalente il dovere di curare e di salvare la vita e la salute, quella che vede invece prevalere il diritto alla decisione libera ed autonoma, qualunque siano le conseguenze, anche il peggioramento della malattia o pag 78 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) la morte. Tuttavia le posizioni estreme della dottrina dell'autonomia, sono non di rado in contrasto, quantomeno in Italia, con altre norme dell'ordinamento le quali impongono ai medici, in numerose situazioni, quella che viene definita posizione di garanzia la quale emerge quando il paziente si affida alle loro cure, non certo quando egli rimane nel proprio domicilio e deliberatamente rifiuta ogni assistenza, situazione che solo in presenza di una incapacità mentale può giustificare interventi coercitivi. La cosiddetta "era dell'autonomia" era già in declino negli Stati Uniti nel 1985, al sopraggiungere dell'"era" cosiddetta della parsimonia nella quale anche l'Italia oggi si trova evidentemente entrata a causa della progressiva forbice tra costi economici globali della medicina e disponibilità limitata delle risorse il che sta producendo un sostanziale ridimensionamento delle libertà decisionali sia del malato che dello stesso medico. Va osservato tuttavia, come accennato poc'anzi, che questa distinzione tra diverse "ere" nell'interpretazione dell'etica del rapporto medicopaziente deve essere considerata una modellizzazione esplicativa, che non può essere di per sé applicata alla realtà storica e quotidiana della medicina Ciò premesso, si può nondimeno notare che questa nuova fase è già da qualche anno iniziata anche in Italia dove convive con quella dell'autonomia: che tuttavia conserva uno spazio maggioritario nelle riviste e nelle aule dei convegni dove non di rado domina la retorica dedicata a principi in parte inapplicabili nella pratica medica, ma purtroppo applicati con severità crescente nei tribunali, nei quali tante declamazioni di principio si ritorcono a colpire i medici. Nella realtà quotidiana della medicina l'era della parsimonia sta ormai occupando incontrastata il campo pretendendo il contenimento dei costi e un adeguato rapporto costo/efficacia e richiedendo pertanto analisi di natura strettamente burocratica sui rischi/benefici. La qualità delle cure, già per proprio conto difficile da definire, sta diventando un obiettivo sempre più correlato al costo dell'assistenza che è molto più facile da individuare e quantificare. In questo nuovo periodo il rapporto diadico medico-paziente si allenta ulteriormente nelle strutture sanitarie - che si occupano delle patologie più rilevanti - perché il medico viene sempre più caricato della responsabilità di interessi multipli che includono il personale addetto all'organizzazione, gli ospedali, il mondo politico, e negli Stati Uniti - tra poco probabilmente anche in Italia - le compagnie di assicurazione. Il medico, cui si richiede di farsi carico di un'attività che contenga i costi e di assumersi contemporaneamente anche i ruolo di manager, moltiplica i propri compiti mediante relazioni plurime e policentriche. La tendenza legislativa è spesso ispirata alle necessità del bilancio della sanità e nel contempo a disegnare una figura di medico ospedaliero i cui compiti e limiti recano i connotati sempre più evidenti dell'era della parsimonia. La corsa per rispettare i pag 79 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) tempi di ricovero programmati nella prospettiva delle esigenze dell'economia sanitaria provoca situazioni di stress del medico, aumenta la probabilità di errore diagnostico e terapeutico e riduce comunque il tempo a disposizione per esaurienti colloqui personali con i pazienti, demandati ai medici più giovani ed ai paramedici, accentuando in tal modo una situazione lamentata per il passato e allontanando sempre di più l'ideale rapporto del medico con il paziente declamato nei proclami sui diritti di quest'ultimo che si leggono nei testi dottrinali e nelle sentenze dei tribunali. Nelle due precedenti fasi il bene del paziente era ritenuto il problema dominante del medico. Nell'"era" cosiddetta del paternalismo consisteva nel primario interesse della salute del paziente individuato dal medico sotto la propria responsabilità. Nella successiva "era" dell'autonomia tale bene si è controbilanciato dando rilievo primario alla libertà del paziente e al suo diritto all'autodeterminazione. Nell'età della parsimonia il bene del paziente è collocato sul piatto di una bilancia che porta sull'altro piatto beni molto diversi, come i bisogni dell'ospedale, i bisogni di coloro che vi lavorano (inclusi ovviamente i medici), e le necessità della società. Il decision making non è più consegnato, pertanto, soltanto nelle mani del medico o dello stesso paziente. Il paternalismo medico e l'autonomia del paziente, in relazione alle decisioni mediche, finiscono così per essere sostituiti dall'efficienza e convenienza delle istituzioni e della società, basati largamente su valutazioni dei costi, problema che è divenuto sempre più centrale. In contrasto con i due precedenti periodi le scelte dei medici ed i desideri dei pazienti saranno sempre più sottoposti ai desideri ed alle decisioni dei politici e dei burocrati, delle varie multinazionali dei farmaci e degli strumenti e materiali sanitari ed anche ad esigenze di bilancio delle compagnie di assicurazione che, se negassero o restringessero drasticamente le coperture per responsabilità civile medica, di fatto indurrebbero molti medici ad abbandonare la propria attività: il che è già più volte avvenuto negli Stati Uniti. Nella nuova fase della parsimonia il rapporto medico-paziente rischia di peggiorare sia rispetto alla criticata era del paternalismo sia alla più recente età dell'autonomia. Se un paziente desidera prolungare la propria degenza in ospedale per qualsiasi ragionevole motivo personale, tra cui il comprensibile timore di non trovare un adeguato supporto a domicilio durante la convalescenza -per fare un esempio tra i più comuni e più semplici - la rigorosa regola dei DRG lo costringe invece a rinunciare al proprio desiderio di autonoma decisione, ed accettare di essere dimesso. E se il paziente desidera usufruire di strumenti che l'ospedale non possiede a causa delle sue dimensioni e delle sue indisponibilità economiche, vi deve rinunciare sperando di essere accolto in altre strutture, spesso lontane dalla sua residenza e quindi dalla sua famiglia. Il mutare delle conoscenze non può dunque cambiare la sostanza di un rapporto che spesso le condizioni di oggettiva pag 80 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) dipendenza del paziente dal medico, dovuta alla malattia e lo stato soggettivo in cui quest'ultimo si trova, rendono disuguale e asimmetrico ed anche in un periodo, come l'attuale, dove lo strumento del contenzioso giudiziario si sforza di garantire la massima tutela dei diritti dei malati, è oggettivamente difficile riequilibrare una bilancia per sua natura squilibrata. I processi penali e civili non sono in grado di farlo e rischiano anzi di produrre una più diffusa medicalizzazione che influisce negativamente gli atti medici. Si deve del resto riconoscere che un rapporto asimmetrico è destino comune a tutti i rapporti umani, in cui singoli o gruppi si "specializzano" in determinate attività le quali diventano necessarie agli altri o comunque sono ad essi imposte: si tratti dei militari, degli uomini politici, dei commercianti, degli ingegneri, degli avvocati, degli insegnanti e così via fino alla miriade di "mestieri" iperspecializzati oggi riscontrabili in una società che basa la propria vita ed il proprio sviluppo su di un reticolo quasi inestricabile di interdipendenze. In questa fittissima rete di rapporti il principio di autonomia, di cui diremo tra poco, diventa spesso virtuale anche se residuano spazi, che bisognerebbe potenziare, per decisioni ed azioni personali. La medicina, non differisce certo dalle altre "specializzazioni" soprattutto quelle tipiche delle professioni intellettuali, che, in senso lato, potrebbero essere spesso accusate di atteggiamento "paternalistici" ognuna con la proprie peculiarità, anche se l'imposizione al "cliente" non avviene con mezzi direttamente coercitivi. E' peraltro comprensibile, a causa del peculiare oggetto dell'attività medica, costituito dalla salute e dalla vita - beni primari, in Italia costituzionalmente protetti, e posti a rischio di danno iatrogeno - che una particolare attenzione venga posta alla professione sanitaria e che essa, a differenza delle altre professioni, sia messa oggi in discussione in modo specifico, producendo crisi e conflitti di crescente intensità e gravità. Sul piano dottrinale è dunque difficile riscontrare una reale differenza tra i principi e precetti deontologici dell'epoca ippocratica e quelli contenuti nei codici deontologici attuali, principi che da sempre ispirano la prassi della maggioranza dei medici onesti (nel senso più ampio del termine, che include la competenza e la diligenza) basata sulla beneficence-in-trust che concepisce la salute come bene relazionale "obiettivo di entrambi, paziente e curante", che "si pongono in un rapporto di fiducia reciproca in cui perseguono l'interesse maggiore, quello della salute" . E sul piano pratico lo squilibrio tra medico e paziente è ineliminabile: ma spetta certamente al medico ridurre al massimo questa asimmetria, fa parte della sua Arte sul piano tecnico prima ancora che su quello morale. Accanto alla salute esistono altri valori e beni umani fondamentali. E' questa probabilmente la tensione principale tra l'approccio cosiddetto "paternalistico" e quello "contrattualistico" in medicina. Esso pag 81 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) è alla base della richiesta del riconoscimento dell'autonomia del paziente, da cui discende il principio del consenso informato e il diritto di rifiutare le cure. Il medico per rendere possibile tale principio ha il dovere di informare il paziente sui rischi connessi alla terapia e sui suoi costi, anche in termini personali e in relazione ad altri valori o beni. La salute, tuttavia, pur non essendo un bene assoluto, è il bene che la medicina persegue, ed il compito primario del medico, a differenza di altri beni individuali quali l'autonomia e o il benessere. La tutela dell'autonomia del paziente non consiste quindi nel negoziare la salute come orientamento comune del rapporto medico-paziente, ma nel concordare le scelte sui mezzi, sul rapporto costi/benefici e sulla valutazione del rischio che si è disposti a correre. Il paziente può non accettare questa impostazione e trovare un altro medico, ma il medico non è tenuto ad andare contro il suo giudizio clinico per acconsentire al volere del paziente, nel caso in cui non si giunga ad una decisione terapeutica condivisa. Connotare negativamente un'intera epoca, durata millenni, come era del "paternalismo" da ripudiare, implicherebbe almeno che le dottrine deontologiche di quel lungo periodo avessero teorizzato una condotta irragionevolmente autoritaria del medico, il che non corrisponde a quanto la storia della deontologia medica ci tramanda. Altra cosa è il giudizio negativo che si deve formulare sulla condotta autoritaria di singoli medici, basata su di una erronea concezione del proprio ruolo e dei propri limiti, che in talune circostanze porta all'abuso. Se, infatti, per paternalismo medico si vuole intendere l'atteggiamento arrogante di quei medici che esercitano, spesso inconsapevolmente, un potere di suggestione e di coercizione morale che li porta a sostituirsi in modo apodittico alla volontà del paziente approfittando della sua ignoranza e del proprio sapere, questo è problema di sempre e probabilmente lo sarà anche in futuro: perché chi possiede determinate, specifiche competenze, si trova in una posizione privilegiata, che consente gli abusi consapevoli od anche inconsapevoli. Il "paternalismo" non designa dunque un'era ma solo dei singoli comportamenti professionali purtroppo tuttora diffusi, non di rado connessi a tratti caratteriali, connotati da supponenza e da scarsa capacità di comunicare diagnosi, progetti terapeutici e prognosi con rispetto ed umanità. Questo atteggiamento non è certo neppure "paterno", nel senso autentico del termine, e diventa negativamente paternalistico, come imposizione di verità e di comportamenti, in momenti in cui il richiedente è in una condizione di bisogno, e quindi di inferiorità. Giudicare la lunga storia dell'assistenza medica - prestata pur nella scarsa conoscenza medica - con lo sbrigativo giudizio di "paternalismo" è atteggiamento superficiale ed irrispettoso nei confronti della lunghissima schiera di medici che ci hanno preceduto nell'arco di millenni e che tanti meriti hanno acquisito in contesti difficili e connotati incolpevolmente da una assai lenta crescita delle conoscenze scientifiche, iniziate di pag 82 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) fatto nel secolo XVII. Se il paternalismo deteriore, antico e recente, deve essere ripudiato e combattuto, è da ritenere invece che dal millenario passato della medicina debbano essere ricuperati proprio quello spirito, e quella pratica, che si richiama alla fraterna, ed anche paterna-materna solidarietà con i pazienti, ed anche con i congiunti che soffrono con loro. Limiti e rischi della medicina scientifica Il "patto" tra medicina e società rischia di essere messo in crisi dall'insufficiente informazione ai cittadini circa i limiti e i rischi della medicina scientifica. La società potrebbe accettare di mettere in discussione la "legittimità" delle proprie richieste, attualmente sempre più estese ed esigenti e contrarre la domanda condividendo il razionamento delle risorse e le priorità, ma a condizione che sia adeguatamente informata della natura peculiare della medicina, del suo carattere imperfetto, della sua intrinseca rischiosità. E' questa una informazione per ora assente ed anzi sostituita da attese spesso irragionevoli. Negli Stati Uniti, così come in Gran Bretagna, sulla scorta dei dati desunti dagli errori in medicina, è in piena evoluzione un dibattito che porterà a rendere più severa la valutazione della qualità professionale degli operatori sanitari attraverso veri e propri esami periodici di idoneità. Ma se la capacità e l'aggiornamento degli operatori della salute rappresentano un caposaldo delle condizioni di base per il nuovo patto tra società e medicina, lo stesso deve essere affermato - a maggior ragione, se possibile - per il livello di conoscenza che è a monte della prestazione. Anche il più aggiornato dei medici, infatti, non può evitare l'errore e tanto meno l'insuccesso - connaturati ad una professione a rischio, se gli strumenti del suo aggiornamento (in primo luogo la sperimentazione clinica e la letteratura scientifica) non tengono conto di ciò che veramente è utile al paziente, di ciò che non lo è, e di ciò che è francamente dannoso. A tale riguardo, invece, non sono stati registrati, purtroppo, i progressi sperati, nonostante i primi lavori di A. Cochrane circa la medicina basata sulle prove di efficacia siano noti da tempo. Si tratta di un problema che investe l'intera società. Anche la popolazione subisce infatti le conseguenze di una costante disinformazione, che avviene attraverso l'enfatizzazione spesso acritica dei benefici di una medicina della quale non si evidenziano a sufficienza rischi, effetti indesiderati, incertezze, inutilità, eventuale dannosità. Tra i tanti esempi che si potrebbero proporre ci si limita a segnalare il complesso del consumo dei farmaci e degli effetti collaterali ad essi connessi. I farmaci attualmente in commercio ammontano a diverse migliaia, per tutti la commercializzazione è preceduta da sperimentazioni adeguate, ma il numero e la qualità degli effetti dannosi collaterali, talora gravi, pur essendo menzionati nei fogli illustrativi che sono obbligatoriamente pag 83 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) allegati alle specialità, non sono di per sé in grado di essere compresi dai pazienti: sia a causa della terminologia usata sia perché non è immaginabile che il medico curante possa spiegarne in dettaglio la natura e la rischiosità. Si aggiunga che tra gli stati membri dell'Unione Europea sussistono significative differenze e gravi incongruenze delle norme che governano le attività e le politiche in tema di regolazione e commercializzazione dei farmaci. In questo contesto la comparsa di patologie gravi da farmaci - che recenti stime relative agli Stati Uniti indicano in circa 2 milioni di casi, con oltre centomila morti all'anno collocandosi tra la quarta e la sesta causa di morte - non è accettata dai danneggiati e dai loro congiunti, sostanzialmente ignari di questi concreti rischi e quindi inevitabilmente inclini ad attribuirne la colpa ai medici. Il problema è rilevante anche dal punto di vista economico. Un recente studio valuta in più di 76 miliardi di dollari il costo annuale, negli Stati Uniti, dell'uso improprio dei farmaci. Esistono evidenze che in Italia e in Francia il 20% delle spese da farmaci riguardi prodotti la cui efficacia non è comprovata. Recenti ricerche in farmacoeconomia hanno inoltre indicato che i costi associati all'uso inappropriato, ovvero eccessivo, dei farmaci possono persino essere anche superiori alle stesse spese iniziali per l'acquisto dei farmaci. Questi costi comprendono le spese addizionali correlate all'incremento delle ospedalizzazioni, al protrarsi delle degenze, al ricorso a visite ambulatoriali, procedure diagnostiche e trattamenti aggiuntivi dovuti ai problemi insorti a seguito della prescrizione farmacoterapica. Includendo in tali calcoli anche i costi indiretti derivanti dalla perdita di produttività, i costi complessivi negli USA ammonterebbero a una cifra compresa tra 138 e 182 miliardi dollari, ponendo dunque la mortalità e la morbilità correlate all'uso di farmaci tra le evenienze più gravose in termini di consumo di risorse in sanità. In Italia gli avvelenamenti ed effetti tossici da farmaci (DRG 449-451) hanno comportato nel 1994 oltre 20.000 ricoveri, e circa 28.000 nel 1995. Tali dati peraltro sottostimano il problema per almeno due motivi: anzitutto in quanto si riferiscono alle sole reazioni avverse da farmaci già codificate come diagnosi principale, in secondo luogo in quanto si riferiscono alle sole reazioni avverse e non anche a dosaggi inappropriati ed alle scelte terapeutiche incongrue. Problemi ancora maggiori sono suscitati dai vaccini, dei quali si richiede da molte parti la revoca dell'obbligatorietà o quanto meno una maggiore conoscenza dell'epidemiologia dei danni da effetti avversi. Il direttore del British Medical Journal (Smith 1999), in un suo editoriale ha sintetizzato le esigenze irrinunciabili dell'informazione che deve essere fornita all'opinione pubblica : la morte è inevitabile; la maggior parte delle malattie gravi non può essere guarita; gli antibiotici non servono per curare l'influenza; le protesi artificiali ogni tanto si rompono; gli ospedali sono luoghi pericolosi; ogni medicamento ha anche effetti secondari; la maggioranza pag 84 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) degli interventi medici dà solo benefici marginali e molti non hanno effetto; gli screening producono anche falsi positivi e falsi negativi; esistono modi migliori di spendere i soldi che destinarli ad acquisire tecnologia medico-sanitaria. Riscrivere le regole del rapporto tra società e medicina, al fine di stipulare un nuovo patto per i prossimi anni, richiede, da parte della medicina, un rilevante sforzo di sincerità, indubbiamente difficile per ragioni tecniche, anzitutto, ma anche per ragioni psicologiche non trascurabili. Tuttavia tale sforzo deve essere necessariamente compiuto e gli organi di informazione devono contribuirvi abbandonando ogni tentazione al sensazionalismo ed alla facile accusa che sono tra i principali ostacoli che inibiscono la sincerità dei medici. Concetti di malattia e di terapia Le idee di essenza e di natura avanzate in questo saggio implicano una filosofia che si sottragga almeno in parte all’empirismo radicale che risolve differenze di qualità/essenze in mere differenze di quantità. Una filosofia del genere è oggi rara per l’antiessenzialismo indotto da generalizzazioni pseudoscientifiche dell’evoluzionismo che qui mostra una valenza nichilistica. Quando questa si esercita sulla natura umana, cerca velleitariamente di privarla di ogni necessità, di considerarla completamente trasformabile e in sé priva di un senso, che le dovrà essere attribuito dal soggetto. Un esito di questo processo è la attenuazione sino alla cancellazione delle differenze fra interventi terapeutici e interventi ‘manipolativimigliorativi’, nell’intento di rimettere alle preferenze individuali dei soggetti, all’ingegnere genetico e alle regole del mercato il compito di gestire l’intero ambito della salute, della terapia, della selezione genetica. Coerentemente N. Agar ha scritto: “I liberali dubitano che il concetto di malattia possa servire a risolvere, in sede di teoria morale, i problemi posti dalla distinzione fra terapia e selezione genetica” (citato da Habermas, p. 22). Su questo importante aspetto che chiama in causa un concetto reggente di ogni medicina, quello di malattia, ora ci soffermiamo nell’intento di trovare criteri per separare il momento terapeutico da quello ‘potenziante’. Le idee di malattia e terapia necessariamente rinviano alla natura come normalità di funzionamento, alla malattia come scostamento da tale normalità, e alla terapia come ricostituzione della normalità. La medicina come arte e scienza e l’idea di terapia che le è immanente non possono venire esplicitate senza fare riferimento all’idea di natura almeno come normalità di funzionamento e correlato accertamento anche statistico. In effetti l’idea di terapia è connessa, dipendente e consecutiva a quella di malattia e quest’ultima implica che vi sia una deviazione dallo stato normale, cioè dalla condizione di salute, che costituisce la “condizione naturale”. pag 85 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Ora, se il concetto di natura smarrisce ogni rilevanza obiettiva almeno fenomenologicamente accertabile, e diventa soltanto il prodotto culturale storicamente variabile di scelte e decisioni del singolo in cui si esprimono i suoi desideri, impulsi, istinti, anche i concetti di malattia e di terapia andrebbero abbandonati. Se niente è di per sé naturale e normofunzionale, neppure lo stato di salute lo è, e neppure la declinazione dal naturale (ossia la malattia) ha senso: conseguentemente cade il concetto di terapia. Più in generale viene compromesso il concetto di medicina ippocratica, che è basata su poche ma nodali nozioni che ne sostengono l’impalcatura: il concetto di naturale quale normalità di funzionamento, la malattia come deviazione da una condizione naturale o normale, la terapia quale azione volta a ristabilire la salute. Ora l’eugenetica ‘negativa’ o terapeutica non può venire giudicata sfavorevolmente a priori: non vi è nulla di censurabile bensì di meritorio nel curare le malattie genetiche, a condizione che lo scopo terapeutico non proceda ad autoinvalidarsi mediante la violazione del principio per cui l’essere umano non può mai diventare mezzo per altro o altri. La gestione concreta dell’eugenetica pone e porrà una miriade di delicati problemi che non possono essere soltanto previsti a tavolino. Indubbiamente occorrerà evitare una eugenetica che violi il principio di uguaglianza naturale del genere, e che introduca differenze antropologicamente rilevanti fra individui e gruppi umani. Nonostante la diversità di linguaggio filosofico e di orizzonti di riferimento, vi sono somiglianze fra le posizioni di Habermas e quelle di Fukuyama, fra cui il significativo mantenimento della differenza fra terapia genica ed eugenetica: la prima a scopo curativo, l’altra volta a interventi selezionanti, migliorativi e potenzianti. Entrambi si esprimono criticamente sull’eugenetica liberale, ossia su un impiego della genetica che conduca al superamento della differenza fra terapia e potenziamento, o che proceda a selezionare fra coloro cui si concede di continuare lo sviluppo e coloro che vengono soppressi. pag 86 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) PSICOLOGIA - PSICHIATRIA Temperamento, carattere e personalità Ogni persona umana ha sin dalla nascita un fondamento biologico: il patrimonio organico innato che ciascuno riceve attraverso la trasmissione ereditaria (costituzione ereditaria), da cui derivano le forme e proporzioni del corpo (costituzione morfologica) e le modalità di funzioni vitali (circolatoria, respiratoria, digestiva, ecc.) dipendenti dal sistema nervoso e endocrino (costituzione fisiologica). Il complesso di questi elementi determina una iniziale struttura psichica o temperamento. Perché "iniziale"? Perché al condizionamento dei fattori ereditari si deve aggiungere quello dovuto ai fattori ambientali, che interessa tutta la vita del soggetto. La personalità è frutto di questi condizionamenti e della reazione a questi condizionamenti. Con la parola temperamento s'intende la risposta psichica naturale al corredo organico ereditario: essa esprime impulsi, tendenze istintive, disposizioni, necessità, stati affettivi... Il carattere invece è frutto dell'iniziativa del soggetto sotto l'influsso dell'ambiente. Nel bambino il carattere non si distingue ancora dal temperamento, la decisione non si distingue dall'impulso, i processi di inibizione sono poco sviluppati, gli schemi mentali sono troppo semplici, ecc. La personalità non solo unifica gli aspetti biologici del temperamento e quelli psichici del carattere, influenzati dall'ambiente, ma crea anche valori, modelli di comportamento, forme di organizzazione sociale in grado di modificare l'ambiente e la stessa personalità. Fondamenti biologici dell'attività psichica Tutte le attività psichiche dell'uomo poggiano su un fondamento biologico che si esplica studiando l'uomo dal punto di vista anatomico (struttura dei vari organi e apparati) e fisiologico (modalità di funzionamento degli organi). I) L'organo più importante del corpo umano è il sistema nervoso, che regola e coordina ogni altra attività fisiologica e presiede al rapporto organismo/ambiente. Le funzioni principali del sistema nervoso sono tre: • ricezione (attraverso gli organi di senso esso capta i diversi stimoli dell'ambiente o quelli interni dell'organismo); • elaborazione/controllo (attraverso le fibre nervose di connessione gli stimoli giungono al cervello che li rielabora); • risposta (dai centri nervosi altre fibre di connessione ritrasmettono lo stimolo alla periferia: muscoli, ghiandole, ecc.). pag 87 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Anche negli organismi unicellulari vi sono le fondamentali proprietà funzionali del sistema nervoso: capacità di essere sensibili a determinate variazioni (stimoli) che si verificano nell'ambiente, capacità di reagire a tali variazioni. II) Correlato al sistema nervoso vi è quello endocrino: un insieme di ghiandole a secrezione interna (gli ormoni che producono vengono riassorbiti nel sangue e trasmessi a tutto l'organismo). Gli ormoni determinano la crescita corporea, lo sviluppo sessuale, il metabolismo generale e influenzano il temperamento (ad es. l'ipertiroidismo provoca dimagrimento, eccitabilità neuromuscolare, labilità emotiva; viceversa l'ipotiroidismo porta a nanismo, cretinismo, iposessualità...). Tipologie costituzionali Il primo tentativo di tipologia scientifica, basata sul metodo puramente descrittivo e non sperimentale, risale a Ippocrate (460-377 a.C.). Secondo la sua teoria, la natura dell'uomo è costituita dal sangue (che proviene dal cuore e che se prevale determina il tipo sanguigno/impulsivo, cioè vivace, socievole, superficiale, facile all'entusiasmo, incline all'attività), dal flemma (che viene dal cervello e che se prevale determina il tipo flemmatico/linfatico, portato al sentimentalismo, lento nei movimenti, indeciso), dalla bile gialla (che viene dal fegato e che se prevale determina il tipo collerico/bilioso, cioè tenace, volitivo, ribelle, con intelligenza rapida, facile all'ira e alle forti passioni), dalla bile nera (che viene dalla milza e giunge allo stomaco e che se prevale determina il tipo malinconico/atrabiliare, incline alla tristezza, facile alla depressione). Questa tipologia è rimasta praticamente inalterata sino a Wundt compreso (1832-1920), venendo a incrociarsi: • • • con alcune teorie fisiognomiche, secondo cui si può classificare una personalità dai tratti del suo volto, con la frenologia, per la quale singole funzioni psichiche (ad es. l'amore, l'aggressività, ecc.) potevano essere nettamente localizzate in singole parti del cervello, sicché per capire i vari aspetti della personalità bastava esaminare la conformazione del cranio (linee, bozze, depressioni particolari). A livello di "scienza popolare" si può fare un cenno alla chiromanzia, che pretende di leggere il carattere di una persona sulle pieghe cutanee del palmo della mano. La prima scuola costituzionalista, ad impostazione veramente scientifica, è stata quella di De Giovanni, Viola e Pende, iniziata alla fine del secolo scorso. Essa prendeva come punto di partenza il corpo per risalire alle principali caratteristiche psichiche. Grazie a questa scuola si è arrivati a classificare gli individui in tre categorie: • • • Brachitipo (sviluppo del tronco prevalente su quello degli arti), Longitipo (sviluppo prevalente degli arti), Normotipo (equilibrio). Un criterio per stabilire a quale categoria appartenga un soggetto di 25-30 anni si può ricavare dividendo l'altezza per il perimetro toracico; se il quoziente pag 88 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) ottenuto si avvicina a 1,87 il soggetto è quasi normolineo, se inferiore è brevilineo, se superiore è longilineo. A ciascun tipo costituzionale corrisponderebbe una maggiore facilità a contrarre certi tipi di malattie. Tipologie correlazionali I) Nel 1922, in Germania, Ernst Kretschmer pubblicò un'opera scientifica che ancora oggi desta un certo interesse in campo psichiatrico. A differenza delle scuole costituzionaliste, la sua tipologia si basava su certe correlazioni tra l'aspetto organico e quello mentale. Partendo dall'osservazione che spesso esiste un'accentuata diversità fisica fra i malati mentali, il Kretschmer si accorse che al tipo fisico Leptosomico (longilineo) corrispondeva il tipo psichico Schizotimico, al tipo fisico Picnico (brevilineo) corrispondeva il tipo psichico Ciclotimico. Quando questi tipi caratterologici sconfinano nel patologico si verificano, rispettivamente, la schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva. RAFFRONTO PSICOLOGICO TRA LO SCHIZOTIMICO E IL CICLOTIMICO (E. KRETSCHMER) Schizotimico (schizo=divido, thymos=stato d'animo) Ciclotimico (cyclo=circolo, thymos=stato d'animo) Tonalità psichica che oscilla dalla sensibilità alla Tonalità psichica che oscilla dall'eccitazione alla ipersensibilità, dalla vivacità esagerata alla depressione, dall'allegria alla tristezza, dalla costanza, dalla instabilità all'ostinazione. rapidità alla estrema lentezza. Tensione mentale o attenzione concentrata su una Tensione mentale o attenzione diffusa su varie cose cosa per volta: mette a fuoco i dettagli più che per volta: mette a fuoco l'insieme più che i dettagli. l'insieme. Energia psichica notevole: la fatica appare Energia psichica limitata: la fatica appare d'improvviso. Preferenza per i lavori più difficili e lentamente. Preferenza per i lavori più facili e fedeltà al compito. infedeltà al compito. Psicosensorialità in genere di grado elevato e rivolta di preferenza alla sensibilità interna. La percezione è orientata più alle forme che ai colori. Preferenza per i colori scuri, a tinta uniforme. Psicosensorialità in genere di grado elevato e rivolta di preferenza alla sensibilità esterna. La percezione è orientata più ai colori che alle forme. Preferenza per i colori luminosi a tinta vivace. Psicomotricità in genere inadeguata: manca Psicomotricità in genere adeguata: ora rapida ora l'immediata corrispondenza tra l'eccitazione lenta, ma sempre naturale e spontanea. psichica e la reazione motoria. Capacità di apprendimento notevole, soprattutto Capacità di apprendimento notevole, soprattutto per il mondo interiore: predomina l'analisi sulla per il mondo esteriore: predomina la sintesi sintesi. sull'analisi. Attività mentale: orientata alla riflessione, all'immaginazione, ai sogni, alle idee, alla soggettività, all'astratto. Spiccata tendenza alle forme pure, all'arte e alle scienze (filosofia, metafisica, matematica, fisica teorica…). Attività mentale: orientata alla vita pratica, alla realtà, alla natura, all'obiettività, al concreto. Spiccata tendenza alle forme empiriche, agli oggetti palpabili, al positivo, alle scienze pratiche (biologia, medicina, meccanica, ingegneria, ecc.). Capacità volitiva: scarsa, ma animatore vigoroso. Capacità volitiva: tenace, perseverante, ostinata. Infedeltà recidiva ai propositi. Discontinuità Fedeltà estrema ai propositi. Continuità nell'azione. nell'azione. Affettività concentrata su un numero ristretto di Affettività diffusa più o meno a tutte le persone: persone: unilaterale e tirannica. Tendenza alle multilaterale ma in superficie. Scarsa tendenza alle grandi passioni. In genere pessimista. grandi e durature passioni. In genere ottimista. Socialità: adattamento limitato. Desiderio di star Socialità: adattamento completo. Notevole spirito di solo o con poche determinate persone. Nemico collaborazione, ricerca spontanea della compagnia. pag 89 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) naturale della moltitudine, intransigente, Condiscendente, tollerante, conciliante, difficilmente conforme, è ironico, sarcastico, comprensivo, espansivo, servizievole, rispettoso mordace, fanatico per le proprie idee. delle idee altrui. Comportamento in genere spavaldo, entusiasta, Comportamento in genere timido, prudente, attivo, agitato, audace, temerario, impulsivo, franco, riflessivo, riservato, freddo, moderato, pieno aperto, cordiale, limitato controllo di sé, scarso controllo di sé, autodominio. Tendenza ad ascoltare autodominio. Tendenza a parlare piuttosto che ad piuttosto che a parlare. ascoltare. II) Questa classificazione, pur essendo molto schematica, ha stimolato altri studi: ad es. quelli dell'americano William Sheldon, negli anni '40. La sua tipologia parte dall'ipotesi che tutti gli individui sono riconducibili a tre fondamentali tipi fisici: • Endomorfo, • Mesomorfo, • Ectomorfo, cui corrispondono, rispettivamente, tre tipi caratterologici: • Viscerotonico, • Somatotonico, • Cerebrotonico. Queste tipologie hanno tutte un limite: la pretesa di inquadrare esattamente un individuo in un tipo determinato. Inoltre esse tendono a ridurre i fattori psicologici a quelli biologici. Resta vero tuttavia che certi tratti psicologici permangono con minime variazioni nel corso dell'intera vita. Saperli individuare in tempo può essere molto utile per orientare l'educazione. QUADRO TIPOLOGICO DI SHELDON TIPI FISICI TIPI CARATTEROLOGICI Cerebrotonico: simile al tipo schizotimico del Ectomorfico: simile al tipo longilineo del De Kretschmer. Prevalentemente intellettuale, chiuso Giovanni e al leptosoma del Kretschmer. Delicato, nel proprio io, introverso. Nervoso, irritabile, timido, ossa piccole, muscoli poco sviluppati, nervi deboli. inibito. Nemico delle grida, delle esplosioni improvvise, delle manifestazioni rumorose. Endomorfico: simile al tipo brevilineo del De Giovanni e al picnico del Kretschmer. Predominio della massa viscerale. Il corpo sembra costruito intorno al sistema digestivo. Grosso, rotondo e con tendenza all'obesità. Viscerotonico: simile al tipo ciclotimico del Kretschmer. Prevalentemente affettivo, espansivo, estroverso. In genere allegro, entusiasta, socievole. Amabile per natura, ricerca la compagnia e le riunioni rumorose. Somatotonico: prevalentemente attivo, energico, Mesomorfico: simile al tipo normolineo del De aggressivo. Vive per agire, per organizzare, per Giovanni e al tipo atletico del Kretschmer. dominare. Si difende dagli affanni e dalle Predominio della struttura ossea e muscolare del preoccupazioni quotidiane col lavoro assiduo e corpo. Ossa e muscoli bene sviluppati e forti. operoso. Tipologie psicologiche pag 90 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Si basano su un criterio prevalentemente psichico, cioè mettono l'accento sui tratti caratterologici dominanti nella struttura della personalità. Una delle più importanti è quella di René Le Senne (1882-1954), che partendo dal fenomeno della perseverazione (scoperto prima in psichiatria e poi confermato in psicologia) arrivò a sostenere che taluni individui tendono a permanere su una data esperienza anche quando lo stimolo è scomparso ed è interrotta l'attenzione. Questa legge d'inerzia della vita psichica ha destato un grande interesse in molti studiosi. La caratterologia tuttavia resta ancora una scienza molto giovane. FASI DELLO SVILUPPO DELLA PERSONALITA' Fase pre-natale La vita non comincia con la nascita. Il cuore del feto comincia a battere verso la 6a settimana dopo il concepimento. Verso le 20 settimane si costituisce il cervello, coi suoi 12 miliardi di cellule nervose. A partire dal 3o mese risponde con movimenti globali alle stimolazioni interne legate al suo sviluppo (vedi l'alternanza di attività motoria e di riposo). Al 6o mese può rispondere a stimolazioni esterne (p.es. suono/rumore). Un neonato prematuro di 6 mesi è capace di succhiare-inghiottire-reagire diversamente ai sapori salati/dolcireagire a stimoli olfattivi. Molto prima della nascita è sensibile, a livello cutaneo, alla pressione, al dolore e calore. È stato dimostrato che in questa fase tutte le condizioni di grave e prolungato stress, ansia, frustrazione, denutrizione della madre possono determinare nel feto paralisi cerebrale, epilessia, deficienza mentale, disturbi del comportamento, difficoltà di apprendimento. Conseguenze queste rilevabili solo dopo la nascita. Fase neo-natale La nascita rappresenta un trauma (a causa delle pressioni-contrazioni dell'utero), una metamorfosi (da un ambiente liquido a una gassoso): è il passaggio da un'esistenza "parassitaria", condotta in un ambiente relativamente stabile e regolato, ad un'esistenza autonoma dal punto di vista fisiologico, condotta in un ambiente molto meno protetto e molto più variabile. Il passaggio avviene in un tempo piuttosto breve e richiede al neonato certe risorse e certi sforzi di rapido adattamento. Il neonato già possiede uno stato di sensibilità generica relativamente al piacere-dolore e all'aumento-diminuzione delle tensioni, ma si difende dagli stimoli esterni oltre che col sonno, anche col fatto che la sua soglia percettiva esclude gran parte del mondo esterno dal suo mondo privato. Per il neonato non esiste ancora differenza tra ciò che proviene da lui ed è interno, e ciò che proviene dall'esterno. Il bambino vede ma non percepisce: non sa che cosa vede, in quanto per lui non esiste tempo-spazio-causa-relazione di qualsiasi genere. pag 91 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Il neonato reagisce alla luce sin dall'inizio, anche se non è in grado di focalizzare gli oggetti né di percepirli secondo le normali coordinate spaziali (a 3 settimane può fissare un oggetto ma solo a due mesi può seguirne uno spostamento lento). Gli stimoli uditivi sono poco avvertiti, a meno che non superino certi valori d'intensità. Il neonato risponde col riflesso di suzione a stimoli dolci, con smorfie, pianto o alterazione del ritmo respiratorio a stimoli salati-amari. Il freddo provoca il pianto. Dà prova di sensibilità tattile soprattutto nella testa e intorno alla bocca. La stimolazione del palmo della mano (con un oggetto-dito) provoca il riflesso di presa. È capace di poppare-inghiottire-vomitare-sbadigliarestarnutire-singhiozzare-volgere la testa per respirare meglio o per allontanare uno stimolo disturbante, ecc. Insomma è provvisto di tutto un corredo sensomotorio pronto a entrare in azione, anche se non possiede alcun quadro di riferimento in cui collocare le impressioni ricevute. Rapporto con la madre L'esperienza vitale del neonato non è che un ciclo continuo di accumuloscarico di tensione: l'accumulo a causa dei bisogni primari di alimentazionecalore-riposo; lo scarico invece corrisponde al loro soddisfacimento che produce quiete. La soddisfazione dei bisogni del bambino è affidata totalmente al mondo esterno e in particolare alla madre, sul piano sia fisiologico che psicologico. La madre rappresenta il primo "IO" del bambino e, nel contempo, la prima persona ch'egli gradualmente (soprattutto a partire dal 3o mese) considera diversa da sé (ad es., risponde col sorriso al sorriso della madre, pur non conoscendo ancora il proprio viso, oppure reagisce alle voci emettendo suoni). Erotismo primario: fase orale La psicanalisi ha osservato che la suzione non è solo in rapporto con la fame ma anche col piacere. I bambini infatti succhiano anche quando sono sazi o durante il sonno. Ovvero il piacere della suzione, originariamente connesso all'ingestione del latte, diventa una forma di attività edonistica fine a se stessa. La bocca -per la psicanalisi- è anche una zona erogena che origina sensazioni di tipo erotico. Questa tendenza erotica infantile coincide con la fase orale. Si ha una conferma di questo -secondo la psicanalisi- ogni volta che il bambino porta alla bocca gli oggetti che vuole conoscere: in tal modo egli se ne appropria. Dalla fase narcisistica al rapporto oggettivo All'inizio il bambino è caratterizzato da uno spiccato egocentrismo (fase narcisistica), il quale non gli permette di possedere un vero sentimento della realtà esterna. Un vero e proprio "IO" del bambino non esiste in questa fase, poiché non c'è consapevolezza di sé se manca quella della realtà esterna, cioè degli altri. pag 92 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Il motivo per cui il bambino è costretto ad assumere questa consapevolezza oggettiva dipende dal fatto che non sempre i suoi bisogni primari vengono immediatamente soddisfatti. Il ritardo fa acquisire al bambino il limite della sua onnipotenza e gli fa ammettere l'esistenza di una realtà esterna. Gli inizi della socialità del bambino corrispondono alla comparsa della risposta-sorriso; poi si verifica il dispiacere quando viene lasciato solo; più tardi subentra il dispiacere quando viene privato di un oggetto. Tra i cinque e i sette mesi sa distinguere la mimica degli adulti, cioè reagisce in modo differente secondo che l'adulto sia arrabbiato o sorridente. A partire dai sei mesi mostra interesse per i giochi di imitazione (ad es. "cucù"), è contenuto di riconoscersi davanti allo specchio (il che gli permette di distinguersi dagli altri). All'età di sei mesi, tuttavia, i contatti sociali coi suoi coetanei sono negativi: o non presta loro alcuna attenzione o li tratta come oggetti, mentre verso i nove mesi s'interessa di loro in funzione delle cose che possiedono. Verso l'ottavo mese reagisce positivamente ai volti familiari e negativamente a quelli estranei. Si serve, quando è solo o ha fame o sta per addormentarsi, di oggetti transizionali (ad es. una coperta, un oggetto particolare) per sostituire la figura materna quando essa è assente: si tratta di un'esperienza illusoria ma gratificante, perché il bambino la può facilmente controllare. Peraltro, grazie all'uso fantastico di questi oggetti nasce l'esigenza del gioco con oggetti familiari. È stato dimostrato che con un rapporto iperprotettivo, il bambino non si abitua all'angoscia del distacco dalla madre, per cui non compie uno sforzo transizionale. Ciò significa che la sua dipendenza è assoluta e che la separazione dalla madre, anche temporanea, gli può scatenare ansie persecutorie. Viceversa, se il rapporto madre-figlio è molto scarso, il bambino tende ad accentuare notevolmente i suoi sforzi transizionali (simbolici), al punto di essere incapace di una normale comunicativa. La frustrazione quindi, entro certi limiti, è necessaria alla crescita del bambino, in quanto gli permette di superare il suo narcisismo e di orientarsi verso il mondo esterno. La seconda infanzia La seconda fase dello sviluppo infantile va, all'incirca, dalla fine del primo anno all'inizio del sesto. Si tende a suddividere questa fase in due momenti: il primo va da uno a tre anni (fase anale), il secondo da tre a sei anni (fase fallica). Conquista dell'autonomia La conquista della deambulazione, allo scadere del Io anno, conferisce al bambino un principio di indipendenza. Progressivamente si sviluppa la motricità (oltre a camminare, in questa fase si mantiene pulito, è disciplinato nell'alimentazione -se educato-, controlla gli sfinteri, usa come primo mezzo di pag 93 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) locomozione il triciclo, progrediscono nel complesso la prensione e la manipolazione. Il gioco resta la sua attività principale). Sviluppa anche la fonazione: quanto più aumenta la facilità comunicativa ed espressiva, tanto più aumenta la possibilità della maturità personale. Ha la sensazione del potere quasi magico della parola: per lui conoscere il nome di una cosa significa impadronirsene; di qui l'insistenza con cui chiede il nome degli oggetti. Tuttavia l'aspetto cognitivo è subordinato a quello affettivo (p.es. il bambino usa nei suoi giochi qualunque oggetto per qualunque scopo). Il bambino non è del tutto consapevole della propria individualità. Inizia adesso ad acquisire il senso della realtà e ad elaborare le prime forme di giudizio. Si accorge che la sua dipendenza dalla madre diminuisce. Impara a sopportare per periodi sempre più lunghi l'accumulo della tensione. Vive una situazione conflittuale fra il desiderio di agire autonomamente e lo stato di dipendenza dagli altri. Fase anale La zona anale sarebbe quella ove viene localizzata la libido nel primo periodo. Ossia la parte del corpo che acquista maggiore importanza nei contatti con l'ambiente sarebbe l'intestino con le sue funzioni escretorie ("trattenere" o "espellere" le feci avrebbero contemporaneamente un effetto di soddisfazione o insoddisfazione nei riguardi del mondo esterno). Il bambino si rende conto che non può più evacuare appena ne sente il bisogno: egli cioè si scontra con le norme dell'ambiente sociale (il "fare da sé" deve ora tener conto di certi limiti). D'altra parte senza questo senso di frustrazione non c'è sviluppo dell'autonomia. Il bambino però deve comprendere che la frustrazione riguarda tutti, non solo lui, e che serve a regolamentare l'autonomia non a impedirla. Fase fallica Nel secondo periodo la libido si localizza nei genitali. Il bambino scopre le differenze anatomiche, cui corrispondono -secondo la cultura e a volte secondo l'atteggiamento sbagliato degli adulti, che differenziano le norme educative dei figli sulla base del sesso- diverse modalità di abbigliamento, acconciatura, toilette. In questa fase possono comparire le prime manifestazioni di masturbazione, narcisismo, esibizionismo. La psicanalisi considera i "nevrotici da successo" o i "don Giovanni" una forma di regressione dell'adulto alla fase fallica. Identificazione con i genitori Identificandosi coi genitori, il bambino matura una prima superficiale coscienza morale, cioè una prima organizzazione di autocontrollo. Se il bambino avverte dentro di sé la presenza dei genitori (che ordinano o proibiscono o rassicurano e proteggono) anche quando essi sono assenti, allora vuol dire che è pronto ad una forma di comportamento autonomo. Ciò in quanto non è più solo una minaccia esterna (castigo o privazione) che regola pag 94 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) il suo comportamento, ma la consapevolezza interiore di ciò che può e non può fare. Dopo la frustrazione dello svezzamento, il bambino subisce una seconda delusione quando scopre che non può possedere in maniera esclusiva l'affetto della madre, poiché lo deve dividere col padre (il cosiddetto "complesso edipico", che però la psicanalisi ha notevolmente estremizzato). Di qui i sentimenti ambivalenti che il bambino matura in questo periodo: gelosia e nel contempo ammirazione del padre, in quanto figura dominante a cui vorrebbe somigliare e di cui indivia la forza, la sapienza e a cui vuol bene. A volta il bambino si serve di alcune forme di "ricatto" per attirare su di sé l'attenzione dei genitori: si tratta di comportamenti regressivi, come p.es., succhiarsi il dito, voler essere preso in braccio, farsi la pipì addosso…, coi quali egli chiede quella protezione che teme d'aver perso. Vita sociale Il processo d'interazione nel gruppo si sviluppa sempre di più. Nel gruppo il bambino assume responsabilità più precise, dei ruoli sociali. Il gruppo dei coetanei ha anche una funzione di carattere normativo e disciplinare. I bambini tendono ad essere più facilmente amici che ostili tra loro (a meno che non subiscano pesantemente i condizionamenti degli adulti). Le loro amicizie però sono labili. Naturalmente favorisce l'amicizia la somiglianza di età, di intelligenza, di interessi e di socievolezza, nonché la possibilità di svolgere insieme certe funzioni di gioco e di apprendimento. La fanciullezza Evoluzione dell'affettività I) In questa fase avviene il superamento del complesso di Edipo attraverso la dinamica del gruppo. Verso i sette anni compare una forma di timidezza, che non è timore degli estranei come una volta, ma bisogno di difendere la propria intimità psichica dalle invadenze altrui: il bambino/a ha dei segreti che riguardano soltanto lui e prova sentimenti che non proietta immediatamente nell'attività esterna. L'interiorità favorisce una certa doppiezza: compaiono le prime bugie, i primi alibi (l'aumento della severità da parte degli adulti difficilmente sortisce, in questi casi, l'effetto sperato). Gli adulti più significativi sono i genitori, il maestro/a, i nonni, i genitori degli altri bambini. II) Aumenta la curiosità per tutto ciò che concerne il rapporto tra i sessi (procreazione, nascita, sviluppo anatomico). C'è inoltre una tendenza spontanea alla separazione dei sessi a partire dagli otto anni circa. Bambini e bambine cominciano a farsi i dispetti. Si differenziano i loro interessi e giochi (in questo, i condizionamenti sociali a volte pesano più del dovuto, come ad es. quando si fa giocare il maschio con soldatini, armi, mezzi di trasporto e la bambina con bambole, cucine in miniatura ecc. I modelli socio-culturali sono evidenti: il "maschio" è aggressivo, forte, protettivo; la "femmina" è docile, casalinga, bisognosa di protezione). Sviluppo intellettuale pag 95 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) III) In questa fase si attenua l'egocentrismo logico/affettivo. Si afferma la dimensione temporale (passato-presente-futuro). Si sviluppa il pensiero logico (la logica è concreta e legata all'esperienza, però utilizza il linguaggio scritto e i simboli numerici). IV) Questo è il periodo degli interessi oggettivi e astratti: c'è viva curiosità per il sapere, per l'esperimento, c'è abitudine alla decisione, c'è l'esigenza del gioco collettivo, il bisogno di collezionare gli oggetti più diversi, c'è una maggiore cura per le cose personali. Gradatamente il bambino passa dal perché al come delle cose. V) Il bambino cerca di applicarsi in molte attività, di distinguersi (il più bravo, il più forte, il più spiritoso...), cerca di realizzare qualche "impresa" in maniera autonoma per superare il senso di inferiorità che prova nei confronti degli adulti. Progressi della motricità VI) A partire dai sei anni hanno grande importanza i giochi di lotta e acrobazia. Il bambino non gioca più solo per giocare, ma si dà degli scopi: dai più immediati ai più complessi (ad es. può far rimbalzare davanti a sé una palla e riprenderla, ma può tentare anche di maneggiare vari arnesi, come colle, cucitrici, forbici...). Sviluppando l'autocontrollo, la scrittura diventa più regolare, disegno e pittura gli danno grande soddisfazione. Poi viene il momento della mimica e delle smorfie, il salto alla corda per le bambine... L'età scolare VII) Il bambino/a fa esperienza di un ambiente indifferente verso di lui sul piano affettivo, nel quale deve da solo cercarsi il suo posto, senza beneficiare dei vantaggi dell'amore dei genitori. Deve adattarsi senza discutere a inevitabili costrizioni cui non è abituato e davanti alle quali falliscono le manifestazioni di seduzione e di affetto così efficaci in casa. Scopre per così dire "l'uguaglianza democratica davanti alla legge", in quanto si misura con esseri uguali a lui. Ha in sostanza l'opportunità di definire da solo la sua condizione e di stabilire rapporti di reciprocità con i coetanei. VIII) Il gruppo assume tanta importanza quanta la famiglia, se non di più. Nel gruppo l'egocentrismo infantile entra in crisi. Egli prende coscienza che nel gruppo il gioco continua, anche senza di lui, non importa con chi. D'altra parte non è lui che sceglie i compagni, ma sono gli adulti, la scuola, il quartiere che glieli impongono. Amicizie più intime e personali si formano all'inizio dell'adolescenza. IX) A scuola si verifica il fenomeno della delazione, perché ogni bambino desidera compiacere il maestro. Il ricorso all'alleanza di una forza estranea, più potente del gruppo, è tipico del bambino meno socializzato, ma nelle classi più piccole i compagni non pensano di fargliene una colpa: essere in "buoni rapporti" col maestro è motivo di considerazione. Ma a partire dagli 8 anni lo "spione" corre il rischio di essere emarginato dal gruppo. Nel gruppo pag 96 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) X) Nel gruppo il bambino impara a difendere i suoi diritti e le sue idee (prima con musi lunghi, insulti, percosse, poi con la discussione, con le prove, per conquistare il consenso). Ricerca i compromessi, la coerenza, perché ogni contraddizione gli viene rinfacciata con durezza. XI) Nel gruppo c'è provocazione, rivalità, aiuto reciproco, complicità, intesa per taluni scopi, scambi materiali... Il bambino impara a valorizzare se stesso e gli altri. La critica degli altri lo spinge all'autocritica. E' sottomesso all'autorità degli altri ma continuamente la esercita, grazie al controllo reciproco. Scopre una forma di obbligo che proviene da un accordo tra uguali e da un'adesione personale. XII) Nel gruppo il bambino viene accettato per le sue qualità. È possibile anche che si formino, alla fine di questa fase, le cosiddette "bande", che sono un fenomeno spontaneo, senza intervento dell'adulto. È qui che nascono i primi drammi: emarginazione, capro espiatorio, vittima, autoritarismo di qualche bambino... Generalmente i bambini "impopolari" hanno avuto un sistema familiare chiuso, severo: possono essere conformisti verso l'adulto, ma sono litigiosi verso i compagni; inoltre hanno scarsa curiosità, immaginazione, iniziativa. XIII) Sino alla fine della fanciullezza la banda presenta un carattere autocratico e aristocratico: un capo, circondato dai suoi più "fidati", e poi i "gregari". Intorno ai 12 anni la banda acquista un carattere più democratico. La forza fisica del capo non ha mai molta importanza: ciò che lo rende tale è la sua capacità di non-compromesso con l'adulto. Il potere dell'educatore è minimo in confronto all'attrazione che esercita il gruppo e al prestigio di cui gode il suo capo. L'adolescenza I) Relativamente a questo periodo, è difficile fissare dei limiti cronologici, perché spesso non c'è corrispondenza tra età cronologica e livello di sviluppo psicofisiologico dell'individuo (quindi all'incirca va dagli 11-12 anni ai 18-20, con leggero anticipo per le ragazze). II) La crisi puberale È la prima fase che caratterizza questo periodo. Qui compaiono una serie di trasformazioni di carattere biologico. La pubertà inizia con la maturazione dei caratteri sessuali e termina con la maturazione della prima cellula germinale maschile e del primo ovulo femminile, cioè con lo stabilirsi nei due sessi, della capacità generativa. Queste trasformazioni sono la conseguenza di complesse azioni ormonali, a carico dell'apparato genitale e di tutto l'organismo (ad es. si modifica la voce, aumenta la statura e il peso). III) La crisi d'identità Il problema più importante che l'adolescente deve affrontare è quello di costruirsi un'identità personale e un ruolo sociale, staccandosi dal mondo dei pre-adolescenti ed entrando in quello degli adulti. pag 97 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Lo sviluppo dell'organismo comporta un'attivazione degli impulsi istintivi, non solo sessuali ma anche aggressivi, che limitano le capacità di autocontrollo. Riemergono alcune tendenze impulsive infantili, che parevano scomparse da tempo, come l'inclinazione allo sporco, al disordine, alle piccole crudeltà, all'esibizionismo. La vivacità della fanciullezza si trasforma in aggressività o almeno in insofferenza. Ciò è dovuto al fatto che da un lato l'adolescente si trova ad affrontare una rinnovata carica istintiva, dall'altro subisce una pressione educativa o normativa da parte dei genitori, che diventa ancor più repressiva in presenza di questo comportamento disordinato e incoerente. L'adolescente tende a oscillare tra la fiducia negli altri e la diffidenza più nera, tra il desiderio di staccarsi dalla famiglia e il timore di perderne la protezione, tra l'esigenza di conoscere la realtà adulta e la tendenza a rinchiudersi in un atteggiamento di passività o indifferenza, o, al contrario, di protesta contro ogni forma di autorità (sino all'abbandono scolastico, alla tossicodipendenza, alla microcriminalità...). L'adolescente avverte in sé nuove esigenze: il bisogno sessuale, che non riesce a esprimere subito come istanza etero-sessuale; il bisogno di agire, conoscere, scoprire da sé quello che è importante (di qui l'esigenza di una maggiore autonomia nella gestione del tempo libero); il bisogno di stabilire dei legami nuovi, di trovare nuovi modelli (di qui l'esaltazione degli "idoli" sportivi, cinematografici, canori, radiotelevisivi...). L'adolescente inizia a ragionare in maniera ipotetico-deduttiva, a fare cioè dei ragionamenti personali, sulla base di interessi sociali, razionali, estetici, morali o religiosi. Ciò che lo preoccupa di più è il futuro, ovvero la difficoltà di raggiungere una posizione di prestigio. IV) Il rapporto con i coetanei Durante l'adolescenza assume sempre più importanza l'esperienza di gruppo, che svolge una funzione di rassicurazione. Il timore suscitato nel giovane dai suoi stessi impulsi, quello della repressione, l'insicurezza nell'agire, le espressioni verbali estremistiche e decisioniste: tutto ciò trova nel gruppo una possibilità di sfogo, di libera espressione, di compensazione. Lo stare insieme diventa un mezzo per sentirsi più sicuri. L'accettare norme, abitudini, gergo e mode del gruppo diventa un mezzo per riconoscersi in una nuova identità (che questa volta è collettiva). Ci si libera dalle ingenuità della fanciullezza, dallo stato di totale dipendenza dai genitori (del cui affetto o protezione ancora non si può fare a meno). Naturalmente più la famiglia è in crisi e più il gruppo (o l'amicizia con un coetaneo) diventa importante agli occhi del giovane: spesso anche il fratello o la sorella maggiore fa da tramite tra la famiglia e il mondo esterno. Migliora insomma la capacità di autodeterminarsi: sia attraverso l'adattamento all'ambiente che attraverso lo sviluppo dell'introspezione e la partecipazione al pag 98 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) gruppo. Questa partecipazione è ovviamente legata ai valori o ideali che il gruppo stesso rappresenta, da quelli più complessi a quelli più semplici (si pensi alle associazioni religiose, sociali, umanitarie, politiche, sportive...). Come leader viene scelto il ragazzo più dotato intellettualmente, più informato, più critico... Le differenziazioni sessuali vanno scomparendo. SVILUPPO DELL'IO L'Io è quella parte dell'Es che è stata modificata dalla vicinanza e dall'influenza del mondo esterno(...), il rapporto con il mondo esterno è divenuto decisivo per l'Io il quale si è assunto il compito di rappresentarlo presso l'Es, fortunatamente per l'Es, il quale, incurante di questa preponderante forza esterna , nel suo cieco tendere al soddisfacimento pulsionale non sfuggirebbe all'annientamento. Nell'adempiere a tale funzione, l'Io deve osservare il mondo esterno, depositare una fedele riproduzione delle traccie mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano,mediante l'esercizio dell'"esame della realtà" ciò che in questa immagine del mondo esterno è un aggiunta proveniente da fonti interne di eccitamento. Per incarico dell'Es,l'Io domina gli eccessi di motilità, ma ha inserito tra bisogno ed azione la dilatazione di attività di pensiero, durante la quale utilizza residui mnestici dell'esperienza; in tal modo ha detronizzato il principio di piacere che domina illimitatamente il decorso dei processi dell'Es,e lo ha sostituito con il principio di realtà, che promette più sicurezza e maggior successo.* L'Io è quella parte dell'apparato psichico che interascisce con la realtà; rappresenta ilprocesso secondario laddove l'Es è il principio primario.* Il rapporto dell'Io con l'Es potrebbe essere paragonato quello del cavalier con il suo cavallo. Il cavallo dà l'energia per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l'Io e l'Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale che il cavaliere si limiti a guidare il destriero laddove questo ha scelto di andare.* Alla nascita l'Io e l'Es sono indifferenziati; finchè l'Io sorge gradualmente con lo, sviluppo dell'individuo. Il primo momento in cui si può dire che esista un Io è quando sono percepite le sensazioni del corpo; per questo Freud afferma che all'inizio l'Io é principalmente un Io corporeo.* Spitz* nel suo lavoro " Teorie di un campo genetico della formazione dell'Io" scritto nel 1959 e dedicato a S.Freud , sull' ipotesi iniziale secondo la quale non esiste una divisione fra gli, aspetti somatici e psichici della personalità umana, colloca verso il terzo mese di vita con la reazione al sorriso, lo stabilizzarsi della realtà dell'Ego, e riprendendo Freud in "Inibizione ,sintomo ed angoscia" del 1925 argomenta che : " Qualcosa che é presente nell'Ego, come immagine , può anche essere riscoperto attraverso la percezione; si è costituito un Ego rudimentale; si tratta di un Ego corporeo ,la cui primissima applicazione é la più elementare realizzazione del rapporto con la realtà"* S.Freud ha parlato più particolareggiatamente delle caratteristiche innate dell'Io ,affermando che la scelta individuale fra i possibili meccanismi di difesa viene determinata da un fattore costituzionale* Hartmann specifica che: "non significa voler sopravalutare misticamente l'ereditarità, il credere che perfino prima che l'Io esista siano già determinate le sue successive direttive di sviluppo, le sue tendenze, le sue reazioni."* Spitz si domanda inoltre: "I turbamenti nelle relazioni oggettuali infantili determineranno deficienze nella formazione dell'Ego in conformità con i periodi critici nei quali si verificheranno?" * Per Spitz se tale turbamento si verifica, la tendenza integrativa dell' Ego compenserà il conseguente pag 99 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) ritardo di specifici nuclei dell'Ego attraverso un integrazione deviante. Questo risultato sarà raggiunto grazie all'esuberanza di quei nuclei dell'Ego che restano utilizzabili. Questi nuclei dell'Ego esuberanti, di conseguenza anormali, possono allora divenire gli elementi costituenti "un Ego frammentato" oppure punti di attrazione verso i quali possono gravitare le introiezioni. Essi verranno così acostituire una delle origini dei punti di fissazione . Con questo Spitz non vuole dire che, qiando più tardi si verifica una regressione si dovrà andare necessariamente all' origine di questi nuclei. Nel corso di un ulteriore sviluppo questi nuclei esuberanti dell' Ego, vengono inevitabilmente in conflitto con le normali richieste dell'ambiente in uno stadio molto più avanzato. E' al momento di questo conflitto che la fissazione sarà attaccata e si verificherà la regressione. Attraverso la teoria degli organizzatori della psiche ( rapporto tra sviluppo corporeo ed embriologico) Spitz conclude che,il primo degli organizzatori della psiche organizza la percezionbe e fissa i primordi dell'Ego;il secondo integra le reazioni oggettuali con le pulsioni e fissa l'Ego come struttura psichicaorganizzata con una varietà di sistemi, apparati e funzioni. Il terzo organizzatore apre la via allo sviluppo della relazioni oggettuali secondo il modello umano, cioé secondo il modello delle comunicazioni semantiche. L'assenza di equilibrio durante ognuno di questi stadi ha comunque un signi ficato decisivo. Infatti una regressione a tale punto di fissazione distruggerà necessariamente il successivo e più vulnerabile sviluppo dei modelli umani, di adattamento; e del dominio della difesa.* L'Io è la porzione dell'Es che é stata modificata dall'influenza diretta del mondo esterno che ha agito attraverso il sistema percezione-coscienza.* Hartmann si pone invece di fronte all'Io, cercando di chiarire le funzioni non solo sotto l'aspetto difensivo ( meccanismi di difesa), ma anche in un ambito più largo, libero da conflitti. Per l'autore l'Io é un istanza autonoma allo stesso dell'Es. Lo sviluppo dell'Io pertanto sarebbe il risultato di una differenziazione dell'istinto, ma non di una differenziazione dell'Es, perchè , per Hartmann, si può parlare dell'Es come istanza psichica che si contrapporrebbe ala prima, in una implicazione reciproca. Sullo sviluppo di un Io così concepito esercitano la loro influenza, oltre all'istinto,la realtà esterna e gli apparati biologici ereditari, i quali ultimi costituiscono il fondamento dell'autonomia primaria primaria dell'Io. In altri termini, l'intelligenza, i talenti in genere (intesi come fattori dell'Io) di cui un bambino è ereditariamente dotato, possono influenzare i modi, il tempo di insolvenza, e l'intensità dei conflitti istintuali. Non solo ma attraverso il "cambiamento di funzione" situazioni primitivamente conflittuali possono essere deconflittualizzate e l'energia ad esse collegate può essere messa a disposizione dell'Io( autonomia secondaria).* Il termine o si riferisce alle costellazioni di funzioni che includono l'istanza psicologica di controllo guida e coordinamento dell'uomo. Si è notato che inizia a svilupparsi nelle prime settimane di vita e raggiunge il suo massimo di organizzazione nella maturità adulta. Esso evolve con il principio epigenetico. Governato da questo principio, lo, sviluppo nasce dal gioco reciproco di due fattori: a) la maturazione delle tendenze biologicamente innate b) l'apprendimento mediante esperienza* Per White alcune funzioni dell'Io quali la percezione, la coscienza ,la vocalizzazione , e la motilità, sono presenti in forma primitiva gia dal momento della nascita. La loro comparsa non dipende dall'esperienza o dall'apprendimento. Se manca il nutrimento emotivo queste funzioni non possono sviluppaersi in modo adeguato.* Importanti funzioni dell'Io evolvono tra i sei ed i ventiquattro mesi es,: linguaggio, capacità motorie, ecc. Gli studi di Piaget * sullo sviluppo cognitivo cosi mirabilmente riassunti da Elkind* confermano le osservazioni psicoanalitiche, secondo cui, prima dei diciotto mesi, i bambini sono privi della cosidetta permanenza oggettuale, cioè sia le persone che le cose pag 100 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) continuano ad esistere anche quando sono fuori dal campo visivo o auditivo. Sicché quando la madre é lontana , il bambino non ha nessuna certezza che essa in effetti contionui ad esistere . Soltanto lo sviluppo di un'immagine mentale internalizzata della madre lo conforta quando essa è assente e lo rassicura circa l'esistenza di lei. Se il bambino non riesce gradatamente a sviluppare questa fidata madre interiore, praticamente tutte le funzioni dell' Io ne soffrono. Se non può disporre di sufficenti esperienze per costruire questa fonte interna di sicurezza e fiducia, ne derivano distorsioni e lesioni in funzioni basilari dell'Io, quali la capacità di camminare, di parlare, apprendere , pensare, ricordare, e nella fiducia in se stesso e nelle altre persone.* Per White e collaboratori* le funzioni principali, di cui é formata l'istanza coordinatrice e di guida che disignano l'Io, sono: 1) Percezione 2) Coscienza 3) Memoria 4) Attenzione 5) Pensiero 6) Intelligenza 7) Espressività e Linguaggio 8) Motilità e Abilità Motorie 9) Giudizio e Previsione 1O) Capacità di Posticipare Bisogni ed Impulsi 11) Meccanismi di Difesa 12) Affetti di Segnale: Angoscia,Depressione e Colpa Per White l'Io è: " l'istanza psicologica che percepisce ed attribuisce significato agli stimoli interni ed esterni ed organizza, dirige e coordina il comportamento sollecitato da tali stimoli; talchè esso divenga il più vantaggioso possibile per la persona. L'Io denota quelle funzioni riguardanti la capacità del bambino di valutare la realtà esterna ed interna ed affrontarla. Il che comporta la valutazione di situazioni, oltre che delle proprie forze e debolezze individuali. L'Io consente all'individuo di apprendere delle proprie esperienze e di raggiungere i propri scopi. Coordina le richieste delle sue pulsioni interiori con le pressioni e richieste del mondo esterno. Decide se, in base alla realtà esterna, è ragionevole che l'individuo agisca in conformità alle sue fantasie. "* L'Io è in buona posizione per difendersi dai pericoli in agguato dal mondo esterno, se necessario, può darsi alla fuga. Ma ciò non vale per i pericoli interni (moti pulsionali).* Freud condiderò questa maggiore suscettibilità ai pericoli interni come una fonte di nevrosi.* Il tratto fondamentale della situazione di pericolo é di provocare uno stato di tensione etrema che non può essere scaricata,dunque di contrastare al principio di piacere. "Ciò che è temuto, l'oggetto dell'angoscia e ogni volta la comparsa di un momento traumatico che non può venire eliminato come richiederebbe il principio di piacere."* Originariamente l'angoscia nasce quando l'Io, ancora debole viene soprafatto per la prima volta da una pretesa libidica eccessiva. Quale funzione ha l'angoscia per mettere in azione il principio piacere dispiacere?.* Freud:"L'Io si accorge che il soddisfacimento di una richiesta pulsionale che sta destandosi maschererebbe una delle situazioni di pericolo che ben ricorda. Questo carico pulsionale deve quindi venire in qualche modo represso, revocato, neutralizzato. Sappiamo che l'Io ci riesce se é forte ed ha incluso la spinta pulsionale nella sua organizzazione. Nel caso contrario (che sfocerà nella rimozione) lo spunto pulsionale appartiene ancora all'Es e l'Io si sente debole . L'Io ricorre allora ad una tecnica che in fondo è identica a quella del pensiero normale. Pensare é un agire a mo' di esperimento con piccole quantità di energia.(...) L'Io anticipa dunque il soddisfacimento della spinta pulsionale sospetta e le dà modo di riprodurre le sensazioni spiacevoli che accompagnano l'inizio della temuta situazione di pericolo, e cioè di giungere esattamente fino al punto in cui las situazione spiacevole può provocare angoscia. Con ciò scatta l'automatismo del principio piacere-dispiacere, il quale ora effettua la rimozione della spinta pulsionale pericolosa""* Sono quindi situazioni di conflitto fra le pulsioni dell'Es che tentano di appagarsi e le intenzioni del Super-Io che lo vietano; in questi casi l'Io si trova fra "l'incudine ed il martello" e cerca pag 101 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) di porre rimedio attraverso i meccanismi psicologici alle sensazioni di ansia, di irrequietezza, di apatia, generate dal perdurare del conflitto.* Freud puntualizza: "La difesa contro un processo indesiderato dell'interno, può compiersi secondo il modello della difesa contro uno stimolo esterno, cioé che l'Io adotti contro il pericolo interno, la stessa linea di difesa adottata contro quello esterno. Nel corso di un pericolo esterno, l'organismo intraprende un tentativo di fuga : a tutto primo ritrae l'investimento dalla percezione della cosa pericolosa ; poi riconosce un mezzo più efficace: quella di intraprendere azioni muscolari tali che la percezione del pericolo(...) diventa impossibile, l'organismo si sottrae così alla sfera d'azione del pericolo." * L'Io controlla pur sempre la motilità e può sbarrare questa via agli impulsi dell'Es, che vorrebbero trovare, attraverso il comportamento motorio, gli appagamenti nella realtà* Da cui l'equivalente della difesa da stimoli esterni é la rimozione di rapprasentanze pulsionali interne, che viene determinata da segnali d'angoscia.* Fra le possibili reazioni , che sono parecchie , al segnale di angoscia,una di essa è la "difesa". Per Drews la difesa aveva un'importanza centrale per la spiegazione dei conflitti psichici, fin dai primi scritti psicoanalitici, e l'ha conservata tutt'oggi. La difesa è il nucleo dell'aspetto dinamico della teoria psicoanalitiaa; Le resistenze che partono dall'Io sono di natura inconscia e la parziale inconsapevolezza dell'Io rendeva quest'ultimo molto più interessante per la ricerca di quanto lo fosse stato prima ; la teoria dell'Io e la teoria della difesa venivano a coincidere in larga misura. La difesa diventava una delle principali funzioni dell'istanza Io. Così lo studio delle operazioni difensive diventava una nuova via per la conprensione dell'Io e della sua posizione nel conflitto. L'Io diventava ora oggetto di osservazione specialmente nel campo clinico.* Grazie al lavoro di Nicasi* é facile ricostruire la storia del concetto di difesa in Sigmund Freud. Il concetto di difesa si fa strada assai presto nel pensiero freudiano; é stato col mettere in primo piano la nozione di difesa nell'isteria...che Freud ha definito la propria concezione della vita psichica in opposizione alle idee dei suoi contemporanei.* In "Le Neuropsicosi di difesa" scritte nel 1894 interamente di suo pugno ( senza l'ausilio di Breuer) Freud distingue tre forme di isteria: 1) da stato ipnoide 2) da ritenzione; casi in cui si ha che il perdurare della reazione di fronte allo stimolo traumatico,reazione che però non può essere liquidata e guarita per abreazione 3) da difesa* In questa occasione compare per la prima volta il termine "difesa". I pazienti in cui, sostiene Freud : " ho riscontrato la terza forma in persone che avevano goduto di :* ... sanità psichica fino al momento in cui nella lora vita ideativa, si era presentato un caso di incompatibilità, ossia fino a quando al loro Io non si era presentata un'esperienza, una rappresentazione , una sensazione che aveva suscitato un effetto talmente penoso che il soggetto aveva deciso di dimenticarla convinto di non avere la forza necessaria a risolvere, per lavoro mentale , il contrasto asistente tra questa rappresentazione incopatibile ed il, proprio Io."* Gia nel saggio del 1894 la nozione di difesa gli consente di raggruppare sotto l'unico termine di "neuropsicosi da difesa" le ossessioni, le fobie, le isterie da difesa e le psicosi allucinatorie. Nella minuta "Teorica H" anche la paranoia è considerata un modo patologico di difesa, come l'isteria, la nevrosi ossessiva e la confusione allucinatoria.* Tale punto di vista è mantenuto in " Nuove Osservazioni sulle Neuropsicosi da Difesa": "gia da qualche tempo nutro la convinzione che anche la paranoia (...) sia una psicosi da difesa ".* Tutte queste forme si legge: "hanno un punto in comune: i loro sintomi provengono dal meccanismo didella difesa (inconscio) cioé dal tentativo di rimuovere una rappresentazione incompatibile entrata in penoso conflitto con l'Io del malato."* Di questi ani è una spinosa questione fra i rapporti tra difesa, rimozione e meccanismi di difesa. In un certo senso ad aprire pag 102 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) la questione dei rapporti tra difesa, rimozione e meccanismi di difesa è stato proprio Freud quando in "Inibizione ,sintomo ed angoscia"scrisse: "Adesso sono del parere che ritornare al vecchio concetto di difesa presenti vantaggi, se si stabilisce bene, a questo riguardo che esso deve essere la designazione generale per tutte le tecniche di cui l'Io si serve nei suoi conflitti, che possono eventualmente condurre alla nevrosi,mentre conserviamo il termine di rimozione per uno speciale di questi metodi di difesa, che l'orientamento delle nostre ricerche ci ha permesso agli inizi di conoscere meglio degli altri."* Presentando tutto in questa forma di proposito per l'avvenire, Freud sembra tacimente di non aver distinto nel passato tra: 1) Difesa e Meccanismi di Difesa 2) Difesa e Rimozione. Varie le interpretazioni dei biografi di Freud sull'argomento.* Si può vedere a riguardo l'interessante trattazione del problema in Nicasi* Sempre Nicasi ci relaziona che tra il 1894 ed il 1896 Freud individua una serie di "processi o meccanismi difensivi". L'autrice ci conforta nelle sue note che i termini possono conso=iderarsi equivalenti. I meccanismi sono: Conversione* -Trasposizione dell'affetto* -Proiezione* -Reiezione* -Isolamento* Formazione reattiva* Il ruolo di tali meccanismi è indubbiamente difensivo: la loro attivazione comporta un calo di sofferenza, ed il loro vantaggio è valutato in base all'entità di questo calo ed alla stabilità della parete protettiva che essi erigono prima ancora di essere valutato in base alle gratificazioni -pulsionali e narcisistiche- da essi ricavabili. Così mentre nell'isteria la difesa é labile con guadagno soddisfacente, nelle nevrosi ossessive e nella paranoia si ha difesa stabile senza guadagno e nella confusione allucinatoria, difesa stabile e brillanta guadagno.* Da cui Freud scopre così che esistono dei diversi procedimenti che questo"Io" impiega per liberarsi da tale incompatibilità di una rappresentazione.* Lo stesso Freud ha descritto in seguito le seguenti forme di difesa: 1) Introiezione ed Identificazione - Nei Meccanismi nevrotici 2) Proiezione ( spec.nella paranoia) 3) Formazione reattiva 4) Formazione sostitutiva 5) Regressione - Specialmente nella nevrosi ossessiva 6) Isolamento 7) Rendere non avvenuto 8) Spostamento 9) Razionalizzazione 10) Volgere contro la propria persona -Che Freud chiama "Destini della pulsione" 11) Capovolgimento nel contrario 12) Rimozione pag 103 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) 13) Conversione 14) Isolamento I singoli meccanismi di difesa hanno relazioni specifiche con momenti conflittuali specifici e sono tipici di disturbi psichici specifici.* Le diverse nevrosi sono caratterizzate dalle diverse difese:per esempio l'isteria usava principalmente la rimozion, mentre le nevrosi ossessive impiegavano la regressione e le formazioni reattive. Ma su questo terreno si tornerà più avanti. Nel 1936 in " L'Io ed i meccanismi di difesa " Anna Freud descrisse più dettagliatamente i vari meccanismi di difesa e chiarì il ruolo nel funzionamento della personalità.* E' utile ricordare chre il libro è stato pubblicato quando S.Freud era ancora vivo, e probabilmenta é anche sorto sotto la sua egida. Lo stesso Freud in lavori successivi rimanda a questo libro di sua figlia a proposito dell'argomento " difesa".* E' interessante qui riprendere le parole di Kris a riguardo la recensione del libro da lui fatta nel 1938: " In effetti la prestoria di questo libro sembra risalire al suo libro ( riferito ad A.Freud) sull'analisi infantile, in esso si dimostra come nell'analisi dei bambini , dove siamo costretti in ampia misura a rinunciare ai benefici del metodo della libera associazione , l'analisi del comportamento, del bambino è spinta in primo piano, con loscopo di aiutare il bambino nevrotico ad acquistare comprensione della sua malattia e di osservare le condizioni fondamentali del trattamento analitico."* Nel discutere la tecnica del gioco di M.Klein nel 1927 A.Freud pose il problema di quanto possiamo estendere l'interpretazione del gioco dei bambini; la domanda che essa pone ora in termini generali é come dovremmo preparare il terreno per l'interpretazione del contenuto dell'Es che la nostra conoscenza del simbolo onirico può averci aiutato a comprendere, e come dovremmo orientare il cammino che deve condurci attraverso le posizioni diverse del paziente, alle porte inconscie del suo Io, alla vita pulsionale e alle fantasie primitive dell'infanzia. Per il lettore della tesi può essere utile prima di contonuare il discorso, su A.Freud aprire una parentisi su alcune posizioni diverse di tecnica ed osservazione dei meccanismi di difesa di altri psicoanalisti eminenti quali M.Klein e Ferbain*. Avvalendomi delle note di H. Segal* verranno esposte in grandi lineee le idee a riguardo M.Klein. Melania Klein divide le fasi dello sviluppo in due posizioni: a) la posizione schizo-paranoide b) la posizione depressiva. Esse potrebbero viste come suddivisioni delo stadio orale; la prima occupando i primi tre o quattro mesi di vita e l'altra seguendola nella seconda metà del primo anno. La posizione schizo paranoide è caratterizzata dal fatto che il bambino non è consapevole delle persone - i suoi rapporti si svolgono con oggetti parziali- e dalla prevalenza di processi di scissione e di angoscia paranoide. L'inizio della posizione depressiva é segnato dal riconoscimento della madre come oggetto intero ed é caratterizzato da un rapporto con oggetti interi e da un prevalere dell'integrazione, della ambivalenza , della colpa e dell'angoscia depressiva.* La posizione depressiva non prende mai il posto completamente della posizione schizo-paranoide; l'integrazione raggiunta non è mai completa e le difese contro il conflitto depressivo portano ad una regressione ai fenomeni schizo-paranoidi,così che l'individuo può continuamente oscillare fra le due posizioni. Qualunque problema incontratonegli studi successivi, come ad esempio il "complesso di Edipo"* può essere affrontato entro un modello schizo-paranoide o depressivo di rapporti, di angoscie di difese, e le difese nevrotiche possono essere sviluppate da una personalità schizo-paranoide o maniaco-depressiva. Alcune delle angoscie paranoidi e depressive rimangono sempre attive nella personalità, ma quando l'Io è sufficientemente integrato ed ha pag 104 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) stabilito un rapporto con la realtà relativamente sicuo durante lo smaltimento della posizione depressiva, i meccanismi nevrotici gradualmente succedono a quelli psicotici. Così, secondo M.Klein la nevrosi infantile é una difesa contro le angoscie depressive e paranoidi sottostanti, nonchè un modo di fissarle e di smaltirle. Poichè i processi integrativi che hanno avuto inizio nella posizione depressiva continuano,l'angoscia diminuisce e la riparazione, la sublimazione e la creatività sostitiscono estesamente i meccanismi di difesa sia psicotici che nevrotici.* Melania Klein notò che il gioco infantile poteva rappresentare simbolicamente le angoscie e le fantasie del bambino.* I primi rapporti oggettuali del bambino erano caratterizzati dalla preminenza delle fantasie. E' naturaleche tanto più é piccolo il bambino, tanto più esso é dominato da fantasie onnipotenti. Il conflitto fra aggressività e libido, ben noto dall'analisi degli adulti, risulterà particolarmente intenso nei primi, stadi evolutivi, ed essa( ciò seguendo le ultime disposizioni di S.Freud ) avvertì che l'angoscia era dovuta all'opera dell'aggressività che non a quella della libido e che era sopratutto contro l'aggressività e l'angoscia che si costruivano le difese. Anche in base a questi concetti si articolerà nel prossimo capitolo un 'approfondita analisi del problema. Ma ritornando alle difese , fra queste la negazione, la scissione , la proiezone, l'introspezione sembrano instaurarsi prima che fosse organizzata la rimozione. M.Klein notò come i bambini piccoli , sollecitati dall'angoscia cercassero costantemente di scindere i loro oggetti ed i loro sentimenti, sforzandosi di trattenere i sentimenti piacevoli ed introiettare gli oggetti buoni, e di espellere invece gli oggetti cattivi e proiettare i sentimenti spiacevoli.* M.Kein richiamò dapprima l'attenzione sull'importanza della scissione, e dell' interazione fra introiezione e proiezione , meccanismi questi, che notò attivissimi nei bambini molto pisccoli. Davanti all'angoscia suscitata dalle terrificanti figure interne, il bambini cerca di scindere la sua immagine dei genitori buoni ed i suoi sentimenti buoni dall' immagine dei genitori cattivi e della sua tendenza distruttiva.* Infine le funzioni della fantasia, che , fra i suoi aspetti molteplici e complicati, ha anche un aspetto difensivo,che deve esere tenuto nel debito conto. Poiche la fantasia mira ad esaudire gli impulsi istintuali senza alcun rispetto della realtà esterna, la gratificazione derivata dalla fantasia può essere considerata come una difesa contro una la realtà esterna della deprivazione. Ma essa é comunque più di questo:é anche una difesa contro la realtà interna. L'individuo producendo una fantasia di esaudimento del desiderio, non soltanto evita la frustrazione ed il riconoscimento di una realtà spiacevole, ma ciò che é ancora più importante , difende se stesso contro la realtà della propria forma e della propria rabbia, vale a dire contro lasua realtà interna . Le fantasie inoltre possono essere usate come difesa contro altre fantasie.* Questo a grande linee il pensiero della Klein sui meccanismi di difesa. Vi sono altre scuole ed altre opinioni sul concetto di difesa. W.R.D. Ferbain,* è stato uno dei primi esponenti della teoria della relazione oggettuale, che riafferma la teoria psicoanalitica in termini di bisogno da parte dell' individuo di mantenere il contatto con un oggetto, in contrapposizione alla teoria freudiana degli istinti che si fonda sul semplice bisogno di soddisfare se stessi. Egli afferma che l'uomo , per natura, cerca un oggetto e non il piacere, e che le nevrosi derivano dai tentativi di controllare e ridurre l'ambivalenza nei riguardi dell'oggetto, che in origine (e sempre inconsciamente) è la madre, per mezzo di quattro manovre difensive fondamentali,che definisce tecniche schizoide, isterica, fobica ed ossessiva. Nella formulazione di Ferbain queste tecniche difensive si distinguono per il modo in cui l'oggetto viene interiorizzato. Ferbain classifica appunto nel suo lavoro "A Revised Psychopatuology of the Psychoses and Psychoneuroses"* classifica i meccanismi di difesa in descrivendo quattro tecniche fondamentali correlandole a pag 105 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) nevrosi specifiche. Per l'autore trattato la difesa serve a mantenere l'illusione che esista ancora una madre ideale e a deviare l'aggressività da questa immagine ideale. Per Rycroft* sia Ferbain che A.Freud considerano l'angoscia unicamente come fenomeno nevrotico, senza tener conto dei suoi importanti aspetti biologici. Al contrario considerando cioè l'angoscia come una forma di vigilanza che scatta per cambiamenti che si verificano sia nell'ambiente esterno che in quelle parti della personalità dell'Io che percepisce come esterne, diventa possibile classificare le difese correlandole alle risposte biologiche di adattamento.* Tornando ad A. Freud ed al suo libro sui "Meccanismi di difesa",Kris afferma che il libro sembra riprendere il problema del modo in cui funziona l'Io maturo nel punto in cui S.Freud in " Inibizione, sintomo ed angoscia" lo lasciò nel 1925*. Per R.Fine*"L'io ed i meccanismi di difesa" era più legato allo studio dell'Io ma A.Freud attribuì all'analisi il compito di acquistare la maggior conoscenza possibile dei tutte le tre componenti ( Es, Io e Super Io) della personalità e di investigare sulle loro relazioni con il mondo esterno. Continuò ad elencare i nove meccanismi di difesa che suo padre aveva già descritto in varie occasioni ed aggiunse la -sublimazione, o spostamento della meta pulsionale-. Pre quando riguarda la tecnica disse: " E' compito dell'analisi pratica osservare come questa tecniche si affermino efficacemente nei processi di resistenza dell'Io e di formazione sintomatica in ogni singolo caso".* Inoltre l'autrice ritiene che sarà sicuramente possibile scoprire un certo numero di altri mezzi tipici legati dall'Io oltre a quelli menzionati nel suo libro. Infatti Fine oltre ad altri lavori in letteratura ci riporta la lista più ampia che fu quella di BIbring e dei suoi collaboratori* dell'Istituto Psicologico di Boston, relativa ad uno studio sulle donne in gravidanza. Essi divisero le difese in: - fondamentali o di primo grado, - complesse o di secondo grado. Si ritrovano con niente meno che trentanove tipi di difesa, di cui ventiquattro erano di primo grado e quindici di secondo. Il loro elenco pare includere ogni genere di difesa, compresa la somattizzazione, la separazione, il pensiero magico, perfino fare il pagliaccio, l'ammalarsi e fischiare al buio.* NEVROSI Nevrosi è un termine coniato da Sigmund Freud per indicare un tipo di psicopatologia che scaturisce da un conflitto inconscio. La nevrosi si contraddistingue dagli altri disturbi della personalità in quanto il paziente non perde il contatto con la realtà e può comunque condurre una vita relativamente normale. Le nevrosi hanno prevalentemente una matrice isterica che porta a seconda della sfumatura presa in ogni singolo paziente (a causa del vissuto personale) a diverse caratteristiche nevrotiche quali : fobia - ossessione - paranoia - isteria d'angoscia - e altre Ogni nevrosi, secondo la teoria freudiana, ha alla base un conflitto irrisolto riguardante la sfera sessuale. pag 106 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Un esempio cinematografico lampante lo ritroviamo nel film "Luci della ribalta" Di Charles Chaplin, dove la ballerina Terry perde l'uso delle gambe, non per poliomielite ma per una nevrosi che affondava le radici nel suo passato. Possiamo banalizzare paragonando l'inconscio all'istinto primitivo o primordiale che ci mette sullo stesso piano di forme di vita meno intelligenti, nelle quali a differenza di noi l'inconscio-istinto non ha freni nè inibizioni, e non incontra quindi ostacolo alcuno che giustifichi l'insorgere di una nevrosi. Nell'essere umano moderno la nevrosi insorge ora molto più che in passato a causa delle grandi rivoluzioni di costume, anche sessuale, che portano al conflitto tra il "seguire il proprio istinto" "razionalizzarlo" "ignorarlo" a favore di un codice esterno che in fondo non ci appartiene. PSICOSI Il termine "psicosi" fu introdotto nel 1845 da Von Feuchtersleben con il significato di "malattia mentale o follia". È un grave disturbo psichiatrico, espressione di una grave alterazione dell'equilibrio psichico dell'individuo, con compromissione dell'esame di realtà, inquadrabile da diversi punti di vista a seconda della lettura psichiatrica di partenza e quindi del modello di riferimento. I sintomi psicotici sono ascrivibili a disturbi di forma del pensiero, disturbi di contenuto del pensiero e disturbi della sensopercezione. Disturbi di forma del pensiero: alterazioni del flusso idetico fino alla fuga delle idee e all'incoerenza, alterazioni dei nessi associativi come la tangenzialità, le risposte di traverso, i salti di palo in frasca; Disturbi di contenuto del pensiero: ideazione prevalente delirante; Disturbi della sensopercezione: allucinazioni uditive (a carattere imperativo, commentante, denigratorio o teleologico), visive, olfattive, tattili, cenestesiche, geusiche. Tali sintomi possono presentarsi in diverse condizioni: - in corso di disturbi mentali organici secondari a malattie internistiche o neurologiche (Lupus Eritematoso Sistemico, endocrinopatie, uremia, porfiria, Sindrome di Wilson, corea di Huntington, lesioni del lobo temporale e parietale, epilessia, abuso di sostanze come alcool, amfetamina, cocaina, cannabis e allucinogeni); - in corso di disturbi cognitivi correlati alla demenza; - in corso di disturbi dell'umore; - in corso di quadri schizofrenici; - in corso di quadri schizoaffettivi; - psicosi acute: schizofreniformi, reattive brevi, cicloidi,puerperali, ecc.; - in corso di disturbi deliranti (di tipo paranoide); - in corso di disturbi di personalità. Le psicosi hanno un'incidenza tra i 15 e i 54 anni di 1,5-4,2/100.000. Variano per gravità e prognosi in base alle caratteristiche del disturbo e in base alle caratteristiche dell'ambiente in cui vive la persona. Gli studi dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'International Pilot Study of Schizophrenia e il Collaborative pag 107 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Study on Determainants of Outcome of Severe Mental Disorders (WHO, 1973; WHO, 1979; Jablensky e coll., 1992; Leff e coll., 1992), condotti su 1400 individui osservati in un tempo superiore ai 20 anni, mostrano che la schizofrenia è ubiquitaria e che i contesti sociali diversi determinano esiti sociali diversi. Non sono risultate aree geografiche con incidenza particolarmente alta per disturbi psicotici. Una prognosi decisamente migliore si è evidenziata per i soggetti appartenenti ai paesi in via di sviluppo. È risultato inoltre che i quadri clinici che si manifestano in maniera acuta presentano una evoluzione migliore di quelli con esordio insidioso e progressivo. Tuttavia la tendenza ad un esito migliore nei paesi in via di sviluppo è comunque stata riscontrata sia per i quadri clinici a esordio acuto, tanto per quelli a esordio progressivo. L'eziologia del disturbo è, come per molte condizioni in medicina, molteplice e in larga parte ignota. Da un punto di vista psicobiologico, la sintomatologia psicotica trova una possibile causa in alterazioni organiche a vari livelli, da una predisposizione genetica, all'alterato funzionamento di neurotrasmettitori quali la dopamina, la serotonina, il Glutammato, il GABA, l'NMDA, i peptidi endogeni e altri ancora. Da un punto di vista fenomenologico, Karl Jaspers parla di esperienze psicotiche quando vengono vissute come incomprensibili per il soggetto per le modalità con le quali scaturiscono dall'attività psichica, facendo declinare le condizioni ontologiche dell'esistenza (tempo, spazio, coesistenza, progettualità). Secondo Otto Kernberg la psicosi si distingue dalla nevrosi per la "diffusione dell'identità" e la messa in atto di meccanismi di difesa primitivi (idealizzazione primitiva, identificazione proiettiva, negazione, onnipotenza, svalutazione) che proteggono l'individuo dalla disintegrazione e dalla fusione di sé con l'oggetto, con regressione di fronte all'interpretazione. Un'altro elemento distintivo è quello della perdita della percezione della realtà.Infatti.al contrario della nevrosi,lo psicotico non accetta la realtà che lo circonda,e ne crea una diversa nella sua mente. La psicoanalisi interpreta le psicosi con una rottura dell'Io con la realtà esterna, dovuta alla pressione dell'Es sull'Io. L'Io cede all'Es per poi recuperare parzialmente la costruzione di una propria realtà attraverso il delirio, recuperando il rapporto oggettuale (Freud). Secondo Melanie Klein, le psicosi sono legate alla caduta nella posizione schizoparanoide della prima infanzia. Secondo lo psicologo Carl Gustav Jung, nelle psicosi si ha il sopravvento di complessi autonomi inconsci sul complesso dell'Io, che non riesce a mantenere il controllo sulle formazioni inconsce. L'indirizzo sociale della psichiatria esprime anche un'interpretazione legata al contesto che, come si è visto, risulta determinante per l'integrazione di queste persone e la loro riabilitazione. DEPRESSIONE La depressione è quell'insieme di sintomi psichici e fisici caratterizzati da una diminuzione da lieve a grave del tono dell'umore, talvolta associata ad ideazioni di tipo suicida od autolesionista, notevole diminuzione delle capacità di concentrazione ed estrema ed immotivata prostrazione fisica. Può essere di tipo unipolare, quando l'umore si mantiene basso e sono presenti rallentamento psicomotorio ed alterazioni del ciclo sonno veglia mentre la melanconia è prevalente nelle prime ore del mattino; di tipo maniaco-depressivo, pag 108 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) altrimenti nota come sindrome bipolare, di tipo nevrotico o di tipo reattivo, detta anche reazione depressiva, comune reazione umana a fattori di stress o shock emotivi. Indice • • • • 1 Cause 2 Diagnosi 3 Trattamento o 3.1 Terapia farmacologica o 3.2 Psicoterapia o 3.3 Terapia elettroconvulsivante o 3.4 Terapie nuove e sperimentali 4 Collegamenti esterni Cause Sebbene i meccanismi interni alla base della Depressione siano attualmente sconosciuti, è ormai accertato che la malattia è in genere scatenata da un periodo di stress, sia esso negativo che positivo. La malattia infatti si può innescare durante alcune fasi importanti della vita: Un lutto, un licenziamento, un grande dispiacere ma anche dopo un innamoramento, una grossa vincita. L'evento che innesca la depressione è definito "Stressor". Comunque affinché la Depressione si inneschi in pianta stabile è necessaria la predisposizione genetica. Se la malattia guarisce senza alcun trattamento si definisce Depressione Reattiva. Se la malattia si innesca senza alcun evento scatenante è definita Depressione Endogena. Diagnosi I tre principali mediatori chimici coinvolti nella depressione e come essi interagiscono nella patogenesi depressiva Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, quarta edizione (DSM-IV), propone i seguenti criteri per la diagnosi di depressione maggiore (unipolare): 1. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto o come osservato da altri. 2. Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno. 3. Significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell'appetito quasi ogni giorno. 4. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno. 5. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno. 6. Faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno. 7. Sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa quasi ogni giorno. pag 109 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) 8. Diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere decisioni, quasi ogni giorno. 9. Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o l'elaborazione di un piano specifico per commettere suicidio. Trattamento Terapia farmacologica La terapia d'elezione è a base di farmaci antidepressivi (solitamente SSRI, NSRI, NaSSa, SSNRI e Litio), per quanto meno recenti molto utili anche Triciclici ed i meno maneggevoli iMAO (Reversibili e Non). I principali neurotrasmettitori implicati nella malattia depressiva sono stati identificati in Serotonina, Noradrenalina e Dopamina e sembra ormai accertato che la depressione sia causata dall'insufficiente disponibilità di uno o più di questi tre. Psicoterapia È stato dimostrato che la psicoterapia in associazione alla cura farmacologica è più efficace di ogni altro tipo di terapia da sola nel disturbo depressivo maggiore. Le psicoterapie possibili sono diverse, per esempio: 1. Terapia cognitiva 2. Terapia comportamentale 3. Terapia a orientamento psicoanalitico 4. Psicoterapia di sostegno 5. Terapia di gruppo 6. Terapia familiare 7. Comicoterapia 8. Neurotecnologia 9. Meditazione 10. Training Autogeno Molti psichiatri ritengono che la psicanalisi freudiana o postfreudiana sia poco o per nulla indicata in patologie che hanno una matrice biologica come la depressione o il disturbo bipolare. E. Fuller Torrey, definito dal Washington Post "il più famoso psichiatra americano", scrivendo in "Witchhdoctors and Psychiatrists" (1986) ha sostenuto che le teorie psicoanalitiche non hanno un fondamento scientifico superiore a quello delle teorie dei guaritori indigeni tradizionali. Difatti, un numero crescente di scienziati considera la psicoanalisi una pseudoscienza ( F. Cioffi, 1998). Proprio la matrice biologica ci fa comprendere come sia essenziale una cura basata su farmaci antidepressivi che vanno ad agire sulla chimica cerebrale e più esattamente sui meccanismi di neurotrasmissione e ricezione. Appare chiaro quindi che i farmaci non vanno a curare solo i sintomi ma i meccanismi che hanno generato il disturbo depressivo. pag 110 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) Terapia elettroconvulsivante Nei casi di farmacoresistenza o di impossibilità a somministrare antidepressivi di sorta, un modello di trattamento discusso è rappresentato dalla terapia elettroconvulsiva (elettroshock). Secondo qualcuno è efficace, nel caso delle forme più gravi del disturbo, ma non tiene affatto conto dei fattori secondari e della soggettività del paziente di un trattamento così traumatico. Tuttavia l' elettroschock risulta ancora oggi lo strumento terapeutico più efficace con oltre l'85% di successi terapeutici in termini di rimessione. Il problema dell'ECT risulta essere quello relativo alla non prevenzione delle ricadute, che dopo questo genere di terapia sembrano essere frequenti. Terapie nuove e sperimentali La food and drugs administration nel 2005 ha approvato la stimolazione profonda come terapia per quei soggetti che non hanno risposto almeno a tre cicli di farmaci. Si tratta di elettrodi impiantati che fanno fluire una continua ma impercettibile scossa al cervello favorendo una maggiore concentrazione dei neurotrasmettitori deficitari. In Italia tale metodologia non è attualmente in uso per la depressione se non per alcuni casi specifici sperimentali mentre è usata per curare alcuni casi di parkinsonismo e cefalea a grappolo. Tuttavia in casi del tutto speciali ai depressi non responder viene praticata la stimolazione chirurgica del nervo vago, attraverso cui passano i neurotrasmettitori la cui deficienza porta a disturbo depressivo. Un altra terapia sperimentale ma non ancora approvata è lo shock magnetico (simile all'elettroshock ma la convulsione viene provocata da campi magnetici e non campi elettrici con minori effetti collaterali) MECCANISMI DI DIFESA Prima di parlare dei meccanismi di difesa é utile ricordare che nel suo lavoro Anna Freud indirizza i suoi interessi principali verso i bambini. Attraverso l'osservazione diretta, ci puntualizza che le sue più importanti informazioni sul suo Es le otteniamo nelle libere associazioni nei i sogni e in principal modo nelle attività di fantasia nel gioco nei disegni o attraverso l'espressione grafica che rivelano in una forma più genuina ed accessibile di quanto avviene negli adulti le tendenze dell'Es. Gli analisti di questa scuola come avremo modo di puntualizzare nel quarto capitolo sostengono che il gioco del bambino é l'equivalente delle libere associazioni negli adulti e se ne servono come di una vera fonte di interpretazione. Il libero flusso delle associazioni corrisponde allo svolgersi industurbato dei giochi; interruzioni ed inibizione dei giochi equivalgono alle interruzioni nelle libere associazioni. Ne deriva che, se noi analizziamo una qualsiasi interruzione del gioco, scopriamo che essa é la rappresentazione di una misura difensiva da parte dell'Io, paragonabile alla resistenza nelle libere associazioni. Inoltre un bambino per esempio pu” mostrarsi indifferente, mentre noi ci saremmo aspettati una dimostrazione di disappunto, o pu” manifestare una gaiezza eccessiva invece che dispiacere, o ancora una tenerezza eccessiva invece della gelosia. In tutte queste evidenze, è accaduto qualche cosa che ha deviato il corso normale del processo : l'Io è intervenuto provocando una trasformazione del sentimento.* E' chiaro quindi che in tutti i campi l'Io deve potersi pag 111 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) adattare e difendere e disporre di meccanismi di difesa che si creano nel corso dell'infanzia. Ricordo che S. Freud aveva postulato l'idea che le scelte individuali dei meccanismi di difesa é determinata in parte dalla costituzione.* Se non intervenisse l'Io o qualche forza che l'Io rappresenta, ogni istinto avrebbe un unico destino, quello della gratificazione.* Come avevamo già, detto Anna Freud individua dieci meccanismi ed il suo "allievo" C. Brenner li riprende cosi esponendoli così come si andrà ad esporre in seguito singolarmente: -Rimozione -Annullamento -Formazione reattiva -Negazione -Proiezione -Rivolgimento contro il Sé -Regressione -Isolamento - Somattizzazione* -Sublimazione. • Rimozione Attività dell'Io che sbarra la via della conoscenza all’impulso indesiderato proveniente dall'Es, o qualsiasi suo derivato siano essi ricordi, emozioni, desideri o fantasie di realizzazione di desideri.* La rimozione è il più efficace dei meccanismi di difesa, nel la misura in cui la sua forza d'azione è radicale e definitiva .* Essa può, dice Annna Freud, dominare certe pulsioni dinnanzi alle quali altri processi restano inattivi. La rimozione oltre ad essere il più efficace è anche il più pericoloso dei meccanismi. La dissociazione dell'Io, imposta dal ritiro della coscienza, da interi settori del la vita istintuale ed affettiva, può distruggere l'integrità della personalità in modo permanente. La rimozione diventa così la base di una formazione di compromesso e della nevrosi . * Quando il suo funzionamento è difettoso essa ha una parte importante nella formazione di sintomi di tutte le specie.* Si ricorda che la rimozione fu il primo meccanismo scoperto e descritto da Freud. La rimozione, se riesce porta all'oblio, o all'amnesia, è un meccanismo di difesa che certamente protegge molto bene l'individuo e che a piccole dosi funziona normalmente in ogni essere umano; se è troppo pronunciata ed in vade tutta la personalità, si ha a che fare con comportamenti patologici (es: nevrosi isterica).* Per Nicasi la rimozione non sarebbe patogena se fosse davvero efficace, se riuscisse realmente nei suoi scopi e non richiedesse ulteriori interventi; lo diviene in quanto da sola non basta a garantire la tranquillità. Ha bisogno di rinforzi: o nel momento stesso in cui ha luogo (in tal caso i meccanismi di difesa si configurano come suoi complementi) o a distanza di tempo, quando le sue vittime tornano alla carica (ritorno del rimosso) e la difesa fallisce (in tal caso i meccanismi di difesa hanno il compito di trattare con il nemico fino a quando non si giunge ad un compromesso); in entrambi i casi il risultato è patologico.* Quando la rimozione inizia ad essere inefficace, vengono chiamati in gioco uno o più meccanismi di difesa; è spesso presente una stratificazione di difesa.* Inoltre quando alcuni dei meccanismi falliscono, essi tendono regolarmente ad essere sostituiti da altre difese. Ad esempio quando vediamo in atto 1a difesa della proiezione si può senz'altro ritenere che vi è stato un precedente ma inadeguato uso della negazione. * Brenner ricorda che l'intero processo di rimozione si compie inconsciamente. Non è inconscio solamente il materiale rimosso, ma sono del tutto inconscie anche le attività del l'Io che costituiscono la rimozione. White ci delinea le sindromi cliniche che illustrano la rimozione, esse sono: 1) Amnesia. 2) Dimenticanza sintomatica. 3) Lapsus linguae o Lapsus calami (in cui alla parola corretta non viene consentito l'accesso alla consapevolezza o all'espressione). 4) Attacchi di angoscia, in cui la persona prova apprensione ma è incapace di determinare quale ne sia la causa.* • Annullamento pag 112 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) L'annullamento è un'azione che contraddice o annulla il danno che l'individuo in questione inconsciamente immagina che possa venire causato dai propri desideri aggressivi, es.: prima colpisce l'oggetto della sua ira, e poi lo bacia; la seconda azione annulla la prima. Si tratta di una coazione di andamento "magico" particolarmente caratteristico nella nevrosi ossessiva.* Spesso accade che sia abbinato alla formazione reattiva, meccanismo sempre caratteristico delle nevrosi ossessivo-coatte.* L'annullamento è un atto difensivo a due fasi.* Nella prima un impulso proibito viene espresso o nell'azione oppure nel pensiero (che può essere inconscio o dissimulato sotto forma simbolica). Nella seconda fase viene eseguito un altro atto che cancella simbolicamente l'impulso espresso nella prima fase. La seconda fase assume la forma di un atto rituale coatto che è inteso ad esercitare un con trollo magico sull'impulso temuto o sulle sue potenziali conseguenze. * Un fallimento del meccanismo di annullamento, dovuto ad una invasione della difesa di impulsi repressi, spiega fenomeni frequenti della nevrosi coatta, come ad esempio: diviene necessario un numero sempre maggiore di ripetizioni perché nessuna offre com pleta sicurezza di una totale esclusione dell'intenzione istintiva. * Alcune sindromi cliniche di facile osservazione che illustrano l'annullamento possono essere: - la coazione a lavarsi le mani - toccare - contare - pulire e controllare, ecc...* • Formazione reattiva L'odio appare sostituito dall'amore, oppure l'aggressività dalla mitezza, dove l'atteggiamento mancante persiste inconsciamente.* Vi è qualche cosa che l'Io teme come pericoloso e da cui reagisce con il segnale dell'angoscia. Si tratta di un meccanismo secondario, destinato essenzialmente ad impedire il ritorno del rimorso alla coscienza. La rimozione gli è dunque preesistente*, tanto che la formazione reattiva può essere considerata una sorta di sostegno a cui si fa appello per rafforzare la rimozione allorché questa perde di efficacia; essa risulta particolarmente evidente nel comportamento ossessivo e coatto* e nei sintomi del nevrotico ossessivo.* Per assicurare che un impulso rimosso disturbante sia tenuto lontano dalla consapevolezza conscia o dal comportamento palese, vengono sviluppati atteggiamenti e comportamenti che sono l'esatto opposto di ciò da cui si debbono difendere.* Certi aspetti della passività possono essere formazioni reattive contro un'attività motoria che è stata inibita e poi rimossa dalle proibizioni in epoca infantile. Sempre per Schneider questo meccanismo è molto importante perché permette di comprendere la genesi di certi caratteri, in particolare dei caratteri nevrotici.* Le sindromi cliniche che illustrano la formazione reattiva sono: - Nevrosi ossessivocoatte. - Gli stili caratteriali ossessivo-coatti. * • Negazione Diniego di una parte spiacevole o indesiderata della realtà esterna, sia mediante una fantasia con la quale si esaudisce il desiderio, sia mediante il comportamento. Es: negazione della paura con comportamento spavaldo.* In alcuni studi freudiani* il rifiuto è considerato l'agente della confusione al- lucinatoria,* ed in seguito il diniego è anche considerato il meccanismo centrale nel feticismo, dove svolge un ruolo di negazione nei confronti della “realtà della castrazione”. Tutti tratti non di nevrosi ma più specificatamente di qualcosa di più grave, ovvero psicosi. Il primitivo meccanismo di difesa chiamato diniego o negazione è molto frequente nei bambini normali.* Fenichel ribadisce che finché l'Io è debole, la forza della negazione rimane pag 113 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) relativamente superiore; la soluzione caratteristica dell'infanzia tarda è che la verità spiacevole viene effettivamente negata nel gioco ed in fantasia,* mentre contemporaneamente la parte ragionevole dell'Io riconosce la verità ed il carattere di gioco o fantastico della negazione. * Quando un adulto ricorre al diniego come modo elettivo e persistente per affrontare una realtà dolorosa, si tratta di un sinistro segno che indica la presenza di un grave disturbo della sua capacità di valutare correttamente la realtà o addirittura una psicosi. * Fine ci relaziona nella sua storia della psicoanalisi che negli studi di Searls* su gli schizofrenici molta dell'apparente deprivazione sensoriale è dovuta all'uso della negazione inconscia; Lewin* per conto suo in “The Psychoanalysis of Elation” offre per Fine una descrizione magistrale dell'uso della negazione negli stati maniacali. • Proiezione L'individuo attribuisce un proprio desiderio o impulso a qualche altra persona o a qualche oggetto impersonale del mondo esterno .* E' una reazione di difesa contro il proprio intollerabile senso di inferiorità.* La proiezione è un meccanismo di difesa che di norma recita la sua parte più grande nei primi tempi di vita infantile. * Come la negazione, anche la proiezione è uno dei meccanismi di difesa più primitivi. Essa si manifesta nel suo aspetto più evidente e drammatico nella forma estrema dei deliri psicotici e delle allucinazioni. Se viene utilizzata con continuità in connessione a problemi significativi nella vita di una persona, la proiezione è un pericoloso segno di disturbo psicotico* e paranoide. * La proiezione viene usata di continuo da persone normali per dimiuire le tensioni ordinarie di ostilità, ma più frequentemente la si trova in persone nelle quali l'allestimento sessuale non è molto soddisfacente. Perciò esso appare spesso evidente nei conflitti coniugali, in certi tipi di alcoolismo e tossicomania e naturalmente nei sistemi patologici dei paranoici e dei parafrenici.* Essa ha parte anche nella formazione delle fobie dove viene negato un pericolo interno e considerato come se venisse dall'esterno.* Per Pontalis Laplanche la proiezione è un'operazione con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell'altro, persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, dei desideri e perfino degli "oggetti" che egli non riconosce o rifiuta in sé. Il primo lavoro freudiano sia sulla proiezione, sia sulla paranoia è la "Minuta Teorica H" del 1895 in cui anche la paranoia è assimilata al gruppo delle neuropsicosi da difesa. Per il concetto di proiezione in Klein si può leggere Fine, egli specifica che dall'inizio l'Io introietta cose buon e cattive a partire dal seno materno: gli oggetti sono buoni quando il bambino riesce ad ottenerli, cattivi quando non ci riesce. Secondo Melanie Klein : "il bambino avverte questi oggetti come cattivi perché vi proietta la sua aggressività e non solo per il fatto che essi frustrano i suoi desideri”. * Fra le nevrosi cliniche che illustrano la proiezione, i deliri e le allucinazioni paranoidi sono gli esempi più ovvi dell’uso della proiezione. * • Rivolgimento contro il sé Il soggetto (bambino) che prova rabbia verso un altro, non sa esprimerlo nei confronti del suo oggetto originale, può invece picchiare, colpire, ferire se stesso.* Proteggendosi così dal rapporto aggressivo con l'altro, che rischia di essere troppo pericoloso per lui.* Ha origine dal comportamento che caratterizza i primissimi mesi di vita e che soltanto in seguito finisce per essere utilizzato come meccanismo di difesa. Il bambino piccolo impotente e frustrato nei suoi bisogni quando è assente la pag 114 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) persona che dovrebbe soddisfarli, nel tentativo di alleviare la tensione può aggredire il proprio corpo.* Col passare degli anni il processo attraverso cui una persona devia l'aggressività può indurre la persona in questione a ferirsi fisicamente, e nuocersi per altre vie; socialmente, finanziariamente, eccetera, sino ad essere nella forma più estrema di rivolgimento contro il sé il fattore principale di un'azione suicida.* • Regressione Meccanismo di difesa che svolge un ruolo importante nelle situazioni di grave minaccia della propria integrità. Per Pontalis Laplanche : “In un processo psichico avente un senso di percorso o di sviluppo, si designa con regressione un ritorno in senso inverso da un punto già raggiunto a un punto anteriore ad esso. Nel senso formale la regressione designa il passaggio a modi di espressione e di comportamento a livello inferiore dal punto di vista della complessità, della strutturazione e della differenziazione”.* La regressione indica un ritorno automatico ed involontario a modi di funzionamento psico- logico che sono caratteristici di stadi più antichi, in special modo degli anni infantili. Il ritorno simbolico agli anni dell'infanzia consente alla persona di evitare l'avversità presente e di trattarla come se non fosse ancora accaduta.* La regressione per Glover opera già dopo che sono state depositate le tracce mnemoniche primordiali, e ogni qualvolta una persona soffre di una disillusione, tende verso periodi precedenti della sua vita, che gli offrirono esperienze più piacevoli, e verso tipi anteriori di soddisfazione che furono più completi. E' tipica dei nevrotici coatti e delle nevrosi ossessive per Freud e Fine e negli isterici per Fenichel. Per Musatti vi è sempre alla base e come fattore promovente della regressione una rimozione. * La patologia non è determinata dalla profondità della regressione ma piuttosto della sua natura irreversibile, dal conflitto che essa genera e dalla sua interferenza con i processi di adattamento..., gli aspetti primitivi di una funzione che era no stati messi sotto controllo e tenuti in disparte balzano in primo piano. La questione della regressione ha assunto un' importanza particolare tra i meccanismi di difesa a causa del I'interesse sempre maggiore legato agli stadi borderline e psicotici.* E' utile ricordare che la regressione periodica oltre a comparire nel comportamento normale, ha un' importanza essenziale per il mantenimento della salute psichica. Tutti noi regrediamo ogni notte nel sonno..., inoltre è frequente nella malattia, e molte volte il paziente abbandona la maggior parte delle attività e delle responsabilità. * • Isolamento Rimozione dell'emozione, ricordo del passato può avere libero accesso alla coscienza mentre invece non diventa cosciente l'emozione. Es.:non ricordare il disagio avuto da un avvenimento.* Gli impulsi vengono pertanto sperimentati soltanto come idee estranee; non appartengono realmente alla persona, e quest'ultima non li sente come reali.* L'isolamento dell'affetto è il meccanismo di difesa implicito nella formazione dei pensieri ossessivi. Esso costituisce una seconda linea di difesa chiamata in causa allor ché la rimozione non riesce più ad impedire che una pulsione inconscia disconosciuta penetri nella consapevolezza .* Per Freud e Fenichel è il meccanismo prevalente nelle nevrosi di coazione* e ossessive.* Pur discutendo di fatti molto importanti il paziente rimane calmo, emozionandosi invece, in modo incomprensibile, per fatti banali senza rendersi conto di aver spostato l'emozione.* Per Fenichel, molti bambini cercano di risolvere i conflitti, isolando alcune sfere della pag 115 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) loro vita dalle altre, come la scuola dalla casa, o la vita sociale dai segreti della loro solitudine... Interessanti note ci lascia Musatti nel Trattato, dove: “La stessa tendenza all'isolamento si manifesta, nei comportamenti motori della nevrosi ossessiva, ossia nelle azioni ossessive. Spesse volte infatti l'azione ossessiva (che il soggetto compie come espressione o come reazione ad un impulso) viene immediatamente seguita da una breve pausa, in cui il soggetto si arresta dal fare e dall'osservare qualsiasi cosa. Isolando in tal modo una sua impressione od un suo atto, il soggetto esprime simbolicamente la sua tendenza a non lasciare che l'idea di una tale impressione ed atto venga in contatto associativo con altri pensieri. E' come se questa sorta di vuoto, che diviene in tal modo l'azione specifica del l'attività normale del soggetto, servisse a svalorizzare e ad annullare l'azione, e insieme gli insiemi e gli impulsi dell'essere che vi sono connessi." * • Somattizzazione Consiste nel provocare primariamente un corto circuito che coinvoglia per via neuroumorale emozioni, pensieri o comportamenti su funzioni fisiologiche: l'emozione e la perturbazione affettiva che dovrebbero comparire a causa di un conflitto non sono vissute nella sfera psichica ed elaborate da questa, ma immediatamente deviate sul corpo, e compaiono quindi disfunzioni che possono portare a disturbi della psiche fisica, disturbi considerati funzionali attraverso la funzione del sistema neuro vegetativo.* La comparsa quindi di un sistema fisico può essere considerato come un meccanismo di di fesa che evita la sofferenza psicologica ed il conflitto.* Credo che la somatizzazione sia di più facile osservazione oltre che in campo di medicina psicosomatica anche in campo sportivo, poiché l'attività appunto ludico-sportiva si basa essenzialmente sulla macchina-corpo e quindi una disfunzione "reale" o "non reale" di tale macchina assume una grossa importanza per l'atleta. • Sublimazione Questo è l'ultimo dei meccanismi di difesa messo in luce da Anna Freud che appartiene per l'autrice “piuttosto allo studio delle normalità che a quello delle nevrosi come ribadirono Freud, Brenner ed altri. La sublimazione o spostamento dello scopo istintuale è il modificare il gesto nella direzione dell'accettabilità è dell'approvazione sociale.* Individuato da Sigmund Freud nel 1905 la sublimazione era la controparte normale dei meccanismi di difesa. Consisterebbe dunque nel fatto di indirizzare l'energia ora neutralizzata da una pulsione, verso nuovi oggetti di un soddisfacimento non sessuale.* Oggi diremo piuttosto che il termine sublimazione esprime un certo aspetto del funzionamento normale dell'Io. Nei "Tre saggi..." scritti nel 1905 Freud la definisce nel seguente modo: " Il proceso di sublimazione, nel quale agli eccitamenti eccessivi provenienti da alcuni fonti della sessualità si apre il deflusso e l'utilizzazione in altri campi in modo che dalla predisposizione, in sé pericolosa , risulta una non dispensabile intensificazione della capacità di prestazione psichica"* Oggi si direbbe piuttosto che il termine sublimazione esprime un certo aspetto del funzionamento normale dell'Io. * Per Schneider la sublimazione pu” essere tanto un meccanismo di difesa quanto una funzione dell'Io. * Gran parte del comportamento socialmente valido è basato sulla sublimazione, e in certa misura lo sono anche comportamenti complessi e raffinati, quello dell'artista o dello scienziato, almeno per quanto riguarda taluni aspetti della loro energia motivante.* Ove venga visto come un meccanismo di difesa la sublimazione è il più completo, maturo, efficace di tutti.* Fenichel è dello pag 116 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) stesso avviso tanto che dice che difese riuscite possono riunirsi sotto il titolo di sublimazione. Nel senso progressivo e positivo, la sublimazione contribuisce enormemente alla stabilità dell'individuo, tanto che la crisi o il crollo delle sublimazioni è un segnale clinico di imminente pericolo, indicando che tutta quanta l'economia del le scariche libidiche è stata radicalmente disturbata. * Per Anna Freud “un bastone da passeggio, una divisa, un'arma-giocattolo di vario tipo sono per il bambino, il simbolo della virilità. Anche le bambole, pur venendo impiegate in giochi di ogni tipo servono a creare la funzione della maternità, mentre i trenini, le macchine, le costruzioni, oltre che a relizzare i vari desideri e ad offrire possibilità di sublimazione, servono a creare nella mente del bambino la piacevole fantasia che essi possono dominare il mondo. * I giochi quindi hanno grossa importanza per “allenare” il concetto di sublimazione. LA LOGICA DELLA RELAZIONE PSICOTERAPEUTICA Sommario Friedman ha osservato che "Freud non ha inventato una forma di trattamento: l'ha scoperta". Questo significa che la psicoanalisi è un "fenomeno robusto", dotato di una logica interna o di una struttura essenziale. Di questa struttura Friedman descrive due elementi: la "caccia alla verità oggettiva" e l'"atteggiamento oppositivo". L'Autore parte da questa base per ampliarla in due direzioni. In primo luogo afferma che la struttura essenziale indicata da Friedman non appartiene solo alla psicoterapia psicoanalitica, ma è condivisa da ogni psicoterapia genuina, cioè da ogni trattamento che non separa l'obiettivo tattico della risoluzione del sintomo da quello strategico della formazione personale. In secondo luogo l'Autore colloca i due fattori di Friedman sui due assi ortogonali – quello orizzontale della riparazione e quello verticale della scoperta – che definiscono il campo della psicoterapia. Su questi assi, che congiungono ciascuno due posizioni terapeutiche cardinali, i fattori di Friedman sono raddoppiati a quattro, cioè due coppie di fattori polarmente opposti. Questa duplicazione, che trasforma la logica lineare di Friedman in una logica dialettica, è ritenuta necessaria per superare l'unilateralità della prima. Nell'approccio dialettico la verità non è semplicemente cacciata o conquistata, è anche accolta o generata; e alle resistenze si risponde certamente con una modalità oppositiva, ma anche con una rassicurante e convalidante. E' necessario trovare un equilibrio momento per momento tra il cacciare e l'accogliere, come tra il lottare e il rassicurare, in funzione delle esigenze del processo. Capitolo 1 Freud non ha inventato una forma di trattamento: l'ha scoperta. Se così non fosse, osserva Friedman (1997), la terapia non avrebbe senso: Se il mio assunto di partenza è sbagliato, cioè se il trattamento non è altro che l'applicazione a un certo paziente di una teoria analitica qualsiasi che stia passando per la testa di un certo terapeuta in un certo momento, allora tutto il mio metodo perde di senso pag 117 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) (p. 34). La terapia analitica non è, non può essere, qualcosa che deriva semplicemente dall'applicazione di una teoria qualsiasi (cosa che la renderebbe irrimediabilmente arbitraria), ma qualcosa che accade, e quindi è osservabile, nella situazione di trattamento: è un fenomeno robusto. Ciò equivale a dire che il trattamento ha una sua logica interna, che determina la struttura osservabile. Si può partire da dove si vuole, anche dall'ipnosi, come ha fatto Freud. Ma se ci si lascia guidare dalla logica del processo, invece che dal desiderio di ottenere qualcosa (ricordi rimossi, catarsi, o qualsiasi altra cosa), si approda a una struttura essenziale della relazione, cioè a un insieme di proprietà che ogni relazione genuinamente terapeutica deve presentare. Di questa struttura Friedman evidenzia due punti: la "caccia alla verità oggettiva" e l'"atteggiamento oppositivo". Si può discutere se gli elementi base del processo siano proprio quelli ipotizzati da Friedman, o solo quelli. Si può rilevare una contraddizione tra la disponibilità a lasciarsi guidare dalla logica del processo e la decisione di prendere in esame, nella determinazione dei suoi componenti, solo "l'analisi freudiana angloamericana". Si può obiettare che ogni terapia, in quanto prodotto culturale, è anche e ovviamente una costruzione che dipende da certe premesse e da una determinata visione del mondo. Ma tutto questo non intacca la sostanza dell'osservazione di Friedman, perché se non esistesse un nucleo essenziale, o una struttura invariante alla base di ogni relazione psicoterapeutica o psicoanalitica autentica, cioè non fondata su suggestione o manipolazione, ogni discorso sulla psicoanalisi o la psicoterapia cadrebbe nell'insignificanza per mancanza di referente reale, e le teorie psicoanalitiche/psicoterapeutiche sarebbero di fatto indistinguibili dalla miriade di culti che si contendono il mercato della cura delle anime. Abbastanza spesso nei tentativi di definire questo nucleo o questa struttura essenziale viene impiegato il termine "psicoanalisi" per indicare la terapia autentica, e quello di "psicoterapia" come contenitore generico per tutte le pratiche puramente sintomatiche, suggestive o manipolative, distinzione che riecheggia quella freudiana ben nota tra l'oro della psicoanalisi e il rame della suggestione. La medesima distinzione terminologica è applicata anche al tentativo di separare la "psicoanalisi" come ricerca della verità o via di liberazione personale dalla "psicoterapia" intesa come una professione tecnico-scientifica simile alla pratica medica. In entrambi i casi la distinzione sembra impropria. Infatti è ben vero che esistono pratiche sintomatiche, suggestive o manipolative, e "terapie brevi" di ogni sorta, ma in tutti quesi casi sembra più giusto parlare di "cattiva" psicoterapia. Infatti anche all'interno del paradigma medico una terapia che si proponga solo di eliminare il sintomo è solo una terapia sintomatica, mentre una buona terapia medica agisce per quanto è possibile sulla causa della malattia. Inoltre l'affermazione che la psicoanalisi è in grado, a differenza della psicoterapia, di produrre una trasformazione radicale, e non solo una guarigione sintomatica, non è mai stata dimostrata e rimane ancora oggi una pura petizione di principio, come osserva Benvenuto (1999). Si può essere d'accordo con Contardi (1999) quando dice, a proposito della psicoanalisi, che "la terapia non avviene senza formazione soggettiva, e questa procede producendo effetti terapeutici": salvo che questo si può dire per ogni buona psicoterapia, e non per la sola psicoanalisi, se è vero che non può essere detta buona una psicoterapia che scinde l'obiettivo tattico della risoluzione del sintomo dall'obiettivo strategico della formazione o crescita personale. L'articolazione tra obiettivi tattici e strategici, d'altra parte, non può seguire uno schema fisso. A volte sono in primo piano gli uni, altre volte gli altri. Un lavoro centrato sul sintomo pag 118 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) può portare a un'importante trasformazione personale, come un lavoro sulle dinamiche profonde può portare alla risoluzione di un sintomo. Ma è tanto più probabile che questo avvenga quanto più l'altro polo del lavoro, anche se implicito, è tenuto presente. Viceversa accade molto spesso che i trattamenti a orientamento prevalentemente tattico (le "psicoterapie") trascurino la strategia e quelli a orientamento prevalentemente strategico (le "psicoanalisi") trascurino la tattica, cioè il trattamento del sintomo con tecniche appropriate. Entrambi rendono un cattivo servizio al paziente, quando la salvaguardia dell'identità del terapeuta (psicoterapeuta o psicoanalista di questa o quella scuola) è privilegiata rispetto all'attenzione ai bisogni del paziente. Quando invece prevale questa, lo psicoanalista si trasforma in psicoterapeuta (con molte frecce cognitivo-comportamentali-esperienziali al suo arco), e lo psicoterapeuta si trasforma in psicoanalista (in quanto esercita un monitoraggio continuo sull'esperienza della relazione da entrambe le parti – o, se si preferisce, analizza il transfert e il controtransfert). Con la conseguenza che la distinzione tra le due figure perde la gran parte, se non la totalità, del suo senso. Di conseguenza, le parole "psicoanalisi" e "psicoterapia" possono essere usate come sinonimi, nella maggior parte dei casi. Invece che inseguire incerte e improbabili distinzioni, conviene dedicarsi al compito di definire ciò che è essenziale o strutturale in ogni relazione terapeutica autentica, comunque si preferisca chiamarla. A questo scopo i due punti indicati da Friedman sembrano un buon punto di partenza. Questa è dunque la prima delle due posizioni cardinali di Friedman: L'analista poteva così portare avanti con fermezza il suo compito senza dover supplicare il paziente e senza doverlo manipolare, dato che la risposta ultima del paziente era comunque garantita, teoricamente, da una terza presenza: la verità oggettiva, la verità non distorta dai preconcetti dell'analista e del paziente e dal loro pensiero pregiudiziale (p. 40, corsivo mio). E' definita così la posizione base non solo della psicoanalisi, ma di ogni terapia relazionale, dal momento che l'incapacità di, o l'indisponibilità a neutralizzare i propri preconcetti personali o di scuola caratterizza le pratiche di manipolazione o indottrinamento ed esclude alla radice che ciò che ne risulta possa essere detto autenticamente terapeutico, per quanto fornitore e destinatario possano ritenerlo soddisfacente. Se sulla sospensione di preconcetti e pregiudizi come atto inaugurale di ogni vera terapia è impossibile non essere d'accordo, sull'attributo oggettiva per il sostantivo verità è lecito avanzare più d'una riserva. Benvenuto (1997), per esempio, ha osservato: la critica ermeneutica ci ha ricordato qualcosa di molto amaro per noi moderni... che è impossibile sapere qualcosa senza interpretare, è impossibile essere definitivamente 'oggettivi'. Ognuno interpreta a partire dai propri miti personali o di scuola. La crisi dell'interpretazione freudiana (non più rivelatrice di una verità oggettiva, ma un mito tra i tanti) è peraltro salutare, "nella misura in cui umilia una tendenza cronica di molta psicoanalisi all'onnipotenza interpretativa". Tuttavia, dire che ogni atto conoscitivo è irrimediabilmente intriso di interpretazioni equivale ad ammettere che non riusciamo mai a sospendere del tutto i miti (i pregiudizi, i preconcetti) a partire dai quali interpretiamo. Questa constatazione può condurre a esiti di relativismo o costruttivismo radicale, in cui ognuno è chiuso nel proprio mito (o nella propria teoria) e può comunicare solo con chi condivide le stesse pag 119 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) premesse. Da questo orizzonte la verità sparisce, essendo la "funzionalità" l'unico vincolo rimasto a fare argine al caos. Una volta abbandonata l'illusione che l'interpretazione riveli fatti oggettivi, che cosa ci può salvare dal nichilismo cui già Nietzsche era approdato ("non esistono fatti, ma solo interpretazioni")? Come prendere le distanze dalle vecchie certezze ingenue o dogmatiche senza cadere nell'estremo opposto dei vari costruzionismi postmoderni: come salvarsi, in altre parole, dall'alternativa secca tra scientismo e scetticismo? Se in questo dilemma siamo caduti identificando la realtà con l'oggettività, la via d'uscita non si troverà che separando queste due nozioni, e restituendo alla realtà lo spessore ontologico o noumenico che con l'oggettivazione viene perduto. Reale è solo ciò che è: il referente ontologico, di per sé inconoscibile, di ogni operazione conoscitiva (Agazzi, 1994). Ogni conoscenza (K) è trasformazione della cosa in sé (O), come ha visto Bion (1970). L'atto conoscitivo trasforma la cosa, e noi possiamo conoscere il prodotto di questa trasformazione, non la cosa stessa. Ma dato che la trasformazione può agire tanto in senso veridico quanto in senso falsificante, con quale criterio la valuteremo? Potremo applicare innanzitutto il classico criterio di conformità (adequatio rei et intellectus): una conoscenza è tanto più valida o vera quanto più è adeguata al referente ontologico. Criterio che naturalmente è diventato inapplicabile nell'orizzonte costruttivista, con la scomparsa del referente. Con il recupero di questo – obbligato se vogliamo uscire dal dilemma scientismo/scetticismo – recuperiamo anche il criterio di conformità, ma la sua applicazione richiede il chiarimento di alcune premesse. Per cominciare, se la critica ermeneutica ci ha ricordato che è impossibile essere definitivamente oggettivi, dovremo rinunciare all'oggettività non problematica e definitiva dello scientismo, e non sarà una gran perdita, ma non per questo saremo autorizzati a negare qualsiasi spazio e valore all'oggetto e all'attività scientifica che lo costruisce. Come la biologia ci permette di conoscere alcuni aspetti del vivente, quelli che l'apparato teoricotecnico del biologo ritaglia nella realtà del mondo vivente (referente ontologico), incommensurabilmente più vasto della parte ritagliata (conoscenza oggettiva), così la psicologia apre un accesso a ciò che i suoi strumenti ritagliano nella realtà del mondo psichico, anche questo incommensurabilmente più vasto della parte ritagliata. Biologia e psicologia sono semplicemente attività teorico-tecniche, o gli oggetti prodotti da tali attività. Se le procedure di queste produzioni sono corrette, gli oggetti così prodotti sono adeguati al referente, cioè ci danno a conoscere qualche suo aspetto parziale: ma solo la corrispondenza con il referente, stabilita dal confronto ripetuto e controllato con la realtà investigata, permetterà di stabilire tale adeguatezza. In quanto risultato delle procedure teorico-tecniche prescelte, l'oggetto è sempre un'interpretazione del soggetto; d'altro canto, essendo tali procedure vincolate a un referente ontologico, il risultato sarà sottratto all'arbitrio e descriverà un aspetto della realtà, quello circoscritto dai criteri prescelti, tanto più fedelmente quanto più rigorosa sarà stata l'applicazione del procedimento. Viene così a cadere la distinzione, la cui artificiosità è stata notata da tempo (Holt, 1962), tra ermeneutica e scienza, o tra scienze naturali e umane. In questo senso la psicoanalisi, disciplina interpretativa per eccellenza, è a pieno titolo una scienza, a patto che definisca rigorosamente il proprio apparato teorico e tecnico (Longhin, 1998); e lo stesso vale per ogni forma di psicoterapia. Abbiamo in tal modo recuperato un possibile valore di oggettività anche per le procedure pag 120 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) interpretative, tramite l'aggancio al referente ontologico. Ma questo non ci mette al riparo dalla moltiplicazione illimitata delle prospettive, che conduce alla proliferazione delle scuole e dei linguaggi psicoterapeutici . Ogni paradigma può a buon diritto rivendicare una propria scientificità, pur restando inconfrontabile e incompatibile con gli altri. E' come se ogni approccio illuminasse, grazie alla specificità e originalità dei propri mezzi, un settore particolare della "cosa" (o del campo terapeutico), fornendoci, di quel particolare settore, una conoscenza valida e oggettiva, ma non per questo confrontabile con le altre. Anzi, è proprio la fedeltà al paradigma prescelto che da un lato garantisce il rigore del procedimento e dall'altro isola quel settore da tutti gli altri, delimitati da paradigmi concorrenti. Se il pluralismo che risulta dalla moltiplicazione delle prospettive può essere salutato come un passo avanti rispetto al monolitismo delle ideologie egemoniche, non può certo essere considerato un esito soddisfacente, e nemmeno accettabile, per la psicoterapia. Arrendersi alla polverizzazione delle scuole e dei metodi, infatti, significherebbe accettare come un dato ultimo e insuperabile l'impossibilità per il soggetto di trascendere la griglia teorica che ordina il suo mondo, sancendo in tal modo non solo l'incomunicabilità tra aderenti a diversi paradigmi, ma anche la definitiva illusorietà di un ascoltoautentico. Tale esito "postmoderno", se può avere un certo corso là dove sono in gioco solo dei valori estetici, è viceversa esiziale in psicoterapia, una disciplina che, come abbiamo osservato sopra, si distingue dalle pratiche indottrinanti o manipolative proprio perché si fonda sulla capacità e volontà di neutralizzare, continuamente e sistematicamente, tutti i preconcetti e pregiudizi personali e di scuola. Abbiamo visto peraltro che il presupposto fondativo della psicoterapia (la neutralità) è contraddetto dalla critica ermeneutica, che ci ha ricordato che "è impossibile sapere qualcosa senza interpretare". Il recupero del referente ontologico ci ha permesso di restituire un certo valore di oggettività all'interpretazione, ma solo all'interno di un paradigma dato, rimanendo la scelta di questo completamente affidata alle preferenze soggettive (è escluso che si possa stabilire "oggettivamente" la superiorità, poniamo, di un paradigma cognitivo rispetto a uno lacaniano). Se questo fosse il punto d'arrivo della nostra indagine, ci troveremmo di fronte a una divergenza insanabile tra il presupposto di base della psicoterapia autentica e la critica ermeneutica, dal momento che ciò che il primo esige è negato dalla seconda. Dovremmo allora rinunciare all'una o all'altra? Molti conflitti che appaiono insuperabili per la logica lineare non lo sono più in una prospettiva dialettica. Se riconosciamo il valore di entrambi i principi enunciati, basterà togliere la pretesa di far valere unilateralmente l'uno o l'altro per vedere che la contraddizione mette in campo i due termini di una polarità dialettica. Il primo passo è già stato fatto: la pretesa di una neutralità perfetta, se mai l'avessimo avuta, è stata tolta di mezzo proprio dalla critica ermeneutica. Il secondo deve essere fatto in senso inverso: la critica ermeneutica, che lasciata a sé stessa favorisce la proliferazione anarchica e smisurata delle interpretazioni, deve a sua volta essere moderata dal richiamo della neutralità, nella ricerca di quella misura senza la quale l'operazione terapeutica non è pensabile. Capitolo 2 La dialettica dell'interpretare e del neutralizzare è stata descritta, ma con termini diversi (assimilazione e accomodamento), da Piaget (1959). Nel normale processo di pag 121 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) apprendimento il bambino cerca in primo luogo di assimilare i nuovi dati agli schemi cognitivi di cui dispone, cioè li interpreta alla luce dei modelli, miti o teorie preesistenti. L'assimilazione piagetiana corrisponde sostanzialmente all'interpretanza dell'ermeneutica, cioè all'atteggiamento interpretativo costante e strutturale dell'essere umano. Tuttavia il bambino sano non si limita ad assimilare: di fronte alla contraddizione non cerca di forzare la realtà nei suoi schemi, ma li sospende, li neutralizza; accetta di non sapere, di restare nell'incertezza quanto basta per lasciare entrare nel suo orizzonte qualcosa che li contraddice e lo obbliga a modificarli. Qui il bambino non interpreta, ma grazie alla sospensione dell'atteggiamento assimilativo vede qualcosa di nuovo. Invece di far rientrare i dati nei suoi schemi, "accomoda" il suo apparato percettivo alla realtà che ha di fronte. L'accomodamento del bambino corrisponde embrionalmente all'epoché della fenomenologia, in cui la messa tra parentesi di aspettative e preconcezioni consente di accogliere ciò che può manifestarsi grazie a quell'apertura. Ed è proprio grazie a questa neutralizzazione sistematica che i suoi schemi si modificano e arricchiscono. Lo stesso movimento dialettico si esprime nel circolo ermeneutico. Noi interpretiamo sempre a partire da una precognizione, come ha chiarito Heidegger (1927, §32). Nel rivalutare il pregiudizio come fonte di comprensione, e nel negare la possibilità di un'interpretazione neutrale, Heidegger ha indicato lucidamente le condizioni generali dell'interpretatività. In questa enfasi sul comprendere come interpretare, peraltro, si intuisce il desiderio dell'allievo di affrancarsi dal maestro Husserl, che in modo altrettanto unilaterale aveva insistito sulla neutralità. Più equilibrata, rispetto a entrambi, la posizione di Freud: "heideggeriano" nel prescrivere la mitologia centrata sull'Edipo come base per la produzione di senso nelle storie analitiche, "husserliano" quando suggerisce di procedere "senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti" (1912, p. 535). Il circolo ermeneutico può girare nei modi del circolo vizioso o virtuoso. Siamo nel primo quando la teoria o mito da cui partiamo è anche il punto d'arrivo di un movimento in cui le conclusioni confermano regolarmente le premesse: è il modo di ogni ortodossia, e il motivo della ben nota, e in questo senso giusta, esclusione della psicoanalisi dal campo delle scienze da parte di Popper. Siamo nel secondo quando i presupposti impliciti sono prima utilizzati per una precomprensione dei dati, e poi sospesi per una comprensione più piena, che includa ciò che i presupposti di partenza non potevano afferrare. La figura del circolo è appropriata per descrivere un movimento in cui il punto d'arrivo (la comprensione più piena) esercita un effetto sul punto d'inizio, permettendo di modificare e via via arricchire la teoria di base. Esiste anche una terza e più insidiosa modalità di circolo ermeneutico, che senza essere apertamente viziosa non è nemmeno virtuosa: quella in cui l'assunto di partenza è sospeso e modificato in funzione di aspettative altrui. Quello che manca, qui, è una vera neutralizzazione: i due soggetti non sospendono i propri assunti in nome di una comune ricerca di verità, ma semplicemente vengono a patti, negoziano una versione accettabile per entrambi. Poiché la mediazione non è in nome della verità, ma in quello del compromesso, il processo di cambiamento condurrà a un adattamento reciproco che di per sé non ha valore maturativo, generando in sostanza un falso sé à deux. Nei rapporti di coppia, o tra il leader e i suoi seguaci, e persino tra analista e analizzando, ciascuno tende ad adattarsi al sapere dell'altro, conscio o inconscio (teorie, modelli, fantasie). E' necessario distinguere questo pseudo-adattamento – di fatto, una manipolazione reciproca collusiva – da un vero adattamento alla realtà. Il vero accomodamento non è una pag 122 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) negoziazione tra saperi, ma la correzione di uno schema preesistente che segue la sospensione di ogni sapere: quel salto nel vuoto che Bion (1970) ha indicato con la formula "Fede in O", che significa affidamento all'origine inconoscibile di ogni conoscenza. Cercherò di illustrare la dialettica del circolo ermeneutico con riferimento alle posizioni di Benvenuto e Napolitani. Benvenuto (1999) mantiene una posizione prudentemente intermedia tra coloro che eccedono in senso scientifico o al contrario in senso ermeneutico, cioè dal lato dell'oggetto o da quello del soggetto. Da una parte si punta all'"oggettività di qualcosa di elementare, a una causa primaria che, in quanto causa, non ha significato... Questo amore per il termine 'elementare' è sempre un indicatore di atteggiamento riduzionistico: l'obiettivista fugge dalla complessità (l'olon), e cerca pace o un porto sicuro nell'elementare". Dall'altra parte, "la resa dell'analisi al gioco ermeneutico – cioè a produrre interpretazioni che solo la Storia potrà giudicare – è un segno della sua crisi... Infatti coloro che gettano discredito sulla psicoanalisi pensano che essa abbia a che fare solo con interpretazioni, e mai realmente con qualcosa di reale: pensano che l'analista non sia il testimone di qualcosa (das Ding) che il soggetto scopre, ma solo un manipolatore delle sue credenze". Nella ricerca di un "reale" che non sia ridotto a un'oggettività elementare priva di significato, né dissolto in una fuga senza fine di interpretazioni di interpretazioni, Benvenuto trova una traccia nell'"affetto di verità" che "è certamente il risultato delle ricostruzioni storicoermeneutiche dell'analista che rivelano la difesa interpretativa del soggetto: ma, all'orizzonte, questo affetto di verità indica al soggetto – che finalmente si percepisce come altro rispetto a ciò che credeva di essere – la possibilità di interpretarsi diversamente, e di aprirsi a quell'alterità che lo fa sloggiare" dall'identità in cui si era installato. Il reale è dunque definito per contrasto con l'immaginario: è altro rispetto a ciò che il soggetto immagina di essere, è ciò che egli si trova di fronte – ciò con cui deve fare i conti – quando scopre l'autoinganno in cui si era rifugiato o in cui era rimasto intrappolato. L'affetto di verità è il sentimento liberatorio che segnala lo smascheramento dell'inganno, e allo stesso tempo indica la realtà che l'inganno copriva. L'analista spinge il soggetto a rendersi permeabile a un'alterità che Benvenuto esemplifica come "pulsione biologica, trauma, richieste e interpretazioni dall'esterno": un'alterità che ha il carattere di un dato "inevitabile", o evitabile solo al prezzo di una chiusura nella nevrosi. Tuttavia, secondo Napolitani (1999), "ogni verità scoperta è un inganno, cioè un'approssimazione fantasiosa a 'come le cose realmente sono'". Se "non c'è realtà oggettiva, non c'è incontro con il mondo che non sia un ibrido, cioè il risultato di una violenza (ubris) da parte delle preconcezioni individuali sui dati percepiti", allora anche ciò che Benvenuto identifica come "reale" (pulsioni, traumi, richieste del mondo esterno) non può che essere il prodotto di quella stessa violenza che sempre cerca di spacciare per realtà le proprie costruzioni. Questo significa che non c'è modo di uscire dalle proprie gabbie, o gusci epistemologici? Un modo c'è, per Napolitani, e consiste nel recuperare "lo sguardo nudo del fanciullo", cioè "un modo di vedere che non presuppone alcuno scopo e quindi sorprende, aperto alla comprensione e non interessato alla spiegazione, non preso dalle forme che stanno dalla nostra parte dell'orizzonte perché vede ciò che è oltre i limiti sensibili. Lo sguardo del mistico, del poeta". Ma in che rapporto stanno tra loro la violenza interpretativa e lo sguardo nudo? La violenza appartiene all'inconscio freudiano, inteso come "lo spazio del rimosso, del 'totalmente già noto' che si rende presente, al di là di ogni consapevolezza critica, come pag 123 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) una legge a priori, la legge di ciò che è defunto, della coscienza morale". Se l'esperienza è governata dalla legge del defunto, del già noto, le sue categorie saranno confermate in una ripetizione senza fine. Ma se il defunto viene evocato, come nelle antiche cerimonie psicagogiche, per "concludere il tempo della sua morte... il suo erede ha la possibilità di non rimanere confuso con lui, ma di prendere quella distanza riflessiva, critica, estetica in cui può minimamente affermare la sua originalità... L'originalità non implica l'impossibile compito di essere oltre la propria storia, ma un modo singolare di assumere ancora una volta la propria storia (le proprie origini) non per ripeterle, ma per trasformarle". Lo sguardo nudo allora corrisponde alla "capacità negativa" di Keats e Bion: "la capacità di tollerare il cambiamento basata sullo spostamento del centro esistenziale di gravità verso il futuro e il divenire. La mente che non rifiuta il proprio concepimento ha fede... nella propria capacità di ritrovarsi, accresciuti nella propria continuità, oltre il cambiamento". Questa fede consente il salto nel vuoto, l'abbandono della certezza del già noto (l'inconscio) per affidarsi alla matrice generativa (l'ignoto). Le posizioni di Benvenuto e Napolitani hanno un punto di partenza comune e approdi diversi. La base di partenza è comune anche a tutti coloro, come Miller (1996) e Laplanche (1997), per i quali "l'interpretazione è soprattutto quella dell'inconscio, nel senso del genitivo soggettivo: è l'inconscio che interpreta" (Miller, 1996, cit. da Benvenuto). L'interpretazione è vista come un'operazione primariamente difensiva, che protegge da qualcosa che di volta in volta è indicato come il vero, il reale, l'ignoto, la cosa in sé. Obiettivo primario della psicoanalisi è dunque smascherare questa operazione, svelare le interpretazioni in cui l'identità del soggetto si è alienata per riportarlo a ciò da cui con quelle interpretazioni si è allontanato. Com'è possibile che da questa base comune si arrivi a conclusioni diverse o divergenti, come nel caso di Benvenuto e Napolitani? Si può rispondere ancora una volta che l'opposizione è solo apparente, dal momento che Benvenuto e Napolitani hanno messo in luce rispettivamente i due termini di una polarità dialettica, quella che Bion indica con le lettere K e O, l'attuale e il potenziale, il fenomeno e il noumeno. Nel vertice K l'analista pone il soggetto di fronte a quei "dati di realtà" che sono come pietre d'inciampo ineludibili sul suo percorso esistenziale. Dati pesanti, biologici, biografici o ambientali, con cui non è possibile non fare i conti, pena l'arresto del cammino maturativo. C'è un "reale in K" che è fatto di queste concrezioni, cioè delle condizioni materiali, familiari, storiche, sociali dell'esistenza del soggetto. Ma prendere atto di queste condizioni, farsene carico, non equivale a sottomettersi ad esse. L'essere umano, grazie alla sua "neotenica" incompletezza, si distingue da ogni altro animale per la straordinaria capacità di trasformare continuamente le condizioni della sua esistenza, rompendo i gusci materiali o epistemologici che lo imprigionano per rimettersi al mondo in forme sempre nuove e imprevedibili. Nel vertice O l'analista e il suo paziente, "legati da una comune evocazione dei propri 'defunti' (della loro storia, ideologia, senso comune, teorie, conoscenza psicoanalitica)" (Napolitani), dissolvono e ricreano continuamente le forme della loro esistenza. Capitolo 3 Dalla "caccia alla verità oggettiva" di Friedman siamo arrivati all'insieme di operazioni che si collocano sulla linea congiungente i due vertici O e K del campo della terapia. Abbiamo esaminato una prima nozione di oggettività: quella per cui se ne può parlare solo all'interno pag 124 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) di un paradigma dato, dal momento che l'oggetto è inseparabile dalle procedure teoricotecniche che lo producono. E poiché la psicoterapia autentica (cioè non manipolativa) ha luogo solo in quanto ogni pretesa di far valere acriticamente i rispettivi paradigmi, personali o di scuola, è sospesa da entrambe le parti – lo spazio del dialogo terapeutico si apre grazie a questa sospensione – il criterio di oggettività, per quanto non estraneo alla verità di cui si tratta in terapia, ha in questo contesto un'applicazione problematica. In primo luogo occorrerà portare alla luce le autointerpretazioni in cui l'identità del soggetto è rimasta intrappolata, favorendo l'incontro con il reale che da quelle interpretazioni era schermato. Si è guidati, in questa parte del percorso, da quello che Benvenuto ha felicemente chiamato "affetto di verità", piuttosto che dalle procedure comunemente impiegate quando si vuole stabilire l'oggettività di una proposizione. Ma una volta che ci troviamo di fronte a quel reale che le interpretazioni alienanti occultavano, la questione della sua oggettività si ripropone in una forma nuova. E' una questione che non si pone se ci fermiamo alla definizione lacaniana secondo la quale "le réel est l'impossible" (Benvenuto, 1998). Infatti, se il reale cui alla fine si perviene non è altro che l'impossibilità del desiderio (del vero amore, di non morire…) si tratterà solo di riconoscere che l'accettazione di questa impossibilità è il prezzo da pagare per arrestare la fuga nell'interpretanza nevrotizzante. Un compito etico, non un'impresa scientifica. Se poi, al di là di un'accettazione stoica dell'inevitabile, intravediamo la possibilità di un'uscita dalle gabbie interpretative per una reinterpretazione dell'esistenza non più nevrotica, ma creativa e rigenerativa, il campo che ci si apre davanti è quello della mistica e dell'arte di vivere, in cui di oggettivabile c'è naturalmente poco o nulla. Stabilito che la psicoterapia è un'operazione complessa, inseparabile da un impegno etico e filosofico, rimane da capire se e in che senso essa possa rivendicare un'appartenenza anche all'ambito delle "scienze umane". A questo fine non basterà più che una determinata scuola di psicoanalisi o psicoterapia definisca il proprio apparato teorico-tecnico, autolimitando la propria pretesa di oggettività agli oggetti costruiti da tale apparato. Anche ammettendo che in questo modo ogni scuola descriva un aspetto parziale della cosa o del campo, il ripiegamento autoreferenziale sui propri oggetti (pratiche, riti, linguaggio) osservabile nella maggior parte delle scuole esistenti è sicuramente incompatibile con le esigenze minime del discorso scientifico. Questo richiede, infatti, che ogni assunto teorico sia inteso come ipotesi da verificare o falsificare nel confronto continuo e pubblico con l'esperienza e con ipotesi diverse, e non come elemento di identificazione sulla cui base riconoscere e chiamare a raccolta i seguaci, costruire carriere e comminare espulsioni – come è invece pratica corrente. Questo confronto non è possibile se il campo d'indagine è quello generato dalla teoria da indagare (nel qual caso non si sfugge all'autoreferenzialità), ma solo se il referente reale cui tutte le teorie sono vincolate è neutro rispetto alle teorie stesse, o, come si usa dire, è transteoretico o metateoretico. Naturalmente in una prospettiva postmoderna, radicalmente costruzionista, l'esistenza stessa di un tale referente è negata. Se tuttavia fosse vero che ognuno è irrimediabilmente chiuso nel proprio paradigma teorico non solo sarebbe impossibile qualsiasi dialogo tra aderenti a paradigmi diversi, ma sarebbe vanificata la stessa psicoterapia, essendo questa per essenza la comunicazione che si apre quando almeno uno dei partecipanti accetta di sospendere l'adesione cieca alle proprie convinzioni, personali o di scuola (al di fuori di questa sospensione, come abbiamo osservato, non esiste terapia, ma solo manipolazione o indottrinamento); e che diviene pienamente operativa quando a tale sospensione si pag 125 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) perviene da entrambe le parti. La psicoterapia autentica si fonda sul dialogo, e il dialogo è quel tipo di comunicazione in cui i presupposti teorici dei dialoganti sono neutralizzati quanto basta per far emergere il logos della relazione. L'affermazione dell'esistenza di un logos (di una logica, di una ratio, di un ordine) nelle cose è certamente una questione di fede, ma è la fede su cui si fonda ogni impresa scientifica, o il residuo metafisico irriducibile di ogni fisica. In particolare, non è possibile pensare alla psicoterapia come a un'operazione scientificamente fondata, se non in quanto si assume che la relazione psicoterapeutica, pur nella varietà virtualmente illimitata delle tecniche e nella singolarità imprevedibile di ogni incontro, è governata da una sua logica interna. In altre parole, non è possibile sottrarre la psicoterapia all'arbitrio delle opzioni teoriche e tecniche se non ancorandola a una struttura propria, cioè a un insieme di invarianti, regolarità, configurazioni ricorrenti che strutturano ogni relazione psicoterapeutica, indipendentemente dall'orientamento del terapeuta e dalle preferenze soggettive di entrambi. Come è stato osservato analizzando i risultati della ricerca sui risultati della psicoterapia (Lambert, 1992), le tecniche impiegate dal terapeuta rendono conto di una quota non superiore al 15% dei risultati ottenuti, contro il 30% attribuibile ai fattori comuni, non specifici di alcun metodo. Il paradosso del Verdetto di Dodo – "tutti hanno vinto, tutti meritano un premio": la sostanziale equivalenza dei diversi metodi terapeutici – è probabilmente riconducibile allo stesso motivo. La psicoterapia funziona, ma per motivi solo debolmente collegati alle scelte tecniche del terapeuta. Funziona perché ogni terapeuta è indotto dalla logica stessa della relazione a rispondere ai bisogni reali che la relazione mette in gioco, previsti o meno dal metodo in cui è stato formato. Con questo torniamo all'osservazione di Friedman da cui siamo partiti: la terapia, nei suoi tratti essenziali, non si inventa, si scopre. Ma che cosa si scopre? In primo luogo si scopre che la relazione terapeutica è essa stessa il luogo di una scoperta. C'è una larghissima convergenza tra scuole psicoanalitiche e psicoterapeutiche sul riconoscimento che un passaggio obbligato di ogni terapia consiste nel portare alla luce le interpretazioni che il soggetto ha dato di sé stesso, del suo mondo e della sua storia, e in cui è rimasto in un modo o nell'altro intrappolato, quale che sia la forma assunta da tali interpretazioni: fantasie inconsce, schemi cognitivi o copioni relazionali. Per quanto esse siano anacronistiche e svantaggiose, il soggetto di regola le difende tenacemente e resiste vigorosamente ai tentativi di modificarle. Le difende perché lo proteggono da qualcosa che, a ragione o a torto, teme di affrontare. Si potrà trattare di antiche ferite mai rimarginate, di bisogni mai soddisfatti o conflitti non risolti, come anche di passaggi evolutivi o decisioni esistenziali da affrontare nella vita attuale. La "caccia alla verità oggettiva" – il primo fattore di Friedman – si riferisce chiaramente alla necessità ineludibile, per ogni terapia degna del nome, di smascherare le costruzioni mentali che separano il soggetto dalla realtà che gli appartiene. Tuttavia la dimensione della scoperta non è interamente riducibile a una "caccia alla verità oggettiva" – cosa che darebbe alla relazione terapeutica un sapore vagamente persecutorio. Non si tratta di scoprire solo il "reale" da cui il soggetto si difende, ma, come abbiamo visto, anche il "potenziale" inespresso a cui fare ricorso per generare nuove forme di esistenza. Un terapeuta che mettesse sistematicamente il suo paziente di fronte al reale da cui fugge, senza sapere attivare nel contempo la fiducia nel potere risanativo e rigenerativo di cui in profondità dispone e la capacità di attingervi per trasformare quel pag 126 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) reale da cui si sente oppresso, infilerebbe probabilmente sé stesso e il suo paziente in una strada senza sbocco. La dimensione della scoperta è dunque rappresentabile come un asse congiungente i due poli K e O del reale e del potenziale, o del conosciuto e dell'ignoto, o del fenomeno e del noumeno. Possiamo affermare che questo è l'asse portante di ogni psicoterapia autentica, indipendentemente dalla persuasione del terapeuta. La terapia peraltro non si identifica unicamente con la scoperta di ciò che è nascosto o latente. E' una coincidenza che può effettivamente verificarsi in certe fasi del lavoro, con pazienti molto motivati con cui si sia stabilita una buona alleanza. Ma che questa non sia la regola ce lo dice ancora Friedman, con il suo secondo fattore terapeutico fondamentale: l'atteggiamento oppositivo, che significa lotta senza quartiere contro la resistenza. La sua necessità deriva dalla ribellione, propria della mente infantile, per tutto ciò che contrasta l'onnipotenza del desiderio. Questa indicazione è del resto già esplicita in Freud (1910, p. 329): E' un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l'ammalato soffrirebbe per una specie d'insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale "non sapere" per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo "non sapere" nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno provocato il "non sapere" e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze. Se il fattore patogeno principale non è di per sé il "non sapere", ma la resistenza interna al sapere, il compito principale del terapeuta non è in primo luogo la scoperta di ciò che è nascosto, bensì, nelle parole di Freud, il "combattimento contro la resistenza", o, in quelle di Friedman, l'"atteggiamento oppositivo". Questo fattore era forse già implicito nel concetto di "caccia alla verità oggettiva", dal momento che quando si va a caccia si dà per scontato che la preda farà di tutto per non farsi catturare. Tuttavia, finché l'accento è sulla verità, l'obiettivo rimane quello di produrre conoscenza da una posizione il più possibile neutrale, mentre l'accento sulla resistenza comporta un allontanamento dalla neutralità per un coinvolgimento relazionale di tipo deliberatamente oppositivo. In questa posizione, l'analista "nega al paziente qualunque segnale che possa fungere da conferma o da rassicurazione… continua severamente a richiamarne l'attenzione sugli aspetti che vengono proposti con maggiore riluttanza…" (Friedman, 1997, p. ). Certamente in molte occasioni il terapeuta non può evitare di assumere un atteggiamento severo e sottrarsi alle richiesta di conferma e rassicurazione. Ma non può fare diversamente? Non ci sono forse altre occasioni in cui l'offerta di rassicurazione e conferma è appropriata? Per rispondere a questa domanda dovremmo tener presente l'avvertimento di Friedman: per decidere che cosa appartiene o non appartiene alla psicoanalisi (o piuttosto alla psicoterapia) non dovremmo basarci sulla teoria – su una teoria qualsiasi. Cioè, non dovremmo rispondere che la rassicurazione è permessa o vietata solo perché la nostra teoria la prevede o non la prevede. Se lo facessimo, il risultato non sarebbe altro che analisi o terapia scolastica (o stereotipata). Non è la teoria di una scuola che dobbiamo interrogare per avere questa risposta, ma la logica interna della relazione psicoanalitica (o psicoterapeutica). E la logica interna ci dice qualcosa la cui evidenza è sempre più innegabile: l'insight non basta (Fonagy, 1999). Perché l'insight non pag 127 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) basta? Perché se bastasse, l'analista in primo luogo non avrebbe bisogno di muoversi dalla posizione neutrale dello scienziato, cosa che invece fa tutte le volte che assume un atteggiamento oppositivo – come è costretto a fare per combattere le resistenze interne. Per lo stesso motivo, un genitore tratta severamente un bambino che cerca di sottrarsi a qualche realtà spiacevole. In effetti, l'atteggiamento oppositivo non è altro che la comune modalità genitoriale di mettere il bambino di fronte a ciò che cerca di evitare, e che invece deve affrontare per crescere. D'altra parte, questo confronto non può essere separato dall'atteggiamento opposto di conferma e rassicurazione. La dialettica di queate due modalità relazionali – accettazione verso confronto, modo materno verso modo paterno – è descritta nel modo più sintetico da Marsha Linehan (1993): La dialettica più fondamentale è la necessità di accettare i pazienti per come sono in un contesto in cui cerchiamo di insegnargli a cambiare… essa richiede modificazioni momento per momento nell'uso dell'accettazione supportiva da un lato, e del confronto e delle strategie di cambiamento dall'altro (p. 19). Capitolo 4 Con un paziente pienamente motivato a conoscere e fronteggiare tutto ciò che deve essere conosciuto e fronteggiato non ci sarebbe alcun bisogno di un atteggiamento oppositivo. Ugualmente, con un paziente sicuro del proprio diritto di esistere e di essere tutto ciò che è non ci sarebbe alcun bisogno di rassicurazioni. Ci possono essere momenti o intere sedute in cui il terapeuta può mantenersi almeno relativamente neutrale, perché il lavoro si svolge prevalentemente o del tutto sull'asse della scoperta. Ma è pressocché impensabile una terapia in cui il terapeuta non debba spostarsi di quando in quando sull'asse della riparazione, che unisce i vertici materno e paterno della terapia. I due fattori di Firedman sono rappresentativi di entrambi gli assi, ma con una netta prevalenza maschile-analitica. Se questa unilateralità è corretta con l'aggiunta del versante femminile-sintetico, si ottengono le due coppie di fattori cardinali (O-K, M-P) e i due assi ortogonali (della riparazione e della scoperta) che descrivono il campo della terapia, cioè lo spazio in cui avviene virtualmente ogni interazione terapeutica. L'ampliamento del modello, con il passaggio da due a quattro fattori, è richiesto dalla dialettica dell'interazione. Un'enfasi eccessiva sul vertice K, non bilanciata dagli interventi spontanei e generativi del vertice O, rischierebbe di dare alla relazione un carattere epistemofilico, tendenzialmente ossessivo, che a sua volta stimolerebbe delle resistenze iatrogene. Se la terapia ha troppo l'aspetto di una caccia, e troppo poco quello di un gioco, non è improbabile che il paziente finisca per sentirsi braccato, specialmente se è già predisposto in questo senso – nel qual caso la predisposizione sarebbe confermata. Similmente, se l'atteggiamento del terapeuta è troppo oppositivo e responsabilizzante, e troppo poco rassicurante e convalidante, sarà favorita la percezione del terapeuta come una persona ostile, con la conseguente conferma di eventuali fantasie persecutorie. La parte mancante dell'intero è stata esplorata da diverse scuole psicoanalitiche. Per esempio la posizione rassicurante-convalidante (vertice materno) è stata rivalutata dalla scuola della psicologia del sé, mentre la dialettica della spontaneità e del rigore tecnico ha ricevuto particolare attenzione tra gli psicoanalisti relazionali (Hoffman, 1994). Tuttavia lo sviluppo di una terapia compiutamente dialettica è ostacolato da due ordini di difficoltà. In pag 128 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) primo luogo, per quanto sia ormai ampiamente riconosciuto che una neutralità perfetta non può esistere, e ogni relazione psicoanalitica è di fatto un'interazione, molti analisti sono tuttora riluttanti ad ammettere un'azione diretta e deliberata, se differente dalle strategie classiche di "caccia alla verità" e di "opposizione". Per esempio, si ammette che la relazione analitica possa ospitare una "base sicura", ma solo in quanto questa è l'effetto automatico del setting e non comporta un'azione rassicurante deliberata da parte dell'analista. Similmente, una certa misura di spontaneità è tollerata, purché sia una risposta involontaria, seppure inevitabile, dell'analista, e non un allontanamento coscientemente deciso dalla posizione neutrale. Ma come stabilire se il processo terapeutico richiede o meno azioni rassicuranti o spontanee? La nostra decisione è guidata dal processo o dalla teoria? Il secondo e più serio ostacolo alla terapia dialettica è la difesa scolastica che porta a rispondere alla teoria invece che al processo. La differenza sta nel fatto che il terapeuta dialettico ha una o molte teorie, ma non ne dipende: ne fa uso fintanto che sono utili, le lascia da parte quando cessano di esserlo. La terapia reale, come la vita reale, non può essere costretta in una teoria. La teoria è necessaria per un orientamento generale, o come punto di partenza; ma si dovrebbe essere sempre pronti a lasciarsi sorprendere da qualsiasi cosa non rientri in una teoria data, e a modificarla di conseguenza per accogliere il nuovo dato. Si potrebbe obiettare che il modello a quattro fattori che propongo qui è una teoria come un'altra, più ampia del modello a due fattori che dovrebbe sostituire, più ristretta di quello a sei che prima o poi lo rimpiazzerà. All'obiezione risponderei in primo luogo che il modello a quattro fattori è dialettico, mentre quello a due non lo è. La differenza è importante, perché il modello a quattro fattori non si basa semplicemente su quattro elementi, ma più esattamente su due coppie di elementi. Questo significa che l'unilateralità di ogni fattore è compensata dal suo opposto, col risultato che, per esempio, un paziente non si sente braccato dalla caccia alla verità se ha l'esperienza che la relazione terapeutica è anche il luogo dove la verità si mostra quando non è cacciata, ma accolta. In secondo luogo, io propongo un modello a quattro vertici perché mi sembra che virtualmente tutte le interazioni terapeutiche avvengono in uno spazio definito da due assi ortogonali che congiungono questi quattro vertici (per una discussione più dettagliata di questo modello, vedi Carere-Comes, 1999). Se tuttavia affermassi che solo il mio modello a quattro vertici definisce la vera terapia dialettica, creerei una teoria simile a quelle che tipicamente si trovano in molte scuole psicoanalitiche o psicoterapeutiche. Non c'è nulla di sbagliato nelle teorie, fintanto che sono strumenti per la ricerca scientifica. C'è molto di sbagliato, invece, quando diventano mezzi di identificazione o di potere, come accade non di rado nelle scuole psicoanalitiche o psicoterapeutiche (Bernardi, 1989). Pertanto, se qualcuno annunciasse di avere scoperto un terzo asse del campo che lo rende esagonale, un terapeuta realmente dialettico non avrebbe difficoltà a passare da quattro vertici a sei, se i dati portati a sostegno sono convincenti. La logica della relazione terapeutica non deve essere confusa con il modello a quattro vertici (né con alcun altro modello a n-fattori). Il modello a quattro vertici non è che lo sviluppo dialettico del modello psicoanalitico dominante a due fattori, ben illustrato da Friedman. La logica della relazione terapeutica è una logica dialettica, che differisce dalla logica ordinaria, o dell'identità, in quanto è basata su opposizioni. Per esempio, nel passaggio citato sopra Friedman definisce l'atteggiamento oppositivo (P) per contrasto con l'atteggiamento rassicurante-convalidante (M). Questa definizione è ancora all'interno della pag 129 di 130 a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova) logica dell'identità, in cui il contrario è richiamato solo per essere escluso (P¹non-P). Essa può essere tuttavia vista anche come l'inizio di un ragionamento dialettico, in cui il contrario partecipa in modo essenziale alla definizione della cosa (P=non-M). In una logica dialettica compiuta una cosa è ciò che è solo in connessione con ciò che non è. Ciò equivale a dire che non basta dire che P non è M: si deve aggiungere che P esiste solo grazie a M, cioè un fattore non può esistere senza l'altro, tanto nella famiglia qanto nella terapia. Questa formulazione rende esplicita la reciproca appartenenza che era solo implicita in Friedman. Mentre nell'atteggiamento analitico classico prevale il fattore oppositivo, e nella psicologia del sé è in primo piano quello rassicurante-validante, in un approccio dialettico nessuno dei due prevale, ma si ricerca momento per momento la sintesi migliore richiesta dalla situazione clinica presente. Molte opposizioni che in mancanza di una prospettiva dialettica portano a scismi e alla nascita di scuole rivali possono essere comprese in questa prospettiva come diverse polarità interne a un unico campo terapeutico. pag 130 di 130