RACCOLTA DI APPUNTI
PER
SCIENZE UMANE
a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Cari colleghi
dopo aver letto tutti i libri “consigliati”,
dopo aver fatto tutta una serie di ricerche
ed approfondimenti,
ho messo insieme tutte le informazioni
che ho ritenuto utili (e sufficienti)
per affrontare l’esame di Scienze Umane.
Con il solito spirito di collaborazione
li metto a disposizione di tutti i colleghi
(che ne avessero bisogno).
Ho impaginato tutto il materiale,
secondo una logica consequenziale,
nei seguenti Capitoli:
1- Storia della Medicina
2 - Filosofia Morale
3 - Bioetica
4 - Psicologia
P.S.: sono circa 130 pagine … ma i 3 libri ammontano a quasi 600 pagine (senza contare Storia
della Medicina).
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
STORIA DELLA MEDICINA
La Medicina Greca
Nelle prime fasi, la medicina occidentale (non ci occuperemo della medicina
orientale) era una medicina teurgica, in cui la malattia era considerata un castigo
divino, concetto che si trova in moltissime opere greche, come l'Iliade, e che ancora
oggi è connaturato nell'uomo.
Il simbolo della medicina è il serpente, animale sacro perché ritenuto, erroneamente,
immune dalle malattie. Secondo un'altra versione nel simbolo non è rappresentato un
serpente, ma l'estirpazione della Filaria o serpente di Medina. Comunque, il serpente
aveva un'importante funzione pratica nella medicina antica: nel tempio di ogni città
c'era una sorta di cunicolo con i serpenti. Il tempio, infatti, non era solo un luogo di
devozione, ma anche un luogo dove si portavano i malati: la fossa dei serpenti
serviva a spaventare il paziente, a cui probabilmente venivano date anche delle
pozioni, per indurre uno stato di shock e fargli apparire il dio che così lo guariva.
Col passare del tempo la medicina prese sempre più le distanze dalla religione sino
ad arrivare alla medicina razionale di Ippocrate, che segnò il limite tra razionalità e
magia.
Le prime scuole si svilupparono in Grecia e nella Magna Grecia, cioè in Sicilia e in
Calabria. Tra queste, fu importantissima la scuola pitagorica. Pitagora, grande
matematico, operava nell'isola di Samo, ma si spostò a Crotone quando il tiranno
Policrate prese il potere nella sua città. Egli portò nella scienza naturale, ancora non
definibile medicina, la teoria dei numeri: secondo Pitagora alcuni numeri avevano
significati precisi e, fra questi, i più importanti erano il 4 e il 7. Il 7 ha sempre avuto un
significato magico, per es. nella Bibbia un numero infinito è indicato come 70 volte 7.
Tra l'altro il 7 moltiplicato per 4 dà 28, cioè il mese lunare della mestruazione, e 7 per
40 dà 280, cioè la durata in giorni della gravidanza. Sempre per la connotazione
magica del 7 si diceva che era meglio che il bambino nascesse al 7° mese piuttosto
che all'8°. Anche il periodo di quarantena, cioè i 40 gg che servirebbero per evitare il
contagio delle malattie, è derivato dal concetto di sacralità del numero 40. Tuttavia la
scuola pitagorica non si limitò a questo, ebbe importanti allievi e in quel periodo
nacquero delle scuole filosofiche molto importanti.
Talete elaborò un'importante sistema secondo cui l'universo era costituito da 4
elementi fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco. In questo periodo venne dato
grande rilievo anche alle qualità, secco e umido, freddo e caldo, dolce e amaro, etc.
Un grande allievo di Pitagora, Alcmeone di Crotone, nel VI-VII secolo a.C. fu il
primo ad avere l'idea che l'uomo fosse un microcosmo costituito dai 4 elementi
individuati da Talete. Secondo lui dall'equilibrio degli elementi, che chiamò isonomia
o democrazia, derivava lo stato di salute, mentre lo stato di malattia derivava dalla
monarchia, ovvero dal prevalere di un elemento sugli altri. Alcmeone fu anche il
primo ad individuare nel cervello l'organo più importante. Sino ad allora era stata
data pochissima importanza al cervello, che era sempre sfuggito all'osservazione:
all'epoca greca il corpo era sacro e non si praticavano dissezioni, ma veniva visto
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negli animali sacrificati come una massa gelatinosa e fredda di scarso interesse.
Alcmeone stabilì che il cervello doveva essere l'organo che comandava l'organismo.
Pare che si fosse anche reso conto, fatto poi smentito da altri, che i nervi servissero
per condurre gli impulsi nervosi, ma questa notizia non ha lasciato traccia nella storia
della scienza di allora.
La vera e propria medicina razionale è da attribuire ad Ippocrate (V sec. A. C.),
padre della medicina. Ippocrate visse tra il 460 e il 370 A.C. nell'isola di Coo o Cos,
nel Dodecanneso, dove si sviluppò la scuola razionale, cui vanno ascritti molti dei
pensieri attribuiti ad Ippocrate, che visse nei 50 anni di pace periclea, periodo in cui
fiorì la filosofia. Operò nell'area del Mediterraneo e nei suoi viaggi toccò la Sicilia,
l'Egitto, Alessandria, Cirene, Cipro.
La base della medicina razionale è la negazione dell'intervento divino nelle malattie.
Anche la famosa malattia sacra, l'epilessia, fu attribuita ad una disfunzione
dell'organismo.
La concezione di Ippocrate si rifaceva a quella di Talete ed in parte anche a quella di
Alcmeone di Crotone, quando diceva che l'uomo è il microcosmo ed il corpo è
formato dai 4 elementi fondamentali, nell'ordine aria, fuoco, terra ed acqua. Secondo
Ippocrate e la sua scuola (pare che addirittura si trattasse di suo genero Polibio), agli
elementi del corpo umano corrispondevano, in base a delle qualità comuni, degli
umori: all'aria, che è dappertutto, corrispondeva il sangue; al fuoco, caldo,
corrispondeva la bile; alla terra, per il colore, corrispondeva un umore scuro in realtà
inesistente, forse osservato nella pratica dell'auruspicina, durante il sacrificio degli
animali. Il sangue della milza, venoso, molto scuro fu forse ritenuto essere un altro
umore, diverso dal sangue, e fu chiamato bile nera, atrabile in latino e o melaina kole'
in greco; infine all'acqua corrispondeva il muco, o pituita o flegma, comprendente
tutte le secrezioni acquose del nostro corpo (saliva, sudore, lacrime, etc.), localizzato
principalmente nel cervello, che era umido e freddo come l'acqua.
Agli umori furono fatte corrispondere anche le stagioni: la prima stagione, quella del
sangue e dell'aria corrispondeva alla primavera, l'estate era quella del fuoco e della
bile, l'autunno era quella della terra e dell'atrabile e l'inverno era la stagione
dell'acqua, della pituita e del cervello. Fu fatto anche un parallelismo con le quattro
età della vita, infanzia e prima giovinezza, giovinezza matura; età virile avanzata, ed
infine età senile.
Ippocrate, rifacendosi a quello che aveva detto Alcmeone di Crotone, sosteneva che
la malattia derivasse dallo squilibrio, senza parlare più di democrazia o monarchia
per non offendere i tiranni, e che dove c'era equilibrio tra gli umori c'era la salute; le
cure consistevano nel rimuovere l'umore in eccesso. La sua teoria spiegava anche i
vari temperamenti: un soggetto collerico aveva troppa bile, quello flemmatico troppo
muco.
Al centro della concezione di Ippocrate non c'era la malattia, che si spiegava in modo
olistico, ma l'elemento più importante era l'uomo. Questo fece la fortuna della scuola
ippocratica nei confronti della scuola rivale di Cnido, che invece era focalizzata sulla
malattia con una concezione riduzionistica, simile a quella odierna. La scuola di
Ippocrate prevalse proprio perché si occupava dell'uomo, mentre l'altra occupandosi
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delle malattie e non avendo gli elementi necessari per farlo si estinse, quella di
Ippocrate proseguì.
Alla base delle concezioni di Ippocrate c'era una filosofia profonda e pratica e un
notevole buonsenso. I principi fondamentali erano di lasciar fare alla natura, cioè alla
forza guaritrice della natura, di osservare attentamente il malato ed intervenire il
meno possibile, fare attenzione all'alimentazione e alla salubrità dell'aria. Per
eliminare lo squilibrio era necessario rimuovere la materia in eccesso, detta materia
peccans. I mezzi a disposizione per l'eliminazione della materia peccans erano il
capipurgio (= purga del capo), che consisteva nell'indurre lo starnuto con droghe
come il pepe, il clistere, oppure il salasso o sanguisugio. Quest'ultima pratica fu
molto usata dai seguaci di Ippocrate, soprattutto nell'epoca romana di Galeno, con
conseguenze gravissime, perché il levare il sangue ad un malato non era utile ed era
spesso causa di morte. Ippocrate comunque raccomandava di utilizzare questi mezzi
con la massima parsimonia.
I testi di Ippocrate, o i presunti tali, furono commentati nelle università sino al 1700.
Questi testi comprendono una serie di aforismi tra cui il famoso "La vita è breve, l'arte
è lunga, l'occasione è fuggevole, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile", che
sono alla base della sua filosofia ed invitano a pensare attentamente e ripetutamente
prima di intervenire.
Ippocrate quindi creò una medicina olistica, basata sull'uomo o microcosmo,
predicando l'uso della terapia disponibile con il massimo della parsimonia. Tra l'altro i
rimedi erano pochi perché allora non esisteva la farmacologia ed un primo accenno
all'erboristica venne da un allievo di Aristotele, Teofrasto, circa un secolo dopo.
Ippocrate è ricordato anche perchè espresse i primi concetti di etica medica, arrivati
sino ai giorni nostri, ed è infatti attribuito alla sua scuola il giuramento di Ippocrate,
che codifica la figura del medico.
- "Giuro ad Apollo medico, Asclepio, Igea e Panacea, prendendo come
testimone tutti gli dei e le dee, di tenere fede secondo il mio potere e il mio
giudizio a questo impegno: giuro di onorare come onoro i miei genitori colui
che mi ha insegnato l'arte della medicina (concetto di allievo e maestro) e di
dividere con lui il mio sostentamento e di soddisfare i suoi bisogni, se egli ne
avrà necessità;
- di considerare i suoi figli come fratelli, e se vogliono imparare quest'arte, di
insegnarla a loro senza salario nè contratto;
- di comunicare i precetti generali, le nozioni orali e tutto il resto della dottrina
ai miei figli, ai figli del mio maestro e ai discepoli ingaggiati ed impegnati con
giuramento secondo la legge medica, ma a nessun altro (concetto della casta).
- Applicherò il regime dietetico a vantaggio dei malati, secondo il mio potere e
il mio giudizio, li difenderò contro ogni cosa nociva ed ingiusta.
- Non darò, chiunque me lo chieda, un farmaco omicida (rifiuto dell'eutanasia),
nè prenderò iniziativa di simile suggerimento, nè darò ad alcuna donna un
pessario abortivo.
- Con la castità e la santità salvaguarderò la mia vita e la mia professione. Non
opererò gli affetti da calcoli e lascerò questa pratica a professionisti".
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(È questo un anatema contro la chirurgia, che trova la sua giustificazione nel fatto
che la chirurgia allora aveva esiti disastrosi. Non c'era nessuno stimolo a studiare
l'anatomia, perchè si pensava che le malattie fossero causate dallo squilibrio degli
umori e gli organi non avessero nessuna importanza; quindi la chirurgia era un
qualcosa di empirico, uno tagliava senza sapere cosa andava a tagliare, non c'erano
i concetti della asepsi, della anestesia. La chirurgia fu considerata una pratica
artigianale secondaria senza utilità, non una scienza, sino alla fine del 1700. Gli
artigiani la praticavano di nascosto, tramandandosi tra loro i segreti. I chirurghi e i
medici indossavano anche un diverso abbigliamento: i medici, in quanto laureati e
magistri togati, potevano portare la toga a differenza dei chirurghi, che invece erano
persone indotte e non conoscevano il latino, che in epoca medioevale e moderna era
la lingua dei dotti (nelle incisioni del '500, del '600 e anche del '700 si distinguono i
medici con la toga lunga sino ai piedi dai chirurghi con le gambe scoperte). Questo
corollario fu benefico nell'immediato, ma portò alla pratica della chirurgia da parte di
persone prive di ogni conoscenza teorica.)
- "In qualunque casa io entri sarà per utilità dei malati, evitando ogni atto di
volontaria corruzione, e soprattutto di sedurre le donne, i ragazzi, liberi e
schiavi.
- Le cose che nell'esercizio della mia professione o al di fuori di essa potrò
vedere o dire sulla vita degli uomini e che non devono essere divulgate le
tacerò, ritenendole come un segreto (concetto di segreto professionale).
- Se tengo fede sino in fondo a questo giuramento e lo onoro, mi sia concesso
godere dei frutti della vita e di quest'arte, onorato per sempre da tutti gli uomini
e se lo violo e lo spergiuro che mi accada tutto il contrario".
Anche se in Grecia il corpo era tabù, l'enorme sviluppo delle arti figurative,
soprattutto della scultura, presuppone delle conoscenze anatomiche tali da far
ritenere che in Grecia venisse praticata la dissezione. Di certo si sa comunque che la
dissezione venne praticata poco dopo gli ippocratici e trovò la massima espressione
nella scuola alessandrina.
Il più grande scienziato e biologo dell'antichità fu Aristotele (384/3 A.C.-322/1 A.C.),
che contribuì enormemente non tanto alla medicina in sé, quanto alla scienza
naturale, e a lui si deve la prima classificazione degli animali (al suo allievo Teofrasto
quella delle piante). Purtroppo alcuni passi di Aristotele, forse interpretati male,
portarono ad un errore che ebbe gravi conseguenze sull'evoluzione della scienza:
pare che egli sostenesse che certi animali inferiori gli insetti (il cui nome deriva dalla
evidente segmentazione del corpo nelle sue componenti) originassero dalla materia
in decomposizione per generazione spontanea e che quindi non fosse possibile
limitarne la crescita. Questo concetto iniziò ad essere attaccato alla fine del '600.
Aristotele elaborò un sistema fisiologico incentrato sul cuore, in cui, secondo lui,
ardeva una fiamma vitale mantenuta da uno spirito, detto pneuma o spirito vitale, che
dava calore. Il polmone e il cervello avevano soprattutto una funzione di
raffreddamento. Il cuore era l'organo più importante perchè quando il cuore si ferma
l'uomo muore. Inoltre Aristotele nei suoi studi di embriologia notò che il cuore
comincia a battere nelle fasi iniziali dello sviluppo dell'organismo: primum oriens,
ultimum moriens.
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Nella sua teoria il calore era la cosa più importante e dava la vita. Egli sosteneva che
l'uomo, avendo molto calore, riusciva ad utilizzare tutte le risorse del suo organismo
e a produrre lo sperma. La donna, invece; non aveva abbastanza calore, per cui
parte del sangue era eliminata come sangue mestruale. Lo sperma col calore agiva
sul mestruo, producendo l'embrione. La riprova, secondo Aristotele, della validità
della sua teoria era che questo calore derivato dallo sperma, nel periodo del
puerperio, faceva sì che la donna producesse il latte: nella maggior parte dei casi
non si presentava la mestruazione proprio perché questo sangue in abbondanza
veniva trasformato in latte grazie al calore.
Aristotele fu anche maestro di Alessandro Magno, che portò al massimo la fioritura
della cultura ellenica, che si espanse in tutto il Mediterraneo. Ma la massima
espansione portò successivamente al crollo.
La Medicina Ellenistico-Romana. La Medicina Araba.
Il Medioevo.
Alessandro Magno conquistò tutto il Mediterraneo ma, come spesso accade, la
massima espansione portò alla caduta dell'impero alessandrino. Il potere fu ripartito
fra i suoi vari generali e l'impero venne diviso in numerosi regni. Tra i più importanti
regni vi sono quello di Pergamo e, soprattutto, quello tolemaico in Egitto. Qui la
cultura greca si fuse con quella egiziana.
Nell'impero tolemaico, ad Alessandria d'Egitto, si sviluppò un movimento culturale di
vastissime proporzioni. Venne costruita anche la biblioteca più grande e famosa
dell'antichità, che costituiva la summa del sapere dell'epoca e che, nei secoli
successivi, andò incontro ad alterne vicende: fu incendiata da Cesare e da altri
imperatori romani e fu distrutta definitivamente intorno al 640 da un califfo arabo.
Questa biblioteca era una vera e propria università, in cui operavano scienziati
formatisi alla scuola aristotelica che, però, praticavano le dissezioni sugli animali, ma
anche sull'uomo. L'Egitto era una terra in cui da secoli, per non dire millenni, si
faceva uso di pratiche funerarie che prevedevano la dissezione dell'uomo come
preparazione alla mummificazione. Ecco che quindi acquistò importanza la tecnica
dell' esame sul cadavere, inteso non semplicemente come dissezione, ma, come
avverrà anche nel nascimento, quale momento fondamentale dell'attività del medico.
Assai importante fu ad Alessandria la scuola empirica, secondo la quale l'attività del
medico comprendeva tre momenti fondamentali: l'anamnesi, l'autopsia, (intesa però
come ispezione, visita diretta del medico sul malato), e la diagnosi. Anche tale scuola
aveva dei principi molto affascinanti, che richiamano quelli odierni, tuttavia fallì in
quanto non vi era la possibilità concreta di fare una diagnosi accurata e, di
conseguenza, una terapia ad hoc, viste le scarse cognizioni, in termini di malattie, in
loro possesso.
Contemporaneamente alla scuola empirica, in Alessandria si diffusero anche la
scuola dogmatica, che era la continuazione della scuola d'Ippocrate, e la scuola
metodica, che fu quella che ebbe maggior successo
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Talete elaborò un'importante sistema secondo cui l'universo era costituito da 4
elementi fondamentali: aria, acqua, terra e fuoco. In questo periodo venne dato
grande rilievo anche alle qualità, secco e umido, freddo e caldo, dolce e amaro, etc.
Ad Alessandria sono vissuti due grandi scienziati, estranei alle scuole su viste,
Erofilo (330 A.C.) (1) ed Erasistrato (304 A.C.-250 A.C.). Quest'ultimo era un
grande medico a cui va il merito d'aver riconosciuto, per primo, che le arterie sono
anch'esse dei vasi, in contrapposizione a quanto affermato da Aristotele, secondo il
quale le arterie non trasportavano sangue ma pneuma (2). Inoltre egli diede molta
importanza allo studio del polso, al concetto di temperatura del corpo ecc., contributi
che tuttavia nel corso dei secoli vennero persi (3).
Come già detto, la scuola più importante ad Alessandria fu la scuola metodica.
Questa si i faceva non alla filosofia dei quattro elementi, ma alla filosofia rivale, alla
teoria atomistica di Democrito (vissuto tra il V e il IV sec A.C.). La concezione
ippocratica era di tipo finalistico, analogamente a quella aristotelica, mentre alla base
della teoria democritea vi era il caso. Secondo tale scuola era necessario valutare le
cose così come apparivano nel mondo reale, bisognava porre attenzione allo stato
fisico del malato. Grande importanza, secondo loro, aveva lo stato dei pori: a
seconda che questi fossero aperti o chiusi si aveva una condizione, rispettivamente,
di rilassatezza o di tensione; e bisognava far di tutto perché i pori rimanessero aperti
in modo normale, quindi fare attenzione a come ci si lavava, alla temperatura
dell'acqua... Questo concetto fu la causa dell'estrema scarsità d'igiene esistente nel
medioevo, in quanto venne male interpretato e inteso come la condanna dell'acqua
in quanto causa della chiusura dei pori.
Nell'epoca greca e poi romana ci fu un grandissimo sviluppo dell'igiene. I bisogni
fisiologici non venivano più espletati nell'ambiente esterno o in luoghi aperti comuni
(vicoli, spiazzi..), ma in apposite costruzioni, le latrine pubbliche, dotate di sistema
idrico e di sistema fognario. A Roma vi era un efficace apparato fognario oltre ad un
efficientissimo sistema idrico. In ogni casa, non solo in quelle dei ricchi, ma anche
nelle insulae, che erano le case popolari dell'epoca, vi era una fontana, l'acqua
corrente, portata in ogni casa dagli acquedotti. Questi acquedotti, costituiti da tubi di
piombo, materiale molto malleabile, furono imputati del crollo dell'impero romano, a
causa della malattia causata dai sali di piombo, il saturnismo.
In realtà pare che non fosse tanto l'acqua inquinata a determinare tale malattia, ma il
vino. L'acqua , infatti, non depurata proveniente da zone montane, era ricca di sali di
calcio, i quali, col tempo, depositandosi sulle pareti delle tubature, costituivano un
rivestimento capace di trattenere i sali di piombo, che non venivano più a riversarsi
nell'acqua corrente. Il vino risultava invece, alla fine , ricco di sali di piombo, che sono
solubili, in quanto questi venivano utilizzati, alla stregua del bisolfito usato oggi, per
controllare la fermentazione del vino.
A Roma la medicina era praticata in ambito familiare (il medico di famiglia era il pater
familias, che aveva il potere assoluto sulla famiglia) e nessuna teoria vera e propria
vi era alla sua base, risultando, perciò, una scienza empirica, anche se razionale.
Grande importanza ebbe l'erboristica anche se, anch'essa, usata in maniera molto
empirica.
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La medicina arrivò a Roma con la conquista della Grecia. A Roma fare il medico era
considerata cosa disdicevole, che poteva fare solo uno straniero. Siccome la Grecia,
dopo la conquista romana, era poverissima per le numerosissime guerre che
l'avevano dilaniata, ci furono numerosi medici che si vendettero come schiavi per
poter andare a Roma ad esercitare la propria arte. Molti di questi divennero famosi e
si comprarono la libertà, divenendo dei liberti. La setta che ebbe maggior fortuna fu
la setta Metodica (4), con Asclepìade e il suo allievo Temisòne, che influenzò
moltissimo la cultura medica romana. Ci furono inoltre a Roma importantissimi
trattatisti, tra cui il fondatore della botanica farmaceutica, Dioscuride Pedànio (I sec.
D.C.), che pubblicò un libro, intitolato De materia medica, che rimase come base
della farmacologia fino al primo '800; Sorano di Efeso (I / II sec.), medico ellenista,
che pubblicò un trattato di ginecologia e soprattutto Aulo Cornelio Celso (14 A.C.37 D.C.) con il suo trattato De Medicina.Questi fece una sorta di enciclopedia
medica in cui trattò argomenti di chirurgia, di medicina dal punto di vista di un erudito,
piuttosto che da quello di un conoscitore dell'argomento, facendo un grande elenco
di pratiche comuni a Roma. Da qui possiamo però farci un'idea dello sviluppo
raggiunto dalla chirurgia in quell'epoca, soprattutto in alcuni campi, quali
l'odontoiatria (5).
L'elemento più caratteristico però dell'ambiente sanitario romano era il concetto di
igiene. I romani si lavavano moltissimo, ne è un esempio l'uso e il numero delle
terme allora esistenti. Il medico più importante dell'epoca romana, che lasciò una
traccia importantissima nella cultura occidentale, fu Galéno (129 D.C.-200 D.C.) il
pergameno (6). Questi era figlio dell'architetto dei re, proveniva dunque da una
famiglia facoltosa, che dopo il tirocinio ad Alessandria passò a Roma, dove fece il
medico dei gladiatori, acquisendo quindi una certa infarinatura anatomica, anche se,
seguendo i concetti greci, si dedicò soprattutto alla dissezione degli animali. Tra
questi i più studiati erano il maiale ("l'animale più simile all'uomo", a detta di Galeno)
e la scimmia (7). Galeno intuì l'importanza fondamentale degli organi e di molti anche
il loro effettivo ruolo; ad esempio capì che le vesciche urinarie non producevano
urina, ma che questa proveniva dagli ureteri (lo dimostrò legando gli ureteri),
descrisse per la prima volta il nervo ricorrente. Ebbe molta importanza come medico
pratico: basandosi sulle piante medicinali introdusse farmaci di grandissima
importanza, introdusse, ad esempio, l'uso della corteccia di salice, del laudano
(tintura di oppio) come anestetico.
Però insieme a questi reclamizzò dei farmaci completamente inutili, tra cui la triaca o
teriaca (8), cioè un brodone in cui erano presenti le cose più strane: sterco di capra,
pezzi di mummia, teste di vipera.. L'unica cosa buona di questo intruglio era il fatto
che veniva fatto bollire a lungo per cui il materiale contenuto all'interno era sterile.
Venne utilizzata fino alla fine del 1700; veniva prodotta generalmente una volta
l'anno nelle varie città sotto la responsabilità del magistrato e venduta poi nelle
farmacie. Nonostante le sue numerose intuizioni, poiché la teoria più accettata
all'epoca era quella ippocratica, egli, pur con qualche introduzione di elementi
estranei, sposò la teoria degli umori. Anzi, esasperò l'aspetto terapeutico della
materia peccans. Tra la materia peccans vi era il pus, che venne chiamato da
Galeno "bonum et laudabile", perchè era espressione di materia peccans che doveva
essere eliminata: aveva capito che il pus era una sostanza da eliminare. Purtroppo,
però, soprattutto dagli epigoni di Galeno tale teoria venne sfruttata in senso stretto:
dicevano infatti che le ferite non dovevano guarire per prima intenzione, ma doveva
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formarsi prima pus: era quindi necessario bruciare la ferita in maniera tale da
provocare la sua formazione, perchè solo così le ferite guarivano meglio. Tale
concetto restò valido sino alla fine del 1500.
Galeno portò, inoltre, all'esasperazione anche altre metodiche terapeutiche, quali il
salasso. Nel suo concetto introdusse anche il concetto metodista dei pori: ciò, però,
fu travisato ed interpretato come un invito, fatto da Galeno, a non lavarsi.
Galeno elaborò un teoria fisiologica per capire come funzionava il nostro corpo e
come si muoveva il sangue. Sulla base di molte affermazioni di Aristotele (fu il primo
a considerare la digestione come una sorta di cottura, parlava di una concotio degli
alimenti che avveniva nello stomaco) affermò che gli alimenti, che contenevano le
sostanze nutritizie, dopo la concotio, attraverso le vene meserraiche (allora non si
conoscevano i vasi chiliferi), venivano portati al fegato.. Questo era l'organo
principale della circolazione. Per Aristotele era il cuore l'organo più importante, per
Galeno il fegato. Nello stomaco tale materiale diventava sangue e si arricchiva di uno
spirito chiamato spirito naturale. Gran parte di questo sangue, dal fegato andava in
periferia, attraverso le vene, dove veniva consumato come nutrimento. Una parte,
invece, attraverso la vena Cava, passava al cuore, sede in cui arde la fiamma vitale,
nel quale si arricchiva dello spirito vitale; in particolare il sangue giungeva al cuore
destro e da qui, attraverso dei pori, giungeva al cuore sinistro. Da qui, attraverso le
arterie, considerate dei vasi, il sangue giungeva soprattutto al cervello. Prima di
giungere però al cervello, il sangue passava attraverso un sistema mirabile situato
nel collo (9). Nell'encefalo il sangue si arricchiva di un ulteriore spirito, lo spirito
animale, quindi, attraverso i nervi, considerati il terzo sistema di vasi, giungeva in
periferia dove poteva dare la vita. Questa teoria non presuppone una circolazione del
sangue, bensì solo un movimento: a suo giudizio si muoveva secondo il moto delle
maree. Questa, naturalmente, era una teoria facilmente confutabile. In realtà,
secondo tale concezione, il sangue sarebbe dovuto essere una quantità enorme:
infatti, se man mano che il sangue giungeva in periferia si consumava, è logico che
se ne sarebbe dovuto ingerire una quantità notevole in continuazione. Per confutarla
sarebbe bastato prendere un animale e sgozzarlo, come fece 1500 anni dopo
Harvey. Secondo la teoria galenica, inoltre, a livello del cervello il sangue veniva
filtrato e si veniva così a creare uno spurgo, rappresentante ciò che di impuro il
sangue conteneva, e che, attraverso la lamina cribrosa (chiamata così per l'appunto)
colava giù dando origine alle lacrime. Una teoria affascinante che, tuttavia, non era
fondata su basi sperimentali e che portò poi alla cristallizzazione di tutto il sapere
medico-scientifico, in quanto questa teoria si sposava bene con la dottrina cristiana.
Questa teoria divenne quasi un dogma. Nel 1500, al tempo del grande medico
Vesalio, era ancora valida. Tra le trattazioni rese così inattaccabili, oltre a quella sul
sangue, già vista, vi è quella anatomica. Una anatomia, tuttavia, fondata sullo studio
di animali che quindi non aveva nessuna funzionalità pratica, reale.
A riprova dell'intoccabilità di Galeno è dimostrativo il fatto che, nonostante tutte le
prove rappresentate dai numerosi scheletri presenti sotto gli occhi di tutti, si
continuasse ad affermare che gli omeri fossero curvi, e che quelli dritti non erano
altro che ingannevoli scherzi della natura.
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Dopo Galeno ci furono una moltitudine di medici che operarono nell'impero
d'occidente ma soprattutto in quello d'oriente, con conseguente passaggio del sapere
dall'Occidente all'oriente.
Sulla scia della grande importanza data all'igiene, in epoca romana sorsero i primi
veri e propri ospedali, costruiti secondo precise norme igieniche quali smaltimento
dei rifiuti, sistema idrico, libera circolazione dell'aria, come dimostrano le numerose
finestre di cui erano dotati, che possiamo tutt'oggi vedere e di cui Vitruvio racconta.
Col trasferimento del potere a Bisanzio, ci fu anche il trasferimento della cultura
medica. In questa città vi furono medici famosi, quali Paolo di Egina, che tuttavia non
fecero altro che ripetere quanto detto da Galeno e seguaci. Avvenne tuttavia a
Bisanzio una disputa tra il vescovo Cirillo e il vescovo Nestore. Quest'ultimo perse e
fu cacciato da Costantinopoli; si rifugiò quindi in Medio oriente, nelle zone dell'lraq.
ed in Egitto. Nestore portò con sè tutto il bagaglio culturale classico, compreso quello
medico, ponendo quindi le basi allo sviluppo di una concezione medica simile a
quella presente nell'antica Roma.
Grande importanza fu data all'igiene: vennero costruiti ospedali avanzatissimi, a
immagine di quelli romani, a Bagdad, in altre città dell'Iraq e al Cairo.
Tuttavia anche in questa epoca araba non si dava importanza, continuando sul
concetto della medicina olistica, all'anatomia. Rimaneva, tuttavia, ben saldo il
concetto dell'igiene avanzata, del lavarsi molto (10) . Nella medicina araba ebbe
grande influenza anche la religione. Uno dei concetti del Corano era che non
bisognava toccare il corpo umano per evitare che uscisse il sangue, in quanto
insieme a questa sarebbe uscita anche l'anima; ciò pose un veto alla possibilità di
eseguire dissezioni. Nella religione cattolica, invece, non vi è nessun ostacolo di
carattere religioso alla dissezione: il corpo è qualcosa di secondario, ciò che importa
è l'anima. In oriente, invece, tale norma proibiva la dissezione nelle 24 ore
successive alla morte, per paura che venisse persa l'anima. Per ovviare a ciò gli
arabi inventarono il dermocauterio, ancora oggi usato (si pensi al bisturi elettrico) per
bloccare temporaneamente i vasi (11) durante l'operazione chirurgica. All'ora
all'escara faceva seguito la suppurazione; si veniva così a creare il pus, bonum et
laudabile, nel pieno rispetto dell'iter terapeutico del tempo, ma portava spesso il
paziente alla morte.
Agli Arabi va, inoltre, il gran merito d'aver tramandato gli scritti greci antichi, che ad
essi erano giunti attraverso, ad esempio, i nestoriani, o che si erano fatti portare in
dono dai vari principi occidentali, e che scrupolosamente traducevano in lingua araba
lasciandovi il testo greco a fronte.
La civiltà araba ebbe il massimo sviluppo in Europa nella Spagna islamica, a
Cordoba, in particolare, vi furono grandi medici, quale, ad esempio, Maimonides,
Giuannizzius, Rhazes Albucasis, ed i grandi commentatori di Aristotele Avicenna
(980-1037) e Averroè. Il periodo della civiltà moresca (12) in Europa fu il culmine
della civiltà araba. Dopo la disfatta dei mori l'impero arabo crollò e il loro sapere tornò
in Europa, in particolare a Montpellier e a Salerno.
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Mentre nell'oriente arabo si sviluppò una società avanzatissima, basata soprattutto
sul patrimonio antico, classico, sorretta dalla nascente concezione islamica, in cui si
traducevano e si commentavano testi antichi, si studiava Aristotele., in Occidente,
invece, questo fu il periodo dell'oscurantismo e si ritornò alla medicina teurgica
(siamo in pieno medioevo): i santi venivano chiamati adiuvanti e alle loro reliquie
venivano attribuiti poteri miracolosi. Vere e proprie guerre venivano combattute per
tali reliquie (13). In questo periodo particolarmente diffuso era il concetto della
agiolatria. Tra i santi adiuvanti, i più famosi erano i santi Cosma e Damiano (14) :
erano i patroni sia della famiglia de Medici che dei medici, ed erano detti anargiri
perché curavano gratis.. A loro venne attribuito un "miracolo": attaccarono la gamba
di un negro ad un poveraccio cui era stata amputata. Vi erano santi protettori per
ogni organo e contro ogni malattia: Santa Lucia protettrice degli occhi, Santa
Apollonia dei denti, San Biagio della gola, San Fiacre proteggeva dalle emorroidi,
Sant'Antonio dalla lebbra, San Rocco dalla peste.
Dopo la caduta del regno arabo, gli scienziati della Spagna mussulmana, come già
detto, si rifugiarono soprattutto in Francia, a Montpellier, e in Italia a Salerno, dove
fiorì la cosiddetta scuola salernitana, che, secondo la leggenda, fu fondata poco
prima del 1000 da un greco, da un latino e da un ebreo. In questa scuola confluirono
una marea di manoscritti greci ed arabi; si ebbe perciò un ritorno alla cultura greca e
classica e alla medicina ippocratica. In questa epoca grande importanza venne data
alla moderazione della dieta e del vino. Non solo, vennero formulati consigli su ciò
che bisogna fare e ciò che, invece, non bisogna fare. Ad esempio non bisogna
eccedere nelle pratiche amorose, non bisogna leggere a lume di candela, non
bisogna sforzarsi troppo nella defecazione, non bisogna eccedere nel vino.
Ritornarono i principi dell'igiene, del lavarsi molto, della salubrità dell'aria. Grande
importanza fu data al concetto del temperamento: se ne individuavano quattro: il
temperamento gioviale, il temperamento amoroso, quello collerico e quello
flemmatico.
Grande importanza veniva data a ciò che si mangiava, soprattutto in relazione al
temperamento: se uno era molto collerico. voleva dire che aveva troppa bile, troppo
fuoco. per cui bisognava smorzare tale temperamento facendogli mangiare pesce di
palude, che è freddo, oppure la folaga (che era ritenuta un pesce); all'esame del
malato e all'esame delle urine; vi fu un certo sviluppo della chirurgia, ma non della
condizione dei chirurghi, i quali erano sempre considerati degli aggregati (come
l'abito stesso sottolinea) e non dei medici.
In questo periodo sorsero inoltre le Università. Prima esistevano gli Studia, che erano
istituti sponsorizzati dalla comunità civile laica, mentre le università erano qualcosa di
spontaneo, che si venivano a formare per iniziativa di gruppi isolati di studenti
("Universitas studiorum"), girovaghi, che si sceglievano un maestro valido e,
pagandogli un salario, si ponevano come suoi allievi. Il potere in questo caso era
nelle mani degli studenti, che potevano cambiare insegnante quando volevano se
non soddisfatti. Federico Barbarossa fu il primo che finanziò questi studenti, diede
loro il beneficio fiscale se si fermavano nella sua città. In seguito ci mise lo zampino
la Chiesa e le Università potevano diventare tali solo quando vi erano le bolle papali.
La prima università del mondo occidentale con bolla papale fu l'Università di
Bologna. Le prime Università tuttavia erano formate dalle scienze liberali del trivio
(retorica, dialettica e grammatica) e del quadrivio (matematica, geometria,
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astronomia (15) e musica (16). La medicina entrò tra le discipline universitarie
solamente circa 150 anni dopo: a Bologna, il medico Taddeo degli Alderotti dimostrò
che la medicina riusciva ad argomentare contro i retori, riuscendo così a portare la
medicina alla pari delle altre discipline universitarie.
La medicina nei secoli XIII-XVI. Università, Ospedali, Rivoluzione Anatomica.
La scorsa volta abbiamo visto come la medicina sia entrata tardivamente nelle
università, diventando una materia di insegnamento solamente nel tardo 1200. E'
grazie all'opera di Taddeo degli Alderotti (1223-1303) che la medicina entrò a pieno
titolo a Bologna. Dopo Bologna ci furono altre università; la seconda in Italia fu
Padova (per merito di studenti che da Bologna si trasferirono a Padova), ci furono poi
Napoli, Siena, Roma, Pisa, Pavia etc. Ricordiamo altre università europee: Parigi,
Montpellier, Oxford, Cambridge, Salamanca, Coimbra, Heidelberg , Praga, Vienna
etc. L'Università di Sassari fu fondata nel 1616, quella di Cagliari, nel 1634.
Un'altra istituzione che nacque nel medioevo furono gli ospedali. I primi ospedali
sorsero come ospizi per persone non abbienti, più che come luoghi di cura. Solo
negli ospedali femminili si potevano tenere animali. Le condizioni igieniche erano
alquanto sommarie, ad esempio: non venivano mai cambiate le lenzuola, (nelle
diapositive osserviamo due pazienti nello stesso letto e monache che preparano
feretri nella stessa stanza). Non doveva però mancare l'immagine del Signore, in
quanto gli ospedali erano considerati dei luoghi dove ci doveva essere la presenza
guaritrice dello spirito santo.
Gli ospedali medievali (ma questo andò avanti fino all'età moderna, e vale anche per
l'ospedale civile vecchio San Giovanni di Dio) hanno la porta rivolta verso il Vaticano,
perché lo Spirito Santo possa entrare meglio. Erano costituiti con una cappella che
potesse essere vista da tutti i reparti ospedalieri. Il primo ospedale fu quello di Santo
Spirito a Roma, il secondo fu quello di santa Maria Novella, a Firenze costruito grazie
ad una elargizione di Folco Portinari, il padre di Beatrice ricordata da Dante.
Nel 200-300 si riprese a fare la dissezione. Si ebbe un certo periodo di stallo intorno
al 1299 perché il papa Bonifacio VIII (diede la Sardegna ai Catalani) promulgò una
bolla papale chiamata "De sepolturis", in cui si vietata la manipolazione dei cadaveri,
cioè non potevano essere ridotti in scheletro e bolliti. Questo aveva due scopi
principali: 1) limitare il florido commercio di reliquie; 2) si era sviluppato (soprattutto
ad opera dei navicellari napoletani) un florido commercio di ossa di guerriero
supposto morto in terra santa.
La bolla cui si è accennato non aveva alcuna intenzione di impedire le dissezioni,
però in pratica le bloccò. Pochi anni dopo, le dissezioni ripresero grazie ad altri papi
che capirono l'equivoco e divulgarono delle bolle che permettevano le dissezioni in
particolari periodi dell'anno (soprattutto in quaresima sulle donne, da taluni ritenute
prive di anima, e solo successivamente sugli uomini). Da illustrazioni dell'epoca
appaiono chiari il ruolo assunto nella pratica della dissezione e dal medico togato
(laureato, legge Galeno) e dal chirurgo inserviente: il primo indossava una lunga toga
da cui spuntano solo le scarpe (per evidenziare la sua statura culturale), mentre il
secondo, che è colui, che opera indossa una corta toga (si vedono le gambe per
dimostrare il rango inferiore). Le ossa del cadavere erano ossa umane, quindi
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diverse da quelle descritte da Galeno (ossa di maiale) e chi aveva ragione non era la
natura ma Galeno: era uno scherzo della natura quello di far vedere le ossa come
dritte quando in realtà erano curve. Ma le asserzioni di Galeno costituivano un
dogma che non poteva essere criticato.
I chirurghi non avevano accesso alle conoscenze anatomiche perché non
conoscevano il latino, ragion per cui l'anatomia diventava una sorta di esercizio
filosofico. La prima dissezione ufficiale fu praticata all'università di Bologna da
Mondino de' Liucci (1270- 1326).
Nel frontespizio dell' Anatomia Mundini si vede che la dissezione era qualcosa di
mediato, un commento ai testi galenici. Mondino fu il più importante dei precursori di
anatomia vera e propria. Ci furono altri anatomici come Guido da Vigevano che
faceva dissezioni sui cadaveri appesi.
Per capire per quanto tempo andò avanti la pratica di sezionare gli animali, nel
frontespizio di uno dei primi libri di anatomia in italiano (1632), tradotto dal trattato
scritto in spagnolo da Juan de Valverde e conservato nella Biblioteca di Cagliari. Nel
libro (1632) si vede un cranio con a destra e a sinistra il maiale e la scimmia a coda
corta (animali fondamentali della anatomia galenica).
Chi praticò l'anatomia reale furono gli artisti. Alcuni di essi rinunciarono al salario per
avere a disposizione delle salme dai vescovi (Leonardo, Michelangelo). Soprattutto
Leonardo da Vinci (1452-1519) fu un finissimo anatomico. Si fecero numerosissime
scoperte che vennero riprodotte fedelmente nei codici che rimasero più o meno
segreti, sino a quando un allievo di Leonardo (1600) vendette questi codici ai reali
d'Inghilterra, ed oggi costituiscono il codice Windsor. Però questo non influenzò
affatto l'anatomia. Leonardo, in verità, voleva fare un atlante insieme ad un
anatomico, Marco Antonio della Torre, che però morì giovanissimo. Anche
Michelangelo voleva fare un atlante di anatomia insieme a Realdo Colombo, ma
anche questo si concluse nel nulla. Accanto allo studio anatomico che era praticato
dagli artisti, ci fu chi mise in discussione tutta la teoria ippocratica-galenica:
Paracelso (1493-1541) medico filosofo (con vene di pazzia). È considerato il
fondatore della iatrochimica, ma in realtà era un alchimista, poichè dava importanza
agli elementi chimici. Gli elementi chimici che lui considerava alla base dell'universo
erano il sale, lo zolfo, il mercurio (qualcosa che tutto sommato si rifaceva alla
concezione degli elementi). Praticava l'alchimia: diceva che alla base delle malattie
c'è un'alterazione della chimica di questi elementi. Per la prima volta utilizzò l'etere e
si accorse che questo aveva capacità anestetiche (questa pratica andò scemando e
venne riscoperta in America 300 anni più tardi). Utilizzò anche il Laudano per lenire i
dolori e altri composti chimici come l'antimonio. La sua fisiologia rimase piuttosto
confusa anche se certamente in opposizione con quella galenica. La religione
cattolica non presenta impedimenti contro la dissezione, perchè il corpo è solo un
elemento per contenere l'anima, infatti: pulvis eris, pulvis reverteris. Ci furono dei
grandi anatomici che iniziarono a praticare l'anatomia da soli, senza l'interposizione
del servo chirurgo: ad esempio Berengario da Carpi (1460-1530), Giambattista
Canani (1515-1579); ma il grande sviluppo dell'anatomia si ebbe grazie ad Andrea
Vesalio (1514-1564) (figlio del farmacista dell'imperatore Carlo V). Dopo aver
frequentato università famose, come Parigi, ed aver ricevuto una educazione
classica galenica, quando era ancora molto giovane, divenne professore di anatomia
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
a Padova. Pubblicò un opera monumentale nel 1543 "DE HUMANI CORPORIS
FABRlCA" in cui descriveva il corpo umano visto in una dissezione operata da lui
stesso. La dissezione divenne autopsia nel senso ellenistico, qualcosa che si vedeva
con i propri occhi. Si può notare l'orgogliosa affermazione dell'uomo rinascimentale
che diceva: le cose le vedo io. Nel frontespizio della sua opera osserviamo
l'anatomico (Vesalio stesso) che opera direttamente sul cadavere. Questa tavola è
opera del pittore che servì a Vesalio per fare i disegni che corredano il libro: Giovanni
Stefano Calcar allievo di Tiziano. Nelle tavole di Calcar c'è una raffigurazione molto
precisa del corpo umano: in piedi e con paesaggi di fantasia. Le tavole non venivano
colorate perchè era troppo dispendioso. Vesalio corresse Galeno in 250 punti. Però
non attaccò la concezione galenica del movimento del sangue anche se lo demolì,
dimostrando che non esistevano pori nel cuore, non esisteva il circolo mirabile, ma li
si fermò. Nello stesso anno venne pubblicato il "DE REVOLUTIONIBUS ORBIUM
CELESTIUM", di Nicolò Copernico, libro che confutava la teoria geocentrica della
terra.
Il 1543 è l'anno della storia dell'uomo da ricordare perché vengono confutati due tra i
più importanti miti scientifici dell'epoca: la concezione ANTROPOCENTRICA e la
concezione GEOCENTRICA.
La scuola di Padova era la più importante. Gli studenti vi si recavano divisi per
nazioni e parlavano il latino. A Padova si riuscì, fin dall'inizio, a fare in modo che le
lauree non venissero conferite dal Vescovo (come in tutte le altre università, con la
bolla papale); venivano, però, conferite dal sindaco. Il fatto ebbe una importanza
notevolissima perché per alcuni anni dopo la controriforma, (mentre nelle altre
università cattoliche i protestanti non andavano più perché dovevano giurare fiducia
alla fede cattolica), a Padova, fino a quando la repubblica di Venezia riuscì a
contrastare politicamente l'influenza del papato, si recavano numerosi protestanti,.
L'intolleranza religiosa dovuta alla controriforma fu una delle cause del declino delle
università italiane. A Padova Vesalio ebbe dei grandi successori.
La storia di Vesalio é per certi versi oscura. Poco dopo aver pubblicato il libro (aveva
27 anni) lasciò l'insegnamento. Secondo alcuni ciò fu determinato dalle critiche dei
galenisti (che erano feroci) in realtà pare che il motivo fosse un altro. Ebbe un'offerta,
assai allettante dall'imperatore Carlo V, che gli propose di diventare suo medico
personale. Vesalio accettò, ma dopo un certo periodo pensò di tornare a Padova
perché il Senato veneto lo richiamò in patria. Purtroppo ebbe un incidente: (il suo
protettore, Carlo V, era morto ed il successore, Filippo II, non gli era molto
affezionato) fece una dissezione di un uomo che pare non fosse morto. Intervenne
l'inquisizione , Vesalio fu processato e riuscì ad ottenere il perdono grazie alla
promessa di un pellegrinaggio in Palestina. Andò in Palestina con in tasca un
brevetto del senato veneto che lo rivoleva a Padova, ma nel viaggio di ritorno,
quando la nave attraccò all'isola di Zante , morì, probabilmente di peste. Venne
sepolto a Zante, ma non si conosce la sua tomba (1564).
Fu uno dei più grandi geni dell'umanità perchè infranse il grande dogma galenico e
affermò l'anatomia come scienza dovuta all'osservazione diretta.
Anatomici seguaci di Vesalio furono: Realdo Colombo, Gabriele Fallopia (15231562), Girolamo Fabrici di Acquapendente (1533-1619). Si ricorda anche Giulio
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Casserio (1552-1616), inserviente non colto che studiò il Latino e divenne
Professore. Fu il fondatore della anatomia comparata (diede un grosso contributo
allo studio della laringe).
Altro grande anatomico, che operò a Roma fu Bartolomeo Eustachi (1500/15101574): scrisse un trattato quasi superiore a quello di Vesalio, non dal punto di vista
artistico, ma dal punto di vista scientifico. Questo trattato andò a finire nel
dimenticatoio fino agli inizi del 700, quando Lancisi lo scoprì riuscì ad influenzare
ugualmente la scienza: conteneva dettagli che Vesalio aveva omesso.
Fabrizio di Acquapendente (1533-1619) fu un grandissimo chirurgo e fu professore
a Padova dal 1565 al 1616. Pubblicò numerosi trattati di chirurgia e fu il maestro
dello scopritore della circolazione del sangue. Costruì a Padova il primo teatro
anatomico stabile al mondo. Il teatro era circolare, gli studenti stavano in piedi ed il
tavolo era al centro, in modo da avere una visione precisa del cadavere disteso sul
tavolo. Sotto il tavolo c'era un canale che serviva per eliminare i rifiuti e far arrivare i
cadaveri. Gli altri teatri fino ad allora conosciuti erano mobili. Da allora l'anatomia
divenne qualcosa di sociale. A Fabrici di Acquapendente si deve anche un altro
merito: l'idea di colorare le illustrazioni. Affidò il lavoro a valenti pittori rimasti
sconosciuti e regalò le tavole (oltre 200) alla biblioteca Marciana di Venezia, dove
rimasero sconosciute fino al 1910, quando l'anatomico Sterzi le scoprì.
La più celebre anatomia mai eseguita è quella di Rembrant, conservata al museo
dell'Aia. Artisticamente è uno dei migliori quadri al mondo: si osserva Nicolao
Tulpius (1593-1674), che aveva studiato a Padova, che illustra ai sui colleghi una
dissezione. Dal punto di vista anatomico, però, è un disastro. Questo sta a
dimostrare come l'anatomia diviene una specie di natura morta. Le prime anatomie
italiane sono rappresentazioni di macellerie. Tra i pittori più famosi ricordiamo
Bartolomeo Passarotti della scuola Bolognese (50 anni prima di Rembrant) autore di
una anatomia che rappresenta la dissezione di un cadavere alla presenza di
personaggi famosi.
La chirurgia andava avanti come nel medioevo, dove c'era stato un blocco dell'attività
chirurgica dei monaci. A seguito della Bolla (1215) ECCLESlA ABHORRET A
SANGUlNE, i Monaci avevano lasciato la chirurgia che veniva praticata da persone
non colte. Nell'Umbria e nelle Marche vicino a Norcia e a Preci, l'abbazia di santo
Eutichio era un importante centro di cultura chirurgica. I monaci istruivano i contadini
del luogo. Norcia era, tra l'altro, già nota per la tradizione millenaria della castrazione
degli animali (c'era già gente che aveva una certa pratica chirurgica). I Norcini (da
Norcia) e i Preciani (da Preci) diventarono artigiani abilissimi e tramandarono di
padre in figlio i segreti chirurgici. I Preciani diventarono famosi soprattutto per la cura
dell'occhio (da ricordare la famiglia degli Scacchi). I Norcini facevano operazioni di
chirurgia plastica molto avanzate, operavano di cataratta, estrazione di calcoli. Essi
praticavano anche la castrazione dei bambini per procurare voci bianche per i cori
delle chiese in qunto le donne non vi erano ammesse.
La chirurgia spicciola (estrarre denti, curare ferite, ecc..), era praticata dai barbieri: la
loro insegna è ancora oggi il bastone bianco (come le bende) e rosso (come il
sangue).
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Lo sviluppo dell'anatomia portò all'utilizzo della stessa per la chirurgia, rimanendo
però riservata all'elite. Ci furono medici famosi che divennero anche chirurghi (questo
avvenne soprattutto in Francia) Ricordiamo Ambroise Parè (1510-1590) che creò la
confraternita di Cosma e Damiano, staccata da quella dei barbieri (non erano ancora
medici togati perché non conoscevano il latino in maniera ufficiale). Operavano in
Francia dal 500 in poi. Ambroise si ricorda anche perché divulgò la notizia di non
usare l'olio bollente sulle amputazioni. Racconta in un suo trattato che mentre
seguiva una campagna in Piemonte, e non aveva più olio bollente da mettere sulle
gambe amputate (si pensava che l'olio bollente servisse per estrarre la materia
peccans), un norcino, sulla scorta di quanto pubblicato da Bartolomeo Maggi (14771552), gli consigliò di usare l'olio di rosa (che contiene fenolo, un blando
disinfettante) e con grande meraviglia si rese conto che i malati trattati con olio di
rosa stavano meglio di quelli trattati con olio bollente. Diede importanza estrema
all'anatomia e alle dissezioni.
Il secolo XVII: Rivoluzione Scientifica. Circolazione del Sangue. La dottrina del
Contagio.
Fabrizio Hildanus (1545-1599) sosteneva che non si doveva far venire il pus nelle
ferite di seconda intenzione e che si doveva procedere alla legatura dei vasi prima
delle operazioni. Gaspare Tagliacozzo imparò il metodo di ricostruzione del naso
dai Norcini, che operavano soprattutto nell'Italia meridionale. La ricostruzione del
naso era importante, visto che era soggetto a distruzione per via di molte malattie,
come la tubercolosi e la sifilide, e per via delle frequenti mutilazioni della faccia
dovute alle armi da fuoco.
Il metodo di Tagliacozzo era quello di prelevare un lembo cutaneo dal braccio con cui
ricostruire il naso.
Divenne celeberrimo in tutta Europa e venivano da tutto il mondo per farsi curare da
lui. Dopo la sua morte la sua opera fu continuata da un allievo, ma per poco tempo.
Infatti ci fu la Controriforma, dovuta ad un irrigidimento della morale cattolica, che
impedì di porre mano su ciò che era stato creato da Dio. Così il cadavere del
Tagliacozzo fu estratto dal cimitero consacrato e sepolto in una zona non
consacrata, mentre il suo allievo fu imprigionato. Quindi il Tagliacozzo venne colpito
dopo la morte dall'Inquisizione, in quanto era peccato fare qualcosa che era contro il
creatore e cioè ricostruire una parte del corpo. Il suo lavoro è comunque rimasto
grazie ad un suo trattato sulla chirurgia plastica. (DE CHIRURGIA CURTORUM).
Questa chirurgia venne riscoperta solamente nell'800 inoltrato quando venne usato il
sistema della plastica indiana, che era più semplice ma anche molto più deturpante.
Consisteva nel togliere dei pezzi di cute dalla fronte e metterli sul naso; in pratica
bisognava girare un lembo di cute, ma il problema era che rimaneva una cicatrice
molto brutta sulla fronte.
La fine del '500 e il '600 furono caratterizzati dalla rivoluzione scientifica operata in
gran parte da Galileo Galilei (1564-1642). Questi era figlio di un famoso musicista
pisano ed il padre avrebbe voluto che si laureasse in medicina, ma lui preferì
interessarsi di matematica. Fu il primo a introdurre il calcolo matematico negli
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esperimenti scientifici. Galileo abbracciò la teoria democritea, in contrapposizione
alla teoria aristotelica finalistica secondo cui tutto quello che accade in natura ha uno
scopo. Democrito sosteneva che l'universo e gli organismi erano formati da atomi in
un continuo e casuale movimento, quindi la filosofia democritea si basava
sull'osservazione e non sul finalismo come era quella di Aristotele: sul come, non sul
perchè.
Galileo diede notizia nel Sidereus nuncius di essere riuscito a dimostrare
sperimentalmente la teoria di Copernico: infatti utilizzando il cannochiale mostrò
l'esistenza dei satelliti di Giove e dimostrò che il sole era al centro dell'universo, e
non la terra; quindi dimostrò che la teoria Tolemaica era falsa. Per queste
dimostrazioni Galileo ebbe grossi problemi con l'Inquisizione; quando lasciò Padova,
presso la cui Università insegnava, fece l'errore di andare a Firenze, Città che allora
era molto vicina al Papa al contrario di Venezia che invece godeva ancora di una
certa autonomia perchè politicamente forte e lontana da Roma. Fu perseguitato
dall'Inquisizione.
Galileo ebbe anche il merito di usare il cannocchiale, non solo per vedere le cose
grandi ma anche per vedere quelle piccole, e consigliò ai suoi allievi di usare il
microscopio. Fu Francesco Stelluti (1577-1652), un suo allievo, a chiamare lo
strumento microscopio. C'è una tradizione senza nessuna base storica, secondo cui
chi scoprì il microscopio fu l'olandese Zacharius Jansen; in realtà l'unica cosa certa
è che costui costruiva lenti. L'uso del microscopio per osservare le cose invisibili è da
attribuire solo a Galileo; ciò è documentato in una sua lettera in cui esorta i suoi
allievi a usare il microscopio.
Sicuramente l'apporto più importante alla scienza fu l'uso della matematica,
necessaria per quantizzare l'esperimento.
Poiché Galileo era un fisico egli aveva elaborato la teoria secondo cui il corpo umano
era una macchina e gli organi delle minute macchine: bisognava pertanto ricercare la
macchina elementare.
I microscopi di Galileo avevano dei grossi problemi perché presentavano dei difetti di
rifrazione e riflessione della luce, per cui si vedevano molte immagini illusorie: ciò
comportò feroci critiche al microscopio.
Marco Aurelio Severino (1580-1656). Nato a Tarsia (Calabria) fu professore di
Anatomia e Medicina a Napolo. Egli abbracciò appieno la filosofia galileiana e
usando il microscopio descrisse addirittura l'utero dello scarabeo (che, naturalmente,
ne è privo) . Dimostrò tuttavia che negli insetti ritroviamo gli organi che ci sono negli
animali superiori; sosteneva anche che il microscopio doveva servire a vedere cose
invisibili e che l'anatomia non doveva essere considerata come "arte del tagliare" ma
servire per scomporre e per andare a ricercare gli atomi. (Anatomia dissutrix non
dissectrix)
Severino fu anche un grande chirurgo e pubblicò (1632) il primo trattato illustrato di
patologia chirurgica. A Napoli ci fu una epidemia di difterite e lui praticando la
laringectomia salvò molte vite. In periodo di peste non scappò dalla città, come
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fecero molti altri medici, ma rimase a curare i malati; purtroppo però si ammalò
anche lui di peste e morì.
Lo studio microscopico degli insetti evidenziò che cose che sembravano
assolutamente grossolane erano invece molto complicate.
Molti allievi della scuola di Galileo, con degli artifizi, riuscirono a mettere in evidenza
delle strutture molto fini, dando perciò il via alla cosiddetta anatomia scompositiva o
artificiosa. Per esempio Giovanbattista Odierna (1597-1660) a Palermo, bollì
l'occhio di una mosca e dimostrò che era formato da una miriade di cristallini che
permettevano alla mosca di vedere. a 360°. Oltre al microscopio si poteva usare il
microscopio naturae; infatti Auberio, che era un allievo di Giovanni Alfonso Borelli
(1608-1679) a sua volta allievo di Galileo, per dimostrare come era fatto il testicolo
studiò quello del maiale, animale che aveva già colpito Galeno proprio perché gli
organi vegetativi erano simili a quelli dell'uomo, e mise in evidenza i tubuli seminiferi,
la struttura dei tubuli efferenti e l'epididimo, che poi furono comparati con quelli
dell'uomo.
Quindi qualsiasi cosa andava bene pur di riuscire a capire come è costruito e come
funziona il corpo umano.
Il fatto che la matematica e la misurazione dell'esperimento fossero cose essenziali
portò a delle conseguenze qualche volta al limite del possibile; per esempio ci fu un
grande scienziato Santorio Santorio (1561-1636), istriano e allievo della scuola
galileiana, che trascorse gran parte della sua vita in una bilancia dove si pesava
quando mangiava e dopo aver defecato, misurando ciò che rimaneva dopo aver
mangiato: ebbe così l'intuizione dell'esistenza del metabolismo. Egli capì anche che
la sudorazione serviva all'eliminazione del calore; fu anche il primo a fare la
misurazione del polso e ad usare il termometro per misurare la febbre.
La scienza galileiana aveva come base l'esperimento: bisognava dare un significato
alle cose solo dopo averle osservate e misurate.
Gaspare Aselli (1581-1626) (scoperta dei vasi chiliferi). Era un medico milanese,
professore all'Università di Pavia (a Milano l'Università non c'era). Facendo un
esperimento su un piccolo cane, in cui voleva dimostrare come avvenivano le
escursioni diaframmatiche e anche come potevano cessare con la resezione del
nervo frenico, quando aprì l'addome sotto il diaframma vide una rete bianchissima
nelle maglie del mesentere e si rese conto di aver fatto una grande scoperta, cioè di
aver scoperto il quarto tipo di circolazione. Quando volle mostrare questa scoperta
all'Università di Pavia usò un grosso cane randagio, ma dopo averlo aperto davanti a
tutti non vide niente. Così Aselli, dopo un momento di sconforto, pensò che la
differenza tra i due cani era che il primo aveva mangiato mentre il secondo cane, che
era un randagio, non aveva mangiato. Allora decise di ripetere l'esperimento con un
terzo cane, che aprì dopo averlo fatto mangiare. Questa volta finalmente vide la rete
dei vasi chiliferi e poté dimostrare la loro esistenza all'Università. In seguito pubblicò
un atlante che conteneva le prime stampe a colori. Un grosso errore che fece Aselli
fu quello di confondere un linfonodo con un organo che lui chiamò pancreas. Ancora
non si conosceva il sistema linfatico, che verrà scoperta solo qualche decennio dopo:
prima Jean Pequet (1622-1674) scoprì la cisterna del chilo e poi, l'intera circolazione
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linfatica venne descritta da un medico romano Giovanni Guglielmo Riva (16271677), e da Thomas Bartholin (1616-1680). Va ricordato che Bartolomeo Eustachi
aveva già descrito il dotto toracico del cavallo nel 1564.
William Harvey (1578-1657). Studiò a Padova dove fu allievo di Fabrizio e di
Casserio. Egli si interessò della circolazione del sangue. Innanzitutto misurò la
quantità di sangue che c'è nel corpo (prese un animale a cui tagliò una vena e
estrasse tutto il sangue) e vide che era molto limitata. Questo fatto era quindi in
contrasto col concetto galenico secondo cui il sangue veniva continuamente prodotto
per essere assorbito dalle strutture periferiche.
1628: data storica in cui Harvey pubblicò il suo trattato intitolato Exercitatio
Anatomica de Motu cordis et sanguinis in animalibus.
Harvey, usando le stesse tavole di Fabrizio d'Acquapendente, dimostrò che nelle
vene il sangue non aveva decorso centrifugo, come invece sosteneva Galeno,
secondo cui il sangue andava dal fegato alla periferia. Fabrizio aveva interpretato
quelle tumefazioni che si vedono quando si comprime una vena (e dovute alle
valvole venose) come delle porticine che servivano per rallentare il flusso dal centro
alla periferia, Harvey dimostrò esattamente il contrario: infatti aveva visto che,
mettendo un laccio ad una vena, che pertanto diventa turgida, e poi chiudendo altri
due segmenti, il sangue non va dal centro alla periferia ma dalla periferia verso il
centro. Quindi Harvey capì il meccanismo della circolazione venosa, capì che il cuore
era come una pompa che metteva in circolo il sangue, ma non riuscì a trovare
l'anello di congiunzione tra le arterie e le vene perché non riusciva a vedere i
capillari. I capillari vennero poi scoperti, più tardi, da Malpighi negli animali a sangue
freddo ed in quelli a sangue caldo da Spallanzani che confermò le precedenti
osservazioni di William Cowper (1666-1709).
Questa nuova teoria ebbe diversi consensi ma anche molte critiche, anche perché il
concetto della circolazione fu associato a idee politiche sulla circolazione del potere.
Perciò Harvey all'inizio fu criticato moltissimo ma poi la sua teoria si affermò
declassando il fegato che da organo principale divenne invece solo l'organo che
secerne la bile. Addirittura ci fu un famoso anatomico Thomas Bartholin (maestro di
Stenone) che pubblicò le exequiae del fegato.
Questione del contagio.
Nonostante nel '300 e nel '600 ci fosse stata la peste, e nonostante ci fossero molte
malattie endemiche come la lebbra e la tubercolosi ( che allora non era considerata
una sola malattia ma comprendeva 6 o 7 malattie diverse) non si sviluppò il concetto
di contagio da organismi viventi (contagio vivo).
In pratica non si capiva come si trasmettessero le malattie: l'idea più accreditata era
che gli odori (miasmi) portassero il contagio, ma non si capiva assolutamente quale
fosse lavia di trasmissione. Non c'era nessun concetto di igiene, i malati venivano
messi su letti con lenzuola sporche che poi venivano riciclate senza lavaggio. Questo
portò alla diffusione di malattie, soprattutto nelle zone molto affollate.
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In Sardegna c'è il tipico esempio di come malattie come la peste attecchissero
soprattutto nelle città, ma non nei villaggi. Il veicolo della peste è una pulce. In realtà
sono i ratti che si ammalano di peste, poi la pulce la trasmette all'uomo, quando poi
la peste diventa veramente epidemica allora c'è la peste polmonare che permette il
contagio diretto uomo-uomo. La peste venne dall'Oriente e pare che sia stata portata
a Messina da una nave di genovesi, scappati dalla città che presidiavano perchè era
stata assediata dai turchi Questi però avevano buttato dei cadaveri di appestati nella
città, così alcuni marinai si ammalarono e portarono la peste a Messina da dove poi
si diffuse in tutta l'Italia e in tutta l'Europa.
La scomparsa della peste fu favorita e dal fatto che intorno alla fine del 600 ci fu
un'invasione di ratti marroni che soppiantarono il ratto nero, che era molto più
recettivo alla peste, e anche perché si cominciò a evitare di costruire i solai in legno
dove potevano albergare i topi (questo accadde soprattutto nelle zone calde).
Un'altra ipotesi sostiene che ciò è dovuto alla comparsa di un germe meno virulento
che permette l'immunizzazione dei ratti.
Quasi contemporaneamente alla pubblicazione dell'opera di Vesalio (1514-1564),
c'era stato un famoso anatomo medico veronese Gerolamo Fracastoro (1478/91553), il quale diede il nome ad una malattia endemica che si era appena sviluppata:
la sifilide.
La sifilide scoppiò per la prima volta in modo epidemico alla fine del '400 durante
l'assedio di Carlo VIII a Napoli (1496); finchè l'Italia fu la nazione leader i napoletani
chiamarono la sifilide male francese, mentre, quando l'Italia decadde, i francesi la
chiamarono mal di Napoli. La sifilide forse era dovuta ad una recrudescenza di una
malattia che ha cambiato fisionomia ma che era già endemica nell'oriente arabo,
oppure un'altra teoria dice che venne portata dall'America ad opera dei marinai di
Cristoforo Colombo. Si riconobbe subito che la sifilide era dovuta al contagio
sessuale e si diceva che si era sviluppata dall'amplesso di una prostituta con un
lebbroso.
Fracastoro diede il nome alla sifilide in un famoso poemetto, dedicato a Pietro
Bembo, e parlò anche del legno santo che era uno dei principi terapeutici di allora: si
trattava di un legno (guaiaco) che provocava una grande sudorazione. Si pensava
che anche la sifilide fosse una malattia da curare secondo i principi ippocratici, per
cui bisognava eliminare la materia peccans: in questo caso si doveva togliere
l'eccesso di flemma con l'uso di farmaci che provocassero la sudorazione, come il
legno guaiaco e il mercurio. La sifilide è una malattia che fece la fortuna dei medici
perché nel 30% dei casi guariva da sola e, quando un malato guariva, il medico
sosteneva che era merito delle sue cure, anche se in realtà non era così. Per
combattere la sifilide si somministrava il mercurio che essendo tossico per le
ghiandole salivari e per quelle sudoripare, provocava una secrezione potentissima.
Al tempo, il trattamento proposto per ovviare a ciò era quello di mettere un ferro
incandescente sulla testa del malato, perché si credeva che la saliva ed il sudore
derivassero dal cervello. Un altro effetto del mercurio era quello di annerire i denti,
costringendo le nobildonne a limarsi i denti per nascondere il fatto che stavano
facendo la terapia mercuriale contro la sifilide. Fracastoro sosteneva che esistessero
degli organismi viventi invisibili, da lui chiamati seminaria, che portavano il contagio.
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Questi seminaria si potevano trasmettere non solo per contatto diretto ma anche con
vestiti, lenzuola, oggetti.
Un'altra malattia che allora era endemica era la lebbra. La lebbra in Sardegna
attecchì proprio perché è una malattia ad incubazione molto lenta (simile alla
tubercolosi anche se i due microrganismi sono rivali, infatti dove c'è la lebbra non c'è
la tubercolosi e viceversa). La lebbra è una malattia che si sviluppa nel giro di
decenni, e in Sardegna c'erano molti focolai che andarono avanti fino all'età moderna
(infatti è uno degli ultimi posti dove ci sono stati i lebbrosari). Occorre un contagio
prolungato per prendersi la lebbra, quindi è difficile che le persone che girano molto
la contraggano. La lebbra era considerata una malattia da temere, oltretutto aveva
dei risvolti sociali molto particolari; infatti quando si scopriva che uno era lebbroso
(siamo nel tardo medioevo e all'inizio dell'età moderna) gli veniva fatto addirittura il
funerale e perdeva qualsiasi diritto. I lebbrosi venivano tenuti in luoghi appartati ma
venivano mantenuti a spese della comunità; questo spiega il perché di persone
indigenti che per sopravvivere si dichiaravano lebbrosi, in modo da avere l'assistenza
pubblica.
Fine '600 - Inizio '700. Generazione Spontanea. Genesi acarica della scabbia.
Anatomia microscopica. Le cere anatomiche.
Nel corso delle pestilenze, i medici giravano vestiti in modo un po' particolare: con
una specie di becco d'uccello sul naso, che conteneva una spugna con dei profumi,
perché si credeva fossero gli odori a causare la malattia (tesi chiaramente falsa).
Verso la fine delle 600 (1668) ci fu un'importante scoperta da parte di Francesco
Redi (1626-1698), allievo di Galileo: egli prese un grosso vaso e vi mise un pezzo di
carne, poi coprì il vaso con una garza e notò che su questa si formavano delle uova
che seminate poi sulla carne, davano luogo alle larve. Dimostrò quindi che la
generazione spontanea non era valida.
Redi fu anche fondatore della parassitologia; fece degli importanti esperimenti su
come debellare i vermi. Alcuni farmaci, tuttora utilizzati contro i vermi, sono stati
introdotti da lui.
Un'altra malattia dei nostri antenati è la rogna (o scabbia) dovuta ad una specie di
acaro (= atomo di carne), che veniva considerato una particella di materia peccans,
perché si pensava che la rogna fosse dovuta ad un eccesso di melaina kolè, di
umore nero, quindi bisognava curarla con delle sostanze che eliminassero questa
melaina kolé, e non curandola in modo topico. Cosimo Bonomo (1666-1696),
allievo di Redi e medico delle galere (termine che noi usiamo per prigione ma al
tempo erano le navi dove venivano mandati i carcerati che scontavano la pena
remando, carcerati peraltro molto soggetti alla rogna) cercò il modo per debellarla e
stabilì che bastavano dei bagni antisettici, fatti per un certo periodo di tempo, per
uccidere anche le larve derivate dalla schiusa delle uova formate all'interno della cute
e quindi per eliminare la malattia. Grazie all'aiuto di Giacinto Cestoni (1637-1718)
isolò l'acaro e lo descrisse come si vede al microscopio. Comunicò questo a Redi ed
il tutto fu pubblicato nel 1687. Nel 1834 uno studente, Simone Renucci, corso,
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durante una lezione sulla scabbia tenuta all' ospedale San Luigi di Parigi dal famoso
Prof. Alibert, fece notare al professore che in Corsica le persone malate venivano
lavate con soluzioni disinfettanti. Il professore rimase sorpreso di ciò, poiché il
trattamento scoperto da Bonomo era rimasto circoscritto alla Toscana poi esteso alla
Corsica e Sardegna, ma non al resto dell'Europa.
In quel periodo, Marcello Malpighi (1628-1694), allievo di Galileo, sostenne che tutti
gli organi erano formati da delle minute macchine, le ghiandole. Questo è vero e
falso nello stesso tempo. Infatti è vero che si può riconoscere una struttura
ghiandolare nel fegato, nel rene, ma questo non vale per il cervello o altri organi.
Comunque Malpighi fece altre scoperte importanti: gli strati dell'epidermide, il
glomerulo renale, i corpuscoli della milza, i globuli rossi, ma il suo genio deriva
dall'essere riuscito a distinguere ciò che era artefatto da ciò che era realtà, perché i
microscopi di allora davano immagini veramente fallaci. Scoprì inoltre i capillari nel
polmone di rana (animale a sangue freddo) completando lo schema di Harvey.
Antony Leeuwenhoek (1632-1723) , commerciante di tessuti, appassionato di
microscopi, tanto da costruirsene uno con le sue stesse mani, riuscì a vedere delle
cose straordinarie che, non essendo dotto e non sapendole interpretare, mandava
alla Royal Society di Londra che le pubblicava, dopo traduzione, senza commentarle.
Per esempio, Leeuwenhoek si rese conto che esistevano degli esseri viventi
piccolissimi nella placca dentaria. Una persona che usava il microscopio con lui, un
suo allievo, scopri lo spermatozoo. Questo commerciante descrisse tantissime altre
cose che però, essendo solo delle osservazioni, venivano ignorate e magari
venivano apprezzate e verificate decenni dopo.
Tornando a Malpighi, il concetto di ghiandola fu dato da un famoso scienziato
danese, Niccolò Stenone (1638-1686) che per caso scoprì il "dotto di Stenone" che
in realtà veniva considerato un vaso. Un professore di anatomia, Blasius, cercò di
appropriarsi di questa scoperta e la pubblicò, suscitando l'ira di Stenone. Fece altri
studi, e oltre a descrivere il dotto, descrisse anche le ghiandole, sostenne che la
saliva, derivata dal sangue, veniva prodotta dalla ghiandola e veicolata dal dotto
nella bocca. Stesso discorso per le ghiandole lacrimali: anche queste derivano dal
sangue le lacrime. Stenone fece anche altre scoperte, per esempio fu il primo ad
avere il coraggio di dire che il cuore era un semplicemente un muscolo e non
conteneva l'anima e a chiamare ovidutti le tube uterine, stabilì inoltre l'omologia tra le
ovaie dei mammiferi e quelle degli uccelli; a Firenze si cimentò nello studio
dell'anatomia della terra. Anche in questo campo fece importanti scoperte: fu il primo
a scoprire i principi della sedimentologia, sostenendo che gli strati più antichi sono
quelli più profondi, e a mettere in dubbio che la terra avesse solo quattromila anni.
Formulò una legge (regola di Stenone) che permette di distinguere un cristallo di
quarzo da un diamante: il cristallo cresce "non mutatis angulis" (con gli angoli uguali)
e quindi si può riconoscere per gli angoli. Successivamente Stenone divenne prete e
per questioni di coerenza abbandonò la scienza. Venne mandato missionario nelle
regioni luterane e morì in condizioni di estrema povertà, avendo dato tutto ai poveri. Il
granduca di Firenze Cosimo III, volle che il suo corpo fosse trasferito a Firenze e fu
sepolto prima nella cripta, poi nella basilica di San Lorenzo. Fu nominato beato e
protettore degli scienziati nel 1988 dall'attuale Pontefice.
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Tra i personaggi importanti della fine del 600 ci fu Bernardino Ramazzini (16331714). Ramazzini aveva un operaio che andava da lui a pulire i cessi, che dopo
qualche tempo divenne cieco. Allora Ramazzini, incuriosito fece delle indagini e
accertò che anche altri lavacessi erano diventati ciechi. Stesso discorso per gli
spazzacamini: molti avevano il cancro, Capì che molti lavori hanno un'influenza sulla
salute e pubblicò un trattato sulla medicina del lavoro (DE MORBIS ARTIFICUM)
dove descrive molte malattie legate alla situazione lavorativa.
I medici dell'epoca si rendevano conto di come la terapia fosse qualcosa di
disastroso.
Thomas Sydenham (1624-1689) e Hermann Boerhaave (1668-1738) praticarono il
ritorno all'ippocratismo, cioè alla cautela assoluta nel trattare il malato e dissero che
bisogna avere gli ospedali come luoghi di cura.
La prima clinica universitaria fu fondata infatti a Leida in Olanda, dove lavorava
Boerhaave, università che era stata regalata, più di un secolo prima, dal principe
d'Olanda agli abitanti come premio per avere valorosamente combattuto contro gli
spagnoli nella guerra dell'indipendenza.
Per quanto riguarda la chirurgia del primo 700, i chirurghi dovevano operare
rapidamente, perché più durava l'operazione, maggiori erano i rischi d'infezione; il
paziente era tenuto fermo dagli inservienti e in genere, prima dell'operazione, veniva
intervistato da un padre spirituale. La maggior parte dei chirurghi non conoscevano
l'anatomia, erano considerati persone indotte. Colui che promosse lo sviluppo della
chirurgia nell'Europa centrale fu Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800) che
fu arruolato nell'esercito austriaco come chirurgo. Era una persona molto intelligente,
entrato nelle grazie del comandante del suo Reggimento, divenne il medico di
Giuseppe II, primogenito di Maria Teresa, imperatrice d'Austria. Brambilla usò la sua
influenza su Giuseppe II affinchè ai chirurghi venisse insegnato il latino, per poter
studiare i testi scientifiche e per essere quindi messi alla pari dei medici. La prima
cosa da fare era l'insegnamento del latino e poi mostrare come era fatto il corpo
umano. Perciò grazie a lui fu fondata una grande accademia a Vienna, lo
Josephinum, in cui si praticava l'insegnamento del latino ai chirurghi; non solo: furono
fatte arrivare da Firenze delle splendide cere anatomiche (tuttora presenti allo
Josephinum) al fine di istruire gli allievi soprattutto in anatomia umana, scienza resa
importante dall'insegnamento di Morgagni. In conclusione riuscì così a parificare
medici e chirurghi; infatti nelle università imperiali è presente un simbolo di ciò: due
donne, entrambe togate, che si tengono per mano e rappresentano rispettivamente:
una la medicina, l'altra la chirurgia al di sopra di una scritta: "IN UNIONE SALUS".
Il pensiero di Brambilla si inserisce in un discorso che venne fatto a Firenze da
Felice Fontana (1730-1805). Fontana, abate e prezioso consigliere del granduca di
Firenze, ebbe l'idea, per istruire i chirurghi, di allestire dei calchi in cera di preparati
anatomici. Questa idea era utile per 3 motivi: 1) perché gli atlanti a colori costavano
moltissimo, 2) perché i chirurghi non conoscevano il latino, 3) perché in assenza
delle tecniche del freddo era difficile conservare i cadaveri. Quindi Fontana allestì al
Museo La Specola di Firenze, con l'aiuto di vari anatomici, una vera e propria officina
di ceroplastica in cui si facevano i calchi dei cadaveri che prima si facevano in gesso
e poi si voltavano in cera ad opera di abili artisti.
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Carlo Felice mandò l'anatomico Francesco Antonio Boi (1767-1855) nativo di Olzai,
da Cagliari a Firenze, proprio per avere dei modelli in cera, da esporre nel suo
museo. Le cere furone realizzate dal grande Clemente Susini su dissezioni effettuate
dal Boi e sono dei veri capolavori che si possono tuttora ammirare nel Museo Susini
di Cagliari.
Altro scienziato del primo 700 fu Domenico Cotugno (1736-1822) che scoprì il liquor
cefalorachidiano, descrisse la sciatica, e notò per la prima volta la presenza di
albumina nelle urine dei nefropatici. Luigi Galvani (1737-1798), anatomico a
Bologna scoprì l'elettricità animale, anche se secondo alcuni una parte del merito
andrebbe riconosciuto alla moglie, la quale, mentre preparava delle rane, toccò con
un cucchiaio di bronzo le zampe dell'animale e notò che si contraevano. In seguito a
ciò Galvani fece esperimenti e parlò per la prima volta di elettricità animale. Volta,
però, dimostrò che non era elettricità animale, bensì un fenomeno fisico.
Altro importante anatomico e chirurgo fu Antonio Scarpa (1752-1832), che operò a
Modena e, soprattutto, a Pavia dove fu chiamato da Brambilla. Diede importanti
contributi all'anatomia dell'occhio, dell'orecchio (endolinfa e timpano secondario), al
trattamento chirurgico delle ernie ed a quello degli aneurismi. Scoprì il nervo nasopalatino ed insieme al Vick D'Azyr i nervi olfattivi; descrisse i nervi cardiaci. Contribuì
grandemente alla definizione dell'anatomia topografica, soprattutto di quella degli arti
inferiori, ed è considerato, insieme a John Hunter il fondatore dell'Anatomia
Chirurgica.
XVIII Secolo. Anatomia clinica e Patologia d'organo. Spallanzani. Jenner.
Le cere anatomiche erano un mezzo visuale per insegnare e diffondere 1'anatomia.
L'anatomia era ancora un patrimonio dei medici dotti, che conoscevano il latino e che
avevano accesso ai trattati e non dei chirurghi, personaggi di secondo piano, nella
maggior parte dei casi barbieri, persone che non avevano avuto un'istruzione
classica e nessun accesso alle opere scientifiche.
Le cere anatomiche furono prodotte su larga scala a Firenze e poi diffuse in tutta
Europa. Descriviamo ora come si faceva un preparato anatomico: dell'organo in
esame (ad esempio il cuore) si faceva un calco col gesso , che prima
dell'indurimento si apriva in due con una cordicella, e poi lo si riempiva di cera
(sistema a cera a persa); poi la cera veniva colorata ed infine la mano dello scultore
definiva le cose. Le cere di Cagliari furono fatte da Clemente Susini (1757-1814), e
la mistura della cera contiene delle sostanze anche preziose, come scagliette d'oro e
perle macinate, utilizzate per dare brillantezza alla cera stessa. Inoltre le cere
soffrono più il freddo del caldo, perché essendo la cera una mistura con altre
sostanze a differente grado di dilatazione, quando la temperatura va sotto zero,
basta una minima vibrazione per rovinarle. Questo a Cagliari non succede mai, per
cui le cere di Cagliari hanno il privilegio di non essere mai state restaurate al
contrario di quelle delle grandi collezioni di Firenze e di Vienna (Le cere di Vienna
sono ,in parte, copie di quelle di Firenze, prodotte a Firenze e portate a Vienna da
Giovanni Alessandro Brambilla).
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Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800) fu, per quanto riguarda l'Europa
centrale, colui che parificò la chirurgia e la medicina. In altri paesi ciò era avvenuto in
modo più fisiologico, cioè i chirurghi erano diventati talmente bravi che erano entrati
nella categoria dei medici. Questo avvenne in Inghilterra dove visse un grande
chirurgo John Hunter (1728-1793). Hunter fece un esperimento su se stesso: poiché
sosteneva che non poteva esserci un soggetto con due malattie, per stabilire se la
blenorragia e la sifilide erano due malattie diverse o no, si inoculò nel glande del pus
proveniente da un soggetto con la blenorragia per vedere se sarebbe comparsa la
blenorragia o la sifilide. In realtà si ammalò di sifilide perché quel soggetto aveva
entrambe la malattie e fu fortunato perché ne guarì. Questo esperimento che venne
pubblicizzato in tutto il mondo portò ad una confusione. In Italia ci furono dei grandi
chirurghi e dei grandi medici. Tra i medici ricordiamo Domenico Cotugno (visse a
Napoli, 1736-1822) che scoprì il liquor cefalorachidiano, i liquidi endolabirintici,
descrisse per la prima volta la sciatica che chiamò ischiade nervosa e notò la
presenza di albumina nelle urine di pazienti nefropatici.
Luigi Rolando (1773-1831) a Sassari fu autore del saggio "La vera struttura del
cervello dell'uomo e degli animali. Egli seguendo 1' idea della corrente animale,
toccando la corteccia di un maiale su un lato davanti alla scissura centrale del
cervello (scissura rolandica), dimostrò la contrazione muscolare. Rolando paragonò il
cervelletto ad una pila.
Il vero fondatore della medicina clinica moderna fu Giovanni Battista Morgagni
(1682-1771). Questi apparteneva come derivazione alla scuola galileiana, perchè era
allievo di Antonio Maria Valsalva (1666-1723), il quale a sua volta era allievo di
Malpighi, Malpighi di Borelli, e questi era allievo di Galileo.
Morgagni aveva una concezione iatrofisica ; egli però non usava il microscopio,
usava 1'occhio: aveva la tendenza a cercare di scoprire il funzionamento del corpo
umano inteso come macchina. Il Morgagni si riferì a delle precedenti pubblicazioni.
Quella più accurata risaliva alla fine del '400: a Firenze c'era stato Antonio
Benivieni (1443-1502) che aveva fatto diverse autopsie e le aveva correlate con la
causa di morte; il suo libro è intitolato "De abditis morborum causis" (1e cause
nascoste delle malattie). Un altro trattato pubblicato nel tardo 600 era stato il
"Sepulcretum" di Theophile Bonet (1620-1689), in cui erano descritti molti casi di
reperti ottenuti al tavolo anatomico. Però in tutti questi trattati manca la correlazione
tra storia clinica e reperto anatomo-patologico.
Col Morgagni ci fu un ritorno al tripode alessandrino che consisteva nella storia
clinica, nell'autopsia e poi nella diagnosi clinica. Il Morgagni raccolse ben settecento
quadri autoptici, correlò il quadro autoptico con la storia clinica del paziente, dimostrò
che per la stragrande maggioranza delle malattie vi era una patologia d'organo.
Allora non c'erano mezzi per fare 1'autopsia in vivo (autopsia intesa come nella
concezione alessandrina, cioè come esame del malato con i propri occhi), quindi
1'autopsia era veramente la dissezione, ma il concetto era quello di correlare la storia
clinica con la malattia.
Il Morgagni è stato un anatomico celeberrimo, era chiamato sua maestà anatomica in
Europa, perché aveva pubblicato alcuni appunti di anatomia "Adversaria
Anatomica", che divennero molto famosi per la revisione di cose che erano già state
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viste, che fece con una notevole precisione. La sua opera maggiore, una pietra
miliare per la nascita della medicina moderna, apparve nel 1761 in 5 volumi, dedicati
alle più importanti accademie mediche nel mondo di allora. Fu pubblicato in latino ed
intitolato "De Sedibus et causis morborum per anatomen indagatis" (sulle sedi e
le cause delle malattie studiate attraverso 1'anatomia). Egli raccolse 700 casi clinici,
alcuni appartenevano anche a Marcello Malpighi (1628-1694) e un buon numero
erano appartenuti al suo maestro Antonio Maria Valsalva (1666-1723), anatomico
che fece importanti scoperte soprattutto sull'orecchio.
Questo trattato destò grande interesse in tutto il mondo di allora, tanto è vero che
dopo due anni, la prima edizione era esaurita. Furono fatte molte altre edizioni e
furono tradotte in tutte le lingue d'Europa. Una delle ultime edizioni fu in italiano, sia
perché i dotti parlavano il latino (fino alla rivoluzione francese la lingua dei dotti era il
latino), sia perché in Italia il "verbo morgagnesco" ebbe difficoltà ad attecchire. I
principi di Morgagni invece, furono applicati all'estero e furono alla base dello
sviluppo della clinica negli altri paesi. Inflenzò però Domenico Cotugno ed ebbe
come allievo Antonio Scarpa.
Proprio nello stesso periodo in cui Morgagni pubblicò il suo trattato, nel 1761 uscì in
Austria un altro piccolo trattato "De Inventu Novo" in cui il figlio di un bottaio,
Leopold Auenbrugger (1722-1809), descrisse la percussione come un mezzo per
poter osservare in vivo le alterazioni degli organi toracici. Questo libro rimase lettera
morta, fino a quando ai primi dell'800, il medico di Napoleone Jean Nicolas
Corvisart (1755-1821) lo riscoprì. Auenbrugger era ancora vivo, e a distanza di 3040 anni dalla pubblicazione, ebbe la sua parte di gloria.
Nel 700 un problema molto importante era quello della respirazione e della
combustione. Era stato ipotizzata (da Stahl) l'esistenza di una sostanza, il flogisto,
che consumandosi dava il fuoco. Questo concetto però non spiegava alcuni
esperimenti che erano stati fatti dalla scuola di Oxford. Per esempio, collocato un
animale sotto una campana con una candela accesa, man mano che la candela
bruciava l'animale dava segni di asfissia, fino a morire. Non si capiva quale nesso
esistesse con il flogisto; si diceva che quell'aria era diventata "aria fissa". Fu un
inglese, Joseph Priestley (1733-1804), il primo ad affermare che doveva essere
qualche gas che veniva consumato.
Chi dimostrò che questo gas era l'ossigeno fu Antoine Laurent Lavoisier (17431794), grandissimo scienziato e fondatore della chimica moderna. Lavoisier venne
ghigliottinato per la sua condizione di aristocratico. La storia dice che prese il fatto di
essere ghigliottinato come una seccatura.
Subito dopo la scoperta dell'ossigeno, l'abate Lazzaro Spallanzani (1729-1799), uno
dei più grandi scienziati mai esistiti, mise in relazione il consumo di ossigeno con la
respirazione tessutale. Lo Spallanzani era uno sperimentatore feroce: per dimostrare
1'azione dei succhi gastrici infilò nel suo stomaco una spugnetta con dentro della
carne che poi tirava fuori dopo alcune ore, per constatare 1'effetto del succo gastrico.
Era un vivisezionatore; capì anche che, durante il volo, i pipistrelli si orientano con gli
ultrasuoni. Spallanzani è famoso soprattutto nel campo della riproduzione. Fu il primo
a dimostrare, mettendo delle specie di "mutande" al rospo, che senza il contatto del
liquido seminale con l'uovo non si aveva la fecondazione. Fu il primo che operò la
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fecondazione artificiale nella cagna. Fece un'altra scoperta, confermando quanto
visto da William Cowper (1702 ) nel mesentere del gatto e del cane, dimostrò la
presenza dei capillari nel pollo, chiudendo il cerchio del circolo sanguigno anche
negli animali a sangue caldo. Tra le scoperte più importanti dello Spallanzani ( per
cui Pasteur lo riverì come il più grande scienziato mai esistito) vi fu quella di aver
confutato la tesi della generazione spontanea. Il problema della generazione
spontanea era fermo ancora a Redi, che aveva dimostrato che gli insetti derivavano
da altri insetti. C'erano stati dei precursori, per esempio, tra gli italiani, Antonio
Vallisneri (1661-1730), medico padovano, che aveva sostenuto 1'esistenza di
"Semi" in aria, simili a quelli descritti da Fracastoro; Carlo Francesco Cogrossi
(1682-1769) aveva affermato che nella peste bovina c'erano degli organismi viventi
che trasmettevano la peste. Entrambe queste tesi però erano cadute nel vuoto.
Un irlandese, John Turbeville Needham (1713-1781), pensava che gli "infusori"
(che si vedevano perché erano dei protozoi) derivassero dal fluido contenuto nella
fiasca, e quindi derivassero dalla materia e non da altri protozoi. Questo esperimento
fu condiviso da Georges Buffon (1707-1788), il più grande naturalista dell'epoca.
Ma Spallanzani lo confutò, dimostrando che se si praticava veramente una
sterilizzazione (fu lui il primo che mise in atto questo procedimento, applicato
successivamente anche da Pasteur) col calore i protozoi non si formavano. Quindi
dimostrò che per avere dei protozoi bisognava avere altri protozoi. Questa fu la prima
dimostrazione che esseri molto piccoli derivavano da altri esseri molto piccoli.
Alla fine del 1700 ci fu una grande scoperta di carattere empirico. Un chirurgo inglese
Edoardo Jenner (1749-1823), allievo di John Hunter, si accorse per caso che le
mungitrici, che avevano in passato contratto il vaiolo bovino, quando si ammalavano
di vaiolo guarivano sempre. Il vaiolo allora era la malattia più terribile. La peste si era
placata a causa del cambio dei ratti e delle migliori condizioni igieniche. Vi erano
ancora flagelli terribili come la tubercolosi, però il vaiolo colpiva soprattutto i bambini.
C'erano stati già tentativi precedenti risalenti al tardo '600 di indurre la resistenza alla
malattia col sistema della vaiolizzazione. La vaiolizzazione era il sistema di innesto
del vaiolo: si prelevava, da un malato che stava per guarire, un po' di pus e lo si
iniettava ad un soggetto sano, provocando il vaiolo. Molte volte questo procedimento
era letale e molti bambini morirono. La vaiolizzazione era stata promossa dalla
moglie dell'ambasciatore inglese a Costantinopoli (Lady Montagu), perché
nell'oriente si praticava da tempo tale sistema. La stessa era poi stata introdotta in
Italia dai medici greci che operavano soprattutto a Venezia. Questi avevano trovato
un grande fautore nel Papa Benedetto XIV (Papa Lambertini) il quale cercò di
introdurre la vaiolizzazione nello stato pontificio.
La scoperta di Jenner risolse il problema del vaiolo. Jenner fece la prima
inoculazione su suo figlio: prese un pò di pus dalla pustola di una vacca, lo iniettò nel
figlio e vide dopo che si era formata la pustola del vaccino (che si chiamava ancora
innesto) che il bambino era immune dal vaiolo. La vaccinazione destò un interesse
grandissimo, anche se ci fu una violenta opposizione da parte di certi ambienti,
soprattutto ecclesiastici nei quali essa venne ritenuta un insulto al creatore essendoci
una commistione tra il bruto, cioè' 1' animale, e 1' uomo. Quindi questa vaccinazione
venne praticata su larga scala perché le idee della rivoluzione francese prevalsero .
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Al di fuori dell'Inghilterra, divenne la bandiera della sinistra, dei giacobini. I giacobini
vaccinavano, i codini (reazionari) no.
In Italia un milanese Luigi Sacco (1769-1836) diffuse negli stati della repubblica
cisalpina la vaccinazione, per cui ci fu un crollo verticale della morbilità del vaiolo.
Pietro Leo portò la vaccinazione in Sardegna. Egli fu anche professore di anatomia;
aveva imparato a vaccinare durante la rivoluzione francese a Parigi. Altri fautori della
vaccinazione vaccinazione in Sardegna furono Francesco Antonio Boi e Sebastiano
Perra (1772-1826) che scrisse (1808) un libro su di essa. Dopo un primo periodo in
cui venne praticata saltuariamente, la vaccinazione si diffuse più tardi ad opera di un
altro professore di anatomia: Giovanni Falconi (1817-1900).
Riprendiamo ora il discorso del "contagio" vivo . Tra gli allievi di Spallanzani ci fu
Giuseppe Baronio (1759-1811) che proprio sulla scorta di quello che aveva appreso
da Spallanzani, fece i primi innesti di cute negli animali, divenendo un precursore
dell'innesto cutaneo e della chirurgia plastica.
Agostino Bassi (1773-1856) era un avvocato, figlio di ricco proprietario terriero, il
quale aveva la passione per la biologia. Il padre non voleva che facesse il biologo,
ma che si occupasse delle sue terre e che entrasse nella amministrazione imperiale.
Egli comunque seguì costantemente le lezioni dell'abate Spallanzani, fino a quando
questi morì. Un giorno le sue bigattaie (le bigattaie sono i filari su cui si conservano i
bacchi da seta) furono funestate da una malattia terribile, il mal del calcino o del
calcinaccio o moscardino, che uccideva improvvisamente i bachi, riducendoli a dei
pezzi di gesso. Il Bassi, messosi pazientemente a studiare per cercare di capire se
c'era un organismo vivente alla base di questo fenomeno, scoprì un fungo, che fu
chiamato Botritis o Beauveria Bassiana, che provocava la morte dei bachi. Egli trovò
anche un disinfettante per difendersi da questo fungo e per ripulire le bigattaie.
Il suo trattato "Del Mal del Segno, Calcinaccio o Moscardino" venne tradotto in
francese e diffuso in Europa. Subito dopo ci fu la scoperta dell'eziologia fungina di
certe malattie come la tigna dei capelli. Il lavoro di Bassi influenzò moltissimo Louis
Pasteur (1822-1895) (nello studio di Pasteur c'erano sia il ritratto di Spallanzani, sia
quello di Bassi).
Allora si vedevano solo i funghi e i protozoi, il microscopio non era ancora arrivato a
visualizzare i batteri. Solo negli anni 20 dell'800 Gian Battista Amici (1786-1863),
un astronomo che costruiva telescopi, inventò il prisma di riflessione. (Poi il
microscopio fu perfezionato soprattutto da inglesi e tedeschi). Questo permise un
aumento del potere di risoluzione del microscopio.
Il Bassi nel suo libro scrisse: "sarei molto lieto se in futuro le mie scoperte potranno
servire ad aprire la strada allo studio e alla cura delle malattie che uccidono 1' uomo,
tra cui il colera". Proprio su questa indicazione un anatomico italiano Filippo Pacini
(1812-1883) scoprì nelle feci dei colerosi il vibrione colerigeno, però la scoperta era
troppo avanzata e rimase lettera morta.
Nel 1883 Robert Koch (1843-1910) scoprì il vibrione del colera, ma ci si accorse che
in realtà la cosa era stata già descritta in modo chiarissimo da Pacini. Ci fu un lungo
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contenzioso che fu risolto dando la priorità a Pacini; dal punto di vista pratico questa
priorità era inesistente perché non si diffuse nell'ambiente scientifico essendo troppo
precoce.
Finalmente si era trovato un modo per identificare le malattie. Ci fu un ritorno alla
vecchia scuola di Cnido, così la malattia, e non più 1'uomo, ritornò ad essere al
centro dello studio. In questo periodo invece c'erano i mezzi per diagnosticare le
malattie: il mezzo che aveva trovato Morgagni (1682-1771) era il bisturi sul
cadavere, ma già Auembrugger aveva mostrato che si poteva anche fare l'autopsia
con la percussione. Più avanti, nel primo '800, un francese, Renè Theophile
Laennec (1781-1826), inventò lo stetoscopio, in origine costituito da un tubo di legno
che serviva per ascoltare il torace. Infatti non si poteva poggiare l'orecchio sul torace
del malato, soprattutto nel caso il paziente fosse una donna, in particolar modo se di
condizioni agiate; al medico era concesso solo ispezionare le urine e misurare il
polso radiale.
Siamo quindi arrivati ad un altro passo della semeiotica: dopo l'ispezione, la
palpazione e la percussione abbiamo l'auscultazione.
La "autopsia" si fa sul vivente, nel quale si cercano le cause della malattia intesa
come entità morbosa, prescindendo dall'uomo . Questo è il principio riduzionistico
che è alla base della medicina moderna.
Prima parte del XIX Secolo. La Semeiotica. L'Assistenza. La Patologia Cellulare. La
Microbiologia.
Laennec, allievo di Corvisart (medico di Napoleone), ideò la costruzione di un tubo
che chiamò stetoscopio, il precursore dei fonendoscopi moderni, che permetteva
l'ascoltazione del respiro, dei battiti cardiaci etc.
Già nel primo '700 tutti i tempi del processo semeiologico: osservazione, palpazione,
percussione e ascoltazione sono stati messi a punto. Laennec, che poi morì di tisi,
diede dei contributi molto importanti alla definizione di molte malattie polmonari: le
polmoniti, la tubercolosi, che ancora non era considerata una malattia unica, ma si
pensava che esistessero tre tipi di malattia (tisi o consunzione, lupus, scrofola [era la
TBC linfoghiandolare]). Diede comunque importantissimi contributi con l'uso dello
stetoscopio.
L'importanza dello stetoscopio derivava dal fatto che non si poteva ascoltare con
l'orecchio il petto di una donna: era assolutamente impensabile che un uomo potesse
poggiare l'orecchio a contatto con la mammella di una donna, e tale strumento
serviva soprattutto a questo.
Manuel Garcia (1805-1906) era un tenore che, per vedere come erano le sue corde
vocali, inventò il laringoscopio. In questo periodo venne inventato l'esofagoscopio: un
medico vide un ingoiatore di spade ed ebbe l'idea di mettere anziché la spada una
luce all'estremità di un tubo per vedere l'esofago. Si illuminava dall'alto con la fiamma
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della candela che rifletteva su uno specchietto e permetteva di vedere, tramite un
tubo cavo, l'interno dell'esofago.
Uno dei problemi più importanti della chirurgia, a parte la sepsi, perchè si operava a
mani nude, era il fatto che non esisteva l'anestesia. Fu scoperta casualmente in
America da diversi personaggi tra cui Horace Wells (1815-1848) e William Green
Morton (1819-1868). In America, durante le feste, si faceva uso di etere, e capitava
che le persone, sotto quest'effetto, non sentivano più il dolore. Questo venne subito
utilizzato per l'estrazione dei denti. Successivamente ci fu una terribile disputa su chi
l'avesse scoperto per primo, tant'è vero che fu messo in palio un premio, mai
riscosso.
Oltre all'etere si utilizzavano il il protossido di azoto ed il cloroformio; l'anestesia con
cloroformio fu praticata alla regina Vittoria in occasione del parto del principe
Leopoldo.
Nello stesso periodo ci fu la comparsa delle istituzioni sanitarie, la prima di queste fu
la Croce Rossa. Avvenne per un episodio nel corso della battaglia di Solferino: c'era
un ricco finanziere svizzero, Henry Dunant (1828-1910), che aveva degli interessi
minerari in Algeria e che, per avere una concessione, doveva conferire direttamente
con l'imperatore Napoleone III. Questi stava nel campo di battaglia e Dunant si recò
a Solferino. Non potè parlare con l'imperatore, ma rimase talmente impressionato
dallo stato nel quale venivano lasciati i feriti sul campo di battaglia che subì una sorta
di folgorazione: lasciò perdere tutte le sue attività per dedicarsi a questo problema e,
con molti sacrifici (divenne poverissimo), riuscì a convincere i governi a far sì che
venisse istituita questa associazione neutrale che, in onore della Svizzera, fu
denominata Croce Rossa. La bandiera della Croce Rossa è il negativo della bandiera
della Svizzera.
Ci fu un congresso mondiale dove venne sancita la neutralità di questo organismo,
dando quindi la possibilità di togliere i feriti dal campo di battaglia e di curarli.
Dopo la Croce Rossa fu fondata la Mezza Luna Rossa per i paesi islamici. Fu una
grandissima conquista per l'umanità.
Altrettanto importante fu anche l'opera di Florence Nightingale (1820-1910). In
passato non si concepiva la presenza di un corpo di infermiere, ma erano presenti
solo persone di livello culturale molto basso (inservienti, ex prostitute, carcerate
obbligate a lavorare negli ospedali) finché una nobildonna, appartenente
all'aristocrazia inglese, nella evenienza della spedizione di Crimea, insistette perché
ci fosse la formazione di un corpo di infermiere al seguito dell'esercito inglese. Lo
fece praticamente a sue spese e questo corpo di infermiere diede prove eccezionali
della loroimportanza nell'assistere il malato.
Scoppiò una terribile epidemia di colera, e queste donne furono bravissime a curare i
pazienti , nel mettere a punto le misure igieniche . Tornate in patria, vennero coperte
di onori e la Nightingale ottenne al St Thomas's Hospital la creazione della prima
scuola di infermieri specializzati.
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Nei primi anni del 1800 furono rese efficaci le misure di polizia sanitaria: la
quarantena e lo scambio delle merci vennero regolati in maniera più seria.
Nel 1800 in Francia, prima di Laennec, c'era stato Marie Francois Xavier Bichat
(1771-1802) che aveva criticato l'uso del microscopio in quanto questo strumento,
come era fatto allora, era assolutamente inutile. Egli diceva che occorreva tornare
all'antico, e cioè usare metodi artificiali come la bollitura (come faceva Malpighi) e
scomporre il corpo nelle sue unità fondamentali che, secondo lui, erano i tessuti.
Bollendo la lingua, riusciva a spellarla, a notare sotto l'epitelio le papille, e ancora,
poteva continuare a delaminare la lingua; sosteneva che le lesioni bisognava
cercarle nei tessuti.
Si passa ad un livello più sottile rispetto a quanto sostenuto dal Morgagni, perchè
diceva che bisognava cercare le lesioni nei tessuti. La curiosità sta nel fatto che
Bichat, nel suo libro Anatomia Generale, in cui viene negato l'uso del microscopio,
coniò il termine di istologia. L'idea venne ripresa da uno scienziato tedesco, un
anatomopatologo, Rudolf Wirchow, dopo che era stata formulata la teoria della
cellula da parte di un botanico, Mathias Jacob Schleiden (1804-1881), il quale
affermò che i tessuti vegetali erano formati da cellule. Questo fu ripreso da un grande
istologo: Theodor Schwann (1810-1882) . Egli dimostrò (1839) questa teoria negli
animali: la teoria cellulare (1839).
Rudolf Virchow (1821-1902) nel 1859 portò l'attenzione sul fatto che le lesioni delle
malattie si potevano riscontrare a livello cellulare e quindi pubblicò il suo famoso
trattato "La patologia cellulare". Fu fondatore dell'istopatologia, ancor oggi base della
diagnostica, coniò il termine di leucemia e la descrisse, fu un grande antropologo.
Virchow, infatti , fu colui che dimostrò che nell'uomo non esistevano delle razze,
tanto è vero che Hitler non gli perdonò mai il fatto di aver negato l'esistenza di una
razza tedesca. Fu anche un uomo politico di sinistra e si impegnò per migliorare le
condizioni igieniche dei minatori. Tuttavia prese anche dei "granchi": non credeva alla
dottrina del contagio attraverso i germi formulata da Pasteur.
Altre scoperte importanti furono la teoria dell'evoluzione di Charles Darwin (18091882) e le leggi della genetica individuate verso il 1870 da Gregor Mendel (18221884) e riscoperte trentanni dopo da Hugo deVries (1848-1935). Queste ultime leggi
furono inizialmente ignorate e poi riscoperte dopo trent'anni. Un'altra conseguenza
della teoria cellulare fu l'uso dei coloranti per dimostrare le lesioni che Virchow era
riuscito a dimostrare solo in parte perchè aveva a disposizione solo il carminio. Poco
dopo vennero introdotti altri coloranti come l'ematossilina-eosina e vennero affinate le
tecniche di preparazione dei tessuti: microtomia, inclusioni in paraffina, ecc.
C'erano però dei grossi problemi per quanto riguardava il sistema nervoso, che era
quasi impossibile da studiare, perché con i metodi in uso si vedeva solo il nucleo,
una parte del citoplasma, ma non i prolungamenti cellulari, per cui non si riusciva ad
avere un'idea della neuroanatomia.
Il metodo per studiare il sistema nervoso (reazione nera) fu messo a punto da
Camillo Golgi (1843-1926): grazie a questa metodica si mettevano in evidenza i
prolungamenti cellulari (il metodo di Golgi utilizza l'argento ed è detto reazione nera).
Un emulo di Golgi, Santiago Ramon y Cajal (1852-1934) mettendo insieme nozioni
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quali il concetto di neuroni come entità cellulari indipendenti, formulato da Vilhelm
His (1831-1904) e poi da Charles Scott Sherrington (1857-1952), il concetto di
neurite come prolungamento cellulifugo e quello di dendrite come prolungamento
cellulipeto, riuscì guardando, le cellule della retina, a mettere insieme le prime vie
nervose su base morfologica.
In seguito si è visto che il senso della corrente dipende dalla natura della sinapsi, non
dalla sua posizione. Osservando preparati d'argento con il microscopio, sembra di
vedere una rete. Perciò Golgi sosteneva che i neuroni non erano entità separate ma
connesse ad una rete nervosa. Cajal estrapolò il concetto di cellula, come unità
indipendente, ai neuroni e fu colui che diede dei contributi formidabili alla
neuroanatomia. Cajal era spagnolo, ma la Spagna in quel periodo era silente dal
punta di vista scientifico, Golgi era di Pavia, città, fino al 1860, sotto il dominio
austriaco; ciò permise che tutte le scoperte italiane venissero diffuse in Europa
centrale e tradotte in lingua tedesca. Al termine del dominio austriaco l'Italia ridiventò
un paese provinciale e la scoperta di Golgi venne poco recepita all'estero. Cajal,
invece, diffuse le sue scoperte andando ai congressi e parlando e scrivendo in
francese e tedesco.
Nel 1906 ebbero insieme il premio Nobel. Golgi diede, inoltre, notevoli contributi a
studi di patologia sulla malaria; mise in relazione la comparsa della febbre con la
fuoriuscita del parassita nel sangue.
Sul contagio delle malattie non vi erano stati molti progressi: c'era una elevata
mortalità fra le donne che partorivano nelle divisioni ospedaliere frequentate dai
medici e dagli studenti, mortalità che risultava più bassa fra quelle che lo facevano a
casa o nelle divisioni tenute da infermiere ostetriche. L'aiuto ostetrico di una clinica
viennese, Ignac Fulop Semmelweiss (1818-1865), fu colpito da tale fenomeno e
pensò che probabilmente erano responsabili i medici e gli studenti di medicina che
palpavano senza guanti nelle parti intime le donne, passando da una malata all'altra.
Oltretutto l'igiene era scarsa anche all'interno dell'ospedale, dove le lenzuola si
cambiavano una volta al mese. Semmelweiss obbligò medici e studenti a lavarsi le
mani tra una visita e l'altra con il cloruro di calcio: fu comunque un uomo dal carattere
difficile, fu perseguitato psicologicamente tanto che fu costretto ad andarsene a
Budapest. Ebbe problemi mentali e per questo fu ricoverato in una clinica
psichiatrica. Quando si diffuse la pratica di igiene ospedaliera, si resero conto che
aveva ragione. All'inizio della seconda metà del 1800 erano completamente
sconosciuto il concetto di contagio: si operava a mani nude ignorando cosa fossero
le cognizioni igieniche Questa situazione ebbe fine grazie a Louis Pasteur (18221895). Fu un chimico organico incaricato dal governo francese di studiare i
meccanismi di fermentazione che permettevano la produzione del vino e della birra e
si rese conto che essi erano dovuti all'azione di microrganismi detti saccaromiceti.
Mise anche a punto un processo per la conservazione degli alimenti col calore: la
"pastorizzazione" usato ancora oggi. Fu anche incaricato di appurare o meno da
veridicità sulla generazione spontanea. Sulla base delle scoperte di Spallanzani e
Bassi, arrivò alla conclusione che esistevano i batteri, che erano germi responsabili
di malattie. Verso i quarant'anni ebbe un ictus, ma ciò non gli impedì di continuare a
fare importanti scoperte. Trovò inoltre il modo di attenuare i germi attraverso
trattamenti opportuni, e mise a punto sieri e vaccini (termine da lui coniato in onore di
Jenner) importantissimi come il il vaccino per immunizzare gli animali contro il
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carbonchio ed il siero e il vaccino antirabbico. Quest'ultima scoperta entusiasmò il
mondo intero quando Pasteur vaccinò con successo il pastorello Meister, morso da
un cane, e diversi contadini russi, invatigli dallo Czar.
Altro grande microbiologo fu Robert Koch (1843-1910), premio Nobel 1905, a cui la
moglie per il trentesimo compleanno regalò un microscopio. Fu autore dei famosi
postulati di Koch, secondo cui quando si scopre una malattia il germe responsabile
va isolato, coltivato in vitro, reinserito nell'animale per dare nuovamente la malattia e
di nuovo isolato. Nel 1882 scoprì il bacillo responsabile della tubercolosi e pensò di
aver scoperto anche la terapia grazie alla tubercolina: purtroppo fu un tragico errore
perché tale sostanza ha solo valore diagnostico e non terapeutico. Nel 1884 scoprì il
bacillo del colera, descritto però vent'anni prima da Filippo Pacini, ispirato da
Agostino Bassi.
L'articolo di Pasteur sulla teoria della generazione spontanea finì tra le mani di un
chimico inglese che lo fece vedere al chirurgo Joseph Lister (1827-1912) , operante
ad Edimburgo, che fu impressionato da tale ipotesi (i germi erano i responsabili
dell'infezione) c .Ispirandosi al fatto che per bonificare le fogne di una cittadina
inglese era stato usato il fenolo, nebulizzò tale sostanza sul tavolo operatorio durante
l'intero intervento chirurgico, ottenendo una drastica riduzione dei decessi per sepsi
della ferita. Tale processo venne chiamato antisepsi. Più tardi si capì che la
sterilizzazione preventiva (asepsi) introdotta da Ernst von Bergmann (1836-1907),
chirurgo tedesco, era più pratica ed efficace dell'antisepsi. L'uso dei guanti in gomma
fu introdotto dal chirurgo americano William Halstead (1852-1922).
La teoria dei germi, basata sugli studi di Pasteur, Koch, Emil von Behring (18541917), Shibasaburo Kitasato (1852-1931), Almroth Edward Wright (1861-1941) e
molti altri, ebbe, almeno nel mondo occidentale, un influenza grandissima anche
sulla vita di tutti i giorni e, persino, sulla economia. Fu la paura dei germi a far sì che
le donne smettessero l'uso delle sottovesti multiple e delle gonne lunghe tipiche
dell'età vittoriana e che gli uomini si radessero il viso. Un'altra conseguenza fu la
nascita della moderna industria degli apparecchi igienico-sanitari, dei disinfettanti per
le case e quella degli accessori usa e getta: carta igienica, assorbenti, bicchieri e
fazzoletti di carta, etc.
Secoli XIX-XX. Le specializzazioni. La malaria. I Chemioterapici. Gli Antibiotici. Le
ultime scoperte. Giuseppe Brotzu e la Cefalosporina.
Alla fine dell'800 la chirurgia aveva ormai fatto passi da gigante, infatti si avevano le
conoscenze anatomiche, veniva effettuata l'anestesia, c'era il concetto di asepsi,
però mancava ancora una componente importante: la monitorizzazione delle
condizioni del paziente durante l'intervento chirurgico. Infatti quando il chirurgo
operava un paziente sotto anestesia non si accorgeva se esso stava per morire o
meno.
Colui che inventò l'apparecchio per monitorare il paziente fu Scipione Riva-Rocci
(1863-1937) (allievo di Carlo Forlanini, 1847-1918), che nel 1896, utilizzando
semplici oggetti (un calamaio, del mercurio, un tubo di biciclette), mise a punto un
apparecchio che, per le sue piccole dimensioni, poteva entrare in sala operatoria o
nelle guardie mediche; infatti, erano già stati inventati degli strumenti che misuravano
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la pressione sanguigna, ma erano molto ingombranti e difficili da usare. L'uso dello
sfigmomanometro fu poi perfezionato utilizzando l'auscultazione dei toni cardiaci
scoperti dal russo Nicolaj Sergievich Korotkov (1874-1920) : fu così possibile
misurare anche la pressione arteriosa minima. Lo sfigmomanometro di Riva-Rocci
incuriosì Harvey Cushing (1869-1939), famoso neurochirurgo americano, che venne
in Italia appositamente per vederlo e poterlo introdurre nelle sale operatorie. Cushing
portò lo sfigmomanometro in America e da lì si diffuse in tutto il mondo; chiaramente
fu poi perfezionato.
In quel periodo (fine '800) l'umanità era flagellata da diverse malattie infettive, tra
queste la Febbre Gialla, la Malaria e altre. A proposito della Malaria dobbiamo
ricordare che in Sardegna la popolazione risultava più resistente nei confronti di
questa patologia, perché vi era una grossa percentuale di portatori della tara
eritrocitemica, per cui il Plasmodio non trovava un ambiente adatto alla sua crescita
negli eritrociti alterati. Invece i colonizzatori non erano protetti e venivano decimati
dalla Malaria; per questo motivo solo pochi gruppi riuscirono ad impiantarsi in
Sardegna: carlofortini, Greci e ad abitanti del delta del Po (tutti provenienti da zone di
endemia malarica, e in cui era diffusa la tara eritrocitemica).
Un allievo di Pasteur, Alphonse Laveran (1945-1922), scoprì l'agente eziologico
della malaria cui diede il nome di "oscillatorium malariae" (fu poi chiamato
"Plasmodio" dai due malariologi italiani Ettore Marchiafava, 1847-1935, e Angelo
Celli, 1857-1914). Walter Reed (1851-1902) invece, scoprì il ruolo di una zanzara
nella trasmissione della febbre gialla, mentre Ronald Ross (1857-1932), dimostrò il
ciclo della malaria negli uccelli. In realtà chi diede il contributo più importante per
capire il ciclo biologico del Plasmodio nell'uomo fu Giovanni Battista Grassi (18541925), che identificò il vettore nelle zanzare del genere Anopheles; per motivi politici,
tuttavia, il Nobel fu assegnato a Ross.
In Sardegna la malaria fu debellata solo nel 1950 dalla Fondazione Rockfeller
dopo una massiccia campagna di bonifica del territorio con l'insetticida DDT, che
impegnò 30.000 uomini e durò 4 anni. Il quartiere generale dell'operazione era
situato a Cagliari presso le scuole Riva di piazza Garibaldi.
Tra le altre malattie dell'epoca ricordiamo:
- La Pellagra: sebbene non fosse ancora stata scoperta l'esistenza delle vitamine si
cominciava a capire che alla base di questa malattia descritta da Francesco Frapolli
nel 1771 e molto diffusa nella pianura lombardo-veneta, c'era un qualche fattore
collegato con la monodieta a base di mais. La malattia, che dava gravi complicazioni
a carico del sistema nervoso, venne debellata quando si introdusse un'alimentazione
variata, contenente le vitamine necessarie.
"L'Anemia dei minatori": questa malattia (chiamata anche anemia del Gottardo)
colpì molti lavoratori impegnati nella costruzione di grandi opere pubbliche di fine
secolo (per esempio il Traforo del San Bernardo). Essa è dovuta ad un parassita
ematofago del genere Anchylostoma (scoperto da Angelo Dubini, 1813-1902) che si
sviliuppa negli ambienti caldo umidi e penetra nell'organismo attraverso la cute dei
piedi di soggetti scalzi. La malattia era molto diffusa anche nel Sud degli USA dove
veniva chiamata "malattia del verme uncino".
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Nel 1895 il fisico tedesco Wilhelm Konrad Roentgen (1845-1913) scoprì
casualmente che i raggi emanati da un tubo catodico potevano attraversare lo
scheletro e impressionare una lastra fotografica: in questo modo nasce la radiologia
(la prima radiografia da lui fatta della mano della moglie, fece il giro del mondo).
Naturalmente l'uso smodato dei raggi X senza nessuna protezione ebbe gravi
conseguenze nei medici che li adoperarono senza conoscerne gli effetti lesivi (i
radiologi morirono di radiodermite o di tumore). Un grande progresso nella
radiografia si ottenne successivamente grazie all'americano Walter Canon (18711945) che introdusse l'uso dei mezzi di contrasto che permettevano di visualizzare
organi altrimenti invisibili. Poi, gradualmente, vennero messe a punto nuove tecniche
come l'ecografia (che utilizza gli ultrasuoni) cui seguirono la TAC e la Risonanza
magnetica.
Un'altra grande scoperta all'inizio del secolo, importante per la medicina e la
chirurgia, fu la scoperta dei gruppi sanguigni ad opera del medico austriaco Karl
Landsteiner (1868-1943). Grazie a questi si capì finalmente il meccanismo che
rendeva incompatibile il sangue di soggetti diversi.
Agli inizi del '900 furono fatte grandi scoperte anche in campo batteriologico: fu
identificato il bacillo della difterite, furono scoperti diversi vaccini. Fu anche
identificato - nel 1905 - dal tedesco Fritz Richard Schaudinn (1871-1906) il
Treponerna Pallidum, agente eziologico della sifilide, malattia allora diffusissima; e
questa fu una scoperta epocale. Alcuni anni dopo (1910) un bravissimo batteriologo,
Paul Ehrlich (1854-1915), mise a punto per la prima volta un farmaco di sintesi
(chemioterapico) capace di aggredire un germe: appunto il germe della sifilide. Egli si
era reso conto che certi coloranti si legavano ai batteri, per cui pensò di trovare
qualche sostanza che si legasse ai batteri e li uccidesse. Provò 606 composti e
proprio l'ultimo di questi, a base di arsenico, si dimostrò efficace: lo chiamò
Salvarsan. Essendo tossico fu poi sostituito dal Neosalvarsan, meno tossico.
Nel frattempo entrano nella scena scientifica le donne, per esempio:
- il fisico Marie Curie (1867-1934) che vinse due premi Nobel, uno per la fisica e
l'altro per la chimica per le sue scoperte sulle radiazioni che vennero subito applicate
per
la
cura
dei
tumori;
- Gerthy Theresa Cori (1896-1984), biochimico, rumena, che studiò il ciclo dei
pentoso
fostati;
- Helen Taussig (1898-1986); che studiò le malformazioni cardiache e indicò quali
dovessero essere i trattamenti chirurgici da effettuare sui bambini affetti dal morbo
blu (tetralogia di Fallot). Tra l'altro, intorno agli anni '50, il governo americano le diede
l'incarico di scoprire la causa delle malformazioni congenite che colpivano un gran
numero di bambini. La Taussig scoprì che alla base di tutto c'era il Talidomide, un
sonnifero che le madri usavano durante la gravidanza
Donne laureate in Filosofia:
- Elena Cornaro Piscopio, Padova 1678;
- Laura Bassi, Bologna 1732, che fu anche la prima cattedratica di una disciplina
scientifica (Fisica Sperimentale: Bologna, 1776)
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Donne laureate in Medicina nel mondo:
- Elizabeth Backwell, New York 1849
Donne laureate in Medicina in Italia:
- Ernestina Paper, Firenze 1877 (originaria di Odessa). Primo anno a Zurigo (dove
la prima donna medico si laurea nel 1867)
- Maria Valleda Farnè, Torino 1878
- Anna Kuliscioff, Napoli,1887
- Maria Montessori, Roma 1894.
In Sardegna:
- Adelasia Cocco in Floris, Sassari 1913,
- Caterina Lombardi di Bosa, Cagliari 1925 , pediatra.
Agli inizi del '900, alla luce di nuove scoperte, fiorirono molte scienze tra le quali la
vitaminologia e soprattutto l'endocrinologia, il cui fondatore fu Charles Edward
Brown Sequard (1817-1894). La scoperta più importante in questo campo fu
effettuata intorno agli anni venti a Toronto da Charles Herbert Best (1899-1978),
Frederick Grant Banting (1891-1941) e John James R. Mac Leod (1876-1935) (gli
ultimi due furono per questo insigniti del premio Nobel - 1923);essi scoprirono che il
diabete, malattia diffusa e in quel tempo mortale, si poteva curare con l'insulina,
ormone prodotto dal pancreas e da questo estraibile.
Qualche anno più tardi e precisamente nel 1935, Gerhard Domagk (1895-1964)
allievo di Erhlich, partendo da un derivato della anilina scoprì il prontosil-rubro,
precursore di una classe di chemioterapici: i sulfamidici.
Queste scoperte erano veramente importanti perché allora le malattie infettive
decimavano la popolazione, tant'è che le aspettative di vita si aggiravano intorno ai
40 anni. Da qui l'importanza dei sulfamidici che, sebbene un po' tossici, furono subito
prodotti su larga scala, anche perché la molecola di base, l'anilina, era un brevetto
internazionale per cui la sua produzione non divenne un monopolio.
Riguardo a quest'argomento dobbiamo dire che, qualche tempo dopo, un gruppo di
scienziati dell'Istituto Pasteur di Parigi tra cui Federico Nitti (1905-1947) e Daniel
Bovet ( 1907-1992), scoprirono il motivo per il quale i sulfamidici funzionavano in
vivo e non in vitro (in coltura): per essere attivi infatti era necessario che una parte
della molecola venisse sequestrata quando il farmaco entrava nell'organismo. Daniel
Bovet, che fu poi professore di farmacologia all' università di Sassari ottenne (1957) il
premio Nobel per gli studi sugli antistaminici.
Nel frattempo, nel 1928, era stato scoperto il primo antibiotico: la penicillina. Il
batteriologo Alexander Fleming (1881-1955) notò che in una piastra che aveva
lasciato vicino alla finestra, si erano formate delle aree di inibizione in cui i germi non
erano cresciuti. Pensò che ci potesse essere un qualcosa che aveva bloccato la
crescita dei microrganismi, chiese quindi ad un collega di analizzare quella piastra e
questi vi trovò un fungo; però nella prima analisi sbagliò e, invece del "Penicillum
Notatum" (che effettivamente aveva un potere inibente sulla crescita dei batteri)
identificò un altro Penicillum, non efficace. Fleming si accorse dell'errore e pubblicò il
lavoro sul Penicillum Notatum, che però rimase come una sorta di cura biologica
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tant'è che in quel periodo l'estratto di Penicillun veniva usato solo per pulire le colture
di batteri, non come farmaco.
Quando durante la Seconda Guerra Mondiale, fu necessario un farmaco utile per
combattere almeno una parte delle numerose infezioni, fu dato l'incarico a Fleming,
ad un chimico ebreo di origine tedesca Ernst Boris Chain (1906-1979), ed ad un
medico australiano Howard Walter Florey (1898-1968), di far sì che quella sostanza
diventasse un farmaco. Vennero impiegati allo scopo ingenti capitali ed al più presto
si iniziò a produrre, in America, su larga scala, la Penici1lina (1941). Divenne però un
monopolio degli alleati, per cui per averla, in Italia; si doveva pagarla "oro" al mercato
nero.
Dopo la Penicillina fu scoperto (1944) da Selman Abraham Wacksman (1888-1973)
un altro antibiotico: la Streptomicina; questo farmaco risultò efficace contro il
Micobatterio tubercolare e anche se tossico è ancora oggi usato.
Questi sono anni di grandi progressi per la medicina:
All'epoca in cui nacque i contraccettivi erano considerati un crimine in tutto il mondo.
Margaret Sanger ( 1879-1966), sesta figlia in una famiglia cattolica di immmigrati
irlandesi residente a Corning (New York), all'età di 19 anni, vide la madre,
cinquantenne, morire di tubercolosi dopo 11 parti e sette aborti. Diventata infermiera,
dedicò la sua vita a rendere legali le pratiche anticoncezionali e a renderle disponibili
a tutte le donne. Nel 1914 coniò il termine: "controllo delle nascite" e cominciò subito
a fornire alle donne informazioni sugli anticoncezional allora disponibili. Dopo diversi
arresti e numerose condanne fondò la Lega Americana per il Controllo delle Nascite
e spese i restanti trent'anni della sua vita nel tentativo di rendere disponibile un
contraccettivo efficace e sicuro. All'inizio degli anni 50, tuttavia, malgrado le
numerose battaglie vinte, Ella non era affatto soddisfatta degli anticoncezionali allora
disponibili. Infatti dal 1842, anno in cui in Europa fu inventato il diaframmma e dal
1869, anno dell'introduzione del primo preservativo in gomma, non vi erano stati
ulteriori progressi. Era dal 1912 che Margareth Sanger sognava la "pillola magica" in
grado di assicurare alle donne una contraccezione economica e sicura. La sua
ricerca ebbe termine quando, nel 1951, incontrò Gregory Goodwin Pincus (19031967) un medico esperto in riproduzione umana che era stato appena espulso
dall'Università di Harward per aver pubblicato un libro sula fertilizzazione in vitro di
uova di coniglio. Pincus, che era assai interessato al progetto dela Sanger e voglioso
di metterlo in atto, era alla ricerca di fondi per poterlo realizzare. Poco dopo, la
Sanger gli trovò una finanziatrice nella sua ricca amica Katharine McCormick
(1875-1967), una delle prime donne al mondo, in possesso di una laurea in
ingegneria. Nella sintesi degli ormoni , Pincus fu aiutato dai chimici Russell Marker
and Carl Djerassi, mentre la sperimentazione clinica fu condotta, nell'isola di
Portorico, dal medico cattolico John Rock (1890-1984). La loro collaborazione portò,
nel 1960, alla realizzazione dell'Enovid, il primo contraccettivo orale. In Italia il
controllo delle nascite venne legalizzato solo nel 1971.
Georges Papanicolau (1883-1962) mise a punto un mezzo per la raccolta e la
colorazione degli strisci vaginali (il Pap-test); grazie a lui la prevenzione dei tumori
della cervice uterina fecero "passi da gigante".
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Gregory Pinkus (1903-1967) sperimentò la "pillola", il contraccettivo orale, che oltre
agli indubbi benefici portò, del resto, alla liberalizzazione dei costumi sessuali.
Scoperta dell'Anemia Drepanocitica (prima malattia molecolare), dovuta alla
mutazione di una a.a. nella catena proteica delle Hb (Linus Carl Pauling, 19011994).
Scoperta del modello a doppia elica del DNA (James Dewey Watson (1928-2004) e
Francis Harry C. Crick 1916-1953). Altra importantissima scoperta fu quella dei
mediatori chimici (Julius Axerold, Ulf Svante von Euler, e Bernard Katz).
Negli anni '60 si inizio anche a parlare di trapianti d'organo. Il pioniere di questi
interventi (ai primi del 900) fu uno scienziato francese, trapiantato in America, Alexis
Carre1 (1873-1944) che riuscì a mantenere vive in piastra cellule umane e poi provò
ad effettuare trapianti sugli animali. Il primo trapianto vero e proprio di cuore fu
eseguito in Sudafrica nel 1967 da Christian Barnard (1922-2001) (trapianto di
cuore); i primi da lui effettuati fallirono perché mancava la Ciclosporina (che fu
introdotta verso il 1983): si tratta di un farmaco che inducendo immunosoppressione
impedisce il rigetto (cioè l'aggressione dell'organo "nuovo" da parte del sistema
immunitario del ricevente) per cui quei soggetti sopravvissero solo per poco tempo
dopo l'intervento.
In Italia il trapianto di cuore fu effettuato nel 1985 a Padova da Vincenzo Gallucci
(1935-1991 ; il secondo a Pavia, nello stesso mese e nello stesso anno, da Mario
Viganò che fece anche il primo trapianto riuscito di cuore-polmone ed il primo
impianto di cuore artificiale permanente.
Il primo trapianto di fegato, fu eseguito nel 1967 in Colorado e nel 1982 in Italia da
Raffaello Cortesini. Inoltre è merito di una studiosa italiana Rita Levi Montalcini la
scoperta del Nerve Growth Factor, importante fattore di crescita implicato tra l'altro
nella prevenzione di certe malattie come l'Alzheimer; questa scoperta le permise di
vincere il premio Nobel per la medicina.
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FILOSOFIA MORALE
La questione antropologica
Sull’idea di natura umana, piatto ghiotto per il filosofo, s’addensano innumerevoli
dibattiti, resi ancor più delicati dall’interrogativo su che cosa essa significhi e se sia
possibile cambiare la natura umana. Intervenendo sull’uomo in maniera influente ma
per molti aspetti ancora ignota quanto agli esiti e alle conseguenze, le biotecnologie
postulano un’adeguata conoscenza di chi sia l’uomo e di che cosa egli abbia
soprattutto bisogno.
Ma
proprio questo essenziale elemento è divenuto
problematico, anzi particolarmente arduo da inquadrare. La più alta e complessa
controversia, da gran tempo in corso e che accende gli animi ovunque, è appunto la
controversia sull’ humanum. Sembra che quanto più le scienze cercano di stringere
da presso la conoscenza dell’uomo, tanto più questa si divincoli e sfugga alla presa
dei saperi scientifico-analitici, lasciando dietro di sé interrogativi e tensioni. Il crocevia
dove scienza-tecnica e persona si incontrano è divenuto un incrocio problematico,
nel quale le scienze cercano di trasmettere una nuova comprensione dell’umano.
La sfida si era già dispiegata dinanzi all’occhio scrutatore di Pascal. “Avevo
trascorso gran tempo nello studio delle scienze astratte, ma la scarsa comunicazione
che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando cominciai lo
studio dell’uomo, capii che quelle scienze astratte non si addicono all’uomo, e che mi
sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondirne lo studio, che gli altri con
l’ignorarle. Ho perdonato agli altri di saperne poco, ma credevo almeno di trovare
molti compagni nello studio dell’uomo. Sbagliavo: son meno ancora di quelli che
studiano le matematiche” (1). Sembrerebbe che la situazione contemporanea
falsifichi l’assunto pascaliano, tante sono oggi le discipline e le scienze che si
occupano dell’uomo. Ad una considerazione un poco più attenta risulta però che, a
fronte di una grande varietà di saperi che si rivolgono ad aspetti dell’uomo – in
particolare al corpo – si trova un grande vuoto quando si cerchi una considerazione
interale dell’uomo. Nell’epoca dell’essor delle scienze umane di ogni tipo diventa
ancor più vero dire che l’uomo è un essere sconosciuto che deve sempre e
nuovamente venire riscoperto come ai tempi di Pascal. Questi propone l’impegnativa
domanda antropologica pochi anni dopo l’infausta separazione cartesiana fra
pensiero/mente e corpo/estensione, secondo cui l’io risiede nel pensiero e il corpo –
affidato alla contingenza e all’inessenziale – è pronto per essere attribuito alla regia
della scienza e a entrare nell’area del dominio tecnico. Il presupposto di non poche
utilizzazioni recenti delle scoperte genetiche e biologiche può venire individuato con
sicurezza nel dualismo cartesiano, molto comodo e altrettanto improbabile, e verso la
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
cui riproposizione occorre mantenere un’alta vigilanza intellettuale. La semplicistica
divisione dei compiti fra scienza e filosofia – alla scienza la res extensa e alla filosofia
il pensiero – è diventata un ostacolo al sapere, in specie a quello vertente sulla vita
che si rifiuta nella maniera più totale a essere ridotta a mera estensione.
Intanto un nuovo naturalismo è in cammino. Dal lato degli orientamenti della cultura
occorre infatti considerare che la koiné naturalistica sta sostituendo nella cultura la
koiné ermeneutica, rimasta in auge alquanto a lungo. Di questa tendenza è segno
grande il tentativo di pervenire ad un’integrale naturalizzazione della mente/anima
come parte di un processo indirizzato all’integrale naturalizzazione dell’uomo: l’uomo
dunque risolto nella vita della physis, nel suo divenire evolutivo e cieco. Sembra
crescente la persuasione che la concezione scientifica del mondo porterà
necessariamente ad un paradigma antropologico apertamente naturalistico. Il
progetto che fa da sfondo a varie espressioni della scienza e della filosofia attuale
consiste nel riportare tutto l’uomo a res naturalis vitalis, cancellando in lui la res
cogitans come fenomeno irriducibile al biologico. L’anima come ‘spettro nella
macchina’ sarebbe solo il cattivo frutto nato da un dogma, la res cogitans cartesiana.
In realtà non vi sarebbe alcuno ‘spettro nella macchina’ da cercare, nessuna anima
come entità a sé da studiare, perché la psiche e i fatti psichici si riconducono soltanto
a fisica. In questa linea viene a conclusione contraddittoria – grandiosa eterogenesi
dei fini – l’aspirazione di Nietzsche a preparare l’avvento dell’oltreuomo
(Ubermensch): quell’aspirazione non si è minimamente realizzata e ha dato invece
l’avvio al suo contrario, alla diminuzione dell’uomo, alla produzione del sottouomo.
Non dobbiamo sottovalutare il rischio che un esteso naturalismo antropologico
conduca infine a un deciso nichilismo sull’uomo: l’uomo ridotto, l’uomo come
“null’altro che”, infine l’uomo come prodotto casuale dell’evoluzione quale ultima
parola dell’evoluzionismo nichilistico. Intanto si può sostenere che il naturalismo
evoluzionistico rifiuta l’idea di essenza/natura come qualcosa di stabile e di ‘eterno’,
spingendo così la filosofia a recuperare questo concetto.
Larga parte della discussione morale e antropologica contemporanea scaturisce
dagli sviluppi incalzanti delle scienze della vita e delle neuroscienze: stiamo
assistendo ad una vera rivoluzione che concerne le sorgenti della vita e che
potremmo chiamare rivoluzione del genoma e del DNA. Essa rimette in discussione
le nozioni di identità (chi siamo come uomini? Chi sono io?), di rispetto della persona,
di responsabilità verso se stessi e gli altri, che costituiscono la base della civiltà.
Negli ultimi lustri si è imposta all’attenzione la ‘questione antropologica’, ormai
prepotentemente affiancatasi alle classiche grandi questioni pubbliche che prendono
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
da tempo il nome di ‘questione istituzionale democratica’ e ‘questione sociale’, le
quali hanno dato almeno in Occidente il tono a due secoli di storia.
Rispetto a queste problematiche la questione antropologica presenta caratteri più
radicali ed appare destinata a diventare sempre più pervasiva. L’uomo è messo in
questione tanto nella sua base biologica e corporea quanto nella coscienza che
forma di se stesso. E ciò non soltanto astrattamente, ma praticamente, perché le
nuove tecnologie incidono sul soggetto, lo trasformano, tendono ad operare un
mutamento nel modo di intendere nozioni centrali dell’esperienza di ognuno: essere
generato oppure prodotto, nascere, vivere, procreare, cercare la salute, invecchiare,
ecc. Se è vero che la più gelosa questione sollevata dalle bioscienze è quella
antropologica, il nome finora universalmente impiegato di bioetica per denominare la
riflessione sui temi di cui sopra, appare inappropriato perché tende a velare che
buona parte degli interrogativi detti bioetici sono in realtà problemi non di morale ma
di antropologia (e spesso anche di ontologia).
Ora tanto le scienze della vita che trovano un punto di elezione nella genetica e nella
biologia molecolare, quanto le neuroscienze sono nuclei meritevoli di particolare
attenzione per i problemi antropologici che sgorgano dai due ambiti. Nel primo caso
è in gioco la possibilità di pervenire, manipolando il genoma umano, ad una nuova
forma dell’umano (l’espressione è volutamente indeterminata perché siamo alle
prese con reali dubbi sulle possibilità e gli esiti delle manipolazioni genetiche),
nell’altro emergono i problemi del funzionamento del cervello, dell’intelligenza
artificiale, del rapporto fra mente e cervello (identità, differenza?) e quello non meno
cruciale dell’anima e della psiche. Se in questo scritto ci dedicheremo al primo
aspetto ciò è dovuto al fatto che mentre il dibattito sulle neuroscienze è da tempo
avviato, quello sulla natura umana e la genetica appare più decisivo e forse meno
avanzato.
L’indirizzo generale metodico sarà di comprendere quanto sta accadendo, evitando
l’atteggiamento della paura come quello dell’entusiasmo: neque lugere, neque ridere
sed intelligere. Per comprendere occorre aggiungere che il discorso sulle
biotecnologie chiama in causa i saperi, l’antropologia, in specie la filosofia. Quanto
più avanza la scienza, tanto più indispensabile diventa la filosofia, oggi in specie una
filosofia che si allontani dallo spensierato orientamento antiessenzialistico che
predomina alla grande in filosofia e nelle scienze, sul quale osserva Jonas:
“L’antiessenzialismo della teoria dominante che conosce solo i risultati de facto della
casualità evoluzionistica e non conosce alcuna essenza valida, che li possa
sanzionare, affida il nostro essere a una libertà senza norme” (2). Il rifiuto apriorico
delle essenze, equiparate a un suono (flatus vocis) senz’altro significato, è
atteggiamento diffuso, mentre l’antiessenzialismo altro non è che una forma di
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
nichilismo. Abbiamo perciò estremo bisogno di un rinnovato sapere sulla natura
dell’uomo e sul suo posto nell’universo. Non si tratta di svolgere un discorso
primariamente religioso, sebbene anche la religione possa intervenire nell’ambito
biotecnologico e antropologico con le sue prospettive. L’approccio alla ‘bioetica’
tramite l’idea di natura umana appare ‘laico’, se vogliamo far ricorso a questo
aggettivo alquanto usurato e polisenso almeno nel contesto culturale italiano: laico
dovrebbe significare razionale, fondato sulla cosa stessa, ontologico.
Dopo aver scelto il titolo della mia relazione, mi sono reso conto che col riferimento
alla natura umana esso richiama quello di due notevoli saggi recenti di J. Habermas
e di F. Fukuyama. Il titolo del primo suona: Il futuro della natura umana e l’altro
“L’uomo al di là dell’uomo” (traduzione dell’originale inglese: Our posthuman future).
L’evento conferma che nelle tecnologie della vita è in gioco il significato stesso di
uomo e di natura umana, qualcosa che concerne l’autocomprensione del genere,
l’antropologia prima ancora che l’etica. Gli esiti collegati non potranno non esercitare
un profondo e per ora poco prevedibile influsso sulla politica: è possibile che le
conseguenze dell’impiego delle biotecnologie siano ben superiori a quelle accadute
col crollo del muro di Berlino.
Negli approcci di Habermas e Fukuyama, nati in contesti culturali diversi e avendo
alle spalle prospettive filosofiche e antropologiche forse lontane, la domanda
centrale suona all’incirca: il concetto di natura umana che si ritiene rilevante tollera o
meno che l’uomo sia costruibile e dunque manipolabile entro confini volta a volta
determinati? Tale questione ne introduce un’altra che non sempre emerge in maniera
diretta ma che influisce sull’intero dibattito: è possibile cambiare la natura umana?
Desidero attirare l’attenzione sul fatto che essa di per sé solleva una questione di
possibilità ontologica, non di liceità morale. La domanda, se è imposta dalle
applicazioni biotecnologiche all’ambito delicato e antropologicamente geloso
dell’embrione, della fecondazione extracorporea, dell’intervento sul genoma umano,
genera problemi di alta complessità per il cui schiarimento sembra impossibile non
ricorrere alla riflessione filosofica sull’uomo e al concetto di natura umana. Nell’ ‘800
si era ancora persuasi di ciò e di conseguenza il filosofo morale responsabile
componeva trattati di antropologia in ausilio della scienza morale e della politica. Con
l’ingresso del nichilismo speculativo, di cui costituisce una manifestazione l’essor del
pensiero debole, non si ritengono più possibili risposte filosofiche solide ai temi della
vita buona, della natura umana, di un’etica sostantiva e non soltanto procedurale e
formale (3). Un ‘debolista’ di classe quale è J. Habermas cerca da almeno vent’anni
di promuovere questa prospettiva che implica una diversa autocomprensione
dell’uomo e della filosofia: “Oggi, superata la metafisica, la filosofia non crede più in
risposte vincolanti sulle questioni della condotta di vita, personale e collettiva che sia”
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
(p. 5). La filosofia “si limita a indagare le caratteristiche formali dei processi di
autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti. Certo tutto questo può
sembrare deludente. Ma che obiezioni potremmo mai sollevare contro questa
astensione ben giustificata?” (p. 7).
Dinanzi a questa corriva rinuncia - cui curiosamente contravviene Habermas stesso
che di fatto nelle pagine successive difende posizioni sostantive - si fa più chiaro che
le questioni sollevate dalle biotecnologie richiedono di porre nuovamente la domanda
sulla natura umana, senza risparmiarci alcune necessarie spese intellettuali. La
riflessione scientifica e filosofica non sa però come farlo: anzi sussistono al presente
obiezioni così forti contro tale concetto che potrebbe forse convenire chiudere il
dossier e allontanarci in silenzio. E’ perciò ancor più significativo che Habermas e
Fukuyama lo richiamano in servizio, il primo già nel titolo: ma con quali modalità? Qui
le vie tendono a divergere; per rendercene conto è opportuno ripercorrerle in modo
succinto. Successivamente svolgeremo qualche spunto sulla natura umana,
adottando una riflessione ontologica sull’uomo, non un cammino di antropologia
filosofica.
I due approcci risultano notevolmente diversi. La riflessione ontologica è più sobria,
incisiva, capace di stabilire i limiti – molto vasti – entro cui si muove la complessità
dell’uomo, mentre l’antropologia filosofica è disciplina dallo statuto alquanto incerto e
ondivago. Socrate e i suoi molti successori erano interessati all’uomo, non
all’antropologia filosofica, ambito novecentesco che può esibire caratteri variabili dal
conservatorismo al progressismo, e che è spesso connesso a filosofie della storia
altrettanto diversificate. Di gran lunga precedente all’antropologia filosofica, la
riflessione ontologica sulla natura umana non nutre nostalgie dell’uno o dell’altro tipo.
Standosene alla ‘oggetto’ essa apre il significato di che cosa sia esser uomo e quali
siano le sue possibilità, quale sia l’umanità dell’uomo. Tenta di rispondere alla
domanda: che cosa fa dell’uomo un uomo? Quanto manca crudelmente alla bioetica
è proprio questa riflessione che - individuando nell’umano il “fondamentale” e lo
“storico” e percependo che le quasi illimitate manifestazioni storiche dell’umano sono
possibili solo entro i limiti di campo stabiliti dal fondamentale - può delineare i tratti
comuni e universali dell’uomo, ossia costanti antropologiche e inclinazioni umane
basali che fluiscono dalla natura umana e che stabiliscono il confine fra ciò che è
umano e quanto umano non è.
Habermas: un approccio etico per stabilire il futuro della natura umana
Qualificandosi come postmetafisico, il pensiero habermasiano adotta due esclusioni
coerentemente dichiarate: l’esclusione della trascendenza, la riluttanza a ricorrere ad
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
un concetto ontologico di natura umana. Qui ci occuperemo solo del secondo
aspetto. La bioetica postmetafisica ha percepito che i problemi detti bioetici sono
spesso più propriamente problemi antropologici, ma non ritiene percorribile la strada
di un approccio ontologico all’antropologia: piuttosto quello di un cammino etico,
significativo ma forse insufficiente per evitare che la scienza sia ritenuta l’unica forma
di conoscenza e che la natura umana sia sottoposta ad un continuo processo di
ridefinizione (4).
Esula dai miei scopi l’esposizione compiuta delle posizioni di Habermas: ci
concentreremo sui due casi, cui egli destina adeguato spazio, costituiti dalla diagnosi
di preimpianto sull’embrione e dagli interventi di modificazione del genoma. Essi
aprono scenari nuovi la cui rilevanza morale “oltrepassa ampiamente la sostanza
delle tradizionali questioni politiche” (p. 19), e richiede attenti e lenti processi di
rischiaramento normativo sottratti alle pressioni degli interessi e delle preferenze.
Questi viceversa pesano per l’autore in un’eugenetica liberale che “trascurando ogni
differenza fra interventi terapeutici e interventi migliorativi – rimette alle preferenze
individuali degli utenti del mercato il compito di definire gli obiettivi degli interventi
correttivi” (p. 22). Nel caso del test preimpianto sull’embrione l’autore chiede se sia
compatibile con la dignità della vita umana l’essere generato con riserva, cioè
giudicato degno di vita e di sviluppo, oppure no, in base agli esiti di una prova
genetica. Nel caso della manipolazione genetica si domanda se essa non tocchi la
stessa identità di genere, e non intacchi la distinzione fra ciò che è spontaneamente
cresciuto e ciò che è prodotto tecnicamente. Dalle due questioni emergono altre
fondamentali domande, ossia 1) se l'insieme di questi processi non cambi la nostra
comprensione etica del genere; 2) se la conoscenza ex post della programmazione
genetica del proprio patrimonio ereditario effettuata da altri non riduca gli spazi
creativi della propria autonomia individuale negando al soggetto di considerarsi
l’autore indiviso della propria vita, e comprometta le relazioni idealmente simmetriche
fra persone e libere e uguali.
“Stiamo chiedendoci se possiamo giustificare la tutela di predisposizioni genetiche
integre, non manipolate, facendo appello alla indisponibilità dei fondamenti biologici
della nostra identità personale. La tutela giuridica potrebbe trovare espressione in
una sorta di ‘diritto a un patrimonio genetico non compromesso da interventi
artificiali’. Un diritto che è già stato proposto dal Consiglio di Europa e che non
pregiudicherebbe affatto la liceità di una eugenetica negativa fondata in sede
terapeutica” (p. 29). Secondo l’autore l’ingegneria genetica potrebbe “modificare la
nostra autocomprensione di ‘esseri di genere’, nel senso che essa potrebbe
intaccare, assieme alle moderne concezioni del diritto e della morale, anche i non
aggirabili fondamenti normativi dell’integrazione sociale” (p. 29). Conseguentemente
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
egli fa appello all’indisponibilità dei fondamenti biologici della nostra identità
personale. Perciò la strumentalizzazione della vita embrionale - quale emerge
nell’idea che il nuovo concepito è generato con riserva e ammesso alla vita dopo un
test genetico – “mette a rischio quella autocomprensione etica del genere che è
discriminante per poter decidere, anche rispetto al futuro, se noi vogliamo continuare
a intenderci come esseri che agiscono e giudicano in termini morali” (p. 71).
In genere un grave problema soggiacente è se sia lecito cambiare il mix finora
vigente di naturale e di volontario, spostando il confine fra caso e decisione; e di
rischiare nel test preimpianto, “la strumentalizzazione di una vita umana – generata
con riserva – rispetto alle preferenze e agli orientamenti di valore nutriti da terzi” (p.
33). Ciò violerebbe per Habermas l’obbligo reciproco che gli uomini come membri di
una comunità morale si danno vicendevolmente, obbligandosi l’un l’altro e
accettando una simmetria di relazioni. In altre parole gli esseri umani non sono
individualizzati solo dalle sequenze del DNA ma pure dal processo di
socializzazione: “Solo nella sfera pubblica di una comunità linguistica, l’essere di
natura si costituisce come individuo e come persona dotata di ragione” (p. 37).
Processo di costruzione sociale dell’io, cui Habermas attribuisce più rilievo che
Fukuyama.
La critica del liberalismo eugenetico da parte di Habermas non si indirizza alla
valenza terapeutica delle biotecnologie, ma a quella programmatoria e decisoria di
interventi ‘migliorativi’. Il perno dell’argomentazione risiede nel fatto che l’intervento
migliorativo rischia di alterare quell’uguaglianza casuale della nascita cui tutti i
cittadini devono l’inizio del loro esclusivo destino di socializzazione. Mantenendo
giuridicamente indisponibile la casualità della nascita, i cittadini si garantiscono
uguaglianza di accesso alla comunità ideale dei soggetti morali e alla comunità reale
dei cittadini.
La peculiarità del discorso habermasiano risiede nell’assunto che su piano morale nonostante i vantaggi che le biotecnologie arrecano - non ci sono sufficienti motivi
per pagare il prezzo alto che esse esigono. Egli ritiene che la grande spinta per un
uso disinvolto della tecnica in ogni campo della vita, non esclusi i fondamenti
biologico-genetici della specie umana, stia sollevando e debba sollevare una
reazione riflessiva che si confronti con le nuove tecniche e individui nuclei umani
indisponibili all’oggettivazione tecnologica. Egli chiede: “possiamo considerare
l’autotrasformazione genetica della specie come un mezzo per accrescere
l’autonomia individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio
l’autocomprensione normativa di persone che conducono la loro vita portandosi
mutuo ed ugual rispetto?” (p. 31). In Habermas assume speciale rilievo un’etica del
genere che assume come primari i temi dell’uguaglianza e della reciprocità.
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Il problema dell’uguaglianza umana verrà infatti reso assai più acuto dalle pratiche
prenatali tanto di prevenzione della nascita di un bambino tarato, quanto di
eugenetica in cui si procede a selezionare e ‘migliorare’ l’esito (il bambino). In effetti
con la diagnosi pre-impianto sull’embrione, alcuni singoli si arrogano il diritto, che
loro non compete, di stabilire che cosa è degno di vivere e che cosa no. Inoltre “Se si
accetta come normale la generazione e l’impiego di embrioni ai fini della ricerca
medica, si trasforma anche la percezione culturale della vita umana prenatale, con il
risultato di rendere sempre meno affilato il sensorio morale che stabilisce i limiti entro
cui far valere il calcolo ‘costi-benefici’. Oggi noi avvertiamo come oscena questa
prassi di reificazione. Ci chiediamo anzi se vorremmo davvero vivere in una società
in cui il rispetto narcisistico per le preferenze personali venga affermato al prezzo di
un’insensibilità verso i fondamenti normativi e naturali della vita” (p. 23). Il fatto è che
l’alterazione, sia pure migliorativa, del genoma, e la programmazione eugenetica
introducono nuove forme di disuguaglianza fra gli uomini. Conseguentemente
l’autore suggerisce l’indisponibilità dei fondamenti genetici della nostra esistenza
corporea (p. 25) e sostiene il diritto a un patrimonio genetico non manipolato, per cui
sono possibili interventi ‘negativi’ di tipo terapeutico e non interventi ‘positivi’ di
manipolazione e alterazione.
Ciò presuppone una condizione data o naturale del genoma, e un recupero almeno
parziale del concetto di natura umana, che l’autore opera differenziando in senso
nettamente antistoricistico e antidebolistico natura (umana) e cultura, la prima
universale e la seconda invece chiaramente situata: “Non si tratta dunque della
cultura che è in ogni luogo diversa, bensì dell’immagine che le diverse culture si
fanno dell’uomo: di quell’uomo che è in ogni luogo identico a sé sul piano della
universalità antropologica” (p. 41). E’ notevole che l’assunto habermasiana vada in
direzione opposta alle posizioni che intendono l’idea di natura come
irrimediabilmente culturale e situata. La preservazione del genoma umano
adombrata nelle posizioni suddette può essere considerata come un’istanza morale
normativa di rispetto dell’essenza umana, seppure quest’ultimo termine venga
raramente impiegato. Essa introduce un dubbio fondato sulla possibilità di rispettare
la dignità umana se accettiamo di manipolare le sue basi genetiche e biologiche.
Fukuyama: il tentativo ‘neoaristotelico’ di ristabilire il concetto di natura umana
In Our Posthuman Future (trad. it. L’uomo oltre l’uomo, cui ci riferiremo) F. Fukuyama
elabora la sua prospettiva sulle biotecnologie, imperniandola attorno al concetto di
natura umana che assume importanza reggente nella sua prospettiva. Negli intenti
dell’autore l’argomentazione vuole seguire il modello aristotelico di dissertazione in
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merito alle questioni di natura e di politica (p. 21). Muovendosi in senso contrario
all’antiessenzialismo prevalente, l’autore non rifiuta a priori i concetti di natura
umana e di diritto naturale: “La natura umana esiste, è un concetto pregnante e ci ha
fornito un elemento di continuità nella nostra evoluzione come specie. Insieme alla
religione, rappresenta ciò che definisce i nostri valori fondanti. La natura umana
attribuisce la forma e stabilisce i confini dei tipi possibili di regime politico, quindi una
tecnologia abbastanza potente da rimodellare ciò che siamo può dar luogo a
conseguenze perniciose per la democrazia liberale e per la stessa natura della
politica… Sebbene vi fossero forti divergenze fra chi cercava di definirla [la natura
umana], nessuno contestò mai la sua importanza come fondamento dei diritti e della
giustizia. Sostenitori del concetto di diritto naturale furono i padri fondatori degli Stati
Uniti…Negli ultimi cento o duecento anni, però, tra gli intellettuali e gli accademici di
filosofia questo concetto è caduto in disgrazia” (p. 14 e p. 22). Oltre Fukuyama allude
al “pregiudizio contemporaneo contro il concetto di natura umana” (p. 23), e alla
possibilità che le biotecnologie ce la facciano perdere: “Ma in che cosa consiste
questa essenza umana che potremmo rischiare di perdere? Per un fedele potrebbe
essere un dono divino, la scintilla con cui nascono tutti gli esseri umani. Da un punto
di vista laico, invece, si potrebbe trattare di qualcosa che appartiene alla natura, cioè
le sue caratteristiche tipiche condivise da tutti gli esseri umani in quanto tali. In fin dei
conti questa è la posta in gioco nella rivoluzione biotecnologica” (p. 140), e con essa
la stessa base del senso morale umano.
Se è frequente assegnare scarso rilievo a parole all’idea di natura umana, quando ci
troviamo impegnati a dibattere questioni di diritti e di politica, presupponiamo
l’esistenza di un’essenza/natura umana universale e immutabile quale base naturale
o fondamento dei diritti naturali. “Anche se i circoli filosofici accademici danno poco
credito a concetti come quello dei diritti naturali, gran parte della nostra attività
politica si fonda sull’esistenza di un’ ”essenza” umana immutabile di origine naturale,
o meglio, si basa sulla nostra convinzione che tale essenza esista” (p. 296).
La scelta metodica di non poter emarginare l’idea di natura umana merita una
sottolineatura, anche in rapporto alla scelta diversa praticata sino a pochi anni fa
dalla filosofia politica di un Rawls, di un Dworkin fondata su un approccio procedurale
e contrattualistico. Esso, forse idoneo per i bisogni di un pensiero volto a problemi
politici usuali, si manifesta in seria difficoltà nell’affrontare i dilemmi proposti dalle
biotecnologie, che richiedono un ri-aggancio all’idea di natura e un allontanamento
dalla prospettiva kantiana. Questa, in cui complessivamente si manifesta un rapporto
disturbato con la natura, procedendo a separare natura e libertà, assume che l’etica
opera realmente solo quando volontà e libertà si esprimono separatamente dalle
inclinazioni della natura (umana).
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L’elaborazione filosofica dell’idea di natura umana non si spinge peraltro molto in là
nelle pagine di Fukuyama, per cui il richiamo ad Aristotele appare forse
sovradeterminato. Non vi è infatti ricorso all’analisi ilemorfica e alla categoria
essenziale di forma, necessaria per stabilire il concetto di natura: la teoria darwiniana
che nessuna specie è portatrice di un’essenza particolare significa appunto
cancellare le forme specifiche. “La definizione di ‘natura umana’ cui farò riferimento
in queste pagine è la seguente: la natura è la somma delle caratteristiche e dei
comportamenti tipici della specie umana, originati da fattori genetici piuttosto che
ambientali” (p. 177s). In questo approccio orientato al gene e che con la tipicità
chiama in causa la statistica, l’idea di natura umana in Fukuyama pare ricondursi ad
una sommatoria di fattori certo notevoli ma che nella loro molteplicità e dispersione
non sembrano in grado di designare l’essenza/natura, richiamando invece sue
manifestazioni operative di vario genere. Impiegando la concettualità aristotelica, la
determinazione di Fukuyama sembra includere tanto proprietà essenziali come il
linguaggio, la razionalità, il senso morale, quanto proprietà accidentali come la
statura, il peso, il colore della pelle, la maggiore o minore loquacità.
Un’elaborazione più approfondita dell’idea di natura (umana) dovrebbe a mio parere
richiamare in servizio le prospettive di Aristotele e di Tommaso, riprese dalle
rispettive tradizioni, almeno secondo due direttrici: a) l’assunto secondo cui la natura
è un invariante che stabilisce i caratteri essenziali del genere umano, include un
elevato grado di universalità e difende un carattere cui come uomini siamo legati,
ossia che tutti partecipiamo a qualcosa di comune, di invariante, di metaculturale; b)
l’idea di natura (e di vita) come principio immanente di autocostruzione e di
automovimento (5). La seconda accezione sembra applicarsi validamente alle attuali
scoperte genetiche dove il genoma appare come un codice interno di
autocostruzione e di ‘programmazione’ dell’individuo, qualcosa che concerne il lato
della ‘forma’ e che potrebbe favorire il superamento del paradigma deterministico. In
effetti la struttura genetica dell’uomo rappresenta non una forma che ci determina in
un solo modo (determinatio ad unum), ma una forma che schiude un campo di
possibilità, un ventaglio di linee aperte, e che verrà orientato e ulteriormente
determinato dalla libera attività del soggetto. Non dunque un soggetto ricondotto al
determinismo genetico di chi sostiene che noi siamo i nostri geni, gradino estremo di
un processo riduzionistico che dapprima riduce l’uomo a corpo, e successivamente il
corpo al genoma.
Un concetto di natura umana non-ontologico e non-universalistico ma di tipo
esclusivamente storico e culturale è esposto al serio svantaggio di non essere
universalizzabile, di poter lasciare nelle mani dei potenti di turno lo stabilire chi
appartiene alla natura umana e chi no. Nella presupposta riduzione storico-culturale
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dell’idea di natura umana si individua un limite maggiore del “Manifesto di bioetica
laica” pubblicato nel 1996: “Al contrario di coloro che divinizzano la natura,
dichiarandola qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine fra quel
che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini.
Nulla è più culturale dell’idea di natura… i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò
che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò
che è naturale e ciò che naturale non sarebbe” (Il sole-24 ore, giugno 1996, p. 27). Al
di là dell’uso equivoco del termine ‘natura’, nel testo al concetto di natura si sottrae
ogni oggettività e normatività, sostenendo che essa sia totalmente culturale,
dipendente soltanto dalle scelte e dai valori degli uomini. Il problema del rapporto fra
natura e cultura è dunque segato alla radice. Poiché la natura umana è in ipotesi un
costrutto culturale e storico, non esisterà nulla di naturale e nulla di innaturale, ma
tutto sarà convenzionale e storico: siamo dinanzi ad una forma esplicita di “nichilismo
delle essenze”. Nell’intento di dissolvere le essenze si manifesta infatti un volto
fondamentale del nichilismo, cui si è già alluso (6). Tale nichilismo delle essenze si
può anche chiamare un ‘antinaturalismo’ oppure un ‘denaturalismo’, intendendo
appunto con ciò la posizione filosofica che ritiene nullo e privo di senso il concetto di
natura/essenza, come accade nelle posizioni nominalistiche, empiristiche (Hume),
dualistiche secondo il dualismo Sein-Sollen (Kelsen). Difficilmente potrà essere
recuperata la nozione autentica di essenza senza oltrepassare la razionalità
pragmatica, strumentale e debolistica che oggi viceversa prevale.
Osservo inoltre che nella posizione dipinta sono contenute le premesse per abolire
la differenza fra malattia, salute, terapia (su ciò più avanti).
La natura umana e l’impossibilità di cambiarla
Sotto questo titolo affrontiamo una questione filosofica decisiva, il che significa
moltiplicarne le difficoltà se si considera che l’orientamento delle numerose e
contrapposte scuole filosofiche contemporanee si unifica nella diffusa propensione
scettica. La riflessione sulla natura umana non sfugge a tale temperie, di cui anzi
sembra soffrire in modo particolare in quanto produce crescenti difficoltà teoretiche,
che bloccano l’argomentazione razionale e finiscono per addossare le decisioni sulle
biotecnologie alla scienza, alla politica, al diritto. E’ nelle biotecnologie problema
scottante, sotteso ad ogni discussione su di esse ma spesso alluso solo di sbieco e
senza che sia oggetto di una discussione in pari con il suo rilievo, se sia possibile
cambiare la natura umana. La modernità può essere letta in vari suoi aspetti come
un tentativo di cambiare o andare contro inclinazioni fondamentali della natura
umana, nel comunismo mediante l’abolizione della proprietà privata e nel tentativo di
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far prevalere la solidarietà di classe contro quella del gruppo familiare, nelle
biotecnologie con l’intento di pervenire all’oltreuomo trasformando la natura umana.
A questo crocevia si materializza l’interrogativo sulla trasformabilità dell’uomo, in
merito al quale una risposta può essere trovata solo se le domande giuste sono state
formulate. Ora sembra che perfino la domanda sia diventata difficile nel senso che
l’idea di natura umana, che ha forti radici nel senso comune e che è poi elaborata
filosoficamente, è diventata qualcosa di estraneo su cui l’accordo è raro e il
disaccordo frequente: in larga parte della cultura scientifica e filosofica paiono
mancare i presupposti minimi per poter impostare con speranza di successo
l’argomento. D’altra parte la diffidenza contemporanea verso il concetto di natura
umana non ha ragione di esistere, una volta che si è determinata la natura umana in
modo adeguato tramite una determinazione essenziale capace di ospitare una
grande varietà di comportamenti. L’uomo pratica il mestiere di cercatore e cacciatore
delle essenze molto più frequentemente di quanto si pensi e – più curiosamente
ancora – continuerà a praticarlo contro ogni invito scettico e utilitaristico di smettere
un tentativo considerato inutile, superato, sterile. Non verrà mai il tempo in cui non
chiederemo più “che cosa è l’uomo?”
Una volta afferrata l’idea di essenza, si percepisce che le essenze sono immutabili,
‘eterne’, non soggette alla presa della volontà di potenza e di trasformazione. Se
l’uomo è un essere dotato di logos (ragione e linguaggio), se è un animal rationale,
intuiamo agevolmente che sino a quando ci sarà l’uomo, egli avrà queste qualità
essenziali; e che è del tutto impossibile trasformare l’uomo togliendogli tanto la
ragione quanto il linguaggio. Che le essenze siano eterne e immutabili significa
esattamente questa impossibilità, la quale rilancia però la domanda su che cosa nel
soggetto umano è aperto alla trasformazione biotecnologica.
All’indagine si aprono tre cammini. 1) Possiamo mutare un gran numero di elementi
‘accidentali’, ossia elementi che fanno parte dell’uomo, ma non ne stabiliscono
l’essenza, quali sono la statura, il grado di intelligenza, il colore degli occhi, il sesso,
la magrezza o la grossezza, la velocità dei movimenti, ecc.. Dio mi guardi dal
sostenere che accidentale significhi secondario e ininfluente! Un uomo privo di molte
malattie di origine genetica e dotato di memoria acuta e di gradevole aspetto si trova
avvantaggiato rispetto ad un altro senza tali proprietà. Molte qualità dunque che
definiamo col linguaggio preciso della filosofia come accidentali, rivestono per noi e
per gli altri massimo rilievo, ma il loro mutamento non provoca un cambiamento di
natura, non produce una trasformazione sostanziale, cioè un cambiamento da un
ente-sostanza a un altro ente-sostanza appartenente ad un diverso genere.
Sostenere l’immutabilità delle nature non significa minimamente negare il
mutamento, la trasformazione e il loro impatto sulla nostra vita, ma neanche significa
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accogliere l’idea che mutamenti di quantità a un certo momento si ribaltino in
mutamenti di qualità, ossia di essenza.
2) Un’altra importante linea di argomentazione concerne il livello morale, dove
l’intervento delle biotecnologie sull’uomo può generare una diversa sensibilità
morale, non nel senso di mutare oggettivamente la linea che divide bene e male, ma
di cambiarne la percezione che ne abbiamo, variando la nostra attenzione etica.
Trasformazioni accidentali dell’uomo possono alterare il senso morale fondamentale
che portiamo in noi, ossia accentuare, indebolire o colorare diversamente le
inclinazioni basali inscritte in noi e che sono alla base della moralità. Ciò può
accadere rinforzando alcune inclinazioni (ad es. l’inclinazione a persistere
nell’esistenza con l’allungamento della vita) e indebolendone altre come l’inclinazione
a conoscere la verità. Oltre al problema di acquisire conoscenza della eventuale
relazione causale fra geni e inclinazioni, si pone quello di mantenere desto il moral
sense, evitando che differenze indotte biotecnologicamente snaturino il senso di
uguaglianza di natura, di rispetto dell’altro, di desiderio di conoscenza, di sentimenti
di giustizia, di pietas per il debole, che sono propri dell’uomo; in certo modo quella
che Habermas chiama l’autocomprensione etica del genere.
3) Con trattamenti del genoma è possibile influire sulle relazioni umane e quelle
sociali, modificando le differenze fra individui e cambiando la percezione che il
soggetto ha di se stesso come singolo e nel rapporto con gli altri. Il fatto è che risulta
possibile impiegare in modo ancipite le tecnologie genetiche, per aumentare le
differenze oppure per diminuirle, per una politica razzista e antiegualitaria alla
Nietzsche oppure per una politica egualitaria giacobina. Nel primo caso col ricorso
all’eugenetica potenziante arriveremo finalmente a dare concretezza alla profezia
nicciana dell’Ubermensch, finora sempre smentita, nella versione del superuomo
genetico? E con l’altro arriveremo agli schiavi felici tutti uguali? L’influsso politico e
sociale delle biotecnologie apre un campo immenso e per ora poco battuto, che si
affianca a quello altrettanto delicato delle conseguenze morali delle trasformazioni
biotecnologiche.
Pur senza assumere che i soli mutamenti del soggetto siano dovuti alla linea
genetica, nelle trasformazioni genetiche vi saranno geni la cui manipolazione
condurrà a trasformazioni accidentali lievi dell’uomo; e altri geni la cui manipolazione
produrrà trasformazioni accidentali profonde dell’uomo: pensiamo ipoteticamente a
manipolazioni che incidano sulla forza della mente e le abilità cognitive, oppure
sull’inclinazione sessuale. La plausibilità tecnica di queste prospettive rilancia il tema
della loro liceità. Ma che dire quando con mix fra corredo genetico umano e non
umano si creerà – come evento certo del tutto ipotetico – una chimera? In tal caso
non vi è stata alcuna trasformazione della natura umana che di essa conservi
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qualcosa di riconoscibile, ma suo abbandono. Si è prodotta una trasformazione
sostanziale il cui esito è un ente non-umano, che non partecipa più della natura
umana in quanto dotata di ragione, linguaggio, senso morale, ecc. La ‘morale della
favola’ è che cambiare la natura umana non è possibile, abbandonarla sì (7).
L’aver stabilito che non si può cambiare la natura umana potrebbe avere l’esito
paradossale del quietismo: non preoccupiamoci di come andranno le cose perché
comunque avremo sempre a che fare con uomini, non potremo evadere dalla natura
umana! Esito infausto in quanto se non possiamo cambiare l’essenza umana,
diventa proprio allora acutissima la domanda sull’entità dell’intervento manipolativo
‘accidentale’ che è lecito praticare. Poiché esso è l’unico alla nostra portata, ci
interpella più che mai. Ed è a questo crocevia che sorgono gli interrogativi più
decisivi: quali criteri dovranno regolarlo? Chi è abilitato a intervenire? Solo i singoli o
anche la società politica tramite regolamentazioni? Ricerca sugli embrioni umani,
loro produzione a scopi riproduttivi e/o terapeutici, creazione di cellule staminali
embrionali con distruzione di embrioni, utilizzo dei cosiddetti embrioni sopranumerari,
clonazione di ogni tipo e scopo: ognuno di questi punti scottanti alla confluenza di
intenti di conoscenza scientifica, scopi terapeutici, corposi interessi economici,
consiglia interventi legislativi propri della responsabilità politica, che facciano perno
su valori e diritti riconoscibili ai soggetti impegnati nel processo biotecnologico. Ed è
su questi aspetti che ferve la battaglia bioetica in tutto il mondo, nel confronto fra
posizioni libertarie permissive, posizioni che pongono limiti ricorrendo alla leva di
un’etica della responsabilità anche collettiva, posizioni ispirate da una morale
utilitaristica in cui il fine giustifica i mezzi, posizioni ontologiche che individuano nuclei
indisponibili i quali non possano essere assoggettati al criterio dell’utile e della
convenienza terapeutica per altri. Per quanto concerne l’ingegneria genetica le
domande suonano: in che senso i fondamenti genetici della nostra natura corporea
sono indisponibili? Esiste un diritto naturale ad un patrimonio genetico non
manipolato? Un diritto naturale tanto della specie quanto dell’individuo? Qual è il
grado di determinismo genetico che si profila in base agli esiti delle scienze?
Uno dei maggiori rischi dell’eugenetica liberale è la richiesta di allentare i controlli in
favore dell’autonomia individuale, che spesso conduce al piano inclinato del ‘fai da
te’, in cui potrebbe affermarsi l’idea che ogni trasformazione accidentale è lecita
perché non muta la natura umana. In realtà molti altri fattori possono intervenire
nella valutazione etica, legati al rapporto con gli altri e ai valori fondamentali che
devono essere rispettati. Una trasformazione accidentale innocente sembra quella
concernente l’aumento di statura. Eppure non può essere concessa senza beneficio
di inventario perché soggetti differenziati in statura molto al di là delle normali
differenze naturali possono dar origine a pericolose discriminazioni. Il gruppo di
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coloro che sono altissimi per manipolazione può sviluppare sentimenti di superiorità
e di dominio verso gli altri e viceversa questi sentimenti di soggezione e al limite di
sudditanza verso gli alti. Affermare ‘io sono mio e faccio di me quello che voglio’ è
un’espressione antisociale che le biotecnologie potrebbero rendere frequente.
Oltretutto è prevedibile un incremento di difficoltà per l’io: difficoltà a raggiungere
un’unità di senso della propria vita, a mettere insieme i suoi pezzi in modo che
compongano uno schema unitario. I problemi di identità sono fra i più complessi, ed
è diagnosticabile un loro aumento in un soggetto che già ora spesso appare
psicologicamente labile e frammentato, e che si troverà a fronteggiare nuove sfide
alla percezione della sua identità.
Persona e unità dell’uomo
L’analisi svolta ha chiamato in causa il concetto di natura umana, lasciando però
nello sfondo quello di persona e la domanda sull’unità dell’uomo, su cui un richiamo
appare ora necessario, dal momento che le trattazioni antropologiche e morali sulle
biotecnologie sembrano dimenticarli o comunque assumere come allant de soi la
completa separabilità fra corpo e anima. Questa separabilità induce a trascurare
l’indagine concernente i riflessi della manipolazione corporea sulla vita della psiche.
In proposito si verifica come una visione antropologica ipersemplificata diventa un via
libera etico ad intervenire sull’uomo, ponendosi di fatto come un’autorizzazione al
dominio delle biotecnologie sulla dimensione corporea.
Chi è l’uomo e che cosa la persona? su questi temi la storia della filosofia ha
percorso un cammino di progresso dai Greci a noi, in cui centrale è stato l’apporto
della riflessione biblico-cristiana. Infatti nella nota definizione aristotelica che suona:
homo est animal rationale (Zoon logon echon), l’uomo è definito mediante il genere
prossimo e la differenza specifica e perciò con l’intento di determinare l’essenza o
natura umana, in una maniera che forse non rende pienamente ed esplicitamente
ragione della sua originalità e non-assimilabilità ad elemento del cosmo. Dopo
l’avvento del cristianesimo incontriamo in Boezio la prima decisiva determinazione
della persona: rationalis naturae individua substantia. Aristotele definisce l’uomo
mediante il riferimento alla sua natura/essenza, Boezio la persona nella sua
sostanzialità spirituale, ossia nella sua identità metafisica inoltrepassabile, come
qualcosa di originale e di irriducibile ad altro, al cosmo. Tuttavia le due
determinazioni si collegano nel senso che la prima incammina verso la seconda,
poiché è proprio della natura umana individuata in un singolo l’essere persona. Ogni
essere che è dotato di natura umana e appartiene per la sua dotazione genetica al
genere umano è per ciò stesso persona (8).
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Nonostante le rielaborazioni, gli opportuni approfondimenti e le critiche più o meno
pertinenti cui è stata sottoposta, la determinazione boeziana si pone come un punto
di svolta nella storia universale della filosofia e come un riferimento assolutamente
imprescindibile: con essa il grandioso tema della persona, introdotto per sempre
nella cultura, continuerà a dare i suoi frutti e a compiere il suo percorso nella storia
universale. Un cammino che è ancora al suo inizio, se si pone mente alle aree di
civiltà ancora alquanto ristrette in cui è riconosciuto il ‘principio-persona’. Numerosi
spazi geoculturali solo recentemente cominciano ad incontrarlo, sì che esso
celebrerà la sua fecondità quando sarà riconosciuto universalmente, ben oltre il
mondo storico in cui prese forma (9). Se vogliamo evitare espressioni vuote, parlare
di dignità della persona significa che l’uomo ha valore, che non si riduce a cosa. Ciò
induce a cercare l’ “irréductible dans l’homme, ossia ciò che è originariamente e
fondamentalmente umano, [di] ciò che costituisce l’originalità piena dell’uomo nel
mondo…Irréductible significa anche tutto ciò che nell’uomo è invisibile, che è
totalmente interiore, e per cui ogni uomo è come il testimone evidente di se stesso,
della propria umanità e della propria persona” (10). Le posizioni personaliste
affermano appunto che nell’uomo vi è qualcosa di irriducibile alla natura cosmica:
l’uomo non è un oggetto del mondo, qualcosa di riducibile al cosmo, ma un ente
dotato di
autocomprensione ed esperienza di sé come eventi spirituali. Il
personalismo si colloca agli antipodi del recente radicalismo antropologico, diffuso
nella cultura anglosassone e forse in specie statunitense, che prima mette da parte
l’idea di persona e poi quella di natura/essenza umana, per approdare all’uomo come
prodotto del caso.
Una volta che sia stato acquisito che la dignità di fine dell’individuo umano è
salvaguardata se questo è persona, ossia una totalità concreta, un tutto che non è
subordinato alla specie, e non vale perciò solo come un mero e transitorio punto di
addensamento dei rapporti sociali, rimane ancora aperta la domanda sulla ‘incisività
antropologica’ delle biotecnologie dal punto di vista della retroazione sullo ‘psichico’
dell’intervento sul corporeo. Difficile questione, che non sembra poter ricevere
risposta adeguata se non si prende in conto un’antropologia unitaria, in cui cioè
l’uomo esiste come essere unitario, come un tutto, corpore et anima unus. Molto
dubbio appare l’assunto secondo cui sarebbe possibile intervenire quasi
illimitatamente sulla corporeità umana quasi che essa non facesse parte della
persona e il corpo fosse un indifferente, qualcosa che può venire affidato senza
problemi alla tecnica, e la cui manipolazione risulterebbe senza effetti sulla persona.
Se questa è tale nell’unità dell’anima e del corpo, nell’unità delle sue inclinazioni
tanto spirituali quanto biologiche, la considerazione antropologica dovrà prendere le
distanze dal dualismo cartesiano fra res extensa e res cogitans che spesso è il
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presupposto implicito del modello di uomo che le biotecnologie presuppongono,
quando non sia invece uno schietto monismo materialistico. Una corporeità separata
dalla persona e analizzata in vitro non è più portatrice di senso e finisce nel
meccanicismo. Analogamente deve dirsi per la complessa sfera della sessualità
umana che rimane incompresa nel dualismo e nel monismo. Tali inconvenienti non
sono facilmente aggirabili muovendosi solo sul piano di un’argomentazione morale,
che intenda allontanare i rischi delle biotecnologie ricorrendo all’etica del genere.
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BIOETICA
Gli scopi della Medicina
Pur nelle perduranti, ma in sostanza non decisive differenze di opinione dottrinale sui
concetti di salute, malattia, disturbo e infermità, si può riconoscere che l'indiscussa
matrice universale della medicina è costituita dalla comune natura umana che
implica malattia e dolore fisico e morale anche in relazione alla paura del futuro e
della morte. Rispetto al passato l'insieme delle conoscenze scientifiche e
l'interscambio delle conoscenze e delle pratiche mediche costituisce un patrimonio
comune a tutti. Il benessere del paziente è considerato ovunque un obbligo prioritario
del medico, ed un altrettanto ineludibile obbligo della società intera, che deve
operare per rendere ugualmente accessibile a tutti un'assistenza sanitaria adeguata.
E' sempre più condiviso - e mira ad essere universale in tutte le culture - il
riconoscimento del diritto del paziente all'autonomia e, soprattutto, all'informazione
che deve precedere l'eventuale consenso ai trattamenti che il medico propone, ed
anzi ha il dovere ed il diritto di proporre sulla scorta delle conoscenze del momento
storico e le specifiche necessità del paziente. Sono tutti valori universali e
fondamentali, che almeno, in linea di principio, conferiscono alla medicina la sua
identità attuale e sono compatibili anche con tradizioni nazionali e regionali. Ciò
nonostante, la ricerca di una completa intesa sugli scopi della medicina e, ancora di
più, sui significati specifici di tali scopi, produce contrasti di non facile conciliazione,
specie relativamente agli aspetti più innovativi e di confine degli atti medici attuali. Il
recente Rapporto dello Hastings Center - intitolato appunto "Gli scopi della medicina:
nuove priorità" - si è chiesto, tra l'altro, se sia giustificato proporre per la medicina
degli scopi cui si possa attribuire una validità universale cioè degli scopi che devono
essere comuni a tutte le culture ed altri che sono il segno distintivo delle varie culture
di appartenenza. Chiedendosi dunque se gli scopi della medicina siano modelli
intrinseci alla medicina stessa o costruzioni sociali, il Rapporto dell'Hastings Center
rileva che, sulla natura della medicina e sui suoi scopi esistono due concezioni che,
pur contrastanti, si sono a lungo integrate.
Secondo la prima concezione la medicina ha degli scopi intrinseci suscettibili di
essere "scoperti". La seconda concezione ammette che gli scopi che si crede di
"scoprire" siano in genere costruiti socialmente e legati al tempo e alla storia. I
sostenitori della prima concezione sostengono che gli scopi appropriati della
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
medicina rappresentano la risposta tipica della pratica medica alla esperienza umana
universale della malattia, ispirata dal bisogno di guarire, aiutare, assistere e curare,
ed iniziata con il rapporto diadico medico-paziente, sul quale la medicina mantiene e
rafforza la propria vitalità. Quindi, pur nel riconoscimento del dovere di una maggior
trasparenza riguardo sia ai limiti interni della medicina che ai condizionamenti
culturali che essa riceve dall'esterno, resta necessario individuarne scopi e fini in
funzione della sua intrinseca vocazione alla promozione e difesa della salute umana
e alla tutela del paziente. La seconda concezione, secondo cui gli scopi della
medicina sono una costruzione sociale, nasce invece dalla constatazione che col
cambiare delle epoche e delle culture cambiano anche la natura della medicina e i
suoi scopi. Il modo di interpretare la malattia, le infermità e i vari disturbo, nonché la
risposta a queste esperienze è complesso e dinamico, caratterizzato da molte
pratiche cliniche senza un nucleo sostanziale stabile. Conoscenze e pratiche
rispecchiano i tempi e le società nelle quali la medicina opera e quindi sono poste al
servizio di tutti gli obiettivi che la società reputa apprezzabili, sottostando agli stessi
vincoli che condizionano le altre istituzioni sociali.
Nel conflitto tra queste due visioni della medicina emerge il problema di stabilire se
spetti alla medicina stessa di definire dal suo interno la propria storia e le proprie
tradizioni, i propri valori e la propria direzione, oppure se essa deve lasciare questo
compito alla società. L'Hastings Center ritiene che una valida risposta a questa
alternativa sia, in luogo della contrapposizione, un dialogo continuo con la società,
nel corso del quale ciascuno dei due interlocutori cerca la propria sfera legittima, i
propri diritti e i propri doveri. Si dà tuttavia per scontato che il punto di partenza della
medicina debba essere costituito dalla sua stessa storia e dalle sue tradizioni. D'altro
canto i medici, gli operatori dell'assistenza sanitaria ed i pazienti fanno parte della
società, per cui si ritiene prevedibile che mai sarà possibile tracciare una linea
divisoria netta tra le istituzioni della medicina e le altre istituzioni sociali. In questa
prospettiva di dialogo si dovrà primariamente tenere conto di vincoli e di prospettive
che, sul versante della medicina, collocano la bioetica e l'etica medica in posizione
prioritaria.
Uno degli aspetti più attuali e rilevanti dell'individuazione degli scopi della Medicina,
destinato ad accentuarsi in futuro, è costituito dal continuo mutare delle esigenze
strutturali, organizzative ed economiche prodotte dal quasi incessante progresso
medico il che implica anche un costante monitoraggio ed una progettazione
evolutiva. Non sono dunque solo i mezzi - ma indubbiamente anche questi - bensì gli
scopi stessi della medicina a dover essere riesaminati ex novo, sia pure in misura
parziale, anche per verificarne la compatibilità con le risorse umane ed economiche
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di cui la società dispone. In questo riesame si deve evitare di considerare i traguardi
raggiunti come un obiettivo stabile, una tappa verso sicuri successi ulteriori. Si
tratterebbe di una visione ottimistica infondata, basata sull'erronea idea che sia vicina
e definitiva la sconfitta delle malattie. Perfino molte malattie infettive, ritenute
debellate, stanno riemergendo anche nei paesi che più sono attrezzati a combatterle,
mentre perdura la loro diffusione e la loro gravità in molte aree del globo, sia in
rapporto a condizioni ambientali intrinseche sia alla scarsa disponibilità di risorse
economiche che, d'altro canto, si rilevano insufficienti perfino nei paesi più ricchi. Non
vi è dubbio che l'attenzione prevalente, in questi ultimi anni, si sia concentrata
soprattutto sugli strumenti e sui mezzi della medicina e dell'assistenza sanitaria,
piuttosto che sui loro scopi. Hanno dunque prevalso le analisi sugli aspetti gestionali
e organizzativi, sui costi e sul problema dei finanziamenti, sulla questione delle
privatizzazioni, sulle innovazioni politiche e burocratiche, ed altri di interesse
indubbiamente rilevante.
L'analisi bioetica, progredita in modo incessante ed apprezzabile, si è concentrata
principalmente su problemi singoli, quelli di maggiore attualità, richiedenti con
maggiore urgenza valutazioni e decisioni. Ma il nucleo centrale degli scopi attuali
della medicina che qui cerchiamo di individuare è rimasto un po' in ombra,
probabilmente proprio a causa della complessità che lo connota. Nell'elencare le
finalità nodali, e tradizionali, che connotano la Medicina il rapporto dell'Hastings
Center, con cui appare opportuno confrontarsi, si chiede se la medicina debba
essere sempre necessariamente "nemica dell'invecchiamento e della morte" e quindi
fino a che punto essa debba spingersi nel prolungare la vita umana, specie se
questa sta spegnendosi. Si chiede anche se davvero, ed in assoluto, sia valido lo
scopo tradizionale della promozione e del mantenimento della salute , se il termine
"salute" possa avere significati diversi nelle diverse stagioni della vita e se davvero
malattie e infermità non devono essere mai accettate e anche se sia ragionevole,
mediante gli attuali mezzi della medicina predittiva basata sui test genetici,
conoscere in largo anticipo la probabilità di andare incontro a determinate malattie
nel corso della vita.
La lista delle domande si estende a chiedere se la medicina deve occuparsi (per
contribuire a risolverli con i propri mezzi) anche delle " angosce della vita quotidiana",
dei problemi esistenziali, psicologici e spirituali che le persone necessariamente
incontrano nel corso della loro vita anche in relazione alla violenza sociale, ai rischi
ambientali e altri aspetti della vita comprendendovi anche dolori e sofferenze di vario
tipo, fisiche e psichiche e quindi il problema se sia o meno compito della medicina
anche l'eutanasia e l'aiuto al suicidio. Si colloca dunque in posizione centrale il
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problema dei confini della medicina. Possiamo dire che in linea di massima essi
potrebbero essere prospettati indicativamente dalla stessa classe medica, lasciando
però alla società il compito di affidare ai medici tutti i compiti che essi siano in grado
di assolvere a beneficio del benessere di ciascun cittadino. Ma in questa eventuale,
flessibile visione, ci si dovrà chiedere se la medicina sia in grado di dare risposta a
questioni di questa proporzione e se queste eventuali tentazioni - peraltro in qualche
misura già in atto - non portino ad una ipermedicalizzazione della società con tutte le
sue conseguenze dannose. Tra gli aspetti collaterali della medicina - che non
possono essere certo inclusi negli scopi ma sono correlati a questi e quindi a funzioni
della Medicina che rispondono a peculiari esigenze della società - si deve segnalare
il suo rapporto con l'economia, non soltanto sotto il profilo delle risorse che essa
assorbe dalla collettività per finalità di natura primariamente sanitaria, ma anche per
l'indotto che essa a sua volta produce alimentando l'industria e il commercio dei
prodotti necessari all'attività medica, e quindi i profitti, i conseguenti investimenti e le
ricadute occupazionali.
Medicina e assistenza sanitaria diventano così forze significative nella vita politica,
sia a livello nazionale che internazionale, il cui impatto nella vita della società ha
raggiunto livelli tali da richiedere una riflessione a spettro particolarmente ampio per
consentire sia una valutazione globale aggiornata, sia proposte specifiche e non già
generici richiami, pur doverosi, al rispetto di norme deontologiche e giuridiche,
queste ultime, peraltro, quasi assenti in Italia per quanto riguarda le basi e le regole
fondamentali dell'attività medica. Il problema che deve essere previamente affrontato
e risolto è costituito dunque dall'estensione dell'area di competenza e di attività della
Medicina. Con riferimento alla Medicina Scientifica, appare evidente, almeno in linea
teorica, che tutti i problemi che emergono dalla vita delle società, - nelle multiformi
espressioni moderne, quando si prospettino effetti psicofisici negativi, reali o
potenziali, per i singoli e le collettività - implicano inevitabilmente il loro studio
biomedico, e un'analisi delle conseguenze applicative, quando possibili. Questi
problemi appartengono alla vasta area che viene comunemente designata come
Medicina Pubblica la quale coinvolge primariamente, ma non esclusivamente,
istituzioni e strutture pubbliche statali e parastatali.
L'Igiene è tradizionalmente, e nella sua successiva evoluzione, la branca della
Medicina che nelle sue articolazioni attuali (Medicina Sociale ed Epidemiologia,
Medicina della Comunità, Medicina del Lavoro e Igiene Industriale ed agricola ecc.),
cerca di monitorizzare le condizioni "igieniche" dell'aria, delle acque, dei suoli, degli
alimenti, delle industrie e delle aree abitative adiacenti individuando i fattori di rischio
di malattia od anche di disagio più svariati, da quelli batterici e virali, a quelli chimici e
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fisici (oggi includenti le radiazioni atomiche ed elettromagnetiche), fino ai fattori di
stress psicofisico. Le indicazioni di Prevenzione Primaria che ne scaturiscono
rappresentano una delle frontiere più importanti finalizzate al monitoraggio costante
dell'evolvere dei rischi connessi alla evoluzione tecnologica. E' superfluo aggiungere
che in quest'area le connessioni della Medicina con vaste aree del sapere odierno costituite dalla chimica, dalla fisica e, ovviamente, dalla biologia - sono strettissime e
di essenziale rilevanza.
L'individuazione dei fattori di rischio di malattia può essere effettuata con valutazione
a priori, in genere basata su considerazioni di possibilità scientifica del ruolo
patogeno di un determinato fattore ed eventualmente sulla base della
sperimentazione sull'animale. Un esempio tipico è quello della temuta azione
patogena delle radiazioni elettromagnetiche - sempre più diffuse - circa le quali esiste
ormai un'ampia letteratura, peraltro con pareri non conclusivi. I fattori di rischio di
malattia sono peraltro ricercati, e non sempre individuati in verità, in misura
prevalente a posteriori, dopo la constatazione di manifestazioni morbose già
verificatesi nell'uomo delle quali si ricercano gli agenti eziologici al fine ultimo di
prevenirne la diffusione e l'azione. Questa è l'area più specificamente clinica nella
quale, a ben vedere, è corretto collocare anche la prevenzione secondaria in quanto
attività indirizzata a cogliere tempestivamente l'esistenza o meno di patologie già in
atto nella loro fase iniziale, come tali più suscettibili di trattamenti terapeutici ed
igienici -attraverso l'allontanamento dal rischio, se possibile - e idonei a garantire il
successo. Da queste elementari considerazioni risulta evidente l'ampiezza del fronte
sul quale la medicina si collega con una grandissima parte dell'attività umana
individuale e collettiva. E' un'area che ha raggiunto la sua attuale estensione a partire
dalla rivoluzione industriale (anche nella medicina antica, peraltro, si è sempre data
grande importanza a precetti igienici elementari ed individuali) avendo come
significativo precedente, per i rischi lavorativi, l'opera di Bernardino Ramazzini De
Morbis Artificum Diatriba (1700).
Una parte rilevante dei problemi di cui si occupa la Bioetica moderna appartiene, in
sostanza, proprio a quest'area. Infatti le tecniche di bioingegneria utilizzate per la
produzione di piante ed animali transgenici, oltre a costituire un problema ecologico
generale (relativo alla qualità della vita, alle risorse alimentari, alla sopravvivenza
delle specie animali, alla biodiversità ecc.), rappresentano rischi di possibile rilevanza
igienistica di cui si deve occupare la Medicina Scientifica ipotizzando la natura dei
singoli rischi ed accertandone il grado e l'eventuale già avvenuta attuazione. Nel
settore della Medicina Pubblica devono essere menzionate, come aspetto particolare
degli scopi e funzioni della medicina tutte le attività, svolte dai medici, di tipo medico-
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legale che sono il passaggio obbligato di molta parte delle erogazioni a contenuto
economico proprie del cosiddetto "stato sociale" (prestazioni per invalidità
pensionabile, invalidità civile, infortuni e malattie professionali, cause di servizio) cui
si devono aggiungere quelle appartenenti alla sfera dell'assicurazione privata per
responsabilità civile, infortuni, invalidità e spese per malattia. Il loro indotto
economico, di grande rilevanza, entra in connessione con il problema della
distribuzione delle risorse e quindi delle esigenze generali della Medicina, nella
ricerca e nell'attività sanitaria. Anche queste attività medico-legali si sono realtà
sviluppate organicamente, e progressivamente, a partire dalla fine del secolo
diciannovesimo e diffuse soprattutto nella seconda metà del secolo ventesimo. Tutte
le prestazioni previdenziali pubbliche che implicano accertamenti e valutazioni
medico-legali sono inderogabilmente effettuate da medici. Esse si estendono agli
aspetti medico-legali della sanità militare, all'invalidità civile, agli handicap ed alla
causalità di servizio e quindi a parte rilevante del vasto bacino dell'assicurazione
privata.
In questi settori non si possono prospettare singoli problemi bioetici in senso stretto.
Ma se si riflette invece sul problema bioetico dell'allocazione delle risorse che
emerge da tempo nella sanità assistenziale, appare invece evidente che il
bilanciamento globale delle ripartizioni, cioè delle scelte di investimento e di quelle di
rinuncia, può comportare un riesame globale delle attività mediche che implica non
solo prospettive di radicali riforme ma anche una riconsiderazione della funzione
medico-legale, delle sue regole e della sua prassi, che tante distorsioni ed equivoci
hanno sofferto in questi ultimi decenni. Dopo quanto detto è tuttavia opportuno
ricordare che il campo tradizionale della Medicina che è ritenuto coincidere,
dall'opinione pubblica e dagli stessi medici, con gli scopi primari della medicina, è
quello della diagnosi, della terapia e della prognosi.
Nella ricerca dei fenomeni che connotano la prassi medica scientifica nella attuale
fase storica, e dai quali si deve partire per un bilancio degli scopi/rischi/costi/benefici,
si può tentarne l'individuazione avendo a mente le finalità bioetiche che la nostra
analisi si propone e richiamando riassuntivamente anche concetti in parte già
espressi. Questi caratteri possono essere considerati i seguenti : - aumento
esponenziale, per qualità e numero, delle prestazioni attraverso la produzione
incessante di mezzi diagnostici e mezzi terapeutici, sia farmacologici che strumentali
- invasività di molti mezzi, anche di natura farmacologica, e correlata rischiosità di
complicanze ed effetti collaterali - mescolanza costante di premesse scientifiche
sperimentalmente controllate e di applicazioni di fatto empiriche nei singoli casi, nel
dinamismo incessante delle proposte diagnostiche e terapeutiche - difficoltà di
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applicare alla sanità, pubblica e privata, il modello generale organizzativo tipico della
società industriale/post-industriale per l'attuazione di una attività di servizi connotata
dal " caso per caso", di tipo essenzialmente artigianale - estensione progressiva del
concetto di "terapia" a trattamenti, configuranti atto medico la cui giustificazione
"terapeutica" viene ricercata nei "desideri" e nei disagi psichici che possono
conseguire alla loro mancata soddisfazione (chirurgia estetica, fecondazione
assistita), ovvero nel rifiuto della sofferenza estrema (eutanasia, aiuto al suicidio). ampliamento progressivo del numero degli individui che, per la crescita dell'età
media, per le migliorate condizioni sociali, per l'efficacia della medicina nel
prolungare la vita in pazienti affetti da malattie croniche gravi ed anche per lo
smantellamento delle istituzione psichiatriche manicomiali, richiedono assistenza
permanente (medica, infermieristica, volontaristica) in strutture od anche a domicilio.
Tutto questo insieme di fenomeni, impressionante per le sue dimensioni e la sua
complessità, spiega la continua crisi della professione medica e più in generale, della
sanità pubblica e privata. Esso fornisce una spiegazione del conflitto crescente che si
è creato tra cittadini sani ed ammalati e classe medica, che sfocia quasi
sistematicamente nelle aule giudiziarie penali e civili e che rappresenta uno dei
maggiori problemi della medicina nell'attualità e nel prossimo futuro.
I rischi nella valutazione costi/benefici
I rischi della Medicina Scientifica (essenzialmente "commissivi" a differenza di quelli,
soprattutto "omissivi" delle Medicine Non Convenzionali) devono essere presi, ormai,
come punto di riferimento per una corretta valutazione del rapporto costi/benefici,
che ha una posizione centrale nella individuazione dei limiti che è opportuno porre
alla dilatazione dell'attività medica, cioè dei suoi scopi. Ai rischi, la cui attuazione si
traduce in costi umani (ed implicitamente anche economici) dovuti a complicanze,
effetti collaterali o secondari o indesiderati, malattie iatrogene è dedicata una
vastissima letteratura scientifica che se ne occupa sia direttamente che
indirettamente in occasione della presentazione pubblica (in riviste, libri, convegni) di
proposte terapeutiche nuove o di esperienze sperimentali e applicative. Non vi è
trattato di Medicina Interna o di Chirurgia, o di patologia di qualsiasi branca
disciplinare specialistica che, nella trattazione di una determinata malattia, non faccia
seguire ai tradizionali paragrafi della definizione, dell'eziologia e patogenesi, della
sintomatologia, anche quello delle varietà cliniche e del decorso con le correlative,
possibili complicanze spontanee, di per sé indipendenti dall'intervento del medico. Si
tratta di "complicanze" che in molte malattie possono portare alla malattia cronica
con vari gradi di invalidità o addirittura alla morte. Queste complicanze possono
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confondersi, clinicamente, con quelle che più propriamente devono essere indicate
come complicanze iatrogene.
Comunemente si tende a qualificare malattia iatrogena in senso stretto quella che,
prodotta dal trattamento diagnostico o terapeutico del medico, ha il carattere della
neomalattia rispetto a quella già in atto e che ha richiesto il trattamento. E' una
distinzione che può rimanere a patto che la si consideri una categoria particolare
della classe generale delle "complicanze iatrogene". Il fenomeno della patologia
iatrogena, in crescita esponenziale, risulta un problema centrale nell'espansione
ulteriore dei trattamenti medico-chirurgici perché è una delle cause - seppure non la
sola - dei conflitti tra medici e pazienti che sfociano in cause penali e civili per
responsabilità medica e, conseguentemente, intimoriscono i medici (producendo il
fenomeno distorto della cosiddetta Medicina Difensiva), inducono le compagnie
assicuratrici a restringere progressivamente l'area della copertura garantita ai medici
ed alle strutture sanitarie. Le comuni espressioni di complicanze, effetti collaterali o
secondari o indesiderati, malattie iatrogene richiedono alcune precisazioni e
chiarificazioni. I cosiddetti effetti collaterali detti anche eufemisticamente effetti
"indesiderati" o reazioni avverse ("adverse reactions") - che sono in genere elencati
ormai nei foglietti illustrativi di qualsiasi specialità medicina autorizzata - talora
connessi a sovradosaggio assoluto o relativo ovvero all'esistenza di controindicazioni
ignote o trascurate o ad interazioni con altri farmaci, vengono in genere considerati di
minore rilevanza e quindi di più elevata e quasi implicita tollerabilità. Anch'essi, in
verità, appartengono alla grande classe delle "complicanze iatrogene" ed è
opportuno ribadirlo per la necessità di una classificazione globale più razionale.
Inoltre essi possono assumere in certi casi alti livelli di dannosità, transitoria o
irreversibile, fino alla morte. Tra questi effetti collaterali non si è soliti includere,
peraltro erroneamente, quelli connessi agli interventi chirurgici di qualsiasi tipo. In
questo ambito si definiscono "complicanze", in genere, le anomalie del decorso postoperatorio rispetto a quello più comune. Tuttavia una riflessione più attenta induce ad
accomunare le conseguenze "normali" dell'intervento chirurgico anche quello più
modesto e locale, nell'ambito quantomeno degli "effetti collaterali" sgradevoli ma
tollerati. Così il dolore post-operatorio, l'esistenza della ferita operatoria che deve
cicatrizzare, gli spiacevoli effetti, sia oppure transitori, dell'anestesia. Non esiste
infatti alcuna differenza concettuale tra questi impliciti effetti collaterali e quelli
prodotti da molti farmaci: come ad esempio i disturbi intestinali dopo una terapia
antibiotica per via orale.
Le complicanze che la malattia di per se stessa può produrre entrano spesso in
concorso di aggravamento con la patologia iatrogena nei suoi vari aspetti. Ne
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consegue la conclusione che la molteplicità attuale dei trattamenti medici e chirurgici,
poiché potenzialmente gravata da svariati rischi di dannosità collaterale, transitoria o
permanente o addirittura mortale, del tutto autonoma oppure concorrente con la
malattia che ha richiesto il trattamento, rappresenta una condizione di base che deve
essere conosciuta dai pazienti (e dai loro congiunti) ed essere inclusa esplicitamente
nell'alleanza terapeutica. Lo spettro qualitativo e quantitativo di questi fenomeni
dannosi non può essere più sottovalutato dai medici - che tendono a proseguire il
proprio cammino sul ciglio dell'ipermedicalizzazione, in cui spesso sconfinano - né
tantomeno dai pazienti e dai loro congiunti che richiedono sempre più
frequentemente prestazioni mediche alimentando un circolo negativo che si avvale
degli stessi meccanismi che dominano la società dei consumi. L'offerta di medicina spesso in eccesso di indicazioni - trova riscontro in una richiesta crescente da parte
del pubblico di controlli della salute e di cura di disturbi e di vere malattie. E' questa
una situazione non paragonabile a quella della prima metà del secolo ventesimo in
cui i malati, ed i loro congiunti, erano spesso riluttanti ad avvalersi dell'ospedale e le
prestazioni mediche erano prevalentemente domiciliari ed ambulatoriali. Nella più
ampia prospettiva si collocano le riflessioni critiche di Ivan Illich che ha elaborato gli
interessanti concetti di iatrogenesi clinica, di iatrogenesi sociale e iatrogenesi
culturale. Egli definisce iatrogenesi clinica "non soltanto il danno che i medici
infliggono nell'intento di guarire o di sfruttare il paziente, ma anche quegli altri danni
che discendono dalla preoccupazione del medico di tutelarsi da un'eventuale
denuncia per malapratica": è l'anticipazione del concetto di Medicina Difensiva.
Iatrogenesi sociale è stata denominata quella di secondo livello, per cui "la pratica
medica promuove malessere rafforzando una società morbosa che spinge la gente a
diventare consumatrice di medicina curativa, preventiva, del lavoro, dell'ambiente,
ecc". La iatrogenesi di secondo livello si manifesta in vari "sintomi di
supermedicalizzazione sociale" che costituiscono quella che Illich chiama
"espropriazione della salute". E' denominata infine iatrogenesi culturale quella di
terzo livello nel quale le professioni sanitarie "hanno, sulla salute, un ancor più
profondo effetto negativo d'ordine culturale in quanto distruggono la capacità
potenziale dell'individuo di far fronte in modo personale e autonomo alla propria
umana debolezza, vulnerabilità e unicità. Il paziente in preda alla medicina
contemporanea non è che un esempio dell'umanità in preda alle sue tecniche
perniciose".
La sperimentazione sull'uomo
Nella vasta area dei rischi e costi umani delle prestazioni mediche, e dei danni che
conseguono al suo verificarsi, occupa uno spazio particolare e nodale la
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sperimentazione, che è un processo connaturato intrinsecamente allo sviluppo della
medicina e della chirurgia. Nella comune accezione si è soliti limitare il significato del
sostantivo alla sperimentazione normativamente regolamentata la quale riguarda
principalmente nuovi farmaci e solo marginalmente nuovi prodotti tecnologici. Si
tratta di un'attività di ampia portata che coinvolge strutture sanitarie in gran parte del
mondo sviluppato e che è sostenuta dall'industria alla quale le norme di buona
pratica clinica attualmente divenute oggetto della direttiva europea n. 20/2001
richiedono una documentazione scientifica, di base e derivante dalla
sperimentazione sull'animale e sull'uomo, che dimostri sia l'efficacia sia la tollerabilità
(invero spesso relativa) del prodotto e della tecnica. In realtà il concetto di
sperimentazione deve essere esteso a molta parte della prassi medica sia nei suoi
aspetti storici che in quelli attuali, e nei suoi effetti su ogni singolo paziente.
Dobbiamo distinguere, infatti, tra la sperimentazione sull'uomo a fine specifico o
propriamente detta, e la sperimentazione a fine non specifico situazione di ben più
vasta portata e dai confini non agevolmente disegnabili, che è la conseguenza del
dinamismo applicativo di nuove proposte diagnostiche e terapeutiche
incessantemente immesse nella professione. Questa seconda categoria assume di
fatto il carattere sostanziale, benché informale, di sperimentazione sull'uomo che si
attua durante il processo di diffusione tra i medici di un nuovo farmaco o metodo nel
suo conseguente apprendimento e perfezionamento, da parte di ciascuno medico od
équipe. E' un processo che spesso si conclude con la definitiva adozione del farmaco
o di una determinata tecnica diagnostica o terapeutica, ma altrettanto spesso con il
loro abbandono a causa degli eccessivi inconvenienti o della comprovata inefficacia.
Negli ultimi anni organismi internazionali hanno richiamato con sempre maggiore
rigore il dovere etico di controllare la sperimentazione sull'uomo. Numerosi sono stati
i documenti prodotti su alcuni dei quali il Comitato Nazionale per la Bioetica ha fornito
il proprio contributo di critica e di proposta. I documenti più importanti sulla
sperimentazione sull'uomo regolamentata in base a dichiarazioni internazionali,
norme comunitarie e nazionali sono essenzialmente i seguenti.
La Dichiarazione di Helsinki I - approvata dalla 18ma Assemblea Medica Mondiale
nel 1964 e quindi emendata nel 1975, nel 1983, nel 1989, 1996 e nel 2000 nel corso
della 52ma assemblea dell'associazione - costituisce il documento fondamentale
della sperimentazione sull'uomo a fine specifico e rappresenta la più nota ed
importante legittimazione a livello internazionale di pratiche di ricerca biomedica che
hanno la finalità "di migliorare le procedure diagnostiche, terapeutiche e profilattiche
e la comprensione dell'eziologia e della patogenesi della malattia". Nell'edizione del
2000 sono fissati 32 principi fondamentali per tutta la ricerca medica. Questa forma
di sperimentazione sull'uomo a fine specifico si prefigge specifiche finalità di ricerca
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scientifica, prevalentemente di natura applicativa e non "pura", per accertare
l'efficacia e la tollerabilità di farmaci a fine terapeutico, o diagnostico, già registrati
ovvero da registrare; od anche per verificare comparativamente il valore di nuove
procedure tecniche di vario tipo. Tale sperimentazione viene anche definita
"terapeutica" in quanto, pur avendo l'obiettivo di acquisire nuove conoscenze
possiede una potenzialità diagnostica e terapeutica in favore del paziente. Si può
invece definire "non-terapeutica" quella sperimentazione sull'uomo che ha lo scopo
essenziale di verificare determinate ipotesi scientifiche senza tuttavia alcun beneficio
diretto per il paziente o per il volontario sano che accetta di partecipare.
La metodologia generale di questa sperimentazione vera e propria - cioè effettuata
secondo regole scientifiche in genere ormai standardizzate - si basa principalmente
sui cosiddetti trials clinici randomizzati (RCTs). Questi "trials" hanno una
connotazione ben precisa in quanto costituiscono uno studio longitudinale in cui si
impiegano uno o più gruppi di controllo rispetto al gruppo che subisce il trattamento,
ed in cui l'assegnazione ad uno dei due bracci dello studio dei soggetti utilizzati per
l'esperimento viene effettuata a caso (at random). Nel gruppo di controllo può essere
prevista la somministrazione di un placebo ovvero di una usuale terapia standard.
Spesso l'assegnazione ed il tipo di trattamento non sono noti al paziente ma solo al
medico (cieco singolo), mentre altre volte non sono noti neppure al medico (doppio
cieco). Questi artifizi hanno lo scopo di evitare che nella valutazione dei risultati vi
siano interferenze da parte dei pregiudizi del ricercatore il quale, in tal modo, può
anche studiare gli effetti puramente psicologici, suggestivi, esercitati dal trattamento
sul paziente di controllo. Il Ministero della Sanità ha adottato con decreto 15 luglio
1997 le Linee-Guida di Buona Pratica Clinica per l'esecuzione delle sperimentazioni
cliniche dei medicinali (Unione Europea, 1996) che rappresentano un approccio
rigoroso finalizzato ad evitare danni ed abusi sui pazienti che si sottopongono a
sperimentazione non di rado gravate da rischio di danno iatrogeno diretto od indiretto
(per omissione di cure in soggetti trattati con solo placebo). Ancora a livello di Unione
europea, il 4 aprile 2001, Parlamento europeo e Consiglio hanno adottato la direttiva
n. 2001/20, concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari
e amministrative degli Stati membri dell'Unione relative all'applicazione delle norme
di buona pratica clinica nella esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali
per uso umano. Tale direttiva è entrata in vigore il 1° maggio 2001 e dovrà essere
recepita negli ordinamenti degli Stati membri entro il 1° maggio 2003. Tra le novità
introdotte dalla disciplina comunitaria, è possibile ricordare, in estrema sintesi, le
modalità di concessione o di revoca del consenso informato, in particolare nel caso
di minori e di soggetti incapaci, il diritto di tutti i soggetti coinvolti nella
sperimentazione di rivolgersi ad una persona indipendente dal ricercatore per
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ottenere informazioni supplementari sullo svolgimento della sperimentazione stessa
(c.d. punto di riferimento), le misure in materia di tutela della riservatezza e di
scambio di informazioni tra i Paesi membri, la semplificazione della procedura di
autorizzazione dell'avvio della sperimentazione e le misure intese a rafforzare il ruolo
del Comitato etico soprattutto nella fase di esecuzione degli studi clinici. Non
altrettanto può dirsi, invece, per la fase di approvazione degli studi, nell'ambito della
quale i Comitati sono chiamati a svolgere compiti meno incisivi di quelli previsti, ad
esempio, dalla normativa italiana in materia di sperimentazione clinica dei farmaci
(sul punto si veda il documento del CNB Orientamenti peri Comitati Etici in Italia del
13 luglio 2001)".
La direttiva sancisce, inoltre, il rilievo giuridico delle norme di buona pratica clinica,
attribuendo formalmente ad esse efficacia vincolante. Particolarmente significativa, in
quest'ottica, è la prevista "comunitarizzazione" delle norme di GCP, nel senso che la
Direttiva attribuisce alla Comunità la competenza necessaria per adottare e rivedere
nel tempo, allo scopo di tener conto del progresso scientifico, i principi di buona
pratica clinica adottati a Helsinki, sopra ricordati. Si tratta di un importante sviluppo,
che permetterà la formulazione delle norme di GCP applicabili in ambito comunitario
da parte di organismi dotati di una legittimazione politica e istituzionale (e non solo
tecnica), in grado di formalizzare in norme giuridiche gli orientamenti derivanti dalla
buona pratica clinica. Nell'ambito del Consiglio d'Europa, l'organizzazione
internazionale creata nel 1948 per tutelare i diritti e le libertà fondamentali, di cui oggi
fanno parte 43 Stati europei, è in fase di avanzata elaborazione il Protocollo sulla
ricerca biomedica addizionale alla Convenzione di Oviedo sulla biomedicina sopra
richiamata, che diverrà vincolante per gli Stati contraenti una volta completate le
procedure di ratifica previste degli ordinamenti nazionali. In tale protocollo sono
fissati l'oggetto e lo scopo della ricerca, alcuni principi generali, il ruolo dei comitati
etici, l'informazione ai soggetti che partecipano alla ricerca al fine di ottenerne un
consenso informato, la riservatezza, la sicurezza e la supervisione, ed alcune
situazioni speciali come le condizioni cliniche di emergenza e quelle delle persone
private della libertà, la ricerca nelle donne gravide ed in allattamento. I cardini
fondamentali del Protocollo sono la prioritaria protezione della dignità ed identità
dell'essere umano per garantire a ciascuno, senza discriminazioni, il rispetto della
sua integrità ed degli altri diritti e le libertà fondamentali riguardo a qualsiasi ricerca
che implichi interventi sull'uomo.
L'interesse e il benessere dell'essere umano che partecipa alla ricerca devono
prevalere sull'interesse della società e della scienza. La ricerca biomedica deve
essere eseguita volontariamente e soggetta alle previsioni del Protocollo e di altre
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regole che assicurano la protezione dell'essere umano; quando richiede interventi è
giustificata solo se non esiste alcuna alternativa di comparabile efficacia; non deve
comportare rischi sproporzionati rispetto ai suoi benefici potenziali; infine deve
essere scientificamente giustificata secondo criteri di qualità scientifica, ed eseguita
secondo le regole e gli standards della professione, sotto la supervisione di un
qualificato esperto. Questi principi sono in sostanza sovrapponibili con quelli, più
analiticamente considerati dall'ultima edizione della Dichiarazione di Helsinki
dell'Associazione Medica Mondiale della quale si segnalano specificamente alcuni
punti come la considerazione per l'impatto sull'ambiente ed il benessere degli animali
usati nella ricerca (art.12) ; il ruolo di controllo del comitato etico e l'esigenza della
sua certa indipendenza dal ricercatore, dallo sponsor e da altre possibili forme di
indebita influenza (art.13); il permanere della responsabilità delle conseguenze della
ricerca sul ricercatore indipendentemente dal consenso informato ottenuto (art. 15); i
medici, dopo aver attentamente valutati i rischi del paziente, anche sotto il profilo
della loro gestibilità, devono cessare l'esperimento se i rischi si rivelano superiori ai
potenziali benefici (17). Altri principi fondamentali sono la maggiore rilevanza degli
obiettivi rispetto ai rischi, specie nel caso di volontari sani (art.18) e la ragionevole
probabilità che le popolazioni in cui la ricerca viene compiuta possano beneficare dei
risultati della ricerca (art. 19).
Per quanto riguarda i soggetti mentalmente incapaci e di minore età la selezione dei
soggetti che partecipano alla ricerca deve essere particolarmente rigorosa, non solo
ottenendo l'assenso del legale rappresentante (ed anche quello del minore se ha
raggiunto un grado di maturazione sufficiente ) ma anche garantendo che si tratti di
indagini necessarie a promuovere la salute della popolazione di riferimento e che
non possono essere eseguiti su soggetti mentalmente capaci (artt. 23-26). Di
interesse altrettanto rilevante sotto il profilo etico, è "la sperimentazione a fine non
specifico" di natura diagnostica e terapeutica ai cui profilo etici la letteratura
scientifica ha dedicato un marginale attenzione. Tale tipo di sperimentazione
sull'uomo - sostanziale, ed informale, regolata apparentemente dal principio del
consenso informato e della responsabilità del medico - si realizza in tutti i processi di
introduzione di un nuovo metodo diagnostico e terapeutico e, a ben vedere,
rappresenta l'essenza del dinamico processo storico che caratterizza i trattamenti
medico-chirurgici. In questo ambito è necessario includere anche i tentativi
terapeutici "sperimentali" estremi - in mancanza di alternative, ovvero di fronte
all'assoluta inefficacia dei metodi usuali- che pure vengono usualmente inclusi nella
categoria della sperimentazione vera e propria. Questo versante appartiene a tutta la
storia del progresso medico il quale si è realizzato a costi umani elevati, non solo nel
passato, neppure troppo lontano, quando il medico era privo di mezzi efficaci e
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sufficientemente sicuri, ma anche nell'era attuale. Qualche esempio può meglio
chiarire l'assunto. Nello straordinario cammino percorso dalla cardiochirurgia la
possibilità di operare a torace aperto, con cuore immobile essendo il sangue
convogliato nella circolazione extracorporea per la durata dell'intervento, è stata
dapprima prospettata, poi attuata nell'animale da esperimento, quindi realizzata su
pazienti per i quali si riteneva indicata una terapia cardiochirurgica.
L'apprendimento delle nuove tecniche, la decisione di applicarle all'uomo, lo studio
dei risultati e degli inconvenienti, la correzione dei metodi mano a mano che si sono
appalesate le difficoltà, sono avvenuti tutti attraverso una attività pionieristica per sua
natura "sperimentale" applicata direttamente sull'uomo, attuata su singoli pazienti
che hanno accettato l'alea riguardo ai risultati che connota inevitabilmente le prime
esperienze. E' chiaro che questo tentativi non rientrano nella tipologia dei trials
sperimentali, in genere attuati per lo studio dell'efficacia dei farmaci. Si tratta infatti di
decisioni direttamente terapeutiche, benché precedute da studi sull'animale e
dall'allestimento di adeguati strumenti. I costi di queste fasi pionieristiche sono
notoriamente un tasso elevato di complicanze e di mortalità che, tuttavia, per tornare
all'esempio citato, ha fornito ai cardiochirurghi la possibilità di perfezionare le
tecniche fino al raggiungimento di una soddisfacente standardizzazione.
"Sperimentale" è da considerarsi, sotto questo profilo, non solo la primissima fase
delle varie altre applicazioni chirurgiche di avanguardia ma anche l'apprendimento
generalizzato delle tecniche da parte dei chirurgi, per ciascuno dei quali sono in
genere necessari periodi più o meno lunghi di apprendistato, con i correlativi ed
inevitabili costi a carico dei pazienti che, senza piena consapevolezza del loro ruolo,
hanno dato il consenso al nuovo tipo di trattamento. Quanto detto ha solo lo scopo di
evidenziare che di fatto molta parte del progresso medico passa inevitabilmente
attraverso fasi sperimentali sull'uomo che pure non sono esplicitamente riconosciute
come tali. I pazienti ed i loro famigliari forse ne sono in qualche misura consapevoli:
ciononostante appare sorprendente come essi cerchino, spesso ad ogni costo e
specie nei casi più gravi, di sottoporsi alle terapie più nuove e per questo motivo più
incerte. Tale è il timore della malattia e della morte, e tale la forza della speranza, e
la fiducia nel progresso medico, che ogni proposta che sembri aprire uno spiraglio di
migliorare la salute e soprattutto di salvezza o prolungamento della vita è accolta
spesso senza esitazione. In tal modo si spiegano "i viaggi della speranza "e, specie
in campo oncologico, il cedimento di fronte alle più disparate proposte di terapie
alternative, spesso del tutto infondate sotto il profilo scientifico. Ne approfittano,
purtroppo, medici e non medici, irresponsabili od avidi. Ma di questa disponibilità
fiduciosa dei pazienti e delle loro famiglie si avvalgono anche i medici migliori che,
senza queste adesioni coraggiose cariche di speranza, mai potrebbero realizzare
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concretamente le proprie proposte, non di rado temerarie, e migliorarne l'attuazione
attraverso l'esperienza in vivo. Anche la molteplicità delle terapie collocate al confine,
ed oltre, della medicina ufficiale, cioè nel territorio delle varie medicine alternative,
risponde allo stesso meccanismo psicologico e finisce con l'assumere di fatto
carattere "sperimentale". In questi settori la possibile dannosità si esplica più che
altro nella più o meno lunga privazione, per il paziente, di terapie ufficiali consolidate.
E' evidente che in questo ambito il consenso è ancora più disinformato di quanto non
lo sia quello dato alle esperienze di frontiera della medicina ufficiale, mentre invece
occorre promuovere la consapevolezza del paziente sui rischi per la sua salute.
Concludendo su questo complesso e difficile tema, bisogna prendere atto che nel
progresso medico, sia quando ancora si ignorava la natura delle malattie e la
medicina era incapace di prestare cure realmente efficaci, sia nell'attuale fase di
grande sviluppo della Medicina Scientifica, l'empirismo ha prevalso e tuttora prevale
in quanto la medicina implica una valutazione caso per caso e aspetti
sostanzialmente sperimentali, benché attualmente sotto la guida di regole di
massima cui si attribuisce -non sempre con piena ragione- valore scientifico certo.
Il problema del rapporto medico-paziente
La posizione del medico nella società è da considerarsi da sempre collocata in
un'area di ambiguità che non solo non si è dissipata nel corso dei secoli ma sta
accentuandosi alla fine di questo secolo prospettando scenari futuri forse ancora più
difficili. Non sarà facile, questo chiarimento, né potrà essere comunque definitivo. E'
certo, però, che si impone ormai un colloquio, tra gli indirizzi interni alla corporazione
dei medici - condensati nei codici deontologici che sempre più si sforzano di tenere
conto delle esigenze dei cittadini sani e malati - e le richieste espresse dalla società,
non solo attraverso leggi (peraltro quasi insussistenti relativamente al nodo che qui
cerchiamo di individuare) ma anche attraverso una appropriata informazione
collettiva, tuttora insoddisfacente perché deformata e priva di chiarezza proprio sul
nodo centrale del rapporto tra scienza ed operatività medica , da un lato, ed obiettivi
condivisi dalla società, dall'altro. In quest'ottica, la direttiva comunitaria
sull'applicazione delle norme di buona pratica clinica nella sperimentazione clinica
dei medicinali, sopra richiamata, attribuisce a tutti i soggetti coinvolti nella
sperimentazione il diritto di rivolgersi ad una persona indipendente dal ricercatore per
ottenere informazioni supplementari sullo svolgimento della sperimentazione stessa
(c.d. punto di riferimento). Tra i temi centrali del dibattito sul difficile problema del
rapporto medico/paziente figura quello che riguarda il cosiddetto paternalismo
medico ed il correlato problema dell'autonomia del paziente, il più difficile da
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sciogliere nella fase attuale, e che tale sarà forse anche in futuro, a causa della
intricata complessità che è sopravvenuta nella sanità degli ultimi cinquant'anni.
E' utile, per comodità espositiva, prendere spunto da una schematica divisione in tre
fasi evolutive del rapporto medico/paziente che è stata utilizzata nel 1985 da Mark
Siegler, del Center for Clinical Ethics di Chicago. Già allora l'autore, riassumendo
invero concetti già noti, rilevava che negli Stati Uniti, conclusosi il primo periodo
durato millenni, denominato Era del Paternalismo (Age of Paternalism), vi aveva fatto
seguito il secondo periodo denominato Era dell'Autonomia (Age of Autonomy), di
breve durata perché rapidamente sostituito dal terzo periodo designato da Siegler
Era della Burocrazia Parsimoniosa (Age of Bureaucracy, detta anche Age of
Parsimony). Questa categorizzazione, certamente utile dal punto di vista concettuale,
non va però interpretata rigidamente quasi rappresentasse effettivamente il
succedersi ordinato di ere geologiche, ma piuttosto come l'enucleazione di tendenze
più generali, che nella realtà sovrappongono, si influenzano l'un l'altra, con continue
oscillazioni conservative o evolutive. In Italia il succedersi di questi periodi è
posticipato di pochi decenni, perché pur essendo ancora viva la dottrina
antipaternalistica dell'autonomia, già ci si trova di fatto nel pieno dell'era della
burocrazia, od era della parsimonia, caratterizzata dalla restrizione delle risorse
economiche. Si designa come paternalismo (termine che T.L. Beauchamp attribuisce
a Kant e Stuart Mill sia nel suo significato generale che in quello applicato ai
trattamenti medici) la "interferenza nella libertà della persona di azioni giustificate da
ragioni riguardanti esclusivamente il benessere, il bene, la felicità, i bisogni, gli
interessi o valori della persona coercizzata" (Dworkin).
Nell'Encyclopedia of Bioethics edita da W.T. Reich, Bruce Miller ritiene che il
"paternalismo" nei trattamenti medici consista nel curare un paziente contro la sua
volontà, in base al principio che il medico è professionalmente obbligato a
provvedere alle cure nell'interesse del paziente, perché egli conosce meglio del
paziente ciò che è bene per lui ("doctor knows best"). Invero non è esatta la tesi
secondo cui il paternalismo sarebbe un retaggio della medicina antica perché la
lettura dei testi ippocratici, ed altri riferimenti, tra cui un noto passo di Platone se le
Leggi (IX), inducono a ritenere che la deontologia medica antica non abbia affatto
prescritto un rapporto autoritario del medico nei confronti dei suoi pazienti ma al
contrario un rapporto basato sul dialogo, la persuasione e il continuo aggiornamento
sull'evoluzione della malattia dal paziente al medico, per consentirgli le necessarie
modifiche del trattamento. L'antipaternalismo (che l'ultima edizione dell'Encyclopedia
of Bioethics ritiene in declino) è oggi uno dei principali pilastri della dottrina
dell'autonomia del paziente, elaborata nel secondo dopoguerra di questo secolo ed
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implica un giudizio negativo che sembra molto condiviso pur essendo palesemente
sommario, elaborato per comodità di contrapposizione dialettica. Ma si riconosce
tuttavia che anche questo principio ammette deroghe proprio a livello del nodo
cruciale di tutto il problema paternalismo/autonomia, cioè nei casi di estrema
emergenza, con sicuro rischio per la vita del paziente nei quali il paternalismo viene
"giustificato" travalicandosi così, almeno in parte, l'autonomia del paziente.
Per tale motivo alcuni autori sono stati indotti, per superare gli ostacoli che la pratica
frappone alle rigide impostazioni teoretiche dell'autonomia, a coniare le espressioni
di paternalismo debole contrapposto a paternalismo forte (Ten, Feinberg, lo stesso
Dworkin) lasciando peraltro nell'incertezza circa i criteri oggettivi di distinzione del
primo rispetto al secondo. Il "paternalismo debole" sarebbe una "concessione" in
deroga al rigidi criteri dell'autonomia in quanto si ammette che per un soggetto
mentalmente incapace di decisione, il quale rifiuti una cura utile e necessaria, sia
possibile ottenere un "consenso vicario" per tutelare il suo interesse. Si tratta di
situazioni comuni nella pratica clinica, specie nel caso dei minori e degli adulti di
ridotta capacità mentale, nelle quali risulta evidente la necessità di un rapporto con il
paziente di tipo "paterno-fraterno" e per le quali il termine "paternalismo" finisce per
essere in parte improprio perché inidoneo a descrivere la quasi infinita gamma di
situazioni individuali che caratterizzano il dinamico rapporto diadico medico-paziente.
Lo schematismo eccessivo che caratterizza la contrapposizione bipolare
paternalismo/autonomia-antipaternalismo è attenuata nella individuazione di quattro
modelli di rapporto medico-paziente proposta da Emanuel ed Emanuel nel 1992. Il
primo modello, quello più tradizionale, è appunto il modello paternalistico detto talora
anche "genitoriale" o "sacerdotale" (priestly) nel quale il rapporto medico-paziente
tende ad assicurare che il paziente riceva le prestazioni che meglio garantiscano la
sua salute ed il suo benessere. E' il medico che valuta le condizioni del malato e
stabilisce i mezzi diagnostici e terapeutici più consoni a questo obiettivo
presentandogli una informazione selezionata che lo incoraggia a prestare il suo
consenso agli interventi che il curante ritiene i migliori per lui: fino al punto di
informarlo autoritariamente delle proprie decisioni e quindi procedere alle prestazioni.
Questo modello assume che il medico sia in possesso di criteri obiettivi per stabilire
la scelta migliore, che il paziente accetti la proposta (anche se non la gradisce), ed
infine che nel rapporto tra autonomia e benessere, scelta e salute, l'autonomia del
paziente sia collocata in un secondo piano. In tal modo diventa massima
l'obbligazione del medico, che assume su se stesso tutta la responsabilità compresa
quella di acquisire il parere di altri medici quando la sua competenza sia insufficiente.
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Gli altri tre modelli - informativo o scientifico, interpretativo, deliberativo - si collocano
nell'area della dottrina dell'autonomia (cfr. infra). La fase cosiddetta del
"paternalismo" - sulla quale nella seconda metà del secolo ventesimo si sono rivolte
le accuse di autoritarismo e di autoreferenzialità - è durata migliaia di anni durante i
quali il legame tra medico e paziente è stato essenzialmente diadico e pochi
estranei, eccetto i famigliari, potevano penetrare in questo personale, magico regno
delle cure. Era un modello di medicina basato, più di quanto non lo sia oggi, sulla
fiducia nella capacità tecnica del medico e sulla sua statura morale, sostenuta
dall'attribuzione di poteri magici del curante, ed era caratterizzata dalla dipendenza
del paziente e dal controllo esercitato dal medico.
I risultati della medicina durante questo lungo periodo sono stati notoriamente assai
modesti per la sostanziale assenza di conoscenze autenticamente scientifiche, fatta
eccezione per i dati provenienti dalla osservazione dei sintomi più appariscenti delle
malattie. Il sistema sanitario del passato, nella sua semplicità e "povertà", aveva
anche taluni importanti aspetti positivi. Era, anzitutto, a basso costo. Se non poteva
in genere fornire vere cure (cure) forniva una assistenza (care) sintomatica e dava
molto valore all'informazione (intesa come prognosi) che era un mistero conosciuto
solo dal medico esperto il quale la somministrava al paziente in "dosi" misurate. Nel
contempo era una medicina che, poco idonea a trattare l'aspetto fisico della malattia,
si dedicava molto all'aspetto psicologico e si basava sull'insegnamento di principi di
igiene e di medicina preventiva secondo le modeste conoscenze dell'epoca. In
questo sistema il medico era la sorgente dell'informazione, del supporto psicologico,
e dell'assistenza sintomatica. Ci si può oggi chiedere, quasi increduli, come una
medicina così povera di nozioni e di strumenti, abbia potuto dominare le menti ed i
corpi dei nostri predecessori per così lungo tempo. Ma le spiegazioni si possono
trovare non solo nel fatto che non esistevano alternative alla medicina prescientifica,
ma anche nella perdurante ricerca, da parte del paziente di un rapporto di tipo
"paterno-fraterno" tuttora costante sentimento di larga parte della popolazione, a
causa della componente psicologica legata alla sofferenza e alla necessità di essere
rassicurati anche nei casi più gravi. E' certo questa la ragione principale che spinge
milioni di pazienti dei paesi più sviluppati a rivolgersi alle pratiche di cura alternative
non scientifiche e a preferirle alle prestazioni della medicina scientifica.
La dottrina dell'autonomia del paziente e il modello contrattualistico si richiamano al
concetto di autonomia in filosofia morale ed in bioetica che riconosce la capacità
umana di autodeterminazione ed il principio che l'autonomia di ogni persona deve
essere sempre rispettata. Il problema è quello di formulare un preciso concetto di
autodeterminazione e di stabilire come ed in quale misura l'autonomia del singolo
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individuo debba essere rispettata. In bioetica clinica (o, se si preferisce, nell'etica
medica) il diritto all'autonomia del singolo paziente può entrare in tensione
conflittuale con l'obbligo professionale del medico di beneficialità nei confronti del
proprio paziente. La dottrina dell'autonomia contrappone di fatto il modello
contrattualistico di medicina (per il quale è il paziente che decide) al modello
paternalistico. E' probabile che essa sia sorta principalmente a causa dell'aumento di
conseguenze negative iatrogene, dirette od indirette, dei trattamenti diagnostici e
terapeutici. Da queste situazioni, e non a caso nell'aula di un tribunale civile
statunitense in cui si celebrava, nel 1957, un processo per risarcimento danni da
responsabilità medica (Salgo V. Leland Stanford, Jr. University Board of Trustees), è
nata la dottrina del consenso informato intimamente correlata con quella
dell'autonomia perché richiede che il paziente venga portato a conoscenza non
soltanto dei trattamenti cui verrà sottoposto ma anche delle possibili conseguenze
negative al fine di lasciargli l'autonoma possibilità di accettare o rifiutare il trattamento
anche a rischio della salute e della vita. La decisione della Corte è stata seguita da
un'ulteriore decisione della Kansas Supreme Court (Natanson V. Kline, 1960).
Le conoscenze scientifiche sviluppate nel corso di pochi secoli, ma cresciute
esponenzialmente nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, non
potevano non diventare, nei limiti del possibile, patrimonio da condividere tra medici
e cittadini sani e ammalati, in una società sostanzialmente liberale in cui vi è libera
circolazione delle idee e delle nuove conoscenze, favorita da potenti mezzi di
comunicazione, a disposizione di tutti. Né era possibile che l'accresciuta rischiosità
dei mezzi della medicina e della chirurgia, e dei danni conseguenti all'attuazione del
rischio, non richiamasse l'attenzione sui diritti dei malati e dei loro congiunti. Era
quindi inevitabile che si elaborassero principi di difesa dei malati di fronte a proposte
mediche a sempre più largo spettro, più invasive nel corpo e nella psiche, non più
ispirate, come nel passato, a conoscenze confuse ed arbitrarie - e come tali di fatto
impossibili da trasmettere correttamente a causa della mancanza di basi attendibili bensì a conoscenze scientifiche credibili. Questa nuova esigenza, d'altro canto, è
correlabile anche alla progressiva e rapida scomparsa dell'analfabetismo, alla
disponibilità per tutti dei mezzi di comunicazione di massa (la televisione più ancora
che la stampa) e alla sempre maggiore consapevolezza dei propri diritti, dovuta
all'evoluzione sociale e politica.
Il secondo dei quattro modelli di rapporto medico/paziente disegnati dagli Emanuel è
il modello informativo chiamato talora anche modello scientifico o "engineering" o
"consumer model". In questo modello, che corrisponde tipicamente alla dottrina
dell'autonomia, l'obiettivo dell'interazione medico-paziente è per il medico dare al
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proprio paziente tutte le informazioni indispensabili, lasciandolo libero di scegliere le
prestazioni che preferisce e che il curante eseguirà. Le informazioni concernono la
possibile natura della malattia, i mezzi diagnostici e terapeutici necessari per
precisarla e curarla, la natura e la probabilità dei rischi e benefici, ed ogni eventuale
incertezza nelle conoscenze mediche. In questo modello si realizza una netta
distinzione tra i fatti ed i valori: i valori di riferimento del paziente sono a lui stesso
conosciuti e definiti ma egli manca invece di adeguate notizie sui fatti. E' compito del
medico illustrare questi ultimi mentre spetta alle valutazioni del paziente, in base ai
suoi propri criteri, effettuare la scelta definitiva. Non vi è ruolo, in questo modello, per
i valori professati dal medico, né per i suoi giudizi sulla scelta del paziente. In altri
termini il medico agisce da tecnico che mette a disposizione del paziente gli elementi
necessari perché egli possa decidere e possa esercitare il controllo sull'operato del
professionista. In tal modo l'autonomia del paziente ha una chiara e decisiva
prevalenza.
Il terzo modello degli Emanuel è il modello interpretativo il quale si colloca in una
posizione di mediazione rispetto all'estremismo irrealistico del modello informativo.
L'obiettivo è quello di individuare i valori di riferimento del paziente e ciò che egli
realmente desidera, e di aiutarlo a scegliere quegli interventi che siano in armonia
con quei valori. Anche in questo modello l'informazione è basilare ma il medico
assiste il paziente anche nell'analizzare, articolare ed interpretare i suoi propri valori
e quali mezzi possono meglio realizzarli. Per far ciò il medico collabora con il
paziente, spesso ignaro egli stesso dei propri valori e fini, nell'individuarli ed anche
nel collocarli in una scala di priorità. Solo allora il medico determina quali trattamenti
diagnostici e terapeutici realizzano meglio l'obiettivo ma non li impone al paziente, il
quale resta alla fine l'arbitro di ogni decisione. Il medico, in questo modello, agisce
come un consigliere che aiuta il proprio paziente a conoscere e a scegliere.
L'obbligazione di diligenza del professionista, in questo modello, implica dunque un
impegnativo processo di coinvolgimento nel quale l'autonomia del paziente risulta
sufficientemente rispettata.
Il quarto modello degli Emanuel è il modello deliberativo. In questo modello i valori
del paziente non sono considerati necessariamente precostituiti e fissi bensì sono
considerati aperti allo sviluppo ed alla revisione attraverso la discussione. L'obiettivo
dell'interazione medico-paziente è quello di aiutare quest'ultimo ad individuare i valori
più strettamente correlati con il bene della salute che possono realisticamente essere
raggiunti in una determinata situazione clinica. Il medico dunque deve partire
dall'informazione sulle condizioni di salute e da questa base aiutare il paziente ad
individuare i tipi di valori implicati nelle possibili opzioni diagnostiche e terapeutiche.
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Ciò avviene attraverso una discussione che tralascia ogni possibile implicazione di
problemi non medici e comunque non è coercitiva. In questo modello il medico è
visto come un insegnante od un fratello che coinvolge il paziente in un proficuo
dialogo, in un bilanciamento dei pro e dei contro su ciò che può essere il meglio per
lui in quella determinata situazione.
Il recente rapporto dell'Hastings Center su Gli scopi della medicina: nuove priorità le
cui riflessioni sono in molta parte condivisibili, sintetizza in modo efficace i principi
che sono a fondamento dell'autonomia, pur apparendo anch'esso carente nello
studio della loro compatibilità con le esigenze della pratica medica. Il Rapporto ritiene
che il riconoscimento sempre più determinato ed esplicito del rispetto che si deve alle
persone, implicante il diritto all'autodeterminazione - cioè, all'autonomia del paziente in medicina e nell'assistenza sanitaria, sancito da moltissime dichiarazioni
internazionali, costituisca un progresso importante della medicina contemporanea .Vi
si afferma inoltre che se l'interesse centrale della medicina è stato sempre la salute
degli individui, più recentemente è stata avanzata l'idea che scopo della medicina,
forse anzi il suo scopo per eccellenza, possa essere quello dell'autonomia nel suo
significato più ampio: l'autodeterminazione nella scelta di come vivere. Tuttavia se il
fine ultimo della salute fosse quello di consentire una vita propria scegliendo
liberamente tra tutte le possibilità senza gli impedimenti insiti nella malattia e nelle
infermità e quindi se la salute favorisce la possibilità della libertà, sarebbe un errore
vedere nella libertà uno scopo della medicina. La salute, afferma il Rapporto, è
condizione necessaria, ma non sufficiente, dell'autonomia, e la medicina non può
ovviare a questo limite. Infatti alla promozione della libertà cooperano molte altre
istituzioni, come ad esempio la scuola, per cui la medicina chiaramente non può
realizzarla da sola, anche se a volte può offrire contributi importanti al miglioramento
dell'autonomia stessa. L'ambito della medicina è il bene del corpo e della mente,
continua il rapporto dell'Hastings Center non il bene complessivo della persona. Al
conseguimento di quest'ultimo la medicina può dare solo dei contributi importanti e,
anche quando lo fa, esclusivamente per alcuni aspetti della vita. A ben riflettere, la
cosiddetta era dell'autonomia si connota per l'aver messo in discussione ancora una
volta (cioè come in altre occasioni del passato) i limiti del medico i quali si correlano
al più vasto problema dei limiti della medicina.
Nella cosiddetta era dell'autonomia, fa rilevare Siegler, l'obiettivo della cura (cure) è
risultato prevalente rispetto al "prendersi cura" (care) ed alla prevenzione della
malattia. I costi economici connessi alla rapida evoluzione scientifica e tecnologica
che ha prodotto la dottrina dell'autonomia, non sono stati considerati, per qualche
decennio, un fattore rilevante e comunque non certo da ritenere prioritario rispetto ad
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altri ed in particolare l'autonomia del paziente, i suoi bisogni ed i suoi desideri..
Durante questo periodo, già seguito, a quanto è ormai da ritenere, dall'"era" della
parsimonia, il rapporto diadico tra medico e paziente ha cominciato a diluirsi ed
allentarsi, specie in ambito ospedaliero, a causa della pluralità delle prestazioni
compiute da più sanitari a favore di uno stesso paziente (frammentazione e
pluralizzazione del rapporto), in una specie di catena di montaggio a forte impronta
tecnologica, resa necessaria dalla complessità dell'organizzazione sanitaria.
La bilancia, perlomeno teorica, del potere si è fatta pendere lentamente e
progressivamente dal medico al paziente a causa, soprattutto, del nascere della
dottrina del consenso informato e della minaccia potenziale dei processi contro i
medici per colpa professionale e per violazione della regola del consenso. Negli Stati
Uniti la dottrina dell'autonomia nelle sue forme esasperate, è stata considerata a
carattere libertario e consumistico ed è da tempo sottoposta a revisione critica da
parte di autorevoli bioeticisti (Clements e Sider, 1983; Callahan, 1984; Thomasma,
1984,Veatch, 1995). La loro tesi era quella opposta, cioè quella che ritiene prioritario
compito dei sanitari il mantenimento ed il ripristino della salute. E' questo, del resto, il
passaggio cruciale che segna la differenza tra la rigida concezione dell'autonomia e
le regole antiche dell'etica medica. In un esame più allargato del difficile problema, il
citato Rapporto dell'Hastings Center tenta una mediazione, affermando che come è
un errore fare dell'autonomia un obiettivo fondamentale della medicina, così è un
errore erigere a scopo primario della medicina il benessere complessivo della
società: la prima sarebbe una visione eccessivamente individualistica, la seconda
una visione eccessivamente comunitaristica. Non è nei poteri della medicina di
determinare il bene complessivo della società. Per giocare un ruolo generale nella
promozione del benessere sociale, al di là di quello più limitato di provvedere alla
salute dei cittadini, la medicina dovrebbe essere in grado di pronunciare giudizi di
carattere più generale e di stabilire quando le sue capacità possano essere poste al
servizio degli scopi della società o subordinate ad essi. Ma essa non è in grado di
farlo; e qualora tollerasse di venire impiegata a questi scopi, metterebbe a
repentaglio la propria integrità e il conseguimento dei propri scopi. Una società che si
servisse della medicina per cancellare gli inadatti, per servire fini politici di parte, per
farne l'ancella dell'autorità politica o anche solo l'esecutrice della volontà del popolo,
le farebbe perdere ben presto la sua centralità e la sua integrità. In realtà il principio
morale dell'autonomia del paziente entra in conflitto con il doveri del medico solo in
circostanze estreme, che possono giustificare l'elaborazione di due dottrine
contrapposte: quella che ritiene sempre prevalente il dovere di curare e di salvare la
vita e la salute, quella che vede invece prevalere il diritto alla decisione libera ed
autonoma, qualunque siano le conseguenze, anche il peggioramento della malattia o
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la morte. Tuttavia le posizioni estreme della dottrina dell'autonomia, sono non di rado
in contrasto, quantomeno in Italia, con altre norme dell'ordinamento le quali
impongono ai medici, in numerose situazioni, quella che viene definita posizione di
garanzia la quale emerge quando il paziente si affida alle loro cure, non certo quando
egli rimane nel proprio domicilio e deliberatamente rifiuta ogni assistenza, situazione
che solo in presenza di una incapacità mentale può giustificare interventi coercitivi.
La cosiddetta "era dell'autonomia" era già in declino negli Stati Uniti nel 1985, al
sopraggiungere dell'"era" cosiddetta della parsimonia nella quale anche l'Italia oggi si
trova evidentemente entrata a causa della progressiva forbice tra costi economici
globali della medicina e disponibilità limitata delle risorse il che sta producendo un
sostanziale ridimensionamento delle libertà decisionali sia del malato che dello
stesso medico. Va osservato tuttavia, come accennato poc'anzi, che questa
distinzione tra diverse "ere" nell'interpretazione dell'etica del rapporto medicopaziente deve essere considerata una modellizzazione esplicativa, che non può
essere di per sé applicata alla realtà storica e quotidiana della medicina Ciò
premesso, si può nondimeno notare che questa nuova fase è già da qualche anno
iniziata anche in Italia dove convive con quella dell'autonomia: che tuttavia conserva
uno spazio maggioritario nelle riviste e nelle aule dei convegni dove non di rado
domina la retorica dedicata a principi in parte inapplicabili nella pratica medica, ma
purtroppo applicati con severità crescente nei tribunali, nei quali tante declamazioni
di principio si ritorcono a colpire i medici. Nella realtà quotidiana della medicina l'era
della parsimonia sta ormai occupando incontrastata il campo pretendendo il
contenimento dei costi e un adeguato rapporto costo/efficacia e richiedendo pertanto
analisi di natura strettamente burocratica sui rischi/benefici. La qualità delle cure, già
per proprio conto difficile da definire, sta diventando un obiettivo sempre più correlato
al costo dell'assistenza che è molto più facile da individuare e quantificare. In questo
nuovo periodo il rapporto diadico medico-paziente si allenta ulteriormente nelle
strutture sanitarie - che si occupano delle patologie più rilevanti - perché il medico
viene sempre più caricato della responsabilità di interessi multipli che includono il
personale addetto all'organizzazione, gli ospedali, il mondo politico, e negli Stati Uniti
- tra poco probabilmente anche in Italia - le compagnie di assicurazione. Il medico,
cui si richiede di farsi carico di un'attività che contenga i costi e di assumersi
contemporaneamente anche i ruolo di manager, moltiplica i propri compiti mediante
relazioni plurime e policentriche.
La tendenza legislativa è spesso ispirata alle necessità del bilancio della sanità e nel
contempo a disegnare una figura di medico ospedaliero i cui compiti e limiti recano i
connotati sempre più evidenti dell'era della parsimonia. La corsa per rispettare i
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
tempi di ricovero programmati nella prospettiva delle esigenze dell'economia
sanitaria provoca situazioni di stress del medico, aumenta la probabilità di errore
diagnostico e terapeutico e riduce comunque il tempo a disposizione per esaurienti
colloqui personali con i pazienti, demandati ai medici più giovani ed ai paramedici,
accentuando in tal modo una situazione lamentata per il passato e allontanando
sempre di più l'ideale rapporto del medico con il paziente declamato nei proclami sui
diritti di quest'ultimo che si leggono nei testi dottrinali e nelle sentenze dei tribunali.
Nelle due precedenti fasi il bene del paziente era ritenuto il problema dominante del
medico. Nell'"era" cosiddetta del paternalismo consisteva nel primario interesse della
salute del paziente individuato dal medico sotto la propria responsabilità. Nella
successiva "era" dell'autonomia tale bene si è controbilanciato dando rilievo primario
alla libertà del paziente e al suo diritto all'autodeterminazione. Nell'età della
parsimonia il bene del paziente è collocato sul piatto di una bilancia che porta
sull'altro piatto beni molto diversi, come i bisogni dell'ospedale, i bisogni di coloro che
vi lavorano (inclusi ovviamente i medici), e le necessità della società. Il decision
making non è più consegnato, pertanto, soltanto nelle mani del medico o dello stesso
paziente. Il paternalismo medico e l'autonomia del paziente, in relazione alle
decisioni mediche, finiscono così per essere sostituiti dall'efficienza e convenienza
delle istituzioni e della società, basati largamente su valutazioni dei costi, problema
che è divenuto sempre più centrale. In contrasto con i due precedenti periodi le
scelte dei medici ed i desideri dei pazienti saranno sempre più sottoposti ai desideri
ed alle decisioni dei politici e dei burocrati, delle varie multinazionali dei farmaci e
degli strumenti e materiali sanitari ed anche ad esigenze di bilancio delle compagnie
di assicurazione che, se negassero o restringessero drasticamente le coperture per
responsabilità civile medica, di fatto indurrebbero molti medici ad abbandonare la
propria attività: il che è già più volte avvenuto negli Stati Uniti.
Nella nuova fase della parsimonia il rapporto medico-paziente rischia di peggiorare
sia rispetto alla criticata era del paternalismo sia alla più recente età dell'autonomia.
Se un paziente desidera prolungare la propria degenza in ospedale per qualsiasi
ragionevole motivo personale, tra cui il comprensibile timore di non trovare un
adeguato supporto a domicilio durante la convalescenza -per fare un esempio tra i
più comuni e più semplici - la rigorosa regola dei DRG lo costringe invece a
rinunciare al proprio desiderio di autonoma decisione, ed accettare di essere
dimesso. E se il paziente desidera usufruire di strumenti che l'ospedale non possiede
a causa delle sue dimensioni e delle sue indisponibilità economiche, vi deve
rinunciare sperando di essere accolto in altre strutture, spesso lontane dalla sua
residenza e quindi dalla sua famiglia. Il mutare delle conoscenze non può dunque
cambiare la sostanza di un rapporto che spesso le condizioni di oggettiva
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
dipendenza del paziente dal medico, dovuta alla malattia e lo stato soggettivo in cui
quest'ultimo si trova, rendono disuguale e asimmetrico ed anche in un periodo, come
l'attuale, dove lo strumento del contenzioso giudiziario si sforza di garantire la
massima tutela dei diritti dei malati, è oggettivamente difficile riequilibrare una
bilancia per sua natura squilibrata.
I processi penali e civili non sono in grado di farlo e rischiano anzi di produrre una più
diffusa medicalizzazione che influisce negativamente gli atti medici. Si deve del resto
riconoscere che un rapporto asimmetrico è destino comune a tutti i rapporti umani, in
cui singoli o gruppi si "specializzano" in determinate attività le quali diventano
necessarie agli altri o comunque sono ad essi imposte: si tratti dei militari, degli
uomini politici, dei commercianti, degli ingegneri, degli avvocati, degli insegnanti e
così via fino alla miriade di "mestieri" iperspecializzati oggi riscontrabili in una società
che basa la propria vita ed il proprio sviluppo su di un reticolo quasi inestricabile di
interdipendenze. In questa fittissima rete di rapporti il principio di autonomia, di cui
diremo tra poco, diventa spesso virtuale anche se residuano spazi, che
bisognerebbe potenziare, per decisioni ed azioni personali. La medicina, non
differisce certo dalle altre "specializzazioni" soprattutto quelle tipiche delle professioni
intellettuali, che, in senso lato, potrebbero essere spesso accusate di atteggiamento
"paternalistici" ognuna con la proprie peculiarità, anche se l'imposizione al "cliente"
non avviene con mezzi direttamente coercitivi. E' peraltro comprensibile, a causa del
peculiare oggetto dell'attività medica, costituito dalla salute e dalla vita - beni primari,
in Italia costituzionalmente protetti, e posti a rischio di danno iatrogeno - che una
particolare attenzione venga posta alla professione sanitaria e che essa, a differenza
delle altre professioni, sia messa oggi in discussione in modo specifico, producendo
crisi e conflitti di crescente intensità e gravità. Sul piano dottrinale è dunque difficile
riscontrare una reale differenza tra i principi e precetti deontologici dell'epoca
ippocratica e quelli contenuti nei codici deontologici attuali, principi che da sempre
ispirano la prassi della maggioranza dei medici onesti (nel senso più ampio del
termine, che include la competenza e la diligenza) basata sulla beneficence-in-trust
che concepisce la salute come bene relazionale "obiettivo di entrambi, paziente e
curante", che "si pongono in un rapporto di fiducia reciproca in cui perseguono
l'interesse maggiore, quello della salute" .
E sul piano pratico lo squilibrio tra medico e paziente è ineliminabile: ma spetta
certamente al medico ridurre al massimo questa asimmetria, fa parte della sua Arte
sul piano tecnico prima ancora che su quello morale. Accanto alla salute esistono
altri valori e beni umani fondamentali. E' questa probabilmente la tensione principale
tra l'approccio cosiddetto "paternalistico" e quello "contrattualistico" in medicina. Esso
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
è alla base della richiesta del riconoscimento dell'autonomia del paziente, da cui
discende il principio del consenso informato e il diritto di rifiutare le cure. Il medico
per rendere possibile tale principio ha il dovere di informare il paziente sui rischi
connessi alla terapia e sui suoi costi, anche in termini personali e in relazione ad altri
valori o beni. La salute, tuttavia, pur non essendo un bene assoluto, è il bene che la
medicina persegue, ed il compito primario del medico, a differenza di altri beni
individuali quali l'autonomia e o il benessere. La tutela dell'autonomia del paziente
non consiste quindi nel negoziare la salute come orientamento comune del rapporto
medico-paziente, ma nel concordare le scelte sui mezzi, sul rapporto costi/benefici e
sulla valutazione del rischio che si è disposti a correre.
Il paziente può non accettare questa impostazione e trovare un altro medico, ma il
medico non è tenuto ad andare contro il suo giudizio clinico per acconsentire al
volere del paziente, nel caso in cui non si giunga ad una decisione terapeutica
condivisa. Connotare negativamente un'intera epoca, durata millenni, come era del
"paternalismo" da ripudiare, implicherebbe almeno che le dottrine deontologiche di
quel lungo periodo avessero teorizzato una condotta irragionevolmente autoritaria
del medico, il che non corrisponde a quanto la storia della deontologia medica ci
tramanda. Altra cosa è il giudizio negativo che si deve formulare sulla condotta
autoritaria di singoli medici, basata su di una erronea concezione del proprio ruolo e
dei propri limiti, che in talune circostanze porta all'abuso. Se, infatti, per paternalismo
medico si vuole intendere l'atteggiamento arrogante di quei medici che esercitano,
spesso inconsapevolmente, un potere di suggestione e di coercizione morale che li
porta a sostituirsi in modo apodittico alla volontà del paziente approfittando della sua
ignoranza e del proprio sapere, questo è problema di sempre e probabilmente lo
sarà anche in futuro: perché chi possiede determinate, specifiche competenze, si
trova in una posizione privilegiata, che consente gli abusi consapevoli od anche
inconsapevoli. Il "paternalismo" non designa dunque un'era ma solo dei singoli
comportamenti professionali purtroppo tuttora diffusi, non di rado connessi a tratti
caratteriali, connotati da supponenza e da scarsa capacità di comunicare diagnosi,
progetti terapeutici e prognosi con rispetto ed umanità. Questo atteggiamento non è
certo neppure "paterno", nel senso autentico del termine, e diventa negativamente
paternalistico, come imposizione di verità e di comportamenti, in momenti in cui il
richiedente è in una condizione di bisogno, e quindi di inferiorità. Giudicare la lunga
storia dell'assistenza medica - prestata pur nella scarsa conoscenza medica - con lo
sbrigativo giudizio di "paternalismo" è atteggiamento superficiale ed irrispettoso nei
confronti della lunghissima schiera di medici che ci hanno preceduto nell'arco di
millenni e che tanti meriti hanno acquisito in contesti difficili e connotati
incolpevolmente da una assai lenta crescita delle conoscenze scientifiche, iniziate di
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
fatto nel secolo XVII. Se il paternalismo deteriore, antico e recente, deve essere
ripudiato e combattuto, è da ritenere invece che dal millenario passato della medicina
debbano essere ricuperati proprio quello spirito, e quella pratica, che si richiama alla
fraterna, ed anche paterna-materna solidarietà con i pazienti, ed anche con i
congiunti che soffrono con loro.
Limiti e rischi della medicina scientifica
Il "patto" tra medicina e società rischia di essere messo in crisi dall'insufficiente
informazione ai cittadini circa i limiti e i rischi della medicina scientifica. La società
potrebbe accettare di mettere in discussione la "legittimità" delle proprie richieste,
attualmente sempre più estese ed esigenti e contrarre la domanda condividendo il
razionamento delle risorse e le priorità, ma a condizione che sia adeguatamente
informata della natura peculiare della medicina, del suo carattere imperfetto, della
sua intrinseca rischiosità. E' questa una informazione per ora assente ed anzi
sostituita da attese spesso irragionevoli. Negli Stati Uniti, così come in Gran
Bretagna, sulla scorta dei dati desunti dagli errori in medicina, è in piena evoluzione
un dibattito che porterà a rendere più severa la valutazione della qualità
professionale degli operatori sanitari attraverso veri e propri esami periodici di
idoneità. Ma se la capacità e l'aggiornamento degli operatori della salute
rappresentano un caposaldo delle condizioni di base per il nuovo patto tra società e
medicina, lo stesso deve essere affermato - a maggior ragione, se possibile - per il
livello di conoscenza che è a monte della prestazione. Anche il più aggiornato dei
medici, infatti, non può evitare l'errore e tanto meno l'insuccesso - connaturati ad una
professione a rischio, se gli strumenti del suo aggiornamento (in primo luogo la
sperimentazione clinica e la letteratura scientifica) non tengono conto di ciò che
veramente è utile al paziente, di ciò che non lo è, e di ciò che è francamente
dannoso. A tale riguardo, invece, non sono stati registrati, purtroppo, i progressi
sperati, nonostante i primi lavori di A. Cochrane circa la medicina basata sulle prove
di efficacia siano noti da tempo. Si tratta di un problema che investe l'intera società.
Anche la popolazione subisce infatti le conseguenze di una costante
disinformazione, che avviene attraverso l'enfatizzazione spesso acritica dei benefici
di una medicina della quale non si evidenziano a sufficienza rischi, effetti
indesiderati, incertezze, inutilità, eventuale dannosità. Tra i tanti esempi che si
potrebbero proporre ci si limita a segnalare il complesso del consumo dei farmaci e
degli effetti collaterali ad essi connessi. I farmaci attualmente in commercio
ammontano a diverse migliaia, per tutti la commercializzazione è preceduta da
sperimentazioni adeguate, ma il numero e la qualità degli effetti dannosi collaterali,
talora gravi, pur essendo menzionati nei fogli illustrativi che sono obbligatoriamente
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
allegati alle specialità, non sono di per sé in grado di essere compresi dai pazienti:
sia a causa della terminologia usata sia perché non è immaginabile che il medico
curante possa spiegarne in dettaglio la natura e la rischiosità. Si aggiunga che tra gli
stati membri dell'Unione Europea sussistono significative differenze e gravi
incongruenze delle norme che governano le attività e le politiche in tema di
regolazione e commercializzazione dei farmaci.
In questo contesto la comparsa di patologie gravi da farmaci - che recenti stime
relative agli Stati Uniti indicano in circa 2 milioni di casi, con oltre centomila morti
all'anno collocandosi tra la quarta e la sesta causa di morte - non è accettata dai
danneggiati e dai loro congiunti, sostanzialmente ignari di questi concreti rischi e
quindi inevitabilmente inclini ad attribuirne la colpa ai medici. Il problema è rilevante
anche dal punto di vista economico. Un recente studio valuta in più di 76 miliardi di
dollari il costo annuale, negli Stati Uniti, dell'uso improprio dei farmaci. Esistono
evidenze che in Italia e in Francia il 20% delle spese da farmaci riguardi prodotti la
cui efficacia non è comprovata. Recenti ricerche in farmacoeconomia hanno inoltre
indicato che i costi associati all'uso inappropriato, ovvero eccessivo, dei farmaci
possono persino essere anche superiori alle stesse spese iniziali per l'acquisto dei
farmaci. Questi costi comprendono le spese addizionali correlate all'incremento delle
ospedalizzazioni, al protrarsi delle degenze, al ricorso a visite ambulatoriali,
procedure diagnostiche e trattamenti aggiuntivi dovuti ai problemi insorti a seguito
della prescrizione farmacoterapica. Includendo in tali calcoli anche i costi indiretti
derivanti dalla perdita di produttività, i costi complessivi negli USA ammonterebbero a
una cifra compresa tra 138 e 182 miliardi dollari, ponendo dunque la mortalità e la
morbilità correlate all'uso di farmaci tra le evenienze più gravose in termini di
consumo di risorse in sanità. In Italia gli avvelenamenti ed effetti tossici da farmaci
(DRG 449-451) hanno comportato nel 1994 oltre 20.000 ricoveri, e circa 28.000 nel
1995. Tali dati peraltro sottostimano il problema per almeno due motivi: anzitutto in
quanto si riferiscono alle sole reazioni avverse da farmaci già codificate come
diagnosi principale, in secondo luogo in quanto si riferiscono alle sole reazioni
avverse e non anche a dosaggi inappropriati ed alle scelte terapeutiche incongrue.
Problemi ancora maggiori sono suscitati dai vaccini, dei quali si richiede da molte
parti la revoca dell'obbligatorietà o quanto meno una maggiore conoscenza
dell'epidemiologia dei danni da effetti avversi. Il direttore del British Medical Journal
(Smith 1999), in un suo editoriale ha sintetizzato le esigenze irrinunciabili
dell'informazione che deve essere fornita all'opinione pubblica : la morte è inevitabile;
la maggior parte delle malattie gravi non può essere guarita; gli antibiotici non
servono per curare l'influenza; le protesi artificiali ogni tanto si rompono; gli ospedali
sono luoghi pericolosi; ogni medicamento ha anche effetti secondari; la maggioranza
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
degli interventi medici dà solo benefici marginali e molti non hanno effetto; gli
screening producono anche falsi positivi e falsi negativi; esistono modi migliori di
spendere i soldi che destinarli ad acquisire tecnologia medico-sanitaria.
Riscrivere le regole del rapporto tra società e medicina, al fine di stipulare un nuovo
patto per i prossimi anni, richiede, da parte della medicina, un rilevante sforzo di
sincerità, indubbiamente difficile per ragioni tecniche, anzitutto, ma anche per ragioni
psicologiche non trascurabili. Tuttavia tale sforzo deve essere necessariamente
compiuto e gli organi di informazione devono contribuirvi abbandonando ogni
tentazione al sensazionalismo ed alla facile accusa che sono tra i principali ostacoli
che inibiscono la sincerità dei medici.
Concetti di malattia e di terapia
Le idee di essenza e di natura avanzate in questo saggio implicano una filosofia che
si sottragga almeno in parte all’empirismo radicale che risolve differenze di
qualità/essenze in mere differenze di quantità. Una filosofia del genere è oggi rara
per
l’antiessenzialismo
indotto
da
generalizzazioni
pseudoscientifiche
dell’evoluzionismo che qui mostra una valenza nichilistica. Quando questa si esercita
sulla natura umana, cerca velleitariamente di privarla di ogni necessità, di
considerarla completamente trasformabile e in sé priva di un senso, che le dovrà
essere attribuito dal soggetto. Un esito di questo processo è la attenuazione sino alla
cancellazione delle differenze fra interventi terapeutici e interventi ‘manipolativimigliorativi’, nell’intento di rimettere alle preferenze individuali dei soggetti,
all’ingegnere genetico e alle regole del mercato il compito di gestire l’intero ambito
della salute, della terapia, della selezione genetica. Coerentemente N. Agar ha
scritto: “I liberali dubitano che il concetto di malattia possa servire a risolvere, in sede
di teoria morale, i problemi posti dalla distinzione fra terapia e selezione genetica”
(citato da Habermas, p. 22). Su questo importante aspetto che chiama in causa un
concetto reggente di ogni medicina, quello di malattia, ora ci soffermiamo nell’intento
di trovare criteri per separare il momento terapeutico da quello ‘potenziante’.
Le idee di malattia e terapia necessariamente rinviano alla natura come normalità di
funzionamento, alla malattia come scostamento da tale normalità, e alla terapia
come ricostituzione della normalità. La medicina come arte e scienza e l’idea di
terapia che le è immanente non possono venire esplicitate senza fare riferimento
all’idea di natura almeno come normalità di funzionamento e correlato accertamento
anche statistico. In effetti l’idea di terapia è connessa, dipendente e consecutiva a
quella di malattia e quest’ultima implica che vi sia una deviazione dallo stato
normale, cioè dalla condizione di salute, che costituisce la “condizione naturale”.
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Ora, se il concetto di natura smarrisce ogni rilevanza obiettiva almeno
fenomenologicamente accertabile, e diventa soltanto il prodotto culturale
storicamente variabile di scelte e decisioni del singolo in cui si esprimono i suoi
desideri, impulsi, istinti, anche i concetti di malattia e di terapia andrebbero
abbandonati.
Se niente è di per sé naturale e normofunzionale, neppure lo stato di salute lo è, e
neppure la declinazione dal naturale (ossia la malattia) ha senso: conseguentemente
cade il concetto di terapia. Più in generale viene compromesso il concetto di
medicina ippocratica, che è basata su poche ma nodali nozioni che ne sostengono
l’impalcatura: il concetto di naturale quale normalità di funzionamento, la malattia
come deviazione da una condizione naturale o normale, la terapia quale azione volta
a ristabilire la salute.
Ora l’eugenetica ‘negativa’ o terapeutica non può venire giudicata sfavorevolmente
a priori: non vi è nulla di censurabile bensì di meritorio nel curare le malattie
genetiche, a condizione che lo scopo terapeutico non proceda ad autoinvalidarsi
mediante la violazione del principio per cui l’essere umano non può mai diventare
mezzo per altro o altri. La gestione concreta dell’eugenetica pone e porrà una
miriade di delicati problemi che non possono essere soltanto previsti a tavolino.
Indubbiamente occorrerà evitare una eugenetica che violi il principio di uguaglianza
naturale del genere, e che introduca differenze antropologicamente rilevanti fra
individui e gruppi umani.
Nonostante la diversità di linguaggio filosofico e di orizzonti di riferimento, vi sono
somiglianze fra le posizioni di Habermas e quelle di Fukuyama, fra cui il significativo
mantenimento della differenza fra terapia genica ed eugenetica: la prima a scopo
curativo, l’altra volta a interventi selezionanti, migliorativi e potenzianti. Entrambi si
esprimono criticamente sull’eugenetica liberale, ossia su un impiego della genetica
che conduca al superamento della differenza fra terapia e potenziamento, o che
proceda a selezionare fra coloro cui si concede di continuare lo sviluppo e coloro che
vengono soppressi.
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
PSICOLOGIA - PSICHIATRIA
Temperamento, carattere e personalità
Ogni persona umana ha sin dalla nascita un fondamento biologico: il
patrimonio organico innato che ciascuno riceve attraverso la trasmissione
ereditaria (costituzione ereditaria), da cui derivano le forme e proporzioni del
corpo (costituzione morfologica) e le modalità di funzioni vitali (circolatoria,
respiratoria, digestiva, ecc.) dipendenti dal sistema nervoso e endocrino
(costituzione fisiologica). Il complesso di questi elementi determina una
iniziale struttura psichica o temperamento. Perché "iniziale"? Perché al
condizionamento dei fattori ereditari si deve aggiungere quello dovuto ai fattori
ambientali, che interessa tutta la vita del soggetto. La personalità è frutto di
questi condizionamenti e della reazione a questi condizionamenti.
Con la parola temperamento s'intende la risposta psichica naturale al corredo
organico ereditario: essa esprime impulsi, tendenze istintive, disposizioni,
necessità, stati affettivi...
Il carattere invece è frutto dell'iniziativa del soggetto sotto l'influsso
dell'ambiente. Nel bambino il carattere non si distingue ancora dal
temperamento, la decisione non si distingue dall'impulso, i processi di
inibizione sono poco sviluppati, gli schemi mentali sono troppo semplici, ecc.
La personalità non solo unifica gli aspetti biologici del temperamento e quelli
psichici del carattere, influenzati dall'ambiente, ma crea anche valori, modelli
di comportamento, forme di organizzazione sociale in grado di modificare
l'ambiente e la stessa personalità.
Fondamenti biologici dell'attività psichica
Tutte le attività psichiche dell'uomo poggiano su un fondamento biologico che si
esplica studiando l'uomo dal punto di vista anatomico (struttura dei vari organi e
apparati) e fisiologico (modalità di funzionamento degli organi).
I) L'organo più importante del corpo umano è il sistema nervoso, che regola e
coordina ogni altra attività fisiologica e presiede al rapporto organismo/ambiente.
Le funzioni principali del sistema nervoso sono tre:
• ricezione (attraverso gli organi di senso esso capta i diversi stimoli
dell'ambiente o quelli interni dell'organismo);
• elaborazione/controllo (attraverso le fibre nervose di connessione gli stimoli
giungono al cervello che li rielabora);
• risposta (dai centri nervosi altre fibre di connessione ritrasmettono lo stimolo
alla periferia: muscoli, ghiandole, ecc.).
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Anche negli organismi unicellulari vi sono le fondamentali proprietà funzionali
del sistema nervoso: capacità di essere sensibili a determinate variazioni
(stimoli) che si verificano nell'ambiente, capacità di reagire a tali variazioni.
II) Correlato al sistema nervoso vi è quello endocrino: un insieme di ghiandole a
secrezione interna (gli ormoni che producono vengono riassorbiti nel sangue e
trasmessi a tutto l'organismo). Gli ormoni determinano la crescita corporea, lo
sviluppo sessuale, il metabolismo generale e influenzano il temperamento (ad es.
l'ipertiroidismo provoca dimagrimento, eccitabilità neuromuscolare, labilità emotiva;
viceversa l'ipotiroidismo porta a nanismo, cretinismo, iposessualità...).
Tipologie costituzionali
Il primo tentativo di tipologia scientifica, basata sul metodo puramente
descrittivo e non sperimentale, risale a Ippocrate (460-377 a.C.). Secondo la
sua teoria, la natura dell'uomo è costituita dal sangue (che proviene dal cuore
e che se prevale determina il tipo sanguigno/impulsivo, cioè vivace, socievole,
superficiale, facile all'entusiasmo, incline all'attività), dal flemma (che viene dal
cervello e che se prevale determina il tipo flemmatico/linfatico, portato al
sentimentalismo, lento nei movimenti, indeciso), dalla bile gialla (che viene dal
fegato e che se prevale determina il tipo collerico/bilioso, cioè tenace, volitivo,
ribelle, con intelligenza rapida, facile all'ira e alle forti passioni), dalla bile nera
(che viene dalla milza e giunge allo stomaco e che se prevale determina il tipo
malinconico/atrabiliare, incline alla tristezza, facile alla depressione).
Questa tipologia è rimasta praticamente inalterata sino a Wundt compreso
(1832-1920), venendo a incrociarsi:
•
•
•
con alcune teorie fisiognomiche, secondo cui si può classificare una
personalità dai tratti del suo volto,
con la frenologia, per la quale singole funzioni psichiche (ad es. l'amore,
l'aggressività, ecc.) potevano essere nettamente localizzate in singole parti del
cervello, sicché per capire i vari aspetti della personalità bastava esaminare la
conformazione del cranio (linee, bozze, depressioni particolari).
A livello di "scienza popolare" si può fare un cenno alla chiromanzia, che
pretende di leggere il carattere di una persona sulle pieghe cutanee del palmo
della mano.
La prima scuola costituzionalista, ad impostazione veramente scientifica, è
stata quella di De Giovanni, Viola e Pende, iniziata alla fine del secolo scorso.
Essa prendeva come punto di partenza il corpo per risalire alle principali
caratteristiche psichiche. Grazie a questa scuola si è arrivati a classificare gli
individui in tre categorie:
•
•
•
Brachitipo (sviluppo del tronco prevalente su quello degli arti),
Longitipo (sviluppo prevalente degli arti),
Normotipo (equilibrio).
Un criterio per stabilire a quale categoria appartenga un soggetto di 25-30
anni si può ricavare dividendo l'altezza per il perimetro toracico; se il quoziente
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ottenuto si avvicina a 1,87 il soggetto è quasi normolineo, se inferiore è
brevilineo, se superiore è longilineo. A ciascun tipo costituzionale
corrisponderebbe una maggiore facilità a contrarre certi tipi di malattie.
Tipologie correlazionali
I) Nel 1922, in Germania, Ernst Kretschmer pubblicò un'opera scientifica che ancora
oggi desta un certo interesse in campo psichiatrico. A differenza delle scuole
costituzionaliste, la sua tipologia si basava su certe correlazioni tra l'aspetto organico
e quello mentale. Partendo dall'osservazione che spesso esiste un'accentuata
diversità fisica fra i malati mentali, il Kretschmer si accorse che al tipo fisico
Leptosomico (longilineo) corrispondeva il tipo psichico Schizotimico, al tipo fisico
Picnico (brevilineo) corrispondeva il tipo psichico Ciclotimico. Quando questi tipi
caratterologici sconfinano nel patologico si verificano, rispettivamente, la schizofrenia
e la psicosi maniaco-depressiva.
RAFFRONTO PSICOLOGICO TRA LO SCHIZOTIMICO E IL CICLOTIMICO (E. KRETSCHMER)
Schizotimico (schizo=divido, thymos=stato d'animo) Ciclotimico (cyclo=circolo, thymos=stato d'animo)
Tonalità psichica che oscilla dalla sensibilità alla Tonalità psichica che oscilla dall'eccitazione alla
ipersensibilità, dalla vivacità esagerata alla depressione, dall'allegria alla tristezza, dalla
costanza, dalla instabilità all'ostinazione.
rapidità alla estrema lentezza.
Tensione mentale o attenzione concentrata su una
Tensione mentale o attenzione diffusa su varie cose
cosa per volta: mette a fuoco i dettagli più che
per volta: mette a fuoco l'insieme più che i dettagli.
l'insieme.
Energia psichica notevole: la fatica appare Energia psichica limitata: la fatica appare
d'improvviso. Preferenza per i lavori più difficili e lentamente. Preferenza per i lavori più facili e
fedeltà al compito.
infedeltà al compito.
Psicosensorialità in genere di grado elevato e rivolta
di preferenza alla sensibilità interna. La percezione
è orientata più alle forme che ai colori. Preferenza
per i colori scuri, a tinta uniforme.
Psicosensorialità in genere di grado elevato e rivolta
di preferenza alla sensibilità esterna. La percezione
è orientata più ai colori che alle forme. Preferenza
per i colori luminosi a tinta vivace.
Psicomotricità in genere inadeguata: manca
Psicomotricità in genere adeguata: ora rapida ora
l'immediata corrispondenza tra l'eccitazione
lenta, ma sempre naturale e spontanea.
psichica e la reazione motoria.
Capacità di apprendimento notevole, soprattutto Capacità di apprendimento notevole, soprattutto
per il mondo interiore: predomina l'analisi sulla per il mondo esteriore: predomina la sintesi
sintesi.
sull'analisi.
Attività mentale: orientata alla riflessione,
all'immaginazione, ai sogni, alle idee, alla
soggettività, all'astratto. Spiccata tendenza alle
forme pure, all'arte e alle scienze (filosofia,
metafisica, matematica, fisica teorica…).
Attività mentale: orientata alla vita pratica, alla
realtà, alla natura, all'obiettività, al concreto.
Spiccata tendenza alle forme empiriche, agli oggetti
palpabili, al positivo, alle scienze pratiche (biologia,
medicina, meccanica, ingegneria, ecc.).
Capacità volitiva: scarsa, ma animatore vigoroso.
Capacità volitiva: tenace, perseverante, ostinata.
Infedeltà recidiva ai propositi. Discontinuità
Fedeltà estrema ai propositi. Continuità nell'azione.
nell'azione.
Affettività concentrata su un numero ristretto di Affettività diffusa più o meno a tutte le persone:
persone: unilaterale e tirannica. Tendenza alle multilaterale ma in superficie. Scarsa tendenza alle
grandi passioni. In genere pessimista.
grandi e durature passioni. In genere ottimista.
Socialità: adattamento limitato. Desiderio di star Socialità: adattamento completo. Notevole spirito di
solo o con poche determinate persone. Nemico collaborazione, ricerca spontanea della compagnia.
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
naturale
della
moltitudine,
intransigente, Condiscendente,
tollerante,
conciliante,
difficilmente conforme, è ironico, sarcastico, comprensivo, espansivo, servizievole, rispettoso
mordace, fanatico per le proprie idee.
delle idee altrui.
Comportamento in genere spavaldo, entusiasta,
Comportamento in genere timido, prudente,
attivo, agitato, audace, temerario, impulsivo, franco,
riflessivo, riservato, freddo, moderato, pieno
aperto, cordiale, limitato controllo di sé, scarso
controllo di sé, autodominio. Tendenza ad ascoltare
autodominio. Tendenza a parlare piuttosto che ad
piuttosto che a parlare.
ascoltare.
II) Questa classificazione, pur essendo molto schematica, ha stimolato altri studi: ad
es. quelli dell'americano William Sheldon, negli anni '40. La sua tipologia parte
dall'ipotesi che tutti gli individui sono riconducibili a tre fondamentali tipi fisici:
• Endomorfo,
• Mesomorfo,
• Ectomorfo,
cui corrispondono, rispettivamente, tre tipi caratterologici:
• Viscerotonico,
• Somatotonico,
• Cerebrotonico.
Queste tipologie hanno tutte un limite: la pretesa di inquadrare esattamente un
individuo in un tipo determinato. Inoltre esse tendono a ridurre i fattori psicologici a
quelli biologici. Resta vero tuttavia che certi tratti psicologici permangono con minime
variazioni nel corso dell'intera vita. Saperli individuare in tempo può essere molto
utile per orientare l'educazione.
QUADRO TIPOLOGICO DI SHELDON
TIPI FISICI
TIPI CARATTEROLOGICI
Cerebrotonico: simile al tipo schizotimico del
Ectomorfico: simile al tipo longilineo del De Kretschmer. Prevalentemente intellettuale, chiuso
Giovanni e al leptosoma del Kretschmer. Delicato, nel proprio io, introverso. Nervoso, irritabile, timido,
ossa piccole, muscoli poco sviluppati, nervi deboli. inibito. Nemico delle grida, delle esplosioni
improvvise, delle manifestazioni rumorose.
Endomorfico: simile al tipo brevilineo del De
Giovanni e al picnico del Kretschmer. Predominio
della massa viscerale. Il corpo sembra costruito
intorno al sistema digestivo. Grosso, rotondo e con
tendenza all'obesità.
Viscerotonico: simile al tipo ciclotimico del
Kretschmer. Prevalentemente affettivo, espansivo,
estroverso. In genere allegro, entusiasta, socievole.
Amabile per natura, ricerca la compagnia e le
riunioni rumorose.
Somatotonico: prevalentemente attivo, energico,
Mesomorfico: simile al tipo normolineo del De
aggressivo. Vive per agire, per organizzare, per
Giovanni e al tipo atletico del Kretschmer.
dominare. Si difende dagli affanni e dalle
Predominio della struttura ossea e muscolare del
preoccupazioni quotidiane col lavoro assiduo e
corpo. Ossa e muscoli bene sviluppati e forti.
operoso.
Tipologie psicologiche
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Si basano su un criterio prevalentemente psichico, cioè mettono l'accento sui
tratti caratterologici dominanti nella struttura della personalità. Una delle più
importanti è quella di René Le Senne (1882-1954), che partendo dal
fenomeno della perseverazione (scoperto prima in psichiatria e poi confermato
in psicologia) arrivò a sostenere che taluni individui tendono a permanere su
una data esperienza anche quando lo stimolo è scomparso ed è interrotta
l'attenzione. Questa legge d'inerzia della vita psichica ha destato un grande
interesse in molti studiosi. La caratterologia tuttavia resta ancora una scienza
molto giovane.
FASI DELLO SVILUPPO DELLA PERSONALITA'
Fase pre-natale
La vita non comincia con la nascita. Il cuore del feto comincia a battere verso
la 6a settimana dopo il concepimento. Verso le 20 settimane si costituisce il
cervello, coi suoi 12 miliardi di cellule nervose. A partire dal 3o mese risponde
con movimenti globali alle stimolazioni interne legate al suo sviluppo (vedi
l'alternanza di attività motoria e di riposo). Al 6o mese può rispondere a
stimolazioni esterne (p.es. suono/rumore). Un neonato prematuro di 6 mesi è
capace di succhiare-inghiottire-reagire diversamente ai sapori salati/dolcireagire a stimoli olfattivi. Molto prima della nascita è sensibile, a livello
cutaneo, alla pressione, al dolore e calore.
È stato dimostrato che in questa fase tutte le condizioni di grave e prolungato
stress, ansia, frustrazione, denutrizione della madre possono determinare nel
feto paralisi cerebrale, epilessia, deficienza mentale, disturbi del
comportamento, difficoltà di apprendimento. Conseguenze queste rilevabili
solo dopo la nascita.
Fase neo-natale
La nascita rappresenta un trauma (a causa delle pressioni-contrazioni
dell'utero), una metamorfosi (da un ambiente liquido a una gassoso): è il
passaggio da un'esistenza "parassitaria", condotta in un ambiente
relativamente stabile e regolato, ad un'esistenza autonoma dal punto di vista
fisiologico, condotta in un ambiente molto meno protetto e molto più variabile.
Il passaggio avviene in un tempo piuttosto breve e richiede al neonato certe
risorse e certi sforzi di rapido adattamento.
Il neonato già possiede uno stato di sensibilità generica relativamente al
piacere-dolore e all'aumento-diminuzione delle tensioni, ma si difende dagli
stimoli esterni oltre che col sonno, anche col fatto che la sua soglia percettiva
esclude gran parte del mondo esterno dal suo mondo privato. Per il neonato
non esiste ancora differenza tra ciò che proviene da lui ed è interno, e ciò che
proviene dall'esterno. Il bambino vede ma non percepisce: non sa che cosa
vede, in quanto per lui non esiste tempo-spazio-causa-relazione di qualsiasi
genere.
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Il neonato reagisce alla luce sin dall'inizio, anche se non è in grado di
focalizzare gli oggetti né di percepirli secondo le normali coordinate spaziali (a
3 settimane può fissare un oggetto ma solo a due mesi può seguirne uno
spostamento lento). Gli stimoli uditivi sono poco avvertiti, a meno che non
superino certi valori d'intensità.
Il neonato risponde col riflesso di suzione a stimoli dolci, con smorfie, pianto o
alterazione del ritmo respiratorio a stimoli salati-amari. Il freddo provoca il
pianto. Dà prova di sensibilità tattile soprattutto nella testa e intorno alla
bocca. La stimolazione del palmo della mano (con un oggetto-dito) provoca il
riflesso di presa. È capace di poppare-inghiottire-vomitare-sbadigliarestarnutire-singhiozzare-volgere la testa per respirare meglio o per allontanare
uno stimolo disturbante, ecc. Insomma è provvisto di tutto un corredo sensomotorio pronto a entrare in azione, anche se non possiede alcun quadro di
riferimento in cui collocare le impressioni ricevute.
Rapporto con la madre
L'esperienza vitale del neonato non è che un ciclo continuo di accumuloscarico di tensione: l'accumulo a causa dei bisogni primari di alimentazionecalore-riposo; lo scarico invece corrisponde al loro soddisfacimento che
produce quiete.
La soddisfazione dei bisogni del bambino è affidata totalmente al mondo
esterno e in particolare alla madre, sul piano sia fisiologico che psicologico. La
madre rappresenta il primo "IO" del bambino e, nel contempo, la prima
persona ch'egli gradualmente (soprattutto a partire dal 3o mese) considera
diversa da sé (ad es., risponde col sorriso al sorriso della madre, pur non
conoscendo ancora il proprio viso, oppure reagisce alle voci emettendo
suoni).
Erotismo primario: fase orale
La psicanalisi ha osservato che la suzione non è solo in rapporto con la fame
ma anche col piacere. I bambini infatti succhiano anche quando sono sazi o
durante il sonno. Ovvero il piacere della suzione, originariamente connesso
all'ingestione del latte, diventa una forma di attività edonistica fine a se stessa.
La bocca -per la psicanalisi- è anche una zona erogena che origina sensazioni
di tipo erotico. Questa tendenza erotica infantile coincide con la fase orale. Si
ha una conferma di questo -secondo la psicanalisi- ogni volta che il bambino
porta alla bocca gli oggetti che vuole conoscere: in tal modo egli se ne
appropria.
Dalla fase narcisistica al rapporto oggettivo
All'inizio il bambino è caratterizzato da uno spiccato egocentrismo (fase
narcisistica), il quale non gli permette di possedere un vero sentimento della
realtà esterna. Un vero e proprio "IO" del bambino non esiste in questa fase,
poiché non c'è consapevolezza di sé se manca quella della realtà esterna,
cioè degli altri.
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Il motivo per cui il bambino è costretto ad assumere questa consapevolezza
oggettiva dipende dal fatto che non sempre i suoi bisogni primari vengono
immediatamente soddisfatti. Il ritardo fa acquisire al bambino il limite della sua
onnipotenza e gli fa ammettere l'esistenza di una realtà esterna.
Gli inizi della socialità del bambino corrispondono alla comparsa della
risposta-sorriso; poi si verifica il dispiacere quando viene lasciato solo; più
tardi subentra il dispiacere quando viene privato di un oggetto. Tra i cinque e i
sette mesi sa distinguere la mimica degli adulti, cioè reagisce in modo
differente secondo che l'adulto sia arrabbiato o sorridente. A partire dai sei
mesi mostra interesse per i giochi di imitazione (ad es. "cucù"), è contenuto di
riconoscersi davanti allo specchio (il che gli permette di distinguersi dagli altri).
All'età di sei mesi, tuttavia, i contatti sociali coi suoi coetanei sono negativi: o
non presta loro alcuna attenzione o li tratta come oggetti, mentre verso i nove
mesi s'interessa di loro in funzione delle cose che possiedono.
Verso l'ottavo mese reagisce positivamente ai volti familiari e negativamente a
quelli estranei. Si serve, quando è solo o ha fame o sta per addormentarsi, di
oggetti transizionali (ad es. una coperta, un oggetto particolare) per sostituire
la figura materna quando essa è assente: si tratta di un'esperienza illusoria
ma gratificante, perché il bambino la può facilmente controllare. Peraltro,
grazie all'uso fantastico di questi oggetti nasce l'esigenza del gioco con oggetti
familiari.
È stato dimostrato che con un rapporto iperprotettivo, il bambino non si abitua
all'angoscia del distacco dalla madre, per cui non compie uno sforzo
transizionale. Ciò significa che la sua dipendenza è assoluta e che la
separazione dalla madre, anche temporanea, gli può scatenare ansie
persecutorie. Viceversa, se il rapporto madre-figlio è molto scarso, il bambino
tende ad accentuare notevolmente i suoi sforzi transizionali (simbolici), al
punto di essere incapace di una normale comunicativa.
La frustrazione quindi, entro certi limiti, è necessaria alla crescita del bambino,
in quanto gli permette di superare il suo narcisismo e di orientarsi verso il
mondo esterno.
La seconda infanzia
La seconda fase dello sviluppo infantile va, all'incirca, dalla fine del primo anno
all'inizio del sesto. Si tende a suddividere questa fase in due momenti: il primo va da
uno a tre anni (fase anale), il secondo da tre a sei anni (fase fallica).
Conquista dell'autonomia
La conquista della deambulazione, allo scadere del Io anno, conferisce al
bambino un principio di indipendenza. Progressivamente si sviluppa la
motricità (oltre a camminare, in questa fase si mantiene pulito, è disciplinato
nell'alimentazione -se educato-, controlla gli sfinteri, usa come primo mezzo di
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locomozione il triciclo, progrediscono nel complesso la prensione e la
manipolazione. Il gioco resta la sua attività principale).
Sviluppa anche la fonazione: quanto più aumenta la facilità comunicativa ed
espressiva, tanto più aumenta la possibilità della maturità personale. Ha la
sensazione del potere quasi magico della parola: per lui conoscere il nome di
una cosa significa impadronirsene; di qui l'insistenza con cui chiede il nome
degli oggetti. Tuttavia l'aspetto cognitivo è subordinato a quello affettivo (p.es.
il bambino usa nei suoi giochi qualunque oggetto per qualunque scopo).
Il bambino non è del tutto consapevole della propria individualità. Inizia
adesso ad acquisire il senso della realtà e ad elaborare le prime forme di
giudizio. Si accorge che la sua dipendenza dalla madre diminuisce. Impara a
sopportare per periodi sempre più lunghi l'accumulo della tensione. Vive una
situazione conflittuale fra il desiderio di agire autonomamente e lo stato di
dipendenza dagli altri.
Fase anale
La zona anale sarebbe quella ove viene localizzata la libido nel primo periodo.
Ossia la parte del corpo che acquista maggiore importanza nei contatti con
l'ambiente sarebbe l'intestino con le sue funzioni escretorie ("trattenere" o
"espellere" le feci avrebbero contemporaneamente un effetto di soddisfazione
o insoddisfazione nei riguardi del mondo esterno). Il bambino si rende conto
che non può più evacuare appena ne sente il bisogno: egli cioè si scontra con
le norme dell'ambiente sociale (il "fare da sé" deve ora tener conto di certi
limiti). D'altra parte senza questo senso di frustrazione non c'è sviluppo
dell'autonomia. Il bambino però deve comprendere che la frustrazione
riguarda tutti, non solo lui, e che serve a regolamentare l'autonomia non a
impedirla.
Fase fallica
Nel secondo periodo la libido si localizza nei genitali. Il bambino scopre le
differenze anatomiche, cui corrispondono -secondo la cultura e a volte
secondo l'atteggiamento sbagliato degli adulti, che differenziano le norme
educative dei figli sulla base del sesso- diverse modalità di abbigliamento,
acconciatura, toilette. In questa fase possono comparire le prime
manifestazioni di masturbazione, narcisismo, esibizionismo. La psicanalisi
considera i "nevrotici da successo" o i "don Giovanni" una forma di
regressione dell'adulto alla fase fallica.
Identificazione con i genitori
Identificandosi coi genitori, il bambino matura una prima superficiale
coscienza morale, cioè una prima organizzazione di autocontrollo. Se il
bambino avverte dentro di sé la presenza dei genitori (che ordinano o
proibiscono o rassicurano e proteggono) anche quando essi sono assenti,
allora vuol dire che è pronto ad una forma di comportamento autonomo. Ciò in
quanto non è più solo una minaccia esterna (castigo o privazione) che regola
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il suo comportamento, ma la consapevolezza interiore di ciò che può e non
può fare.
Dopo la frustrazione dello svezzamento, il bambino subisce una seconda
delusione quando scopre che non può possedere in maniera esclusiva l'affetto
della madre, poiché lo deve dividere col padre (il cosiddetto "complesso
edipico", che però la psicanalisi ha notevolmente estremizzato). Di qui i
sentimenti ambivalenti che il bambino matura in questo periodo: gelosia e nel
contempo ammirazione del padre, in quanto figura dominante a cui vorrebbe
somigliare e di cui indivia la forza, la sapienza e a cui vuol bene. A volta il
bambino si serve di alcune forme di "ricatto" per attirare su di sé l'attenzione
dei genitori: si tratta di comportamenti regressivi, come p.es., succhiarsi il dito,
voler essere preso in braccio, farsi la pipì addosso…, coi quali egli chiede
quella protezione che teme d'aver perso.
Vita sociale
Il processo d'interazione nel gruppo si sviluppa sempre di più. Nel gruppo il bambino
assume responsabilità più precise, dei ruoli sociali. Il gruppo dei coetanei ha anche
una funzione di carattere normativo e disciplinare. I bambini tendono ad essere più
facilmente amici che ostili tra loro (a meno che non subiscano pesantemente i
condizionamenti degli adulti). Le loro amicizie però sono labili. Naturalmente
favorisce l'amicizia la somiglianza di età, di intelligenza, di interessi e di socievolezza,
nonché la possibilità di svolgere insieme certe funzioni di gioco e di apprendimento.
La fanciullezza
Evoluzione dell'affettività
I) In questa fase avviene il superamento del complesso di Edipo attraverso la
dinamica del gruppo. Verso i sette anni compare una forma di timidezza, che non è
timore degli estranei come una volta, ma bisogno di difendere la propria intimità
psichica dalle invadenze altrui: il bambino/a ha dei segreti che riguardano soltanto lui
e prova sentimenti che non proietta immediatamente nell'attività esterna. L'interiorità
favorisce una certa doppiezza: compaiono le prime bugie, i primi alibi (l'aumento
della severità da parte degli adulti difficilmente sortisce, in questi casi, l'effetto
sperato). Gli adulti più significativi sono i genitori, il maestro/a, i nonni, i genitori degli
altri bambini.
II) Aumenta la curiosità per tutto ciò che concerne il rapporto tra i sessi
(procreazione, nascita, sviluppo anatomico). C'è inoltre una tendenza spontanea alla
separazione dei sessi a partire dagli otto anni circa. Bambini e bambine cominciano a
farsi i dispetti. Si differenziano i loro interessi e giochi (in questo, i condizionamenti
sociali a volte pesano più del dovuto, come ad es. quando si fa giocare il maschio
con soldatini, armi, mezzi di trasporto e la bambina con bambole, cucine in miniatura
ecc. I modelli socio-culturali sono evidenti: il "maschio" è aggressivo, forte, protettivo;
la "femmina" è docile, casalinga, bisognosa di protezione).
Sviluppo intellettuale
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III) In questa fase si attenua l'egocentrismo logico/affettivo. Si afferma la dimensione
temporale (passato-presente-futuro). Si sviluppa il pensiero logico (la logica è
concreta e legata all'esperienza, però utilizza il linguaggio scritto e i simboli
numerici).
IV) Questo è il periodo degli interessi oggettivi e astratti: c'è viva curiosità per il
sapere, per l'esperimento, c'è abitudine alla decisione, c'è l'esigenza del gioco
collettivo, il bisogno di collezionare gli oggetti più diversi, c'è una maggiore cura per
le cose personali. Gradatamente il bambino passa dal perché al come delle cose.
V) Il bambino cerca di applicarsi in molte attività, di distinguersi (il più bravo, il più
forte, il più spiritoso...), cerca di realizzare qualche "impresa" in maniera autonoma
per superare il senso di inferiorità che prova nei confronti degli adulti.
Progressi della motricità
VI) A partire dai sei anni hanno grande importanza i giochi di lotta e acrobazia. Il
bambino non gioca più solo per giocare, ma si dà degli scopi: dai più immediati ai più
complessi (ad es. può far rimbalzare davanti a sé una palla e riprenderla, ma può
tentare anche di maneggiare vari arnesi, come colle, cucitrici, forbici...). Sviluppando
l'autocontrollo, la scrittura diventa più regolare, disegno e pittura gli danno grande
soddisfazione. Poi viene il momento della mimica e delle smorfie, il salto alla corda
per le bambine...
L'età scolare
VII) Il bambino/a fa esperienza di un ambiente indifferente verso di lui sul piano
affettivo, nel quale deve da solo cercarsi il suo posto, senza beneficiare dei vantaggi
dell'amore dei genitori. Deve adattarsi senza discutere a inevitabili costrizioni cui non
è abituato e davanti alle quali falliscono le manifestazioni di seduzione e di affetto
così efficaci in casa. Scopre per così dire "l'uguaglianza democratica davanti alla
legge", in quanto si misura con esseri uguali a lui. Ha in sostanza l'opportunità di
definire da solo la sua condizione e di stabilire rapporti di reciprocità con i coetanei.
VIII) Il gruppo assume tanta importanza quanta la famiglia, se non di più. Nel gruppo
l'egocentrismo infantile entra in crisi. Egli prende coscienza che nel gruppo il gioco
continua, anche senza di lui, non importa con chi. D'altra parte non è lui che sceglie i
compagni, ma sono gli adulti, la scuola, il quartiere che glieli impongono. Amicizie più
intime e personali si formano all'inizio dell'adolescenza.
IX) A scuola si verifica il fenomeno della delazione, perché ogni bambino desidera
compiacere il maestro. Il ricorso all'alleanza di una forza estranea, più potente del
gruppo, è tipico del bambino meno socializzato, ma nelle classi più piccole i
compagni non pensano di fargliene una colpa: essere in "buoni rapporti" col maestro
è motivo di considerazione. Ma a partire dagli 8 anni lo "spione" corre il rischio di
essere emarginato dal gruppo.
Nel gruppo
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X) Nel gruppo il bambino impara a difendere i suoi diritti e le sue idee (prima con
musi lunghi, insulti, percosse, poi con la discussione, con le prove, per conquistare il
consenso). Ricerca i compromessi, la coerenza, perché ogni contraddizione gli viene
rinfacciata con durezza.
XI) Nel gruppo c'è provocazione, rivalità, aiuto reciproco, complicità, intesa per taluni
scopi, scambi materiali... Il bambino impara a valorizzare se stesso e gli altri. La
critica degli altri lo spinge all'autocritica. E' sottomesso all'autorità degli altri ma
continuamente la esercita, grazie al controllo reciproco. Scopre una forma di obbligo
che proviene da un accordo tra uguali e da un'adesione personale.
XII) Nel gruppo il bambino viene accettato per le sue qualità. È possibile anche che si
formino, alla fine di questa fase, le cosiddette "bande", che sono un fenomeno
spontaneo, senza intervento dell'adulto. È qui che nascono i primi drammi:
emarginazione, capro espiatorio, vittima, autoritarismo di qualche bambino...
Generalmente i bambini "impopolari" hanno avuto un sistema familiare chiuso,
severo: possono essere conformisti verso l'adulto, ma sono litigiosi verso i compagni;
inoltre hanno scarsa curiosità, immaginazione, iniziativa.
XIII) Sino alla fine della fanciullezza la banda presenta un carattere autocratico e
aristocratico: un capo, circondato dai suoi più "fidati", e poi i "gregari". Intorno ai 12
anni la banda acquista un carattere più democratico. La forza fisica del capo non ha
mai molta importanza: ciò che lo rende tale è la sua capacità di non-compromesso
con l'adulto. Il potere dell'educatore è minimo in confronto all'attrazione che esercita il
gruppo e al prestigio di cui gode il suo capo.
L'adolescenza
I) Relativamente a questo periodo, è difficile fissare dei limiti cronologici, perché
spesso non c'è corrispondenza tra età cronologica e livello di sviluppo psicofisiologico dell'individuo (quindi all'incirca va dagli 11-12 anni ai 18-20, con leggero
anticipo per le ragazze).
II) La crisi puberale
È la prima fase che caratterizza questo periodo. Qui compaiono una serie di
trasformazioni di carattere biologico. La pubertà inizia con la maturazione dei
caratteri sessuali e termina con la maturazione della prima cellula germinale
maschile e del primo ovulo femminile, cioè con lo stabilirsi nei due sessi, della
capacità generativa.
Queste trasformazioni sono la conseguenza di complesse azioni ormonali, a
carico dell'apparato genitale e di tutto l'organismo (ad es. si modifica la voce,
aumenta la statura e il peso).
III) La crisi d'identità
Il problema più importante che l'adolescente deve affrontare è quello di
costruirsi un'identità personale e un ruolo sociale, staccandosi dal mondo dei
pre-adolescenti ed entrando in quello degli adulti.
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Lo sviluppo dell'organismo comporta un'attivazione degli impulsi istintivi, non
solo sessuali ma anche aggressivi, che limitano le capacità di autocontrollo.
Riemergono alcune tendenze impulsive infantili, che parevano scomparse da
tempo, come l'inclinazione allo sporco, al disordine, alle piccole crudeltà,
all'esibizionismo. La vivacità della fanciullezza si trasforma in aggressività o
almeno in insofferenza.
Ciò è dovuto al fatto che da un lato l'adolescente si trova ad affrontare una
rinnovata carica istintiva, dall'altro subisce una pressione educativa o
normativa da parte dei genitori, che diventa ancor più repressiva in presenza
di questo comportamento disordinato e incoerente.
L'adolescente tende a oscillare tra la fiducia negli altri e la diffidenza più nera,
tra il desiderio di staccarsi dalla famiglia e il timore di perderne la protezione,
tra l'esigenza di conoscere la realtà adulta e la tendenza a rinchiudersi in un
atteggiamento di passività o indifferenza, o, al contrario, di protesta contro
ogni forma di autorità (sino all'abbandono scolastico, alla tossicodipendenza,
alla microcriminalità...).
L'adolescente avverte in sé nuove esigenze: il bisogno sessuale, che non
riesce a esprimere subito come istanza etero-sessuale; il bisogno di agire,
conoscere, scoprire da sé quello che è importante (di qui l'esigenza di una
maggiore autonomia nella gestione del tempo libero); il bisogno di stabilire dei
legami nuovi, di trovare nuovi modelli (di qui l'esaltazione degli "idoli" sportivi,
cinematografici, canori, radiotelevisivi...).
L'adolescente inizia a ragionare in maniera ipotetico-deduttiva, a fare cioè dei
ragionamenti personali, sulla base di interessi sociali, razionali, estetici, morali
o religiosi. Ciò che lo preoccupa di più è il futuro, ovvero la difficoltà di
raggiungere una posizione di prestigio.
IV) Il rapporto con i coetanei
Durante l'adolescenza assume sempre più importanza l'esperienza di gruppo,
che svolge una funzione di rassicurazione. Il timore suscitato nel giovane dai
suoi stessi impulsi, quello della repressione, l'insicurezza nell'agire, le
espressioni verbali estremistiche e decisioniste: tutto ciò trova nel gruppo una
possibilità di sfogo, di libera espressione, di compensazione.
Lo stare insieme diventa un mezzo per sentirsi più sicuri. L'accettare norme,
abitudini, gergo e mode del gruppo diventa un mezzo per riconoscersi in una
nuova identità (che questa volta è collettiva). Ci si libera dalle ingenuità della
fanciullezza, dallo stato di totale dipendenza dai genitori (del cui affetto o
protezione ancora non si può fare a meno). Naturalmente più la famiglia è in
crisi e più il gruppo (o l'amicizia con un coetaneo) diventa importante agli occhi
del giovane: spesso anche il fratello o la sorella maggiore fa da tramite tra la
famiglia e il mondo esterno.
Migliora insomma la capacità di autodeterminarsi: sia attraverso l'adattamento
all'ambiente che attraverso lo sviluppo dell'introspezione e la partecipazione al
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gruppo. Questa partecipazione è ovviamente legata ai valori o ideali che il
gruppo stesso rappresenta, da quelli più complessi a quelli più semplici (si
pensi alle associazioni religiose, sociali, umanitarie, politiche, sportive...).
Come leader viene scelto il ragazzo più dotato intellettualmente, più informato,
più critico... Le differenziazioni sessuali vanno scomparendo.
SVILUPPO DELL'IO
L'Io è quella parte dell'Es che è stata modificata dalla vicinanza e dall'influenza del
mondo esterno(...), il rapporto con il mondo esterno è divenuto decisivo per l'Io il
quale si è assunto il compito di rappresentarlo presso l'Es, fortunatamente per l'Es, il
quale, incurante di questa preponderante forza esterna , nel suo cieco tendere al
soddisfacimento pulsionale non sfuggirebbe all'annientamento. Nell'adempiere a tale
funzione, l'Io deve osservare il mondo esterno, depositare una fedele riproduzione
delle traccie mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano,mediante l'esercizio
dell'"esame della realtà" ciò che in questa immagine del mondo esterno è un
aggiunta proveniente da fonti interne di eccitamento. Per incarico dell'Es,l'Io domina
gli eccessi di motilità, ma ha inserito tra bisogno ed azione la dilatazione di attività di
pensiero, durante la quale utilizza residui mnestici dell'esperienza; in tal modo ha
detronizzato il principio di piacere che domina illimitatamente il decorso dei processi
dell'Es,e lo ha sostituito con il principio di realtà, che promette più sicurezza e
maggior successo.* L'Io è quella parte dell'apparato psichico che interascisce con la
realtà; rappresenta ilprocesso secondario laddove l'Es è il principio primario.* Il
rapporto dell'Io con l'Es potrebbe essere paragonato quello del cavalier con il suo
cavallo. Il cavallo dà l'energia per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di
determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l'Io e l'Es
si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale che il cavaliere si limiti a guidare il
destriero laddove questo ha scelto di andare.* Alla nascita l'Io e l'Es sono
indifferenziati; finchè l'Io sorge gradualmente con lo, sviluppo dell'individuo. Il primo
momento in cui si può dire che esista un Io è quando sono percepite le sensazioni
del corpo; per questo Freud afferma che all'inizio l'Io é principalmente un Io
corporeo.* Spitz* nel suo lavoro " Teorie di un campo genetico della formazione
dell'Io" scritto nel 1959 e dedicato a S.Freud , sull' ipotesi iniziale secondo la quale
non esiste una divisione fra gli, aspetti somatici e psichici della personalità umana,
colloca verso il terzo mese di vita con la reazione al sorriso, lo stabilizzarsi della
realtà dell'Ego, e riprendendo Freud in "Inibizione ,sintomo ed angoscia" del 1925
argomenta che : " Qualcosa che é presente nell'Ego, come immagine , può anche
essere riscoperto attraverso la percezione; si è costituito un Ego rudimentale; si tratta
di un Ego corporeo ,la cui primissima applicazione é la più elementare realizzazione
del rapporto con la realtà"* S.Freud ha parlato più particolareggiatamente delle
caratteristiche innate dell'Io ,affermando che la scelta individuale fra i possibili
meccanismi di difesa viene determinata da un fattore costituzionale* Hartmann
specifica che: "non significa voler sopravalutare misticamente l'ereditarità, il credere
che perfino prima che l'Io esista siano già determinate le sue successive direttive di
sviluppo, le sue tendenze, le sue reazioni."* Spitz si domanda inoltre: "I turbamenti
nelle relazioni oggettuali infantili determineranno deficienze nella formazione dell'Ego
in conformità con i periodi critici nei quali si verificheranno?" * Per Spitz se tale
turbamento si verifica, la tendenza integrativa dell' Ego compenserà il conseguente
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
ritardo di specifici nuclei dell'Ego attraverso un integrazione deviante. Questo
risultato sarà raggiunto grazie all'esuberanza di quei nuclei dell'Ego che restano
utilizzabili. Questi nuclei dell'Ego esuberanti, di conseguenza anormali, possono
allora divenire gli elementi costituenti "un Ego frammentato" oppure punti di
attrazione verso i quali possono gravitare le introiezioni. Essi verranno così
acostituire una delle origini dei punti di fissazione . Con questo Spitz non vuole dire
che, qiando più tardi si verifica una regressione si dovrà andare necessariamente all'
origine di questi nuclei. Nel corso di un ulteriore sviluppo questi nuclei esuberanti dell'
Ego, vengono inevitabilmente in conflitto con le normali richieste dell'ambiente in uno
stadio molto più avanzato. E' al momento di questo conflitto che la fissazione sarà
attaccata e si verificherà la regressione. Attraverso la teoria degli organizzatori della
psiche ( rapporto tra sviluppo corporeo ed embriologico) Spitz conclude che,il primo
degli organizzatori della psiche organizza la percezionbe e fissa i primordi dell'Ego;il
secondo integra le reazioni oggettuali con le pulsioni e fissa l'Ego come struttura
psichicaorganizzata con una varietà di sistemi, apparati e funzioni. Il terzo
organizzatore apre la via allo sviluppo della relazioni oggettuali secondo il modello
umano, cioé secondo il modello delle comunicazioni semantiche. L'assenza di
equilibrio durante ognuno di questi stadi ha comunque un signi ficato decisivo. Infatti
una regressione a tale punto di fissazione distruggerà necessariamente il successivo
e più vulnerabile sviluppo dei modelli umani, di adattamento; e del dominio della
difesa.* L'Io è la porzione dell'Es che é stata modificata dall'influenza diretta del
mondo esterno che ha agito attraverso il sistema percezione-coscienza.* Hartmann
si pone invece di fronte all'Io, cercando di chiarire le funzioni non solo sotto l'aspetto
difensivo ( meccanismi di difesa), ma anche in un ambito più largo, libero da conflitti.
Per l'autore l'Io é un istanza autonoma allo stesso dell'Es. Lo sviluppo dell'Io pertanto
sarebbe il risultato di una differenziazione dell'istinto, ma non di una differenziazione
dell'Es, perchè , per Hartmann, si può parlare dell'Es come istanza psichica che si
contrapporrebbe ala prima, in una implicazione reciproca. Sullo sviluppo di un Io così
concepito esercitano la loro influenza, oltre all'istinto,la realtà esterna e gli apparati
biologici ereditari, i quali ultimi costituiscono il fondamento dell'autonomia primaria
primaria dell'Io. In altri termini, l'intelligenza, i talenti in genere (intesi come fattori
dell'Io) di cui un bambino è ereditariamente dotato, possono influenzare i modi, il
tempo di insolvenza, e l'intensità dei conflitti istintuali. Non solo ma attraverso il
"cambiamento di funzione" situazioni primitivamente conflittuali possono essere
deconflittualizzate e l'energia ad esse collegate può essere messa a disposizione
dell'Io( autonomia secondaria).* Il termine o si riferisce alle costellazioni di funzioni
che includono l'istanza psicologica di controllo guida e coordinamento dell'uomo. Si è
notato che inizia a svilupparsi nelle prime settimane di vita e raggiunge il suo
massimo di organizzazione nella maturità adulta. Esso evolve con il principio
epigenetico. Governato da questo principio, lo, sviluppo nasce dal gioco reciproco di
due fattori: a) la maturazione delle tendenze biologicamente innate b)
l'apprendimento mediante esperienza* Per White alcune funzioni dell'Io quali la
percezione, la coscienza ,la vocalizzazione , e la motilità, sono presenti in forma
primitiva gia dal momento della nascita. La loro comparsa non dipende
dall'esperienza o dall'apprendimento. Se manca il nutrimento emotivo queste funzioni
non possono sviluppaersi in modo adeguato.* Importanti funzioni dell'Io evolvono tra i
sei ed i ventiquattro mesi es,: linguaggio, capacità motorie, ecc. Gli studi di Piaget *
sullo sviluppo cognitivo cosi mirabilmente riassunti da Elkind* confermano le
osservazioni psicoanalitiche, secondo cui, prima dei diciotto mesi, i bambini sono
privi della cosidetta permanenza oggettuale, cioè sia le persone che le cose
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
continuano ad esistere anche quando sono fuori dal campo visivo o auditivo. Sicché
quando la madre é lontana , il bambino non ha nessuna certezza che essa in effetti
contionui ad esistere . Soltanto lo sviluppo di un'immagine mentale internalizzata
della madre lo conforta quando essa è assente e lo rassicura circa l'esistenza di lei.
Se il bambino non riesce gradatamente a sviluppare questa fidata madre interiore,
praticamente tutte le funzioni dell' Io ne soffrono. Se non può disporre di sufficenti
esperienze per costruire questa fonte interna di sicurezza e fiducia, ne derivano
distorsioni e lesioni in funzioni basilari dell'Io, quali la capacità di camminare, di
parlare, apprendere , pensare, ricordare, e nella fiducia in se stesso e nelle altre
persone.* Per White e collaboratori* le funzioni principali, di cui é formata l'istanza
coordinatrice e di guida che disignano l'Io, sono: 1) Percezione 2) Coscienza 3)
Memoria 4) Attenzione 5) Pensiero 6) Intelligenza 7) Espressività e Linguaggio 8)
Motilità e Abilità Motorie 9) Giudizio e Previsione 1O) Capacità di Posticipare Bisogni
ed Impulsi 11) Meccanismi di Difesa 12) Affetti di Segnale: Angoscia,Depressione e
Colpa
Per White l'Io è: " l'istanza psicologica che percepisce ed attribuisce significato agli
stimoli interni ed esterni ed organizza, dirige e coordina il comportamento sollecitato
da tali stimoli; talchè esso divenga il più vantaggioso possibile per la persona. L'Io
denota quelle funzioni riguardanti la capacità del bambino di valutare la realtà
esterna ed interna ed affrontarla. Il che comporta la valutazione di situazioni, oltre
che delle proprie forze e debolezze individuali. L'Io consente all'individuo di
apprendere delle proprie esperienze e di raggiungere i propri scopi. Coordina le
richieste delle sue pulsioni interiori con le pressioni e richieste del mondo esterno.
Decide se, in base alla realtà esterna, è ragionevole che l'individuo agisca in
conformità alle sue fantasie. "* L'Io è in buona posizione per difendersi dai pericoli in
agguato dal mondo esterno, se necessario, può darsi alla fuga. Ma ciò non vale per i
pericoli interni (moti pulsionali).* Freud condiderò questa maggiore suscettibilità ai
pericoli interni come una fonte di nevrosi.* Il tratto fondamentale della situazione di
pericolo é di provocare uno stato di tensione etrema che non può essere
scaricata,dunque di contrastare al principio di piacere. "Ciò che è temuto, l'oggetto
dell'angoscia e ogni volta la comparsa di un momento traumatico che non può venire
eliminato come richiederebbe il principio di piacere."* Originariamente l'angoscia
nasce quando l'Io, ancora debole viene soprafatto per la prima volta da una pretesa
libidica eccessiva. Quale funzione ha l'angoscia per mettere in azione il principio
piacere dispiacere?.* Freud:"L'Io si accorge che il soddisfacimento di una richiesta
pulsionale che sta destandosi maschererebbe una delle situazioni di pericolo che
ben ricorda. Questo carico pulsionale deve quindi venire in qualche modo represso,
revocato, neutralizzato. Sappiamo che l'Io ci riesce se é forte ed ha incluso la spinta
pulsionale nella sua organizzazione. Nel caso contrario (che sfocerà nella rimozione)
lo spunto pulsionale appartiene ancora all'Es e l'Io si sente debole . L'Io ricorre allora
ad una tecnica che in fondo è identica a quella del pensiero normale. Pensare é un
agire a mo' di esperimento con piccole quantità di energia.(...) L'Io anticipa dunque il
soddisfacimento della spinta pulsionale sospetta e le dà modo di riprodurre le
sensazioni spiacevoli che accompagnano l'inizio della temuta situazione di pericolo,
e cioè di giungere esattamente fino al punto in cui las situazione spiacevole può
provocare angoscia. Con ciò scatta l'automatismo del principio piacere-dispiacere, il
quale ora effettua la rimozione della spinta pulsionale pericolosa""* Sono quindi
situazioni di conflitto fra le pulsioni dell'Es che tentano di appagarsi e le intenzioni del
Super-Io che lo vietano; in questi casi l'Io si trova fra "l'incudine ed il martello" e cerca
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di porre rimedio attraverso i meccanismi psicologici alle sensazioni di ansia, di
irrequietezza, di apatia, generate dal perdurare del conflitto.* Freud puntualizza: "La
difesa contro un processo indesiderato dell'interno, può compiersi secondo il modello
della difesa contro uno stimolo esterno, cioé che l'Io adotti contro il pericolo interno,
la stessa linea di difesa adottata contro quello esterno. Nel corso di un pericolo
esterno, l'organismo intraprende un tentativo di fuga : a tutto primo ritrae
l'investimento dalla percezione della cosa pericolosa ; poi riconosce un mezzo più
efficace: quella di intraprendere azioni muscolari tali che la percezione del
pericolo(...) diventa impossibile, l'organismo si sottrae così alla sfera d'azione del
pericolo." * L'Io controlla pur sempre la motilità e può sbarrare questa via agli impulsi
dell'Es, che vorrebbero trovare, attraverso il comportamento motorio, gli appagamenti
nella realtà* Da cui l'equivalente della difesa da stimoli esterni é la rimozione di
rapprasentanze pulsionali interne, che viene determinata da segnali d'angoscia.* Fra
le possibili reazioni , che sono parecchie , al segnale di angoscia,una di essa è la
"difesa". Per Drews la difesa aveva un'importanza centrale per la spiegazione dei
conflitti psichici, fin dai primi scritti psicoanalitici, e l'ha conservata tutt'oggi. La difesa
è il nucleo dell'aspetto dinamico della teoria psicoanalitiaa; Le resistenze che partono
dall'Io sono di natura inconscia e la parziale inconsapevolezza dell'Io rendeva
quest'ultimo molto più interessante per la ricerca di quanto lo fosse stato prima ; la
teoria dell'Io e la teoria della difesa venivano a coincidere in larga misura. La difesa
diventava una delle principali funzioni dell'istanza Io. Così lo studio delle operazioni
difensive diventava una nuova via per la conprensione dell'Io e della sua posizione
nel conflitto. L'Io diventava ora oggetto di osservazione specialmente nel campo
clinico.* Grazie al lavoro di Nicasi* é facile ricostruire la storia del concetto di difesa
in Sigmund Freud. Il concetto di difesa si fa strada assai presto nel pensiero
freudiano; é stato col mettere in primo piano la nozione di difesa nell'isteria...che
Freud ha definito la propria concezione della vita psichica in opposizione alle idee dei
suoi contemporanei.* In "Le Neuropsicosi di difesa" scritte nel 1894 interamente di
suo pugno ( senza l'ausilio di Breuer) Freud distingue tre forme di isteria: 1) da stato
ipnoide 2) da ritenzione; casi in cui si ha che il perdurare della reazione di fronte allo
stimolo traumatico,reazione che però non può essere liquidata e guarita per
abreazione 3) da difesa* In questa occasione compare per la prima volta il termine
"difesa". I pazienti in cui, sostiene Freud : " ho riscontrato la terza forma in persone
che avevano goduto di :* ... sanità psichica fino al momento in cui nella lora vita
ideativa, si era presentato un caso di incompatibilità, ossia fino a quando al loro Io
non si era presentata un'esperienza, una rappresentazione , una sensazione che
aveva suscitato un effetto talmente penoso che il soggetto aveva deciso di
dimenticarla convinto di non avere la forza necessaria a risolvere, per lavoro mentale
, il contrasto asistente tra questa rappresentazione incopatibile ed il, proprio Io."* Gia
nel saggio del 1894 la nozione di difesa gli consente di raggruppare sotto l'unico
termine di "neuropsicosi da difesa" le ossessioni, le fobie, le isterie da difesa e le
psicosi allucinatorie. Nella minuta "Teorica H" anche la paranoia è considerata un
modo patologico di difesa, come l'isteria, la nevrosi ossessiva e la confusione
allucinatoria.* Tale punto di vista è mantenuto in " Nuove Osservazioni sulle
Neuropsicosi da Difesa": "gia da qualche tempo nutro la convinzione che anche la
paranoia (...) sia una psicosi da difesa ".* Tutte queste forme si legge: "hanno un
punto in comune: i loro sintomi provengono dal meccanismo didella difesa
(inconscio) cioé dal tentativo di rimuovere una rappresentazione incompatibile
entrata in penoso conflitto con l'Io del malato."* Di questi ani è una spinosa questione
fra i rapporti tra difesa, rimozione e meccanismi di difesa. In un certo senso ad aprire
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
la questione dei rapporti tra difesa, rimozione e meccanismi di difesa è stato proprio
Freud quando in "Inibizione ,sintomo ed angoscia"scrisse: "Adesso sono del parere
che ritornare al vecchio concetto di difesa presenti vantaggi, se si stabilisce bene, a
questo riguardo che esso deve essere la designazione generale per tutte le tecniche
di cui l'Io si serve nei suoi conflitti, che possono eventualmente condurre alla
nevrosi,mentre conserviamo il termine di rimozione per uno speciale di questi metodi
di difesa, che l'orientamento delle nostre ricerche ci ha permesso agli inizi di
conoscere meglio degli altri."* Presentando tutto in questa forma di proposito per
l'avvenire, Freud sembra tacimente di non aver distinto nel passato tra: 1) Difesa e
Meccanismi di Difesa 2) Difesa e Rimozione. Varie le interpretazioni dei biografi di
Freud sull'argomento.* Si può vedere a riguardo l'interessante trattazione del
problema in Nicasi* Sempre Nicasi ci relaziona che tra il 1894 ed il 1896 Freud
individua una serie di "processi o meccanismi difensivi". L'autrice ci conforta nelle
sue note che i termini possono conso=iderarsi equivalenti. I meccanismi sono: Conversione* -Trasposizione dell'affetto* -Proiezione* -Reiezione* -Isolamento*
Formazione reattiva* Il ruolo di tali meccanismi è indubbiamente difensivo: la loro
attivazione comporta un calo di sofferenza, ed il loro vantaggio è valutato in base
all'entità di questo calo ed alla stabilità della parete protettiva che essi erigono prima
ancora di essere valutato in base alle gratificazioni -pulsionali e narcisistiche- da essi
ricavabili. Così mentre nell'isteria la difesa é labile con guadagno soddisfacente, nelle
nevrosi ossessive e nella paranoia si ha difesa stabile senza guadagno e nella
confusione allucinatoria, difesa stabile e brillanta guadagno.* Da cui Freud scopre
così che esistono dei diversi procedimenti che questo"Io" impiega per liberarsi da tale
incompatibilità di una rappresentazione.* Lo stesso Freud ha descritto in seguito le
seguenti forme di difesa:
1) Introiezione ed Identificazione - Nei Meccanismi nevrotici
2) Proiezione ( spec.nella paranoia)
3) Formazione reattiva
4) Formazione sostitutiva
5) Regressione - Specialmente nella nevrosi ossessiva
6) Isolamento
7) Rendere non avvenuto
8) Spostamento
9) Razionalizzazione
10) Volgere contro la propria persona -Che Freud chiama "Destini della pulsione"
11) Capovolgimento nel contrario
12) Rimozione
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13) Conversione
14) Isolamento
I singoli meccanismi di difesa hanno relazioni specifiche con momenti conflittuali
specifici e sono tipici di disturbi psichici specifici.* Le diverse nevrosi sono
caratterizzate dalle diverse difese:per esempio l'isteria usava principalmente la
rimozion, mentre le nevrosi ossessive impiegavano la regressione e le formazioni
reattive. Ma su questo terreno si tornerà più avanti. Nel 1936 in " L'Io ed i
meccanismi di difesa " Anna Freud descrisse più dettagliatamente i vari meccanismi
di difesa e chiarì il ruolo nel funzionamento della personalità.* E' utile ricordare chre il
libro è stato pubblicato quando S.Freud era ancora vivo, e probabilmenta é anche
sorto sotto la sua egida. Lo stesso Freud in lavori successivi rimanda a questo libro
di sua figlia a proposito dell'argomento " difesa".* E' interessante qui riprendere le
parole di Kris a riguardo la recensione del libro da lui fatta nel 1938: " In effetti la
prestoria di questo libro sembra risalire al suo libro ( riferito ad A.Freud) sull'analisi
infantile, in esso si dimostra come nell'analisi dei bambini , dove siamo costretti in
ampia misura a rinunciare ai benefici del metodo della libera associazione , l'analisi
del comportamento, del bambino è spinta in primo piano, con loscopo di aiutare il
bambino nevrotico ad acquistare comprensione della sua malattia e di osservare le
condizioni fondamentali del trattamento analitico."* Nel discutere la tecnica del gioco
di M.Klein nel 1927 A.Freud pose il problema di quanto possiamo estendere
l'interpretazione del gioco dei bambini; la domanda che essa pone ora in termini
generali é come dovremmo preparare il terreno per l'interpretazione del contenuto
dell'Es che la nostra conoscenza del simbolo onirico può averci aiutato a
comprendere, e come dovremmo orientare il cammino che deve condurci attraverso
le posizioni diverse del paziente, alle porte inconscie del suo Io, alla vita pulsionale e
alle fantasie primitive dell'infanzia. Per il lettore della tesi può essere utile prima di
contonuare il discorso, su A.Freud aprire una parentisi su alcune posizioni diverse di
tecnica ed osservazione dei meccanismi di difesa di altri psicoanalisti eminenti quali
M.Klein e Ferbain*. Avvalendomi delle note di H. Segal* verranno esposte in grandi
lineee le idee a riguardo M.Klein. Melania Klein divide le fasi dello sviluppo in due
posizioni: a) la posizione schizo-paranoide b) la posizione depressiva. Esse
potrebbero viste come suddivisioni delo stadio orale; la prima occupando i primi tre o
quattro mesi di vita e l'altra seguendola nella seconda metà del primo anno. La
posizione schizo paranoide è caratterizzata dal fatto che il bambino non è
consapevole delle persone - i suoi rapporti si svolgono con oggetti parziali- e dalla
prevalenza di processi di scissione e di angoscia paranoide. L'inizio della posizione
depressiva é segnato dal riconoscimento della madre come oggetto intero ed é
caratterizzato da un rapporto con oggetti interi e da un prevalere dell'integrazione,
della ambivalenza , della colpa e dell'angoscia depressiva.* La posizione depressiva
non prende mai il posto completamente della posizione schizo-paranoide;
l'integrazione raggiunta non è mai completa e le difese contro il conflitto depressivo
portano ad una regressione ai fenomeni schizo-paranoidi,così che l'individuo può
continuamente oscillare fra le due posizioni. Qualunque problema incontratonegli
studi successivi, come ad esempio il "complesso di Edipo"* può essere affrontato
entro un modello schizo-paranoide o depressivo di rapporti, di angoscie di difese, e
le difese nevrotiche possono essere sviluppate da una personalità schizo-paranoide
o maniaco-depressiva. Alcune delle angoscie paranoidi e depressive rimangono
sempre attive nella personalità, ma quando l'Io è sufficientemente integrato ed ha
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
stabilito un rapporto con la realtà relativamente sicuo durante lo smaltimento della
posizione depressiva, i meccanismi nevrotici gradualmente succedono a quelli
psicotici. Così, secondo M.Klein la nevrosi infantile é una difesa contro le angoscie
depressive e paranoidi sottostanti, nonchè un modo di fissarle e di smaltirle. Poichè i
processi integrativi che hanno avuto inizio nella posizione depressiva
continuano,l'angoscia diminuisce e la riparazione, la sublimazione e la creatività
sostitiscono estesamente i meccanismi di difesa sia psicotici che nevrotici.* Melania
Klein notò che il gioco infantile poteva rappresentare simbolicamente le angoscie e le
fantasie del bambino.* I primi rapporti oggettuali del bambino erano caratterizzati
dalla preminenza delle fantasie. E' naturaleche tanto più é piccolo il bambino, tanto
più esso é dominato da fantasie onnipotenti. Il conflitto fra aggressività e libido, ben
noto dall'analisi degli adulti, risulterà particolarmente intenso nei primi, stadi evolutivi,
ed essa( ciò seguendo le ultime disposizioni di S.Freud ) avvertì che l'angoscia era
dovuta all'opera dell'aggressività che non a quella della libido e che era sopratutto
contro l'aggressività e l'angoscia che si costruivano le difese. Anche in base a questi
concetti si articolerà nel prossimo capitolo un 'approfondita analisi del problema. Ma
ritornando alle difese , fra queste la negazione, la scissione , la proiezone,
l'introspezione sembrano instaurarsi prima che fosse organizzata la rimozione.
M.Klein notò come i bambini piccoli , sollecitati dall'angoscia cercassero
costantemente di scindere i loro oggetti ed i loro sentimenti, sforzandosi di trattenere
i sentimenti piacevoli ed introiettare gli oggetti buoni, e di espellere invece gli oggetti
cattivi e proiettare i sentimenti spiacevoli.* M.Kein richiamò dapprima l'attenzione
sull'importanza della scissione, e dell' interazione fra introiezione e proiezione ,
meccanismi questi, che notò attivissimi nei bambini molto pisccoli. Davanti
all'angoscia suscitata dalle terrificanti figure interne, il bambini cerca di scindere la
sua immagine dei genitori buoni ed i suoi sentimenti buoni dall' immagine dei genitori
cattivi e della sua tendenza distruttiva.* Infine le funzioni della fantasia, che , fra i suoi
aspetti molteplici e complicati, ha anche un aspetto difensivo,che deve esere tenuto
nel debito conto. Poiche la fantasia mira ad esaudire gli impulsi istintuali senza alcun
rispetto della realtà esterna, la gratificazione derivata dalla fantasia può essere
considerata come una difesa contro una la realtà esterna della deprivazione. Ma
essa é comunque più di questo:é anche una difesa contro la realtà interna.
L'individuo producendo una fantasia di esaudimento del desiderio, non soltanto evita
la frustrazione ed il riconoscimento di una realtà spiacevole, ma ciò che é ancora
più importante , difende se stesso contro la realtà della propria forma e della propria
rabbia, vale a dire contro lasua realtà interna . Le fantasie inoltre possono essere
usate come difesa contro altre fantasie.* Questo a grande linee il pensiero della Klein
sui meccanismi di difesa. Vi sono altre scuole ed altre opinioni sul concetto di difesa.
W.R.D. Ferbain,* è stato uno dei primi esponenti della teoria della relazione
oggettuale, che riafferma la teoria psicoanalitica in termini di bisogno da parte dell'
individuo di mantenere il contatto con un oggetto, in contrapposizione alla teoria
freudiana degli istinti che si fonda sul semplice bisogno di soddisfare se stessi. Egli
afferma che l'uomo , per natura, cerca un oggetto e non il piacere, e che le nevrosi
derivano dai tentativi di controllare e ridurre l'ambivalenza nei riguardi dell'oggetto,
che in origine (e sempre inconsciamente) è la madre, per mezzo di quattro manovre
difensive fondamentali,che definisce tecniche schizoide, isterica, fobica ed
ossessiva. Nella formulazione di Ferbain queste tecniche difensive si distinguono per
il modo in cui l'oggetto viene interiorizzato. Ferbain classifica appunto nel suo lavoro
"A Revised Psychopatuology of the Psychoses and Psychoneuroses"* classifica i
meccanismi di difesa in descrivendo quattro tecniche fondamentali correlandole a
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
nevrosi specifiche. Per l'autore trattato la difesa serve a mantenere l'illusione che
esista ancora una madre ideale e a deviare l'aggressività da questa immagine ideale.
Per Rycroft* sia Ferbain che A.Freud considerano l'angoscia unicamente come
fenomeno nevrotico, senza tener conto dei suoi importanti aspetti biologici. Al
contrario considerando cioè l'angoscia come una forma di vigilanza che scatta per
cambiamenti che si verificano sia nell'ambiente esterno che in quelle parti della
personalità dell'Io che percepisce come esterne, diventa possibile classificare le
difese correlandole alle risposte biologiche di adattamento.* Tornando ad A. Freud
ed al suo libro sui "Meccanismi di difesa",Kris afferma che il libro sembra riprendere il
problema del modo in cui funziona l'Io maturo nel punto in cui S.Freud in " Inibizione,
sintomo ed angoscia" lo lasciò nel 1925*. Per R.Fine*"L'io ed i meccanismi di difesa"
era più legato allo studio dell'Io ma A.Freud attribuì all'analisi il compito di acquistare
la maggior conoscenza possibile dei tutte le tre componenti ( Es, Io e Super Io) della
personalità e di investigare sulle loro relazioni con il mondo esterno. Continuò ad
elencare i nove meccanismi di difesa che suo padre aveva già descritto in varie
occasioni ed aggiunse la -sublimazione, o spostamento della meta pulsionale-. Pre
quando riguarda la tecnica disse: " E' compito dell'analisi pratica osservare come
questa tecniche si affermino efficacemente nei processi di resistenza dell'Io e di
formazione sintomatica in ogni singolo caso".* Inoltre l'autrice ritiene che sarà
sicuramente possibile scoprire un certo numero di altri mezzi tipici legati dall'Io oltre a
quelli menzionati nel suo libro. Infatti Fine oltre ad altri lavori in letteratura ci riporta la
lista più ampia che fu quella di BIbring e dei suoi collaboratori* dell'Istituto
Psicologico di Boston, relativa ad uno studio sulle donne in gravidanza. Essi divisero
le difese in: - fondamentali o di primo grado, - complesse o di secondo grado. Si
ritrovano con niente meno che trentanove tipi di difesa, di cui ventiquattro erano di
primo grado e quindici di secondo. Il loro elenco pare includere ogni genere di difesa,
compresa la somattizzazione, la separazione, il pensiero magico, perfino fare il
pagliaccio, l'ammalarsi e fischiare al buio.*
NEVROSI
Nevrosi è un termine coniato da Sigmund Freud per indicare un tipo di psicopatologia che scaturisce da un conflitto inconscio.
La nevrosi si contraddistingue dagli altri disturbi della personalità in quanto il paziente
non perde il contatto con la realtà e può comunque condurre una vita relativamente
normale.
Le nevrosi hanno prevalentemente una matrice isterica che porta a seconda della
sfumatura presa in ogni singolo paziente (a causa del vissuto personale) a diverse
caratteristiche nevrotiche quali :
fobia - ossessione - paranoia - isteria d'angoscia - e altre
Ogni nevrosi, secondo la teoria freudiana, ha alla base un conflitto irrisolto
riguardante la sfera sessuale.
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Un esempio cinematografico lampante lo ritroviamo nel film "Luci della ribalta" Di
Charles Chaplin, dove la ballerina Terry perde l'uso delle gambe, non per poliomielite
ma per una nevrosi che affondava le radici nel suo passato.
Possiamo banalizzare paragonando l'inconscio all'istinto primitivo o primordiale che
ci mette sullo stesso piano di forme di vita meno intelligenti, nelle quali a differenza di
noi l'inconscio-istinto non ha freni nè inibizioni, e non incontra quindi ostacolo alcuno
che giustifichi l'insorgere di una nevrosi.
Nell'essere umano moderno la nevrosi insorge ora molto più che in passato a causa
delle grandi rivoluzioni di costume, anche sessuale, che portano al conflitto tra il
"seguire il proprio istinto" "razionalizzarlo" "ignorarlo" a favore di un codice esterno
che in fondo non ci appartiene.
PSICOSI
Il termine "psicosi" fu introdotto nel 1845 da Von Feuchtersleben con il significato
di "malattia mentale o follia". È un grave disturbo psichiatrico, espressione di una
grave alterazione dell'equilibrio psichico dell'individuo, con compromissione
dell'esame di realtà, inquadrabile da diversi punti di vista a seconda della lettura
psichiatrica di partenza e quindi del modello di riferimento. I sintomi psicotici sono
ascrivibili a disturbi di forma del pensiero, disturbi di contenuto del pensiero e disturbi
della sensopercezione.
Disturbi di forma del pensiero: alterazioni del flusso idetico fino alla fuga delle idee
e all'incoerenza, alterazioni dei nessi associativi come la tangenzialità, le risposte di
traverso, i salti di palo in frasca;
Disturbi di contenuto del pensiero: ideazione prevalente delirante;
Disturbi della sensopercezione: allucinazioni uditive (a carattere imperativo,
commentante, denigratorio o teleologico), visive, olfattive, tattili, cenestesiche,
geusiche.
Tali sintomi possono presentarsi in diverse condizioni: - in corso di disturbi mentali
organici secondari a malattie internistiche o neurologiche (Lupus Eritematoso
Sistemico, endocrinopatie, uremia, porfiria, Sindrome di Wilson, corea di Huntington,
lesioni del lobo temporale e parietale, epilessia, abuso di sostanze come alcool,
amfetamina, cocaina, cannabis e allucinogeni); - in corso di disturbi cognitivi correlati
alla demenza; - in corso di disturbi dell'umore; - in corso di quadri schizofrenici; - in
corso di quadri schizoaffettivi; - psicosi acute: schizofreniformi, reattive brevi,
cicloidi,puerperali, ecc.; - in corso di disturbi deliranti (di tipo paranoide); - in corso di
disturbi di personalità.
Le psicosi hanno un'incidenza tra i 15 e i 54 anni di 1,5-4,2/100.000. Variano per
gravità e prognosi in base alle caratteristiche del disturbo e in base alle
caratteristiche dell'ambiente in cui vive la persona. Gli studi dell'Organizzazione
Mondiale della Sanità, l'International Pilot Study of Schizophrenia e il Collaborative
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a cura di Antonio Simone Laganà (Kasanova)
Study on Determainants of Outcome of Severe Mental Disorders (WHO, 1973; WHO,
1979; Jablensky e coll., 1992; Leff e coll., 1992), condotti su 1400 individui osservati
in un tempo superiore ai 20 anni, mostrano che la schizofrenia è ubiquitaria e che i
contesti sociali diversi determinano esiti sociali diversi.
Non sono risultate aree geografiche con incidenza particolarmente alta per disturbi
psicotici. Una prognosi decisamente migliore si è evidenziata per i soggetti
appartenenti ai paesi in via di sviluppo. È risultato inoltre che i quadri clinici che si
manifestano in maniera acuta presentano una evoluzione migliore di quelli con
esordio insidioso e progressivo. Tuttavia la tendenza ad un esito migliore nei paesi in
via di sviluppo è comunque stata riscontrata sia per i quadri clinici a esordio acuto,
tanto per quelli a esordio progressivo.
L'eziologia del disturbo è, come per molte condizioni in medicina, molteplice e in
larga parte ignota. Da un punto di vista psicobiologico, la sintomatologia psicotica
trova una possibile causa in alterazioni organiche a vari livelli, da una
predisposizione genetica, all'alterato funzionamento di neurotrasmettitori quali la
dopamina, la serotonina, il Glutammato, il GABA, l'NMDA, i peptidi endogeni e altri
ancora. Da un punto di vista fenomenologico, Karl Jaspers parla di esperienze
psicotiche quando vengono vissute come incomprensibili per il soggetto per le
modalità con le quali scaturiscono dall'attività psichica, facendo declinare le
condizioni ontologiche dell'esistenza (tempo, spazio, coesistenza, progettualità).
Secondo Otto Kernberg la psicosi si distingue dalla nevrosi per la "diffusione
dell'identità" e la messa in atto di meccanismi di difesa primitivi (idealizzazione
primitiva, identificazione proiettiva, negazione, onnipotenza, svalutazione) che
proteggono l'individuo dalla disintegrazione e dalla fusione di sé con l'oggetto, con
regressione di fronte all'interpretazione. Un'altro elemento distintivo è quello della
perdita della percezione della realtà.Infatti.al contrario della nevrosi,lo psicotico non
accetta la realtà che lo circonda,e ne crea una diversa nella sua mente. La
psicoanalisi interpreta le psicosi con una rottura dell'Io con la realtà esterna, dovuta
alla pressione dell'Es sull'Io. L'Io cede all'Es per poi recuperare parzialmente la
costruzione di una propria realtà attraverso il delirio, recuperando il rapporto
oggettuale (Freud). Secondo Melanie Klein, le psicosi sono legate alla caduta nella
posizione schizoparanoide della prima infanzia. Secondo lo psicologo Carl Gustav
Jung, nelle psicosi si ha il sopravvento di complessi autonomi inconsci sul
complesso dell'Io, che non riesce a mantenere il controllo sulle formazioni inconsce.
L'indirizzo sociale della psichiatria esprime anche un'interpretazione legata al
contesto che, come si è visto, risulta determinante per l'integrazione di queste
persone e la loro riabilitazione.
DEPRESSIONE
La depressione è quell'insieme di sintomi psichici e fisici caratterizzati da una
diminuzione da lieve a grave del tono dell'umore, talvolta associata ad ideazioni di
tipo suicida od autolesionista, notevole diminuzione delle capacità di concentrazione
ed estrema ed immotivata prostrazione fisica.
Può essere di tipo unipolare, quando l'umore si mantiene basso e sono presenti
rallentamento psicomotorio ed alterazioni del ciclo sonno veglia mentre la
melanconia è prevalente nelle prime ore del mattino; di tipo maniaco-depressivo,
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altrimenti nota come sindrome bipolare, di tipo nevrotico o di tipo reattivo, detta
anche reazione depressiva, comune reazione umana a fattori di stress o shock
emotivi.
Indice
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1 Cause
2 Diagnosi
3 Trattamento
o 3.1 Terapia farmacologica
o 3.2 Psicoterapia
o 3.3 Terapia elettroconvulsivante
o 3.4 Terapie nuove e sperimentali
4 Collegamenti esterni
Cause
Sebbene i meccanismi interni alla base della Depressione siano attualmente
sconosciuti, è ormai accertato che la malattia è in genere scatenata da un periodo di
stress, sia esso negativo che positivo. La malattia infatti si può innescare durante
alcune fasi importanti della vita: Un lutto, un licenziamento, un grande dispiacere ma
anche dopo un innamoramento, una grossa vincita.
L'evento che innesca la depressione è definito "Stressor". Comunque affinché la
Depressione si inneschi in pianta stabile è necessaria la predisposizione genetica.
Se la malattia guarisce senza alcun trattamento si definisce Depressione Reattiva.
Se la malattia si innesca senza alcun evento scatenante è definita Depressione
Endogena.
Diagnosi
I tre principali mediatori chimici coinvolti nella depressione e come essi interagiscono
nella patogenesi depressiva
Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, quarta edizione (DSM-IV),
propone i seguenti criteri per la diagnosi di depressione maggiore (unipolare):
1. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come
riportato dal soggetto o come osservato da altri.
2. Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività
per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
3. Significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di
peso, oppure diminuzione o aumento dell'appetito quasi ogni giorno.
4. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno.
5. Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno.
6. Faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno.
7. Sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di
colpa quasi ogni giorno.
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8. Diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere
decisioni, quasi ogni giorno.
9. Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di
piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o l'elaborazione di un piano
specifico per commettere suicidio.
Trattamento
Terapia farmacologica
La terapia d'elezione è a base di farmaci antidepressivi (solitamente SSRI, NSRI,
NaSSa, SSNRI e Litio), per quanto meno recenti molto utili anche Triciclici ed i meno
maneggevoli iMAO (Reversibili e Non).
I principali neurotrasmettitori implicati nella malattia depressiva sono stati identificati
in Serotonina, Noradrenalina e Dopamina e sembra ormai accertato che la
depressione sia causata dall'insufficiente disponibilità di uno o più di questi tre.
Psicoterapia
È stato dimostrato che la psicoterapia in associazione alla cura farmacologica è più
efficace di ogni altro tipo di terapia da sola nel disturbo depressivo maggiore. Le
psicoterapie possibili sono diverse, per esempio:
1. Terapia cognitiva
2. Terapia comportamentale
3. Terapia a orientamento psicoanalitico
4. Psicoterapia di sostegno
5. Terapia di gruppo
6. Terapia familiare
7. Comicoterapia
8. Neurotecnologia
9. Meditazione
10. Training Autogeno
Molti psichiatri ritengono che la psicanalisi freudiana o postfreudiana sia poco o per
nulla indicata in patologie che hanno una matrice biologica come la depressione o il
disturbo bipolare.
E. Fuller Torrey, definito dal Washington Post "il più famoso psichiatra americano",
scrivendo in "Witchhdoctors and Psychiatrists" (1986) ha sostenuto che le teorie
psicoanalitiche non hanno un fondamento scientifico superiore a quello delle teorie
dei guaritori indigeni tradizionali. Difatti, un numero crescente di scienziati considera
la psicoanalisi una pseudoscienza ( F. Cioffi, 1998).
Proprio la matrice biologica ci fa comprendere come sia essenziale una cura basata
su farmaci antidepressivi che vanno ad agire sulla chimica cerebrale e più
esattamente sui meccanismi di neurotrasmissione e ricezione. Appare chiaro quindi
che i farmaci non vanno a curare solo i sintomi ma i meccanismi che hanno generato
il disturbo depressivo.
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Terapia elettroconvulsivante
Nei casi di farmacoresistenza o di impossibilità a somministrare antidepressivi di
sorta, un modello di trattamento discusso è rappresentato dalla terapia
elettroconvulsiva (elettroshock). Secondo qualcuno è efficace, nel caso delle forme
più gravi del disturbo, ma non tiene affatto conto dei fattori secondari e della
soggettività del paziente di un trattamento così traumatico. Tuttavia l' elettroschock
risulta ancora oggi lo strumento terapeutico più efficace con oltre l'85% di successi
terapeutici in termini di rimessione. Il problema dell'ECT risulta essere quello relativo
alla non prevenzione delle ricadute, che dopo questo genere di terapia sembrano
essere frequenti.
Terapie nuove e sperimentali
La food and drugs administration nel 2005 ha approvato la stimolazione profonda
come terapia per quei soggetti che non hanno risposto almeno a tre cicli di farmaci.
Si tratta di elettrodi impiantati che fanno fluire una continua ma impercettibile scossa
al cervello favorendo una maggiore concentrazione dei neurotrasmettitori deficitari. In
Italia tale metodologia non è attualmente in uso per la depressione se non per alcuni
casi specifici sperimentali mentre è usata per curare alcuni casi di parkinsonismo e
cefalea a grappolo. Tuttavia in casi del tutto speciali ai depressi non responder viene
praticata la stimolazione chirurgica del nervo vago, attraverso cui passano i
neurotrasmettitori la cui deficienza porta a disturbo depressivo. Un altra terapia
sperimentale ma non ancora approvata è lo shock magnetico (simile all'elettroshock
ma la convulsione viene provocata da campi magnetici e non campi elettrici con
minori effetti collaterali)
MECCANISMI DI DIFESA
Prima di parlare dei meccanismi di difesa é utile ricordare che nel suo lavoro Anna
Freud indirizza i suoi interessi principali verso i bambini. Attraverso l'osservazione
diretta, ci puntualizza che le sue più importanti informazioni sul suo Es le otteniamo
nelle libere associazioni nei i sogni e in principal modo nelle attività di fantasia nel
gioco nei disegni o attraverso l'espressione grafica che rivelano in una forma più
genuina ed accessibile di quanto avviene negli adulti le tendenze dell'Es. Gli analisti
di questa scuola come avremo modo di puntualizzare nel quarto capitolo sostengono
che il gioco del bambino é l'equivalente delle libere associazioni negli adulti e se ne
servono come di una vera fonte di interpretazione. Il libero flusso delle associazioni
corrisponde allo svolgersi industurbato dei giochi; interruzioni ed inibizione dei giochi
equivalgono alle interruzioni nelle libere associazioni. Ne deriva che, se noi
analizziamo una qualsiasi interruzione del gioco, scopriamo che essa é la
rappresentazione di una misura difensiva da parte dell'Io, paragonabile alla
resistenza nelle libere associazioni. Inoltre un bambino per esempio pu” mostrarsi
indifferente, mentre noi ci saremmo aspettati una dimostrazione di disappunto, o pu”
manifestare una gaiezza eccessiva invece che dispiacere, o ancora una tenerezza
eccessiva invece della gelosia. In tutte queste evidenze, è accaduto qualche cosa
che ha deviato il corso normale del processo : l'Io è intervenuto provocando una
trasformazione del sentimento.* E' chiaro quindi che in tutti i campi l'Io deve potersi
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adattare e difendere e disporre di meccanismi di difesa che si creano nel corso
dell'infanzia. Ricordo che S. Freud aveva postulato l'idea che le scelte individuali dei
meccanismi di difesa é determinata in parte dalla costituzione.* Se non intervenisse
l'Io o qualche forza che l'Io rappresenta, ogni istinto avrebbe un unico destino, quello
della gratificazione.* Come avevamo già, detto Anna Freud individua dieci
meccanismi ed il suo "allievo" C. Brenner li riprende cosi esponendoli così come si
andrà ad esporre in seguito singolarmente: -Rimozione -Annullamento -Formazione
reattiva -Negazione -Proiezione -Rivolgimento contro il Sé -Regressione -Isolamento
- Somattizzazione* -Sublimazione.
•
Rimozione
Attività dell'Io che sbarra la via della conoscenza all’impulso indesiderato proveniente
dall'Es, o qualsiasi suo derivato siano essi ricordi, emozioni, desideri o fantasie di
realizzazione di desideri.* La rimozione è il più efficace dei meccanismi di difesa, nel
la misura in cui la sua forza d'azione è radicale e definitiva .* Essa può, dice Annna
Freud, dominare certe pulsioni dinnanzi alle quali altri processi restano inattivi. La
rimozione oltre ad essere il più efficace è anche il più pericoloso dei meccanismi. La
dissociazione dell'Io, imposta dal ritiro della coscienza, da interi settori del la vita
istintuale ed affettiva, può distruggere l'integrità della personalità in modo
permanente. La rimozione diventa così la base di una formazione di compromesso e
della nevrosi . * Quando il suo funzionamento è difettoso essa ha una parte
importante nella formazione di sintomi di tutte le specie.* Si ricorda che la rimozione
fu il primo meccanismo scoperto e descritto da Freud. La rimozione, se riesce porta
all'oblio, o all'amnesia, è un meccanismo di difesa che certamente protegge molto
bene l'individuo e che a piccole dosi funziona normalmente in ogni essere umano; se
è troppo pronunciata ed in vade tutta la personalità, si ha a che fare con
comportamenti patologici (es: nevrosi isterica).* Per Nicasi la rimozione non sarebbe
patogena se fosse davvero efficace, se riuscisse realmente nei suoi scopi e non
richiedesse ulteriori interventi; lo diviene in quanto da sola non basta a garantire la
tranquillità. Ha bisogno di rinforzi: o nel momento stesso in cui ha luogo (in tal caso i
meccanismi di difesa si configurano come suoi complementi) o a distanza di tempo,
quando le sue vittime tornano alla carica (ritorno del rimosso) e la difesa fallisce (in
tal caso i meccanismi di difesa hanno il compito di trattare con il nemico fino a
quando non si giunge ad un compromesso); in entrambi i casi il risultato è
patologico.* Quando la rimozione inizia ad essere inefficace, vengono chiamati in
gioco uno o più meccanismi di difesa; è spesso presente una stratificazione di
difesa.* Inoltre quando alcuni dei meccanismi falliscono, essi tendono regolarmente
ad essere sostituiti da altre difese. Ad esempio quando vediamo in atto 1a difesa
della proiezione si può senz'altro ritenere che vi è stato un precedente ma
inadeguato uso della negazione. * Brenner ricorda che l'intero processo di rimozione
si compie inconsciamente. Non è inconscio solamente il materiale rimosso, ma sono
del tutto inconscie anche le attività del l'Io che costituiscono la rimozione. White ci
delinea le sindromi cliniche che illustrano la rimozione, esse sono: 1) Amnesia. 2)
Dimenticanza sintomatica. 3) Lapsus linguae o Lapsus calami (in cui alla parola
corretta non viene consentito l'accesso alla consapevolezza o all'espressione). 4)
Attacchi di angoscia, in cui la persona prova apprensione ma è incapace di
determinare quale ne sia la causa.*
•
Annullamento
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L'annullamento è un'azione che contraddice o annulla il danno che l'individuo in
questione inconsciamente immagina che possa venire causato dai propri desideri
aggressivi, es.: prima colpisce l'oggetto della sua ira, e poi lo bacia; la seconda
azione annulla la prima. Si tratta di una coazione di andamento "magico"
particolarmente caratteristico nella nevrosi ossessiva.* Spesso accade che sia
abbinato alla formazione reattiva, meccanismo sempre caratteristico delle nevrosi
ossessivo-coatte.* L'annullamento è un atto difensivo a due fasi.* Nella prima un
impulso proibito viene espresso o nell'azione oppure nel pensiero (che può essere
inconscio o dissimulato sotto forma simbolica). Nella seconda fase viene eseguito un
altro atto che cancella simbolicamente l'impulso espresso nella prima fase. La
seconda fase assume la forma di un atto rituale coatto che è inteso ad esercitare un
con trollo magico sull'impulso temuto o sulle sue potenziali conseguenze. * Un
fallimento del meccanismo di annullamento, dovuto ad una invasione della difesa di
impulsi repressi, spiega fenomeni frequenti della nevrosi coatta, come ad esempio:
diviene necessario un numero sempre maggiore di ripetizioni perché nessuna offre
com pleta sicurezza di una totale esclusione dell'intenzione istintiva. * Alcune
sindromi cliniche di facile osservazione che illustrano l'annullamento possono essere:
- la coazione a lavarsi le mani - toccare - contare - pulire e controllare, ecc...*
•
Formazione reattiva
L'odio appare sostituito dall'amore, oppure l'aggressività dalla mitezza, dove
l'atteggiamento mancante persiste inconsciamente.* Vi è qualche cosa che l'Io teme
come pericoloso e da cui reagisce con il segnale dell'angoscia. Si tratta di un
meccanismo secondario, destinato essenzialmente ad impedire il ritorno del rimorso
alla coscienza. La rimozione gli è dunque preesistente*, tanto che la formazione
reattiva può essere considerata una sorta di sostegno a cui si fa appello per
rafforzare la rimozione allorché questa perde di efficacia; essa risulta particolarmente
evidente nel comportamento ossessivo e coatto* e nei sintomi del nevrotico
ossessivo.* Per assicurare che un impulso rimosso disturbante sia tenuto lontano
dalla consapevolezza conscia o dal comportamento palese, vengono sviluppati
atteggiamenti e comportamenti che sono l'esatto opposto di ciò da cui si debbono
difendere.* Certi aspetti della passività possono essere formazioni reattive contro
un'attività motoria che è stata inibita e poi rimossa dalle proibizioni in epoca infantile.
Sempre per Schneider questo meccanismo è molto importante perché permette di
comprendere la genesi di certi caratteri, in particolare dei caratteri nevrotici.* Le
sindromi cliniche che illustrano la formazione reattiva sono: - Nevrosi ossessivocoatte. - Gli stili caratteriali ossessivo-coatti. *
•
Negazione
Diniego di una parte spiacevole o indesiderata della realtà esterna, sia mediante una
fantasia con la quale si esaudisce il desiderio, sia mediante il comportamento. Es:
negazione della paura con comportamento spavaldo.* In alcuni studi freudiani* il
rifiuto è considerato l'agente della confusione al- lucinatoria,* ed in seguito il diniego
è anche considerato il meccanismo centrale nel feticismo, dove svolge un ruolo di
negazione nei confronti della “realtà della castrazione”. Tutti tratti non di nevrosi ma
più specificatamente di qualcosa di più grave, ovvero psicosi. Il primitivo meccanismo
di difesa chiamato diniego o negazione è molto frequente nei bambini normali.*
Fenichel ribadisce che finché l'Io è debole, la forza della negazione rimane
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relativamente superiore; la soluzione caratteristica dell'infanzia tarda è che la verità
spiacevole viene effettivamente negata nel gioco ed in fantasia,* mentre
contemporaneamente la parte ragionevole dell'Io riconosce la verità ed il carattere di
gioco o fantastico della negazione. * Quando un adulto ricorre al diniego come modo
elettivo e persistente per affrontare una realtà dolorosa, si tratta di un sinistro segno
che indica la presenza di un grave disturbo della sua capacità di valutare
correttamente la realtà o addirittura una psicosi. * Fine ci relaziona nella sua storia
della psicoanalisi che negli studi di Searls* su gli schizofrenici molta dell'apparente
deprivazione sensoriale è dovuta all'uso della negazione inconscia; Lewin* per conto
suo in “The Psychoanalysis of Elation” offre per Fine una descrizione magistrale
dell'uso della negazione negli stati maniacali.
•
Proiezione
L'individuo attribuisce un proprio desiderio o impulso a qualche altra persona o a
qualche oggetto impersonale del mondo esterno .* E' una reazione di difesa contro il
proprio intollerabile senso di inferiorità.* La proiezione è un meccanismo di difesa
che di norma recita la sua parte più grande nei primi tempi di vita infantile. * Come la
negazione, anche la proiezione è uno dei meccanismi di difesa più primitivi. Essa si
manifesta nel suo aspetto più evidente e drammatico nella forma estrema dei deliri
psicotici e delle allucinazioni. Se viene utilizzata con continuità in connessione a
problemi significativi nella vita di una persona, la proiezione è un pericoloso segno di
disturbo psicotico* e paranoide. * La proiezione viene usata di continuo da persone
normali per dimiuire le tensioni ordinarie di ostilità, ma più frequentemente la si trova
in persone nelle quali l'allestimento sessuale non è molto soddisfacente. Perciò esso
appare spesso evidente nei conflitti coniugali, in certi tipi di alcoolismo e
tossicomania e naturalmente nei sistemi patologici dei paranoici e dei parafrenici.*
Essa ha parte anche nella formazione delle fobie dove viene negato un pericolo
interno e considerato come se venisse dall'esterno.* Per Pontalis Laplanche la
proiezione è un'operazione con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell'altro,
persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, dei desideri e perfino degli "oggetti" che
egli non riconosce o rifiuta in sé. Il primo lavoro freudiano sia sulla proiezione, sia
sulla paranoia è la "Minuta Teorica H" del 1895 in cui anche la paranoia è assimilata
al gruppo delle neuropsicosi da difesa. Per il concetto di proiezione in Klein si può
leggere Fine, egli specifica che dall'inizio l'Io introietta cose buon e cattive a partire
dal seno materno: gli oggetti sono buoni quando il bambino riesce ad ottenerli, cattivi
quando non ci riesce. Secondo Melanie Klein : "il bambino avverte questi oggetti
come cattivi perché vi proietta la sua aggressività e non solo per il fatto che essi
frustrano i suoi desideri”. * Fra le nevrosi cliniche che illustrano la proiezione, i deliri e
le allucinazioni paranoidi sono gli esempi più ovvi dell’uso della proiezione. *
•
Rivolgimento contro il sé
Il soggetto (bambino) che prova rabbia verso un altro, non sa esprimerlo nei confronti
del suo oggetto originale, può invece picchiare, colpire, ferire se stesso.*
Proteggendosi così dal rapporto aggressivo con l'altro, che rischia di essere troppo
pericoloso per lui.* Ha origine dal comportamento che caratterizza i primissimi mesi
di vita e che soltanto in seguito finisce per essere utilizzato come meccanismo di
difesa. Il bambino piccolo impotente e frustrato nei suoi bisogni quando è assente la
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persona che dovrebbe soddisfarli, nel tentativo di alleviare la tensione può aggredire
il proprio corpo.* Col passare degli anni il processo attraverso cui una persona devia
l'aggressività può indurre la persona in questione a ferirsi fisicamente, e nuocersi per
altre vie; socialmente, finanziariamente, eccetera, sino ad essere nella forma più
estrema di rivolgimento contro il sé il fattore principale di un'azione suicida.*
•
Regressione
Meccanismo di difesa che svolge un ruolo importante nelle situazioni di grave
minaccia della propria integrità. Per Pontalis Laplanche : “In un processo psichico
avente un senso di percorso o di sviluppo, si designa con regressione un ritorno in
senso inverso da un punto già raggiunto a un punto anteriore ad esso. Nel senso
formale la regressione designa il passaggio a modi di espressione e di
comportamento a livello inferiore dal punto di vista della complessità, della
strutturazione e della differenziazione”.* La regressione indica un ritorno automatico
ed involontario a modi di funzionamento psico- logico che sono caratteristici di stadi
più antichi, in special modo degli anni infantili. Il ritorno simbolico agli anni
dell'infanzia consente alla persona di evitare l'avversità presente e di trattarla come
se non fosse ancora accaduta.* La regressione per Glover opera già dopo che sono
state depositate le tracce mnemoniche primordiali, e ogni qualvolta una persona
soffre di una disillusione, tende verso periodi precedenti della sua vita, che gli
offrirono esperienze più piacevoli, e verso tipi anteriori di soddisfazione che furono
più completi. E' tipica dei nevrotici coatti e delle nevrosi ossessive per Freud e Fine e
negli isterici per Fenichel. Per Musatti vi è sempre alla base e come fattore
promovente della regressione una rimozione. * La patologia non è determinata dalla
profondità della regressione ma piuttosto della sua natura irreversibile, dal conflitto
che essa genera e dalla sua interferenza con i processi di adattamento..., gli aspetti
primitivi di una funzione che era no stati messi sotto controllo e tenuti in disparte
balzano in primo piano. La questione della regressione ha assunto un' importanza
particolare tra i meccanismi di difesa a causa del I'interesse sempre maggiore legato
agli stadi borderline e psicotici.* E' utile ricordare che la regressione periodica oltre a
comparire nel comportamento normale, ha un' importanza essenziale per il
mantenimento della salute psichica. Tutti noi regrediamo ogni notte nel sonno...,
inoltre è frequente nella malattia, e molte volte il paziente abbandona la maggior
parte delle attività e delle responsabilità. *
•
Isolamento
Rimozione dell'emozione, ricordo del passato può avere libero accesso alla
coscienza mentre invece non diventa cosciente l'emozione. Es.:non ricordare il
disagio avuto da un avvenimento.* Gli impulsi vengono pertanto sperimentati soltanto
come idee estranee; non appartengono realmente alla persona, e quest'ultima non li
sente come reali.* L'isolamento dell'affetto è il meccanismo di difesa implicito nella
formazione dei pensieri ossessivi. Esso costituisce una seconda linea di difesa
chiamata in causa allor ché la rimozione non riesce più ad impedire che una pulsione
inconscia disconosciuta penetri nella consapevolezza .* Per Freud e Fenichel è il
meccanismo prevalente nelle nevrosi di coazione* e ossessive.* Pur discutendo di
fatti molto importanti il paziente rimane calmo, emozionandosi invece, in modo
incomprensibile, per fatti banali senza rendersi conto di aver spostato l'emozione.*
Per Fenichel, molti bambini cercano di risolvere i conflitti, isolando alcune sfere della
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loro vita dalle altre, come la scuola dalla casa, o la vita sociale dai segreti della loro
solitudine... Interessanti note ci lascia Musatti nel Trattato, dove: “La stessa tendenza
all'isolamento si manifesta, nei comportamenti motori della nevrosi ossessiva, ossia
nelle azioni ossessive. Spesse volte infatti l'azione ossessiva (che il soggetto compie
come espressione o come reazione ad un impulso) viene immediatamente seguita
da una breve pausa, in cui il soggetto si arresta dal fare e dall'osservare qualsiasi
cosa. Isolando in tal modo una sua impressione od un suo atto, il soggetto esprime
simbolicamente la sua tendenza a non lasciare che l'idea di una tale impressione ed
atto venga in contatto associativo con altri pensieri. E' come se questa sorta di vuoto,
che diviene in tal modo l'azione specifica del l'attività normale del soggetto, servisse
a svalorizzare e ad annullare l'azione, e insieme gli insiemi e gli impulsi dell'essere
che vi sono connessi." *
•
Somattizzazione
Consiste nel provocare primariamente un corto circuito che coinvoglia per via neuroumorale emozioni, pensieri o comportamenti su funzioni fisiologiche: l'emozione e la
perturbazione affettiva che dovrebbero comparire a causa di un conflitto non sono
vissute nella sfera psichica ed elaborate da questa, ma immediatamente deviate sul
corpo, e compaiono quindi disfunzioni che possono portare a disturbi della psiche
fisica, disturbi considerati funzionali attraverso la funzione del sistema neuro
vegetativo.* La comparsa quindi di un sistema fisico può essere considerato come un
meccanismo di di fesa che evita la sofferenza psicologica ed il conflitto.* Credo che
la somatizzazione sia di più facile osservazione oltre che in campo di medicina
psicosomatica anche in campo sportivo, poiché l'attività appunto ludico-sportiva si
basa essenzialmente sulla macchina-corpo e quindi una disfunzione "reale" o "non
reale" di tale macchina assume una grossa importanza per l'atleta.
•
Sublimazione
Questo è l'ultimo dei meccanismi di difesa messo in luce da Anna Freud che
appartiene per l'autrice “piuttosto allo studio delle normalità che a quello delle nevrosi
come ribadirono Freud, Brenner ed altri. La sublimazione o spostamento dello scopo
istintuale è il modificare il gesto nella direzione dell'accettabilità è dell'approvazione
sociale.* Individuato da Sigmund Freud nel 1905 la sublimazione era la controparte
normale dei meccanismi di difesa. Consisterebbe dunque nel fatto di indirizzare
l'energia ora neutralizzata da una pulsione, verso nuovi oggetti di un soddisfacimento
non sessuale.* Oggi diremo piuttosto che il termine sublimazione esprime un certo
aspetto del funzionamento normale dell'Io. Nei "Tre saggi..." scritti nel 1905 Freud la
definisce nel seguente modo: " Il proceso di sublimazione, nel quale agli eccitamenti
eccessivi provenienti da alcuni fonti della sessualità si apre il deflusso e l'utilizzazione
in altri campi in modo che dalla predisposizione, in sé pericolosa , risulta una non
dispensabile intensificazione della capacità di prestazione psichica"* Oggi si direbbe
piuttosto che il termine sublimazione esprime un certo aspetto del funzionamento
normale dell'Io. * Per Schneider la sublimazione pu” essere tanto un meccanismo di
difesa quanto una funzione dell'Io. * Gran parte del comportamento socialmente
valido è basato sulla sublimazione, e in certa misura lo sono anche comportamenti
complessi e raffinati, quello dell'artista o dello scienziato, almeno per quanto riguarda
taluni aspetti della loro energia motivante.* Ove venga visto come un meccanismo di
difesa la sublimazione è il più completo, maturo, efficace di tutti.* Fenichel è dello
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stesso avviso tanto che dice che difese riuscite possono riunirsi sotto il titolo di
sublimazione. Nel senso progressivo e positivo, la sublimazione contribuisce
enormemente alla stabilità dell'individuo, tanto che la crisi o il crollo delle
sublimazioni è un segnale clinico di imminente pericolo, indicando che tutta quanta
l'economia del le scariche libidiche è stata radicalmente disturbata. * Per Anna Freud
“un bastone da passeggio, una divisa, un'arma-giocattolo di vario tipo sono per il
bambino, il simbolo della virilità. Anche le bambole, pur venendo impiegate in giochi
di ogni tipo servono a creare la funzione della maternità, mentre i trenini, le
macchine, le costruzioni, oltre che a relizzare i vari desideri e ad offrire possibilità di
sublimazione, servono a creare nella mente del bambino la piacevole fantasia che
essi possono dominare il mondo. * I giochi quindi hanno grossa importanza per
“allenare” il concetto di sublimazione.
LA LOGICA DELLA RELAZIONE PSICOTERAPEUTICA
Sommario
Friedman ha osservato che "Freud non ha inventato una forma di trattamento: l'ha
scoperta". Questo significa che la psicoanalisi è un "fenomeno robusto", dotato di una
logica interna o di una struttura essenziale. Di questa struttura Friedman descrive due
elementi: la "caccia alla verità oggettiva" e l'"atteggiamento oppositivo". L'Autore parte da
questa base per ampliarla in due direzioni. In primo luogo afferma che la struttura
essenziale indicata da Friedman non appartiene solo alla psicoterapia psicoanalitica, ma è
condivisa da ogni psicoterapia genuina, cioè da ogni trattamento che non separa l'obiettivo
tattico della risoluzione del sintomo da quello strategico della formazione personale. In
secondo luogo l'Autore colloca i due fattori di Friedman sui due assi ortogonali – quello
orizzontale della riparazione e quello verticale della scoperta – che definiscono il campo
della psicoterapia. Su questi assi, che congiungono ciascuno due posizioni terapeutiche
cardinali, i fattori di Friedman sono raddoppiati a quattro, cioè due coppie di fattori
polarmente opposti. Questa duplicazione, che trasforma la logica lineare di Friedman in
una logica dialettica, è ritenuta necessaria per superare l'unilateralità della prima.
Nell'approccio dialettico la verità non è semplicemente cacciata o conquistata, è anche
accolta o generata; e alle resistenze si risponde certamente con una modalità oppositiva,
ma anche con una rassicurante e convalidante. E' necessario trovare un equilibrio
momento per momento tra il cacciare e l'accogliere, come tra il lottare e il rassicurare, in
funzione delle esigenze del processo.
Capitolo 1
Freud non ha inventato una forma di trattamento: l'ha scoperta. Se così non fosse, osserva
Friedman (1997), la terapia non avrebbe senso:
Se il mio assunto di partenza è sbagliato, cioè se il trattamento non è altro che
l'applicazione a un certo paziente di una teoria analitica qualsiasi che stia passando per la
testa di un certo terapeuta in un certo momento, allora tutto il mio metodo perde di senso
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(p. 34).
La terapia analitica non è, non può essere, qualcosa che deriva semplicemente
dall'applicazione di una teoria qualsiasi (cosa che la renderebbe irrimediabilmente
arbitraria), ma qualcosa che accade, e quindi è osservabile, nella situazione di trattamento:
è un fenomeno robusto. Ciò equivale a dire che il trattamento ha una sua logica interna,
che determina la struttura osservabile. Si può partire da dove si vuole, anche dall'ipnosi,
come ha fatto Freud. Ma se ci si lascia guidare dalla logica del processo, invece che dal
desiderio di ottenere qualcosa (ricordi rimossi, catarsi, o qualsiasi altra cosa), si approda a
una struttura essenziale della relazione, cioè a un insieme di proprietà che ogni relazione
genuinamente terapeutica deve presentare. Di questa struttura Friedman evidenzia due
punti: la "caccia alla verità oggettiva" e l'"atteggiamento oppositivo".
Si può discutere se gli elementi base del processo siano proprio quelli ipotizzati da
Friedman, o solo quelli. Si può rilevare una contraddizione tra la disponibilità a lasciarsi
guidare dalla logica del processo e la decisione di prendere in esame, nella determinazione
dei suoi componenti, solo "l'analisi freudiana angloamericana". Si può obiettare che ogni
terapia, in quanto prodotto culturale, è anche e ovviamente una costruzione che dipende
da certe premesse e da una determinata visione del mondo. Ma tutto questo non intacca la
sostanza dell'osservazione di Friedman, perché se non esistesse un nucleo essenziale, o
una struttura invariante alla base di ogni relazione psicoterapeutica o psicoanalitica
autentica, cioè non fondata su suggestione o manipolazione, ogni discorso sulla
psicoanalisi o la psicoterapia cadrebbe nell'insignificanza per mancanza di referente reale,
e le teorie psicoanalitiche/psicoterapeutiche sarebbero di fatto indistinguibili dalla miriade di
culti che si contendono il mercato della cura delle anime.
Abbastanza spesso nei tentativi di definire questo nucleo o questa struttura essenziale
viene impiegato il termine "psicoanalisi" per indicare la terapia autentica, e quello di
"psicoterapia" come contenitore generico per tutte le pratiche puramente sintomatiche,
suggestive o manipolative, distinzione che riecheggia quella freudiana ben nota tra l'oro
della psicoanalisi e il rame della suggestione. La medesima distinzione terminologica è
applicata anche al tentativo di separare la "psicoanalisi" come ricerca della verità o via di
liberazione personale dalla "psicoterapia" intesa come una professione tecnico-scientifica
simile alla pratica medica. In entrambi i casi la distinzione sembra impropria. Infatti è ben
vero che esistono pratiche sintomatiche, suggestive o manipolative, e "terapie brevi" di
ogni sorta, ma in tutti quesi casi sembra più giusto parlare di "cattiva" psicoterapia. Infatti
anche all'interno del paradigma medico una terapia che si proponga solo di eliminare il
sintomo è solo una terapia sintomatica, mentre una buona terapia medica agisce per
quanto è possibile sulla causa della malattia. Inoltre l'affermazione che la psicoanalisi è in
grado, a differenza della psicoterapia, di produrre una trasformazione radicale, e non solo
una guarigione sintomatica, non è mai stata dimostrata e rimane ancora oggi una pura
petizione di principio, come osserva Benvenuto (1999). Si può essere d'accordo con
Contardi (1999) quando dice, a proposito della psicoanalisi, che "la terapia non avviene
senza formazione soggettiva, e questa procede producendo effetti terapeutici": salvo che
questo si può dire per ogni buona psicoterapia, e non per la sola psicoanalisi, se è vero
che non può essere detta buona una psicoterapia che scinde l'obiettivo tattico della
risoluzione del sintomo dall'obiettivo strategico della formazione o crescita personale.
L'articolazione tra obiettivi tattici e strategici, d'altra parte, non può seguire uno schema
fisso. A volte sono in primo piano gli uni, altre volte gli altri. Un lavoro centrato sul sintomo
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può portare a un'importante trasformazione personale, come un lavoro sulle dinamiche
profonde può portare alla risoluzione di un sintomo. Ma è tanto più probabile che questo
avvenga quanto più l'altro polo del lavoro, anche se implicito, è tenuto presente. Viceversa
accade molto spesso che i trattamenti a orientamento prevalentemente tattico (le
"psicoterapie") trascurino la strategia e quelli a orientamento prevalentemente strategico (le
"psicoanalisi") trascurino la tattica, cioè il trattamento del sintomo con tecniche appropriate.
Entrambi rendono un cattivo servizio al paziente, quando la salvaguardia dell'identità del
terapeuta (psicoterapeuta o psicoanalista di questa o quella scuola) è privilegiata rispetto
all'attenzione ai bisogni del paziente. Quando invece prevale questa, lo psicoanalista si
trasforma in psicoterapeuta (con molte frecce cognitivo-comportamentali-esperienziali al
suo arco), e lo psicoterapeuta si trasforma in psicoanalista (in quanto esercita un
monitoraggio continuo sull'esperienza della relazione da entrambe le parti – o, se si
preferisce, analizza il transfert e il controtransfert). Con la conseguenza che la distinzione
tra le due figure perde la gran parte, se non la totalità, del suo senso.
Di conseguenza, le parole "psicoanalisi" e "psicoterapia" possono essere usate come
sinonimi, nella maggior parte dei casi. Invece che inseguire incerte e improbabili distinzioni,
conviene dedicarsi al compito di definire ciò che è essenziale o strutturale in ogni relazione
terapeutica autentica, comunque si preferisca chiamarla. A questo scopo i due punti
indicati da Friedman sembrano un buon punto di partenza. Questa è dunque la prima delle
due posizioni cardinali di Friedman:
L'analista poteva così portare avanti con fermezza il suo compito senza dover supplicare il
paziente e senza doverlo manipolare, dato che la risposta ultima del paziente era
comunque garantita, teoricamente, da una terza presenza: la verità oggettiva, la verità non
distorta dai preconcetti dell'analista e del paziente e dal loro pensiero pregiudiziale (p. 40,
corsivo mio).
E' definita così la posizione base non solo della psicoanalisi, ma di ogni terapia relazionale,
dal momento che l'incapacità di, o l'indisponibilità a neutralizzare i propri preconcetti
personali o di scuola caratterizza le pratiche di manipolazione o indottrinamento ed esclude
alla radice che ciò che ne risulta possa essere detto autenticamente terapeutico, per
quanto fornitore e destinatario possano ritenerlo soddisfacente.
Se sulla sospensione di preconcetti e pregiudizi come atto inaugurale di ogni vera terapia è
impossibile non essere d'accordo, sull'attributo oggettiva per il sostantivo verità è lecito
avanzare più d'una riserva. Benvenuto (1997), per esempio, ha osservato:
la critica ermeneutica ci ha ricordato qualcosa di molto amaro per noi moderni... che è
impossibile sapere qualcosa senza interpretare, è impossibile essere definitivamente
'oggettivi'.
Ognuno interpreta a partire dai propri miti personali o di scuola. La crisi dell'interpretazione
freudiana (non più rivelatrice di una verità oggettiva, ma un mito tra i tanti) è peraltro
salutare, "nella misura in cui umilia una tendenza cronica di molta psicoanalisi
all'onnipotenza interpretativa". Tuttavia, dire che ogni atto conoscitivo è irrimediabilmente
intriso di interpretazioni equivale ad ammettere che non riusciamo mai a sospendere del
tutto i miti (i pregiudizi, i preconcetti) a partire dai quali interpretiamo. Questa constatazione
può condurre a esiti di relativismo o costruttivismo radicale, in cui ognuno è chiuso nel
proprio mito (o nella propria teoria) e può comunicare solo con chi condivide le stesse
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premesse. Da questo orizzonte la verità sparisce, essendo la "funzionalità" l'unico vincolo
rimasto a fare argine al caos.
Una volta abbandonata l'illusione che l'interpretazione riveli fatti oggettivi, che cosa ci può
salvare dal nichilismo cui già Nietzsche era approdato ("non esistono fatti, ma solo
interpretazioni")? Come prendere le distanze dalle vecchie certezze ingenue o dogmatiche
senza cadere nell'estremo opposto dei vari costruzionismi postmoderni: come salvarsi, in
altre parole, dall'alternativa secca tra scientismo e scetticismo? Se in questo dilemma
siamo caduti identificando la realtà con l'oggettività, la via d'uscita non si troverà che
separando queste due nozioni, e restituendo alla realtà lo spessore ontologico o
noumenico che con l'oggettivazione viene perduto.
Reale è solo ciò che è: il referente ontologico, di per sé inconoscibile, di ogni operazione
conoscitiva (Agazzi, 1994). Ogni conoscenza (K) è trasformazione della cosa in sé (O),
come ha visto Bion (1970). L'atto conoscitivo trasforma la cosa, e noi possiamo conoscere
il prodotto di questa trasformazione, non la cosa stessa. Ma dato che la trasformazione può
agire tanto in senso veridico quanto in senso falsificante, con quale criterio la valuteremo?
Potremo applicare innanzitutto il classico criterio di conformità (adequatio rei et intellectus):
una conoscenza è tanto più valida o vera quanto più è adeguata al referente ontologico.
Criterio che naturalmente è diventato inapplicabile nell'orizzonte costruttivista, con la
scomparsa del referente. Con il recupero di questo – obbligato se vogliamo uscire dal
dilemma scientismo/scetticismo – recuperiamo anche il criterio di conformità, ma la sua
applicazione richiede il chiarimento di alcune premesse.
Per cominciare, se la critica ermeneutica ci ha ricordato che è impossibile essere
definitivamente oggettivi, dovremo rinunciare all'oggettività non problematica e definitiva
dello scientismo, e non sarà una gran perdita, ma non per questo saremo autorizzati a
negare qualsiasi spazio e valore all'oggetto e all'attività scientifica che lo costruisce. Come
la biologia ci permette di conoscere alcuni aspetti del vivente, quelli che l'apparato teoricotecnico del biologo ritaglia nella realtà del mondo vivente (referente ontologico),
incommensurabilmente più vasto della parte ritagliata (conoscenza oggettiva), così la
psicologia apre un accesso a ciò che i suoi strumenti ritagliano nella realtà del mondo
psichico, anche questo incommensurabilmente più vasto della parte ritagliata. Biologia e
psicologia sono semplicemente attività teorico-tecniche, o gli oggetti prodotti da tali attività.
Se le procedure di queste produzioni sono corrette, gli oggetti così prodotti sono adeguati
al referente, cioè ci danno a conoscere qualche suo aspetto parziale: ma solo la
corrispondenza con il referente, stabilita dal confronto ripetuto e controllato con la realtà
investigata, permetterà di stabilire tale adeguatezza.
In quanto risultato delle procedure teorico-tecniche prescelte, l'oggetto è sempre
un'interpretazione del soggetto; d'altro canto, essendo tali procedure vincolate a un
referente ontologico, il risultato sarà sottratto all'arbitrio e descriverà un aspetto della realtà,
quello circoscritto dai criteri prescelti, tanto più fedelmente quanto più rigorosa sarà stata
l'applicazione del procedimento. Viene così a cadere la distinzione, la cui artificiosità è
stata notata da tempo (Holt, 1962), tra ermeneutica e scienza, o tra scienze naturali e
umane. In questo senso la psicoanalisi, disciplina interpretativa per eccellenza, è a pieno
titolo una scienza, a patto che definisca rigorosamente il proprio apparato teorico e tecnico
(Longhin, 1998); e lo stesso vale per ogni forma di psicoterapia.
Abbiamo in tal modo recuperato un possibile valore di oggettività anche per le procedure
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interpretative, tramite l'aggancio al referente ontologico. Ma questo non ci mette al riparo
dalla moltiplicazione illimitata delle prospettive, che conduce alla proliferazione delle scuole
e dei linguaggi psicoterapeutici . Ogni paradigma può a buon diritto rivendicare una propria
scientificità, pur restando inconfrontabile e incompatibile con gli altri. E' come se ogni
approccio illuminasse, grazie alla specificità e originalità dei propri mezzi, un settore
particolare della "cosa" (o del campo terapeutico), fornendoci, di quel particolare settore,
una conoscenza valida e oggettiva, ma non per questo confrontabile con le altre. Anzi, è
proprio la fedeltà al paradigma prescelto che da un lato garantisce il rigore del
procedimento e dall'altro isola quel settore da tutti gli altri, delimitati da paradigmi
concorrenti.
Se il pluralismo che risulta dalla moltiplicazione delle prospettive può essere salutato come
un passo avanti rispetto al monolitismo delle ideologie egemoniche, non può certo essere
considerato un esito soddisfacente, e nemmeno accettabile, per la psicoterapia. Arrendersi
alla polverizzazione delle scuole e dei metodi, infatti, significherebbe accettare come un
dato ultimo e insuperabile l'impossibilità per il soggetto di trascendere la griglia teorica che
ordina il suo mondo, sancendo in tal modo non solo l'incomunicabilità tra aderenti a diversi
paradigmi, ma anche la definitiva illusorietà di un ascoltoautentico. Tale esito
"postmoderno", se può avere un certo corso là dove sono in gioco solo dei valori estetici, è
viceversa esiziale in psicoterapia, una disciplina che, come abbiamo osservato sopra, si
distingue dalle pratiche indottrinanti o manipolative proprio perché si fonda sulla capacità e
volontà di neutralizzare, continuamente e sistematicamente, tutti i preconcetti e pregiudizi
personali e di scuola.
Abbiamo visto peraltro che il presupposto fondativo della psicoterapia (la neutralità) è
contraddetto dalla critica ermeneutica, che ci ha ricordato che "è impossibile sapere
qualcosa senza interpretare". Il recupero del referente ontologico ci ha permesso di
restituire un certo valore di oggettività all'interpretazione, ma solo all'interno di un
paradigma dato, rimanendo la scelta di questo completamente affidata alle preferenze
soggettive (è escluso che si possa stabilire "oggettivamente" la superiorità, poniamo, di un
paradigma cognitivo rispetto a uno lacaniano). Se questo fosse il punto d'arrivo della nostra
indagine, ci troveremmo di fronte a una divergenza insanabile tra il presupposto di base
della psicoterapia autentica e la critica ermeneutica, dal momento che ciò che il primo
esige è negato dalla seconda. Dovremmo allora rinunciare all'una o all'altra?
Molti conflitti che appaiono insuperabili per la logica lineare non lo sono più in una
prospettiva dialettica. Se riconosciamo il valore di entrambi i principi enunciati, basterà
togliere la pretesa di far valere unilateralmente l'uno o l'altro per vedere che la
contraddizione mette in campo i due termini di una polarità dialettica. Il primo passo è già
stato fatto: la pretesa di una neutralità perfetta, se mai l'avessimo avuta, è stata tolta di
mezzo proprio dalla critica ermeneutica. Il secondo deve essere fatto in senso inverso: la
critica ermeneutica, che lasciata a sé stessa favorisce la proliferazione anarchica e
smisurata delle interpretazioni, deve a sua volta essere moderata dal richiamo della
neutralità, nella ricerca di quella misura senza la quale l'operazione terapeutica non è
pensabile.
Capitolo 2
La dialettica dell'interpretare e del neutralizzare è stata descritta, ma con termini diversi
(assimilazione e accomodamento), da Piaget (1959). Nel normale processo di
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apprendimento il bambino cerca in primo luogo di assimilare i nuovi dati agli schemi
cognitivi di cui dispone, cioè li interpreta alla luce dei modelli, miti o teorie preesistenti.
L'assimilazione piagetiana corrisponde sostanzialmente all'interpretanza dell'ermeneutica,
cioè all'atteggiamento interpretativo costante e strutturale dell'essere umano. Tuttavia il
bambino sano non si limita ad assimilare: di fronte alla contraddizione non cerca di forzare
la realtà nei suoi schemi, ma li sospende, li neutralizza; accetta di non sapere, di restare
nell'incertezza quanto basta per lasciare entrare nel suo orizzonte qualcosa che li
contraddice e lo obbliga a modificarli. Qui il bambino non interpreta, ma grazie alla
sospensione dell'atteggiamento assimilativo vede qualcosa di nuovo. Invece di far rientrare
i dati nei suoi schemi, "accomoda" il suo apparato percettivo alla realtà che ha di fronte.
L'accomodamento del bambino corrisponde embrionalmente all'epoché della
fenomenologia, in cui la messa tra parentesi di aspettative e preconcezioni consente di
accogliere ciò che può manifestarsi grazie a quell'apertura. Ed è proprio grazie a questa
neutralizzazione sistematica che i suoi schemi si modificano e arricchiscono.
Lo stesso movimento dialettico si esprime nel circolo ermeneutico. Noi interpretiamo
sempre a partire da una precognizione, come ha chiarito Heidegger (1927, §32). Nel
rivalutare il pregiudizio come fonte di comprensione, e nel negare la possibilità di
un'interpretazione neutrale, Heidegger ha indicato lucidamente le condizioni generali
dell'interpretatività. In questa enfasi sul comprendere come interpretare, peraltro, si intuisce
il desiderio dell'allievo di affrancarsi dal maestro Husserl, che in modo altrettanto unilaterale
aveva insistito sulla neutralità. Più equilibrata, rispetto a entrambi, la posizione di Freud:
"heideggeriano" nel prescrivere la mitologia centrata sull'Edipo come base per la
produzione di senso nelle storie analitiche, "husserliano" quando suggerisce di procedere
"senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che
accade via via con mente sgombra e senza preconcetti" (1912, p. 535).
Il circolo ermeneutico può girare nei modi del circolo vizioso o virtuoso. Siamo nel primo
quando la teoria o mito da cui partiamo è anche il punto d'arrivo di un movimento in cui le
conclusioni confermano regolarmente le premesse: è il modo di ogni ortodossia, e il motivo
della ben nota, e in questo senso giusta, esclusione della psicoanalisi dal campo delle
scienze da parte di Popper. Siamo nel secondo quando i presupposti impliciti sono prima
utilizzati per una precomprensione dei dati, e poi sospesi per una comprensione più piena,
che includa ciò che i presupposti di partenza non potevano afferrare. La figura del circolo è
appropriata per descrivere un movimento in cui il punto d'arrivo (la comprensione più
piena) esercita un effetto sul punto d'inizio, permettendo di modificare e via via arricchire la
teoria di base.
Esiste anche una terza e più insidiosa modalità di circolo ermeneutico, che senza essere
apertamente viziosa non è nemmeno virtuosa: quella in cui l'assunto di partenza è sospeso
e modificato in funzione di aspettative altrui. Quello che manca, qui, è una vera
neutralizzazione: i due soggetti non sospendono i propri assunti in nome di una comune
ricerca di verità, ma semplicemente vengono a patti, negoziano una versione accettabile
per entrambi. Poiché la mediazione non è in nome della verità, ma in quello del
compromesso, il processo di cambiamento condurrà a un adattamento reciproco che di per
sé non ha valore maturativo, generando in sostanza un falso sé à deux. Nei rapporti di
coppia, o tra il leader e i suoi seguaci, e persino tra analista e analizzando, ciascuno tende
ad adattarsi al sapere dell'altro, conscio o inconscio (teorie, modelli, fantasie). E'
necessario distinguere questo pseudo-adattamento – di fatto, una manipolazione reciproca
collusiva – da un vero adattamento alla realtà. Il vero accomodamento non è una
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negoziazione tra saperi, ma la correzione di uno schema preesistente che segue la
sospensione di ogni sapere: quel salto nel vuoto che Bion (1970) ha indicato con la formula
"Fede in O", che significa affidamento all'origine inconoscibile di ogni conoscenza.
Cercherò di illustrare la dialettica del circolo ermeneutico con riferimento alle posizioni di
Benvenuto e Napolitani. Benvenuto (1999) mantiene una posizione prudentemente
intermedia tra coloro che eccedono in senso scientifico o al contrario in senso ermeneutico,
cioè dal lato dell'oggetto o da quello del soggetto. Da una parte si punta all'"oggettività di
qualcosa di elementare, a una causa primaria che, in quanto causa, non ha significato...
Questo amore per il termine 'elementare' è sempre un indicatore di atteggiamento
riduzionistico: l'obiettivista fugge dalla complessità (l'olon), e cerca pace o un porto sicuro
nell'elementare". Dall'altra parte, "la resa dell'analisi al gioco ermeneutico – cioè a produrre
interpretazioni che solo la Storia potrà giudicare – è un segno della sua crisi... Infatti coloro
che gettano discredito sulla psicoanalisi pensano che essa abbia a che fare solo con
interpretazioni, e mai realmente con qualcosa di reale: pensano che l'analista non sia il
testimone di qualcosa (das Ding) che il soggetto scopre, ma solo un manipolatore delle sue
credenze".
Nella ricerca di un "reale" che non sia ridotto a un'oggettività elementare priva di significato,
né dissolto in una fuga senza fine di interpretazioni di interpretazioni, Benvenuto trova una
traccia nell'"affetto di verità" che "è certamente il risultato delle ricostruzioni storicoermeneutiche dell'analista che rivelano la difesa interpretativa del soggetto: ma,
all'orizzonte, questo affetto di verità indica al soggetto – che finalmente si percepisce come
altro rispetto a ciò che credeva di essere – la possibilità di interpretarsi diversamente, e di
aprirsi a quell'alterità che lo fa sloggiare" dall'identità in cui si era installato. Il reale è
dunque definito per contrasto con l'immaginario: è altro rispetto a ciò che il soggetto
immagina di essere, è ciò che egli si trova di fronte – ciò con cui deve fare i conti – quando
scopre l'autoinganno in cui si era rifugiato o in cui era rimasto intrappolato. L'affetto di
verità è il sentimento liberatorio che segnala lo smascheramento dell'inganno, e allo stesso
tempo indica la realtà che l'inganno copriva. L'analista spinge il soggetto a rendersi
permeabile a un'alterità che Benvenuto esemplifica come "pulsione biologica, trauma,
richieste e interpretazioni dall'esterno": un'alterità che ha il carattere di un dato "inevitabile",
o evitabile solo al prezzo di una chiusura nella nevrosi.
Tuttavia, secondo Napolitani (1999), "ogni verità scoperta è un inganno, cioè
un'approssimazione fantasiosa a 'come le cose realmente sono'". Se "non c'è realtà
oggettiva, non c'è incontro con il mondo che non sia un ibrido, cioè il risultato di una
violenza (ubris) da parte delle preconcezioni individuali sui dati percepiti", allora anche ciò
che Benvenuto identifica come "reale" (pulsioni, traumi, richieste del mondo esterno) non
può che essere il prodotto di quella stessa violenza che sempre cerca di spacciare per
realtà le proprie costruzioni. Questo significa che non c'è modo di uscire dalle proprie
gabbie, o gusci epistemologici? Un modo c'è, per Napolitani, e consiste nel recuperare "lo
sguardo nudo del fanciullo", cioè "un modo di vedere che non presuppone alcuno scopo e
quindi sorprende, aperto alla comprensione e non interessato alla spiegazione, non preso
dalle forme che stanno dalla nostra parte dell'orizzonte perché vede ciò che è oltre i limiti
sensibili. Lo sguardo del mistico, del poeta".
Ma in che rapporto stanno tra loro la violenza interpretativa e lo sguardo nudo? La
violenza appartiene all'inconscio freudiano, inteso come "lo spazio del rimosso, del
'totalmente già noto' che si rende presente, al di là di ogni consapevolezza critica, come
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una legge a priori, la legge di ciò che è defunto, della coscienza morale". Se l'esperienza è
governata dalla legge del defunto, del già noto, le sue categorie saranno confermate in una
ripetizione senza fine. Ma se il defunto viene evocato, come nelle antiche cerimonie
psicagogiche, per "concludere il tempo della sua morte... il suo erede ha la possibilità di
non rimanere confuso con lui, ma di prendere quella distanza riflessiva, critica, estetica in
cui può minimamente affermare la sua originalità... L'originalità non implica l'impossibile
compito di essere oltre la propria storia, ma un modo singolare di assumere ancora una
volta la propria storia (le proprie origini) non per ripeterle, ma per trasformarle". Lo sguardo
nudo allora corrisponde alla "capacità negativa" di Keats e Bion: "la capacità di tollerare il
cambiamento basata sullo spostamento del centro esistenziale di gravità verso il futuro e il
divenire. La mente che non rifiuta il proprio concepimento ha fede... nella propria capacità
di ritrovarsi, accresciuti nella propria continuità, oltre il cambiamento". Questa fede
consente il salto nel vuoto, l'abbandono della certezza del già noto (l'inconscio) per affidarsi
alla matrice generativa (l'ignoto).
Le posizioni di Benvenuto e Napolitani hanno un punto di partenza comune e approdi
diversi. La base di partenza è comune anche a tutti coloro, come Miller (1996) e Laplanche
(1997), per i quali "l'interpretazione è soprattutto quella dell'inconscio, nel senso del
genitivo soggettivo: è l'inconscio che interpreta" (Miller, 1996, cit. da Benvenuto).
L'interpretazione è vista come un'operazione primariamente difensiva, che protegge da
qualcosa che di volta in volta è indicato come il vero, il reale, l'ignoto, la cosa in sé.
Obiettivo primario della psicoanalisi è dunque smascherare questa operazione, svelare le
interpretazioni in cui l'identità del soggetto si è alienata per riportarlo a ciò da cui con quelle
interpretazioni si è allontanato. Com'è possibile che da questa base comune si arrivi a
conclusioni diverse o divergenti, come nel caso di Benvenuto e Napolitani?
Si può rispondere ancora una volta che l'opposizione è solo apparente, dal momento che
Benvenuto e Napolitani hanno messo in luce rispettivamente i due termini di una polarità
dialettica, quella che Bion indica con le lettere K e O, l'attuale e il potenziale, il fenomeno e
il noumeno. Nel vertice K l'analista pone il soggetto di fronte a quei "dati di realtà" che sono
come pietre d'inciampo ineludibili sul suo percorso esistenziale. Dati pesanti, biologici,
biografici o ambientali, con cui non è possibile non fare i conti, pena l'arresto del cammino
maturativo. C'è un "reale in K" che è fatto di queste concrezioni, cioè delle condizioni
materiali, familiari, storiche, sociali dell'esistenza del soggetto. Ma prendere atto di queste
condizioni, farsene carico, non equivale a sottomettersi ad esse. L'essere umano, grazie
alla sua "neotenica" incompletezza, si distingue da ogni altro animale per la straordinaria
capacità di trasformare continuamente le condizioni della sua esistenza, rompendo i gusci
materiali o epistemologici che lo imprigionano per rimettersi al mondo in forme sempre
nuove e imprevedibili. Nel vertice O l'analista e il suo paziente, "legati da una comune
evocazione dei propri 'defunti' (della loro storia, ideologia, senso comune, teorie,
conoscenza psicoanalitica)" (Napolitani), dissolvono e ricreano continuamente le forme
della loro esistenza.
Capitolo 3
Dalla "caccia alla verità oggettiva" di Friedman siamo arrivati all'insieme di operazioni che
si collocano sulla linea congiungente i due vertici O e K del campo della terapia. Abbiamo
esaminato una prima nozione di oggettività: quella per cui se ne può parlare solo all'interno
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di un paradigma dato, dal momento che l'oggetto è inseparabile dalle procedure teoricotecniche che lo producono. E poiché la psicoterapia autentica (cioè non manipolativa) ha
luogo solo in quanto ogni pretesa di far valere acriticamente i rispettivi paradigmi, personali
o di scuola, è sospesa da entrambe le parti – lo spazio del dialogo terapeutico si apre
grazie a questa sospensione – il criterio di oggettività, per quanto non estraneo alla verità
di cui si tratta in terapia, ha in questo contesto un'applicazione problematica. In primo luogo
occorrerà portare alla luce le autointerpretazioni in cui l'identità del soggetto è rimasta
intrappolata, favorendo l'incontro con il reale che da quelle interpretazioni era schermato.
Si è guidati, in questa parte del percorso, da quello che Benvenuto ha felicemente
chiamato "affetto di verità", piuttosto che dalle procedure comunemente impiegate quando
si vuole stabilire l'oggettività di una proposizione. Ma una volta che ci troviamo di fronte a
quel reale che le interpretazioni alienanti occultavano, la questione della sua oggettività si
ripropone in una forma nuova.
E' una questione che non si pone se ci fermiamo alla definizione lacaniana secondo la
quale "le réel est l'impossible" (Benvenuto, 1998). Infatti, se il reale cui alla fine si perviene
non è altro che l'impossibilità del desiderio (del vero amore, di non morire…) si tratterà solo
di riconoscere che l'accettazione di questa impossibilità è il prezzo da pagare per arrestare
la fuga nell'interpretanza nevrotizzante. Un compito etico, non un'impresa scientifica. Se
poi, al di là di un'accettazione stoica dell'inevitabile, intravediamo la possibilità di un'uscita
dalle gabbie interpretative per una reinterpretazione dell'esistenza non più nevrotica, ma
creativa e rigenerativa, il campo che ci si apre davanti è quello della mistica e dell'arte di
vivere, in cui di oggettivabile c'è naturalmente poco o nulla. Stabilito che la psicoterapia è
un'operazione complessa, inseparabile da un impegno etico e filosofico, rimane da capire
se e in che senso essa possa rivendicare un'appartenenza anche all'ambito delle "scienze
umane".
A questo fine non basterà più che una determinata scuola di psicoanalisi o psicoterapia
definisca il proprio apparato teorico-tecnico, autolimitando la propria pretesa di oggettività
agli oggetti costruiti da tale apparato. Anche ammettendo che in questo modo ogni scuola
descriva un aspetto parziale della cosa o del campo, il ripiegamento autoreferenziale sui
propri oggetti (pratiche, riti, linguaggio) osservabile nella maggior parte delle scuole
esistenti è sicuramente incompatibile con le esigenze minime del discorso scientifico.
Questo richiede, infatti, che ogni assunto teorico sia inteso come ipotesi da verificare o
falsificare nel confronto continuo e pubblico con l'esperienza e con ipotesi diverse, e non
come elemento di identificazione sulla cui base riconoscere e chiamare a raccolta i
seguaci, costruire carriere e comminare espulsioni – come è invece pratica corrente.
Questo confronto non è possibile se il campo d'indagine è quello generato dalla teoria da
indagare (nel qual caso non si sfugge all'autoreferenzialità), ma solo se il referente reale
cui tutte le teorie sono vincolate è neutro rispetto alle teorie stesse, o, come si usa dire, è
transteoretico o metateoretico.
Naturalmente in una prospettiva postmoderna, radicalmente costruzionista, l'esistenza
stessa di un tale referente è negata. Se tuttavia fosse vero che ognuno è irrimediabilmente
chiuso nel proprio paradigma teorico non solo sarebbe impossibile qualsiasi dialogo tra
aderenti a paradigmi diversi, ma sarebbe vanificata la stessa psicoterapia, essendo questa
per essenza la comunicazione che si apre quando almeno uno dei partecipanti accetta di
sospendere l'adesione cieca alle proprie convinzioni, personali o di scuola (al di fuori di
questa sospensione, come abbiamo osservato, non esiste terapia, ma solo manipolazione
o indottrinamento); e che diviene pienamente operativa quando a tale sospensione si
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perviene da entrambe le parti.
La psicoterapia autentica si fonda sul dialogo, e il dialogo è quel tipo di comunicazione in
cui i presupposti teorici dei dialoganti sono neutralizzati quanto basta per far emergere il
logos della relazione. L'affermazione dell'esistenza di un logos (di una logica, di una ratio,
di un ordine) nelle cose è certamente una questione di fede, ma è la fede su cui si fonda
ogni impresa scientifica, o il residuo metafisico irriducibile di ogni fisica. In particolare, non
è possibile pensare alla psicoterapia come a un'operazione scientificamente fondata, se
non in quanto si assume che la relazione psicoterapeutica, pur nella varietà virtualmente
illimitata delle tecniche e nella singolarità imprevedibile di ogni incontro, è governata da
una sua logica interna. In altre parole, non è possibile sottrarre la psicoterapia all'arbitrio
delle opzioni teoriche e tecniche se non ancorandola a una struttura propria, cioè a un
insieme di invarianti, regolarità, configurazioni ricorrenti che strutturano ogni relazione
psicoterapeutica, indipendentemente dall'orientamento del terapeuta e dalle preferenze
soggettive di entrambi.
Come è stato osservato analizzando i risultati della ricerca sui risultati della psicoterapia
(Lambert, 1992), le tecniche impiegate dal terapeuta rendono conto di una quota non
superiore al 15% dei risultati ottenuti, contro il 30% attribuibile ai fattori comuni, non
specifici di alcun metodo. Il paradosso del Verdetto di Dodo – "tutti hanno vinto, tutti
meritano un premio": la sostanziale equivalenza dei diversi metodi terapeutici – è
probabilmente riconducibile allo stesso motivo. La psicoterapia funziona, ma per motivi
solo debolmente collegati alle scelte tecniche del terapeuta. Funziona perché ogni
terapeuta è indotto dalla logica stessa della relazione a rispondere ai bisogni reali che la
relazione mette in gioco, previsti o meno dal metodo in cui è stato formato. Con questo
torniamo all'osservazione di Friedman da cui siamo partiti: la terapia, nei suoi tratti
essenziali, non si inventa, si scopre.
Ma che cosa si scopre? In primo luogo si scopre che la relazione terapeutica è essa stessa
il luogo di una scoperta. C'è una larghissima convergenza tra scuole psicoanalitiche e
psicoterapeutiche sul riconoscimento che un passaggio obbligato di ogni terapia consiste
nel portare alla luce le interpretazioni che il soggetto ha dato di sé stesso, del suo mondo e
della sua storia, e in cui è rimasto in un modo o nell'altro intrappolato, quale che sia la
forma assunta da tali interpretazioni: fantasie inconsce, schemi cognitivi o copioni
relazionali. Per quanto esse siano anacronistiche e svantaggiose, il soggetto di regola le
difende tenacemente e resiste vigorosamente ai tentativi di modificarle. Le difende perché
lo proteggono da qualcosa che, a ragione o a torto, teme di affrontare. Si potrà trattare di
antiche ferite mai rimarginate, di bisogni mai soddisfatti o conflitti non risolti, come anche di
passaggi evolutivi o decisioni esistenziali da affrontare nella vita attuale. La "caccia alla
verità oggettiva" – il primo fattore di Friedman – si riferisce chiaramente alla necessità
ineludibile, per ogni terapia degna del nome, di smascherare le costruzioni mentali che
separano il soggetto dalla realtà che gli appartiene.
Tuttavia la dimensione della scoperta non è interamente riducibile a una "caccia alla verità
oggettiva" – cosa che darebbe alla relazione terapeutica un sapore vagamente
persecutorio. Non si tratta di scoprire solo il "reale" da cui il soggetto si difende, ma, come
abbiamo visto, anche il "potenziale" inespresso a cui fare ricorso per generare nuove forme
di esistenza. Un terapeuta che mettesse sistematicamente il suo paziente di fronte al reale
da cui fugge, senza sapere attivare nel contempo la fiducia nel potere risanativo e
rigenerativo di cui in profondità dispone e la capacità di attingervi per trasformare quel
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reale da cui si sente oppresso, infilerebbe probabilmente sé stesso e il suo paziente in una
strada senza sbocco. La dimensione della scoperta è dunque rappresentabile come un
asse congiungente i due poli K e O del reale e del potenziale, o del conosciuto e
dell'ignoto, o del fenomeno e del noumeno. Possiamo affermare che questo è l'asse
portante di ogni psicoterapia autentica, indipendentemente dalla persuasione del
terapeuta.
La terapia peraltro non si identifica unicamente con la scoperta di ciò che è nascosto o
latente. E' una coincidenza che può effettivamente verificarsi in certe fasi del lavoro, con
pazienti molto motivati con cui si sia stabilita una buona alleanza. Ma che questa non sia la
regola ce lo dice ancora Friedman, con il suo secondo fattore terapeutico fondamentale:
l'atteggiamento oppositivo, che significa lotta senza quartiere contro la resistenza. La sua
necessità deriva dalla ribellione, propria della mente infantile, per tutto ciò che contrasta
l'onnipotenza del desiderio. Questa indicazione è del resto già esplicita in Freud (1910, p.
329):
E' un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello
secondo il quale l'ammalato soffrirebbe per una specie d'insipienza, per cui, se si elimina
questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia
con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe
guarire. Non è un tale "non sapere" per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di
questo "non sapere" nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno
provocato il "non sapere" e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia
sta nel combattere queste resistenze.
Se il fattore patogeno principale non è di per sé il "non sapere", ma la resistenza interna al
sapere, il compito principale del terapeuta non è in primo luogo la scoperta di ciò che è
nascosto, bensì, nelle parole di Freud, il "combattimento contro la resistenza", o, in quelle
di Friedman, l'"atteggiamento oppositivo". Questo fattore era forse già implicito nel concetto
di "caccia alla verità oggettiva", dal momento che quando si va a caccia si dà per scontato
che la preda farà di tutto per non farsi catturare. Tuttavia, finché l'accento è sulla verità,
l'obiettivo rimane quello di produrre conoscenza da una posizione il più possibile neutrale,
mentre l'accento sulla resistenza comporta un allontanamento dalla neutralità per un
coinvolgimento relazionale di tipo deliberatamente oppositivo. In questa posizione,
l'analista "nega al paziente qualunque segnale che possa fungere da conferma o da
rassicurazione… continua severamente a richiamarne l'attenzione sugli aspetti che
vengono proposti con maggiore riluttanza…" (Friedman, 1997, p. ).
Certamente in molte occasioni il terapeuta non può evitare di assumere un atteggiamento
severo e sottrarsi alle richiesta di conferma e rassicurazione. Ma non può fare
diversamente? Non ci sono forse altre occasioni in cui l'offerta di rassicurazione e
conferma è appropriata? Per rispondere a questa domanda dovremmo tener presente
l'avvertimento di Friedman: per decidere che cosa appartiene o non appartiene alla
psicoanalisi (o piuttosto alla psicoterapia) non dovremmo basarci sulla teoria – su una
teoria qualsiasi. Cioè, non dovremmo rispondere che la rassicurazione è permessa o
vietata solo perché la nostra teoria la prevede o non la prevede. Se lo facessimo, il risultato
non sarebbe altro che analisi o terapia scolastica (o stereotipata). Non è la teoria di una
scuola che dobbiamo interrogare per avere questa risposta, ma la logica interna della
relazione psicoanalitica (o psicoterapeutica). E la logica interna ci dice qualcosa la cui
evidenza è sempre più innegabile: l'insight non basta (Fonagy, 1999). Perché l'insight non
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basta? Perché se bastasse, l'analista in primo luogo non avrebbe bisogno di muoversi dalla
posizione neutrale dello scienziato, cosa che invece fa tutte le volte che assume un
atteggiamento oppositivo – come è costretto a fare per combattere le resistenze interne.
Per lo stesso motivo, un genitore tratta severamente un bambino che cerca di sottrarsi a
qualche realtà spiacevole. In effetti, l'atteggiamento oppositivo non è altro che la comune
modalità genitoriale di mettere il bambino di fronte a ciò che cerca di evitare, e che invece
deve affrontare per crescere. D'altra parte, questo confronto non può essere separato
dall'atteggiamento opposto di conferma e rassicurazione. La dialettica di queate due
modalità relazionali – accettazione verso confronto, modo materno verso modo paterno – è
descritta nel modo più sintetico da Marsha Linehan (1993):
La dialettica più fondamentale è la necessità di accettare i pazienti per come sono in un
contesto in cui cerchiamo di insegnargli a cambiare… essa richiede modificazioni momento
per momento nell'uso dell'accettazione supportiva da un lato, e del confronto e delle
strategie di cambiamento dall'altro (p. 19).
Capitolo 4
Con un paziente pienamente motivato a conoscere e fronteggiare tutto ciò che deve essere
conosciuto e fronteggiato non ci sarebbe alcun bisogno di un atteggiamento oppositivo.
Ugualmente, con un paziente sicuro del proprio diritto di esistere e di essere tutto ciò che
è non ci sarebbe alcun bisogno di rassicurazioni. Ci possono essere momenti o intere
sedute in cui il terapeuta può mantenersi almeno relativamente neutrale, perché il lavoro si
svolge prevalentemente o del tutto sull'asse della scoperta. Ma è pressocché impensabile
una terapia in cui il terapeuta non debba spostarsi di quando in quando sull'asse della
riparazione, che unisce i vertici materno e paterno della terapia. I due fattori di Firedman
sono rappresentativi di entrambi gli assi, ma con una netta prevalenza maschile-analitica.
Se questa unilateralità è corretta con l'aggiunta del versante femminile-sintetico, si
ottengono le due coppie di fattori cardinali (O-K, M-P) e i due assi ortogonali (della
riparazione e della scoperta) che descrivono il campo della terapia, cioè lo spazio in cui
avviene virtualmente ogni interazione terapeutica.
L'ampliamento del modello, con il passaggio da due a quattro fattori, è richiesto dalla
dialettica dell'interazione. Un'enfasi eccessiva sul vertice K, non bilanciata dagli interventi
spontanei e generativi del vertice O, rischierebbe di dare alla relazione un carattere
epistemofilico, tendenzialmente ossessivo, che a sua volta stimolerebbe delle resistenze
iatrogene. Se la terapia ha troppo l'aspetto di una caccia, e troppo poco quello di un gioco,
non è improbabile che il paziente finisca per sentirsi braccato, specialmente se è già
predisposto in questo senso – nel qual caso la predisposizione sarebbe confermata.
Similmente, se l'atteggiamento del terapeuta è troppo oppositivo e responsabilizzante, e
troppo poco rassicurante e convalidante, sarà favorita la percezione del terapeuta come
una persona ostile, con la conseguente conferma di eventuali fantasie persecutorie.
La parte mancante dell'intero è stata esplorata da diverse scuole psicoanalitiche. Per
esempio la posizione rassicurante-convalidante (vertice materno) è stata rivalutata dalla
scuola della psicologia del sé, mentre la dialettica della spontaneità e del rigore tecnico ha
ricevuto particolare attenzione tra gli psicoanalisti relazionali (Hoffman, 1994). Tuttavia lo
sviluppo di una terapia compiutamente dialettica è ostacolato da due ordini di difficoltà. In
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primo luogo, per quanto sia ormai ampiamente riconosciuto che una neutralità perfetta non
può esistere, e ogni relazione psicoanalitica è di fatto un'interazione, molti analisti sono
tuttora riluttanti ad ammettere un'azione diretta e deliberata, se differente dalle strategie
classiche di "caccia alla verità" e di "opposizione". Per esempio, si ammette che la
relazione analitica possa ospitare una "base sicura", ma solo in quanto questa è l'effetto
automatico del setting e non comporta un'azione rassicurante deliberata da parte
dell'analista. Similmente, una certa misura di spontaneità è tollerata, purché sia una
risposta involontaria, seppure inevitabile, dell'analista, e non un allontanamento
coscientemente deciso dalla posizione neutrale.
Ma come stabilire se il processo terapeutico richiede o meno azioni rassicuranti o
spontanee? La nostra decisione è guidata dal processo o dalla teoria? Il secondo e più
serio ostacolo alla terapia dialettica è la difesa scolastica che porta a rispondere alla teoria
invece che al processo. La differenza sta nel fatto che il terapeuta dialettico ha una o molte
teorie, ma non ne dipende: ne fa uso fintanto che sono utili, le lascia da parte quando
cessano di esserlo. La terapia reale, come la vita reale, non può essere costretta in una
teoria. La teoria è necessaria per un orientamento generale, o come punto di partenza; ma
si dovrebbe essere sempre pronti a lasciarsi sorprendere da qualsiasi cosa non rientri in
una teoria data, e a modificarla di conseguenza per accogliere il nuovo dato.
Si potrebbe obiettare che il modello a quattro fattori che propongo qui è una teoria come
un'altra, più ampia del modello a due fattori che dovrebbe sostituire, più ristretta di quello a
sei che prima o poi lo rimpiazzerà. All'obiezione risponderei in primo luogo che il modello a
quattro fattori è dialettico, mentre quello a due non lo è. La differenza è importante, perché
il modello a quattro fattori non si basa semplicemente su quattro elementi, ma più
esattamente su due coppie di elementi. Questo significa che l'unilateralità di ogni fattore è
compensata dal suo opposto, col risultato che, per esempio, un paziente non si sente
braccato dalla caccia alla verità se ha l'esperienza che la relazione terapeutica è anche il
luogo dove la verità si mostra quando non è cacciata, ma accolta.
In secondo luogo, io propongo un modello a quattro vertici perché mi sembra che
virtualmente tutte le interazioni terapeutiche avvengono in uno spazio definito da due assi
ortogonali che congiungono questi quattro vertici (per una discussione più dettagliata di
questo modello, vedi Carere-Comes, 1999). Se tuttavia affermassi che solo il mio modello
a quattro vertici definisce la vera terapia dialettica, creerei una teoria simile a quelle che
tipicamente si trovano in molte scuole psicoanalitiche o psicoterapeutiche. Non c'è nulla di
sbagliato nelle teorie, fintanto che sono strumenti per la ricerca scientifica. C'è molto di
sbagliato, invece, quando diventano mezzi di identificazione o di potere, come accade non
di rado nelle scuole psicoanalitiche o psicoterapeutiche (Bernardi, 1989). Pertanto, se
qualcuno annunciasse di avere scoperto un terzo asse del campo che lo rende esagonale,
un terapeuta realmente dialettico non avrebbe difficoltà a passare da quattro vertici a sei,
se i dati portati a sostegno sono convincenti.
La logica della relazione terapeutica non deve essere confusa con il modello a quattro
vertici (né con alcun altro modello a n-fattori). Il modello a quattro vertici non è che lo
sviluppo dialettico del modello psicoanalitico dominante a due fattori, ben illustrato da
Friedman. La logica della relazione terapeutica è una logica dialettica, che differisce dalla
logica ordinaria, o dell'identità, in quanto è basata su opposizioni. Per esempio, nel
passaggio citato sopra Friedman definisce l'atteggiamento oppositivo (P) per contrasto con
l'atteggiamento rassicurante-convalidante (M). Questa definizione è ancora all'interno della
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logica dell'identità, in cui il contrario è richiamato solo per essere escluso (P¹non-P). Essa
può essere tuttavia vista anche come l'inizio di un ragionamento dialettico, in cui il contrario
partecipa in modo essenziale alla definizione della cosa (P=non-M). In una logica dialettica
compiuta una cosa è ciò che è solo in connessione con ciò che non è. Ciò equivale a dire
che non basta dire che P non è M: si deve aggiungere che P esiste solo grazie a M, cioè
un fattore non può esistere senza l'altro, tanto nella famiglia qanto nella terapia. Questa
formulazione rende esplicita la reciproca appartenenza che era solo implicita in Friedman.
Mentre nell'atteggiamento analitico classico prevale il fattore oppositivo, e nella psicologia
del sé è in primo piano quello rassicurante-validante, in un approccio dialettico nessuno dei
due prevale, ma si ricerca momento per momento la sintesi migliore richiesta dalla
situazione clinica presente. Molte opposizioni che in mancanza di una prospettiva dialettica
portano a scismi e alla nascita di scuole rivali possono essere comprese in questa
prospettiva come diverse polarità interne a un unico campo terapeutico.
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