04_Domani - Gristina - Recenti Progressi in Medicina

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Domani
Direttive anticipate in Italia:
un obiettivo non ancora raggiunto
ma già superato?
Luigi Riccioni1,2, Giuseppe Gristina1
Advance directives in Italy: a goal not yet reached but already
passed?
Summary. The advance directives (ADs) have been adopted in many countries to defend patients’ autonomy. In Italy,
in the past, this topic gave rise to a heated debate involving philosophers, theologians, and politicians. In 2009, the
government presented a bill of law on ADs firmly criticized
from a scientific, moral and juridical point of view because
the bill’s content is against the principles of Italian Constitution, Italian Code of Medical Ethics, Oviedo Convention, and
official statements of many scientific societies. Although
the bill has passed the Low Chamber it lies, even since, in
the Senate, lacking in regard any agreement among the
political parties. The purpose of this article is to highlight
that, in our country, patients, relatives and doctors deserve
a law not only related to the specific topic of ADs, but – as
in other European countries (Germany, Spain, France, UK)
– aimed to deal with the complex issue of end of life care
as a whole. This law should take into account the sound
evidence existing in regard to the four fundamental principles supporting the best scientific and ethical approaches
to the end of life issues: shared decision making process
between doctors and patients/relatives; rejection of dying
process marked by the suffering; withholding/withdrawing
futile treatments together with palliative sedation as two
crucial contributions to suppress the patient suffering and
pain; clear-cut difference between these clinical/ethical options and euthanasia. At the same time, this law should be
able to provide physicians with a legal coverage to make all
the clinical and ethical decisions more and more complex
because of the continuous evolution of medical science on
one hand, and the impressive development of biotechnology on the other hand.
Introduzione
Conoscere la volontà del paziente circa l’accettazione o il rifiuto dei trattamenti e dei percorsi assistenziali alla fine della vita costituisce un riferimento imprescindibile su cui basare la strategia di
cura che, secondo l’etica medica moderna, deve incentrarsi sul rispetto del principio di autonomia1.
Ignorare gli orientamenti, le preferenze o le volontà del paziente o non tenerli in adeguata considerazione quando noti può generare problemi
morali e legali nella pratica medica2,3.
In terapia intensiva (TI) e nei dipartimenti d’emergenza quasi sempre, a causa della gravità del-
Recenti Prog Med 2015; 106: 479-485
la malattia, il paziente non è in grado di prendere
decisioni4,5.
Così si è ritenuto che le direttive anticipate di
trattamento (DAT) potessero costituire uno strumento efficace per adeguare la condotta dei curanti
al rispetto dei valori e delle volontà del paziente6,7.
In numerosi Paesi, le DAT sono state integrate
nei sistemi legislativi8 ma, nonostante la popolarità9, non hanno fornito il risultato sperato e si sta
pertanto sempre più frequentemente facendo ricorso ad altri sistemi10.
In Italia, tra il 2006 e il 2009, il clamore suscitato da due casi clinici particolarmente tormentati
non ha consentito di affrontare il tema dell’autonomia del paziente, del consenso/dissenso ai trattamenti e delle DAT in modo equilibrato e proficuo,
riducendolo a un terreno di scontro ideologico e
politico.
Quando la gestione etica di casi clinicamente
e umanamente complessi è intralciata dall’invadenza di simili conflitti, le leggi concepite con l’intento di tutelare i pazienti e i curanti rischiano
di salvaguardare esclusivamente interessi di altra
natura (ideologica, religiosa, politica), lasciando
sostanzialmente irrisolti i problemi per cui sono
state ideate.
Il dibattito in Italia: breve inquadramento storico
Nel nostro Paese, il tema delle DAT è emerso
tra il 2006 e il 2009 a seguito dei casi Welby ed Englaro11-15 che hanno provocato una forte contrapposizione ideale tra mondo laico e cattolico in relazione a un singolo aspetto del confronto filosofico e
religioso: la disponibilità/indisponibilità della vita.
Mentre il pensiero della Chiesa Cattolica si
incentra sulla salvaguardia del principio di sacralità/indisponibilità della vita, il pensiero laico
ritiene che le norme morali non derivino da alcuna autorità esterna e pertanto la vita rappresenti
un bene “disponibile” di un individuo moralmente
responsabile16.
L’estrema enfatizzazione mediatica di questo
confronto ideale ha fin dall’inizio stornato l’attenzione di tutti i soggetti coinvolti dalla reale essenza del problema che si può riassumere in quattro
punti: le scelte di fine vita; il diritto all’autonomia
di tali scelte; la proporzionalità dei trattamenti;
la conseguente legittimità sul piano etico e legale
della loro eventuale limitazione.
Il dibattito teorico ha subito trovato un’ampia eco sul piano politico, divenendo un ulteriore terreno atto ad alimentare l’aspro scontro tra
progressisti e conservatori già in corso in quegli
anni. La monopolizzazione a fini strumentalmente politici del tema ha di fatto escluso dalla possibilità di partecipare alla discussione tutti coloro
(professionisti sanitari, pazienti e loro familiari) i
UO Shock-Trauma, ASO San Camillo-Forlanini, Roma; 2Gruppo di Studio Bioetica SIAARTI.
Pervenuto il 24 aprile 2015. Accettato il 28 maggio 2015.
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Recenti Progressi in Medicina, 106 (10), ottobre 2015
quali, indipendentemente dall’approccio ideale laico o cattolico, sarebbero stati invece sinceramente
interessati e disponibili a offrire un contributo per
raggiungere una soluzione normativa condivisa.
Una proposta di legge sulle DAT prodotta in
questo clima, e già approvata alla Camera dei Deputati, giace dal 2009 al Senato della Repubblica
per la definitiva approvazione17, ma è fortemente
criticata in ambito scientifico per la sua inadeguatezza18,19.
Evidenze scientifiche
Nel 1995, negli USA, lo studio SUPPORT ha
sensibilizzato i clinici ai temi della sofferenza dei
pazienti e delle loro scelte20.
In Europa uno studio del 2005 condotto su pazienti in TI ha evidenziato che il 95% di essi non
era in grado di prendere decisioni e che le loro preferenze erano note solo nel 20% dei casi4.
Nel 2008 una survey ha rilevato che DAT erano
presenti nell’1% dei casi, ma che una limitazione
dei trattamenti (sospensione/non erogazione= LT)
era attuata nel 93% delle TI nord- e sud-europee e
nell’81% di quelle centro-europee21.
In Italia uno studio del 2010 segnala che solo il
14% dei pazienti critici poteva esprimere un consenso informato, che una LT era messa in atto nel
62% (34% sospensione/non erogazione; 28% ordine
di non rianimare) di 3793 pazienti morenti in 84
TI e prevalentemente nei reparti con una minore
mortalità rispetto a quelli con una mortalità maggiore a parità di gravità5.
Una review22 sottolinea che la maggior parte
degli intensivisti italiani dichiara di seguire le
raccomandazioni della propria società scientifica
nazionale che suggeriscono – in accordo con l’art.
38 del Codice di Deontologia Medica (CDM)I – di
compiere ogni sforzo per acquisire informazioni
sui desideri dei pazienti circa qualità/intensità
dei trattamenti a loro proposti e che ogni decisione da parte dei curanti deve tener conto di quei
desideri23.
I
CDM ed. 2014, art. 38. Dichiarazioni anticipate di trattamento. «Il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di
trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da
parte di persona capace e successive a un’informazione medica
di cui resta traccia documentale. La dichiarazione anticipata
di trattamento comprova la libertà e la consapevolezza della
scelta sulle procedure diagnostiche e/o sugli interventi terapeutici che si desidera o non si desidera vengano attuati in
condizioni di totale o grave compromissione delle facoltà cognitive o valutative che impediscono l’espressione di volontà attuali. Il medico, nel tenere conto delle dichiarazioni anticipate
di trattamento, verifica la loro congruenza logica e clinica con
la condizione in atto e ispira la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente, dandone chiara
espressione nella documentazione sanitaria. Il medico coopera
con il rappresentante legale perseguendo il migliore interesse del paziente e in caso di contrasto si avvale del dirimente
giudizio arbitrale previsto dall’ordinamento e, in relazione alle
condizioni cliniche, procede comunque tempestivamente alle
cure ritenute indispensabili e indifferibili».
Una survey del 2011 ha mostrato che il 66%
dei medici italiani considera che la sospensione dei
trattamenti sia legittima, se conforme alla volontà
del paziente24.
Lo studio EURO SENTI-MELC sottolinea però
che in Italia i pazienti sono raramente coinvolti al
di fuori dell’ospedale nella pianificazione delle cure e nelle scelte di fine vita quando sono ancora coscienti. Infatti, nonostante la legge 38/2010 abbia
istituito la rete per le cure palliative, solo il 37%
dei pazienti giunti alla fine della vita vi si rivolge e
negli ultimi 2 mesi di vita il 90% del restante 63%
viene trasferito in ospedale25. Ne consegue che una
volta in ospedale, in caso di perdita della capacità
di intendere e di volere, la mancata conoscenza da
parte dei curanti dei desideri e delle aspirazioni
di questi pazienti riguardo ai percorsi terapeutici
da intraprendere comporta tutt’oggi l’erogazione
di cure cui, se coscienti, essi stessi avrebbero probabilmente rifiutato di sottoporsi26-28.
In molti Paesi europei e negli USA, le DAT sono state adottate per proteggere l’autonomia del
paziente7.
Negli USA circa il 70% dei residenti in comunità ha compilato un documento di DAT29, ma si è
precocemente avviato un dibattito sulla loro reale
efficacia30 dato che molti studi hanno dimostrato
che esse influiscono in misura modesta sulle decisioni di LT31-35 non garantendo la conformità tra
cure ricevute e desideri dei pazienti36,37.
Nel tentativo di trovare un approccio più adatto, nel Regno Unito, negli USA e in Australia si è
sviluppato un modello di pianificazione anticipata
delle cure (Advance Care Planning - ACP) in cui le
DAT possono più concretamente integrarsi. L’ACP
è un processo in cui la persona già malata, ma ancora capace di intendere e di volere, consultando
medici, familiari e altre figure di riferimento, decide a quale livello di intensità e qualità delle cure
desidera essere sottoposto qualora dovesse diventare incapace, facilitando agli operatori il compito
di rispettare i suoi desideri38.
L’ACP è dunque un processo informativo bidirezionale che consente da un lato agli operatori
di conoscere le aspettative e la scala di valori dei
pazienti, dall’altro ai pazienti stessi di comprendere la gravità della loro malattia, la prognosi
e i mezzi diagnostico-terapeutici necessari ad
affrontarla, promuovendo scelte consapevoli. I
modelli di ACP ritagliati su specifiche situazioni
di malattia hanno dimostrato che un approccio
coordinato, sistematico, centrato sul paziente e i
familiari, che include discussioni riguardanti le
cure di fine vita (CFV) in un processo di scelte
condivise39, ne migliora la qualità40,41 riducendo
lo stress psicologico in tutte le persone coinvolte42,43. In questo modo le DAT, maturate nel contesto dell’ACP, assumono una più significativa
solidità e affidabilità. Il processo di ACP in cui
le DAT sono inserite e l’impegno di migliorare la
qualità delle CFV sono supportati dalla legislazione inglese44, statunitense45,46 e australiana47,
e dalle società scientifiche di questi Paesi48,49.
L. Riccioni, G. Gristina: Direttive anticipate in Italia: un obiettivo non ancora raggiunto ma già superato?
Cronologia utile
■■
2001: l’Italia ratificaII la Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina50 secondo cui il consenso libero e informato
del paziente va considerato come diritto fondamentale del cittadino europeo all’integrità, alla libertà e alla dignità della
persona; il dissenso da parte del paziente è vincolante per il medico (art. 5); ove il paziente non sia capace, il medico fa riferimento a eventuali DAT manifestate prima di divenire incapace (art. 9). Nonostante la legge abbia autorizzato il Presidente
della Repubblica a ratificare la Convenzione, lo strumento di ratifica non è ancora depositato presso il Segretariato Generale
del Consiglio d’Europa51.
■■
2003: in accordo con il CDM il Comitato Nazionale di Bioetica produce un documento in cui si definiscono le DATIII e si
afferma che il diritto del paziente di orientare i trattamenti cui potrebbe essere sottoposto ove divenuto incapace non
rappresenta un diritto all’eutanasia ma semplicemente la richiesta di sospensione/non erogazione dei trattamenti (anche
salvavita), che il medesimo paziente avrebbe il diritto morale e giuridico di rifiutare, se capace52.
■■
2007: sentenza Welby. Rende effettivo il principio del consenso informato riconoscendo il diritto del paziente di rifiutare
qualsiasi cura anche salvavita, considera il rispetto della volontà del paziente parte integrante della buona pratica clinica53.
■■
2009 e 2011: la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOM), nelle audizioni parlamentari, ribadisce la sostanziale
uniformità del CDM (artt. 35IV, 38) con la Convenzione di Oviedo (artt. 5 e 9)54.
■■
2011: sentenza Englaro. Riconosce il dovere dei medici di rispettare le volontà testimoniate da un tutore. Costituisce una
guida per medici e tribunali per affrontare situazioni analoghe poiché altri principi emergenti dalla sentenza (qualificazione
della nutrizione artificiale e dell’idratazione come atti medici; legittimità del rifiuto di cure anche salvavita; validità del ruolo
del tutore; valore delle DAT) possono applicarsi a problematiche di fine vita diverse dallo stato vegetativo55.
■■
2014: sentenza del Consiglio di Stato. Alimentazione e idratazione artificiali sono un atto medico. È diritto del paziente o del
suo tutore decidere di rifiutarle o interromperle, secondo quanto previsto dall’art. 32 della CostituzioneV. In base a questo
stesso articolo e in base al diritto del paziente o del tutore di rifiutare o interrompere le tarapie, le Istituzioni pubbliche hanno
l’obbligo di garantire la piena attuazione di questo diritto56.
■■
2014: nuova edizione del CDM che riprende all’art. 38 i contenuti degli artt. 5 e 9 della Convenzione di Oviedo.
Discussione
Conoscere e rispettare le volontà dei pazienti
incapaci di intendere e di volere rappresenta un
problema rilevante e complesso sia dal punto di
vista clinico che giuridico, ed è pertanto doveroso che la comunità scientifica, la società civile e
il mondo politico si impegnino a trovare sollecitamente una soluzione.
Legge 28 marzo 2001, n.145.
Documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui,
nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non
fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio
dissenso informato.
IV
CDM art. 35. Consenso e dissenso informato. «L’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica competenza del medico, non delegabile. Il medico non intraprende né
prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici
senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in
presenza di dissenso informato. Il medico acquisisce in forma
scritta e sottoscritta o con altre modalità di pari efficacia documentale, il consenso o il dissenso del paziente, nei casi previsti dall’ordinamento e dal Codice e in quelli prevedibilmente
gravati da elevato rischio di mortalità o di esiti che incidano in
modo permanente sull’integrità psico-fisica. È un atto medico
non delegabile. Il medico tiene in adeguata considerazione le
opinioni espresse dal minore in tutti i processi decisionali che
lo riguardano».
V
Costituzione Italiana, art. 32: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario
se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun
caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
II
III
Dalla letteratura sappiamo che raramente i
pazienti formulano le proprie DAT; quando formulate, queste non sempre sono rispettate; nella legislazione italiana il ruolo dei familiari non è quello
giuridicamente forte di rappresentante ma di testimone della volontà del paziente, cosicché la scelta
finale della LT rimane propria del medico; le DAT
sono più efficaci se inserite in un contesto di ACP.
L’obiettivo della legge non dovrebbe allora essere quello di imporre prescrizioni coercitive alla
relazione medico-paziente definite aprioristicamente, ma approntare un dispositivo giuridico in
grado di incentivare e accogliere le direttive del
paziente scaturite da un’accurata valutazione del
rapporto costo/beneficio in merito ai vari percorsi
clinico-assistenziali possibili (cure intensive vs cure
simultanee-palliative). Questa valutazione dovrebbe essere basata sulla migliore evidenza scientifica
disponibile e contestualizzata in un ACP maturato
in un’efficace relazione di cura.
In tal modo, al paziente verrebbe garantita la
possibilità di scegliere liberamente quale percorso
intraprendere, aiutato dal medico, durante la malattia, prima della perdita della capacità causata
dall’aggravamento delle sue condizioni, informato
sul decorso, sulla qualità/quantità della vita residua, sulla probabilità di successo dei trattamenti,
sul loro grado di efficacia e sugli oneri da sopportare.
La legge sulle DAT in Italia però non è nata da
un’esigenza diffusa e da una discussione equilibrata, ma dallo scontro originatosi dai casi Welby ed
Englaro.
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Recenti Progressi in Medicina, 106 (10), ottobre 2015
Nel nostro Paese è ormai indispensabile per pazienti,
familiari e medici una legge non legata solo al tema specifico
delle DAT, ma – come in altri Paesi europei – finalizzata anche
ad affrontare le complesse questioni della fine della vita.
Un tentativo di speculazione tradotto nell’improprio accostamento dei temi in questione con
quello profondamente diverso dell’eutanasia ha
portato, per reazione, a una legge che, se non dannosa, appare di irrilevante utilità sia per il paziente sia per il curante, essendo stata focalizzata
l’attenzione sostanzialmente solo sulla proibizione
di ogni condotta anche solo lontanamente assimilabile all’eutanasia quale la sospensione della nutrizione e dell’idratazione o di altri supporti vitali.
Tuttavia, quando medici e familiari condividono
la scelta di limitare le cure di un paziente giunto al
termine della vita nonostante trattamenti prolungati
e massimali, la scelta non si configura come opzione
eutanasica ma come accettazione di un esito ormai
inevitabile in base a cinque rilevanti constatazioni:
la malattia come causa della morte con la sua ineluttabilità, il suo grado di gravità ed evolutività; la
liceità morale di non sottoporre il paziente a ulteriori sofferenze; l’irreversibilità del processo del morire
scientificamente verificata; il limite sperimentato
della cura; l’inutilità della sua prosecuzione.
In entrambi gli schieramenti (laico e cattolico)
le posizioni più intransigenti hanno goduto di una
sproporzionata visibilità, pur rappresentando probabilmente il pensiero di una percentuale nettamente minoritaria sebbene più “rumorosa”.
Ma se si riuscisse ad affrontare l’argomento affrancati da qualsiasi pregiudizio ideologico, ci si
renderebbe conto che le due posizioni, apparentemente agli antipodi, presentano in realtà ampie
aree di convergenza su punti cruciali che consentirebbero di raggiungere l’accordo per una normativa condivisa.
Infatti, il Catechismo della Chiesa Cattolica,
in sintonia con una parte del pensiero laico, pur
riconoscendo inaccettabile l’eutanasia, considera
legittima la pratica di interrompere procedure mediche sproporzionate rispetto ai risultati attesi –
«in questo caso non si vuole procurare la morte ma
evitare l’accanimento terapeutico» – e ritiene lecito l’uso degli analgesici per alleviare le sofferenze
del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i
suoi giorni, se la morte non è voluta, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. «A questo
titolo – conclude il Catechismo – le cure palliative
dovrebbero essere incoraggiate»57.
Il timore, tuttavia, di aprire la porta all’eutanasia ha provocato un irrigidimento che ha portato
a considerare la ventilazione meccanica, al pari
dell’idratazione e della nutrizione artificiali, un
sostegno vitale piuttosto che una forma di terapia
potenzialmente sproporzionata.
Allo stesso modo sono stati ignorati documenti
di raccomandazioni sulla gestione delle CFV editati da società scientifiche (Società Italiana Ane-
stesia Analgesia Rianimazione Terapia Intensiva,
Società Italiana Cure Palliative)23,58,59 nei quali si
sottolinea l’illiceità dell’eutanasia in osservanza
dell’articolo 17 del CDM, mentre si sostiene la legittimità etica della LT, ove ne ricorra la giustificazione scientifica, e della sedazione palliativa per alleviare il dolore e la sofferenza degli ultimi giorni.
Ulteriore confusione può essere alimentata
dal termine “eutanasia passiva” che la letteratura scientifica considera errato e pericolosamente
fuorviante ai fini della reale comprensione del problema (oltre che distorto nel suo significato etimologico da tragici eventi storici)60.
Sotto questo profilo è opportuno ricordare che,
secondo l’interpretazione fornita dall’European
Association of Palliative Care (EAPC)61, l’eutanasia è attiva per definizione, e pertanto l’eutanasia
passiva costituisce una contraddizione in termini.
L’EAPC raccomanda quindi l’adozione della seguente definizione: «L’eutanasia consiste nell’uccisione intenzionale di una persona, effettuata da
un medico tramite la somministrazione di farmaci,
assecondando la richiesta volontaria e consapevole
della persona stessa».
Equiparare la LT all’eutanasia è errato poiché
limitare le cure attive non significa provocare la
morte somministrando farmaci e, del resto, consolidate evidenze dimostrano che la loro interruzione
e la sedazione palliativa provocano, in molti setting clinici, un prolungamento della sopravvivenza
e non la sua abbreviazione62.
Sarebbe auspicabile allora che, in sintonia con
altri Paesi occidentali63-66, anche in Italia il Legislatore riuscisse a offrire un contributo concreto
su tre fondamentali problemi etici posti dalla medicina moderna:
• come assecondare l’evoluzione scientifica che,
nel suo incessante processo di definizione e successivo superamento dei limiti biologici, impone un continuo riesame critico delle convinzioni etiche, indicando che non esiste un principio
supremo che definisce un dovere incondizionato
e immutabile;
• cosa sia bene e giusto fare o non fare in termini
clinico-assistenziali nei confronti dei pazienti al
termine della vita;
• se questo fare o non fare, esito pratico della riformulazione dei principi morali, debba essere
sottoposto in modo coercitivo alle leggi dello Stato, oppure se sia possibile prefigurare una legge
che si limiti a definire il perimetro giuridico di
un’area – la relazione di cura – in cui la condotta
di medici, pazienti e familiari sia affidata alle
regole della deontologia per i primi e a quelle
derivanti dalle responsabilità che si assumono
in base a definite scale valoriali per i secondi.
L. Riccioni, G. Gristina: Direttive anticipate in Italia: un obiettivo non ancora raggiunto ma già superato?
Il problema non è secondario, poiché dare una
risposta a queste domande definisce se le questioni
pratiche che riguardano la vita e la morte degli
esseri umani rientrino ancora nella sfera dell’etica
o se questa risposta debba divenire appannaggio
del solo Legislatore.
In questo secondo caso la preoccupazione circa
i rilevanti interessi morali dei pazienti morenti e
di chi se ne deve prendere cura, rischia di risolversi in una mera procedura tecnica che, attraverso
lo svuotamento morale dei soggetti implicati, è
finalizzata a concludere una negoziazione – non
più una relazione – sulle convenienze del medico,
del paziente, della famiglia di volta in volta prevalenti.
Se così fosse, l’etica medica verrebbe espropriata del suo significato fondamentale di caposaldo
in grado di orientare la condotta delle persone
di fronte agli eventi patologici, indispensabile in
particolare allorquando si è costretti a scegliere se
cercare di aiutare un essere umano a vivere o accompagnarlo a morire dignitosamente.
Conclusioni
Come sostenuto nelle audizioni al Senato della
Repubblica dalla nostra società scientifica (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione
Terapia Intensiva - SIAARTI), noi intensivisti
crediamo che le DAT debbano rappresentare scelte libere e consapevoli dei cittadini sviluppate in
accordo con il medico nel contesto della relazione
di cura67.
Quest’ultima, unica e irripetibile, non coercibile, contiene già – quando maturata nel rispetto del
CDM68 – tutte le dimensioni etiche, civili e professionali necessarie a legittimare e garantire le
giuste scelte per ogni singolo caso.
Sarebbe opportuna una legge che, ispirata al
CDM, attribuisse a esso forza giuridica oltre che
etica (come, per es., nel caso della legislazione
francese69), considerandolo di per sé strumento
idoneo e sufficiente a orientare e legittimare le decisioni assunte nell’interesse esclusivo del paziente, nel rispetto sia della sua volontà, sia dell’autonomia del medico, necessario per accompagnare
ogni persona nel proprio percorso di vita.
Si comprende allora la richiesta di una legge
limitata a definire la cornice di legittimità giuridica delle DAT sulla base dei diritti della persona
costituzionalmente protetti, senza invadere l’autonomia del paziente e del medico prefigurando tipologie di trattamenti disponibili e non disponibili.
È utile sottolineare che, diversamente dalle
aspettative di molti addetti ai lavori, una legge sui
trattamenti di fine vita non potrebbe però ricalcare strutturalmente quella sull’accertamento di
morte cerebrale, situazione che si presta perfettamente a essere affrontata mediante algoritmi decisionali basati esclusivamente su specifici cutoff
di parametri clinici, laboratoristici o strumentali
oltre che tramite la puntuale esecuzione di una
successione di procedure dettagliatamente descritte e prescritte dalla legge. Al contrario, le scelte
sui trattamenti alla fine della vita saranno l’esito
di una valutazione globale della persona che, pur
tenendo adeguatamente conto della clinica e degli indici prognostici, si dovrà fondare anche sulla
qualità della vita residua, sulle aspettative e sui
bisogni sociali, psicologici e spirituali del paziente.
In sintesi, trarremmo vantaggio da una legge
che riorganizzasse in un unico corpo i contenuti di
tutte le sentenze già pronunciate, delle leggi pertinenti già esistenti e del CDM, e inserisse le DAT
in un più concreto processo di pianificazione e condivisione delle cure, basato da un lato, sull’appropriatezza clinica alla luce delle evidenze scientifiche70, dall’altro sul principio etico di proporzionalità delle scelte di cura effettuate in base al continuo
divenire del rapporto costo/beneficio nel corso di
ogni specifica malattia. Una legge che garantisca
quindi la possibilità di applicare gli astratti principi etici alle concrete e quotidiane vicende individuali di malattia; consenta la LT anche nel paziente incapace di intendere e di volere; ammetta una
funzione di rappresentazione del miglior interesse
del paziente da parte di un fiduciario; differenzi
i concetti di cure sproporzionate e la conseguente LT dall’eutanasia; garantisca esplicitamente
al paziente competente la libertà di rifiutare cure
che, seppure teoricamente appropriate, egli riterrebbe non dignitose; riconosca chiaramente il dovere giuridico e morale dei medici di proteggere
il paziente dalla sofferenza tramite la sedazione
palliativa; garantisca al medico di non vedersi perseguito qualora non erogasse o interrompesse cure
sproporzionate.
In conclusione è necessaria oggi una legge sulla
fine della vita che sia in grado di assicurare il privato territorio della relazione di cura rispettando
le differenti culture, le idealità religiose e laiche,
le differenti individualità biologiche e biografiche;
che sia in grado di assicurare ai medici la necessaria serenità di giudizio per compiere scelte etiche
adeguate alle sempre più complesse vicende umane insite nella moderna pratica clinica.
Una simile impostazione contribuirebbe al processo di sviluppo della scienza medica nel nostro
Paese, riconoscendole il ruolo di bilanciamento tra
diverse posizioni come unico argine alla deriva del
fondamentalismo ideologico e unico riferimento
per assumere consapevolmente le responsabilità
morali che scaturiscono dalla crescente complessità della medicina moderna.
Una legge con questi presupposti ideali potrebbe davvero aprire una nuova stagione del diritto
sanitario.
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