Adriano Favole Case e culture: società a confronto Introduzione al tema della sesta edizione di Pistoia Dialoghi sull’uomo: “Le case dell’uomo. Abitare il mondo” (22-24 maggio 2015) Incontro con gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado mercoledì 21 gennaio 2015 ore 11.00 - Teatro Manzoni, Pistoia Adriano Favole è docente presso l’Università di Torino, dove insegna Antropologia culturale e Cultura e potere. È consulente del programma di Pistoia - Dialoghi sull’uomo. Ha insegnato presso le Università di Milano, Genova e Bologna e l’Università della Nuova Caledonia. Ha viaggiato e compiuto ricerche a Futuna (Polinesia occidentale), in Nuova Caledonia, a Vanuatu e in Australia. I suoi ambiti di ricerca principali sono l’antropologia politica, l’antropologia del corpo e l’antropologia del patrimonio. Predilige viaggiare in bicicletta, con cui ha percorso oltre 100 mila chilometri. Collabora con il settimanale La lettura del Corriere della Sera. È autore di: La palma del potere (Il Segnalibro, 2000); Isole nella corrente (La ricerca folklorica, Grafo, 2007); Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte (2003), Oceania. Isole di creatività culturale (2010) per Editori Laterza; ha curato l’edizione italiana di Per un’antropologia non egemonica. Il Manifesto di Losanna (con F. Saillant, M. Kilani, F. Graezer Bideau, elèuthera, 2012). La bussola dell’antropologo per Editori Laterza (in uscita a maggio 2015). Sull’argomento “Abitare”, “abitudini”, “abiti”: nella lingua italiana questi tre termini hanno una comune radice etimologica e autorizzano un gioco linguistico. Si potrebbe cioè osservare che abitare un certo luogo significa avere certe abitudini, indossare abiti (nel senso concreto e metaforico del termine) particolari. L’abitare e le abitazioni non sono un aspetto puramente esteriore, funzionale al clima, all’esigenza di ripararsi dagli agenti atmosferici, ma incidono fortemente sulle nostre abitudini, sui nostri abiti e stili di vita. Per citare l’antropologo Francesco Remotti, potremmo dire che le abitazioni e le case hanno un ruolo “antropopoietico”, cioè contribuiscono in maniera importante a forgiare e costruire (poiein) l’essere umano. Lo studio delle case dell’uomo ha rappresentato uno dei maggiori interessi dell’antropologia culturale, soprattutto agli esordi ottocenteschi e primo-novecenteschi della disciplina, ma con significative riprese del tema negli anni successivi e in tempi più recenti. In Europa, in Africa, in Asia, in Oceania come nelle Americhe, le abitazioni sono state studiate in quanto risposte tecnologicamente e culturalmente elaborate ai climi (freddi, umidi, afosi), ai materiali disponibili (legno, pietra, terra, frasche), al rischio di calamità naturali (terremoti, cicloni, nevicate). Fin dalle origini, tuttavia, apparve chiaro che le forme dell’abitare rispondevano a ben altre esigenze e variabili: prima tra tutte le dimensioni e le tipologie della famiglia convivente (nucleare, estesa, plurima eccetera) e più in generale la struttura sociale e politica (i compound africani, i “viali” di case proiettate verso la capanna del capo in Melanesia). Anche le scelte e i valori culturali di una società influenzano profondamente le forme dell’abitare: ideologie individualiste, collettiviste o della condivisione; credenze e riti di natura religiosa; valori relativi all’intimità della persona e della famiglia da un lato, all’esigenza di aprirsi all’esterno dall’altro. Le mura, le inferriate e le tende che “proteggono” le moderne abitazioni di un quartiere benestante di una città occidentale sono in forte contrasto con le capanne polinesiane aperte ai quattro venti su tutti i lati: certo il clima atmosferico della Polinesia e dell’Europa continentale è diverso, ma anche il “clima” culturale ha contribuito a modellare in modo diverso queste forme dell’abitare. La casa può essere concepita come un luogo “permanente” in cui abitare per gran parte o per tutta la vita (società agricole stanziali); può essere frequentemente cambiata (agricoltori itineranti, ma anche lavoratori precari e flessibili della post-modernità); può essere concepita per viaggiare insieme agli esseri umani che ospita (le tende beduine, le case-imbarcazioni di popoli di pescatori o di “cittadini-del-mondo” che viaggiano senza sosta sui mari del pianeta). Le case non sono solo dei luoghi, ma spesso fungono da “soglie”, “transiti”. Invitare qualcuno nella propria casa significa aprire una via di accesso a storie, biografie, vicende intime. Di recente, l’antropologia ha studiato gli arredi e gli oggetti delle case come spazi di significati in cui gli individui inscrivono la propria vita e le proprie relazioni sociali. Ritratti, oggetti-souvenir, fotografie, mobili e oggetti appartenuti a genitori o antenati, raccontano storie e costruiscono creativamente lo spazio interno dell’abitazione. Per molti, la casa è ben più di un “valore economico” (il “mattone” come si usa dire in italiano): è uno spazio degli affetti in cui si forgiano abiti e abitudini che possono estendersi su più generazioni. Non a caso, in molte isole dell’Oceania e in alcune società africane, le case ospitavano i vivi e i morti. I Melanesiani dell’isola di Tikopia, per esempio, seppellivano i morti sotto parecchi metri di sabbia alla base delle capanne, sovrapponendo in modo inquietante (almeno per le nostre “abitudini”) spazi dei vivi e spazi dei morti. Viaggiare nelle case degli esseri umani, insomma, è un modo privilegiato per addentrarsi in culture e società diverse e simili al tempo stesso, un pellegrinaggio antropologico negli abiti e nelle abitudini con cui l’umanità ha forgiato se stessa.