Cosmopolis, l’America è il mondo Un titolo suggestivo di futuro e di passato, a cominciare dall’eco di un film, Metropolis, che inaugurò il genere del cinema visionario e premonitorio, in cui la fantasia da semplice riempitivo diventa creazione di un’altra realtà, strutturata e agghiacciante. Una sorta di ultimo avviso lanciato da Fritz Lang, scongiurabile a patto di mettere in discussione alcune tendenze del presente: cadute queste, mondi migliori si preparano a sorgere. Ma tutto questo non vale per l’agghiacciante Cosmopolis di De Lillo e Cronenberg, unico mondo ormai possibile per un’umanità che ha perso ormai il filo delle esistenze individuali e collettive. Eric Packer, il giovane miliardario, si aggira per le strade di una New York che emana violenza e minacce di una rivoluzione il cui esito negativo è già scontato sul nascere, preannunciata dal grido “Uno spettro si aggira per il mondo”, esibito rimando all’annuncio di quella epocale rivoluzione comunista il cui fallimento ha dato la stura al trionfo di un capitalismo ancora più selvaggio di quello sconfessato da Karl Marx. E’ l’impero della finanza, infatti, che avvolge le vite larvali dei personaggi di Cosmopolis a partire da Eric, quasi unica presenza della storia lunga un giorno che nella pagina e nello schermo inizia con un imperativo inderogabile dichiarato da Eric a uno scettico e preoccupato responsabile della sua sicurezza: voglio aggiustarmi il taglio. Inizia così un viaggio su una incorporea limousine bianca, perfettamente identica alle tante altre auto dei tanti altri miliardari che dominano un mondo devastato e al tempo stesso se ne tengono a distanza e lo temono non certo per le minacce di aggressioni fisiche che tutt’al più incuriosiscono Eric, quanto per i pericoli impalpabili di intrusioni catastrofiche, frutto di una super sofisticata tecnologia telematica asservita alle logiche della finanza globalizzata. La limousine può proteggere dagli assalti delle orde di umanità in rivolta, ma non dagli agguati al suo prezioso sistema e dunque Eric pende dalle labbra del suo consulente informatico ma è del tutto indifferente agli avvertimenti della guardia del corpo che gli parla di una città in subbuglio per l’arrivo del presidente, ormai completamente destituito di ogni autorevolezza nella sua logica autocratica che non include la democrazia tra i propri riferimenti. Dominio incontrastato dell’alta finanza, globalizzazione di ascese e cadute, tanto che le sorti di una moneta in un angolo della terra possono mutare i destini del mondo intero, città devastate e popoli ridotti alle logiche della legge della foresta: ma Eric deve aggiustarsi il taglio. E’ un omaggio alla visione postmoderna di cui Don De Lillo rappresenta la voce più insigne nell’attuale panorama letterario americano, una visione che mescola alto e basso, marginalità e priorità, annebbiando ogni cosa in una miscela punitiva che esclude i valori dando uguale senso a tutto? Troppo scolastica la spiegazione e soprattutto incapace di reggere a una controprova indiscutibile, quella del tono narrativo tipico del postmoderno, cioè un’ironia che può anche sconfinare nel sarcasmo, rimanendo comunque specchio di una sicura padronanza del mondo osservato, compiacimento di una comprensione tutta individuale del corso degli eventi e della loro totale intercambiabilità. E Eric non è pago della propria imperturbabilità e se incontri, persone e circostanze non lo toccano per lui non è una vittoria. Due le strade per leggere questa storia, la prima si chiama assenza di passione e è narrata attraverso il volto di Eric, sul quale niente deposita turbamento, tanto che la sua espressione non cambia con o senza occhiali da sole, tranne il colore degli occhi, come nota la stupefatta moglie angelo Elise; la seconda si chiama ricerca di sé e percorrendola si arriva a due mete, quella del negozio del barbiere, spazio dell’infanzia di Eric e speranza di recupero di affetti nella persona di Anthony, vecchio amico del padre che pur nella sua bonarietà e ovvietà non riesce ad accendere niente nel metallico miliardario; e quella ben più inquietante dell’incontro mortale con Benno Levin, il soggetto ( così nel finale del romanzo lo chiama De Lillo) che rinfaccia all’oggetto Eric la sua smania per quell’equilibrio che non potrà mai conquistare, come avrebbe dovuto capire se avesse ben decifrato il senso della sua prostata asimmetrica, temuta e rimossa continuamente. Due Cosmopolis, quella di De Lillo virata sulla prima strada che la scrittura letteraria può percorrere, sostenuta dalla suggestione di un dialogo di indiscutibile forza drammatica e di uno stile descrittivo molto giocato sulla ripetizione. Con questi strumenti si può narrare l’immobilità. Non così per la scrittura filmica, che esige il racconto, la successione spaziale e temporale; e dunque Cronenberg sceglie la seconda via e accompagna lo spettatore nel viaggio di Eric dentro se stesso, e con lui l’America, cioè tutto il nostro mondo. Si chiude così il ciclo “L’America si racconta” con cui l’Istituto Gramsci di Grosseto propone una lettura alternativa dell’ormai poco nuovo continente, oggi affiancato e forse superato da tanti altri mondi decisivi per le sorti dell’umanità. Ma l’America per noi continua a essere un parametro politico culturale imprescindibile e di questo vale la pena parlare. Dopo Paul Auster e Wayne Wang con Smoke, dopo Raymond Carver e Robert Altman con Short Cuts, l’inquietante Cosmopolis di Don De Lillo e di David Cronenberg ci fa riflettere di nuovo su questa America mito comunque. Giovedì 6 marzo ore 17 alla sala conferenze del Museo di Storia Naturale di Grosseto