WORKING PAPER No 616 Gennaio 2009 IL MUTAR DELLE METODOLOGIE NELLE SCIENZE SOCIALI: IL CASO DELLE ANALISI ECONOMICHE DELLE SCELTE PUBBLICHE DI ANTONIO DI MAJO E ALESSANDRO DE CHIARA JEL Classification: B4 - H10 Keywords: Public choice – metodologie scienze sociali società italiana di economia pubblica dipartimento di economia pubblica e territoriale – università di Pavia Il mutar delle metodologie nelle scienze sociali: il caso delle analisi economiche delle scelte pubbliche di Antonio Di Majo e Alessandro De Chiara 1. Introduzione. La scienza economica nasce con l’analisi dei comportamenti degli agenti economici che operano nei mercati. Ma, ben presto, gli economisti si chiedono se esistano e quali siano le leggi economiche che regolano l’uso delle risorse al di fuori dei meccanismi di mercato, ossia, in assoluta prevalenza, quello determinato attraverso scelte pubbliche. L’apparire della metodologia del marginalismo, nella seconda metà dell’Ottocento, favorisce la crescita dell’analisi scientifica delle scelte economiche individuali e questa metodologia, con le sue rilevanti evoluzioni, domina ancora oggi la scienza economica. L’economia delle scelte pubbliche, quella che in Italia assume la denominazione di Scienza delle finanze, cerca spiegazioni e “regole” per le scelte collettive, di Finanza pubblica, analoghe a quelle cercate per le scelte individuali di mercato. I tentativi di dare un fondamento rigoroso alle scelte economiche collettive vengono avviati, sul finire dell’Ottocento, ad opera di economisti italiani (Mazzola, De Viti De Marco, Pantaleoni, per citarne solo alcuni)1 e di lingua tedesca (soprattutto l’austriaco Sax e lo svedese Wicksell), che estendono l’individualismo metodologico, cui il marginalismo fornisce il rigore, alle scelte pubbliche. Questo approccio, che si affermerà anche nei Paesi di lingua inglese, pur con sostanziali differenze (in quanto veniva trascurato il contesto politico-istituzionale che molti autori continentali ponevano al centro delle loro indagini) non avrà concorrenti almeno fino agli anni cinquanta e il merito della sua diffusione deve essere attribuito ad un economista tedesco emigrato negli Usa negli anni trenta del secolo scorso, R.A.Musgrave. Com’è noto, l’evoluzione dell’economia delle scelte individuali approda, attraverso le analisi di equilibrio parziale prima e di equilibrio generale poi, a quei risultati cui di solito si rimanda sinteticamente utilizzando l’espressione “economia del benessere”. E l’economia del benessere richiede che le scelte collettive (di Finanza pubblica) siano improntate alla ricerca della massimizzazione dell’utilità degli individui che compognono la collettività, compito che in realtà, come si dimostrò abbastanza presto, è teoricamente possibile (se si prescinde da altre 1 Senza ricorrere alle numerose citazioni che sarebbero necessarie, si può far riferimento ad un recentissimo paper di A. Fossati (2008) che sintetizza molto bene le posizioni di questo gruppo di studiosi italiani, del tempo a cavallo tra fine Ottocento e inizi del Novecento, sul ruolo dello Stato nell’analisi economica. 1 importanti limitazioni) solo se si assimila il meccanismo delle scelte collettive a quello di un despota illuminato interessato a raggiungere quell’obiettivo. Questa semplificazione del “paternalismo benevolente” trascura, tra l’altro, le caratteristiche che assumono in concreto, nei paesi democratici, i meccanismi di decisione collettiva, limitandone le capacità esplicative e rendendo puramente astratte le sue prescrizioni. Già sul finire dell’Ottocento alcuni studiosi italiani di Scienza delle finanze (Montemartini, Puviani, Conigliani, Barone,…) e alcuni tedeschi della “Finanzwissenschaft”( si pensi principalmente ad A. Wagner), con enfasi e considerazioni in parte diversi, avevano rifiutato l’adozione di una metodologia che trascurava completamente le complessità dei processi politici che regolano, a differenza di quanto avviene nel mercato, le decisioni economiche collettive. In particolare quegli studiosi italiani, accomunati con qualche semplificazione nel cosiddetto indirizzo politico-sociologico della Scienza delle finanze, ponevano enfasi sull’importanza, negli stati democratici, degli interessi diversi da quelli degli elettori uti singuli nelle decisioni pubbliche (necessariamente attuate attraverso l’uso della coazione) e qualunque spiegazione e prescrizione non avrebbe potuto essere analizzata senza tenere conto dei diversi interessi economici in gioco in quelle scelte (quelli dei politici, l’egoismo dei burocrati, la pervasività dei gruppi di interesse, ecc.). Questo filone di analisi rimase minoritario e l’analisi economico-pubblica continuò a essere dominata dall’economia del benessere, con le sue varianti e gli opportuni adattamenti. Nel corso degli anni cinquanta del Novecento, però, J.M. Buchanan, ispirandosi esplicitamente a Wicksell e agli studiosi italiani dell’indirizzo politico-sociologico, avviò un filone di ricerca sulle scelte pubbliche alternativo a quello del “despota benevolente”, con l’obiettivo di inglobare nell’analisi un’articolazione più realistica del processo politico, anche al fine di individuare i limiti che l’azione governativa incontra nel realizzare quel “bene comune” che, al contrario, si può teoricamente ottenere nell’analisi tradizionale. Il nuovo approccio (definito “Public Choice” in contrapposizione alla tradizionale “Public Finance”, e anche alla definizione attualmente più adottata nei paesi di lingua inglese di “Public Economics”) rappresentò una rottura nella consuetudine accademica consolidata non solo della scienza economica, ma anche di quella politologica. In anni molto più recenti alcuni economisti,in maggioranza con un “background” macroeconomico, hanno avviato un filone di analisi esplicitamente rivolto ad analizzare le decisioni politiche con quei metodi che la teoria economica ha sviluppato e affinato negli ultimi decenni. Ci si è chiesto se, come pretendono i sostenitori di questo filone, si tratta di un’innovazione epocale dell’analisi delle scelte collettive o, invece, di una mera evoluzione della “Public Choice”, che si discosta però da questa per aspetti che la riavvicinano, come si vedrà, al filone tradizionale. Le riflessioni da fare su questo tema sono particolarmente interessanti sia per la rilevanza che questo 2 programma di ricerca più recente, che prende il nome di “Political Economics”, ha assunto in ambito accademico sia per la pretesa degli economisti che vi afferiscono di formulare prescrizioni essenziali per le scelte politiche concrete. In queste pagine non si prendono in esame altre visioni sulle scelte economiche e politiche collettive (in particolare quelle di tipo organico, di classe nel senso marxiano, etc.) limitando l’esame alle differenze che si possono manifestare tra alcuni approcci che condividono l’individualismo metodologico2. 2. Dalla “Public Finance” alla “Public Choice”. Lo studio delle scelte economiche collettive viene rivoluzionato dagli studiosi che avrebbero costituito il nucleo fondante della scuola della Public Choice. Come accennato, le scelte pubbliche erano analizzate, per tutta la prima metà del Novecento, come il risultato di un processo di massimizzazione del benessere sociale posto in essere dal “governo”, considerato come un’unica entità decisionale il cui interesse racchiudeva le preferenze di ognuno degli individui che componevano la collettività. In questo approccio, il processo politico democratico veniva lasciato in disparte, o enormemente semplificato, con accenni ai problemi posti dalla circolarità delle maggioranze, dalla prevalenza delle decisioni dell’elettore mediano e altri ancora, ma poi l’attenzione veniva unicamente volta alle condizioni di equilibrio, emerse nel corso dell’operazione di ottimizzazione, che avrebbero garantito il raggiungimento di determinati obiettivi di efficienza e, con ulteriori ipotesi e limiti, di equità. Diversi studiosi ponevano in dubbio la reale utilità di questa impostazione, in quanto non era in grado di fornire una spiegazione corretta dell’effettivo svolgersi del processo di decisione collettiva. Questa insoddisfazione crescente nei confronti dell’Economia del Benessere esplose negli anni cinquanta del secolo scorso, quando l’evoluzione del ruolo dello Stato e l’espansione delle risorse utilizzate dai bilanci pubblici nei Paesi industrializzati rese inaccettabile e fuorviante affidarsi a un’interpretazione così superficiale ed irrealistica del processo politico. All’indomani della seconda guerra mondiale, infatti, i bilanci pubblici degli Stati più sviluppati avevano raggiunto livelli rilevanti (e la tendenza verso un incremento del “peso” della spesa pubblica sul Pil sarebbe continuata per tutto il Novecento fino a raggiungere e, talvolta, superare la metà del prodotto complessivo in molti stati europei). Questa evidenza empirica 2 R. Musgrave (1996) ricorda l’approccio “organico” allo studio dell’economia dello Stato, all’origine della Finanzwissenschaft tedesca e la sua graduale evoluzione verso una visione più attenta alle preferenze individuali , ma che non abbandona completamente l’approccio originario, ora definito del “communal state”. Con le parole di Musgrave (1996, pag 73): “ In its extreme form, the personified state itself appeared as the subject of wants, overriding the private preferences of its members. In its moderate form, only individuals experience wants, but a distinction remains between their private and communal wants. While the former are satisfied in line with self interest, satisfaction of the latter involves an obligation to the community as a whole.” 3 richiedeva uno studio specifico del meccanismo di decisione collettiva che, dovendo risultare coerente con il funzionamento di un Paese democratico, non poteva più avere a fondamento quella visione sostanzialmente organica dello Stato che caratterizzava l’utilizzo del concetto della “funzione del benessere sociale”. In questo rifiuto dell’impostazione allora dominante nello studio delle scelte pubbliche deve essere individuata la nascita del programma di ricerca della Public Choice, che riuniva un gruppo di studiosi che avanzavano le loro critiche soprattutto nei riguardi della metodologia adottata dagli economisti dell’approccio tradizionale e delle ipotesi che venivano assunte per determinare le scelte collettive. In particolare, veniva contestata l’ostinata ricerca di un criterio di determinazione dei diversi “stati del mondo” che permettesse all’economista di identificare una soluzione socialmente efficiente ( e possibilmente unica) attraverso l’utilizzo della Funzione del Benessere Sociale, prescindendo dal giudizio dei singoli membri che componevano la comunità, come se le politiche dovessero essere stabilite da un despota illuminato. Gli studiosi della Public Choice, primi fra tutti J.M. Buchanan e G. Tullock, sottolineavano la necessità di studiare il funzionamento del processo politico per poter effettuare un’analisi più realistica della policy pubblica. L’ipotesi di lavoro che avanzarono era quella di considerare il movente del comportamento umano comune a tutti gli individui, sia che operassero in un ambito che potremmo definire privato (ovvero nel mercato) sia che agissero in un ambito pubblico: in altre parole, ritenevano corretto estendere il postulato dell’homo oeconomicus, adottato nella microeconomia per spiegare le scelte private degli agenti economici operanti nel mercato, all’analisi del comportamento di quelle persone che agivano in un ambito pubblico, come elettori, politici, burocrati o all’interno di gruppi di interesse. Questo presupposto implica che le scelte economiche compiute dagli uomini siano dirette alla massimizzazione del loro personale benessere e che in questo calcolo utilitaristico non entrino, generalmente, motivazioni “sociali” o “altruistiche”3. Tale ipotesi, che per certi versi può apparire piuttosto semplificatrice della realtà, in quanto trascura la diversità degli obiettivi che si potrebbero porre individui coinvolti in diversi ambiti decisionali, sembra essere, in ogni caso, meno controversa di quella che era sottesa all’Economia del Benessere e che veniva bollata, proprio dagli autori della Public Choice, come quella del dualismo comportamentale: nel mercato, le persone hanno in mente solamente il proprio interesse egoistico, generando così tutta una serie di inefficienze che determinano le condizioni teoriche per un intervento governativo nell’economia (come nel caso delle esternalità); quest’ultimo, a sua volta, può ovviare a quei problemi poiché gli “agenti” dello Stato, come i politici o i burocrati, hanno in 3 Questo non significa che si possa sottovalutare l’importanza del cosiddetto “Terzo Settore” il cui sviluppo è in gran parte attribuibile a motivazioni altruistiche. In questo settore sono particolarmente importanti la storia e il ruolo attuale (entrambi molto articolati) delle Fondazioni. Si veda il Libro Bianco sulle Fondazioni del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali (2002) e, con riferimento agli Stati Uniti ma con argomentazioni largamente generalizzabili, il recente D. Akst (2008). 4 mente solamente l’interesse della comunità, il “public interest”. Se, al contrario, seguiamo l’approccio sviluppato dalla Public Choice e adottiamo un’ipotesi coerente sul piano del comportamento tenuto dagli individui quando operano nel mercato e quando sono coinvolti nelle decisioni pubbliche, allora la visione dell’intervento dello Stato nell’economia diviene meno idilliaca. E questo è proprio quello che è successo negli anni sessanta e settanta con l’affermazione di questa scuola che deve gran parte del suo successo alla capacità di analizzare efficacemente ed in maniera disillusa il funzionamento delle istituzioni, migliorando la nostra conoscenza dei meccanismi di decisione delle stesse. La sua visione, diffidente nei confronti dell’operato dei politici e dei burocrati (ovvero dei soggetti maggiormenti coinvolti nel processo di policy making e nell’attuazione delle decisioni stesse), ha condotto a numerosi contributi, molti dei quali vengono definiti come “fallimenti dello Stato”, in contrapposizione a quelli del mercato, caratteristici dell’analisi dell’economia del Benessere. Il funzionamento delle istituzioni pubbliche e le inefficienze generate dal loro operare nelle economie di mercato sono al centro delle indagini teoriche degli studiosi della scuola della Virginia (l’altro nome con il quale si indica, solitamente, la Public Choice, dal momento che in quello Stato sono concentrati i suoi maggiori centri di ricerca e sono attivi i suoi più importanti economisti) ed hanno condotto allo sviluppo di una vastissima letteratura che comprende le analisi più svariate: da quelle relative al rent-seeking (ovvero posizioni di rendita che, create da un soggetto governativo, sotto la pressione dei gruppi di interesse – come nel caso di monopoli legali o delle barriere protezionistiche –, inducono gli imprenditori a sperperare risorse in attività di lobbying al fine di otterere il diritto al loro sfruttamento) a quelle sulla burocrazia (dove viene posta enfasi sull’assenza di corrispondenza tra il soddisfacimento delle esigenze dei cittadini e la massimizzazione dell’utilità perseguita dai burocrati), dall’elaborazione di differenti modelli di voto allo studio del comportamento dell’elettorato. Negli ultimi decenni, molti scienziati della politica, intuendo l’enorme capacità esplicativa dell’applicazione del postulato dell’homo oeconomicus alle scelte pubbliche, hanno adottato lo stesso metodo dando vita alla corrente della “Teoria della Scelta Razionale”, che oggi occupa un ruolo di rilievo in quella disciplina4. Dalla maggior parte delle analisi effettuate dagli economisti appartenenti alla Public Choice sembrerebbe emergere una generalizzata e forte antipatia nei confronti dell’intervento pubblico nell’economia. Sebbene sia evidente che questi studiosi sono diffidenti nei riguardi dell’operato dei politici e dei burocrati (ed è ciò che, in primo luogo, ha portato all’estensione del principio dell’homo oeconomicus alla spiegazione del loro comportamento), occorre sottolineare come tale prospettiva non sia chiusa ad autori più ottimisti verso l’azione pubblica: è questo il caso di Mancur 4 Sebbene sia stata oggetto di critiche, la più nota delle quali è esposta in D.P. Green e I. Shapiro (1994). 5 Olson, il quale non ha mai posto eccessiva fiducia nei riguardi dei risultati che possono essere realizzati dal solo operare del mercato ed ha analizzato le condizioni che assicurano l’utilità collettiva delle istituzioni e gli aspetti positivi della loro evoluzione, pur in presenza di comportamenti egoistici degli individui che le compongono5. In generale, queste lucide analisi “positive” del funzionamento delle istituzioni sono state accompagnate dall’elaborazione di soluzioni utili a migliorare la corrispondenza tra le preferenze dei cittadini-elettori e le politiche attuate dai governi. A differenza degli studiosi tradizionali, che cercavano di individuare quale fosse la politica “migliore” che doveva essere realizzata da qualsiasi governo per promuovere il “benessere” di tutta la comunità, gli economisti della Public Choice sono consapevoli che tale modus operandi è del tutto sterile, dal momento che i membri dell’esecutivo al massimo perseguono gli interessi di quella maggioranza necessaria per permettere loro di mantenere il potere nella successiva tornata elettorale. Cosicché, il primario obiettivo di questi autori è quello di individuare le condizioni che possono meglio costringere i politici a ricercare l’approvazione della totalità dei cittadini e per questa ragione il loro approccio è process-oriented e non outcomeoriented. L’enfasi che gli studiosi di questa scuola attribuiscono alla necessità di avere una struttura decentrata di governo e di fare maggior ricorso alle istituzioni proprie della democrazia diretta (ovvero favorire, quando possibile, l’iniziativa popolare e il referendum) è giustificata proprio dal fatto che questi rappresentano meccanismi in grado di favorire la manifestazione sincera delle preferenze da parte degli individui e possono creare le condizioni affinché i politici siano tenuti a rispettarle. L’ambito di ricerca che più di ogni altro è rappresentativo di questo approccio è quello dell’”economia politica costituzionale”. Il riconoscimento che anche gli individui coinvolti nei processi decisionali pubblici si comportano egoisticamente deve indirizzare verso modelli di istituzioni che rendano coerente il perseguimento dell’interesse personale con la determinazione di risultati vantaggiosi per tutti. Il potere discrezionale di cui dispongono politici e burocrati deve essere fortemente ridimensionato, dal momento che questi non sono agenti disinteressati, ed il luogo ideale dove tali vincoli devono essere stabiliti è l’assemblea costituente. A questo livello le regole devono necessariamente ricevere un consenso vasto e diffuso tra la popolazione per essere introdotte, cosicché gli interessi di tutti i cittadini vengano presi in considerazione. In tali riflessioni, sviluppate in più riprese soprattutto da Buchanan, Tullock e Brennan6, il debito più evidente è nei riguardi di Hume, il quale aveva sottolineato la necessità di considerare ogni uomo come un 5 6 M. Olson (1965, 1996, 2000) e A. Dixit e M. Olson (2000). In particolare J.M. Buchanan e G. Tullock (1962) e G. Brennan e J.M. Buchanan (1986). 6 “furfante dedito alla ricerca del proprio interesse” se si volevano stabilire effettivi vincoli all’azione di governo7. Le istituzioni democratiche dovrebbero essere modellate seguendo quella che viene definita la “logica dello scambio”8: far sì che ogni individuo riceva dei vantaggi dalla partecipazione alla vita associata, cosicché se potesse scegliere liberamente se farvi parte o meno, preferirebbe rimanere all’interno della comunità. Il contratto sociale, al pari di quelli privati sottoscritti nel mercato, richiede l’adesione volontaria di tutti i soggetti coinvolti e in una democrazia nessun individuo dovrebbe essere costretto a subire una decisione collettiva che non ha partecipato a prendere. Il postulato dello “scambio volontario” che insieme a quello della scelta razionale e all’individualismo metodologico accomuna tutti gli studiosi della Public Choice viene chiaramente ripreso da Wicksell, il quale, trattando delle decisioni di Finanza pubblica, cercava di determinare quelle condizioni che avrebbero permesso ad ogni membro della comunità di beneficiare delle scelte collettive ed era giunto alla conclusione che per raggiungere questo obiettivo fosse necessaria, per quelle scelte, l’adozione del criterio dell’unanimità (o una sua approssimazione) in Parlamento9. Tale regola di voto ha infatti la pregevole caratteristica di tutelare le minoranze, che dispongono di un diritto di veto, contro quelle decisioni collettive considerate particolarmente sfavorevoli nei loro confronti. Wicksell rappresenta indiscutibilmente un punto di riferimento per l’analisi normativa svolta dagli studiosi della Public Choice, così come la descrizione realistica del processo politico sviluppata dagli autori italiani di Scienza delle Finanze di inizio Novecento è alla base della loro analisi positiva. E’ necessario però ricordare, necessariamente in maniera molto succinta, i principali limiti di questo approccio. Anzitutto, non si chiarisce come i progetti di riforma costituzionale possano essere effettivamente introdottti, dal momento che dovrebbero comportare una radicale redistribuzione del potere a favore delle attuali minoranze e pertanto verrebbero fortemente osteggiate da coloro che nello status quo ottengono enormi benefici. Questo è un aspetto trascurato in quanto gli studiosi della Public Choice si sono sempre preoccupati di mostrare come le istituzioni pubbliche dovrebbero essere modellate al fine di creare una società realmente democratica (nel senso, già 7 D. Hume (1987). Buchanan vede la scienza economica come una “scienza degli scambi” concentrata sullo studio delle istituzioni e delle proprietà che regolano il processo di negoziazione tra le parti coinvolte in un contratto e la contrappone al paradigma della “massimizzazione” a cui si rifanno, invece, gli economisti tradizionali (cfr. J.M. Buchanan 1975, 1983). Nel far questo, Buchanan segue esplicitamente l’impostazione di von Hayek (1982), che si definisce catallattica (dal verbo Greco katallassein che significa “scambiare”, ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare da nemici, amici”) ed enfatizza i benefici che derivano dall’”ordine spontaneo” del mercato. In questa ottica, ogni risultato a cui si giunge mediante l’accordo volontario tra gli individui è da ritenersi soddisfacente, mentre è insensato ogni tentativo di ricercare esiti stabili ed univoci del processo di contrattazione tra gli agenti economici. 9 K. Wicksell (1896). 8 7 chiarito, di rispettare le preferenze di tutta la popolazione o, almeno, di una sua larghissima maggioranza) senza però indicare la strada da percorrere per raggiungere quell’obiettivo. Trattandosi di individuare un “processo” di decisione collettiva è particolarmente contraddittorio con le fondamenta della Public Choice non cercare di individuarlo. L’essersi disinteressati delle effettive scelte pubbliche ed essersi preoccupati principalmente della astratta individuazione dei processi più idonei a garantire la manifestazione sincera delle preferenze da parte dei cittadini (e il conseguente rispetto di quelle esigenze da parte dei governanti) ha lasciato spazio agli studiosi più vicini alla corrente tradizionale della scienza economica. Su alcune tematiche di grande rilevanza, come ad esempio la strutturazione del sistema tributario, le indicazioni fornite dagli autori della Public Choice non sono approfondite e sufficientemente articolate e si limitano principalmente ad avvertire sui pericoli che potrebbero derivare dall’eccessiva discrezionalità con cui le scelte tributarie vengono assunte e sulla rilevanza degli interessi particolari nella loro determinazione. Poca attenzione specifica è dedicata poi al funzionamento dei mercati che, come si è accennato, non sono considerati meccanismi che sfociano negli equilibri descritti dall’Economia del Benessere e di conseguenza non è condivisa da questo approccio l’utilità del concetto di “fallimenti del mercato”. L’emergere dell’approccio di Public Choice è stato inizialmente osteggiato fortemente dall’establishment accademico, ma nel corso del tempo la sua influenza si è estesa e anche l’attribuzione del premio Nobel a Buchanan nel 1986 ha sancito il riconoscimento della rilevanza accademica della scuola. L’acquisita consapevolezza che il metodo della Public Choice non implica necessariamente una scelta contraria all’esistenza dello Stato (o favorevole all’accettazione dello Stato minimo), anche se i suoi esponenti continuano prevalentemente a militare tra i conservatori più “liberisti”(ma non per ragioni scientifiche), ha aumentato la sua considerazione presso gli economisti di vario orientamento politico. 3. I modelli di “Political Economics”: solo vino vecchio in otre nuovo? La decisione degli autori di Public Choice di non basarsi sulla ricerca di equilibri economici efficienti, dal punto di vista della teoria dell’Economia del Benessere, lasciava spazio agli economisti “mainstream”, interessati alla determinazione delle condizioni necessarie per l’”ottimalità” delle scelte economiche pubbliche. Infatti, nonostante le critiche mosse dalla scuola della Virginia a chiunque analizzasse le scelte sociali prescindendo da un’attenta e ponderata 8 valutazione del funzionamento del processo politico, l’attrazione per eleganti soluzioni di equilibrio che, almeno teoricamente, potessero eliminare le inefficienze create dall’interazione tra gli agenti economici (fallimenti del mercato), continuava ad esercitare un grande richiamo nella maggioranza degli economisti pubblici. Sulla scia di analisi del rent seeking basate sull’approccio tradizionale ( diverso da quello di Public choice10) appaiono diversi contributi, in prevalenza non coordinati tra di loro, che trattano l’interazione tra mercato e istituzioni pubbliche restando ancorati alle “tecnologie” del mainstream della disciplina economica.11 Così si afferma gradualmente una nuova corrente, indicata con il nome di Political Economics (o Political Economy), che accomuna quegli scienziati sociali (economisti, ma anche politologi) che condividono alcuni aspetti essenziali del lavoro di ricerca. L’obiettivo principale è quello di analizzare le politiche economiche dei paesi democratici per cogliere le motivazioni che possano spiegare le difformità di risultati osservabili nei diversi Paesi. Viene studiato il funzionamento del processo politico e si indagano quei fattori che possono avere riflessi rilevanti sulle effettive politiche realizzate: di conseguenza, grande enfasi viene posta sulla considerazione degli incentivi che indirizzano le scelte dei governanti e sui limiti che i politici possono incontrare nell’attuare i loro piani, solitamente strutturati in maniera tale da apportare benefici solo a gruppi ristretti della comunità. Un elemento comune a tutti i contributi, che li distingue dall’approccio tradizionale di Public Economics, è la considerazione dello Stato ( o meglio del “governo”) come endogeno nella determinazione dei risultati dell’interazione tra gli agenti economici; di conseguenza , in presenza di situazioni inefficienti ( fallimenti del mercato), non si può dare per scontata l’esistenza del “despota benevolente” disposto a correggerle. Sembrano, quindi, notevoli le affinità tra la Political Economics e la Public Choice, in quanto entrambe vogliono spiegare le scelte politiche usando la metodologia dell’homo oeconomicus. Qual è allora la ragione della nuova prospettiva? In quello che viene considerato il “manuale” della Political Economics12, si afferma esplicitamente che le tematiche sono comuni alla Public Choice, ma i limiti che affliggono quell’approccio richiedono una nuova (ed autonoma) elaborazione. Gli studiosi della Public Choice sono accusati di non tener conto degli sviluppi, principalmente nelle metodologie di analisi quantitativa statistico-matematica, che hanno caratterizzato la scienza economica negli ultimi decenni. In particolare non utilizzano modelli formali di teoria dei giochi per sviluppare le loro intuizioni né adottano le “aspettative razionali” come ipotesi di 10 G.Tullock (1967). A.O. Krueger (1974) e J.N. Bhagwati e T.N. Srinivasan (1980). Si tratta dello studio della cosiddetta DUP ( directly unproductive profit-seeking activity) che analizza il Rent seeking come attività che le scelte pubbliche (in un’ottica di ottimizzazione) devono contrastare. 12 T. Persson e G. Tabellini (2000), pp2-4 11 9 comportamento economico degli individui. Per queste ragioni le analisi di Public Choice sarebbero lacunose ed erronee e dovrebbero essere sostituite con studi in linea con i nuovi tools e le nuove teorie della corrente mainstream della scienza economica. Quindi la Political Economics si richiama alla Public Choice solo nella definizione dei problemi, mentre sceglie la cosiddetta “teoria della politica economica” come ambito metodologico essenziale di analisi, teoria che nasce in ambito macroeconomico. Essa trova origine nella critica di Lucas ai modelli econometrici tradizionali i quali, nel valutare gli effetti delle diverse politiche sulle variabili macroeconomiche, non consideravano la possibilità che la relazione stessa tra le variabili potesse essere influenzata dalla policy adottata. Sono soprattutto le intuizioni di Kydland e Prescott (1977) ad aver spianato, per questo aspetto, la strada alla nascita della Political Economics ; infatti, insieme con i successivi lavori di Barro e Gordon (1983), si é modificato radicalmente lo studio della determinazione delle decisioni politiche efficienti e delle circostanze affinché queste possano essere ottenute rispettando le condizioni di equilibrio. In estrema sintesi, si può dire che se le decisioni correnti degli operatori privati dipendono dalle loro aspettative sulle scelte politiche future, emerge per il governo una discrasia fra la politica coerente con quella annunciata e quella “ottimale”: infatti, se le autorità in un secondo momento possono di modificare la policy annunciata avranno convenienza a farlo in quanto non dovranno più tenere conto degli effetti delle loro scelte sulle decisioni del settore privato (il loro problema di ottimizzazione presenta un vincolo in meno). Tuttavia, se le aspettative degli operatori privati sono razionali, la scelta dei politici sarà correttamente prevista e gli agenti economici non crederanno nella politica annunciata dal governo. Cosicché, se il governo non può assumere l’impegno vincolante a rispettare quanto sostenuto in precedenza, si determina una situazione di equilibrio negativa dal punto di vista del benessere sociale13. Questo problema, definito di incoerenza dinamica, ha dato vita a una serie di studi volti ad individuare quelle condizioni, solitamente basate sulla reputazione del policymaker, che potrebbero garantire l’ottenimento di equilibri efficienti, anche nel caso in cui non si possa ricorrere ad impegni vincolanti. La Political Economics estende l’analisi dei problemi di credibilità allo studio delle istituzioni collettive e degli incentivi per i politici. Ne segue che la politica economica effettivamente 13 Un esempio illuminante riguarda la tassazione degli utili: l’obiettivo del governo potrebbe essere quello di incentivare l’accumulazione del capitale, annunciando che i profitti non verranno tassati. Successivamente, quando gli investimenti produttivi sono stati realizzati, la scelta ottimale del governo diventa quella di concentrare l’imposizione proprio sui profitti: l’offerta di capitale ex-post è rigida, quindi tale imposta non genera alcuna distorsione e permette al governo di realizzare con il suo gettito i suoi obiettivi (qualsiasi essi siano: da ridurre la tassazione sul reddito da lavoro ad incrementare i suoi consumi od espandere il settore pubblico, etc.). Tuttavia, gli investitori privati, se sono “razionali”, anticiperanno l’incentivo del governo a contravvenire alla promessa di non tassare gli utili e gli investimenti risulteranno inferiori alle attese. Tutto ciò accade se il governo non può vincolarsi a rispettare gli impegni assunti. 10 realizzata non è altro che il risultato di equilibrio di un gioco non cooperativo in cui si scontrano i conflitti di interesse tra elettori e policymakers e tra differenti gruppi di elettori e partiti politici. Nell’ambito delle analisi che combinano le scelte politiche con il funzionamento dei mercati visto con l’ottica della tradizionale Economia del benessere va annoverato un insieme di contributi di diversa origine, che si distinguono da quelli di Political Economics in senso stretto, in quanto sono dettagliatamente definiti dal punto di vista microeconomico e non fanno riferimento ai fondamenti macro di tale indirizzo. Si tratta di modelli che stilizzano il funzionamento del mercato secondo il mainstream ( tendenzialmente nell’ambito dell’ equilibrio economico generale) e le scelte collettive secondo criteri formalizzati di equilibrio politico. A questo filone appartengono i modelli di voto probabilistico, in cui si ipotizza che i partiti non sono a conoscenza delle preferenze politiche degli elettori e cercano di strutturare le piattaforme politiche al fine di massimizzare il numero dei voti attesi; i cittadini, a loro volta, basano la propria intenzione di voto sull’utilità che potrebbero ottenere dalla realizzazione dei programmi politici tra cui possono scegliere. Tra i lavori che si basano sul modello di voto probabilistico, si può ad esempio considerare quello di Hettich e Winer (1999), centrato sulle scelte di tipo tributario. In opposizione all’approccio dell’Optimal Taxation (tipico della tradizionale Public Economics), questi studiosi enfatizzano il ruolo rivestito dal processo politico nella strutturazione dei sistemi tributari e osservano come nelle concrete scelte tributarie prevalga il peso dell’equilibrio politico rispetto a quello dell’equilibrio economico. In particolare esse sono il risultato del bilanciamento tra gli opposti interessi di individui razionali con preferenze eterogenee. In questi modelli il benchmark teorico della lump sum tax (l’imposta in somma fissa), talvolta della Optimal Income Tax, che tanto piace ai teorici della Public Economics, in quanto non distorcerebbe ( sotto certe condizioni) le scelte degli agenti economici privati, ovvero consentirebbe di minimizzare le distorsioni in cambio di desiderati risultati in termini di distribuzione del reddito( nel caso della Optima Incomel Tax), non appare in generale coerente con possibili equilibri politici democratici. Hettich e Winer estendono quindi l’analisi di equilibrio economico generale allo scenario politico e ai risultati generati in questo ambito, considerando i diversi vincoli che caratterizzano e distinguono i processi di scelta pubblici da quelli di mercato. Si può sostenere che l’equilibrio politico che emerge nei modelli di voto probabilistico completa il tradizionale approccio microeconomico, e permette di evidenziare risultati complessivi di second best ( nel senso della teoria economica tradizionale) che si realizzano considerando il libero funzionamento del mercato e il complementare processo politico. In effetti sia i modelli di Public 11 Choice sia quelli di Political Economics (delle diverse varietà) fanno largo riferimento alle capacità autoregolatrici del mercato, per la “logica dello scambio” nelle analisi del primo tipo, più rispondenti a criteri di massimizzazione del benessere sociale nell’altro caso. L’approccio più recente si caratterizza inoltre per l’ utilizzo generalizzato di tecniche di ricerca empirica di tipo statistico-econometrico, che vengono applicate alle più varie tipologie di problemi di scelta collettiva: dalle politiche ridistributive a quelle monetarie, dal ciclo politico economico alla configurazione geografico-politica degli Stati. Le teorie degli studiosi appartenenti sia al filone macro sia a quello micro di questo approccio nascono sostanzialmente dai risultati delle stime empiriche e la loro validità è legata, quindi, all’ utilizzo (e alla disponibilità) di dati appropriati e al proficuo e corretto uso degli strumenti statistico-econometrici. Per questi studiosi le prescrizioni normative possono derivare solo da una conoscenza approfondita del concreto funzionamento delle istituzioni, realizzabile attraverso un gran numero di studi empirici. Questa esigenza, a sua volta, spinge a “costruire” quasi un modello per ogni aspetto indagato, ma questa frammentarietà risulta spesso poco utile alla formulazione di suggerimenti atti a migliorare in generale l’efficienza delle scelte collettive.Le ipotesi dei diversi modelli sono talvolta tra loro contrastanti, per cui non si sa se rappresentano spiegazioni complementari ovvero alternative dell’azione politica indagata. Gli stessi autori sembrano consci dell’irrealtà delle ipotesi adottate e della singolarità dei risultati, che spesso mutano con piccole modifiche delle ipotesi di partenza14. 4. “Public Choice” e “ Political Economics”: (in)evitabile contrapposizione ? Le analogie e le differenze tra i due approcci sono state oggetto di uno scambio di opinioni,ospitato nella Rivista “Kyklos”, introdotto da un saggio di Blankart e Koester (2006). Esso segue precedenti osservazioni di alcuni eminenti studiosi di Public Choice che lamentano la pratica, costantemente seguita da diversi economisti della Political Economics, di trascurare i risultati delle ricerche della scuola della Virginia, presentando le proprie analisi come totalmente innovative. Blankart e Koester (2006) hanno cercato di comparare, in maniera sistematica, i contributi apportati dai due programmi di ricerca, per verificare se la Political Economics possa effettivamente e completamente sostituirsi alla Public Choice nell’analisi economica delle istituzioni collettive15. Il tono polemico e la messa 14 Si veda T. Parrson e G. Tabellini (2000), parte III. Tra gli altri economisti che si sono lamentati dell’atteggiamento adottato dagli autori di Political Economics nei confronti della letteratura di Public Choice, possiamo citare H.W. Ursprung (2003), D.C. Mueller (2007) e R.D. Tollison (2007). 15 12 in discussione della validità di alcuni risultati ottenuti dalla scuola più recente ha provocato una risposta alle accuse, che ha contribuito a chiarire le rispettive posizioni16. Blankart e Koester hanno anche compiuto un’attenta analisi dei principali contributi della Political Economics, mettendone in evidenza i limiti. Essi riconoscono che alcune analisi empiriche sono apprezzabili. In particolare il contributo alla letteratura sul Political-Business Cycle, in cui sono stati riprese le indicazioni di Kalecky , Nordhaus e Hibbs,, sono considerate di utile sviluppo idonee della letteratura precedente17. Particolarmente irritante risulta invece per la Public Choice la rivendicazione, da parte dell’ altro approccio, di originalità e innovazione di risultati nella materia dell’ “Economia politica costituzionale”18. Nonostante la rilevanza delle intuizioni e delle considerazioni presenti, ad esempio, in Buchanan e Tullock (1962) e in Brennan e Buchanan (1986), è sorprendente notare come la letteratura di Political Economics trascuri completamente tali contributi. La distinzione fondamentale in questo campo riguarda il criterio di valutazione degli assetti istituzionali : per la Political Economics, nella tradizione dell’ Economia del benessere, si deve valutare l’efficienza dei risultati, mentre per la Public Choice quel che conta è l’efficienza dei processi decisionali. In particolare per questa scuola bisogna assicurare processi che garantiscano tutti i membri della collettività dalla possibilità che i policy-makers adottino decisioni fortemente sfavorevoli per le minoranze, mentre per i primi si debbono cercare quei risultati (definiti all’interno di certi vincoli) che massimizzano l’utilità ( secondo i criteri dell’Economia del Benessere adattata all’uso di tools più moderni). In questo senso si spiega perché l’approccio seguito da autori come Persson e Tabellini, che mira a definire gli effetti economici associati all’adozione di differenti forme di governo e diverse regole elettorali, possa essere considerato statico dall’altra scuola. Questa invece cerca di suggerire innovazioni istituzionali in grado di assicurare una maggiore corrispondenza tra le preferenze del maggior numero possibile di cittadini e le scelte dei governi e quindi si pone su un piano di dinamica costituzionale19. La Political Economics adottando, come si è detto, un approccio di osservazione empirica, deriva i suoi suggerimenti dalla comparazione degli effetti economici degli assetti istituzionali concretamente esistenti in un dato lasso di tempo. L’”economia politica 16 A. Alesina, T. Persson e G. Tabellini (2006) I modelli sul ciclo politico-economico realizzati dagli economisti di Political Economics partono dall’originario contributo di A. Alesina (1987). 18 Cfr. la recensione di D. Acemoglu (2005) a “The Economic Effects of Constitutions”, il libro di Persson e Tabellini (2003), che viene considerato da questo autore un lavoro fondamentale per chiunque volesse cimentarsi nello studio dell’influenza delle istituzioni sulle performance dell’economia. 19 La difficoltà di accettare la netta distinzione tra regole costituzionali e decisioni politiche concrete è messa in rilievo da Dixit (1996) come una delle cause della diffidenza degli economisti nei confronti della Public Choice: “a ... reason for economists’ hesitancy in accepting the public choice approach may be that its distinction between the constitution of economic policy and the policy process in individual istances is too sharply drawn to be realistic” (cfr. A.K Dixit 1996 pag. 19). 17 13 costituzionale” richiede invece, secondo gli autori di Public Choice, un approccio “creativo” e non può, di conseguenza, fondarsi unicamente su confronti basati sulle istituzioni esistenti20. La contrapposizione tra le due scuole è quindi in parte di tipo metodologico, come si è visto, ma in parte riflette diverse visioni dei compiti attribuibili alle scelte collettive. Importante è per gli uni la limitazione dei poteri dei governi (e degli altri agenti delle scelte pubbliche) nelle decisioni economiche collettive per evitare la tirannia della maggioranza e altri inconvenienti (come il rentseeking,ecc.). Rilevanti per gli altri sono invece solo i risultati in termini di quelle variabili economiche che rappresentano gli obiettivi dell’azione pubblica. L’approccio di Public Choice è stato spesso associato dai suoi avversari con il modello del Leviatano21, una visione del ruolo dello Stato nell’economia che negherebbe qualunque utilità alla politica economica. In realtà, secondo i sostenitori di questo approccio, questa modello viene adottato per fini meramente esemplificativi: serve solo a richiamare l’attenzione sui potenziali abusi che un governo, non sottoposto a vincoli costituzionali, può attuare nei confronti dei cittadini. Quella del Leviatano e’, quindi, un’ipotesi strumentale, al pari di quella relativa all’homo oeconomicus, impiegata, almeno dai principali autori di Public Choice, per sottolineare i potenziali effetti negativi associati alla mancanza di efficaci vincoli costituzionali all’azione politica. Questi aspetti sono stati spesso mal compresi dalla comunità accademica22 e hanno ostacolato un proficuo utilizzo dei risultati delle loro ricerche. La contrapposizione tra i due approcci appare in larga misura inevitabile per le diverse metodologie adottate e per il differente ruolo attribuito alle regole nelle decisioni economiche collettive, quantunque si condivida il rilievo degli interessi particolari degli agenti pubblici nel funzionamento complessivo del sistema economico. Forse in casi ben determinati (specificando le ipotesi, i dati e le metodologie seguite) talune ricerche dei rispettivi approcci potrebbero rivelarsi complementari nell’interpretazione delle politiche pubbliche. 5.Conclusioni. 20 C.B. Blankart e G.B. Koester (2006) pag. 189. Il modello del Leviatano ipotizza che i governanti, anche nei Paesi democratici, si comportino in maniera autocratica e il loro unico obiettivo sia quello di sfruttare tutte le rendite che possono ottenere nella loro posizione. Si veda G. Brennan e J.M. Buchanan (1980). 22 Anche da studiosi che non sono riconducibili ad una particolare scuola; si veda l’articolo di Jennings e McLean (2008). 21 14 Nel corso degli ultimi decenni l’entità delle risorse la cui allocazione e distribuzione è soggetta a decisioni economiche pubbliche si è progressivamente accresciuta fino a raggiungere, in buona parte dei paesi sviluppati, quasi la metà del prodotto annuale. In queste condizioni è evidente che le spiegazioni del funzionamento complessivo del sistema economico non possono prescindere dall’analisi di come le scelte economiche collettive operano e interagiscono con quelle di mercato (private). L’approccio tradizionale della scienza economica attribuiva alle scelte pubbliche il compito di supplire (ipotizzando un obiettivo di perseguimento del public interest da parte degli agenti che concretizzano quelle scelte) alle deficienze (“fallimenti”) del mercato. La constatazione, da parte di molti economisti pubblici, di diffusi comportamenti degli “agenti” pubblici spiegabili più con il self interest che con il public interest, ha favorito la nascita di un approccio all’analisi delle scelte pubbliche che è di rottura rispetto alla tradizione precedente: la Public Choice si pone in alternativa alla Public Finance ( o Public Economics) anche su un piano metodologico più generale. Non solo contesta l’utilità dell’ipotesi del “despota benevolente” che corregge i “fallimenti del mercato” ed enfatizza invece la rilevanza dei “fallimenti dello Stato”, ma rifiuta buona parte della “scatola degli attrezzi” usati in precedenza, anche se condivide con l’approccio tradizionale l’individualismo metodologico che, anzi, più correttamente (secondo il nuovo indirizzo) viene esteso alla spiegazione del comportamento degli agenti pubblici. Lo stesso atteggiamento viene sostenuto da un approccio ancora più recente, quello di Political Economics, che vuole però riprendere (in versione ammodernata) la “scatola degli attrezzi” tradizionali della scienza economica mainstream, pretendendo di rappresentare un’innovazione epocale nella metodologia di analisi delle scelte economiche pubbliche. Questo atteggiamento. secondo gli altri studiosi, non appare giustificato dai risultati delle ricerche condotte nell’ambito di tale approccio. Queste obiezioni ci appaiono condivisibili e le carenze non sembrano solo attribuibili alla ancora “giovane età” della Political Economics (giustificazione che alcuni suoi esponenti avanzano quando non è possibile ricorrere ad altre difese ). Mentre l’approccio tradizionale aveva una “visione” necessariamente ottimista del ruolo pubblico,la maggioranza degli studiosi di Public Choice e di Political Economics ne condividono una pessimista, contrapposta a una grande fiducia (diversamente motivata nei due approcci) nelle capacità di autoregolazione dei mercati. La opposta valutazione del comportamento degli agenti pubblici affonda le radici in visioni più ampie della società. In una memorabile settimana di confronti avvenuti a Monaco di Baviera nel 1998, J. Buchanan e R. Musgrave hanno avuto modo di esplicitare questo tipo di divergenze.23 Sulle 23 J. Buchanan . e R. Musgrave (1999). 15 relazioni tra analisi economica e visione generale del funzionamento della società il primo conclude:” Observed opportunistic behavior, both in markets and in politics, suggest an absence of moral constraints”, ma ciò nonostante non bisogna essere pessimisti e il suo atteggiamento “remains meliorist in its claim that properly designed institutional-constitutional change can move behavior at least some direction toward the classical liberal set of minimum standards that seem necessary”.24 E Musgrave :” One of my themes has been that market, efficient and helpful as it is, does not itself constitutes a moral order. The vision of a moral order, based on self-interest only, is incongruous”25 ed egli preferisce una società “where individuals as citizens of their community share common obligations and do so on a daily base, including their conduct of the public sector”. E’ evidente che le diverse “lenti” indossate dagli economisti sia per spiegare le decisioni pubbliche sia per prescrivere politiche “migliori” sono modellate da convinzioni che non è possibile, in larga misura, sottoporre a verifica scientifica e la cui scelta non può che essere lasciata alla responsabilità e alla libertà di valutazione dello studioso. 24 25 Idem, pag 217. Idem, pag 232. 16 BIBLIOGRAFIA Acemoglu, Daron (2005), Constitutions, Politics, and Economics: A Review Essay on Persson and Tabellini’s the Economic Effects of Constitutions, Journal of Economic Literature, pp. 1025-1048. Akst, Daniel (2008),A che cosa servono le Fondazioni?, Queste Istituzioni,n. 148. Alesina, Alberto (1987), Macroeconomic Policy in a Two-Party System as a Repeated Game, The Quarterly Journal of Economics, pp. 651-678. 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