CON DIO O CONTRO DIO ( Un viaggio poetico ai confini dell’assurdo) Quel mattino lo svegliò il silenzio (Bolgare, 20 maggio 2010) Il delfino Dovunque balza il delfino (il mare gli appartiene tutto, dicono,dall’Oceano fino al Mediterraneo), vivo là vedi il guizzo di Dio che appare e scompare, in lui ilare acrobata dell’arguto rostro. E’ il giocoliere del nostro inquieto destino – l’emblema dell’Altro che cerchiamo con affanno, e che ( il delfino è allegro – è il gaio compagno d’ogni navigazione) si diverte ( ci esorta) a fondere la negazione (un tuffo subacqueo – un volo elegante e improvviso in un biancore di spume) col grido dell’affermazione. Poesia inedita di Giorgio Caproni del 21 settembre 1980, pubblicata da “L’Osservatore Romano” dopo la morte del poeta (1990). Di Dio non sappiamo nulla Di Dio non sappiamo nulla. Ma questo non sapere è un sapere di Dio. Come tale è l’inizio del nostro sapere di lui. L’inizio , non la fine. Noi non intendiamo percorrere questa via da un qualcosa di preesistente verso il nulla e al termine del quale ateismo e mistica possono stringersi la mano, ma vogliamo tenere il cammino opposto dal nulla a qualcosa. Franz Rosenzweig , La Stella della Redenzione , Casale Monferrato, Piemme, 1986, p.25. La città smarrita nella neve Quel mattino lo svegliò il silenzio. Marcovaldo si tirò su dal letto col senso di qualcosa di strano nell’aria. Non capiva che ora era,la luce tra le stecche delle persiane era diversa da quella di tutte le ore del giorno e della notte. Aperse la finestra : la città non c’era più , era stata sostituita da un foglio bianco. (…) - La neve! gridò Marcovaldo. (…) Andò al lavoro a piedi ; i tram erano fermi per la neve. Per strada , aprendosi lui stesso la sua pista , si sentì libero come non s’era mai sentito. Italo Calvino, Marcovaldo, Milano, Mondadori,1990,p.25. Restiamo in mezzo alle cose Il consenso al nulla dell’esistenza ci permette di godere ogni presenza che ci appare , e grazie a questo il nulla è progressivamente trasformato in un nulla sovrabbondante. Quello che era inizialmente vanità o vento ritrova la sua legittimità dal momento che lo riconosco nostro. Cosa importa se le cose sfuggono. Restiamo in mezzo alle cose. Jean Strarobinski, Il paradosso dell’apparenza, Bologna, Il Mulino, 1984, p.111. Il non so che e il quasi niente Simile in questo a Dio, il tempo , se è oggetto, non è che zero: se è qualche cosa,il quasi niente che il tempo in verità è, non è più niente ; non appena la riflessione vi si sofferma , per quanto lievemente, lo concettualizza e lo detemporalizza. Vladimir Jankelevitch , Il non so che e il quasi niente, Genova, Marietti, 1987, p. 52. Nel paesaggio cimiteriale del discorso su Dio emergono finalmente alcuni lampi di luce, forse un primo – timidissimo – tentativo di soluzione ( una soluzione poco risolutiva). Im – possibile trovare le parole. Ogni discorso su Dio ci porta in due direzioni opposte: una vera e propria moltiplicazione delle parole contro l’impossibilità delle parole stesse, il silenzio. Forse è l’immagine dell’attesa quella che meglio condensa e sintetizza questa situazione di dis – equilibrio. “ E un di lor che sembrava lasso , sedeva e abbracciava le ginocchia , tenendo ‘l viso giù tra esse basso” ( Purgatorio, Canto IV,6 – 8 ): Belacqua è lì fermo, ai margini del silenzio , con la testa raccolta in mezzo alle gambe, la sua è un’attesa consapevole e sofferta. Il suo è un silenzio – in – movimento: “ O frate, andar in sù che porta?” (Purgatorio , Canto IV, 127). Il silenzio abbraccia il dubbio. Se scendiamo all’ Inferno (Inferno, Canto XIV , 94 -120 ), l’umanità intera piange: il silenzio e l’attesa trovano la loro espressione nelle lacrime. Anche Lucifero piange ( Inferno, Canto XXXIV, 53 – 54 ). Molloy ( Samuel Beckett ) è un vecchio privo di entrambe le gambe. Si trova nella casa materna. La madre è morta. Molloy ritorna nella casa materna , nessuno sa che lui si trova in quel luogo. Vuole solamente immergersi nella scrittura. Nel raccontare sta l’unica possibilità di essere vivo e di tener vivo qualcuno. Scrivere è anche un modo per tener viva sua madre. Molloy come Belacqua. Molloy s’incolla alla finestra per catturare le storie di coloro che camminano in strada , è un silenzioso osservatore, si diverte a immaginare. Molloy guarda e divaga , dice palesi falsità , a tratti perde la memoria , ma la cosa non ha importanza. L’importante è raccontare. L’importante è non smettere di parlare sopra il silenzio, addosso al silenzio. Molloy s’appoggia al davanzale : dice di vedere due persone che si muovono lentamente nella medesima direzione. Non hanno coscienza del fatto. Non si conoscono , ma si stanno dirigendo verso lo stesso punto. L’unica cosa che percepiscono, dice Molloy, è di essere osservati dall’alto. Sentirsi osservati dall’alto, niente di più. Dove si incontreranno le due misteriose persone pur non conoscendosi? “ Ma venne il momento in cui entrambi scesero verso la medesima cavità ed è in quella cavità che alla fine si incontrarono”. ( Samuel Beckett, Molloy, Torino , Einaudi , 2005 ) Ci incontriamo nelle cavità. E lì dentro siamo osservati, dall’alto. Nelle cavità dobbiamo decidere chi essere, dobbiamo decidere lo stile. Una volta giunti in fondo al burrone, stritolati dalla priorità del male e della morte , e illusi della possibilità di un bene assoluto, dobbiamo prendere una decisione. Le possibilità sono molte, le posture infinite, infinite le etiche possibili, infiniti gli stili. Marcovaldo apre lui stesso la sua pista: si prende la libertà di tracciare un solco. Marcovaldo crede nel mondo nonostante tutto : credere nel mondo, non tanto credere in Dio, è ciò che più ci manca. Monte Orfano, 19 maggio 2010 Giacomo Paris