2 Novembre 2013
SALUTE
MILANO FINANZA
Personal
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Test
T
e ematici, farmaci e nuove tecniche indagano su Alzheimer e Parkinson
Più luce sul cervello
oggi in Italia circa 300 mila persone.
Uno studio statunitense ha di recente
individuato la presenza di alfasinucleina
nella mucosa del colon di pazienti parkinsoniani in fase iniziale che si erano
sottoposti a un esame di colonscopia per
altri motivi. Questa proteina è presente
in misura anomala anche nel cervello dei
pazienti parkinsoniani e la scoperta, se
confermata da altri studi, potrebbe suggerire l’utilizzo della colonscopia come
strumento per una diagnosi precoce. «La
Gait analysis, o analisi computerizzata
del movimento, generalmente utilizzata
per lo studio del cammino, è invece una
tecnica applicabile anche alla valutazione della scrittura e delle sue eventuali
alterazioni che costituiscono uno dei
primi sintomi della malattia», afferma
Fabrizio Stocchi, direttore del centro di
ricerca sul Parkinson dell’Irccs San Raffaele Pisana di Roma. Poiché tuttavia il
Parkinson esordisce monolateralmente,
questa indagine diventa rilevante solo
se la malattia inizia dal lato dominante
della mano utilizzata per scrivere.
di Elena Correggia
T
est e tecnologie innovative ma
anche nuove molecole e indagini per una diagnosi e una cura
il più precoci possibili. Questa
l’avanguardia per contrastare malattie
neurodegenerative quali il Parkinson e
l’Alzheimer, che causano gravi disabilità
e importanti costi economici e sociali. Un
nuovo approccio all’Alzheimer è stato
offerto dai ricercatori dell’associazione
Fatebenefratelli per la ricerca, guidati
da Rosanna Squitti. Il gruppo ha messo
in luce l’esistenza di una relazione tra
il declino cognitivo e la presenza di alti
livelli di rame «libero» nel sangue, ovvero
di quella parte del rame non legato alla
proteina (ceruloplasmina) che lo trasporta in circolo contribuendo poi alla sua
eliminazione.
Nuovi studi sul rame libero. «Il rame libero è costituito da una molecola
molto piccola che riesce a passare la
barriera mesoencefalica», spiega Paolo Maria Rossini, direttore di Clinica
neurologica all’Università Cattolica di
Roma, «e rappresenta un fattore nella
disfunzione delle sinapsi, il primo punto
di attacco della malattia. Studi americani hanno confermato questa relazione
aggiungendo il fatto che il rame libero
depositato nelle arterie, sulla corteccia
cerebrale, blocca la funzione della proteina destinata a smaltire l’eccesso di
beta amiloide, il cui accumulo è ritenuto
rilevante marcatore della patologia».
Il metodo di Squitti è stato di recente
trasformato dalla società Canox4drug
nel test clinico C4D. Dopo un prelievo
ematico il sangue è analizzato attraverso una sonda chimica fluorescente
che emette segnali: il cambiamento di
emissione è proporzionale alla quantità
di rame libero presente nel campione.
«Questo fattore di rischio è modificabile»,
prosegue Rossini. «È infatti possibile
intervenire per abbassare il livello di
rame con una dieta e integratori adeguati. Ai soggetti che, pur assumendo una
quantità limitata di rame nella dieta,
hanno un profilo genetico che non aiuta
a metabolizzare la sostanza, sono somministrabili i chelanti, componenti in grado
di legarsi al rame libero e di facilitarne
l’eliminazione dall’organismo». Il test
C4D è disponibile al Policlinico Gemelli
di Roma e sarà presto presente in altri
centri. L’esame è indicato soprattutto
per i malati in fase non avanzata e per
i soggetti pre-sintomatici che sulla base
dei test neuropsicologici presentano alto
rischio di sviluppare la malattia nei
successivi cinque-sei anni.
L’enzima che protegge i neuroni.
Durante il congresso della Società italiana di farmacologia, svoltosi nei giorni
scorsi a Torino, è stata presentata una
ricerca che ha scoperto il ruolo protettivo
di un enzima nei confronti dei neuroni.
«Abbiamo descritto i meccanismi che
regolano l’attività dell’enzima Adam 10,
responsabile del metabolismo fisiologico
della proteina precursore della beta
amiloide, sostanza coinvolta nella morte
neuronale», spiega Monica Di Luca, del
dipartimento di scienze farmacologiche e
biomolecolari dell’Università di Milano.
In particolare, sono stati identificati
i meccanismi che trasportano questo
enzima a livello della membrana delle
sinapsi eccitatorie, la prima regione colpita dalla malattia. L’obiettivo è quello
di riuscire a stabilizzare Adam 10 nel
contatto sinaptico affinché la proteina
precursore della beta amiloide sia metabolizzata in modo fisiologico e non
patologico e si possa così prevenire la
produzione di beta amiloide e la degenerazione cellulare. «Nella valutazione
della sintomatologia clinica, oltre al
malfunzionamento della memoria è
importante verificare gli altri disturbi
cognitivi che si manifestano dopo i 60
anni e che richiedono di approfondire il
quadro», spiega Carlo Caltagirone, professore di neurologia all’Università Tor
Vergata di Roma, presente al congresso
della Società italiana di neurologia in
corso a Milano fino al 4 novembre. «Le
valutazioni neurocognitive permettono
di appurare i disturbi del linguaggio,
delle capacità deduttive, esecutive, di
orientamento spazio temporale. Inoltre,
il verificarsi di un comportamento nuovo
rispetto al passato rende opportuna anche una valutazione psicologica. Questi
aspetti sono poi integrati per la diagnosi
dagli esiti documentali emergenti dalle
indagini di neuroimaging». Diagnosticare precocemente la patologia rimane un
obiettivo primario anche nell’approccio
alla malattia di Parkinson, che colpisce
I farmaci all’orizzonte. «Al San Raffaele abbiamo preso parte a uno studio
multicentrico internazionale, da poco
concluso con successo, di una nuova
formulazione di levodopa, trattamento
farmacologico di elezione per la cura del
Parkinson», prosegue Stocchi, «essa ha
già ottenuto l’approvazione della Fda e
consente una somministrazione meno
frequente del farmaco, pari a tre volte
al giorno». Nel 2015 è inoltre atteso il
lancio di safinamide, una molecola che ha
dimostrato di migliorare le performance
dei pazienti con fasi alterne di mobilità
e immobilità e di controllare anche i
movimenti involontari. Dal congresso
della Società di neurologia emerge anche
l’ipotesi del coinvolgimento di nuove aree
cerebrali all’origine del Parkinson, oltre
ai gangli della base. «Poiché il cervello
non è a compartimenti stagni potrebbero
esistere disfunzioni di connessioni più
ampie, che interessano anche il cervelletto, centro responsabile del coordinamento del movimento», spiega Alfredo
Berardelli, professore di neurologia
all’Università La Sapienza di Roma, «ora
è necessario approfondire questi studi
per capire se, agendo a livello del cervelletto, sia quindi possibile controllare
meglio alcuni sintomi come il tremore».
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