Interviste 21/4/1988
Emilio Lledó
ORIGINE DEI CONCETTI DI FELICITÀ E DI UOMO POLITICO
1. Professor Lledó, ritiene sia necessario, per meglio comprendre la filosofia in
generale, e la filosofia dell'antica Grecia in particolare, studiare in maniera
approfondita la terminologia filosofica greca antica?
Il problema è molto interessante, perché in effetti il pensiero greco è all'origine del pensiero
occidentale, e il lessico filosofico dei Greci ha influito in modo decisivo sullo sviluppo del
vocabolario filosofico posteriore. Tuttavia, questo vocabolario astratto della filosofia ha avuto
origine in momenti determinati e concreti della storia della società greca. Qualsiasi evoluzione,
qualsiasi sviluppo posteriore di questi concetti è sempre stato influenzato e condizionato
dall'origine concreta, e dalla società che li ha inventati, scoperti e studiati.
Ora, il vocabolario astratto, filosofico dei Greci era radicato e trovava alimento nei bisogni di
una società determinata e concreta. Per questo motivo credo sia molto importante studiare la
terminologia filosofica dei Greci a partire dal momento in cui tale terminologia costituiva
ancora un linguaggio vivo, ed era diretta espressione dei bisogni concreti di una società che
cercava di instaurare un rapporto concettuale con il mondo, per dominarlo e renderlo
comunicabile. Infatti le parole greche classiche, i termini chiave della cultura filosofica greca,
hanno avuto un'evoluzione nel corso della quale ci si è dimenticati della loro vera origine, viva
e reale.
2. Quando si parla della lingua greca antica ci si riferisce a essa come a una lingua
morta. Ma non è vero forse che gran parte, non solo delle parole, ma anche dei
concetti delle lingue moderne, è fortemente condizionata dai concetti e dai termini
della lingua greca?
Effettivamente molti dei concetti moderni sono condizionati da termini filosofici Greci antichi,
ma è proprio questo condizionamento che rende così importante ripensare questi termini,
riacquisirli all'interno delle nostre lingue a partire dalle prospettive della modernità, e vedere
se tale terminologia filosofica pulsa, vive, ha ancora senso in quell'uso quotidiano così confuso,
contraddittorio e problematico che se ne fa all'interno della nostra società.
Pertanto, quando si pensa a molti dei termini chiave della cultura filosofica greca, non bisogna
farlo con un approccio archeologico, come se si trattasse di parole che esprimono
esclusivamente concetti relativi a spazi e ambiti culturali lontani. Occorre invece accostarsi a
questi termini come a parole che posseggono, per così dire, vita linguistica, e che hanno una
eco, che possono dialogare con i bisogni, con i problemi e con i comportamenti della nostra
vita e della nostra contemporaneità.
3. Che cosa vuol dire esattamente il termine greco eudaimonia?
Il termine eudaimonia si potrebbe tradurre, con una certa approssimazione, con la parola
«felicità». Tuttavia il campo semantico di tale termine è molto più ampio. Esso è molto
importante, per varie ragioni. La prima di queste è legata al fatto che all'inizio dell'Etica
Nicomachea di Aristotele, quello che forse è il primo grande libro sull'etica greca, sulla
struttura del comportamento umano, si dice che la natura stessa degli esseri umani porta
questi a cercare il bene, a cercare ciò che a loro è utile, e che non distrugge la loro personalità,
bensì la arricchisce, e le consente di svilupparsi, di continuare a vivere, di permanere
nell'essere. Da principio dunque, prima di acquisire un senso filosofo più tecnico, più
complesso, la parola «bene» ha avuto un significato semplice, elementare. All'inizio dell'Etica
Nicomachea, Aristotele, poco dopo aver affermato che il bene è ciò che tutti gli uomini
perseguono, afferma che quando si persegue il bene e ciò che questa parola indica, si
persegue, nello stesso tempo, la felicità, la eudaimonia.
La parola «eudaimonia» è composta da due termini. Il primo è «eu», che vuol dire bene,
buono, in modo buono. L'altro è «daimon», che significa demonio, o meglio un piccolo dio, un
dio particolare. Il termine non si riferisce dunque alla possibilità dell'essere umano di
conseguire la propria felicità, bensì a ciò che gli dèi possono accordare.
In un altro luogo dell'Etica Nicomachea Aristotele cita un brano della tragedia greca in cui si
afferma che chi ha un buon «daimon» non ha bisogno di amici. Sembrerebbe dunque che, in
un primo momento, la felicità fosse considerata come indipendente dalla volontà dell'uomo e
legata ad altre forze, ad altri esseri, misteriosi personaggi che, gratuitamente e liberamente,
ad alcuni concedevano beni, e ad altri li negavano. È chiaro che questa prima idea di felicità
derivava da una concezione, o meglio da un'ideologia, legata alla constatazione che c'era chi
aveva molto e c'era chi aveva poco. Il mondo era avaro, la vita era povera o, per meglio dire, i
beni erano scarsi, e tale arbitrarietà nella ripartizione dei beni che agevolano la vita dovette
sbigottire certamente i Greci, prima che sorgesse una teoria, una filosofia della felicità.
Questa idea di «eudaimonia», ha conosciuto tuttavia un'evoluzione durante il corso della storia
della filosofia greca, fino a divenire qualcosa di conseguibile, dipendente dalle energie e dalle
possibilità umane. Di conseguenza l'eudaimonia, la felicità, ha smesso di essere uno stato
passivo, di esclusivo godimento corporale, e ha cominciato a essere considerata come un
processo, una lotta, una tensione, un percorso, un progresso verso una struttura di
adeguamento dell'io, della persona, del soggetto, al mondo circostante. Intesa in questo
senso, l'eudaimonia può essere vista come un processo democratico - come è possibile
constatare nella storia della filosofia greca - collegandosi essa con l'evoluzione di una società in
cui ormai non si dipendeva più da quanto gli dèi concedevano arbitrariamente.
L'eudaimonia entra così in rapporto con le possibilità offerte da una società nella quale tutti gli
elementi che la compongono collaborano a un progetto comune. La felicità dell'individuo, del
soggetto, si trova perciò a essere condizionata e determinata dalla felicità altrui. La parola
eudaimonia è in effetti una parola-chiave perché corrisponde ai bisogni individuali e collettivi
legati a quel «bene comune» che pone gli uomini in tensione reciproca e che tutti cercano per
la propria soddisfazione, come rapporto con il mondo attraverso il proprio io.
4. Che rapporto sussiste la parola «to agathon», il bene, e l'«eudaimonia», la
felicità? Oggi vengono ancora usati in maniera corretta?
Il termine bene prima di diventare un concetto astratto dell'etica e della teoria politica indicava
qualcosa di utile alla società della quale l'individuo faceva parte. Il bene era qualcosa che si
faceva in rapporto ad altri, e mediante questo fare, si trasmetteva una certa forma di utilità.
All'inizio il bene era dunque collegato con il sentimento o, per meglio dire, con l'idea di utilità
collettiva, sociale, familiare. I due termini «eudaimonia» e «bene» sono quindi uniti da una
lunga storia, che poi diventerà la storia di due concetti fondamentali della teoria e della
filosofia etica.
Tuttavia occorre ricordare che questi concetti, così importanti per la mentalità degli uomini, per
il loro modo di capire e di interpretare il mondo, erano radicati nella nella vita e nei bisogni di
questi. Io ritengo che in un mondo come il nostro, cosi dominato dai mezzi di informazione dominio che non possiamo evitare, e che della nostra società è parte, se non necessaria,
quantomeno costitutiva - sia importante che i termini non si logorino. Poiché li ripetiamo e li
utilizziamo tanto, la ricerca della loro origine, del loro sangue, della loro carne, della loro linfa,
potrebbe costituire un elemento importante per volgerci di nuovo verso noi stessi, per
ricominciare a pensare il nostro linguaggio, ormai lucidato, levigato, prosciugato e smerigliato.
I termini del nostro linguaggio sono infatti così inamidati che ci scivoliamo sopra e non
riusciamo a vedere quel mare profondo, pulsante di vita, che sta nascosto sotto a essi.
Mi è capitato a volte di pensare che in molti manuali, in molti libri di filosofia - senza nulla
togliere all'importanza di tali opere - è come se il mare della storia si fosse cristallizzato. È
come se, a causa dell'uso così frequente e così spesso triviale dei concetti filosofici, il mare
della storia si fosse congelato, e noi vi pattinassimo e scivolassimo sopra, sfruttandolo,
umiliandolo; dimenticando così che questo enorme mare è vivo e pieno di pesci, ovvero è
pieno di problemi attuali, e che è lo stesso mare sulla cui riva stavano i Greci. Noi stiamo sulla
riva opposta, ma il mare è lo stesso, l'acqua è la stessa, e persino i pesci sono gli stessi.
5 Qual è il rapporto tra lo zoon politikon), l'uomo sociale e la polis?
L'espressione greca «techne politiche» indica la politica, la teoria della polis, e la polis era, per
i Greci, uno spazio reale, un luogo, un «topos», una realtà nella quale si viveva e si esisteva.
Ma, oltre a esprimere questo concetto di realtà storica, fisica, nella quale si abitava, polis
significava anche reticolo, indicava cioè un sistema di relazioni fra gli uomini, una forma di
organizzazione della vita delle persone, degli individui che risiedevano in un determinato
territorio.
Non è strano quindi che Aristotele abbia definito l'uomo in modo così radicale e deciso: animale
politico. Un animale esattamente uguale a tutti gli altri, e che come essi respira, digerisce,
vede, sente. Ma con una differenza essenziale: ovvero deve vivere insieme ad altri, in
comunità. È vero che ci sono altri animali - e Aristotele lo rammenta nel medesimo contesto
della Politica - che vivono in comunità, ma, sempre secondo Aristotele, il modo di vivere in
comunità di questi animali è un modo gregario, mentre l'uomo non vive gregariamente in una
comunità, ma costruisce un suo sistema di relazioni per rivolgersi agli altri, per organizzare
gerarchicamente o pariteticamente i suoi rapporti con gli altri.
Per questo è importante ricordare che Aristotele, nella stessa pagina in cui definisce l'uomo
come animale politico, lo definisce anche come zwon logon ecwn (zoon logon echon), che
letteralmente significa: «animale dotato di parola», o per meglio dire: «animale dotato di
logos». È singolare che questa definizione aristotelica dell'uomo abbia dato origine all'altra
famosa definizione secondo la quale «l'uomo è un animale razionale». Non era infatti questo
ciò che Aristotele intendeva. Egli voleva dire soltanto che l'uomo è un essere che parla, che
muove la lingua, e muovendola produce dei suoni semantici che creano comunità, che creano
polis, ovvero uno spazio collettivo. Dunque è interessante osservare che entrambe le grandi
definizioni aristoteliche dell'uomo - animale politico e animale dotato di logos - sono unite,
poiché la politica e il possesso del logos si necessitano reciprocamente. Non esisterebbe
politica, non esisterebbe reticolo collettivo, uno spazio di intelligenza collettiva, né gli uomini
potrebbero vivere in società, in modo comunitario, se non parlassero o, per meglio dire, se non
comunicassero fra loro. Questo è vero anche in una società come la nostra.
Io credo che se Aristotele, o una mente dotata di capacità sintetiche e analitiche come quella di
Aristotele, potesse vivere oggi, rimarrebbe stupito nel rendersi conto di come l'uomo, oltre a
essere un animale politico, un animale che ha bisogno di strutturarsi e di vivere in modo
strutturato, è essenzialmente un animale dotato di logos, un animale che comunica. Oggi
infatti l'affermazione dei mezzi di comunicazione di massa, costituisce la conferma definitiva
del logos aristotelico.
6. Non c'è il rischio che lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa
impoveriscano il linguaggio?
Mai come oggi l'uomo ha avuto tanti mezzi di comunicazione, e tante possibilità per essere in
contatto con gli altri. Ma nonostante l'immensa quantità dei mezzi e delle possibilità di
comunicazione, l'uomo è più solitario, più indifeso, più scoraggiato e disperato che mai.
Ritengo che i filosofi, e in generale ogni persona cosciente dello stato attuale del mondo
dovrebbero affrontare questo problema così importante, doloroso e difficile. In quanto la
povertà di ciò che viene comunicato, la mancanza di riflessione su ciò che viene comunicato,
rischia di modificare la vita mentale degli uomini, e condizionare i rapporti umani.
La filosofia, infatti, ha sempre rappresentato una coscienza critica all'interno della storia, una
riflessione sulla vita, sui problemi concreti degli uomini. In ogni epoca, il pensiero filosofico è
sorto dal rapporto dell'uomo con il suo mondo, e non c'è nulla di più sbagliato dell'idea che il
filosofo sia un personaggio immerso in un mondo di idee che nessuno comprende, un mondo di
problemi che non interessano a nessuno. Qualsiasi pensiero filosofico, qualsiasi questione
filosofica è sorta in rapporto con il reale, con gli uomini.
Molti sono gli esempi che potremmo riportare di filosofi che si sono posti come coscienza critica
del loro tempo. Basti pensare a quel famoso testo di Epicuro, dove si legge che sarebbe cattiva
la filosofia che non servisse per curare alcune malattie degli uomini. È chiaro che oggi le
malattie degli uomini si curano con la medicina e non con la filosofia. Ma la scienza dovrebbe
basarsi su un sostrato che, in qualche modo, si pone i problemi filosofici dell'umanesimo. È
vero che la parola «umanesimo» è molto decaduta e corrotta. Ma l'ideale dell'umanesimo, oggi
più che mai, andrebbe resuscitato. Ovviamente sapendo riconoscere un utilizzo della parola
«umanesimo» teso a trasmettere qualcosa di ingannevole, o a dissimulare i veri problemi, o a
offrire una sorta di lenitivo per attenuare i problemi fondamentali del nostro tempo.
7. La polis greca, intesa come relazione fondamentale fra gli uomini che vivono in
comunità, al di là della famiglia e dei legami della vita contadina, non ha forse
favorito la nascita di una terminologia politica in uso ancora oggi?
La polis ha certamente avuto una storia determinata, condizionata dall'evoluzione stessa della
società greca; non è un caso che la struttura della polis, quale organismo al cui interno gli
uomini potessero convivere, è qualcosa di molto diverso dalle strutture collettive all'interno
delle quali altre culture, altre civiltà, hanno vissuto. I Greci, poi, hanno creato il vocabolario
politico. Infatti, sia nella Repubblica di Platone, sia nella Politica di Aristotele, si parla sia di
regimi politici, sia del modo in cui, dentro la polis, era possibile raggiungere la felicità e il bene
dell'uomo. Per questo i Greci hanno espresso in termini specifici le forme di organizzazione
della vita all'interno della polis, creando parole come aristocrazia, democrazia, oligarchia,
timocrazia, tirannia. Questi termini, corrispondevano a modelli secondo i quali si viveva e si
organizzava la città, della quale entravano a far parte classi diverse, interessi diversi, tensioni
diverse, ricchezze diverse, livelli di cultura diversi.
È molto interessante, poi, che queste parole costituiscono il vocabolario più vivo e più reale
della cultura politica contemporanea. Aristocrazia, oligarchia, tirannia non sono termini
pertinenti esclusivamente all'archeologia della storia greca. Oggi infatti esistono tirannie,
oligarchie, aristocrazie, democrazie, demagogie, anche se non certo uguali a quelle dei Greci.
Tuttavia attraverso i mezzi di comunicazione di massa, con la finzione, la menzogna, col non
ricercare la verità, è possibile creare false democrazie, false aristocrazie, false oligarchie e
false tirannie. Infatti, una delle cose più interessanti della cultura greca, e che dai Greci
abbiamo avuto in eredità, è l'idea di «bene apparente», che Aristotele analizza concretamente
nell'Etica Nicomachea e in altre sue pagine. Si tratta della scoperta che, insieme al
perseguimento del bene in quanto tale, è possibile perseguire un bene apparente, un bene che
può non essere altro che una proiezione dei nostri desideri, dei nostri interessi.
Naturalmente l'idea di «bene apparente» - (phainomenon agathon), il bene fenomenicoaveva un ulteriore aspetto filosofico che concerneva quello spazio esistente fra l'idea del bene,
e la soggettività e il mondo storico nel quale questo bene apparente si situava.
8. Nel mondo contadino arcaico la tribù, la famiglia, era la struttura fondamentale
della società. In questa dimensione era difficile che si sviluppasse un concetto di
individualità, che l'uomo si sentisse diverso dagli altri e, contemporaneamente,
insieme agli altri. Non è dunque con la polis che si creano le premesse per lo sviluppi
dell'io, dell'individualità?
Per i Greci, come probabilmente per molte altre culture, il clan familiare, il vincolo di sangue, è
stato il primo fattore di legame; in altre parole, gli uomini si sono sentiti parte di uno spazio
collettivo a partire dal clan familiare. A questo proposito è interessante rilevare che le parole
greche «philos» e «philia» - amico e amicizia - in origine erano legate alla consanguineità. La
parola «philia» nei primi testi dove appare, indicava infatti il vincolo che univa coloro che
avevano lo stesso sangue, che avevano gli stessi progenitori, e che, dunque, appartenevano
allo stesso clan familiare.
Successivamente la parola «philia» si è evoluta e ha cominciato a indicare un vincolo che univa
persone che non avevano niente in comune dal punto di vista della consanguineità. Questa
evoluzione è collegata con lo sviluppo della democrazia che si verificò in Grecia nel V secolo
a.C.. Con l'avvento della democrazia, del demos, del popolo, con l'avvento della coscienza che
la verità non era più appannaggio esclusivo di una dominante classe superiore; con l'avvento
della coscienza che il linguaggio non era solo linguaggio del potere, e che le parole si potevano
discutere e analizzare, si verificò un mutamento nel concetto di individuo e di individualità.
Ciò avvenne anche grazie all'impulso dato dai sofisti, che indubbiamente furono dei
rivoluzionari nel senso più creativo della parola. I sofisti infatti spezzarono lo schema
autoritario della parola del potere, che l'uomo greco ascoltava e assumeva passivamente. Dal
momento, quindi, in cui la verità, la «aletheia», si poté discutere, dal momento in cui non fu
più necessario accettare il discorso del potere e accettare la parola dell'altro perché
gerarchicamente posto al di sopra; dal momento in cui, con i sofisti e con la discussione
nell'agorà, nella società greca si compì questa rottura, l'uomo non solo scoprì un nuovo
concetto di verità, ma, nel contempo, scoprì la sua intimità, scoprì se stesso, e comprese che il
suo io poteva chiedere al linguaggio che cosa è la virtù.
9. Il fatto che Platone scrivesse dialoghi, non potrebbe essere un sintomo della
scoperta delle diverse soggettività?
Nei suoi primi dialoghi, Platone, dando spazio ai problemi della sofistica, fece in modo che la
gente parlasse, dialogasse così che la sua opera filosofica è un'opera dialogica. In realtà, i
dialoghi di Platone sono stati il primo grande blocco della cultura filosofica. Prima di lui, infatti,
ci sono stati i filosofi presocratici, le cui opere, i cui ipotetici scritti, non sono giunti fino a noi,
se non in frammenti. Pertanto il primo grande blocco di opere filosofiche, la prima grande voce
che, quantitativamente, si è espressa con abbondanza, è la voce platonica.
Tuttavia la voce platonica è una voce spezzata, incrinata da quella di centinaia di interlocutori
dei dialoghi, che propongono la loro verità, che manifestano le loro idee, le loro prospettive, i
loro punti di vista rispetto alla realtà. Platone dunque scrivendo dialoghi, espose un logos
spezzato, e, in fondo, questo rappresentava anche la scoperta della soggettività, la scoperta
dell'individualità.
Mai la filosofia è tornata a esprimersi in questo modo. È ben vero che Galileo ha scritto dei
dialoghi, e che gli empiristi inglesi hanno espresso le loro idee in forma di dialogo, ma si tratta
di un altro tipo di dialogo, dove l'interlocutore si produce in un lungo, immenso monologo. I
dialoghi di Platone invece, soprattutto quelli della prima fase e della maturità, hanno altre
caratteristiche: i personaggi che parlano sono individui, non meri nomi, etichette, che
sciorinano un discorso tecnico, scientifico o ideologico, interessante ma monologico. I
protagonisti dei dialoghi platonici, invece, in un incrociarsi di sistemi, o meglio di prospettive,
di passioni, di interessi, esprimono la loro concreta e singolare individualità.
Ciò costituisce qualcosa di molto importante, soprattutto se si pensa al mondo contemporaneo.
Infatti riflettendo sui dialoghi platonici - su quel dialogo continuo, quella ripartizione dei
concetti a varie voci - si scopre la necessità di non assumere ciò che proviene dall'esterno
passivamente, ma di rimetterlo in questione, discuterlo e offrirlo all'altro affinché manifesti il
suo assenso o il suo dissenso, attraverso un logos che è vita, un logos che è «dia-logo», un
logos che circola, che non ristagna negli angusti spazi del potere, dei mezzi che controllano,
distribuiscono e amministrano il linguaggio.
10 Qual è l'origine e il significato della parola filosofia?
L'uomo è un animale che parla, che si esprime, che ha bisogno di pronunciare la sua lezione, di
cantare la sua canzone, o, in altre parole, è un animale che ha bisogno di manifestare il suo
essere all'altro. Ma oltre al legame fra gli uomini rappresentato dal logos, esiste una forma di
legame non ascrivibile al mondo astratto dei significati, e che si riferisce invece all'affettività.
L'uomo è un essere che si apre agli altri, che ama, secondo una necessità naturale. Tale
necessità è riscontrabile già nel rapporto madre-figlio, dove la madre ama il figlio, si dedica a
lui, e il figlio, per ragioni magari diverse, è aperto nei confronti della madre.
Questa apertura verso gli altri, questo uscire da sé, i Greci lo definirono con il termine «philia».
L'uomo, infatti, non può stare rinchiuso in se stesso, non è assolutamente un monticolo di
solitudine, in quanto è un essere naturalmente aperto. E il vincolo corrispondente a questa
natura aperta è un vincolo affettivo, un vincolo di amore per l'altro, che porta a voler realizzare
il proprio essere riconoscendosi nell'altro e volendo che l'altro ci riconosca.
Ma, indipendentemente da queste, che potrebbero sembrare elucubrazioni psicologiche o
metafisiche, in effetti, è singolare che la parola filosofia sia composta da due termini:«philia»,
e «sophia». Ma non è del tutto esatto tradurre sojia con la parola sapienza, tradurre philia con
la parola amore, e quindi il termine filosofia come «amore per la sapienza». Questo perché
philia non significa soltanto amore, né sophia soltanto sapienza. Filia significa tendenza,
proiezione, relazione, e anche possibilità che gli altri, che sono oggetto della nostra ricerca,
rispondano agli interrogativi che poniamo loro. E sophia significa per i Greci il saper fare
qualcosa, avere contatto con il mondo.
Il «sophos »era colui che sapeva fare qualcosa: una nave, una lira, un'anfora. La sapienza non
è infatti nata come speculazione astratta: all'inizio i sapienti non erano soltanto coloro che
sapevano pronunciare un discorso sulla vita e che potevano orientare l'uomo in essa. I
sapienti, «oi sophoi», erano in primo luogo «coloro che sapevano», i tecnici: quelli che
sapevano fare qualcosa con le mani. E come avrebbe potuto fin dal principio la parola sapienza
significare una cosa astratta? La prima cosa che gli uomini fecero fu manipolare il mondo,
toccarlo con le mani, trasformarlo. E dunque, prima del sophos inteso come colui che ha la
sapienza, c'era il sapiente inteso come colui che sapeva modificare il mondo.
Di conseguenza nella parola filosofia è senza dubbio presente l'aspirazione a un sapere che
interpreti il reale. Ma tale termine - che appare per la prima volta in un famoso frammento di
Eraclito, dove si dice che gli uomini filosofi è opportuno sappiano molte cose, che siano al
corrente di molte cose, che siano «istores»-, all'inizio, indicava il rapporto di conoscenza, di
interpretazione e di valutazione dell'uomo nei confronti delle cose. Vale a dire, l'apertura
dell'uomo verso le cose per utilizzarle e in qualche modo dominarle. Naturalmente la parola
filosofia ha avuto una sua evoluzione, ma, a mio parere, ciò che la caratterizza è legato a
questo significato primario di tendenza e di apertura verso la conoscenza, di ricerca della
conoscenza.
11. Qual è il contributo fondamentale che la sofistica apportò alla cultura greca?
La ridicolizzazione dei sofisti da parte di Platone, il quale, nonostante il rispetto comunque
presente nei suoi dialoghi, come nel Protagora e nel Gorgia, presenta la sofistica come una
forma di pensiero ingannatoria, che ribalta le cose mettendo sopra quel che sta sotto, è una
presentazione parziale, una deformazione. Tuttavia si tratta di una deformazione interessante,
perché consente di vedere la sofistica a partire dalla prospettiva platonica, ovvero, da una
prospettiva aristocratica. Ma, per quel che si può capirne leggendo Senofonte e Platone, i quali
offrono versioni non del tutto coincidenti sulla sofistica, i sofisti non furono solo dei tecnici,
anche se si racconta che alcuni di loro si fabbricavano le scarpe o i vestiti.
A ogni modo c'è invece un punto sul quale Senofonte e Platone concordano, ed è quello che
riguarda la critica del linguaggio realizzata dai sofisti, il suo ripensamento costante, la revisione
di concetti già in parte anchilosati, disseccati. Perciò i sofisti sono stati, nell'ambito della
comunicazione intellettuale, dei rivoluzionari.
Certamente il verbo da cui proviene la parola sofista significa all'incirca «rigirare
eccessivamente le cose», e certamente i sofisti hanno talvolta passato la misura, soprattutto
quelli appartenenti alla seconda sofistica. Ma, ciononostante, mi pare che la critica di Platone ai
sofisti sia, in un certo senso, esagerata, e oserei dire anche in qualche modo ingiusta. Perché
pur con tutte le esagerazioni che si possono attribuire ai sofisti, pur col cattivo uso che
possono aver fatto della revisione dei concetti, a loro dovremo sempre l'aver dinamizzato i
concetti, l'averli fatti fluire, o, come direbbe il poeta Alberti, l'aver «reso l'anima navigabile»,
resi navigabili i concetti.
C'è poi un'altra parola-chiave della cultura greca, paideia (paideia) o educazione, che i sofisti
rimisero sul tappeto, riportarono in piena luce, e sulla quale insistettero. L'uomo è oggetto di
educazione: l'animale che parla, attraverso il linguaggio può arricchirsi, svilupparsi, crearsi. Ed
è chiaro che questa creazione, questo sviluppo, questo arricchimento, sono connessi al
rapporto con gli altri individui che costituiscono una comunità. Va rilevato che la democrazia
funziona o può funzionare perfettamente, con la massima perfezione possibile, solo quando
esiste educazione, quando esiste paideia. È interessante constatare che il popolo greco, che ha
inventato la democrazia, definì la paideia, l'educazione, come quel fenomeno parallelo che
consente alla democrazia di consolidarsi e di crescere.
Ritengo che il rapporto fra democrazia e educazione sia uno dei problemi della società
contemporanea. E, pur non volendo fare il profeta, credo che la democrazia sia condannata al
fallimento se non verrà fecondata con l'educazione, con la paideia. Una democrazia con una
cattiva educazione, una democrazia «deformante», una democrazia dove si coltivi la
menzogna, è una democrazia condannata, senza futuro, nata morta, senza possibilità di
crescita.
12. In Italia il ministero che presiede alla scuola si chiama Ministero della Pubblica
Istruzione. La parola educazione è stata eliminata, anche formalmente, dal rapporto
con la scuola, e quindi con la formazione sociale e culturale del cittadino. Non ritiene
che sia pericoloso per la democrazia quando che l'educazione venga ridotta al
semplice rango di istruzione e di informazione?
Io credo che nel mondo dell'informazione, nel mondo dell'informatica che oggi ci domina,
sussista il pericolo di trasformare il sapere, la conoscenza, in mera informazione. Eppure, ciò
che caratterizza l'uomo non è tanto il sapere, la quantità di informazioni di cui può disporre - a
questo scopo esistono già, appunto, i cervelli elettronici, i computer - quanto la capacità di
pensare, di rinnovare il suo sapere, di rivederlo, di ricrearlo. E in una cultura come la nostra,
trasformare l'educazione in istruzione significa trasformare gli individui in monticoli, in piccoli
nuclei di piccoli saperi assolutamente parziali, senza collegamento con gli altri saperi, con i
saperi della realtà totale.
Se continuiamo così, temo che la parola educazione si cristallizzi, si solidifichi e diventi priva di
ogni significato. Perciò credo sia importante coltivare il pensiero. E nell'educazione oggi, nel
rapporto fra i professori e gli studenti, nell'organizzazione della scuola, e anche nel mondo
dell'informatica e in quello dell'informazione, va stimolato come non mai, guardando al futuro,
il pensiero: il pensiero libero, il pensiero che crea, il rinnovamento intellettuale. Altrimenti
credo che saremo condannati a un inaridimento, a un esaurimento del nostro orizzonte di
possibilità.
Per questo oggi la filosofia, nonostante i molti problemi che il pensiero filosofico soffre nel
mondo contemporaneo, deve porsi questi problemi e definire un orizzonte verso il quale
proiettarli: l'orizzonte «umanista». Non mi vergogno a usare questa parola tanto deteriorata,
in quanto è una parola che discende dalla miglior tradizione filosofica greca, da quella
tradizione che faceva dire ad Aristotele che non gli interessava tanto sapere che cos'è la bontà,
ma gli interessava che gli uomini fossero buoni, ossia che si creassero delle istituzioni, degli
spazi pubblici dove la bontà, lo sviluppo dell'individuo, fossero possibili e realizzabili.
Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Palazzo Serra di Cassano, 21 aprile 1988