Vincenzo Cerulli Irelli Il nuovo assetto dell`amministrazione (bozza

Vincenzo Cerulli Irelli
Il nuovo assetto dell’amministrazione
(bozza della relazione)
Conv. Studi Amministrativi
(Varenna 16.9.04)
1. Premessa: amministrazione e Costituzione – 2. L'assetto del governo territoriale nella
Costituzione - 3. La potestà regolamentare - 4. La dislocazione territoriale delle funzioni
amministrative tra i diversi livelli di governo: i principi di sussidiarietà, di differenziazione e
adeguatezza - 5. Il rapporto tra i pubblici poteri e le attività di interesse generale svolte dai privati 6. L'esercizio dei poteri sostitutivi – 7. Conclusioni: passaggi mancati per l’attuazione delle riforme.
1 .Premessa: amministrazione e Costituzione
Nella Costituzione italiana, già nel suo testo originario, sono contenuti, com’è noto,
una serie di principi concernenti l’amministrazione: principi non sempre tra loro omogenei,
anzi in qualche parte contraddittori, come fu autorevolmente notato (Nigro). Il principio
dell’autonomia locale, connesso a quello del decentramento amministrativo, enunciato a
chiare lettere dall’art. 5 e poi svolto nella disciplina posta dal Titolo V. Il principio della
direzione politica del Governo sull’amministrazione (art.95), che in qualche modo ne
determina la dipendenza dal Governo (anche se la nostra Costituzione non contiene la
formula francese che il Governo dispone dell’amministrazione, art. 20). Il principio, in
qualche modo opposto a questo, della imparzialità dell’amministrazione, che ne
presupporrebbe la separazione dalla politica (art. 97). (Prescindo qui, dai principi,
importantissimi, concernenti la tutela giurisdizionale).
Il primo di questi principi, quello di autonomia, fondamentale per la stessa
identificazione del “tipo di Stato” nato dalla Costituzione (in contrapposizione al vecchio
“tipo di Stato” fondato sul principio di accentramento), ha avuto un’attuazione assai lenta.
Anzi, si può dire che nei primi decenni di vita dell’ordinamento costituzionale sia rimasto
del tutto inattuato, sino all’avvio dell’esperienza regionale (1970-72), del tutto inadeguata
peraltro, rispetto alla avanzata impostazione del testo costituzionale; alla riforma delle
autonomie locali (1990) e alla ridefinizione del sistema dei controlli, principale strumento
dell’accentramento statale, com’è noto (1990-1997); all’ampio trasferimento di funzioni e
compiti dallo Stato al sistema del governo regionale e locale (1977-1998), non
accompagnato tuttavia da una corrispondente adeguata ristrutturazione degli apparati
organizzativi statali; alla ridefinizione del sistema della finanza locale formato ormai in
larga misura di mezzi propri (1995-1999).
Circa gli altri principi (che non costituiscono diretto oggetto di questa relazione) si
può ricordare che il principio della dipendenza della amministrazione dal Governo è stato
dissolto nel principio della separazione della politica dall’amministrazione (a partire dalla
riforma del 1993) rapportabile piuttosto al principio di imparzialità; bilanciato tuttavia dal
nuovo regime delle nomine nel pubblico impiego e segnatamente nella dirigenza, e dei
rapporti di lavoro a termine, che ha dato luogo a una rafforzamento dell’influenza della
politica sull’amministrazione (1998-2001). Quanto al principio di imparzialità esso ha
trovato nella disciplina generale del procedimento (1990), nei principi da tempo elaborati
dalla giurisprudenza circa l’esigenza di ragionevolezza nelle scelte amministrative,
successivamente rafforzati per l’influenza dei principi comunitari di proporzionalità e
legittimo affidamento, un importante e definitivo consolidamento; e sul piano
organizzativo, ha trovato riscontro nel sistema delle Autorità amministrative indipendenti
(cioè, almeno in principio, del tutto separate dalla politica) che si è andato consolidando in
molti settori vitali dell’ordinamento a partire dal 1990.
A più di 50 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, i principi da essa stabiliti
in ordine all’amministrazione hanno trovato ampio sviluppo nella vita concreta
dell’ordinamento, attraverso la legislazione ordinaria e l’evoluzione della giurisprudenza, in
molti casi sotto l’influenza determinante dei principi e delle regole dell’ordinamento
europeo (mirabile soprattutto è stata l’evoluzione del principio di imparzialità, con ciò che
essa ha comportato in termini di rafforzamento della tutela del cittadino).
Sul principio di autonomia, fondamentale fra tutti, s’è detto, per la stessa
identificazione del “tipo di Stato”, al di là degli sviluppi normativi sopra ricordati, è venuta
ad incidere in modo massiccio la riforma costituzionale di cui alle leggi cost. n. 1/99 e n.
3/01, che hanno riscritto quasi totalmente il Titolo V della Parte Seconda della Costituzione.
E’ bene ricordare che il vecchio Titolo V appariva in qualche punto contraddittorio con la
stessa configurazione del principio dell’autonomia quale stabilito dall’art. 5. Basti pensare
all’autonomia normativa delle regioni proclamata dall’art. 117, ma poi conculcata dall’art.
127, che sottoponeva ogni legge approvata dal consiglio regionale, come se fosse una
qualsiasi deliberazione amministrativa, a visto di un organo dello Stato, con successiva
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possibilità di ricorso del Governo alla Corte costituzionale, impedendone l’entrata in vigore.
Si pensi ancora al regime degli atti amministrativi di comuni e province sottoposti ai
controlli preventivi di legittimità (strumento principale del vecchio accentramento statale,
come si diceva) affidati, in luogo del prefetto, a un organo per definizione non imparziale
quale il Comitato regionale di controllo (quindi peggiorando l’anteriore situazione di
soggezione degli enti locali). Le leggi ordinarie sopra ricordate hanno corretto in qualche
parte questa impostazione ma essa comunque restava scritta nel testo costituzionale e perciò
vincolante tutto l’ordinamento.
E’ evidente che la piena autonomia normativa delle regioni non può tollerare il visto
di un organo burocratico; e tantomeno l’autonomia amministrativa, e anche normativa, degli
enti locali, non può tollerare il controllo preventivo di legittimità, ancora una volta “il
visto”, da parte di un organo sovraordinato, per di più privo di ogni carattere di imparzialità.
La riforma costituzionale nel suo complesso, si può dire attua nella sua pienezza il
principio dell’autonomia (la soppressione o la radicale modifica delle norme da ultimo
citate ne è la rappresentazione più evidente), definendo un “tipo di Stato” fondato sul
pluralismo dei pubblici poteri (degli enti del governo territoriale), sull’autonomia di
ciascuno di essi nell’esercizio delle funzioni di governo loro proprie, sulla base delle
esigenze delle rispettive collettività.
Sul versante della legislazione, la parificazione costituzionale della legge statale e
della legge regionale e il principio di residualità stabilito in favore della legge regionale, ne
costituiscono la rappresentazione più appariscente (così da indurre a configurare il sistema
costituzionale italiano come un sistema ormai avviato “verso il federalismo”).
Ma sul versante dell’amministrazione, ivi compresa la normazione secondaria
strettamente connessa all’amministrazione, la riforma contiene norme fortemente innovative
rispetto al nostro precedente assetto (ma anche a fronte del contesto europeo); così da
configurare, proprio su questo versante dell’amministrazione piuttosto che su quello della
legislazione, la nostra Repubblica come quella caratterizzata in senso federale. Un
federalismo del tutto particolare, invero, formato da una pluralità di attori (non solo dallo
Stato centrale, Bund,
e dalle regioni, Laender, Communidades autonomas), ciascuno
operante al servizio della propria collettività, nell’esercizio di funzioni di governo, garantite
dalla Costituzione e regolate solo nei principi dalle leggi (come l’art. 5, con grande
lungimiranza, aveva a suo tempo stabilito).
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2. L'assetto del governo territoriale nella Costituzione
2.1. L’art. 114, nel nuovo testo, definisce l’ambito dei pubblici poteri, come
organizzazioni politiche deputate al governo della collettività: Comuni, Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato. Nel loro insieme essi costituiscono la Repubblica; intesa in
senso soggettivo, cioè, appunto, come organizzazione di governo (quella che una volta si
intendeva come Stato-persona differenziato dallo Stato-comunità).
Nella norma non solo è espresso in maniera ormai inequivocabile il concetto della
pluralità organizzativa che caratterizza, invero sin dalle origini, il nostro ordinamento
repubblicano, ma è sancito altresì il principio della parità istituzionale delle diverse
organizzazioni di governo operanti ai diversi livelli territoriali. E lo Stato, non menzionato
nel vecchio art. 114, ma presupposto come il soggetto della sovranità generale identificato
nella Repubblica stessa, diviene ora una delle organizzazioni di governo (com’è noto, esso è
invero un insieme di organizzazioni di governo) della collettività: quella deputata a
governare gli interessi di dimensione nazionale, a differenza delle altre deputate alla cura
degli interessi rispettivamente di dimensione regionale, provinciale, etc.: secondo l’assetto
di riparto delle competenze stabilito dalla Costituzione e in via subordinata, dalle leggi.
Lo Stato mantiene tuttavia una connotazione assai differenziata rispetto alle altre
organizzazioni di governo, che si esprime in molteplici suoi caratteri istituzionali, fissati nel
testo costituzionale, anche nella versione riformata del Titolo V: dall’ambito
incomparabilmente più esteso della sua legislazione e dal carattere generale e trasversale di
alcune delle materie di competenza esclusiva (art. 117); dalla soggettività nei rapporti
esterni e nella politica internazionale; sino alla titolarità del potere di scioglimento degli
organi di governo delle regioni, stabilito dalla Costituzione (art. 126) e degli organi degli
altri enti territoriali, stabilito dalle leggi ordinarie; alla titolarità del potere sostitutivo che
investe tutta l’attività amministrativa sia delle regioni che degli altri enti territoriali (art. 120
sul quale v.infra §4); alla titolarità insomma dei poteri necessari a "tutelare l'unità giuridica
ed economica dell'ordinamento" (Corte cost. 274/03)
E questa differenziazione dello Stato rispetto agli altri pubblici poteri è testimoniata
nella formula del 2° comma dell’art. 114, laddove si stabilisce la natura di “enti autonomi
con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”, dei
comuni, delle province, delle città metropolitane, delle regioni; e non già dello Stato, pur
accomunato agli altri pubblici poteri, nel 1° comma, a costituire l’entità della Repubblica.
Invero, la norma conferma e rafforza la nozione di autonomia, che è propria di
questi enti, secondo il modello già previsto nell’art. 5, come carattere relazionale di essi nei
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confronti dello Stato. Si potrebbe dire, difesa di questi enti da ogni ingerenza dello Stato che
non trovi il suo fondamento in poteri espressamente previsti dalla Costituzione. Infatti, la
nuova formulazione dell'art. 114 e la soppressione dell'art. 128 (che, come noto,
riconosceva alle leggi generali dello Stato il ruolo di circoscrivere l'autonomia di province e
comuni e prevedeva il principio dell'attribuzione delle funzioni per legge), induce a ritenere
che il concetto di autonomia di cui all'art. 5 e all'art. 114, sia maggiormente caratterizzato
nel senso di un'effettiva esponenzialità di province e comuni nei confronti delle rispettive
comunità, come peraltro già previsto sin dalla l. n. 142 del 1990.
Ciò non di meno possiamo delineare una distinzione tra lo Stato da una parte, e gli
enti del governo territoriale dall’altra, regioni, province, città metropolitane e comuni; come
organizzazioni politiche che pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni sono deputate al
governo della collettività nazionale italiana, nelle sue diverse articolazioni, secondo i
principi e le norme dettate dalla Costituzione. Mentre tra gli enti del governo territoriale, si
può delineare un’altra distinzione, del resto tradizionale, tra le regioni da una parte e gli enti
locali dall’altra, per le evidenti diversità di statuto costituzionale che rispettivamente
presentano e segnatamente per il fatto che solo le prime sono accomunate allo Stato
nell’esercizio della potestà legislativa. Sul punto, è tuttavia scomparsa nel nuovo testo
costituzionale, la forte differenziazione tra regioni ed enti locali, evidenziata nel precedente
testo dagli artt. 115 e 118.
2.2. Gli enti del governo territoriale, in quanto dotati di autonomia, hanno, afferma
la norma, propri statuti, poteri e funzioni.
I poteri e le funzioni sono quelli, rispettivamente di carattere legislativo o normativo
di cui all’art. 117, e quelli di carattere amministrativo di cui all’art. 118, che le stesse norme
costituzionali, menzionano, fissandone anche i contenuti. Mentre degli statuti, il contenuto è
stabilito soltanto per quelli delle regioni. L’art. 123, infatti, espressamente dispone che
ciascuna regione abbia uno statuto, il quale, in armonia con la Costituzione, determina tra
l’altro, “la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento”.
E’ da ritenere, tuttavia, che anche per gli enti locali la materia statutaria corrisponda a quella
delineata dall’art. 123, ovviamente con le differenze derivanti dal diverso ruolo e dalla
diversa capacità normativa di questi enti (sui contenuti dello statuto regionale, e sui limiti
della potestà statutaria delle regioni, con una impostazione non sempre condivisibile, v.
adesso, Corte cost. n. 2/04).
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In sostanza, la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e di
funzionamento degli enti, ovviamente nei limiti stabiliti dalla legislazione dello Stato,
segnatamente ai sensi dell’art. 117, 2° co., lett. p), è da ritenere costituisca la materia
tipicamente statutaria anche per gli enti locali. Tuttavia, la distinzione tra materia statutaria
e materia regolamentare, per quanto concerne gli enti locali è una distinzione abbastanza
flessibile, in larga misura lasciata alla libera determinazione degli enti stessi, in assenza di
specifica disciplina costituzionale sul punto.
E la legge n. 131/03, con norma pur di dubbia costituzionalità, data l’assenza di
norme costituzionali che attribuiscono allo Stato la disciplina legislativa nella materia, tenta
una individuazione dei contenuti dello statuto degli enti locali, tuttavia in asse con quanto
s’è appena detto. Infatti, secondo questa legge lo statuto stabilisce “i principi di
organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché
le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare” (art. 4, 2° co., l. cit.). La
norma fa riferimento al rispetto da parte degli statuti “di quanto stabilito dalla legge statale
in attuazione dell’art. 117, 2° co., lett. p)”, nonché all’esigenza che gli statuti siano “in
armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione
pubblica”. Questi principi sono quelli che a loro volta traggono fondamento dalla
Costituzione (segnatamente, art. 97).
Per il resto, organizzazione e funzionamento degli enti sono disciplinati dai
regolamenti, espressamente tenuti al rispetto degli statuti, data la relazione gerarchica che
intercorre anche tra fonti secondarie (v. art. 4, cit., l. 131/03).
La dizione della norma circa il carattere di enti autonomi, degli enti del governo
territoriale, dotati di propri statuti, poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla stessa
Costituzione, evidenzia una forte sottolineatura dei principi già stabiliti dall’art. 5, come
quelli che limitano la legislazione statale, e per altro verso quella regionale e garantiscono
a province e comuni la possibilità di rappresentare le rispettive comunità, curarne gli
interessi e promuoverne lo sviluppo.
Per tale ragione, la legislazione, salve specifiche materie sottratte alla competenza
degli enti locali, deve essere una legislazione formulata per principi, e giammai per
dettaglio, al fine di consentire l’autonoma determinazione normativa degli enti locali stessi,
nei settori di loro competenza attraverso il potere statutario ovvero quello normativo. Anche
a tacere della potestà legislativa amplissima riconosciuta alle regioni, di cui si dirà più oltre.
Infatti, soltanto una legislazione formulata per principi consente agli enti del
governo territoriale di esercitare effettivamente la loro posizione costituzionalmente
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riconosciuta di autonomia, anche e soprattutto normativa, che altrimenti non avrebbe alcuna
possibilità di manifestarsi, in termini sostanziali.
2.3. La nozione dello Stato, come organizzazione di governo (come insieme di più
organizzazioni di governo) nonché quella delle regioni, sotto il profilo organizzativo e
anche, in parte sotto il profilo funzionale, possiamo dire che è scritta in Costituzione. Ma lo
stesso non si può dire a proposito degli enti locali, comuni, province e città metropolitane.
Essi infatti sono menzionati come organizzazioni di governo, ne viene predicata
l’autonomia statutaria e normativa; e il successivo art. 118, come poi si mostra, stabilisce i
principi in base ai quali a tali enti viene attribuita la titolarità delle funzioni amministrative.
Ma nulla si dice in ordine all’assetto organizzativo di questi enti, né in ordine alle materie
nelle quali essi sono chiamati ad esercitare le loro funzioni di governo.
Invero, l’identikit degli enti locali è tracciato, non dalla Costituzione, ma dalla legge
dello Stato ai sensi dell’art. 117, 2° co., lett. p). Alla legge dello Stato infatti è demandato in
via esclusiva di disciplinare gli organi di governo, le funzioni fondamentali, nonché la
legislazione elettorale degli enti locali.
Tuttavia, il richiamo alle "funzioni proprie" dell’art. 114 e dell’art. 118, di cui poi
meglio si dirà, rinvia alla sussistenza di una realtà storico-sociale, in qualche modo
preesistente rispetto allo Stato, che viene riconosciuta (del resto già l’art. 5 afferma il
riconoscimento delle autonomie locali) e non può essere conculcata né compressa dalla
legge dello Stato in quanto connaturale all’esistenza stessa di questi enti, come enti di
governo delle rispettive collettività, formatisi attraverso lo sviluppo della tradizione storica.
Così come la politicità di questi enti, esponenziali delle rispettive comunità, i cui
organi di vertice (di governo) si formano attraverso procedimenti elettorali, disciplinati
dalla legge dello Stato, è carattere sicuramente non disponibile da parte del legislatore.
L’identikit di comuni e province è tracciato, ad oggi, dal vigente testo unico
approvato con d.l.vo 18.8.2000, n. 267 (tuttavia in corso di revisione, per adeguarne la
disciplina ai nuovi principi costituzionali, ai sensi della legge n. 131/03). E si direbbe che
nello stesso testo unico è rintracciabile anche l’identikit delle città metropolitane. Tuttavia,
per le città metropolitane c’è un problema aperto di definizione; chè esse, com’è noto, non
sono state ancora costituite in alcuna delle aree metropolitane previste dalla legge. E c’è da
dubitare che la disciplina oggi contenuta nel t.u. sia destinata a sopravvivere nel nuovo
ordinamento costituzionale dopo il suo fallimento nell’ordinamento precedente.
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La delega aperta con l’art. 2 della legge cit. n. 131/03, contempla invero una nuova
disciplina delle città metropolitane sia per quanto concerne i procedimenti di istituzione, sia
per quanto concerne gli organi di governo e il sistema elettorale. Si tratta dunque di un ente
dai contorni del tutto incerti, che è tuttavia necessario ormai, essendo previsto tra quelli
costitutivi della Repubblica.
Quel che possiamo affermare sulla base del testo costituzionale, è che la città
metropolitana è l’ente di governo territoriale delle aree metropolitane, che possono essere
definite come quelle zone nelle quali il comune capoluogo e gli altri comuni sono “uniti da
contiguità territoriale e da rapporti di stretta integrazione in ordine all’attività economica, ai
servizi essenziali, ai caratteri ambientali, alle relazioni sociali e culturali” (t.u. cit., art. 23).
Questa definizione della legislazione vigente, che risale alla legge n. 142/90, appare felice, e
riteniamo possa essere mantenuta.
Il legislatore costituente ha ritenuto di condividere l’opinione, peraltro ampiamente
diffusa tra gli studiosi di economia e sociologia urbana, tra gli urbanisti, etc., che le aree
metropolitane necessitano di una organizzazione di governo locale loro propria e unitaria,
non compatibile con la tradizionale articolazione del governo locale in comuni e province.
E perciò, nelle aree metropolitane è previsto un governo locale integrato, che fa
capo alla città metropolitana e assume in sé le funzioni della provincia e una parte delle
funzioni dei comuni, quelli di rilievo metropolitano, nel medesimo territorio. I comuni,
nell’ambito dell’area metropolitana, pur conservando la propria fisionomia istituzionale
degli enti locali, e mantenendo in parte, appunto, le funzioni loro proprie, anche in virtù del
principio di sussidiarietà, operano come articolazioni interne dell’ente del governo
metropolitano.
Le funzioni fondamentali di questo ente come anche le regole della sua
organizzazione, dovranno essere definite dalla legge statale e sul punto, come s’è detto, vi è
una delega aperta al Governo. Anche alle città metropolitane, come ai comuni e alle
province, è riconosciuto un ambito di funzioni proprie, che in parte sono ricavabili da quelle
riconosciute ai comuni e alla provincia, in parte dovranno essere determinate sulla base
delle esigenze proprie del governo metropolitano. Ciò significa che potranno anche esulare
dall’ambito funzionale dei comuni e delle province e commassare funzioni che in altre zone
del territorio nazionale sono proprie delle regioni.
2.4. Un’organizzazione di governo del tutto differenziata, può invece essere prevista
dalla legge dello Stato per la città di Roma, come capitale della Repubblica (art. 114, ult.
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co.). La norma, riservando alla legge dello Stato senza alcuna altra specificazione
l’ordinamento della città di Roma, consente di derogare alle altre norme relative a tutti gli
altri enti del governo territoriale. Roma non è necessariamente dislocata in alcuna delle
categorie indicate, non è necessariamente un comune, né una provincia, né una città
metropolitana. E’ quello che la legge dello Stato stabilirà (escludendo ogni competenza
regionale; ma il testo di riforma della Costituzione all’esame del Parlamento, A.C.4862-A,
modifica questo punto, attribuendo alla Regione Lazio, una competenza che sembra
interpretativa della legge dello Stato).
Tuttavia, si può affermare che l’ente che verrà costituito per il governo della
città di Roma resta un ente del governo territoriale, differenziato bensì dagli altri enti ma
accomunato ad essi nella categoria complessiva: un ente cioè rappresentativo della propria
collettività è chiamato a curarne gli interessi generali e a governarne lo sviluppo. Le
attribuzioni ulteriori che a questo ente verranno nell’ambito del suo ruolo di capitale della
Repubblica, non potranno tuttavia snaturarne la configurazione di ente territoriale.
Insomma, il nuovo ordinamento della città di Roma adottato in base all’art. 114, 3° co., non
potrà condurre alla configurazione della città nella sua struttura organizzativa e di governo,
come organo dello Stato, secondo l’ordinamento che fu in vigore nel periodo anteriore alla
Costituzione (d.l. 28.10.1925, n. 1949; l. 6.12.1928, n. 2702). L’ordinamento della città di
Roma dovrà esaltare al massimo e portare alle conseguenze più estese il principio
dell’autonomia garantito anche agli altri enti, sia sul versante amministrativo e
regolamentare, sia sul versante finanziario. Una competenza piena ed esclusiva
sull’amministrazione e sulla finanza sulla base dei principi degli artt. 114, 118 e 119, ma
senza i limiti che agli altri enti locali derivano pur sulla base di questi articoli, dalla loro
dislocazione nell’ambito di un sistema di governo regionale.
E così anche sul versante finanziario, l’applicazione dell’art. 119 potrà consentire
uno statuto finanziario della città di Roma, simile o addirittura identico a quello delle
regioni, con capacità finanziaria di entrata e di spesa piena ed intera, salva ovviamente la
riserva di legge in materia di imposizione fiscale stabilita dall’art. 23 Cost.. Sul piano
finanziario bisogna sottolineare l’importanza che assume per Roma l’art. 119, 5° co.; che,
come si accennava, consente la destinazione di risorse speciali da parte dello Stato in favore
di determinati enti di governo territoriale per far fronte ad esigenze di carattere speciale
(cioè al di fuori della finanza ordinaria degli enti locali). Questa norma sicuramente si
applica a Roma dove le esigenze di carattere speciale sono rappresentate dal suo ruolo di
capitale (oltre che di sede della Chiesa cattolica).
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Tuttavia, il testo costituzionale non consente di configurare l’ente di governo della
città di Roma come una regione (una sorta di distretto federale del tipo di Washington d.c.,
non compreso nel territorio di alcuna regione). Le regioni infatti sono quelle che sono, cioè
quelle elencate dall’art. 131, e tutto il territorio della Repubblica si articola nelle regioni.
Dal punto di vista dei poteri di governo, questa limitazione posta dal testo costituzionale, si
traduce nel fatto che all’ente di governo relativo non può essere conferita potestà legislativa
(ma v. A.C. 4862-A, cit.).
3. La potestà regolamentare
3.1. Sulla potestà regolamentare il testo di riforma costituzionale innova
profondamente il precedente ordinamento. Sia in ordine alla distribuzione di questa potestà
tra i diversi livelli di governo, e alla forte limitazione che ne deriva alla potestà
regolamentare dello Stato, sia in ordine ai contenuti stessi della potestà regolamentare nei
diversi livelli di governo nei quali si esplica.
Per quanto riguarda la potestà regolamentare delle regioni, in se stessa e nei rapporti
con la potestà regolamentare dello Stato, si segnalano due innovazioni particolarmente
significative. Anzitutto, la legge costituzionale n. 1 del 1999 ha cancellato la riserva
costituzionale di ogni potestà normativa ai consigli regionali, già prevista dall’art. 121 nel
precedente testo. Ciò comporta che la potestà regolamentare possa essere distribuita tra gli
organi di governo della regione, Consiglio e Giunta, secondo la disciplina statutaria propria
di ciascuna regione (Corte cost., n. 313/03). È da ritenere che nelle materie
dell’organizzazione, detta competenza potrà essere più opportunamente affidata alle giunte,
mentre nella disciplina sostanziale dei settori di intervento nella società civile, essa potrà
essere più opportunamente attribuita ai consigli. E così anche nei casi di esercizio di potestà
regolamentare delegata dallo Stato ai sensi dell’art. 117, 6° comma.
In secondo luogo, l’esercizio della potestà regolamentare viene attribuito in via
esclusiva alle regioni nelle materie di legislazione concorrente, oltre ovviamente che in
quelle di legislazione residuale o esclusiva; restando allo Stato solo nelle materie di
legislazione statale esclusiva, salva delega alle regioni. E’ da ritenere comunque che la
potestà regolamentare delle regioni si estende alla disciplina dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite anche nelle materie di competenza esclusiva statale (se non altro, per
analogia con quanto lo stesso art. 117, 6° co., dispone per gli enti locali).
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Questa scelta del legislatore costituente è molto incisiva e viene a limitare
fortemente la potestà regolamentare dello Stato dando luogo ad una serie di problemi
applicativi non lievi. D’altra parte la prima giurisprudenza che si è formata sul punto
conferma l’incisività della nuova disciplina costituzionale, come quella che ha privato lo
Stato di ogni potere regolamentare nelle materie di legislazione concorrente; che ha
abrogato le leggi statali che conferivano potestà regolamentare alle amministrazioni statali
in materie di legislazione concorrente; restando tuttavia in vigore le norme regolamentari
statali nelle materie stesse sino a che le regioni non avranno emanato disposizioni
sostitutive con proprie leggi o propri regolamenti (Cons. St. Ad. gen., 11.4.2002;
17.10.2002).
La limitazione della potestà regolamentare del Governo viene ad incidere sulle
politiche di semplificazione procedimentale e di delegificazione avviate a partire dalla legge
n. 53/93 e poi con la legge n. 59/97, e successive in corso di attuazione. Infatti molti dei
settori oggetto di delegificazioni afferiscono a materie non comprese nell’elenco di cui
all’art. 117, 2° comma e perciò escluse dalla potestà regolamentare del Governo. Si apre in
corrispondenza un’ampia capacità delle regioni di avviare proprie politiche di
delegificazione, sia nelle materie di competenza legislativa residuale o esclusiva, sia in
quelle di legislazione concorrente; nel rispetto, in questo secondo caso, dei principi
fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato o comunque ricavabili dalla legislazione
statale.
Due altre problematiche applicative che derivano, sul punto, dal nuovo testo
costituzionale riguardano da una parte la c.d. normazione tecnica, dall’altra la normazione
emanata dalle autorità amministrative indipendenti e da altri enti pubblici.
Com’è noto, la normativa tecnica ha acquistato una grandissima importanza
nell’esperienza contemporanea - disciplina della fabbricazione e utilizzo di apparecchi e
strumenti tecnicamente complessi da parte degli operatori e degli utenti, manutenzione degli
apparecchi stessi, sicurezza del loro uso, dagli ascensori, alle macchine idrauliche ai motori
marini., agli elettrodomestici, etc.. Tutto ciò è oggetto di una normativa tecnica spesso
molto analitica e complessa che viene in genere adottata mediante atti regolamentari dei
Ministeri competenti o da enti pubblici appositamente costituiti allo scopo. È una
normativa, sempre a carattere nazionale che spesso trova il suo fondamento in direttive
dell’Unione europea.
Si pone perciò il problema alla luce del nuovo testo costituzionale, di stabilire quali
siano le autorità competenti all’adozione di questa normativa e mediante quale tipo di fonte
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essa debba essere adottata. Sembra effettivamente inopportuna l’emanazione di norme di
questo tipo mediante leggi da sottoporre al Parlamento o ai Consigli regionali e sembra allo
stesso tempo inopportuno adottare normative in ipotesi differenziate a seconda dei diversi
territori regionali. Una potestà regolamentare del Governo in questa materia, potrebbe
radicarsi, in base a specifiche autorizzazioni legislative, su alcune della competenze per
materia, stabilite dall’art. 117, 2° co., in capo allo Stato. E così, ad esempio, quelle in
materia di “sicurezza” che può essere intesa anche con operatività diversa rispetto all’ordine
pubblico, quelle in materia di “livelli essenziali delle prestazioni” da assicurare a tutti i
cittadini.
Altro problema da segnalare è quello della potestà regolamentare attribuita
nell’attuale ordinamento ad autorità ed enti diversi dallo Stato, dalle regioni e dagli enti
locali. Su questo punto mi pare indiscutibile che lo Stato nelle materie di propria
competenza legislativa esclusiva e ciascuna regione in tutte le altre, abbiano la capacità di
attribuire potestà regolamentare, subordinata ovviamente alla legge, ad enti operanti nelle
diverse materie.
E lo stesso ragionamento crediamo debba valere, salvo a individuare diversi e
ulteriori basi costituzionali per l’attribuzione di queste particolari potestà regolamentari, ad
autorità amministrative indipendenti. Queste ultime infatti, come è ben noto, godono in
molti casi di potestà regolamentari estesissime e in larga misura indipendenti nel contenuto,
data la stringatezza delle norme legislative che le prevedono. Ciò in qualche modo è
giustificato proprio dal fatto che si tratta di autorità di regolazione che si esprimono in atti a
contenuto generale spesso di natura regolamentare.
A prescindere dalla potestà regolamentare di organizzazione delle dette autorità,
fondata probabilmente sull'art. 117, co. 2°, lett. g), è da ritenere che la disciplina attuale
possa rimanere in vigore solo per quelle autorità che operano in materia di competenza
esclusiva dello Stato, ciò che sicuramente “copre” la CONSOB e la Banca d’Italia, dotate,
com’è noto, di rilevanti poteri regolamentari. Parimenti, si deve ritenere che essa possa
rimanere in vigore per quanto attiene alle autorità nazionali di regolazione per i servizi
pubblici (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e Autorità per l'energia elettrica e il
gas), almeno nella parte in cui detti regolamenti sono intesi a promuovere la concorrenza tra
operatori (art. 117, 2° co., lett. e), ad assicurare livelli essenziali di servizi unitari sull'intero
territorio nazionale (art. 117, 2° co. lett. m), nonché ad assicurare l'effettività dei
regolamenti ora citati. Sembra invece che il potere regolamentare sia destinato a cadere in
altri settori (come quello dei lavori pubblici), salva nuova disciplina regionale.
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3.2. Per quanto riguarda la potestà regolamentare degli enti locali, ancora più
incisive innovazioni sono contenute nel nuovo testo costituzionale. Per la prima volta,
infatti, si afferma a livello costituzionale non solo la potestà statutaria dei comuni, delle
province, delle città metropolitane, secondo quanto si è detto, ma anche una potestà
regolamentare “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite” (art. 117, 6° comma).
Anche la potestà statutaria si esprime in atti normativi a carattere secondario,
tuttavia sovraordinati rispetto ai regolamenti, come peraltro è pacifico, ed è stato
riaffermato dall’art. 4, 3° comma della legge n. 131/03.
Quest’ultima norma circoscrive in vario modo la potestà regolamentare degli enti
locali, sia sul versante dell’organizzazione, che su quello dello svolgimento delle funzioni.
La norma deve essere interpretata in modo rigorosamente restrittivo, ché rischia di essere
dichiarata incostituzionale. Infatti l’ambito della normazione locale, quale stabilito dalla
Costituzione, non è oggetto di legislazione statale ai sensi dell’art. 117, 2° comma.
La materia dell’organizzazione locale, come oggetto di autonoma regolamentazione
da parte di ciascun ente locale, ovviamente deve rispettare i principi generali in materia di
organizzazione pubblica, come si esprime il cit. art. 4: sempre che si tratti tuttavia, di quei
principi che sono ricavabili dalla Costituzione, e non di altri. Salvo che non si tratti delle
norme di organizzazione che sono necessariamente connesse alla disciplina statale sugli
organi di governo degli enti locali, adottata ai sensi dell’art. 117, 2° comma, lett. p).
Ciascun organo di governo dell’ente locale, sindaco, giunta, consiglio (o quelli che la legge
dello Stato individuerà) è dotato di una propria organizzazione la cui disciplina è stabilita
dalla legge dello Stato ai sensi della citata norma costituzionale, disciplina che ovviamente
viene a limitare sul punto, la potestà regolamentare dell’ente locale. Al di là di queste
norme, i principi che legano la regolamentazione locale in materia di organizzazione sono
soltanto quelli generalissimi desumibili dalla Costituzione. È così, per esemplificare, il
principio della predeterminazione normativa del disegno organizzativo dell’ente e delle
sfere di competenza e responsabilità dei diversi organi e uffici; il principio dell’accesso agli
impieghi mediante pubblico concorso, salve deroghe previste dalla legge; i principi che
riguardano la disciplina del rapporto di lavoro pubblico, nonché quelli che riguardano la
disciplina finanziaria, dei bilanci pubblici, dell’ordinamento dell’entrate e delle spese. Per
questi ultimi, com’è noto, la potestà legislativa statale si esercita solo a livello di principi
perché si tratta di materia di legislazione concorrente.
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Sul punto si pone un delicato problema di rapporti tra questa potestà regolamentare
attribuita agli enti locali e la normazione regionale. Possiamo anzitutto affermare con
certezza che in materia di organizzazione locale non c’è alcuno spazio per l’esercizio della
potestà regolamentare delle regioni.
L’ambito disciplinare è tutto coperto dalla fonte regolamentare locale, salvi i
principi e le norme stabiliti dalla legge. Possiamo perciò parlare di una vera e propria
riserva di potestà regolamentare agli enti locali in questa materia. Ma per le stesse ragioni è
da ritenere altresì preclusa nelle stesse materie l’esercizio della potestà legislativa da parte
delle regioni. Non si vede infatti quale spazio essa potrebbe avere, una volta che i principi
sono fissati dalla Costituzione, e dalla normativa statale attuativa della Costituzione e il
dettaglio è stabilito dalla regolamentazione locale.
Parzialmente diversa si presenta la problematica con riguardo alla potestà
regolamentare degli enti locali in materia di svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Sul punto, è evidente che la potestà regolamentare regionale (specie in materia di
legislazione concorrente) e quella locale devono essere tra loro opportunamente coordinate,
correndosi altrimenti il rischio di sovrapposizioni e incoerenze normative. Tanto che,
proprio per scongiurare detto rischio, si è sostenuta la non sussistenza in questo ambito di
una riserva regolamentare per gli enti locali.
In proposito, si deve tuttavia osservare che sembra pacifico che le “funzioni loro
attribuite” di cui all’art. 117, 6° comma, sono tutte le funzioni dell’ente locale, qualunque
sia la loro specie (proprie, ascritte o meno alle fondamentali, conferite). Una volta che una
funzione amministrativa è di competenza dell’ente locale, a qualsiasi fonte sia imputabile
detta competenza, l’ente locale diviene titolare altresì di una potestà regolamentare in ordine
allo svolgimento della funzione stessa. Ovviamente l’esercizio della singola funzione
amministrativa si svolge nel contesto disciplinare della materia nella quale essa si muove,
che trova la sua fonte principale nella legge statale o regionale secondo la rispettiva
competenza. È così, ad esempio, il procedimento per il rilascio dei permessi di costruire, il
procedimento per il rilascio delle licenze di commercio, sono procedimenti che si svolgono
a livello comunale, ma nell’ambito di un contesto disciplinare che è rispettivamente quello
della legge urbanistica (legislazione concorrente) e quello della legge sul commercio
(legislazione regionale esclusiva tranne per la parte di tutela della concorrenza). E perciò la
disciplina dei procedimenti stessi, solo in parte potrà essere stabilita dalla fonte
regolamentare locale, negli spazi lasciati liberi dalla relativa legislazione. Occorre tuttavia
affermare, come peraltro si è accennato, che dall’attribuzione costituzionale di questa
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potestà regolamentare agli enti locali, deriva un evidente limite alla legislazione,
rispettivamente statale e regionale, nelle diverse materie di competenza. Essa cioè, per
quanto riguarda i procedimenti che si svolgono a livello locale, potrà essere soltanto una
legislazione per principi.
E così, per esemplificare, la legislazione dovrà limitarsi all’attribuzione all’ente
locale del singolo potere amministrativo (ad esempio il permesso di costruire come potere
amministrativo attribuito alla competenza del comune), ma non scendere all’attribuzione del
potere stesso ai singoli organi dell’ente, perché questa determinazione è riservata alla
regolamentazione locale. E così la legge potrà stabilire i criteri per l’esercizio in concreto
del potere (ad esempio, che il rilascio del permesso di costruire è condizionato
all’accertamento della conformità del progetto ai piani urbanistici), ma non scendere a
stabilire le modalità procedimentali che nell’ambito dell’organizzazione dell’ente dovranno
essere seguite ai fini dell’esercizio stesso del potere. Ovviamente, ciò resta precluso alla
potestà regolamentare regionale, per le materie di legislazione concorrente.
Su queste questioni, peraltro ancora del tutto perplesse, che dovranno essere
approfondite una volta il sistema entrato a regime, l’art. 4 della legge n. 131/03, interviene
con disposizioni assai ambigue, limitando questa potestà regolamentare dell’ente locale
“nell’ambito della legislazione dello Stato o della regione che ne assicura i requisiti minimi
di uniformità”. Invero, questi requisiti minimi di uniformità possono consistere, in ciò che
abbiamo detto, cioè nell’attribuzione della competenza in capo all’ente e nella
determinazione dei criteri per l’esercizio del potere, ma non anche nella disciplina del
procedimento interno all’organizzazione dell’ente; ché altrimenti la potestà regolamentare
senz’altro si vanificherebbe.
E ancora, la norma fa riferimento, anziché allo “svolgimento” delle funzioni,
secondo la dizione della Costituzione, all’organizzazione, allo svolgimento e alla gestione
della stessa; ciò farebbe pensare alla possibilità di una più penetrante disciplina legislativa
che intervenga nell’organizzazione (appunto) interna all’ente, con riferimento ai singoli
procedimenti di cui si tratta.
Ciò comporta che i procedimenti amministrativi, relativamente all’esercizio di
determinate funzioni amministrative di competenza locale potranno essere parzialmente
diversi nei diversi ordinamenti comunali e provinciali, pur nell’ambito di una stessa
regione. Anche se, sul punto, si pone il problema, già accennato, di assicurare un uguale
trattamento amministrativo, almeno in certi limiti, a tutti i cittadini, tenuto conto
dell’opinione, emersa anche nei pubblici dibattiti, che la disciplina generale del
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procedimento amministrativo sia rapportabile, almeno in parte, a quella dei livelli essenziali
delle prestazioni, di cui all’art. 117, 2° co., lett. m).
4. La dislocazione territoriale delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di
governo: i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
4.1. L’art. 118, detta le regole per l’attribuzione delle funzioni amministrative
alle diverse organizzazioni politiche operanti ai diversi livelli territoriali di governo nei
quali si articola la Repubblica, ai sensi dell’art. 114.
Per funzioni amministrative si devono intendere le attività di amministrazione in
senso tecnico, come quelle intese alla cura concreta degli interessi della collettività.
Com’è noto, esse consistono, sia di attività propriamente giuridiche (contratti, negozi
unilaterali, atti e provvedimenti amministrativi, etc.) sia di attività materiali (operazioni
e prestazioni). Le attività di amministrazione si svolgono secondo moduli di diritto
pubblico o di diritto privato. Nell’esperienza più recente, tende ad essere superata la
precedente impostazione del sistema amministrativo che costruiva come regola
dell’agire amministrativo il modulo di diritto pubblico; e tende ad affermarsi il principio
secondo il quale le pubbliche amministrazioni agiscono secondo norme di diritto
privato, salvi i casi diversamente previsti dalla legge.
Così che si deve ritenere che nel concetto di funzione siano incluse le funzioni
amministrative in senso tecnico, le attività di erogazione dei servizi pubblici (essendo le
attività di regolazione qualificabili alla stregua di attività amministrative in senso
tecnico), nonché le altre attività di diritto comune comunque svolte da province e
comuni.
Al contrario, tra le funzioni amministrative, ai fini della norma, non sono
comprese le funzioni regolamentari, quelle cioè intese a stabilire la normazione
secondaria nelle diverse materie di competenza dei diversi enti di governo, che pure
quanto alla forma degli atti, si ascrivono alla funzione amministrativa. Esse infatti,
come s’è visto, sono disciplinate da altre norme costituzionali (art. 117, 6° co.).
Tuttavia, la titolarità di una determinata funzione amministrativa in capo all’ente, attrae
ad esso, sia pure limitatamente a quanto previsto dall’art. 117, 6° co., la connessa
potestà regolamentare.
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L’art. 118, enuncia espressamente tre principi in base ai quali le funzioni
amministrative così intese debbono essere attribuite ai diversi enti di governo. Si tratta,
com’è noto, dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Dei quali
subito si dirà.
Invero, la norma detta un ulteriore criterio che deve essere seguito
nell’attribuzione delle funzioni amministrative ai diversi enti di governo, che potremmo
denominare come quello della preferenza per l’amministrazione comunale; sino a
configurare (con una espressione piuttosto enfatica) ogni dislocazione diversa da quella
comunale, dell’amministrazione, come una sorta di eccezione alla regola della
comunalità. “Le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che, per
assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, etc.”.
Questo principio, invero, appare come una forte sottolineatura del principio di
sussidiarietà.
Nella norma è altresì, implicitamente, enunciato il principio (riecheggiato anche
nell’art. 114, 2° co., e ampiamente diffuso nella legislazione ordinaria), che si può
denominare come il principio della titolarità necessaria delle funzioni proprie, da parte
di ciascun ente del governo territoriale. Ciò significa che la legislazione, statale e
regionale, laddove attribuisce funzioni amministrative a detti enti, oltre al rispetto dei
principi sopra indicati, è tenuta altresì a determinarne l’ambito funzionale, tenendo
conto di quelle funzioni che loro debbono necessariamente essere confermate (che non
possono essere intaccate) in quanto costituiscono, secondo la tradizione disciplinare
formatasi nel corso dei decenni, il nucleo identificativo degli enti stessi, come enti di
governo della propria collettività. Funzioni che possono identificarsi o meno con la
titolarità di poteri amministrativi (potendo, come detto, comprendere anche l'attività di
erogazione di servizi pubblici), e perciò necessitare o meno specifiche attribuzioni
legislative, ma che devono essere in ogni caso riconosciute alla titolarità degli enti. Esse
tuttavia non possono essere identificate con tutte quelle esistenti (Mangiameli), cioè via
via accumulatesi in capo all’ente locale in virtù delle successive stratificazioni
legislative, poiché alcune delle quali sono del tutto superflue, per nulla identificative
dell’ente, e alcune, come è noto, imputate all’ente come organo dello Stato.
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In ciò sta il significato della espressa menzione nell’art. 118, 2° co., di funzioni
proprie degli enti locali, accanto a quelle che ad essi vengono conferite dalla legge
(secondo lo schema in uso nella nostra legislazione sin dalla legge 142 del 1990).
4.2. Del tutto diversa è la nozione di funzioni fondamentali, di cui all’art. 117, 2°
co., lett p), come quelle che devono essere determinate dalla legge dello Stato. Questa
seconda nozione, identifica le funzioni che la legge dello Stato secondo le valutazioni
discrezionali del legislatore (ovviamente controllabili nello scrutinio di costituzionalità)
determina come di attribuzione necessaria di ciascuna categoria di ente locale. Nel
novero delle funzioni fondamentali rientrano tanto le funzioni in senso tecnico
(espressione cioè di poteri amministrativi) quanto i servizi pubblici locali (e i relativi
poteri di regolazione), e specialmente quelli erogati in forma imprenditoriale anche ove
erogati da soggetti privati.
In ogni caso, l'inclusione di un'attività nell'ambito delle funzioni fondamentali
comporta, da un lato, la sottrazione alla disponibilità dell'attività stessa da parte del
legislatore regionale, pur nell’ambito di materie di competenza legislativa regionale
(anche residuale o esclusiva ai sensi dell’art. 117, 4° co.); e, dall'altro, la qualificazione
di esse come necessarie (qualificazione particolarmente significativa con riguardo ai
servizi pubblici).
Sul punto occorre tuttavia chiarire che un conto è stabilire che una funzione è
fondamentale e che deve essere attribuita a un determinato livello di governo territoriale
(es. il comune), compito questo rimesso alla legislazione statale; altro conto è poi la
disciplina sostantiva dell'attività, che ben può essere dettata dalla legge regionale, ove
ne abbia competenza. Ad esempio, la legge dello Stato può stabilire che la
pianificazione urbanistica spetta al comune, mentre la legge regionale può e deve
individuare i contenuti che il piano urbanistico deve avere in concreto; ancora, la legge
dello Stato può prevedere che i comuni debbano assicurare adeguati servizi di trasporto
urbano, mentre spetta alla legge regionale individuare i principi in base ai quali i detti
servizi devono essere erogati.
Del tutto mal posto appare quindi il problema della coincidenza, o meno, tra
funzioni proprie e funzioni fondamentali, sul quale si è esercitata parte della dottrina. Si
tratta invero di due nozioni previste dalla Costituzione a fini diversi.
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Le funzioni proprie indicano l’ambito identificativo dell’ente locale, dal punto di
vista funzionale, che deve essere rispettato da ogni legislatore; a prescindere dall’essere
o meno dette funzioni, comprese tra le funzioni fondamentali ai sensi dell’art. 117, 2°
comma lett. p). La nozione rappresenta una sorta di garanzia generale dell'effettività
dell'autonomia locale, nel senso che assicura in capo a province e comuni un nucleo
essenziale di funzioni da esercitare sotto la propria responsabilità, in assenza delle quali
viene meno la stessa situazione di autonomia. E' chiaro che questo nucleo di funzioni
non è configurabile in modo esatto e univoco, pur potendo essere utili a tal fine lo
sviluppo storico della normazione e delle funzioni (e attività) comunque esercitate dagli
enti locali, così come le evoluzioni delle esigenze locali.
La nozione di funzioni fondamentali, invece, ai sensi di questa norma, viene ad
incidere sull’assetto delle fonti in materia di amministrazione locale. E svolge un ruolo
di tutela dell'autonomia locale rispetto alla normazione regionale che incontra nella
detta nozione un limite invalicabile, ma anche di garanzia nei confronti delle collettività
locali, dovendosi ritenere che le funzioni fondamentali siano ad esercizio necessario.
Con riferimento ad ogni categoria di ente locale, si possono perciò identificare
funzioni proprie, che sono comunque riconosciute all’ente stesso. E se esse necessitano
per loro natura, di attribuzione legislative, debbono essere attribuite con legge alla
competenza dell’ente locale. È da ritenere che esse debbano essere comprese tra le
funzioni fondamentali stabilite dalla legge dello Stato ai sennsi dell’art. 117, 2° co., lett.
p); e la definizione che di queste ultime dà l’art. 2, 4° co., lett. b), della legge n. 131/03,
fa invero propendere per questa soluzione. Ma anche se non lo fossero, sarebbero
comunque intangibili dal legislatore, statale o regionale, a pena di illegittimità
costituzionale delle relative leggi. Non sono le funzioni fondamentali a costituire, come
è stato detto, “la parte insopprimibile delle funzioni proprie” (Follieri); ma sono le
funzioni proprie che costituiscono il nucleo insopprimibile delle funzioni dell’ente
locale, che non può essere in alcun caso intaccato.
Ulteriori funzioni vengono poi attribuite agli enti locali dalle leggi di settore,
statali o regionali, secondo la competenza per materia sulla base dei principi di cui al
primo comma dell’art. 118.
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4.3. Questi principi ovviamente si rivolgono al legislatore, statale o regionale
secondo la rispettiva competenza (come correttamente si esprime il 2° co. dell’art. 118,
circa il quale non si comprende perché una parte della dottrina ha voluto scorgervi una
contraddizione rispetto al 1° co.). E ne reggono le scelte circa la dislocazione delle
diverse funzioni nelle diverse materie, all’uno o all’altro livello di governo.
Che debbano essere le leggi a stabilire l’ambito delle funzioni amministrative
spettanti a ciascun ente, è fuori discussione (e i dubbi sul punto, pure emersi in dottrina,
appaiono del tutto ingiustificati); chè il nuovo testo costituzionale non ha inteso
modificare, né avrebbe potuto invero, l’assetto dei rapporti tra amministrazione e
legislazione, quale stabilito dai principi generali dell’ordinamento, e recepito dal testo
costituzionale in altre norme, e tra queste segnatamente e con portata generale, dagli
artt. 23 e 97.
Come accennato, non tutta l’amministrazione si articola nella titolarità e
nell’esercizio di poteri amministrativi, come si è accennato, e perciò non tutta
l’amministrazione deve trovare la sua base nella legge. E nello stesso ambito di poteri
amministrativi, quelli di carattere non autoritativo, possono ben essere oggetto di
regolamentazione non legislativa ma di carattere secondario.
Con queste precisazioni, lo spazio di amministrazione (chiamiamolo così)
spettante a ciascun ente di governo, nella parte in cui consta della titolarità di poteri
amministrativi in senso tecnico, è determinato dalla legge.
Quindi, il legislatore, nella disciplina delle diverse materie, laddove stabilisce
l’attribuzione ai diversi enti di governo delle funzioni amministrative relative alle
materie stesse, si deve attenere, a pena di incostituzionalità della disciplina, ai principi
fissati dalla norma.
Come è noto, nel nuovo testo costituzionale l’amministrazione è separata dalla
legislazione. E mentre quest’ultima è attribuita rispettivamente allo Stato o alle regioni
secondo la distinzione delle materie, l’amministrazione è attribuita in ogni materia, in
via di principio, alla competenza degli enti locali e segnatamente dei comuni, salvo che
la legge, rispettivamente statale o regionale, non ne conferisca la titolarità ad altro e
superiore livello di governo quando ciò sia reso necessario da esigenze di esercizio
unitario della funzione.
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Invero l’art.118, 1° co., che prevede questo criterio, va interpretato secondo la
teoria della dimensione degli interessi. Cioè il legislatore, statale o regionale, attribuisce
la titolarità di una determinata funzione amministrativa secondo la dimensione locale,
regionale o nazionale, dell’interesse rispettivamente curato (“l’individuazione del livello
di governo che meglio consente di svolgere la funzione”, come evidenziato in dottrina
(Fracchia) corrisponde alla dimensione territoriale dell’interesse curato).
Ovviamente, operando in questo punto incisivamente il principio di sussidiarietà,
la dimensione degli interessi nell’ambito delle diverse funzioni amministrative deve
essere letta privilegiando il riferimento locale (il principio opera anche, e soprattutto,
come canone di interpretazione). Anche la cura di un interesse che ha un rilievo e una
dimensione più ampie, può presentare ciò non di meno una dimensione locale dal punto
di vista dei bisogni degli utenti e in tal caso imporne l’allocazione a livello locale
dell’esercizio. Ma in ogni caso è la dimensione dell’interesse curato e non la distinzione
di materia a governare il criterio di attribuzione delle funzioni amministrative ai diversi
livelli di governo.
Quindi, mentre il riparto della legislazione segue criteri rigidi, il riparto
dell’amministrazione segue un criterio di massima elasticità. Il riparto della legislazione
è fondato sulla distinzione delle materie, il riparto dell’amministrazione è fondato sulla
dimensione degli interessi nell’ambito delle diverse materie.
Sul punto, tuttavia, la citata sentenza della Corte n. 303/03, ha stabilito, come già
si è mostrato, un criterio che consente l’esercizio della potestà legislativa statale anche
in materie che secondo il criterio di distribuzione della legislazione sarebbero di
competenza regionale, una volta che le relative funzioni amministrative, in base al
criterio della dimensione degli interessi, vengono dislocate a livello statale. Insomma,
sembra discorgere in questa impostazione una interpretazione del testo costituzionale
che consente, almeno in parte, di ricondurre la legislazione all’amministrazione e
perciò, in certa misura, di rendere elastica altresì la distribuzione della prima tra Stato e
regioni.
Il principio di sussidiarietà non ha solo questo significato, quasi un ulteriore
declinazione del vecchio principio di decentramento. Esso è anche e soprattutto il
principio che consente e per certi versi impone ad ogni livello di governo di dimensione
superiore di intervenire con la propria azione e con il proprio sostegno nell’ambito di
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funzioni e compiti di competenza del livello inferiore laddove questo non dispone di
forza e capacità, anche finanziaria, sufficiente. In questi termini com’è noto, il principio
è inteso nell’ambito dell’ordinamento europeo. Ma il principio di legalità comporta che
ogni potere amministrativo debba trovare la sua fonte in una norma (non
necessariamente legislativa, salva la riserva di cui all’art.23) e che da questa norma sia
determinata la competenza in ordine alla titolarità del potere; non derogabile a pena di
illegittimità dei relativi atti. E perciò si può affermare, almeno allo stato del vigente
ordinamento, che il principio di sussidiarietà non possa comportare uno spostamento
nell’ordine delle competenze relativamente all’esercizio di poteri amministrativi in
senso tecnico.
Esso opera, rendendo in parte elastico l’esercizio dell’amministrazione, non
nell’ambito delle funzioni in senso tecnico cioè dell’esercizio di poteri amministrativi,
ma in quello delle operazioni e prestazioni materiali, dei servizi, dell’attività negoziale,
dell’attività di intervento finanziario nonché dell’iniziativa politica a tutela degli
interessi della propria comunità. In tutti questi ambiti sicuramente il principio di
sussidiarietà diviene operante e consente una notevole elasticità nell’esercizio
dell’amministrazione e il sovrapporsi dei diversi livelli di governo nella cura concreta di
esigenze collettive laddove queste si presentano.
Il principio di sussidiarietà opera nel nuovo testo costituzionale unitamente ai
principi di differenziazione e adeguatezza.
Il principio di differenziazione impone al legislatore di tenere conto, nella
imputazione delle funzioni amministrative ai diversi enti, anche della medesima
categoria, della rispettiva capacità di governo, che dipende dalle dimensioni
organizzative, dall’entità dei mezzi e del personale, dal numero degli abitanti e così via.
In questa prospettiva risulta definitivamente spezzata l’antica omogeneità del governo
locale, che ci perviene dalla tradizione napoleonica e dalle leggi piemontesi. Mentre il
principio di adeguatezza si traduce nella politica delle aggregazioni comunali fondate
sull’associazionismo. Funzioni che per loro natura debbono essere esercitate a livello
comunale, ma che richiedono una determinata dimensione organizzativa da parte degli
enti, presuppongono, perché possano essere loro imputate, che essi si aggreghino tra
loro attraverso le diverse forme associative previste.
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In mancanza di ciò, le funzioni stesse debbono essere necessariamente imputate
all’ente di dimensione superiore, come, a fronte del livello comunale, è la provincia. Sul
punto, la legge finanziaria del 2001 (l. 23.12.2000, n. 388) aveva previsto un processo
accelerato di aggregazione degli enti locali nelle forme associative, promosso d’intesa
tra province e regioni, e nelle more il conferimento alle province delle funzioni e dei
compiti conferiti dallo Stato e dalle regioni agli enti locali, subordinatamente alla loro
aggregazione nelle forme associative (l. cit., art. 52, 2° co.). La norma non ha avuto
applicazioni concrete e significative, ma è sintomatica di un deciso orientamento del
nostro ordinamento nella prospettiva del principio di adeguatezza.
Una volta stabilito che una determinata funzione amministrativa coinvolge
interessi di una determinata dimensione territoriale, non necessariamente l’ente di
governo territoriale relativo, sia esso un comune o una provincia, può divenirne il
titolare; perché può non presentare in concreto una capacità di governo adeguata. E in
tal caso, la funzione viene conferita all’ente di governo di livello superiore, ovvero
all’organizzazione associativa degli enti minori.
Il legislatore non solo può disporre differenti statuti giuridici per i differenti enti,
a seconda della loro capacità di governo, ma la norma costituzionale glielo impone,
stabilendo una correlazione diretta e immediata tra titolarità della funzione, dimensione
degli interessi relativi, capacità di governo del singolo ente.
5. Il rapporto tra i pubblici poteri e le attività di interesse generale svolte dai privati
5.1. Come è noto, l’art.118 ult. co., contiene un’importante novità nel nostro
panorama costituzionale disponendo che lo Stato e gli altri enti del governo territoriale
favoriscano “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati per lo svolgimento di
attività di interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui invero la
sussidiarietà investe la problematica, tanto delicata e perplessa, dei rapporti tra pubblico e
privato nell’esercizio di attività di interesse generale. E’ il privato, con la sua autonoma
iniziativa che il pubblico deve favorire, a “sussidiare” i pubblici poteri nell’esercizio di
attività di interesse generale. Ma è il pubblico che deve sempre intervenire e coprire con la
sua azione ogni esigenza di carattere generale laddove l’iniziativa autonoma dei privati non
si concretizzi. Laddove l’iniziativa autonoma dei privati viceversa si concretizza, se essa
risponde a criteri di efficienza e di efficacia (cioè abbia la capacità di soddisfare i bisogni di
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interesse generale a fronte dei quali si pone), non può essere soppressa o sostituita da una
iniziativa pubblica con il medesimo oggetto; ma deve essere favorita nel suo estrinsecarsi, e
assistita, laddove possibile, anche con interventi finanziari. E della presenza di queste
attività di interesse generale svolte da privati, i pubblici poteri, secondo le rispettive
competenze, devono tenere conto nell’organizzazione e nel dimensionamento stesso della
propria attività nei settori coincidenti.
La norma, con la quale si è inteso accogliere, a livello costituzionale (art. 118
4°comma Cost.), il principio della sussidiarietà c.d. orizzontale, cui già s’è accennato, ne
esprime una declinazione almeno apparentemente debole, rispetto a formulazioni più forti,
emerse a più riprese nel dibattito costituente (ved. ad es A.C. 3931-A art.56 , ossia il testo
della Commissione Bicamerale D’Alema sia nella formulazione originaria che in quella
successiva agli emendamenti, e le successive proposte di legge costituzionali A.C. n. 5017
del 24.6.1999 e A.C. n. 6044 del 19.5.1999), secondo le quali, grosso modo,
l’amministrazione pubblica dovrebbe limitare la propria azione a quei settori di intervento
nei quali l’attività privata non possa più proficuamente o più efficientemente esplicarsi.
Cioè, un limite costituzionale all’attività stessa dei pubblici poteri nella cura di interessi
collettivi, è una posizione privilegiata, potrebbe dirsi delle attività di interesse generale
esercitate da privati.
Ad ogni modo, la norma, pur con i suoi limiti, stabilisce per la prima volta il
principio che le attività di interesse generale non sono monopolio dei pubblici poteri ma
possono essere svolte anche da privati. E che ciò è ritenuto, nell’ordinamento costituzionale,
un fattore positivo che i pubblici poteri devono, appunto, favorire. Del resto, lo stesso testo
costituzionale, nella sua versione originaria già prevedeva, com’è ben noto, che i cittadini,
anzi gli uomini, come singoli ovvero nell’ambito di formazioni sociali nelle quali si svolge
la loro personalità, agissero in vista dell’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale (art. 2); cioè, si può dire, non per scopi egoistici, o
esclusivamente individualistici, ma appunto, nell’interesse anche degli altri, nell’interesse
collettivo.
Le “attività di interesse generale” sono altra cosa rispetto alle funzioni
amministrative di cui al primo comma dell’art. 118, anche se in parte coincidono.
Sicuramente le funzioni amministrative sono attività di interesse generale (tutta
l’amministrazione lo è per definizione). Ma le attività di cui all’ultimo comma non
comprendono funzioni amministrative in senso tecnico, esercizio di poteri amministrativi.
Queste infatti sono riservate alla pubblica amministrazione, salvi i casi di munera
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espressamente previsti dalle leggi ( tra le più importanti, sul notariato, art.1 l.16.2.1913 n.
89 ed artt. 2699 e 2703 c.c.; art. 83 c.p.c. per gli avvocati; art. 296 per i capitani di nave).
Parimenti, senza pretesa di approfondire la questione che meriterebbe ben altra
trattazione, sembra si possa affermare che la norma non si riferisca ai servizi pubblici a
carattere industriale e commerciale (pur essendo queste attività senz'altro configurabili
come di interesse generale), ossia alle attività di impresa caratterizzate dall'imposizione di
obblighi di servizio pubblico, tanto ove svolte in regime di concorrenza quanto in regime si
riserva. Infatti, in questo settore i principi circa le relazioni tra pubblico e privato sono
dettate da altre disposizioni costituzionali (art. 41, 43, 117) nonché dalla normativa
comunitaria, peraltro sempre più pervasiva (si pensi al settore delle telecomunicazioni o a
quello dell'energia elettrica).
Le attività di interesse generale, consistono fondamentalmente di operazioni e
prestazioni materiali, supportate, dal punto di vista giuridico, da attività negoziale e
caratterizzate in principio dalla non essenzialità del fine di lucro (ma questo punto appare
ancora dubbio, invero: subito infra). Esse si esplicano in alcuni tipici settori, da quello
dell’assistenza e cura dei disabili degli anziani e degli infermi, a quello della manutenzione
e cura di beni culturali, di beni pubblici in genere, dell’ambiente, a quello
dell’organizzazione di manifestazioni culturali, di programmi di ricerca scientifica e
tecnologica, e così via.
Resta viceversa escluso dal contesto della norma, come s’è accennato, il significato
più esteso del principio di sussidiarietà orizzontale che trova riscontri tuttavia nel dibattito
politico; quello cioè che impone al pubblico di ritirarsi da determinati interventi di carattere
amministrativo laddove questi possono essere più proficuamente realizzati dall’iniziativa
privata. Un significato cioè di subordinazione del pubblico al privato; nel senso che il primo
non deve operare laddove il secondo possa meglio, più proficuamente, più
economicamente, più efficacemente operare.
Il principio della sussidiarietà orizzontale, come sancito nel nuovo testo dell’art.
118, perciò non impedisce l’intervento pubblico in tutti i settori in cui questo è ritenuto
necessario sulla base di valutazioni politiche del legislatore (fermo restando che esso è
obbligatorio, laddove previsto dalla Costituzione, come nel caso della scuola: art. 33); a
prescindere dal fatto che i privati possano più proficuamente operare nei settori stessi.
Anche se deve tener conto, sempre, di questo operare.
Esso viceversa impedisce al legislatore, di pubblicizzare, sia sotto il profilo
soggettivo (trasformazione di istituzioni private in enti pubblici) sia sotto il profilo
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oggettivo (sostituzione di attività private con attività delle pubbliche amministrazioni),
settori nei quali l’iniziativa autonoma dei soggetti privati sia presente nella gestione di
attività di interesse generale. Si pensi, ad esempio, all’iniziativa privata in materia di
assistenza o in materia di attività culturali o di protezione dell’ambiente, ad esempio
attraverso associazioni o fondazioni senza scopo di lucro: presenza questa che in nessun
caso può essere rimossa o sostituita dall’intervento pubblico, in virtù della nuova norma
costituzionale. Peraltro, com’è noto, la Corte costituzionale già aveva stabilito dei limiti
ben precisi alla possibilità per il legislatore di trasformare soggetti privati in enti pubblici
(Corte cost., n. 396/88; n. 259/90: IPAB, Comunità israelitiche).
E segnatamente, sul punto, sia la Corte costituzionale (nn. 300/03 e 301/03) sia il
Consiglio di Stato (sez. atti norm.,1.7.2002. n.1354) a proposito delle c.d. Fondazioni
bancarie, hanno affermato ben precisi limiti al legislatore nella determinazione di misure “di
compressione” della autonomia degli enti, in quanto espressione di originarie
manifestazioni di autonomia privata (“soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”) e
perciò protetti nel loro ambito dai principi dell’art. 118, ult. co.. Ad analoghe considerazioni
può giungersi a proposito delle c.d. autonomie funzionali (Camere di commercio,
Università degli studi, ordini professionali, etc.), enti espressione di autogoverno di
comunità di settore, nati in genere dalla autonoma iniziativa delle comunità stesse, e
successivamente pubblicizzati, ma comunque rappresentativi degli interessi di riferimento.
Queste organizzazioni, sia nella loro autonomia organizzativa interna, sia nella loro azione
di cura degli interessi di categoria, sono da ritenere “protette” nei confronti dell’intervento
pubblico.
Naturalmente, questa limitazione all’intervento pubblico, è condizionata dal fatto
che l’iniziativa privata nei settori stessi si svolga secondo criteri di efficienza ed efficacia,
ciò che deve essere oggetto di valutazione (di monitoraggio, si direbbe) da parte dei
pubblici poteri.
5.2. L’elemento centrale e caratterizzante del rapporto tra enti territoriali e soggetti
privati delineato dall’art.118 è da rinvenire dunque nella locuzione favoriscono.
In primo luogo si sottolinea che la disposizione costituzionale non sancisce, come
ipotizzato da alcuni, una mera possibilità per i soggetti pubblici: ciò significherebbe difatti
privare di significato la norma costituzionale. Al contrario l’art.118 definisce un vero e
proprio obbligo giuridicamente rilevante a carico degli enti.
26
Tale dovere può assumere vario contenuto in relazione alle diverse esigenze: in via
preliminare, esso comporta necessariamente la predisposizione di condizioni idonee a che i
cittadini (singoli e formazioni sociali) siano favoriti nell’assunzione dell’esercizio delle
attività di interesse generale.
In secondo luogo, in una fase successiva al sorgere di iniziative dei cittadini,
l’obbligo può estrinsecarsi mediante predisposizione di infrastrutture, erogazione di fondi,
agevolazioni sul tasso di interesse, dislocazione del personale dall’ente etc etc.
E’ inoltre preclusa all’ente pubblico, conseguentemente, la possibilità di sostituirsi
ai soggetti privati già operanti con efficacia, in un dato contesto, in settori di pubblica
utilità; insieme al divieto di sostituzione, c’è altresì quello di pubblicizzazione di formazioni
sociali costituite da cittadini: tale divieto, peraltro, come accennato, trovava già uno
specifico fondamento nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. L’obbligo di favorire
determina quindi, secondo un profilo strettamente economico, una situazione in cui “appare
meno necessario impiegare risorse pubbliche là dove operano, o sono in grado di operare i
privati, mediante il ricorso a forme di autofinanziamento e/o incremento delle risorse che
provengono dall’apporto disinteressato dei singoli.”(Cons. Stato, sez. cons. atti normativi,
nn. 1354/2002 e 1794/2002).
In definitiva, laddove siano operanti in modo adeguato soggetti privati in settori di
pubblica utilità, non è possibile oggi per un ente pubblico intervenire successivamente ed in
via di sostituzione, riducendo lo spazio o addirittura estromettendo formazioni private
espressione della realtà sociale .
Sul punto, si pone il problema se questa limitazione dell’intervento pubblico valga
anche nei confronti dei privati operanti per scopo di lucro, in forma di impresa. Già s’è
accennato al settore dei servizi di pubblica utilità. E invero, si potrebbe sostenere, che sulla
base della norma non sarebbe più consentito al legislatore, o alle pubbliche amministrazioni
nell’ambito dell’organizzazione dei servizi di propria competenza, di sostituire proprie
strutture organizzative, ad aziende private operanti nell’ambito del servizio in virtù di
rapporti convenzionali, salvo che le loro prestazioni risultino inefficaci ai fini delle esigenze
del servizio stesso. Una recente decisione del Consiglio di Stato (Sez. V, n. 6395/02), ha
considerato compreso nell’ambito del principio di sussidiarietà orizzontale, e quindi protetto
dal principio stesso, il rapporto convenzionale tra una USL e un’azienda sanitaria privata
operante nell’ambito del servizio sanitario sulla base di un rapporto convenzionale.
Dall’operatività del principio deriva la sussistenza di uno specifico obbligo di
motivazione a carico degli enti pubblici, nel caso di assunzione diretta di attività d’interesse
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generale, qualora questa sia già esercitata da un soggetto privato, ovvero questo dichiari di
volerla svolgere. L’ente dovrà esplicare puntualmente le ragioni (legate, naturalmente, a
profili di efficienza ed efficacia nella gestione del servizio) che lo hanno indotto
all’assunzione del servizio.
La giuridicità dell’obbligo determina la sindacabilità in sede di giustizia
amministrativa, degli atti relativi, adottati dagli enti e incidenti sulla esplicazione delle
attività private. Insomma, l’art. 118 (e le disposizioni legislative che ne sono attuazione)
possono fornire un criterio per il sindacato del giudice amministrativo volto ad accertare
l’opportunità o meno dell’intervento pubblico rispetto a quello dei soggetti privati.
5.3. L’oggetto del favorire è quello dell’autonoma iniziativa dei cittadini
nell’esercizio di attività di interesse generale.
Si sottolinea quindi a tale proposito che, come rilevato dal Consiglio di Stato (cit.
1354/2002): “Lo Stato e ogni altra Autorità pubblica proteggono e realizzano lo sviluppo
della società civile partendo dal basso, dal rispetto e dalla valorizzazione delle energie
individuali, dal modo in cui coloro che ne fanno parte liberamente interpretano i bisogni
collettivi emergenti dal sociale…”
L’iniziativa privata deve essere autonoma, ciò che distingue l’ambito della norma da
quello dei munera, come attività attribuite a soggetti privati direttamente dalla legge (ved.
sopra). Mentre le attività di interesse generale, da una parte non corrispondono esattamente
alle funzioni amministrative di cui al 1° co. dell’art. 118, perché le prime, come s’è
accennato, non comprendono l’esercizio di poteri amministrativi in senso tecnico; ma
dall’altra, possono avere ad oggetto attività diverse ed ulteriori rispetto a quelle che sono
esercitate dagli enti stessi, di cui cioè gli enti hanno assunto obbligatoriamente l’esercizio:
in una data fase storica, in un determinato contesto sociale, possono emergere infatti bisogni
particolarmente rilevanti al cui soddisfacimento i pubblici poteri non abbiano ancora dato
una risposta.
Affinchè un’attività possa essere qualificata d’interesse generale, è necessario che
risponda ad un interesse generale come emergente dalla realtà storico- sociale, anche al di
fuori di ogni previsione normativa; non convincono, su quest’ultimo punto, le tesi di coloro
che tendono a ricondurre il novero delle attività di cui all’art.118 entro quelle già
determinate ex lege; difatti, quantunque sia possibile solitamente rinvenire nella legislazione
un riferimento idoneo a qualificare come pubblico un dato interesse, ciò non esclude che in
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un dato contesto possano emergere ulteriori interessi rispetto a quelli prefissati in via
normativa .
Le attività in questione si svolgono essenzialmente mediante operazioni e
prestazioni; esse sono assimilabili all’amministrazione di “prestazione”: assistenza sociale,
tutela ambientale, etc.. Sul piano giuridico, gli operatori possono utilizzare moduli
negoziali: contratti, negozi unilaterali, transazioni, ed altre operazioni di carattere
privatistico. Non sembrano viceversa utilizzabili in questo tipo di attività strumenti di diritto
pubblico; ciò che farebbe ritenere non applicabili i principi del procedimento
amministrativo (l. n. 241/90). Tuttavia, è da tenere presente, sul punto, la norma del testo di
riforma della legge n. 241/90, in corso di approvazione parlamentare, laddove prevede che
“i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei
principi di cui al comma 1” (così l’art. 1, AS 1281-B, che inserisce il comma 1-ter nell’art.
1 della legge n. 241/90; v. ora A.C. 3890-B). E i principi di cui al comma1, com’è ben noto,
sono quelli di pubblicità, trasparenza, economicità, etc., cui adesso si aggiungono quelli
dell’ordinamento comunitario. Sembra in sostanza che in questo modo sia senz’altro
richiamata, sia pure per principi, la disciplina generale del procedimento. E d’altra parte le
attività amministrative contemplate dalla nuova norma, potrebbero sicuramente essere
intese come comprensive di quelle svolte dai soggetti privati nell’interesse generale sulla
base del principio di cui all’art. 118, ult. co..
Oltre che il naturale riferimento finalistico al soddisfacimento dell’interesse
pubblico, è necessario che i cittadini operino rispettando alcuni criteri di carattere generale,
perché la loro azione possa distinguersi da altre attività private, che pur possono presentare
aspetti di interesse generale, ma che tali restano, senza incidere nell’ambito operativo della
norma in esame (si pensi ad esempio, alla tradizionale beneficenza privata).
Possono essere individuati alcuni criteri quali, anzitutto, l’accessibilità e
l’universalità delle prestazioni: il soggetto privato deve infatti garantire il rispetto, in primo
luogo, dell’art.3 Cost. relativo al principio di eguaglianza fra i cittadini e dunque non
effettuare discriminazioni tra i possibili fruitori.
In secondo luogo è necessario che la gestione del servizio sia improntata ai caratteri
della trasparenza in materia di bilanci, organizzazione del personale etc.; questo è elemento
necessario affinchè possa essere correttamente esercitato una forma di controllo da parte dei
pubblici poteri.
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In terzo luogo, è necessario che il prezzo finale del prodotto fornito alla collettività
sia non superiore a quello che soggetti pubblici avrebbero imposto in caso di gestione
diretta; in altri termini, non è rilevante, come sostenuto da alcuni, che i soggetti privati
ottengano o meno guadagni nell’esercizio di tale attività; è viceversa determinante che,
appunto, i cittadini non debbano pagare un surplus derivante dal profitto.
A ciò si aggiunga quanto sopra s’è detto, circa l’applicazione dei principi di cui
all’art. 1, l. n. 241/90.
E’ solo il rispetto di questi principi e criteri, che qualifica le attività in questione, tra
le altre attività private, e le pone, diciamo così, sotto la protezione della norma in esame (in
rapporto cioè di reciproca interferenza con le attività pubbliche).
Il modello di responsabilità configurabile a carico dei soggetti privati operanti ai
sensi della norma, resta quello civilistico, è da ritenere. E perciò gli operatori privati,
rispondono, dunque, secondo i principi di diritto comune verso i terzi per eventuali
omissioni, errori o mancanze nell’esercizio dell’attività d’interesse generale.
Circa l’individuazione delle forme di associazioni di cittadini a cui si riferisce
l’art.118, non è possibile effettuare un’elencazione tassativa; le modalità di organizzazione
dei cittadini sono difatti assolutamente varie, in relazione alle diverse esigenze che possono
emergere dalla società. La disposizione è rivolta principalmente alle organizzazioni di
volontariato, alle Onlus, etc. (in merito, si sottolinea la legge quadro sul sistema integrato
dei servizi sociali l.n. 328 del 8.11.2000), operanti secondo i modelli organizzativi di cui al
primo libro del codice, e prive di scopo di lucro. Ma non è da escludere, come accennato,
che nella norma possano farsi rientrare, in certi limiti, anche le attività di impresa.
Il principio di sussidiarietà “orizzontale” come fissato dall’art. 118, 4° co., Cost.,
presenta, come s’è visto, una sua peculiarità rispetto ad altri modelli più estensivi del
principio stesso, pure proposti, ma non accolti nel testo costituzionale. Tuttavia, pur in
assenza di un vero e proprio obbligo di astensione a carico degli enti pubblici a fronte di
attività private che si svolgano, in determinati settori, anche più proficuamente, è evidente
che la sua corretta applicazione comporterà, già nel breve periodo, una riduzione della sfera
del “pubblico” nell’esercizio delle attività di interesse generale.
L’autonoma iniziativa dei privati acquista dunque un particolare rilievo in quanto
attraverso di essa è possibile soddisfare i bisogni collettivi, realizzare cioè delle utilità
generali: “così da far assumere una posizione prioritaria del privato rispetto al pubblico,
anche in settori sinora riservati alla competenza esclusiva degli apparati amministrativi”
(Parere 1354/2002 cit.).
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Il principio di sussidiarietà implica tuttavia pur sempre la possibilità di sostituirsi al
privato qualora esso risulti non esercitare adeguatamente l’attività d’interesse generale; a
quest’ultimo proposito saranno particolarmente rilevanti i meccanismi di controllo e
vigilanza che dovranno operare al fine di valutare se l’autonoma iniziativa dei cittadini sia
in grado di soddisfare le particolari esigenze della collettività emergenti dal contesto
storico-sociale. Senza alcuna forma di programmazione o controllo dell’attività dei privati,
che costituirebbe un’illegittima ingerenza. Dovranno essere predisposti modelli differenti,
rispettosi della libertà dei cittadini e strumentali eclusivamente ad un’eventuale e motivata
sostituzione; nel complesso di relazioni tra enti territoriali e cittadini dovranno essere
rispettati principi di leale collaborazione attraverso la predisposizione di conferenze
consultive o, più in generale, di meccanismi di intesa tra i soggetti.
La costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale segna dunque un
notevole progresso verso una rinnovata concezione del cittadino nella società, secondo il
modello della demarchia; in tale sistema l’individuo è soddisfatto soltanto attraverso la
partecipazione personale in tutte quelle manifestazioni della sovranità che direttamente o
indirettamente possano interessarlo e coinvolgerlo: dunque non soltanto attraverso le forme
della rappresentanza politica (assemblee, partiti etc.) ma anche mediante istituzioni
spontanee di cittadini che intendono provvedere alla risoluzione dei problemi di interesse
generale della collettività.
Il cittadino non è più quindi, “suddito”, “cliente”, o “utente” passivo di servizi resi
dall’amministrazione, ma egli diviene soggetto capace di concorrere in prima persona,
senza intermediazioni politiche, alla tutela degli interessi collettivi; questa soluzione
consente inoltre una nuova “lettura” dello stesso art.1 della Costituzione ovvero una nuova
concezione della stessa sovranità del popolo: il popolo è sovrano non solo perché, con il
proprio voto, determina la formazione delle Camere o l’indirizzo dell’esecutivo, ma anche
perché interviene direttamente in attività di interesse generale.
In un nuovo modello di democrazia dunque soggetti pubblici e privati non si
pongono in antitesi ma si pongono in una posizione di collaborazione reciproca nella
realizzazione dell’interesse generale .
6. L'esercizio dei poteri sostitutivi
6.1. Nell’esercizio delle funzioni amministrative da parte degli enti del governo
territoriale, ivi comprese le regioni, è previsto dall’art. 120 un potere sostitutivo a carattere
generale in capo al Governo, che può essere attivato nei casi e con i limiti stabiliti dalla
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norma (v. adesso, art. 8, l. n. 131/03): a fronte di inadempimenti da parte di questi enti, con
riguardo, sia ad alcuni settori normativi, quelli internazionali e comunitari, sia ad esigenze
pubbliche di particolare gravità concernenti l’incolumità e la sicurezza, sia a fronte di
esigenze di tutela dell’unità giuridica ed economica del Paese, nonché dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
In verità, la norma non parla di inadempimenti, ma usa altra espressione per indicare
i presupposti per l’esercizio del potere sostitutivo (“mancato rispetto di norme e trattati…
pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica… quando lo richiedono la tutela
dell’unità… la tutela dei livelli essenziali…”). Tuttavia, sembra sempre prospettabile, in
tutti questi casi, una situazione di inadempimento da parte degli enti, intesa in senso ampio
come situazione prodotta dal mancato adempimento a fronte, non solo di obblighi giuridici
veri e propri, ma anche di esigenze pubbliche di carattere primario.
La norma deve essere osservata in connessione ad altre norme del testo
costituzionale riguardanti le rispettive competenze di Stato e regione, nonché l’assetto
finanziario rispettivo.
Segnatamente, il riferimento è all’art. 117, 2° co., lett. e) (“perequazione delle
risorse finanziarie”), lett. m) (“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni”);
nonché all’art. 119, nella parte in cui dispone che regioni ed enti locali debbano far fronte
all’esercizio delle loro funzioni esclusivamente con mezzi propri, non vincolati nella
destinazione (salvo l’intervento eccezionale di cui al 5° co.); ciò che può dar luogo a
carenze o a veri e propri vuoti di intervento da parte degli enti nel settore delle prestazioni
sociali ritenute fondamentali.
L’art. 120 si pone a questi fini come una sorta di norma di chiusura e di clausola
generale che dovrebbe consentire al Governo di utilizzare strumenti di vario tipo, strumenti
atipici cioè, per far fronte a questa congerie di esigenze.
Il procedimento (art. 8, cit.) è costruito sul modello tradizionale della diffida ad
adempiere. Laddove si verifichi cioè uno dei casi di inadempimento previsto dalla norma
costituzionale all’ente inadempiente viene assegnato “un congruo termine per adottare i
provvedimenti dovuti o necessari”. Scaduto il quale, il Governo, con la partecipazione del
presidente della regione interessata, adotta i provvedimenti che l’ente avrebbe dovuto
adottare e che non ha adottato. La norma prevede che sia sentito a tal fine “l’organo
interessato” che sembra essere, nonostante l’imprecisione del linguaggio, “lo stesso ente
interessato” cui era stato assegnato il termine per provvedere. In luogo dell’adozione diretta
dei provvedimenti da parte del Governo, può essere seguito il tradizionale modello della
32
nomina di un commissario ad acta, cioè di un organo straordinario dell’ente inadempiente
che agisca in luogo di questo.
L’inadempimento cui da luogo l’esercizio del potere sostitutivo, non viene definito;
se di carattere soltanto omissivo, o anche commissivo. Sembra invero da preferire questa
seconda soluzione. Infatti, il “mancato rispetto” di norme internazionali o comunitarie può
avvenire sicuramente a seguito dell’inattuazione di adempimenti previsti da dette norme
ovvero di erronea o carente attuazione, e può avvenire senz’altro anche a fronte
dell’adozione di norme o provvedimenti che con quelle siano in contrasto. E così anche una
situazione di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica nonché una situazione
tale da minare la tutela dell’unità giuridica o dell’unita economica del Paese, ovvero la
tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, può essere
prodotta tanto da mancata adozione di atti o provvedimenti necessari a questi fini quanto da
adozione di atti o provvedimenti che con quei fini siano in contrasto e che ne mettano in
pericolo o in difficoltà il rispetto.
Quindi, il potere sostitutivo del Governo può avere luogo tanto a fronte di
comportamenti omissivi delle regioni e degli enti locali rispetto ai fini della norma quanto
di comportamenti commissivi: l’aver adottato cioè atti e provvedimenti che non avrebbero
dovuto essere adottati. In questo secondo ordine di casi, il meccanismo immaginato dalla
norma dovrebbe funzionare nel senso che il congruo termine assegnato all’ente per
provvedere, abbia ad oggetto l’adozione di provvedimenti di annullamento o di revoca, o di
riforma, di atti e provvedimenti precedentemente adottati in contrasto con le finalità della
norma. E in tal caso il procedimento seguirebbe lo schema previsto, nel senso che una volta
scaduto il termine inutilmente, il Governo, ovvero il commissario ad acta, provvedono ad
adottare gli atti di autotutela richiesti all’ente e perciò a eliminare i provvedimenti adottati e
a ripristinare la situazione qua ante messa in pericolo da essi.
Una particolare procedura è prevista nei casi di esercizio del potere sostitutivo per
violazione della normativa comunitaria. E si prevede l’abrogazione dell’art. 11 della legge
9.3.1989, n. 86, che disciplinava l’esercizio del potere sostitutivo da parte del Governo con
riferimento ad inadempimenti per “inattività amministrativa” delle regioni a fronte degli
obblighi derivanti da atti comunitari.
6.2. Sin dal primo momento gli interpreti si sono posti, il problema circa la portata
dell’art. 120; se riferita alla sola attività amministrativa ovvero anche a quella legislativa. E
invero alcuni degli oggetti previsti dalla norma che si sono ricordati, la tutela dell’unità
33
giuridica ed economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni, e così via, appaiono
a prima vista come oggetti piuttosto di disciplina legislativa delle regioni, che dell’azione
amministrativa di esse e degli enti locali; anche se indubbiamente investono l’azione
amministrativa. La norma costituzionale contiene, tuttavia sul punto, un elemento
interpretativo di non trascurabile rilievo. E cioè che il soggetto del potere sostitutivo
previsto dalla norma, è il Governo, e non lo Stato. E ciò fa ritenere che la norma investa
appunto l’attività amministrativa, cioè l’attività tipica e propria dell’esecutivo; e non quella
legislativa.
La norma attuativa contiene un dato testuale ulteriore, laddove qualifica, come s’è
accennato, i provvedimenti necessari per l’esercizio del potere sostitutivo, “anche
normativi”. Sul punto, appare pacifico che il Governo possa adottare nell’esercizio del
potere sostitutivo atti regolamentari, tradizionalmente nella sua competenza, laddove questi
possano essere necessari ai fini del potere sostitutivo. Ad esempio, un regolamento
comunale del commercio, un regolamento edilizio, in ipotesi contrastanti con norme
fondamentali a tutela della proprietà o dell’iniziativa economica privata o della concorrenza
(materie di esclusiva competenza dello Stato), possono essere riformati o annullati da atti
del Governo, assunti nell’esercizio del potere sostitutivo, che hanno natura regolamentare.
In casi di particolare urgenza, e a fronte di situazioni contingibili, tali da porre in
pericolo l’unità giuridica ed economica del Paese e i livelli essenziali delle prestazioni, è da
ritenere che il Governo, pur non potendo utilizzare lo strumento legislativo, possa utilizzare
poteri atipici, ascrivibili alla specie del potere di ordinanza. Le ordinanze contingibili e
urgenti, com’è noto, possono anche derogare, ovviamente per il tempo strettamente
necessario, all’operatività di norme di legge sospendendone l’efficacia (purchè non siano
violati principi costituzionali) (Corte cost., n. 8/56; n. 26/61).
Il potere di indirizzo e coordinamento già disciplinato da ultimo dalla legge n. 59/97
(art. 8) e dal d.l.vo n. 112/98 (art. 4) è espressamente soppresso.
Ed è da ritenere altresì l’implicita abrogazione dell’art. 138, t.u. enti locali, d.lvo n.
267/00, sull’annullamento straordinario degli atti degli enti locali “viziati da illegittimità”.
L’antico istituto (oggi, art. 2, 3° co., lett. p), l. n. 400/88: ma ivi previsto “a tutela dell’unità
dell’ordinamento”) dell’annullamento governativo, resta in vita nei confronti degli atti
amministrativi delle pubbliche amministrazioni, ma non delle regioni (v. già Corte cost. n.
408/98) né degli altri enti del governo territoriale, alle prime accomunate dal nuovo testo
costituzionale (art. 114, 1° co., art. 118, art. 120, 2° co.). Alle esigenze di tutela dell’unità
dell’ordinamento, nei casi e con le forme previste dall’art. 120, Cost., e dall’art. 8, l. n.
34
131/03, si può provvedere esclusivamente secondo il modello costituzionale. Mentre le
illegittimità “comuni” possono essere rilevate esclusivamente in sede giurisdizionale. E allo
stesso modo, risultano abrogate le norme sui poteri sostitutivi del Governo e delle regioni
previste dallo stesso t.u. (artt. 136 e 137).
6.3. Secondo la Corte costituzionale (n. 43/04) il potere sostitutivo del Governo, di
cui all’art. 120, come potere di carattere straordinario, “da esercitarsi sulla base dei
presupposti e per la tutela degli interessi” esplicitamente indicati dalla norma (come del
resto era configurato il potere di annullamento “straordinario” di cui s’è appena detto),
“lascia impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi,
configurabili dalla legislazione di settore, statale o regionale, in capo ad organi dello Stato o
delle regioni o di altri enti territoriali”.
Normative di settore possono dunque prevedere singoli interventi sostitutivi nei
confronti di tutti gli enti del governo territoriale, laddove ciò sia reso necessario per far
fronte ad esigenze proprie dell’amministrazione di settore. La casistica è assai ricca nella
legislazione vigente, com’è noto, della quale occorrerà caso per caso valutare la conformità
ai nuovi principi costituzionali in molti casi assai dubbia (v. ad es. art. 31, d.lvo n. 114/98,
in materia di commercio nei confronti delle regioni; art. 6, l. n. 595/85, in materia sanitaria
nei confronti delle regioni; art. 31, d.p.r. n. 380/01, in materia edilizia nei confronti dei
comuni; art. 149, d.lvo 490/99, in materia di piani paesistici nei confronti delle regioni; il
caso di cui alla sentenza della Corte riguarda l’adeguamento dello strumento urbanistico da
parte dei comuni a quanto previsto dalla programmazione regionale in tema di insediamenti
turistico-ricettivi, secondo la l.r. Veneto n. 33/02).
Si deve tener presente che questi interventi sostitutivi costituiscono comunque,
sottolinea la Corte, una vistosa eccezione rispetto al normale svolgimento delle funzioni da
parte dei singoli enti. E occorre perciò che l’esercizio di essi sia sottoposto a condizioni e
limiti, che già la Corte aveva fissato, peraltro, a proposito dei poteri sostitutivi dello Stato
nei confronti delle regioni (che adesso si estendono agli enti locali).
E così, occorre l’esplicita previsione legislativa del singolo potere sostitutivo (v. già
Corte cost. n. 338/89); il potere sostitutivo può essere previsto esclusivamente per il
compimento di attività prive di discrezionalità nell’an (v. già Corte cost. n. 177/88); il
potere sostitutivo deve essere esercitato dall’organo di governo della regione, e non da un
ufficio di carattere burocratico (v. già Corte cost. n. 460/89, n. 313/03). E infine occorrono
“congrue garanzie procedimentali per l’esercizio del potere sostitutivo, in conformità al
35
principio di leale collaborazione”. Il procedimento dovrà prevedere una puntuale
partecipazione dell’ente al quale si rivolge l’intervento sostitutivo, il quale deve essere
“comunque messo in grado di evitare la sostituzione attraverso l’autonomo adempimento”
(v. già Corte cost. n. 153/86, n. 416/95; ord. n. 53/03).
6.4. Secondo la norma costituzionale, i poteri sostitutivi del Governo devono essere
esercitati “nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.
E la legge dello Stato, secondo la norma costituzionale, deve definire le procedure atte a
garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto di tali principi.
Si pone il problema di stabilire che cosa significa la menzione del principio di
sussidiarietà in tale contesto.
Per quanto riguarda il principio di leale collaborazione, invero, la sua menzione
comporta che il potere sostitutivo non possa essere esercitato unilateralmente dal Governo,
ma debba essere sempre il frutto di una qualche forma di concertazione con gli enti
interessati. E’ noto infatti che il principio è stato elaborato dalla Corte costituzionale in
molteplici sentenze fondamentalmente con questo significato (tra le più rilevanti, nel
previgente sistema costituzionale C. Cost. n.214/1988; recentemente C. Cost. nn. 303/2003;
308/2003; 327/2003): obblighi di comunicazione preventiva, obblighi di chiara
esplicitazione dei motivi, necessità di preventivi pareri, in alcuni casi di vere e proprie
intese come strumenti di codeterminazione. E da questo punto di vista la norma attuativa in
qualche misura tiene conto delle esigenze poste dal rispetto del principio, laddove prevede
l’assegnazione di un congruo termine all’ente interessato per l’adozione dei provvedimenti
dovuti, la partecipazione del presidente della regione alla riunione del Consiglio dei
ministri, la partecipazione della Conferenza Stato-regioni, ovvero della Conferenza Statocittà-autonomie al procedimento. Anche se manca la previsione di una previa convocazione
dell’ente locale inadempiente, al fine di stabilire un contraddittorio con esso in ordine
all’inadempienza riscontrata. Mentre la mera previsione della presenza del presidente
regionale (in quanto tale non rappresentativo degli enti locali) non appare sufficiente a tal
fine.
Connesso all’esigenza del rispetto del principio di leale collaborazione, è la
previsione della norma attuativa che i provvedimenti sostitutivi debbano essere
proporzionati alle finalità perseguite. Ciò che peraltro appare in qualche misura ovvio, dato
che il principio di proporzionalità opera con riferimento a tutta l’attività amministrativa e a
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maggior ragione esso è da ritenere operante a proposito di atti di governo che vanno ad
incidere sulla sfera giuridica di enti la cui autonomia è costituzionalmente garantita.
La previsione stessa di poteri sostitutivi da parte del Governo nei confronti degli
enti territoriali, ricondotta al principio di sussidiarietà, diviene la manifestazione del
principio stesso in ordine all’esercizio di poteri amministrativi da parte dell’autorità
centrale, di cui gli enti di governo territoriali siano titolari, e nel cui esercizio perciò essi
non potrebbero essere sostituiti, in virtù di quanto s’è detto. Il potere sostitutivo può essere
dunque concepito come il potere di intervenire nella sfera amministrativa riservata ad un
ente diverso da parte dell’ente superiore, nella carenza dell’attività del primo. In tale
declinazione, il principio di sussidiarietà viene ad essere inteso come quello che, nei limiti
stabiliti dall’art. 120, consente in presenza dei presupposti stabiliti dalla stessa norma, la
deroga all’ordine legale delle competenze.
Si è detto sopra, infatti, che il principio di sussidiarietà nell’ambito della norma
costituzionale generale sull’esercizio delle funzioni amministrative, l’art. 118 non consente
giammai la deroga all’ordine legale delle competenze, per quanto riguarda l’esercizio di
quelle funzioni amministrative che si esprimono in poteri amministrativi in senso tecnico
attribuiti dalla legge alla competenza di una determinata autorità. Infatti, in tal caso, l’ente
di governo di livello superiore non può sostituirsi all’ente di governo di livello inferiore
legalmente competente, a pena di illegittimità dei relativi atti. Il principio di sussidiarietà,
dunque, in questa prospettiva, riveste un ambito di applicazione relativamente ristretto
quanto all’esercizio delle funzioni amministrative: riguardando soltanto l’amministrazione
consensuale, o l’amministrazione che si esprime in operazioni materiali, o in atti e fatti non
coperti comunque da espressa previsione legislativa.
E allora, solo di fronte all’accertata inadempienza dell’ente di governo inferiore, lo
Stato (ma soltanto lo Stato attraverso il Governo, e non anche gli altri enti territoriali nei
confronti degli enti di dimensione inferiore) può intervenire e quindi esercitare, se si vuole
appunto in via di sussidiarietà, il potere che l’ente inferiore pur competente non ha
esercitato, adottando i relativi atti secondo il procedimento che s’è descritto.
Ma questa applicazione del principio di sussidiarietà reca il limite stabilito dalla
stessa norma costituzionale che la prevede. L’intervento del Governo infatti è consentito
soltanto a fronte del mancato esercizio da parte degli enti territoriali di atti dovuti, con
riferimento ai valori e ai parametri stabiliti dalla norma. E quindi non a fronte di tutta
l’azione amministrativa, restando esclusa dalla possibilità di intervento del Governo
l’azione amministrativa a carattere propriamente discrezionale lasciata alla libera
37
determinazione dell’ente, la cui carenza può portare a conseguenze di altro tipo, da quelle di
carattere politico a quelle in certa misura concernenti l’ambito delle responsabilità civili,
penali e amministrative, degli amministratori ed agenti, ma non all’esercizio dei poteri da
parte dell’ente superiore. Insomma, al di là dei limiti posti dalla norma, le conseguenze
della carenza dell’azione amministrativa da parte degli enti del governo territoriale
fuoriescono dall’ambito concettuale e operativo del principio di sussidiarietà.
7.Conclusioni: passaggi mancanti per l’attuazione delle riforme.
Questo quadro che ho rapidamente delineato sulla base della normativa
costituzionale, presenta, com’è ben noto, molteplici punti critici in ordine alla sua
attuazione.
La dislocazione, per regola, dell’amministrazione a livello locale, disposta dall’art.
118, sulla base dei menzionati principi, necessita, per divenire reale, almeno di tre
fondamentali passaggi, che sinora non sono avvenuti e che non sembrano invero di agevole
transito.
Anzitutto occorre la ristrutturazione del governo locale. Il problema della
frammentazione del governo locale è cosa troppo nota perché debba essere ulteriormente
illustrata; come anche lo squilibrio organizzativo e dimensionale che si evidenzia all’interno
del sistema. Da enti che amministrano milioni di abitanti (con migliaia di dirigenti e
miliardi di euro di bilancio) a enti che amministrano meno di cento abitanti; strutturalmente
incapaci questi ultimi, nonostante la migliore buona volontà dei loro amministratori, di
assumere nuove funzioni di governo e di gestire nella loro compiutezza quelle esistenti.
Il testo costituzionale prende atto di questa realtà e introduce, come s’è visto, i
principi di differenziazione e adeguatezza (novità assoluta nel nostro panorama legislativo)
come quelli che devono ispirare il legislatore nella ridefinizione dell’assetto del governo
locale.
Ma al di là dell’opera del legislatore (che comunque è latitante), occorre l’iniziativa
degli stessi enti locali nel ridefinire il proprio assetto organizzativo, anzitutto mettendo
mano al complesso processo di aggregazione e associazione che dovrebbe coinvolgere tutti
(senza eccezione) i comuni più piccoli. Il processo, com’è noto, è appena agli inizi e solo in
alcune aree del Paese (ricordo che la Francia rurale è ormai interamente coperta da forme
associative tra comuni!).
Se non si arriva alla creazione di enti di governo comunali, nella fascia intermedia,
di dimensioni adeguate ed omogenee (intorno ai 30 mila abitanti, con deroghe per le zone
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montane) sarà difficile, secondo me impossibile, costruire un governo locale veramente
forte, come vorrebbe la Costituzione, e titolare della gran parte delle funzioni e dei compiti
di amministrazione.
D’altra parte, il principio di differenziazione che imporrebbe, come s’è visto, al
legislatore (particolarmente al legislatore statale, ai sensi dell’art. 117, 2° co., lett. p)) non
solo di configurare diversamente gli organi di governo degli enti locali a seconda delle loro
dimensioni, secondo modelli risalenti che il legislatore dell’unificazione nazionale volle
rigettare; ma anche di attribuire le funzioni agli enti medesimi in maniera differenziata (e le
leggi Bassanini erano impostate su questo punto in modo corretto), stenta a farsi strada
proprio per la resistenza che gli enti di una stessa categoria, organizzati nelle loro
associazioni nazionali, oppongono, a difesa ovviamente dei loro pezzi più piccoli (lo stesso
fenomeno si riscontra in ambito regionale ed è stato oggetto di rilievi nella stampa di
opinione).
Quindi si rischia di tornare alla situazione pregressa, di fatto (anteriore alle stesse
leggi Bassanini): enti locali sottoposti a disciplina sostanzialmente omogenea e privi di
efficienti e diffuse forme associative.
Il secondo passaggio (invero fortemente condizionato dal primo) è quello del
trasferimento delle funzioni e delle connesse risorse (e qui si tocca il terzo passaggio).
Ovviamente, se l’amministrazione, come stabilisce l’art. 118, deve essere prevalentemente
dislocata a livello locale e segnatamente in capo ai comuni, a questi enti debbono essere
trasferite le funzioni amministrative, che per legge oggi sono imputate ad enti di dimensioni
maggiori e anche ad organi dello Stato; salvo che non si tratti di funzioni per le quali, come
abbiamo visto, è richiesto l’esercizio unitario a livello rispettivamente regionale o statale.
Ciò comporta una massiccia operazione di trasferimento di funzioni e compiti
amministrativi e connesse risorse, ivi comprese le strutture materiali e il personale. Si tratta
di una operazione stimata in oltre 100 mila miliardi delle vecchie lire, che dovrà essere
attuata con cautela e nei tempi dovuti, ma che comunque deve essere iniziata.
Sul punto, ad oggi nulla è stato fatto, né si è aperto un tavolo di trattative, un
confronto, tra i diversi attori istituzionali per avviare il processo (neanche secondo lo
schema seguito con le leggi Bassanini [v. d.l.vo n. 112/98, artt. 3, 7]).
La legge n. 131/03, di attuazione del Titolo V della Costituzione, prevede all’art. 7
una complessa normativa sul trasferimento delle funzioni agli enti locali da parte dello Stato
e delle regioni. In realtà, al di là delle enunciazioni di principio, peraltro ben note
(grossomodo corrispondenti a quelli delle leggi Bassanini), tutto è rinviato a disegni di
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legge futuri che il Governo, sulla base di accordi in sede di conferenza unificata, potrà
presentare come disegni di legge collegati alla Finanziaria; con il vincolo peraltro che essi
non debbano recare oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica, ciò che comporta una
ristrutturazione radicale, in pratica estremamente difficile, degli uffici da trasferire con il
relativo personale. In pratica, tutto resta com’è: “le funzioni amministrative continuano ad
essere esercitate secondo le attribuzioni stabilite dalle disposizioni vigenti, fatti salvi gli
effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale” (art. cit., 6° co.)!
Il terzo passaggio è il più complesso e condiziona tutto il processo di attuazione del
sistema autonomistico: si tratta della definizione del nuovo assetto finanziario del Paese
disegnato dall’art. 119, la cui attuazione, com’è noto, è riservata alla legge (statale) di
“coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
L’art. 119, com’è noto, stabilisce il principio dell’autonomia finanziaria di tutti gli
enti del governo territoriale. Senza autonomia finanziaria, l’autonomia politica e
amministrativa non ha senso; è priva di contenuti reali. Autonomia finanziaria, secondo
l’art. 119, significa fondamentalmente tre cose. Che ciascun ente vive di mezzi propri, cioè
di proventi, principalmente di carattere tributario, derivanti dalla propria collettività, della
cui spendita l’ente è responsabile davanti ad essa. Che ai bisogni finanziari degli enti più
svantaggiati si provvede attraverso il fondo di perequazione: partita contabile mediante la
quale una parte dei mezzi derivanti dai territori più avvantaggiati (con maggiore capacità
fiscale) vengono imputati agli enti di governo dei territori meno avvantaggiati (con minore
capacità fiscale).
Attraverso queste due fonti (mezzi propri e fondo di perequazione) l’intero
fabbisogno finanziario degli enti locali deve essere coperto (“finanziare integralmente”);
viene in conseguenza soppresso l’istituto dei trasferimenti erariali (a cominciare da quelli
vincolati nella destinazione).
Resta la possibilità per lo Stato di finanziare mediante contributi speciali, alcuni enti
(singolarmente presi) per far fronte a situazioni eccezionali, di particolare disagio ovvero
causate da eventi imprevedibili e comunque non compresi nel normale esercizio delle loro
funzioni.
Come si vede, un quadro profondamente innovativo, che necessita di una radicale
riforma del nostro sistema finanziario; nonché di notevole capacità inventiva da parte del
legislatore. Anche su questo punto (vorrei dire, segnatamente su questo punto) il processo
attuativo della riforma non è ancora partito!
La legge che si denomina di attuazione generale della riforma (c.d. legge La Loggia,
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n. 131/03), a parte il fatto che essa tace completamente su questo terzo passaggio attuativo
(ripeto: il primo per importanza!), su tutto il resto è configurata come una legge di
programma, che necessita a sua volta di una serie di adempimenti attuativi, tutti ancora da
avviare. Di alcune norme (art. 1, 5° e 6° co.) è stata peraltro dichiarata la incostituzionalità,
ciò che ritarda ulteriormente il processo (Corte cost., n. 280/04).
In conclusione, il “nuovo assetto dell’amministrazione”, quale definito dalla
Costituzione nel testo delle leggi di riforma, comincia ad operare a livello di principi (che
trovano riscontro in una cospicua giurisprudenza della Corte costituzionale) ma ancora non
si traduce in sistema normativo ed operativo della nostra pubblica amministrazione, sul
versante del governo territoriale; a parte le norme costituzionali direttamente efficaci, come
quelle in materia di controlli, di grande importanza sul piano operativo.
Bibliografia e giurisprudenza.
Intorno alla riforma si è sviluppato un dibattito dottrinale assai vivace, del quale si
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legge n.131/2003; Corte Cost. 272/2004 in materia di servizi pubblici locali; Corte Cost.
236/2004 in materia di conferimento delle funzioni amministrative agli enti territoriali,
Corte Cost. 166/2004 in materia di sanità regionale; Corte Cost. 16/2004 in materia di
fondo statale per la riqualificazione urbana dei Comuni; Corte Cost. 12/2004 in materia
di agricoltura ed allevamento; Corte Cost. 6/2004 in materia di energia elettrica; Corte
Cost. 376/2003 in materia di finanza degli enti territoriali; Corte Cost. 370/2003 in
materia di asili nido ed istruzione pubblica; Corte Cost. 331/2003 in materia di ambiente
e protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici; Corte
Cost. 303/2003 sull’illegittimità costituzionale della l.n.443/2001 e della l.n.166/2002.
In particolare sui poteri sostitutivi si segnalano: Corte Cost. 313/2003; Corte Cost.
43/2004 ; Corte Cost. 69/2004; Corte Cost. 70/2004 ; Corte Cost. 71/2004; Corte Cost.
72/2004; Corte Cost. 73/2004 ; Corte Cost. 74/2004 ; Corte Cost. 112/2004; Corte
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