Riflessioni penalistiche sulla riforma delle procedure concorsuali
Angelo Mangione
Associato di diritto penale Facoltà di Giurisprudenza - LUMSA Sede di Palermo
SOMMARIO: 1. Questioni di metodo: politica del diritto e scienza della legislazione. 2. Una ‘lezione non compresa’: dalla riforma della bancarotta fraudolenta societaria al
nuovo ricorso abusivo al credito. - 3. La perimetrazione quantitativa della ‘no failure zone’:
il nuovo “imprenditore non piccolo”. - 3.1. (Segue): i riflessi della ‘no failure zone’ sui sog getti attivi dei reati fallimentari. - 4. Nuova revocatoria fallimentare e bancarotta preferen ziale: interferenze e antinomie nel rapporto fra ‘preferenzialità civile’ e ‘preferenzialità
penale’. - 4.1. (Segue): bancarotta preferenziale e nuove esenzioni dalla revocatoria fal limentare. - 4.2. (Segue): i riflessi sulla bancarotta fraudolenta patrimoniale. - 5. La nuova
disciplina del concordato preventivo: i riflessi sull’art. 236, comma 2, l.f. - 6. Quale tutela
penale contro il mendacio e le infedeltà dichiarative del debitore nella procedura di con cordato preventivo? - 7. Conclusioni.
1. Questioni di metodo: politica del diritto e scienza della legislazione
Messa a fuoco attraverso le lenti del penalista, la riforma delle procedure concorsuali rappresenta l’ennesima occasione mancata: o meglio, la riprova di uno strabismo metodologico e sistematico che da tempo caratterizza l’incedere normativo. Sarà forse una coincidenza, ma nello spirare della legislatura un ‘perverso’ filo conduttore lega le due importanti riforme di ‘sistema’ in materia economica varate in questi anni: i nuovi reati societari
introdotti dal d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61, e l’odierno impianto delle procedure concorsuali
quale scolpito dal ‘percorso a tappe’ imboccato dal d.l 14 marzo 2005 n. 35 (convertito con
la legge 14 maggio 2005, n. 80) e dal d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5.
Certo, come ben si sa, l’onda riformatrice si è alimentata su un retroterra segnato
da un forte anacronismo dei modelli politico normativi di riferimento, e - quale coerente
riflesso sul piano degli assetti di tutela e dei rimedi approntati - da un non più sostenibile livello di ineffettività ed inefficienza: giudizi unanimi nel decretare l’urgenza di un nuovo
e moderno diritto delle crisi d’impresa, sia fra gli esponenti del mondo produttivo sia fra
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gli addetti ai lavori1. E tuttavia, confermando un cliché ormai consolidato, entrambi gli
interventi legislativi attestano quanto vane e talvolta velleitarie possano essere le aspirazioni a pervenire ad una regolamentazione in campo economico che sia progettata
secondo i più moderni canoni di scienza della legislazione2. Il vizio non solo metodologico che aveva partorito una riformulazione dei reati societari ancor prima - e a prescindere - che fossero delineate le direttrici del nuovo diritto societario3, si ripropone mutatis
mutandis in sede di revisione delle procedure concorsuali: al profondo cambio di rotta
impresso alla disciplina civilistica, e nonostante le perplessità avanzate nei pareri parlamentari, è rimasto deliberatamente estraneo il complemento penalistico4. Ciò nondimeno, è ancor più indiscutibile che un siffatto modo di procedere rischia di annichilire il delicato gioco di contrappesi che fa da architrave alle scelte di incriminazione, il quale
potrebbe ritrovarsi deprivato di quelle coordinate che imprimono senso e razionalità al
ruolo del gendarme penalistico.
Invero, il diritto penale dell’economia è materia eminentemente ‘artificiale’ in quanto le
piattaforme di tutela discendono naturaliter dai processi, dalle sceneggiature e dai soggetti che animano il teatro della competizione economica: non solo dai costumi e dai valori storicamente contingenti ma soprattutto dalla loro cristallizzazione di cui è espressione il dato
normativo extrapenale5. Alla radice, vi è una ideale ripartizione del lavoro che vede il ‘penale’ assiso sulle retrovie della sussidiarietà. In una visione moderna e razionale della politica
criminale in materia economica - ove non dovrebbe tra l’altro prescindersi dall’attribuire la
1 Quantomeno, cfr. JORIO, Le esigenze di una nuova disciplina delle crisi d’impresa, in Dir. fall., 2003, I, p. 558
ss.; TERRANOVA, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, Milano, 2004, p. 7 ss. Giudizio, com’è
ben noto, ancora più tranchant per l’impianto penalistico della legge fallimentare del ’42: per tutti, PEDRAZZI,
Introduzione, in PEDRAZZI, SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Bologna-Roma, 1995, p. 1 ss. (ora anche in Diritto penale, IV, Scritti di diritto penale dell’economia, Milano,
2003, p. 419 ss.); MAZZACUVA, False comunicazioni sociali e fallimento: un rapporto controverso tra normativa vigente, interpretazione e prospettive di riforma, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2001, p. 660 ss.
2 E che un tal deficit assuma ormai i connotati della ‘fisiologia’ è da ultimo comprovato dalla “nuova violenza”
esercitata sul diritto penale commerciale con l’approvazione delle recenti disposizioni per la tutela del risparmio
e la disciplina dei mercati finanziari (l. 28 dicembre 2005, n. 262): sulla quale, e sul relativo retroterra, v. SEMINARA, Considerazioni penalistiche sul disegno di legge in tema di tutela del risparmio, in Dir. pen. e proc., 2004,
p. 506 ss.; ID., Nuovi illeciti penali e amministrativi nella legge sulla tutela del risparmio, ivi, 2006, p. 549 ss.
3 Fra i tanti, ALESSANDRI, La legge delega n. 366 del 2001: un congedo dal diritto penale societario, in Dir.
pen. e proc., 2001, p. 1545 ss.; ID., La riforma dei reati societari: alcune considerazioni provvisorie, in questa
Rivista, 2002, p. 993 ss.; FOFFANI, Rilievi critici in tema di riforma del diritto penale societario, in Dir. pen. e
proc., 2001, p. 1193 ss.
4 Con l’unica - e difficilmente comprensibile - eccezione dell’art. 218 l.f.: sui problemi aperti dalla modifica di
tale delitto v. infra § 2.
5 SEMINARA, Insider trading e diritto penale, Milano, 1989, p. 281 ss., e spec. p. 309 ss.; ALESSANDRI,
Attività d’impresa e responsabilità penali, in questa Rivista, 2005, p. 549.
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giusta enfasi ad una sana dose di empiria6 -, la penalità interviene su territori normativamente strutturati: essa è tenuta a solcare quelle direttrici di disciplina già tracciate altrove7.
Ruolo del diritto dell’impresa è quello di comporre le complesse trame di una architettura di
sistema che faccia emergere gli equilibri e le scelte di valore che reggono le istituzioni economiche: alla sanzione penale - ‘risorsa scarsa’ nel linguaggio degli economisti - il residuale compito di scolpire su quei blocchi omogenei forgiati dal diritto commerciale i soli interessi giuridici ritenuti meritevoli della massima tutela8.
Non senza qualche - consapevole? - ingenuità, la scelta di non ‘sdoganare’ nel porto
delle riforme il complemento penalistico, ha forse fatto leva sull’auspicio che la sostanziale
comunanza dell’area presa di mira dal legislatore avrebbe di per sé condotto ad una risposta autopoietica dell’ordinamento generando un processo spontaneo di riallineamento, con
l’effetto di neutralizzare gli eventuali effetti collaterali9. In realtà, l’opzione prescelta apre il
lavoro dei penalisti - ed ancor prima dei diretti destinatari delle procedure concorsuali - ad
un orizzonte denso di incertezze e contraddizioni, innescando pericolosi fenomeni di slittamento che si coagulano in un incoerente riposizionamento dei contorni del penalmente vietato: processo ondivago e imprevedibile, perché a conti fatti costretto ad affidarsi al mero
gusto del giudice e quindi alle sue opzioni di politica criminale.
2. Una ‘lezione non compresa’: dalla riforma della bancarotta fraudolenta societaria al nuovo ricorso abusivo al credito
Il legislatore - il legislatore ‘modello’ - avrebbe potuto trarre utili spunti di cautela e
riflessione dagli effetti collaterali innescati dalla ‘fuga in avanti’ tentata con la modifica dell’art. 223, comma 2, n. 1, l.f., (ex art. 4, d.lgs. n. 61/2002). La pur condivisibile opera di
cesello del fatto tipico della bancarotta fraudolenta societaria, nel disancorare la punibilità
dalla declaratoria fallimentare per incentrarla sulla dolosa causazione del dissesto - sep-
6 Insiste sulla necessità di spezzare il ‘cerchio idealistico’ di un normativismo integrale che nulla chiede e nulla
deve al sapere empirico, DONINI, Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e
politica, in questa Rivista, 2001, p. 27 ss.; amplius ID., Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Milano, 2004, passim.
7 PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, ora in Diritto penale, III, Scritti di diritto penale dell’economia,
Milano, 2003, p. 139. Volendo, MANGIONE, L’illecita influenza sull’assemblea, in GIARDA, SEMINARA, (a
cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002, p. 511 s.
8 Limpidamente, PEDRAZZI, Interessi economici e tutela penale, in STILE, (a cura di), Bene giuridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1986, p. 306 ss.; ID., voce Società commerciali (disciplina penale), in Dig.
disc. pen., XIII, Torino, 1997, p. 349 (ora anche in Diritto penale, III, cit., risp. p. 187 ss., p. 293 ss.). Più in
generale, da ultimo, GA. DE FRANCESCO, Programmi di tutela e ruolo dell’intervento penale, Torino, 2004.
9 SANDRELLI, Prime considerazioni sui riflessi della legge 80/05 sul comparto penale della legge fallimentare,
in Fall., 2005, p. 218.
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pur filtrata da una più razionale cernita dei reati societari presupposti - è rimasta del tutto
isolata e avulsa dal contesto dei reati concorsuali: sino ad ingenerare una vistosa torsione degli assi del sistema, trasformando la fattispecie in una nuova ipotesi di bancarotta
fraudolenta prefallimentare10. Con l’effetto di implementare incomprensibili e irrazionali
squilibri - e dunque abusi di penalità - rispetto al modello affine della bancarotta fraudolenta propria: là dove l’ancoraggio alla sentenza di fallimento, piuttosto che al dato sostanziale del dissesto dell’impresa, continua a testimoniare l’adesione a programmi di tutela il
cui anacronismo e le cui stravaganze sono così note e condivise da non meritare qui neppure un fugace richiamo11.
Che si tratti di una lezione non compresa è dimostrato dallo stralcio - rispetto alla scelta ‘politica’ di lasciare immutate le disposizioni penali della legge fallimentare - operato con
la riformulazione del delitto di ricorso abusivo al credito: operazione condotta in porto dalla
nuova legge sulla tutela del risparmio, ed a buon diritto già etichettata come “improvvida”
per gli squilibri ancor più gravi cui essa dà vita12.
Sorvolando sull’estensione dei soggetti attivi del reato - dall’imprenditore agli amministratori, direttori generali e liquidatori13 -, il novum si incentra sui seguenti perni. Anzitutto, la
soppressione dell’inciso “anche al di fuori dei casi di cui agli articoli precedenti”, seguita
dalla resezione della formula di sussidiarietà “salvo che il fatto costituisca reato più grave”.
In secondo luogo, il significativo ritocco verso l’alto della cornice edittale: dalla reclusione
sino a due anni ora si attesta su un minimo di sei mesi ed un massimo di tre anni - con l’au-
10 MUCCIARELLI, La bancarotta societaria impropria, in ALESSANDRI, (a cura di), Il nuovo diritto penale
delle società, Milano, 2002, p. 443 ss.; SCHIAVANO, La nuova bancarotta fraudolenta societaria, in Riv. trim.
dir. pen. econ., 2003, p. 253 ss.; GAMBARDELLA, Il nesso causale tra i reati societari e il dissesto nella
“nuova” bancarotta fraudolenta impropria: profili dogmatici e di diritto intertemporale, in Cass. pen., 2003, p.
91 ss.; nonché, MANGIONE, La bancarotta fraudolenta impropria, in GIARDA, SEMINARA, (a cura di), I nuovi
reati societari, cit., p. 609 ss.
11 Per una panoramica, PROSDOCIMI, Tutela del credito e tutela dell’impresa nella bancarotta prefallimentare, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1999, p. 146 ss.; COCCO, Nota introduttiva, in PALAZZO, PALIERO, (a cura
di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, 2003, p. 847 ss.
12 Così SEMINARA, Nuovi illeciti penali e amministrativi nella legge sulla tutela del risparmio, cit., p. 556 ss.
13 Non si può invece sottacere sulla sciatteria e sull’approssimazione con cui l’estensione è avvenuta, grazie
allo stupefacente difetto di coordinamento con le disposizioni penalfallimentari che all’art. 218 rinviano quanto agli ulteriori soggetti attivi. Ed invero, da un lato l’art. 227 vi include l’institore, l’art. 222 i soci illimitatamente responsabili della società in nome collettivo e della accomandita semplice, l’art. 225 gli amministratori e i
direttori generali delle società di capitali; dall’altro lato, l’art. 227 subordina l’inclusione dell’institore al fallimento dell’imprenditore, ed altrettanto richiede l’art. 222 e cioè il fallimento delle società di persone richiamate: ma
nell’economia del nuovo art. 218 l.f. (come si dirà meglio nel testo) si è ormai definitivamente chiarito che il
fallimento non opera come condizione di punibilità. Ed ancora, mentre superflua appare l’estensione di cui
all’art. 225 - essendo amministratori e direttori già inclusi nel testo dell’art. 218 -, la norma nel restante testo
si rivela persino anacronistica giacché la liquidazione coatta amministrativa, cui fa riferimento, è stata soppressa dalla riforma delle procedure concorsuali.
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mento di un terzo qualora si tratti di società quotate. Novità, queste, di non poco rilievo in
quanto, pur non essendo stata intaccata la condotta criminosa - ricorrere al credito dissimulando il dissesto -, concorrono a stravolgere l’orbita gravitazionale (o quantomeno la sua
razionalità) esercitata sino ad oggi da un sistema repressivo articolato in una suddivisione
di ruoli fra l’art. 218 l.f. e taluni reati satellite: orbita che governava le forze in campo attraverso quella clausola di sussidiarietà oggi cancellata, ed alla quale non era estraneo il contributo fornito dalla vecchia cornice sanzionatoria.
Definitivamente sciolta una delle ambiguità più vistose che segnavano l’art. 218 l.f. e cioè l’incertezza sul ruolo assunto dalla declaratoria fallimentare: oggi del tutto irrilevante, potendo il reato configurarsi a prescindere dall’apertura di una procedura concorsuale14
- la riformulazione del ricorso abusivo al credito è avvenuta nel più totale disinteresse verso
il delicato equilibrio che reggeva i rapporti con quei reati potenzialmente concorrenti e dislocati in parte nel codice penale (truffa e insolvenza fraudolenta) in parte nella legge fallimentare medesima (bancarotta semplice e prefallimentare).
Ed invero, con riferimento alle fattispecie codicistiche, se sul piano formale resta intatta la natura solo apparente del concorso formale col delitto di truffa, non così sul piano
sostanziale della razionalità rispetto al valore sotteso alle due classi di condotte prese di
mira. Nessun dubbio, ora come allora, sul fatto che nell’alveo della dissimulazione del dissesto rientrano i comportamenti omissivi e reticenti, nonché quelli attivi volti a preservare lo
stato d’ignoranza del creditore: condotte non sussumibili nello spettro degli artifici e raggiri,
né soprattutto convogliabili nello schema dell’induzione in errore del soggetto passivo15. In
seno alla truffa, inoltre, un ruolo centrale è svolto dal danno e dal dolo di ingiusto profitto:
elementi eccentrici alla tipicità dell’art. 218 l.f.16.
In questo quadro trovava coerente giustificazione la residualità del ricorso abusivo al
credito rispetto all’art. 640 c.p.: giudizio che non può più trarsi al cospetto della odierna riformulazione dell’art. 218 l.f., giacché nell’identità della risposta sanzionatoria - e stante la pro-
14 Incertezza che, antecedentemente, era risolta qualificando la sentenza di fallimento alla stregua di una
condizione implicita di punibilità, ritenendo pertanto il reato configurabile solo in capo al fallito: PEDRAZZI,
Commento all’art. 218, cit., p. 194 s.; nella medesima direzione, GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e
gli altri reati concursuali, cit., p. 462 ss. In senso diametralmente opposto, ritenendo cioè configurabile il reato
a prescindere dal fallimento, dottrina e giurisprudenza prevalenti: fra i tanti, LANZI, La tutela penale del credito, Padova, 1979, p. 127; COCCO, Commento all’art. 218, cit., p. 957; Cass., 9 giugno 1997, in Cass. pen.,
1998, p. 2482.
15 Indirizzo costante: per tutte, Cass., 22 dicembre 1987, in Riv. pen., 1989, p. 54; nonché GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concursuali, cit., p. 473, ed ancor prima PROVINCIALI, Ricorso abusivo al credito, in Dir. fall., 1952, I, p. 197.
16 PEDRAZZI, Commento all’art. 218, cit., p. 197 ss.; COCCO, Commento all’art. 218, cit., p. 956 s.; SEMINARA, Nuovi illeciti penali, cit., p. 556. In giurisprudenza, Cass., 13 febbraio 1986, in Cass. pen., 1988, p. 526.
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cedibilità d’ufficio del reato fallimentare - evapora il maggior disvalore della truffa. E d’altra
parte, nell’economia dell’art. 218 l.f. è del tutto irrilevante l’eventuale adempimento del debitore e quindi, di rimando, la prospettiva del danno patrimoniale (invero centrale nella truffa):
pagamento che non elide il reato giacché, oltre ad essere colpito da revocatoria, l’atto incide lesivamente sulla posizione degli altri creditori rivelando così una natura (penalmente
sindacabile come) preferenziale17.
Su quest’ultimo piano, com’è noto, si è sempre apprezzata la specialità rispetto all’art.
641 c.p.: reato comune che, a differenza di quanto richiesto dall’art. 218 l.f., postula il proposito di non adempiere, s’innesta su un rapporto giuridico bilaterale più ampio rispetto al
ricorso al credito e cioè l’obbligazione, e che trova nell’adempimento una causa estintiva
del medesimo18. E quindi: o, sulla scia di un orientamento ormai tralatizio, si fa leva sulla
specialità reciproca delle fattispecie e si conclude coerentemente per l’ammissibilità del
concorso formale19; ovvero, evidenziando la comune incidenza lesiva sul patrimonio del
nuovo creditore e soprattutto il differente disvalore espresso dalle cornici di pena si conclude per l’assorbimento dell’insolvenza fraudolenta nell’art. 218 l.f.20.
Il cespuglio di rovi che un mal’accorto legislatore ha piantato con la riformulazione dell’art. 218 l.f. si rivela ancor più rigoglioso se si pone mente agli effetti sui rapporti con gli altri
reati fallimentari.
In primo piano, brilla di nuova ma opaca luce il riflesso aperto sulla bancarotta semplice. Giacché da sempre fra le operazioni gravemente imprudenti atte a ritardare il fallimento, nonché dietro la mancata richiesta di autofallimento che si riverberi causalmente
nell’aggravio del dissesto (nn. 3 e 4, comma 1 dell’art. 217 l.f.), si rintraccia l’abusivo ricorso al credito: come la prassi attesta, quest’ultima fenomenologia di comportamenti è invero tipica dell’imprenditore che tenti con tutti i mezzi di risollevare le sorti aziendali da un
grave e altrimenti irreversibile squilibrio finanziario21.
Antecedentemente alla ‘novella’ di cui alla legge n. 262/2005, l’opinione più convincente risolveva il problema sostenendo l’assorbimento dei fatti di abusivo ricorso al credito
nell’orbita della bancarotta. Nonostante la chiara affinità con quest’ultima - testimoniata,
peraltro, da una antica origine comune - e nonostante l’omogeneità degli interessi patrimoniali tutelati dalle due fattispecie, sufficientemente univoca nel dirimere la questione era la
17 PEDRAZZI, Commento all’art. 218, cit., p. 196.
18 GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati, cit., p. 469 s.
19 NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 414.
20 Seppur da prospettive differenti, PEDRAZZI, Commento all’art. 218, cit., p. 201; GIULIANI-BALESTRINO,
La bancarotta e gli altri reati, cit., 469. Altresì, SEMINARA, Nuovi illeciti penali, cit., p. 556 s.
21 Ad es., cfr. Cass., 23 aprile 2004, in Cass. pen., 2005, p. 3104.
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relazione di valore espressa nella clausola “salvo che il fatto costituisca un reato più grave”
che incorniciava l’art. 218 l.f.22.
Si comprende allora come il rinvigorimento sanzionatorio di cui si è giovato il ricorso
abusivo al credito - oggi con una pena più elevata nel massimo - e soprattutto la soppressione della clausola di riserva, riaprano ed in termini ancor più problematici la questione dei
rapporti fra le due fattispecie incriminatrici.
Giova sin d’ora precisare che, come di recente ben messo in luce, di scarso ausilio si
rivela l’indagine sul bene tutelato dall’art. 218 l.f.23.
Anzitutto perché sempre più evanescente si manifesta la prospettiva patrimoniale: non
solo in quanto essa si attesta da sempre su uno sfondo estremamente arretrato e cioè sulla
soglia del pericolo24 - non essendo, come già detto, necessaria la verificazione del danno: l’erogazione del credito o la traditio della res -, ma ancor di più in quanto l’ulteriore intonazione di
segno patrimonializzante si rivela effimera perché eccentrica. L’allusione corre invero all’aggravamento di pena, previsto dal secondo comma dell’art. 218 l.f., ove il fatto sia commesso dagli
amministratori di società quotate: dove non si comprende la ragione di una tutela diversificata
fra creditori, da un lato, di un imprenditore individuale o di una società non quotata e, dall’altro,
di una società quotata; né d’altra parte, si comprende - in ipotesi: nella prospettiva di tutela del
risparmio assunta dalla legge n. 262/2005 - quale interesse possa coagularsi dietro l’assunta
distinzione fra debitori persone fisiche e giuridiche, nonché fra debitori società quotate e non.
Seppur plausibile - sull’onda degli ultimi scandali finanziari e sulle ben note ricadute su
una vasta pletora di risparmiatori - la focalizzazione della norma sugli emittenti bond, la visuale assunta resta giocoforza eccentrica nella prospettiva dell’art. 218 l.f.25. Ecco allora che,
segnando il distacco dalla visione patrimoniale, potrebbe acquisire nuova forza la vecchia tesi
che vede il punto focale nella tutela del principio di regolarità, lealtà e sicurezza del traffico
giuridico26.
Da qui, le conseguenze in ordine al problema del concorso di reati. Mantenendo saldo
l’ancoraggio dell’art. 218 l.f. alla sfera patrimoniale del nuovo creditore, la soluzione si affiderebbe alla specialità reciproca con la bancarotta semplice. Di contro, valorizzando la prospettiva della regolarità del traffico giuridico e dunque riconoscendo una radicale diversità fra i
22 CONTI, Diritto penale commerciale, II, Reati fallimentari, Torino, 1991, p. 362, limitatamente all’ipotesi di
cui al n. 3, art. 217, comma 1, l.f.; PEDRAZZI, Commento all’art. 218, cit., p. 201. Non così NUVOLONE, Il
diritto penale del fallimento, cit., p. 419.
23 SEMINARA, Nuovi illeciti penali, cit., p. 557.
24 PEDRAZZI, Commento all’art. 218, cit., p. 193.
25 Lucidamente, SEMINARA, Nuovi illeciti penali, cit., p. 557.
26 COCCO, Commento all’art. 218, cit., p. 955.
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beni protetti dalle due disposizioni incriminatrici, non vi sarebbero ostacoli ad ammetterne il
concorso effettivo con la bancarotta semplice.
E tuttavia, entrambe le soluzioni si rivelano inappaganti in quanto, per un verso, confidano sulla validità del criterio del bene giuridico - che, com’è noto, suscita a questo proposito severe riserve27 -, per altro verso, rischiano di generare una eccessiva duplicazione di sanzioni e dunque abusi di penalità: eccessiva sol perché il nuovo art. 218 l.f., pur esprimendo
un minor disvalore rispetto alla bancarotta, è oggi il reato più gravemente punito. Sicché,
salvo voler sostenere sempre e comunque l’assorbimento nel più grave art. 218 l.f., l’auspicio è che - possibilmente in una prospettiva d’insieme quale sarebbe la riforma dell’intero
comparto penalfallimentare - il legislatore tragga buon insegnamento e presto provveda
ponendo rimedio ai guasti prodotti.
3. La perimetrazione quantitativa della ‘no failure zone’: il nuovo “imprenditore
non piccolo”.
Riflettere sull’impatto di una riforma di settore cui è deliberatamente rimasta estranea l’appendice penalistica, implica anzitutto la necessità di soffermare l’attenzione sulle dinamiche che
possono innescarsi dalla significativa rivisitazione dei soggetti cui si applicano le nuove procedure concorsuali. Ciò in quanto è stato esteso l’ambito dei soggetti economici esenti dal fallimento e dal concordato preventivo: categorie che sol perciò sfuggono alla qualifica formale richiesta
da un impianto repressivo che affida il compito della perimetrazione della propria area d’intervento allo schema del reato proprio cucito addosso all’imprenditore commerciale (non piccolo)28.
27 La tralatizia opinione per la quale il concetto di “stessa materia” ex art. 15 c.p. presupporrebbe l’identità o
l’omogeneità del bene protetto dalle norme in rapporto, pur essendo tutt’ora invalsa in giurisprudenza - Cass.,
S.U., 29 ottobre 1997, in Cass. pen., 1998, p. 1331 -, è da tempo abbandonata dalla prevalente letteratura:
MANTOVANI, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966, p. 167 ss.; GA. DE FRANCESCO, Lex specialis. Specialità ed interferenza nel concorso di norme penali, Milano, 1980, p. 6 ss.; nella
manualistica, M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, p. 175 s.; MARINUCCI, DOLCINI, Manuale di diritto penale, Milano, 2004, p. 293; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, p.
gen., Bologna, p. 2001, p. 632; PULITANÒ, Diritto penale, Torino, 2005, p. 531; e più da recente, B. ROMANO, Il rapporto tra norme penali. Intertemporalità, spazialità, coesistenza, Milano, 1996, p. 193 ss.; PAPA, Le
qualificazioni giuridiche multiple nel diritto penale. Contributo allo studio del concorso apparente di norme,
Torino, 1997; MUSCATIELLO, Pluralità e unità di reati, 2002.
28 Che la sistematica dei reati contenuti nel capo I del r.d. n. 267/1942 sia incentrata sulla qualifica propria dei
soggetti attivi è del tutto pacifico: PEDRAZZI, Commento all’art. 216, in PEDRAZZI, SGUBBI, Reati commessi
dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, cit., p. 38 s.; e fra i tanti, CONTI, Diritto penale commerciale, II, Reati fallimentari, cit., p. 41 s.; LA MONICA, I reati fallimentari, Milano, 1999, p. 30 ss.; SANTORIELLO,
I reati di bancarotta, Torino, 2000, p. 47 ss.; PERINI, in PERINI, DAWAN, La bancarotta fraudolenta, Padova,
2001, p. 71 ss.; altresì, nella medesima direzione già PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, Palermo, 1957, p. 60
ss., seppur cogliendo il profilo dirimente del reato proprio nella qualifica di “fallito” piuttosto che in quella di
“imprenditore”. Isolata l’opposta opinione al riguardo espressa da GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli
altri reati concursuali, cit., p. 281 ss. Da ultimo e più in generale, per un’accurata indagine sulla ‘dogmatica’ del
reato proprio v. GULLO, Il reato proprio. Dai problemi “tradizionali” alle nuove dinamiche d’impresa, Milano, 2005.
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In fedele esecuzione dell’art. 6, lett. a) n. 1 della legge delega 14 maggio 2005, n. 80,
il d.lgs. n. 5 del 2006 ha provveduto a rivisitare i requisiti soggettivi di fallibilità. Con una formulazione dal chiaro sapore compromissorio, il secondo e terzo comma dell’art. 1 della
legge fallimentare definiscono la figura del “piccolo imprenditore”: categoria non soggetta
alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo29. Ed invero: esula dall’alveo
della nuova disciplina l’impresa - sia essa esercitata in forma individuale o collettiva non
importa - il cui capitale investito nell’azienda non superi i 300.000,00 euro, ovvero ed alternativamente i cui ricavi lordi medi per anno - rilevati nell’ultimo triennio, o dall’inizio dell’attività in caso di durata inferiore - siano inferiori a 200.000,00 euro30.
Non si tratta, per vero, di una novità. Al requisito del capitale investito faceva già riferimento l’art. 1 cpv. della legge fallimentare, prima che la Corte costituzionale ne dichiarasse l’illegittimità31. Sintomo della persistenza di una mal tollerata asistematicità - dovendosi
la nozione di imprenditore ricavare dall’art. 2082 c.c., e l’area di non fallibilità desumere per
sottrazione dagli artt. 2083 e 2221 c.c. -, l’idea di far ricorso a criteri quantitativi in chiave di
delimitazione riemergeva, nel corso della legislatura, in taluni progetti di legge, sino a trovare la sua definitiva fisionomia nell’attuale stesura dell’art. 132.
Un dato è dunque certo: la riforma ha d’un sol colpo reciso ogni potenziale contrasto
interpretativo con le norme codicistiche, in quanto il volto del piccolo imprenditore è oggi
interamente ed esclusivamente modellato dalla legge fallimentare33.
29 A rigore, sussistono altre condizioni di esonero dalle procedure concorsuali: l’art. 15, ultimo comma, della
legge fallimentare, che stabilisce la non fallibilità dell’imprenditore il cui debito scaduto e non pagato sia inferiore a 25.000,00 euro; l’art. 16, d.lgs. n. 96/2006, che esonera dal fallimento le società fra avvocati. Da ricordare,
infine, i limiti e le speciali disposizioni in materia di fallimento previste da talune leggi, quali la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi e delle grandissime imprese in crisi (rispettivamente:
d.lgs. n. 270/1999, e la cd. legge Marzano).
30 A differenza della proposta elaborata dal Ministero dell’Economia (e licenziata il 7 luglio 2005), quella esitata
dal Ministero della Giustizia prevedeva la soppressione del riferimento all’esercizio dell’attività economica col chiaro intento di sottoporre alle procedure concorsuali l’intera categoria “imprenditore” e cioè a prescindere dalla natura - se commerciale o agricola - e dalle dimensioni dell’attività in concreto svolta. Solo in sede di redazione del
decreto delegato, la proposta del Ministero della Giustizia si arricchiva con l’inserimento del parametro dei ricavi,
là dove quello approntato dal Ministero dell’Economia puntava sul requisito del capitale investito. Salomonica, dunque, la scelta del legislatore che ha finito con l’accorpare i due parametri - seppur in forma alternativa.
31 Introdotto dalla legge 20 ottobre 1952, n. 1375, e cristallizzato nell’importo di novecentomila lire, tale parametro, oltre che sussidiario, ben presto assunse le fattezze di un relitto economico foriero di pericolose iniquità grazie alla svalutazione monetaria: sino a quando, inerte il legislatore, intervenne la declaratoria di incostituzionalità
pronunciata da Corte cost., 22 dicembre 1989, n. 570.
32 Una panoramica sul dibattito sorto in seno alla Commissione Trevisanato in ordine al problema dell’esonero
soggettivo dalle disposizioni concorsuali è in FAUCEGLIA, Sull’estensione dei soggetti esonerati, in Fall., 2005,
p. 990 ss.
33 Per tutti, SANTANGELI, Commento all’art. 1, in ID., (a cura di), Il nuovo fallimento, Milano, 2006, p. 6 ss.;
SORCI, Commento all’art. 1, in TERRANOVA ed altri, (a cura di), La nuova legge fallimentare annotata, Napoli,
2006, p. 2 ss.
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A coagularsi in un possibile cono d’incertezza è, invece, la ricognizione dello spettro
semantico dei nuovi parametri quantitativi, giacché essi non sembrano possedere uno statuto sufficientemente univoco e tassativo.
Ed invero, per quel che concerne il requisito del capitale investito nell’azienda, non
è chiaro se debba accedersi all’interpretazione già elaborata sotto la vigenza del vecchio
criterio di cui al cpv. dell’art. 1 l.f.: e cioè se nel capitale investito, da un lato, debbano comprendersi oltre l’attivo circolante ed il capitale fisso anche i beni acquistati con patto di
riservato dominio e quelli - ancorché non di proprietà dell’imprenditore - utilizzati nella produzione (ad esempio: i beni in leasing), e, dall’altro, debba escludersi rilievo all’entità del
giro d’affari34.
Inoltre, se è vero che in teoria un buon indice ermeneutico potrebbe rinvenirsi nel
bilancio d’esercizio, è ancor più vero che il problema permarrebbe pressoché intatto per le
imprese non tenute alla redazione di tale documento contabile. Giacché, pur essendo invalsa nella prassi la redazione in forma sintetica dell’inventario di fine esercizio ex art. 2217
c.c. - adempimento, comunque, obbligatorio per le società di persone e le imprese individuali -, la medesima disposizione richiede obbligatoriamente l’inserimento delle stime delle
attività e passività nonché del conto dei profitti e delle perdite: informazioni, queste, di per
sé inadeguate all’obiettivo di documentare con precisione la reale situazione dell’impresa quantomeno, nell’ottica della ricostruzione del capitale investito.
E non solo: con sano realismo occorre avvertire come anche il riferimento alle potenzialità informative del bilancio d’esercizio rischi di rivelarsi una soluzione estremamente fragile per l’interprete, promettendo molto più di quanto in realtà riesca a mantenere35.
In primo luogo, perché la bagatellizzazione delle false comunicazioni sociali operata con i nuovi artt. 2621 e 2622 c.c. di fatto polverizzando la carica di deterrenza del presidio penale, ha depotenziato - sul versante del mercato delle informazioni - ogni pretesa di fiducia sull’attendibilità dei bilanci sociali36. In secondo e correlativo luogo, perché
all’endemica elasticità dei criteri di valutazione di cui agli artt. 2423 bis e 2426 c.c.37, si
aggiunge oggi un ulteriore segno d’opacità grazie alla straordinaria ‘manleva’ penale
34 SANTANGELI, Commento all’art. 1, cit., p. 8 s.
35 In tal caso, il parametro guida sembrerebbe essere l’attivo dello stato patrimoniale: e dunque tutte le voci
elencate dall’art. 2424 c.c. - ovvero, se in forma abbreviata, ex art. 2435 bis c.c. -, le immobilizzazioni materiali, immateriali, finanziarie, nonché l’attivo circolante.
36 Autorevolmente, PEDRAZZI, In memoria del “falso in bilancio”, in Riv. soc., 2001, p. 1369 ss. (ed ora in
Diritto penale, III, cit., p. 843 ss.).
37 Problema emblematicamente emerso, in sede penale, in ordine alla punibilità a titolo di false comunicazioni sociali delle valutazioni di bilancio: per tutti, PERINI, Il delitto di false comunicazioni sociali, Padova, 1999,
p. 353 ss.
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riconosciuta ai redattori del bilancio in caso di alterazione non sensibile e di stime difformi non oltre il 10% rispetto a quelle corrette38.
Infine, le esternalità negative indotte dalla riforma del falso in bilancio si inseriscono in
un quadro già segnato da note incertezze, quali quelle legate ai criteri di valutazione cui far
ricorso per l’individuazione dell’ammontare degli investimenti: e segnatamente, i beni circolanti (ad es.: semilavorati, merci finite) e quelli collegati all’impresa da un vincolo di destinazione economica ancorché di proprietà di un terzo soggetto39.
I problemi e le difficoltà emerse in sede di individuazione del capitale investito, solo in
parte sembrano eludibili ricorrendo al secondo e alternativo parametro definitorio e cioè
quello facente leva sui ricavi lordi.
Anche qui, in teoria, il dato si presenta di facile reperibilità, in quanto è naturaliter ricavabile dai registri e dalle dichiarazioni iva. Non così tutte le volte in cui la contabilità dell’impresa o le relative dichiarazioni dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto si rivelino inattendibili, oppure risultino in tutto o in parte mancanti. Infatti, l’euristica del parametro “ricavi
lordi” è pressoché interamente affidata alla regolarità ed attendibilità della tenuta di libri e
scritture, nonché al puntuale adempimento degli obblighi di natura tributaria: un modello di
‘buon imprenditore’ che, come la prassi attesta, raramente si riscontra nella pur variegata
fenomenologia di decotti, falliti e bancarottieri.
Di ciò il legislatore mostra piena consapevolezza: tant’è che la lett. b) del secondo
comma dell’art. 1 della legge fallimentare, chiarisce che l’ammontare dei ricavi lordi viene
in evidenza “in qualunque modo risulti”, facendo chiaro riferimento anche ai dati extracontabili e dunque alle risultanze di un’attività investigativa volta alla ricostruzione del volume
d’affari e dei redditi dell’impresa in stato d’insolvenza.
Scontato allora presumere che la prassi subirà un notevole appesantimento dell’istruttoria prefallimentare, posto che l’accertamento del requisito soggettivo di fallibilità passa
non solo dalla previa soluzione di problemi di natura interpretativa, ma soprattutto dall’esito delle risultanze di una complessa attività d’indagine e verifica che presumibilmente richiederà l’ausilio della polizia tributaria e di quella giudiziaria40.
38 A tal riguardo, cfr. MARINUCCI, “Depenalizzazione” del falso in bilancio con l’avallo della SEC: ma è proprio così?, in Dir. pen. e proc., 2002, p. 137 ss.; PULITANÒ, False comunicazioni sociali, in ALESSANDRI, (a
cura di), Il nuovo diritto penale delle società, cit., p. 155 ss., p. 162 ss.; ALESSANDRI, False comunicazioni
sociali in danno dei soci o dei creditori, ivi, p. 183 ss.; FOFFANI, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, in GIARDA, SEMINARA, (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, cit., p. 262 ss.
39 IRRERA, Le imprese soggette a fallimento e l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento nello schema di
decreto legislativo di riforma, in www.ipsoa.it/fallimento.
40 Da questo punto di vista, quindi, non sembra che le esigenze di “semplificazione” prese di mira dalla legge
delega possano dirsi effettivamente rispettate: PLENTEDA, La legge delega per la riforma delle procedure
concorsuali: principi e criteri direttivi, in Fall., 2005, p. 969.
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3.1. (Segue): i riflessi della ‘no failure zone’ sui soggetti attivi dei reati fallimentari
L’itinerario seguito dal legislatore nel tentativo di definire la cerchia dei fallibili e dunque dei soggetti attivi del reato proprio, appare costellato da non poche ambiguità e incertezze. Com’è agevole intuire, un siffatto impianto normativo rischia di problematizzare oltre
modo il riparto di ruoli e competenze fra la giurisdizione penale e quella fallimentare,
rischiando di amplificare possibili disarmonie di disciplina e dunque di esiti applicativi.
Ed invero, se è pacifico che non può il giudice penale sostituirsi a quello fallimentare,
altrettanto indubbio è che l’accertamento contenuto nella sentenza di fallimento o nel decreto di ammissione al concordato preventivo può costituire oggetto di autonomo apprezzamento ai fini penalistici: non foss’altro perché la qualifica soggettiva - e cioè la veste di
imprenditore commerciale non piccolo e dunque l’art. 1 l.f. - è parte integrante delle fattispecie incriminatici che su di essa ruotano, e come tale dev’essere accertata in seno al giudizio penale41. Anche perché, com’è stato lucidamente colto, “il provvedimento del tribunale fallimentare fotografa la situazione del momento, mentre ai fini penali la qualifica deve
risalire al tempo, non necessariamente prossimo, delle condotte tipiche”42.
Quel che rischia di mutare, rispetto al passato, è lo iato fra soluzioni divergenti in ordine alla fallibilità da un lato ed al possesso della qualifica propria e dunque alla reità dall’altro. Certo, i parametri quantitativi previsti dall’art. 1 l.f. si candidano a guidare l’accertamento tanto in sede di declaratoria fallimentare quanto in sede penale: eppure, la qualificazione
partorita dall’applicazione di tali parametri dipende a conti fatti dalla previa soluzione in via
interpretativa delle numerose e complesse questioni giuridiche poc’anzi accennate. In altre
parole, solo apparentemente la presenza di parametri quantitativi può convogliare su un
unico binario il duplice accertamento - fallimentare e penale. Piuttosto, i due accertamenti
solcheranno rotte parallele e armoniche solo se, e nella misura in cui, nei due giudizi omogenei saranno i canoni ermeneutici ‘a monte’ adottati per la definizione del criterio “capitale
investito”, e solo se omogenei (com’è più probabile che sia in tal ultimo caso) saranno gli
esiti delle indagini e degli accertamenti disposti in ordine al criterio dei “ricavi lordi”.
Le disarmonie che si preannunciano all’orizzonte - nell’attesa della verifica della prassi - non appaiono evenienze improbabili. Occorre infatti sottolineare come un tratto qualificante della riforma - la c.d. degiuridizionalizzazione - consista nella soppressione dei poteri di iniziativa del tribunale fallimentare, il quale - eccezion fatta per le ipotesi di cui agli artt.
41 In tal senso, Cass., 1 dicembre 1990, in Cass. pen., 1991, p. 643; in letteratura PEDRAZZI, Commento
all’art. 216, cit., p. 40 s., p. 43. Non condivisibile il contrario orientamento espresso da Cass., 12 giugno 1984,
in Riv. pen., 1985, p. 216, e ripreso da SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., p. 39 s.
42 Ancora, PEDRAZZI, Commento all’art. 216, cit., p. 41.
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162, comma 2, e 173, 179 l.f. - non può più dichiarare il fallimento d’ufficio: in quest’ottica
assume rilievo il nuovo art. 7 l.f. che, sopperendo al soppresso potere d’ufficio del tribunale, mantiene ed arricchisce il potere di iniziativa del pubblico ministero ancorandolo a due
presupposti: “1) quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero
dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da
parte dell’imprenditore; 2) quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal
giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile”.
Orbene, l’ultimo dei presupposti previsti dall’art. 7 sembra delineare un iter non privo di
insidie. Se, come appare plausibile, nella nozione di “procedimento civile” rientrano quelli di
volontaria giurisdizione - fra cui, ad esempio, il ricorso per la nomina del liquidatore giudiziario nelle società di persone ex art. 2275 c.c., ovvero ai sensi dell’art. 2487 c.c. il ricorso al
tribunale per l’accertamento di una causa di scioglimento e per la nomina del liquidatore giudiziario nelle società di capitali, nonché il ricorso al tribunale fallimentare poi rinunziato dai
creditori - è agevole pronosticare un percorso ‘a tappe’ ove sia il giudice civile a ‘compulsare’ il pubblico ministero affinché questi si faccia promotore dell’istanza di fallimento.
Da qui, le possibili incongruenze e disarmonie. Per un verso, non essendo stata prevista la possibilità per il pubblico ministero di proseguire la richiesta di fallimento già avanzata e poi rinunziata dai creditori, questi dovrebbe dar corso ad una procedura ex novo (e
presumibilmente ripetere tutti gli atti in precedenza posti in essere). Per altro e più generale verso, il tribunale che ‘solleciti’ il pubblico ministero dovrà spiegare le ragioni della richiesta e dunque motivare tanto in ordine ai requisiti di fallibilità quanto sulla sussistenza dello
stato di insolvenza: richiesta che potrebbe non essere accolta qualora il pubblico ministero, non allineandosi alle valutazioni formulate dal tribunale, accedesse a canoni interpretativi divergenti e pur plausibili stante le ambiguità presenti nell’art. 1 l.f.43.
Con un’avvertenza di fondo: che in sede penale non potranno avere ingresso, in omaggio al principio di legalità, soluzioni ricavate in via analogica. Ed infatti, nell’impossibilità di
adottare utilmente il parametro del capitale investito, a fronte di una richiesta di fallimento
che sopravvenga prima del compimento di almeno un anno di attività, la soluzione di far leva
sulla soglia di ricavi corrispondente alla frazione d’anno per cui si è svolta l’attività seppur
legittima in sede civile non altrettanto appare in sede penale44: giacché null’altro sarebbe che
43 Cfr. altresì infra § 5.
44 Sia pur in termini problematici, ai fini della sussistenza del requisito di fallibilità, la soluzione è suggerita da
SANTANGELI, Commento all’art. 1, cit., p. 10.
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il frutto di un ragionamento analogico in malam partem, essendo destinato ad ampliare lo
spettro semantico della fattispecie incriminatrice intervenendo a latere subiecti45.
Una perplessità di non poco conto in materia di gruppi di società. Il parametro del capitale investito, se calato nel contesto delle dinamiche di gruppo, potrebbe ritagliare aree d’inapplicabilità della disciplina penal-fallimentare soprattutto a vantaggio di quelle realtà economiche medio-piccole46. Se invero appare scontato che, nell’ipotesi in cui l’investimento
coinvolga più imprese, il dato dimensionale debba essere valutato atomisticamente e cioè
con riferimento alle singole società, ne discende che - centellinando con accortezza l’entità
del capitale da immettere - sarà alquanto agevole dar vita a strategie elusive atte a sottrarre l’impresa ed i suoi responsabili all’applicazione delle procedure concorsuali e, conseguentemente, alla disciplina penale di complemento47.
Infine, la contrazione dell’area dei soggetti economici suscettibili di fallimento può dar
vita, sul piano penale, a problemi di carattere intertemporale. Si pensi all’esercente un’attività commerciale che, dichiarato fallito sotto la previgente disciplina, risulti aver investito
nell’azienda un capitale inferiore a 300.000,00 euro, e aver realizzato ricavi lordi calcolati in
media negli ultimi tre anni inferiori a 200.000,00 per anno: all’evidenza, tale imprenditore
oggi - recte, a far data dal 16 luglio 2006 - non è più soggetto alle procedure concorsuali e
quindi non potrebbe essere dichiarato fallito in quanto, ai sensi dell’art. 1, comma 2, l.f.,
“piccolo imprenditore”.
Orbene: quid iuris, qualora l’imprenditore in questione sia sottoposto a procedimento
penale per uno dei reati condizionati dalla declaratoria fallimentare? La soluzione, a mio
avviso, non può che risiedere nel riconoscere l’applicabilità della disciplina dell’abolitio criminis sancita nel secondo comma dell’art. 2 c.p. Anche a voler accedere ad un’interpretazione
restrittiva ed attualmente maggioritaria della successione di norme integratrici48, l’art. 1 l.f. fa
45 Ancorché con specifico riferimento al problema dei soggetti di fatto, per analoghe perplessità v. MARRA,
Legalità ed effettività delle norme penali, Torino, 2002, p. 115 ss. Più in generale, sui rapporti tra interpretazione
e analogia nel diritto penale, per tutti: DI GIOVINE, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo alla
legge, Milano, 2006. Sulla problematicità di un divieto espresso di interpretazione estensiva in materia penale quale previsto, come ben noto, dall’art. 129, comma 3, dell’ormai abortito progetto di legge costituzionale varato
dalla cd. Bicamerale il 4 novembre 1997 -, si v. i rilievi di MUSCO, L’illusione penalistica, Milano, 2004, p. 99 ss.
46 SORCI, Commento all’art. 1, cit., p. 8.
47 Per la verità, anche tale questione non è affatto nuova essendo ampiamente discussa in letteratura e giurisprudenza sotto l’egida del vecchio art. 1 cpv. l.f.: per una panoramica, AZZOLINA, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, II, Torino, 1961, p. 120 ss.; SATTA, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1964, p. 22 ss.
48 Propugnata, fra gli altri, da MARINUCCI, DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Milano, 2001, p. 273 ss.;
ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, cit., p. 59 s.; Cass., 2 dicembre 2003, in Foro it.,
2004, II, c. 275; in senso diff. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 82 s.; RISICATO, Interventi di recupero edilizio e successione di norme extrapenali: le cd. “modifiche mediate” della fattispecie incriminatrice, in
Dir. pen. e proc., 2003, p. 999.
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venir meno per un’ampia categoria di soggetti una qualificazione rilevante per le fattispecie
di reato proprio, e come tale concorre pienamente ad individuare il contenuto del precetto
penale: nessun dubbio, del resto, che non rientrando più nel novero dei fallibili, non si è soggetti alle speciali disposizioni dettate dalla legge fallimentare ed agli obblighi da queste derivanti, con una significativa incidenza sul disvalore astratto dei reati in essa previsti49.
A margine dei profili problematici sin qui individuati, il nuovo art. 1 l.f. presenta per il
penalista quantomeno un aspetto da salutare con indubbio favore. E cioè trova decisa conferma l’orientamento restrittivo, apprezzabile specialmente nella prospettiva dell’armonizzazione europea del diritto penale dell’economia, volto a valorizzare sempre più i reati fallimentari quali ‘delitti d’impresa’50: prospettiva di certo già accolta dal nostro ordinamento, ma
che grazie ai nuovi parametri dimensionali si attesta con maggior decisione verso un piano
segnato da imprese collettive dalle dimensioni tutto sommato ragguardevoli.
4. Nuova revocatoria fallimentare e bancarotta preferenziale: interferenze e antinomie nel rapporto fra ‘preferenzialità civile’ e ‘preferenzialità penale’
Altra novità degna di rilievo è la modifica della disciplina della revocatoria fallimentare già introdotta, sulla scorta di ragioni d’urgenza, col cd. decreto sulla competitività (per
l’appunto: art. 2, comma 1, del d.l. n. 35/2005). Tra gli obiettivi perseguiti con la riformulazione dell’art. 67 l.f., vi è sia la razionalizzazione dell’istituto - tesa, da un lato, a ridurre ogni
possibilità di ricorso strumentale all’azione revocatoria dimezzando i termini di decadenza
e, dall’altro, ad estromettere dalla sua orbita situazioni meritevoli di tutela - sia la rimozione
di quei fattori che nell’esperienza giudiziaria avevano ingenerato incertezze e contrasti
applicativi di non poco peso.
Se volgiamo lo sguardo sul versante penalistico, gli obiettivi indicati ci rimandano un’istantanea dai contorni a dir poco sfocati. Come facilmente desumibile dal riflesso che il
nuovo art. 67 l.f. proietta già sulla bancarotta preferenziale: delitto che presidia la par condicio creditorum incriminando il fallito che, antecedentemente o in corso di procedura, esegua pagamenti preferenziali o simuli titoli di prelazione al fine di favorire taluno dei creditori a danno di altri (art. 216, comma 3, l.f.).
Com’è noto, tale fattispecie incriminatrice ritaglia da sempre un’area sostanzialmente
omogenea a quella disciplinata dagli artt. 65 e 67 l.f. - nonché dagli artt. 2901-2904 c.c. a
49 Così PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 718.
50 Per tutti, FOFFANI, Prospettive di armonizzazione europea del diritto penale dell’economia: le proposte del
progetto “eurodelitti” per la disciplina delle società commerciali, del fallimento, delle banche e dei mercati finanziari, in DOLCINI, PALIERO, (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, III, Milano, 2006, spec. p. 2331 s.
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loro volta evocati dall’art. 66 l.f. La configurabilità del reato postula come già maturato un
epilogo ben preciso: la dichiarazione di fallimento. Sul piano sostanziale il reato presuppone tuttavia che al momento del negozio solutorio l’impresa versi in stato di insolvenza o secondo un autorevole insegnamento - che questo si rappresenti già alle porte, poiché solo
in un contesto di seria criticità è possibile che un atto lecito (il pagamento) col quale il debitore tenti di superare una difficoltà economica, possa ledere la par condicio e cioè costituire una sottrazione delle risorse destinate alla soddisfazione pro quota di altro creditore51.
Ora, pur nella autonomia della fattispecie penale, non vi era dubbio che il retroterra
normativo rappresentato dal vecchio art. 67 l.f. costituisse in buona parte l’ambito d’elezione delle condotte punibili a titolo di bancarotta preferenziale. Quel che civilisticamente rilevava sul versante dell’incidenza dell’onere della prova - fra atti cd. anormali, per i quali è
presunto lo stato di insolvenza, ed atti cd. normali per i quali spetta al curatore la prova della
conoscenza di tale stato in capo al terzo - sul corrispondente fronte penalistico finiva sovente con lo svolgere una sorta di Appel-funktion, indiziando cioè in via interpretativa il materiale attraibile nell’orbita dell’art. 216, comma 3, l.f.: quegli atti per l’appunto revocabili in
ragione della loro incidenza sulla garanzia patrimoniale52. Il ruolo di effettivo selettore del
penalmente rilevante, per atti altrimenti ed unicamente inefficaci ex lege, nell’economia
della bancarotta preferenziale è sempre stato assunto in carico dal dolo specifico di danno:
e ciò a buon ragione, giacché nella costruzione del tipo l’oggetto del dolo specifico - il danno
ad uno dei creditori: id est l’indebita preferenza al vantaggiato53 - ne condensa appieno il
connotato di offensività.
51 PEDRAZZI, Commento all’art. 216, cit., p. 118 s., per il quale è sufficiente che “la situazione di sbilancio
tra attività e passività … si profili come incombente”. Per la necessaria sussistenza di una insolvenza invece
in atto: COCCO, La bancarotta preferenziale, Napoli, 1987, p. 157, p. 183. Parimenti, seppur in una prospettiva più generale volta alla riformulazione della disciplina penalfallimentare, FOFFANI, Crisi d’impresa e intervento penale: le linee di una riforma possibile, in PICCININI, SANTARONI, (a cura di), Crisi d’impresa e riforma della legge fallimentare, Roma, 2002, p. 325.
52 Con un’avvertenza: la mera revocatoria di un pagamento non rileva di per sé sulla sussistenza della bancarotta preferenziale (CONTI, Diritto penale commerciale, II, cit., p. 188; PEDRAZZI, Commento all’art. 216,
cit., p. 122), così come potrebbe non assumere rilievo ai fini penalistici la valutazione prognostica del pregiudizio (bensì solo ai fini della revocatoria, rilevando in sede penale l’accertamento ex post del danno inteso
quale lesione della par condicio: Trib. Lecce, 30 novembre 1993, in Foro it., 1995, II, c. 669; COCCO, La bancarotta preferenziale, cit., p. 184 s.; diff. MARINUCCI, Tendenze del diritto penale bancario, in ROMANO,
STELLA, (a cura di), La responsabilità penale degli operatori bancari, Milano, 1980, p. 59 s.). Di contro, le due
azioni possono ben concorrere ma nel rispetto delle rispettive finalità e specificità: quella penale, tesa a colpire il fallito (ed eventualmente ex art. 110 c.p. anche il creditore avvantaggiato se, a conoscenza dello stato
d’insolvenza del debitore, ne abbia istigato o determinato il pagamento preferenziale), quella revocatoria tesa
a sanzionare il creditore (NUVOLONE, voce Fallimento (diritto penale), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 484).
53 Che favoreggiamento di uno o più creditori e danno per gli altri siano termini assolutamente inscindibili era
già ben messo in chiaro da NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento, cit., p. 242.
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Orbene, il nuovo art. 67 l.f. è deliberatamente improntato ad un drastico ridimensionamento della forza attrattiva della revocatoria fallimentare: sia per la riduzione dei termini, sia
e soprattutto per le robuste - più per qualità che per quantità - esenzioni introdotte. Il punctum dolens risiede però nel fatto che la nuova revocatoria fallimentare rischia di incrinare
l’orbita sin qui ingaggiata sul complementare versante penalistico dal tipo legale delineato
dall’art. 216, comma 3, l.f.: interferenza la cui problematicità è generata dalla costruzione
autonoma del tipo penale, nel quale non v’è alcun rinvio in senso stretto al disposto dell’art.
67 l.f. Precetti distinti ancorché omogenei quelli delineati dalle due disposizioni: omogeneità, per l’appunto, in parte venuta meno a seguito della riforma del solo art. 67.
Da qui, la possibile emersione di una piattaforma di antinomie ingenerate da pagamenti non più assoggettabili a revocatoria fallimentare e pertanto da intendersi civilmente
efficaci in base al nuovo art. 67 l.f., ma che al contempo, sussistendo il dolo specifico,
potrebbero continuare ad incorrere in sanzione penale in quanto ‘preferenziali’ a norma del
vigente art. 216, comma 3, l.f.: si pensi ad un pagamento in denaro a fronte di un credito
liquido ed esigibile, effettuato sette mesi prima della sentenza di fallimento, con cui il debitore intenda favorire uno o più creditori - consapevoli del suo stato di insolvenza - a danno
degli altri (art. 67, comma 2, l.f.); a fortiori se poi la declaratoria giudiziale sia procrastinata
oltre l’anno grazie ad una orchestrata strategia dilatoria del debitore, o di ritardo nella proposizione dell’istanza di fallimento da parte del creditore avvantaggiato54. Esiti presumibilmente non ricercati dal legislatore della riforma eppure ben possibili nella prassi e che finiscono col sovvertire la natura complementare e servente del penale: con buona pace del
principio di sussidiarietà, alla riduzione dell’area della ‘preferenzialità civile’ può corrispondere su alcuni fronti una espansione della ‘preferenzialità penale’.
Com’è sin troppo evidente, l’antinomia venutasi a creare alimenta un germe capace di
ammorbare la vitalità del tessuto normativo: sul versante dell’unità dell’ordinamento giuridico, e - per quel che più rileva - sul versante del destinatario dei due precetti. Ora, sul terreno penalistico è la ‘preferenzialità’ ad incarnare l’illiceità del fatto, costituendo essa l’oggetto del dolo specifico: giacché la “psicologizzazione dell’effetto preferenziale” sta a significare come nel ‘fuoco’ della tutela penale entri la lesione - materiale o potenziale, qui poco
importa - della par condicio55. Ciò nondimeno, è sul medesimo piano assiologico - in funzione del rispetto della par condicio - che si muove tradizionalmente l’istituto della revocatoria
fallimentare: e non sembra, per quanto fortemente innovata, che la nuova revocatoria abbia
54 SANDRELLI, Prime considerazioni, cit., p. 219.
55 L’espressione è di PEDRAZZI, Commento all’art. 216, cit., p. 124.
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inteso rinnegare un tale assetto. Se così è, non è neppure ipotizzabile - sforzandosi di riconoscere al legislatore della riforma la consapevolezza del problema e delle sue ricadute la sussistenza di un duplice e distinto (ma malfermo) giudizio di illiceità: a taluni presupposti, una illiceità civile da sanzionare con la revocatoria fallimentare; e ad altri e meno rigorosi una illiceità penale da colpire con l’art. 216, comma 3, l.f.
A tacer d’altro, l’effetto complessivo sarebbe quello di un messaggio incoerente e contraddittorio lanciato verso il debitore: ed il peso di una siffatta incoerenza sarebbe interamente scaricato sulle sue spalle, in quanto effettuando un pagamento (d’ora in poi) lecito
civilmente assumerebbe il gravame dell’illiceità penale nella misura in cui l’atto rientri nella
preferenzialità di cui al terzo comma dell’art. 216 l.f.56.
Certo, nel tentativo di riannodare le fila di una illiceità unitaria, si potrebbe in tal caso
ritenere facoltizzato e dunque scriminato ai sensi dell’art. 51 c.p. il fatto: per tal modo neutralizzando l’effetto diabolico di una simile antinomia sul terreno dell’antigiuridicità. Col che,
però, andrebbe forse riconsiderato il senso e la portata della tipicità - quale sede sintetica
del giudizio di lesività verso il bene giuridico57 - dell’art. 216, comma 3, l.f., riconoscendo per
quest’aspetto una sorta di ‘primato dell’antigiuridicità’ sul fatto58. E coerentemente, sul versante civilistico, occorrerebbe intravedere nelle situazioni descritte dal terzo comma dell’art.
67 l.f., non già delle mere deroghe bensì delle fattispecie ab origine lecite59.
Per converso, si potrebbe addivenire ad una soluzione radicalmente opposta dando
prevalenza al precetto penale, sulla scorta del principio logico per il quale non è pensabile che la medesima condotta sia comandata dal diritto civile e al tempo stesso vietata dal
diritto penale60. E precisamente: considerare nulli perché in contrasto con una norma imperativa - per l’appunto: l’art. 216, comma 3, l.f. - quegli atti e contratti stipulati dal debitore,
e solo apparentemente consentiti dal terzo comma dell’art. 67 l.f.61. Col che però se, da un
lato, si neutralizza sul nascere ogni antinomia ed al contempo ogni possibile strumentalizzazione della nuova revocatoria fallimentare, dall’altro lato, ne risulta profondamente trasfigurata la disciplina dell’art. 67 l.f.: dovendosi la sua effettiva portata ricavare da una let-
56 Lucidamente - e con un esempio straordinariamente ‘premonitore’ - VIGANÒ, Stato di necessità e conflitto di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, 2000, p. 340 s.
57 Tutt’ora fondamentale il contributo di MARINUCCI, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in MARINUCCI, DOLCINI, (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, spec. p. 194 ss.
58 Coglie bene tale processo DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale, cit., p. 143 ss.
59 BRICCHETTI, Relazione per il convegno “La disciplina della crisi di impresa e il nuovo sistema revocatorio: la riforma del diritto fallimentare nella delega legislativa”, Foggia 9 luglio 2005, in www.ipsoa.it/fallimento.
60 Ancora VIGANÒ, Stato di necessità e conflitto di doveri, cit., p. 341.
61 Con l’ulteriore effetto della ripetizione delle somme corrisposte: FABIANI, L’alfabeto della nuova revocatoria
fallimentare, in Fall., 2005, p. 581; nella medesima direzione, SANTANGELI, Commento all’art. 67, cit., p. 298 s.
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tura congiunta in cui, a conti fatti, un ruolo assorbente in chiave ermeneutica andrebbe
assegnato alla fattispecie penale62.
4.1. (Segue): bancarotta preferenziale e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare
Fenomeno per certi versi inverso potrebbe essere indotto dalle nuove esenzioni stabilite dal terzo comma dell’art. 67 l.f.: segno di una rinnovata valutazione degli interessi in
gioco e della loro meritevolezza, la riforma individua un’area di condotte che, a prescindere dalla situazione di insolvenza del debitore su cui insistono, non è più possibile sottoporre a revocatoria fallimentare.
Il riflesso sulla sfera della bancarotta preferenziale sembra questa volta assumere
connotati radicalmente diversi, rispetto all’espansione lamentata poc’anzi: giacché le condotte beneficiate dal terzo comma dell’art. 67 rimandano ad una nuova ricomposizione dell’equilibrio tra i beni giuridici coinvolti nel conflitto fra le ragioni del debitore e la finalità di
conservazione dell’impresa o delle sue capacità produttive da un lato, e l’interesse all’integrale ed oltranzistico rispetto della par condicio o meglio delle priorità di trattamento garantite dal legislatore dall’altro. Il nuovo assetto non è dunque privo di conseguenze sul piano
sanzionatorio. Perché a mutare, questa volta, è la stessa piattaforma di valori giuridici che
segnano il volto di ciò che è meritevole di tutela penale: da qui, un corrispondente riallineamento lungo le retrovie dell’offensività quale canone anche ermeneutico oltre che costitutivo dell’intervento del gendarme penalistico.
Così ridefinite le coordinate dei programmi di tutela, non saranno punibili i pagamenti
di beni e servizi effettuati nei termini d’uso, ancorché si traducano in un privilegio per taluno dei creditori. Con una duplice avvertenza: che il pagamento effettuato non si manifesti
eccentrico rispetto all’esercizio dell’attività d’impresa, e fatta salva l’incognita interpretativa
rimessa alla esatta determinazione del perimetro semantico della locuzione “termini d’uso”
di cui alla lett. a), terzo comma, dell’art. 67 l.f.63.
62 E da qui, un ulteriore problema collaterale. La centralità ermeneutica che si riconoscerebbe alla norma
penale, nella determinazione del contenuto della revocatoria fallimentare, rischia di riverberarsi sul contenuto del dolo eventuale rendendolo ancor più esangue - soprattutto nel suo ruolo di spartiacque fra bancarotta
semplice e fraudolenta. Ed in particolare, verrebbe meno la possibilità di arricchirne il contenuto normativamente, avvalendosi a tal fine delle regole di prudenza che segnano l’agire del soggetto economico: regole,
all’evidenza, delineate dal diritto commerciale: v. DONINI, I pagamenti preferenziali nella bancarotta (art. 216,
comma 3, l. fall.): frode ai creditori e colpa grave come limiti “esterni” alla fattispecie. Il rischio non più consentito come elemento oggettivo “interno”, in St. iur., 1999, p. 144 s.; CANESTRARI, “Rischio d’impresa” e
imputazione soggettiva nel diritto penale fallimentare, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2003, p. 547 ss.
63 Sicché, ad esempio, esenti da revocatoria e dunque non punibili saranno tutti i pagamenti normali del fallito ai fornitori dell’impresa: non così innanzi a pagamenti per debiti personali effettuati dal fallito - o da soci illimitatamente responsabili per le società di persone -, ovvero a fronte di pagamenti volti ad estinguere crediti
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A fronte di un compromissorio quanto consolidato indirizzo repressivo, a tenore del
quale erano revocabili e quindi punibili le rimesse su conto corrente bancario finalizzate al
rientro dalla scopertura64, non è chiaro se la nuova disposizione (art. 67, comma 3, lett. b,
l.f.) abbia inteso innovare sul punto. Qualora si optasse per la soluzione affermativa, ritenendo pertanto superato il pregresso arresto giurisprudenziale - valorizzando a tal fine il
trattamento già favorevole per gli interessi e le posizioni bancarie riconosciuto anche dall’art. 70, comma 2, l.f.65 -, ne conseguirebbe un sensibile slittamento dell’area della sanzionabilità: ancorata, più che sulla natura intra- o extrafido della rimessa, unicamente sul requisito finalistico della consistente e durevole riduzione dell’esposizione verso la banca creditrice66. Una rimodulazione, questa, maggiormente in linea col piano della tutela penale giacché in grado di arricchire ancor di più, sotto il profilo dei contenuti, il dolo specifico richiesto
dall’art. 216, comma 3, l.f.
Il processo di riequilibrio in atto, polarizzato verso un consolidamento dell’offerta di
ulteriori possibilità di salvezza dell’impresa insolvente - processo sin qui ad uno stadio
embrionale ancorché già riconoscibile -, trova la sua più fedele espressione nella esenzione da revocatoria prevista dalla lett. d) del terzo comma dell’art. 67 l.f.
Invero, tale disposizione garantisce la non esperibilità della revocatoria fallimentare per
gli atti, pagamenti o concessioni di garanzie su beni del debitore qualora siano elementi esecutivi di un piano di risanamento dell’esposizione teso ad assicurare il riequilibrio della sua
situazione finanziaria, e la sua ragionevolezza risulti asseverata da un’apposita relazione.
L’esenzione da revocatoria è subordinata al legame finalistico degli atti dispositivi a taluni ele-
scaduti da notevole tempo. Resta incerto se “termini d’uso” possano essere anche quelli, per quanto non generalmente praticati nel mercato di riferimento, invalsi nel singolo rapporto commerciale fra il fallito ed il creditore: col rischio, in caso di risposta affermativa, di lasciare esenti da responsabilità quelle condizioni di pagamento più onerose se non vessatorie imposte dal fornitore al debitore (così SANTANGELI, Commento all’art. 67,
in ID., (a cura di), Il nuovo fallimento, cit., p. 277 s.). Anche per ulteriori approfondimenti, sul concetto “termini
d’uso” v. DE CRESCIENZO, PANZANI, Il nuovo diritto fallimentare, Milano, 2005, p. 94 ss.; DI MARCELLO,
Commento all’art. 67, in TERRANOVA ed altri, (a cura di), La nuova legge fallimentare annotata, cit., p. 115 s.
64 La giurisprudenza prevalente ha sino ad oggi sostenuto la revocabilità dei soli versamenti su conto corrente scoperto, cioè non solo passivo ma oltre il fido, sul presupposto che le rimesse entro l’affidamento fossero
da qualificarsi quale ricostituzione della provvista; ed in sede penale l’applicabilità dell’art. 216, comma 3, l.f.,
alle rimesse - sempre extra-fido - delle quali per modalità e importi fosse desumibile la finalizzazione preferenziale verso la banca creditrice: rispettivamente v. BONELLI, La revocatoria delle rimesse bancarie in conto
corrente: la giurisprudenza della Cassazione a partire dal 1982, in Giur. comm., 1987, I, p. 220 ss.; e per la
rilevanza penale di tali condotte v. Trib. Ferrara, 4 novembre 1991, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1991, p. 1274,
annotata da SCHIAVANO.
65 TARZIA, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria fallimentare, in Fall., 2005, p. 841; SANTANGELI, Commento all’art. 67, cit., p. 279. Contra, DE CRESCIENZO, PANZANI, Il nuovo diritto fallimentare, cit., p. 101.
66 Su tale clausola aperta, v. GUGLIELMUCCI, La nuova normativa sulla revocatoria delle rimesse in conto
corrente, in Dir. fall., 2005, I, p. 808 ss.
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menti di garanzia: il piano di risanamento la cui ragionevolezza dev’essere ‘certificata’ a
norma dell’art. 2501 bis, comma 4, c.c. E non è chi non veda, di contro, quanto labile possa
essere la solidità di simili ‘garanzie’: giacché l’idoneità del piano di salvataggio a consentire il
rientro dall’esposizione debitoria ed il riequilibrio finanziario dell’impresa in crisi poggiano
necessariamente su valutazioni prognostiche effettuabili cioè solo ex ante; e la relazione degli
esperti, imposta dal rinvio al comma 4 dell’art. 2501 bis c.c.67, non potrà che limitarsi ad asseverare la ragionevolezza dei criteri e delle valutazioni sfocianti nel giudizio prognostico68.
Ciò nondimeno, la norma mantiene una sua razionalità ed efficienza: non foss’altro perché essa è chiamata ad operare sul presupposto che tale piano si riveli - ex post - infruttuoso,
sfociando la vicenda nella dichiarazione di fallimento. A differenza delle altre ipotesi, ove si
valutano rapporti assunti nel normale esercizio dell’impresa, i pagamenti e gli atti posti in essere dal debitore in questo caso sono adottati allo specifico fine di risanare l’impresa evitando
pertanto la tracimazione nel fallimento: ragion per cui l’esenzione de qua mira unicamente a
facilitare i tentativi volti a superare lo stato di crisi dell’imprenditore69. Per quest’aspetto, la
norma prende posizione a tutela di prassi ben note e finalizzate alla soluzione della crisi in via
extragiudiziaria70: tecniche di risanamento sulle quali incombeva nel passato, tanto sul debitore quanto sui creditori coinvolti, in caso di successivo fallimento la duplice scure e della revocatoria dei pagamenti effettuati in esecuzione dell’accordo e della bancarotta preferenziale71.
Ecco perché le pretese di razionalità ed efficienza rimesse all’esenzione in parola, onde non
essere vanificate, postulano la non configurabilità della bancarotta preferenziale.
L’offerta di questa chance di recupero, e quindi la razionalità e l’efficienza della medesima regola, poggia su un duplice ‘salvacondotto’. E precisamente: là dove il piano di salvataggio fallisca, i pagamenti effettuati e le garanzie concesse non verranno resi inefficaci
67 È forse opportuno rammentare che il quarto comma dell’art. 2501 bis c.c., in caso di operazioni di leveraged buy out - cioè fusione a seguito di acquisizione con indebitamento, ove i debiti contratti per acquisire la
società target vengono garantiti o rimborsati col patrimonio di quest’ultima -, richiede che una relazione predisposta da esperti attesti la ragionevolezza di quanto indicato nel progetto di fusione e cioè risorse finanziarie e modalità occorrenti per il soddisfacimento delle obbligazioni della società risultante dalla fusione.
68 Con la riforma, l’accettazione del piano di risanamento da parte di tutti i creditori non costituisce più una
condicio sine qua non. Nel silenzio della norma, non è chiaro se il debitore necessiti del consenso di quei
creditori nei cui confronti il piano di risanamento proposto presenti rinunce o decurtazioni. Dubbio che potrebbe sciogliersi affermativamente facendo leva sul requisito della ‘ragionevolezza’ del piano: sostenendo cioè
che la mancata accettazione delle condizioni da parte della totalità o della stragrande maggioranza dei creditori, rappresenterebbe per ciò solo un grave elemento di irragionevolezza (PANZANI, Il D.L. 35/2005, la L. 14
maggio 2005 n. 80 e la riforma della legge fallimentare, in www.ipsoa.it/fallimento, p. 30).
69 SANTANGELI, Commento all’art. 67, cit., p. 287 s.
70 Cfr. FERRO, I nuovi strumenti di regolazione negoziale dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese
fra debitore e creditore: storia italiana della timidezza competitiva, in Fall., 2005, p. 587 ss.
71 PROIETTI, Commento all’art. 67, in TERRANOVA ed altri, (a cura di), La nuova legge fallimentare annotata, cit., p. 122 ss.
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dalla revocatoria fallimentare, né integreranno il fatto criminoso di cui al terzo comma dell’art. 216 l.f. Nessuna spinta motivazionale e dunque scarsa praticabilità potrebbe mai vantare una strategia normativa che non elimini per tabulas il rischio di incorrere in sanzione72:
in caso di fallimento, quella civile dell’inefficacia dell’atto per il creditore, e quella privativa
della libertà personale per il debitore73.
Ancor più che sotto la previgente normativa, i ‘dadi’ della preferenzialità penalmente
rilevante si giocano oggi sul tappeto di una più stringente enucleazione dell’oggetto del dolo
specifico. Che se nel passato la giurisprudenza penale configurava la bancarotta preferenziale, ritenendo compatibile il dolo specifico con la finalità di promuovere una composizione extragiudiziaria della crisi - quale giustificazione del pagamento a vantaggio di taluni creditori -, oggi tale assunto appare non più praticabile74. Sicché l’unico e residuale ambito di
operatività del delitto di cui all’art. 216, comma 3, l.f., si circoscrive alle ipotesi di fraudolenta preordinazione del piano (apparentemente) di risanamento ad esclusivo e preferenziale
vantaggio di taluno fra i creditori. Assuma il fatto le sembianze di una trattativa, o di una
preordinata desistenza del creditore interessato all’istanza di fallimento: elementi entrambi
di una strategia dilatoria che, a mezzo di una attività artificiosa, si rivela volta al perseguimento di un fine estraneo al risanamento dell’impresa75.
4.2. (Segue): i riflessi sulla bancarotta fraudolenta patrimoniale
Il nuovo testo dell’art. 67 r.d. n. 267/1942 potrebbe infine creare qualche incertezza in
tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, e precisamente sul versante delle condotte di
distrazione quale modalità prevista dall’art. 216, comma 1, n. 1, l.f.
Il novellato art. 67, al n. 1 del primo comma, recependo un indirizzo consolidato nella
giurisprudenza civile, con riferimento agli atti a titolo oneroso compiuti entro l’anno non si
accontenta più di una “notevole” sproporzione fra le prestazioni eseguite o le obbligazioni
72 Il problema è ben colto da LO CASCIO, La nuova legge fallimentare: dal progetto di legge delega alla miniriforma per decreto legge, in Fall., 2005, p. 362; FORTUNATO, L’incerta riforma della legge fallimentare, ivi,
2005, p. 598 s.
73 Ed eventualmente, ex art. 110 c.p., anche per i creditori interessati qualora, consapevoli dello stato di insolvenza del debitore, influiscano causalmente sulla determinazione del pagamento così contribuendo anch’essi a violare la par condicio: PEDRAZZI, Commento all’art. 216, cit., p. 132 ss.; altresì, INSOLERA, Il concorso di persone nei reati fallimentari, in questa Rivista, 2002, p. 817 ss.; CERQUA, Il concorso del creditore
favorito nel delitto di bancarotta preferenziale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2003, p. 565 ss.
74 Assunto che, per vero, era già difficilmente sostenibile innanzi ad una rigorosa interpretazione dell’elemento psicologico della bancarotta preferenziale: PEDRAZZI, Commento all’art. 216, cit., p. 126 s., ed ivi richiami giurisprudenziali (spec. in note 23 e 25). Diversamente, ritenendo l’art. 216, comma 3, l.f., solo apparentemente a dolo specifico: GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concursuali, cit., p. 454 ss.
75 SANDRELLI, Prime considerazioni, cit., p. 220.
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assunte, pretendendo ai fini della revocatoria che essa sia “oltre un quarto”76. Ben note le questioni e i disorientamenti della giurisprudenza penale - in specie in caso di finanziamenti infragruppo77 - innanzi ad atti dispositivi cui corrispondeva un corrispettivo di valore inadeguato. E
quindi: si attesterà domani la giurisprudenza penale sul criterio valutativo del ‘quarto’ introdotto dall’art. 67 - accedendo per quest’aspetto alle cadenze argomentative già sperimentate
sotto la vigenza del vecchio art. 2629 c.c., ove si richiamava il criterio di valutazione del ‘quinto’ dettato dall’allora art. 2343, comma 4, c.c.78 - o preferirà adagiarsi sulle orme già tracciate
e segnate da un ondivago incedere fra poli evanescenti ma elastici quali “la serietà” della controprestazione o la generica “congruità” del criterio economico di stima adottato dal fallito?79
Problema di non poco conto all’evidenza. Anche perché la scelta di affidarsi ad una
soglia così rigida nella determinazione dello squilibrio rilevante delle prestazioni non è esen-
76 Invero, la giurisprudenza soleva ‘concretizzare’ la notevole sproporzione muovendosi lungo una fascia
compresa tra il 20 ed il 30%: Trib. Torino, 27 giugno 1997, in Fall., 1997, p. 1038; Trib. Lecce, 11 marzo 1988,
ivi, 1988, p. 823; non mancava un indirizzo in cui, sul presupposto della elasticità del criterio, la “notevole”
sproporzione veniva di volta in volta ravvisata in relazione alle circostanze concrete di tempo, luogo e settore merceologico interessato: BARONTINI, Commento all’art. 67, in TERRANOVA ed altri, (a cura di), La nuova
legge fallimentare annotata, cit., p. 111, ove riferimenti giurisprudenziali; FABIANI, L’alfabeto della nuova revocatoria fallimentare, cit., p. 583 s.
77 Un’interpretazione alquanto lata è fatta propria, fra le tante, da Cass., 4 febbraio 2000, n. 5503, ove si
sostiene l’astratta legittimità di un finanziamento a vantaggio della capogruppo, ancorché privo di immediata
o apprezzabile contropartita per la singola consociata, purché sia giustificato dall’interesse del gruppo. Di contro una più rigorosa giurisprudenza - Cass., 19 gennaio 2000, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2000, p. 1084;
Cass., 14 dicembre 2000, ivi, 2000, p. 1087 - sul presupposto dell’autonomia giuridica delle singole consociate ritiene penalmente rilevanti a titolo di distrazione quei finanziamenti non adeguatamente compensati dalla
controprestazione della società beneficiaria: e ciò persino nel caso in cui l’interesse ad un finanziamento
senza adeguata contropartita a favore di una consociata in stato prossimo all’insolvenza fosse unicamente
dettato dall’esigenza di evitare il fallimento di quest’ultima e di rimando ‘a cascata’ quello delle altre società
controllate (Cass., 8 luglio 2002, ric. G.).
In letteratura, quantomeno, cfr. PEDRAZZI, Dal diritto penale delle società al diritto penale dei gruppi: un difficile percorso, in I gruppi di società, III, Milano, 1996, p. 1784 ss. (ed ora in Diritto penale, III, cit., p. 815 ss.);
ACCINNI, La responsabilità penale degli amministratori nel gruppo di società, in Le società, 1992, p. 1635 ss.;
FOFFANI, Le aggregazioni societarie di fronte al diritto penale: appunti sulle nozioni di “partecipazione rilevante”, “collegamento”, “controllo” e “gruppo”, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 124 ss. Una rapida ma puntuale panoramica è in SCAROINA, Societas delinquere potest. Il problema del gruppo di imprese, Milano,
2006, p. 49 ss. Da rammentare, infine, che a seguito della riforma del diritto societario (cfr. in particolare gli
artt. 2467 e 2497 bis c.c.) i finanziamenti in conto soci o i finanziamenti infragruppo concessi ad una società
che si trovi in una situazione di squilibrio finanziario - ai sensi del secondo comma dell’art. 2467 c.c. - ove
effettuati nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento di quest’ultima vanno restituiti.
78 Problema interpretativo che si ripropone inalterato dopo la riforma dei reati societari: cfr. MORMANDO,
Capitale sociale, conferimenti e legge penale, Padova, 2002, p. 43 ss.; MUSCO, I nuovi reati societari, Milano,
2004, p. 187; MUCCIARELLI, La tutela penale del capitale sociale e delle riserve obbligatorie per legge, in
ALESSANDRI, (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, cit., p. 306 ss.
79 Rispettivamente, fra le tante, Cass., 17 maggio 1997, in Riv. pen. econ., 1997, p. 343; Cass., 4 novembre
1993, in Cass. pen., 1995, p. 1635. In dottrina, PEDRAZZI, Commento all’art. 216, cit., p. 56 ss.; COCCO, I
confini tra condotte lecite, bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice nelle relazioni economiche all’interno dei gruppi di società, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2003, p. 1033 ss.
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te da risvolti negativi. Non è chi non veda, infatti, quali rischi possano annidarsi dietro un parametro fisso a fronte di talune tipologie di beni i cui prezzi sono stabiliti da listini: uno scostamento, ad esempio, del 15% nel prezzo di una partita d’oro si rivela di per sé già notevolmente sproporzionato; non così, invece, qualora si abbia a che fare con contratti para-aleatori
dove persino uno scostamento di oltre il 30% può non essere notevolmente sproporzionato80.
5. La nuova disciplina del concordato preventivo: i riflessi sull’art. 236, comma 2, l.f.
Nell’architettura complessiva della precedente disciplina, il concordato preventivo rappresentava una procedura ‘minore’, alternativa al fallimento e connotata da notevole rigidità
sia per le percentuali da garantire ai creditori sia per la pervasività e severità del controllo giudiziario. L’accesso al concordato preventivo era consentito sulla base della sussistenza dei
requisiti soggettivi del debitore e dell’insolvenza: condizione quest’ultima nella sostanza analoga, fatta salva la natura anticipatoria del concordato preventivo, a quella richiesta per il fallimento. Da qui, secondo l’orientamento prevalente, l’equiparazione del decreto di ammissione al concordato alla declaratoria fallimentare, così giustificando la previsione dell’art. 236,
comma 2, nn. 1 e 2, l.f.81: e cioè l’estensione ad amministratori, direttori generali, sindaci e
liquidatori di società nonché all’institore delle condotte previste dagli artt. 223, 224 e 227 l.f.82.
Il decreto sulla competitività ha radicalmente trasformato l’istituto del concordato preventivo, rendendo tale procedura maggiormente funzionale all’obiettivo del risanamento
dell’impresa o della restituzione al mercato di quegli asset tutt’ora appetibili83. Per quel che
rileva agli effetti della disciplina penale, balza subito all’attenzione una duplice novità. La
prima: l’eliminazione di ogni riferimento sia ai requisiti personali del debitore in sede di
richiesta di ammissione, sia al giudizio di meritevolezza in sede di omologazione84. La
seconda: lo stato di crisi - in luogo del precedente stato di insolvenza - quale presupposto
economico-finanziario legittimante l’ammissione al concordato. Nota la ragione: agevolare
80 FABIANI, Appunti sulla riforma della revocatoria fallimentare per prestazioni squilibrate con una lente sul
mercato immobiliare, in Foro it., 2005, I, c. 1422 ss.
81 CONTI, Diritto penale commerciale, II, cit., p. 430 ss.; Cass., 6 ottobre 1999, in Riv. trim. dir. pen. econ.,
2000, p. 479; contra, MANGANO, Disciplina penale del fallimento, Milano, 2003, p. 211 ss.
82 Estensione, quest’ultima, giudicata da buona parte della letteratura illogica, contraddittoria e foriera di non
poche lacune e disparità di trattamento: per un tentativo teso ad una razionalizzazione in via sistematica v.
COCCO, Commento all’art. 236, in PALAZZO, PALIERO, (a cura di), Commentario breve, cit., p. 1069 ss.
83 Cfr. CANALE, Il concordato con cessione di beni, accollo o altre operazioni straordinarie, in Riv. dir. proc.
civ., 2005, p. 897 ss.
84 Come ben noto, il mancato possesso dei requisiti personali - e segnatamente l’esistenza di precedenti
penali in materia di bancarotta, delitti contro il patrimonio, la fede pubblica, l’economia pubblica, il commercio
e l’industria, nonché l’accertamento di fatti di frode - conduceva alla dichiarazione di fallimento e dunque
all’applicabilità in capo all’imprenditore dei reati fallimentari.
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le condizioni di accesso alla procedura e soprattutto evitare che, in caso di insolvenza o di
rigetto della domanda di ammissione, il Tribunale dichiarasse per ciò solo il fallimento.
Un primo ordine di problemi può oggi scaturire dalla scelta legislativa che individua
nello stato di crisi - e non più nello stato di insolvenza - il presupposto oggettivo legittimante la richiesta di ammissione al concordato preventivo.
Nella sua versione originaria, l’art. 160 l.f. non chiariva cosa dovesse intendersi per
“stato di crisi”: problema risolto in parte dall’art. 36, comma 1, d.l. 30 dicembre 2005, n. 273,
che - ponendo fine al dibattito fra coloro che vi vedevano ricompresa l’insolvenza, e coloro
che invece sostenevano trattarsi di un quid minus e comunque di un fenomeno radicalmente diverso dal primo85 - ha inserito un secondo comma nell’art. 160 l.f., così sancendo che
“per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.
Nessun dubbio sull’obiettivo preso di mira dal legislatore: agevolare il più possibile l’intervento sulle crisi d’impresa86. E precisamente, da un canto, ridurre i margini di discrezionalità giudiziale sulle condizioni di salute del debitore e, dall’altro, evitare che, in caso di
insolvenza o di rigetto della domanda di ammissione, il Tribunale dichiari per ciò solo il fallimento. L’analisi letterale della disposizione lascia intendere come lo stato di crisi possa
anche comprendere l’insolvenza: e dunque sia quelle situazioni di squilibrio irreversibile, sia
quelle in cui l’impresa manifesta l’impossibilità di adempiere alle obbligazioni in scadenza,
sia infine quelle situazioni in cui è possibile pronosticare per l’immediato futuro il verificarsi
di uno degli inconvenienti or ora indicati87.
La scelta operata in merito alla definizione del presupposto oggettivo legittimante la
domanda di ammissione al concordato preventivo, se valutata col metro delle disposizioni
penalistiche presenta tuttavia qualche margine di perplessità. Ciò in quanto, con straordinaria superficialità, non si è avvertita l’esigenza di coordinare i nuovi artt. 160, 161 e 163
con il vecchio e tutt’ora vigente testo dell’art. 162 l.f.88.
85 Per tutti: lungo la prima direzione, così sostenendo l’ammissibilità alla procedura sia in caso di insolvenza
che di semplice squilibrio o difficoltà, JORIO, Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa tra ‘privatizzazione’ e tutela giudiziaria, in Fall., 2005, p. 14523 ss.; CANALE, Il concordato con cessione, cit., p. 900; lungo la
seconda direzione, escludendo pertanto che in stato di insolvenza il debitore possa essere ammesso alla procedura di concordato preventivo, G. ALESSI, Il nuovo concordato preventivo, in Dir. fall., 2005, I, p. 1134 s.;
BOZZA, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, in Fall., 2005, p. 954 ss.
86 Come si evince chiaramente dal contenuto ‘aperto’ della norma, la quale riconosce assoluta libertà di negoziazione in ordine alla definizione delle posizioni debitorie all’imprenditore in crisi: ALLEGRITTI, Commento
all’art. 160, in SANTANGELI, (a cura di), Il nuovo fallimento, cit., p. 707 s., p. 711 ss.
87 In tal senso mostrava già di orientarsi la giurisprudenza civile formatasi antecedentemente all’intervento
dell’art. 36, comma 1, d.l. n. 273/2005: Trib. Sulmona, 6 giugno 2005, in Fall., 2005, p. 793, annotata da
BOZZA; Trib. Salerno, 3 giugno 2005, ivi, 2005, p. 1297, con commento di FAUCEGLIA.
88 Superficialità, forse, sintomo di un malessere più profondo: stigmatizza la frettolosità e lo scadente tecnicismo con cui si è varata la riforma, LO CASCIO, I principi della legge delega della riforma fallimentare, in
Fall., 2005, p. 985 ss.
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Invero, come si è già evidenziato, nel nuovo assetto impresso al concordato preventivo
il tribunale non è più chiamato a valutare i requisiti personali del debitore - la cui insussistenza in passato conduceva alla dichiarazione di fallimento - essendo in loro vece sottoposto all’esame giudiziale la completezza e la regolarità della documentazione depositata a supporto del
piano che il debitore propone a norma del primo comma dell’art. 160 (lett. a, b, c, d). In buona
sostanza, al sindacato giudiziale è ora precluso il merito della proposta limitandosi, a conti fatti,
ad una verifica formale sulla sola documentazione allegata: atti e documenti fra i quali non
rientrano più le scritture contabili.
A fronte di un siffatto controllo cartolare, il superstite art. 162 l.f. consente al tribunale, con
decreto non reclamabile, di dichiarare inammissibile la proposta, ed al secondo comma con rigido automatismo di dichiarare il fallimento del debitore. Sorvolando sull’incongruenza di un potere di rigetto che l’art. 162, comma 1, continua ad ancorare ad un soppresso sindacato di merito - “se non ricorrono le condizioni previste dal comma 1 dell’art. 160 o se … la proposta di concordato non corrisponde alle condizioni indicate nel comma 2 dello stesso articolo” -, quel che
desta seria preoccupazione è altro. E precisamente: posto che il debitore può presentare la proposta di concordato preventivo anche in condizioni di non insolvenza e cioè in stato di crisi,
stante il rigido automatismo che - ex art. 162, comma 2, l.f. - avvince inammissibilità della proposta e declaratoria di fallimento, ne consegue che in tal caso il fallimento verrebbe dichiarato
per un quid minus rispetto all’insolvenza. Da qui, un grave vulnus nel cuore del sistema: a parte
l’evidente assurdità di un fallimento in condizioni di non insolvenza, quel che emerge è una
intollerabile disparità di trattamento sul piano penale. Ed invero, premesso che, per opinione
consolidata, la metastasi economico-finanziaria che innesca la procedura costituisce oggetto di
accertamento da parte del giudice penale89, una frammentazione semantica lungo i poli (in tal
caso distinti) della crisi e dell’insolvenza ancorerebbe l’estensione punitiva di cui all’art. 236,
comma 2, l.f., ad un presupposto meno grave: lo stato di crisi. Con l’effetto di attribuire all’intervento repressivo il duplice connotato dell’arbitrarietà e dell’irrazionalità, giacché solo ed unicamente in sede di concordato preventivo l’area del penalmente rilevante - delineata dai richiamati artt. 223, 224 e 227 l.f. - si attesterebbe su un quid minus. E da qui, l’ulteriore irragionevolezza di un trattamento sanzionatorio che, stante l’identità delle comminatorie edittali, non riuscirebbe - se non in sede di dosimetria della pena ex art. 133 c.p. - a dar conto del diverso
disvalore di un fatto ancorato rispettivamente allo stato di crisi e allo stato di insolvenza.
Nel tentativo di recuperare la ‘razionalità perduta’ e nell’attesa che il legislatore provveda
a risolvere il problema, si potrebbero ravvisare tre rimedi interpretativi.
89 Al pari di ogni altro elemento costitutivo o presupposto dell’incriminazione: MANGIONE, La bancarotta
fraudolenta, cit., p. 611.
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Il primo: violentando lo ‘spirito’ della riforma, si potrebbe riconoscere un notevole sindacato di merito al tribunale, peraltro smussando l’automatismo della declaratoria fallimentare; il che avverrebbe ritagliando un ‘doppio giudizio’: una prima volta, in sede di ammissione al concordato preventivo, ove sarebbe sufficiente lo stato di crisi; una seconda volta,
e cioè in caso di rigetto della domanda, il fallimento andrebbe dichiarato non già de plano
bensì solo previo accertamento della sussistenza dello stato d’insolvenza.
Il secondo: consentire al giudice penale un più disinvolto esercizio del suo potere di accertamento autonomo sino a sindacare la dichiarazione di fallimento che fosse pronunciata in stato
di crisi, e per tal modo ritenere non configurabile il reato ad essa formalmente ancorato.
Il terzo: obliterando l’interpretazione autentica di cui al secondo comma dell’art. 160
l.f., appiattire semanticamente lo stato di crisi sino a farlo coincidere in toto con lo stato di
insolvenza90.
Certo, non va sottaciuto come le possibili letture alternative qui abbozzate si presentino tutte alla stregua della ‘coperta troppo corta’. Ed invero, la prima e la terza, a parte l’evidente slabbratura del dettato normativo, finirebbero col ridimensionare l’appetibilità del
concordato preventivo, reintroducendo un potente sindacato di merito che inevitabilmente
farebbe risorgere una temibile ‘barriera’ all’accesso al concordato: di certo, il volto dell’istituto ne uscirebbe significativamente trasfigurato e con esso vanificati gli obiettivi perseguiti dal legislatore della riforma. La seconda via, oltre a lasciare immutata la segnalata irrazionalità di fondo sul versante civilistico - e ritenendo superato il problema del cd. giudicato implicito della sentenza fallimentare91 - avrebbe l’inconveniente di stabilizzare una discra-
90 Si potrebbe, a tal fine, argomentare dalla equiparazione fra dissesto ed insolvenza, la cui sostanziale identità di contenuti (già enucleata da PEDRAZZI, Commento all’art. 224, cit., p. 335) trova oggi conferma nella
riformulazione della bancarotta fraudolenta impropria ex art. 4 d.lgs. n. 61/2002, e da qui sostenere infine la
consonanza di significato fra dissesto e stato di crisi.
91 Sulla scia di Cass., 1 dicembre 1990, cit., p. 643. Da segnalare, inoltre, come a tal proposito il progetto di
legge n. 7497 del 14 dicembre 2000 a firma dei deputati Veltroni, Mussi ed altri, recante “Delega al governo
per la riforma delle procedure della crisi d’impresa” - a differenza del testo licenziato dalla Commissione
Trevisanato il 20 giugno 2003 e trasmesso il 3 luglio 2003 ai Ministri della Giustizia e dell’Economia (ove
all’art. 16, comma 10, lett. e) viene rimarcata la prevalenza del giudicato fallimentare nel processo penale) prevedesse l’eliminazione della pregiudiziale fallimentare: condivisibile il giudizio positivo espresso da FOFFANI, La riforma delle procedure concorsuali: profili penali (in margine alla proposta di legge n. 7497 del 14
dicembre 2000, per la riforma delle procedure della crisi d’impresa), in Crit. dir., 2001, p. 102 ss.; MANNA,
Dalla riforma dei reati societari alla progettata riforma dei reati fallimentari, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2003,
p. 701 s. Più in generale, per una rimeditazione dei rapporti tra accertamento penale e sentenza fallimentare, v. BUSETTO, Giudice penale e sentenza dichiarativa di fallimento, Milano, 2000; PERDONÒ, Fatti di bancarotta e declaratoria di fallimento: dal problematico inquadramento dogmatico ad una proposta de iure condendo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 447 ss. Alla luce della recente presa di posizione delle Sezioni
Unite - 24 maggio 2004, n. 29951 - favorevole alla ‘prevalenza del penale’ in materia di cautela reale, si v.
PACILEO, Sui rapporti tra procedimento penale e procedura fallimentare, in Cass. pen., 2005, p. 2437 ss.
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sia nei rapporti fra il dictum del tribunale fallimentare e il giudizio penale: discrasia, come si
sa, sempre latente ma che in tal caso assurgerebbe al rango di pericolosa costante del
sistema. Tutto ciò, ad ogni modo, non toglie che dalla visuale del penalista - e di sicuro da
quella del debitore - sia forse preferibile sostenere il costo insito in queste esternalità di
sistema, col vantaggio però di mantenere salda la responsabilità penale che la legge incentra sulla declaratoria fallimentare a condizioni sostanziali di insolvenza.
6. Quale tutela penale contro il mendacio e le infedeltà dichiarative del debitore
nella procedura di concordato preventivo?
La riforma della procedura di concordato preventivo pone al penalista un ulteriore e
dirimente tema di riflessione: la tutela della correttezza delle informazioni sulla situazione
patrimoniale, economica e finanziaria del debitore. Si è già sottolineato come il nuovo testo
dell’art. 163 l.f. sottragga al Tribunale quel penetrante fascio di poteri che lo conducevano
a sindacare nel merito la proposta di concordato. La disciplina introdotta infatti ritaglia deliberatamente al giudice un ruolo formale, che si risolve nella mera validazione del ricorso
attraverso la verifica della “completezza e regolarità della documentazione”. In poche parole, con una scelta ben precisa, dal proscenio della procedura è stato estromesso quel
gatekeeper che l’esperienza applicativa aveva visto esercitare il proprio ruolo con una severità ed intransigenza ritenuta da taluni eccessive.
Il quadro normativo testé richiamato, all’evidenza, riacutizza la questione del controllo sulla serietà e soprattutto sull’attendibilità delle informazioni e dei documenti su cui riposa la proposta di concordato preventivo - o degli ulteriori ragguagli forniti in corso di procedura -, nonché sulla serietà e affidabilità della ‘certificazione’ resa da un professionista o da
una società di revisione. Per quanto nelle prime pronunce la giurisprudenza mostri di non
essere tanto disposta a subire una così drastica sterilizzazione del proprio potere di controllo92, di sicuro un ruolo incisivo è per quest’aspetto assegnato al commissario giudiziale,
il quale - oltre a redigere l’inventario, relazionare sulle cause del dissesto, sulla condotta del
debitore, sui contenuti della sua proposta e sulle garanzie offerte ai creditori - è tenuto a
92 Facendo leva sul concetto di fattibilità, il controllo giudiziario sulla documentazione e soprattutto sulla certificazione dell’esperto o della società di revisione viene sagacemente esteso alla ricerca dei connotati di
serietà ed affidabilità del piano di risanamento esposto dal debitore, non mancando di sindacare l’iter logico
dell’argomentazione che sorregge la relazione dell’esperto: cfr. ALLEGRITTI, Commento all’art. 161, in SANTANGELI, (a cura di), Il nuovo fallimento, cit., p. 720 s., ove riferimenti giurisprudenziali. Non manca, poi, chi,
sempre al fine di arricchire lo spettro del controllo giudiziale, richiede che la relazione dell’esperto debba
necessariamente prendere in esame anche le scritture contabili (MANDRIOLI, Il piano di ristrutturazione nel
concordato preventivo tra profili giuridici ed aspetti aziendalistici, in Fall., 2005, p. 1343): documenti che - è
bene precisare - il debitore non è tenuto a depositare in allegato alla domanda di ammissione.
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sorvegliare l’attività del debitore (cui è rimessa l’amministrazione dei beni e dell’impresa).
Là dove (ex art. 173 l.f.) accerti l’occultamento, la dissimulazione anche parziale dell’attivo,
l’omessa denuncia di crediti, ovvero l’esposizione di passività inesistenti, la commissione di
atti di frode e comunque il compimento di atti non autorizzati o diretti a frodare le ragioni dei
creditori, il commissario ne dà comunicazione al giudice delegato che, svolte le opportune
indagini, promuove dal Tribunale la dichiarazione di fallimento.
Ora, il ‘non liquet’ in materia penale che ha segnato la riforma delle procedure concorsuali, una volta soppresso il severo filtro rappresentato dal sindacato di merito del
Tribunale, apre pericolose lacune di tutela su un versante caratterizzato da un corposo
fascio di informazioni economiche e finanziarie la cui infedeltà o incompletezza, oltre ad inficiare il concordato, si riflette lesivamente sulle ragioni dei creditori.
Infatti, il rimedio apprestato dall’art. 236, comma 1, l.f., - col quale si punisce il debitore che, allo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo, si attribuisce attività inesistenti, ovvero al fine di influire sulle maggioranze simuli crediti anche in
parte inesistenti - appare largamente insoddisfacente.
In primo luogo, la fattispecie configura un reato proprio dell’imprenditore individuale e, non
essendo consentito il ricorso all’analogia - in tal caso in malam partem -, non è possibile estendere la norma incriminatrice ai soggetti di gestione e controllo delle società commerciali93.
In secondo luogo, l’art. 236, comma 1, l.f., si limita a punire l’esposizione di attività inesistenti: fatto che può essere commesso dal debitore sia in sede di presentazione della
richiesta di ammissione al concordato, sia in un momento successivo ove cioè fornisca ulteriori ragguagli o elementi documentali - ma comunque antecedentemente alla approvazione della procedura. Esulano invece dal ‘fuoco’ del fatto tipico le ben diverse - e più insidiose: quantomeno perché di difficile individuazione - condotte di sopravvalutazione di attività
esistenti, sottovalutazione di passività esistenti ed occultamento di passività esistenti94.
Non vi è cioè integrale corrispondenza fra le condotte che, ex art. 173 l.f., possono condurre alla dichiarazione di fallimento e quelle che, ex art. 236, comma 1, l.f., all’accertamento
di responsabilità penale del debitore. Nella valutazione del legislatore del ’42, non tutti i fatti
lesivi dei creditori bensì soltanto quelli che si risolvono in una agevolazione processuale sono
tenuti a viaggiare lungo i binari del ‘penale’: non per caso il dolo della fattispecie incriminatri93 Fra i tanti, NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento, cit., p. 188; GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati reati concursuali, cit., p. 481; COCCO, Commento all’art. 236, cit., p. 1067 ss.; Cass., 2 giugno 1989, in Riv. pen., 1990, p. 792.
94 Cass., 3 luglio 1991, in Foro it., 1992, II, c. 146; Cass., 26 gennaio 2000, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2000,
p. 1082. In dottrina, già, NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento, cit., p. 190; più da recente, COCCO,
Commento all’art. 236, cit., p. 1067 ss.
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ce de qua è ritagliato unicamente sullo scopo di essere ammessi alla procedura di concordato preventivo95. Ma il non corrispondente perimetro riservato alle due aree solo apparentemente trova giustificazione nel rispetto dei principi di frammentarietà e sussidiarietà del diritto
penale: perché se è vero che solo i fatti più insidiosi meritano la sanzione penale, è ancor più
vero che in tal caso sono proprio quest’ultimi a sgusciare indenni tra le maglie della repressione. Nihil novi sub soli - si dirà -, poiché la palese irrazionalità di un impianto punitivo incapace
di fronteggiare le condotte elusive più insidiose rappresenta un punctum dolens ben noto da
tempo. Il novum è però che tale irrazionalità oggi è ancor più intollerabile, una volta franato il
baluardo sino a ieri rappresentato dal sindacato di merito del giudice fallimentare.
Né, infine, sembra agevole (e comunque soddisfacente) colmare le lacune evidenziate ricorrendo a talune fattispecie satellite.
Di certo, con riferimento al mendacio commesso dai soggetti investiti di funzioni amministrative o di controllo delle società, non è praticabile la via delle false comunicazioni sociali pur richiamate dall’art. 223, comma 2, n. 1, l.f. E ciò per una nutrita serie di ragioni. Una su tutte:
dopo la riforma del 2002, anche a voler ritenere superabili gli ostacoli delle soglie quantitative,
della tolleranza sulle valutazioni e della ‘sovrabbondanza’ del dolo, eccezion fatta per i bilanci
le comunicazioni fornite per l’ammissione al concordato preventivo - senz’altro da qualificarsi
‘sociali’ -, non sono dirette al ‘pubblico’ in quanto il loro destinatario è per definizione determinato o comunque determinabile a priori (gli organi della procedura e soprattutto i creditori)96.
Non avendo il mendacio del debitore natura materiale bensì prettamente ideologica,
è da escludersi l’applicabilità del delitto di falso in scrittura privata di cui all’art. 485 c.p.97.
Parimenti è a dirsi per quanto concerne l’ipotesi prevista dall’art. 483 c.p.: salvo voler sostenere che la relazione del debitore costituisca un “atto pubblico” “destinato a provare la
verità” di quanto in esso dichiarato98.
95 Da qui, correttamente, la conclusione dell’eccentricità del delitto rispetto allo schema della bancarotta e lo
slittamento dell’offensività verso il polo assiologico dell’amministrazione della giustizia: rispettivamente, GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concursuali, cit., p. 481; NUVOLONE, Il diritto penale del
fallimento, cit., p. 188.
96 Sulla direzionalità offensiva delle “altre comunicazioni sociali”, v. FOFFANI, La nuova disciplina delle false
comunicazioni sociali, in SEMINARA, GIARDA, (a cura di), I nuovi reati societari, cit., p. 258 ss. E già, sotto
la vigenza del vecchio art. 2621, n. 1, c.c.: PEDRAZZI, Un concetto controverso: le “comunicazioni sociali”, in
questa Rivista, 1977, p. 1565 ss. (ora in Diritto penale, III, cit., p. 731 ss.); CRESPI, La comunicazione societaria con unico destinatario, in Riv. soc., 1988, p. 1129 ss.; GIUNTA, Lineamenti di diritto penale dell’economia, Torino, 2001, p. 123; PERINI, Il delitto di false comunicazioni sociali, cit., p. 108 ss.
97 Tesi avanzata da NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento, cit.., p. 188, e correttamente superata sia
dalla dottrina che dalla giurisprudenza: CONTI, Diritto penale commerciale, II, cit., p. 424, in nota 2; Cass., 2
luglio 1965, in Cass. pen. Mass. ann., 1966, p. 376; Cass., 3 dicembre 1976, ivi, 1977, p. 352; Cass., 25 maggio 1984, ivi, 1985, p. 1823.
98 Sia pur in altro contesto, ma con implicazioni valide in questa sede: Cass., 12 febbraio 1976, in Cass. pen.
Mass. ann., 1978, p. 28.
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Ed ancor più fragile è la tesi che propende per l’applicabilità degli artt. 479 e 480 c.p.
al professionista la cui relazione accompagna, asseverandola, la proposta del debitore99. Da
un lato, siffatte disposizioni avrebbero quale soggetto attivo del reato l’esperto e non il debitore - la cui responsabilità andrebbe definita lungo l’orizzonte del concorso di persone nel
reato proprio. Dall’altro e più dirimente lato, le norme codicistiche presuppongono la qualifica pubblicistica del soggetto attivo. E che tale veste possa assumere il professionista incaricato di redigere la relazione è da escludere100. Né d’altra parte appare possibile utilizzare
l’estensione di cui all’art. 64 del codice di rito civile, in quanto tale norma speciale è circoscritta al solo esperto nominato dal presidente del tribunale: fattispecie nella quale non rientra, salvo il ricorso all’analogia in malam partem, il professionista incaricato dal debitore.
Perplessità di apprezzabile rilievo sussistono inoltre sulla configurabilità dell’art.
2624 c.c., qualora la proposta di ammissione al concordato preventivo, proveniente da
una società di capitali, si giovi della relazione - facoltativa o obbligatoria poco importa101 di una società di revisione102. Premesso che la disposizione consente di colpire anche le
ipotesi di mendacio cd. valutativo, vanno subito evidenziati taluni potenziali limiti. Il primo:
si tratta di un reato proprio dei responsabili della revisione, sicché ancora una volta la
posizione del debitore andrebbe ricavata sulla scorta degli artt. 110 e ss. c.p. Il secondo:
la sclerotica (ed eccentrica nella prospettiva di tutela della fedeltà della revisione contabile) strutturazione del dolo - ove unitamente alla consapevolezza della falsità occorre sia
l’intenzione di ingannare sia il perseguimento della specifica finalità di ingiusto profitto per
sé o per altri - riduce notevolmente le chances applicative della norma. Qualora il mendacio del debitore così asseverato si risolva in un pregiudizio a danno dei creditori, il fatto
parrebbe attratto nell’orbita del comma 2 dell’art. 2624 c.c. E quivi sorgerebbe un terzo
99 Così invece, SANDRELLI, Prime considerazioni, cit., p. 221.
100 Come del resto attestato dall’esperienza maturata con riferimento alla responsabilità penale per la falsa
relazione di stima dell’esperto nominato dal presidente del Tribunale in sede di valutazione di beni in natura
o conferimenti: lacuna, com’è noto, colmata dal legislatore estendendo le disposizioni dell’art. 64 c.p.c., ove
si rinvia alle fattispecie penali in tema di periti e consulenti tecnici: MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 191
s.; per ulteriori approfondimenti v. MORMANDO, Capitale sociale, conferimenti e legge penale, cit., p. 117 ss.
101 Così qualora si ritenga applicabile l’art. 2624 c.c. anche alla revisione contabile stabilita dal codice civile per le società non quotate nonché per la revisione cd. volontaria: MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p.
141; SIMONI, Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione, in ALESSANDRI, (a
cura di), Il nuovo diritto penale delle società, cit., p. 228. Contra, però v. le puntuali osservazioni di SEMINARA, Le falsità nell’attività di revisione contabile, in SEMINARA, GIARDA, (a cura di), I nuovi reati societari, cit., p. 347 s.
102 Sui riflessi proiettati sull’ambito di operatività dell’art. 2624 c.c. dall’art. 35 della legge 28 dicembre 2005,
n. 262 - che ha introdotto le nuove ipotesi criminose di cui gli artt. 174 bis e 174 ter nel corpo del d.lgs. 24
febbraio 1998, n. 58 -, v. SEMINARA, Nuovi illeciti penali e amministrativi nella legge sulla tutela del risparmio, cit. spec. p. 559 ss.
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ostacolo: e precisamente, la difficoltà di individuare in un parere o giudizio su fatti altrui in cui si sostanzia la revisione - il fattore causale del pregiudizio economico subito dai
destinatari (e fra questi dai creditori)103.
In definitiva, la tutela penale della correttezza del flusso di informazioni economiche
e finanziarie che concorrono ad ammantare di serietà la proposta di concordato preventivo, finisce con l’essere rimessa per buona parte all’operatività del delitto di truffa - possibilmente aggravata ex art. 61 n. 7, e dunque procedibile d’ufficio104. E dunque l’occultamento o la sottovalutazione di passività o l’esagerazione di attività esistenti realizzate dal
debitore nella domanda di ammissione - nonché dal professionista nella relazione di
accompagnamento105 - troveranno collocazione sotto l’ombrello punitivo dell’art. 640 c.p.,
configurabile, a seconda dei casi, nella forma tentata o consumata106.
Ben poca cosa, si dirà, attesa l’importanza degli interessi in gioco: eppure si trattava di esiti largamente prevedibili, in quanto molte delle questioni - e le relative soluzioni - erano già sul tappeto anche in una prospettiva de lege ferenda. Tant’è che lo
“Schema di disegno di legge recante delega al Governo per la riforma organica della
disciplina della crisi di impresa e dell’insolvenza” licenziato dalla Commissione
Trevisanato, all’art. 16, n. 8, aveva quantomeno mostrato consapevolezza del problema, prevedendo a tal specifico riguardo che l’incriminazione ruotasse su comportamenti fraudolenti consistenti, fra l’altro, nell’esposizione di informazioni false o nell’omissione di quelle imposte dalla legge107.
7. Conclusioni
Qualche breve considerazione, infine, a chiusura di queste riflessioni in attesa della
riprova dei fatti. Anzitutto trova conferma la sensazione che la deflagrazione delle patologie
dell’attività economica, quale culminante nel pregiudizio ad una cerchia così ampia di soggetti sotteso all’epilogo fallimentare dell’iniziativa imprenditoriale, non sembri destare una
particolare cura in capo al legislatore. Ben al di là della fretta e delle lacune che segnano
103 SEMINARA, Le falsità nell’attività di revisione contabile, cit., p. 359 ss.
104 Vale forse la pena di ricordare che, per definizione, il danno patrimoniale in tal caso sarà sempre superiore ai 25.000,00 euro: infatti, ai sensi dell’art. 15, ultimo comma, l.f. se il debito scaduto e non pagato dell’imprenditore insolvente è di importo inferiore non si dà luogo all’applicazione delle procedure concorsuali.
105 SEMINARA, Nuovi illeciti penali e amministrativi nella legge sulla tutela del risparmio, cit., p. 560.
106 GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concursuali, cit., p. 481 s.
107 Su tale articolato, S. FIORE, Gli orientamenti della commissione Trevisanato per la riforma dei reati fallimentari: una prima (disilludente) lettura, in AA.VV., Crisi dell’impresa e insolvenza, Milano, 2005, p. 277 ss.
Altresì, in una prospettiva de iure condendo, cfr. FOFFANI, La riforma delle procedure concorsuali: profili
penali, cit., p. 98 ss.; ID., Crisi d’impresa e intervento penale: le linee di una riforma possibile, cit., p. 319 ss.
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la riforma - nonché, con riferimento al nuovo art. 218 l.f., la legge n. 262/2005 -, la scelta
(invero tutta ‘politica’) di non dar seguito ai numerosi e autorevoli moniti circa la necessità
e l’indifferibilità di una radicale rivisitazione dell’assetto penalistico a corredo del diritto fallimentare, si rivela ancor più miope.
Ed invero occorre prendere atto che, ancora una volta, è rimasta elusa, in un settore
che tradizionalmente rappresenta l’originario nucleo storico del diritto penale dell’economia,
quella che a ben vedere è la questione principale, l’unica che dà succo e sostanza alle scelte di politica del diritto e segnatamente di politica criminale: quella del ruolo del diritto penale nella regolamentazione dell’economia e delle sue derive patologiche108. Questione che
non può di certo affrontarsi ‘in astratto’ e cioè senza soffermarsi a valutare il contesto economico-sociale, senza soppesarne accuratamente le contrapposte tensioni e soprattutto la
disciplina di base che di quei modelli è espressione.
Tant’è che ci si potrebbe anche esimere dallo scendere nel dettaglio per rimarcare
quanto abissale sia la distanza che separa oggi il superstite penalistico dal contesto di sfondo della nuova legge fallimentare - assetti economici, composizione di conflitti e tavole di
valori concretizzati in una riforma che, nell’abbandonare il dogma dell’indisponibilità dell’insolvenza per sposare quello della ‘privatizzazione’ della crisi d’impresa, sembra quasi trarre
ispirazione da VON HAYEK e cioè dal mito dell’ordine spontaneo del mercato e dei suoi attori109. Non foss’altro perché il volto più genuino e tutt’ora immutato del primo è calibrato sulle
“cadenze fobiche del rituale espiatorio, reazione istintuale del sistema al trauma dell’insolvenza e ai conseguenti clamori”110: riflesso fedele della precedente disciplina concorsuale,
come ben noto ispirata ad una finalità essenzialmente liquidatoria dell’impresa insolvente e
caratterizzata da una tutela ‘ad oltranza’ dei creditori, sino al punto da confezionare una integrale incapacitazione e spoliazione del patrimonio del fallito. Di contro, la riforma ribalta radicalmente tali assunti e, con riferimento al fallito, abbandona ogni istanza sanzionatoria111 e
108 ALESSANDRI, Attività d’impresa e responsabilità penali, cit., p. 536 ss.
109 ROVELLI, Quale competitività per le imprese dopo le “trasformazioni” della legge fallimentare, in Fall.,
2006, p. 106.
110 PEDRAZZI, Introduzione, cit., p. 1.
111 Come si evince, ad esempio: dalla soppressione del riferimento al “tenore di vita del fallito e della sua
famiglia” nella relazione particolareggiata che il curatore è tenuto, ex art. 33 l.f., a redigere e trasmettere entro
sessanta giorni dal fallimento al giudice delegato e, successivamente, in forma riepilogativa anche al pubblico ministero; dalle disposizioni non più vessatorie in materia di corrispondenza, ove - superando i notori dubbi
di incostituzionalità della previgente disciplina - l’obbligo di consegna al curatore è oggi dall’art. 48 l.f. circoscritto unicamente a quella afferente i rapporti attinti dal fallimento; ed ancora, dalla modifica dell’art. 49 l.f.
che non prevede più l’obbligo di residenza e l’accompagnamento coattivo a carico del fallito, sostituiti dall’obbligo di comunicazione dell’eventuale trasferimento di residenza nonché, in caso di impossibilità a presenziare personalmente, dalla possibilità di avvalersi allo scopo di un mandatario.
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propende verso l’obiettivo del recupero dell’attività economica sino al punto da favorirne, nei
limiti del possibile, un suo fresh start112. Scontata allora l’incoerenza del complemento penalistico: l’orbita attrattiva dei fatti di bancarotta a dir poco eccessiva; lo straordinario rigore
delle comminatorie edittali, peraltro improntate ad un non più giustificato dominio della pena
detentiva113; l’ancor più pervasivo corredo di pene accessorie, finalizzate alla (tendenzialmente) radicale estromissione del fallito dalla scena economica; l’assenza di cause di riparazione dell’offesa post-factum (l’integrale soddisfazione dei creditori all’esito della procedura) da poter spendere vuoi sul quantum di pena vuoi, sulla scia tracciata dalla riforma dei
reati societari, sull’an della punibilità stessa114.
Certo, abbozzata per tal modo la cornice del problema, il giurista è chiamato a far
valere il suo ruolo e cioè tentare di pervenire, arando i possibili itinerari ermeneutici, a soluzioni coerenti sotto il profilo sia dogmatico sia sistematico. Ben consapevoli, anzitutto, della
estrema difficoltà che si cela dietro il tentativo di saggiare la tenuta epistemica di fattispecie incriminatrici, quali quelle penalfallimentari, la cui sistematica continua dopo oltre sessant’anni a rappresentare un dato evanescente. E ben consapevoli, inoltre, della natura
provvisoria degli esiti conseguibili: le disarmonie e le stravaganze annunciate, quale effetto della collisione di una disciplina così rivoluzionaria con le vecchie ed immutate disposizioni penali, dovranno fare i conti con l’immaginazione e l’imprevedibilità della prassi.
Ciò non toglie, comunque, che la sostanza dei problemi via via emersi rimanga elusa.
Problemi, a ben vedere, di ampio respiro nella misura in cui si candidano a coinvolgere
tanto l’applicazione della parte penalistica quanto l’impianto civilistico di base. Ed invero:
quale la reale e complessiva efficienza del nuovo sistema delle procedure concorsuali se
esso, come pur pare - quantomeno negli snodi più innovativi -, subirà l’effetto frenante rap-
112 Con l’ulteriore conseguenza di contenere le ben note prassi elusive ove il ‘reinserimento’ del fallito nel
mercato avveniva a mezzo di prestanome: GUERNELLI, Linee guida della riforma del diritto fallimentare: dalla
legge delega allo schema di decreto legislativo, in St. iur., 2006, p. 11.
113 Per una radicale contestazione del ruolo di prim’attore svolto dalla pena detentiva nell’attuale sistema
penale: EUSEBI, La privazione della libertà nel diritto penale e la Costituzione, in Quest. giust., 2004, p. 473
ss.; già ID., Brevi note sul rapporto tra anticipazione della tutela in materia economica, extrema ratio ed opzioni sanzionatorie, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 743 ss. Nella medesima direzione, lungo un itinerario
culturale che dalla mera pena detentiva si spinge sino a reclamare ‘un passo indietro’ dell’intero diritto penale, si v. i fondamentali contributi di STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela
delle vittime, Milano, 2003, e nella letteratura tedesca di LÜDERSSEN, Sulla sostituzione graduale della pena
detentiva, in ID., Il declino del diritto penale, trad. it., Milano, 2005, p. 65 ss.
114 In questa direzione si muovevano i progetti di riforma allora sul tappeto. E precisamente: alle condotte
riparatorie veniva riconosciuto effetto estintivo del reato dal cd. progetto Cola (CD, n. 2342 del 14 febbraio
2002, primo firmatario on. Cola), mentre tanto lo schema licenziato dalla Commissione Trevisanato (20 giugno 2003) quanto quello messo a punto dal gruppo Ds (CD, n. 7497 del 14 dicembre 2000, primo firmatario
on. Veltroni) qualificavano la riparazione dell’offesa in termini di circostanza attenuante.
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presentato dalle possibili bizzarrie di un complemento penalistico sempre più alla deriva? e
quale la razionalità e persino l’equità di un diritto penale dell’impresa costretto a convivere,
dopo la riforma dei reati societari - le cui cornici edittali sono state ritoccate verso il basso,
talvolta con effetti criminogeni -, con due modelli culturali così distanti l’uno dall’altro?
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