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Attraverso il Torino Fringe Festival. Report da un debutto
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VENERDÌ 10 MAGGIO 2013 15:40 MARIA ROSSA
Ospiti del Torino Fringe Festival in corso in questi giorni,
La ballata dei Lenna e O.P.S Officina per la Scena
presentano rispettivamente “La protesta – Una fiaba
italiana” e “Beat: Beatles esistenze a tempo”.
Il Torino Fringe Festival, alla sua prima edizione
Come già vi abbiamo raccontato qualche tempo fa,
Nicola Di Chio, Paola Di Mitri e Miriam Fieno si sono
formati presso la Civica Accademia d’arte Drammatica
“Nico Pepe” di Udine e nel 2011 hanno fondato la
compagnia La ballata dei Lenna.
Vincitore del Festival Anteprima89 nel 2012, “La protesta
– Una fiaba italiana” è uno spettacolo nato da un
percorso che ha coinvolto nel corso di un anno svariate
persone: iniziato in collaborazione con la residenza
teatrale di Teatro Minimo in Puglia, il progetto si è nutrito
delle storie raccolte durante diversi laboratori tenuti dalla
compagnia in giro per l’Italia.
In continua evoluzione grazie al contributo del pubblico e al costante confronto coi tempi, la performance
riassume senza presunzione la situazione di crisi che molti italiani vivono oggi.
Licenziati da un centro informazioni cui nessuno più si rivolge se non con qualche sporadica telefonata, tra
equivoci e racconti personali tre impiegati riflettono e agiscono nel tentativo di darsi un futuro, anche quando
questo sembra impossibile.
“Papà, ma noi, il futuro, ce lo possiamo permettere?” è la domanda posta da un bambino al padre nell’aprile
2011, ed è il dubbio che aleggia per tutto il corso della performance.
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Ben calata nei personaggi che mette in scena – la ragazza bulimica, quella che riempie le sue serate di uomini
ogni volta diversi perché “meglio così che niente” e il giovane alcolizzato – La ballata dei Lenna cerca e offre un
punto di vista tagliente sulla nostra contemporaneità. Forse un po’ carenti nell’uso del corpo, i tre attori mostrano
abilità nello scandire il testo, e quasi mai la loro intensità interpretativa scade nel cliché.
Oltre allo spettacolo, la compagnia ha partecipato al festival con un workshop aperto a tutti, volto allo scambio
culturale e artistico tra realtà differenti, “in modo da creare un raccoglitore di storie eterogenee, con l’intento di
dare voce a una protesta vera, sintomo di un malessere diffuso che è difficile mettere su uno striscione: la
protesta degli esseri umani”.
Un’aria completamente diversa si
respira ridiscesi nel nuovo Spazio
Ferramenta dopo una breve pausa per
cambiare la scenografia.
Giorgia D’Agostino, Michele Guaraldo,
Orlando Manfredi e Paola Raho
portano in scena la storia dei Beatles
in uno spettacolo costruito attraverso
aneddoti e canzoni, filmati e racconti.
Diretto da Valentina Volpatto, questa
performance-documentario intrattiene
e commuove il pubblico per più di
un’ora. Anche in questo caso è
centrale la riflessione sulla
contemporaneità: il Beat, il battito di
una generazione che ha saputo scuotere gli anni Sessanta a livello non solo musicale ma anche politico,
economico e sociale, dovrebbe tornare ad animarci nel periodo di crisi che stiamo vivendo.
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Leggero e stuzzicante, “Beat: Beatles esistenze a tempo” alterna registri differenti, passando da momenti
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Leggero e stuzzicante, “Beat: Beatles esistenze a tempo” alterna registri differenti, passando da momenti
cabarettistici al canto, da testimonianze e squarci spesso drammatici del contesto storico a immagini teatrali
create con simpatia. Il luogo dà un tocco in più all’esibizione, con quei mattoni rossi e l’atmosfera soffusa che
facilmente accolgono una performance di questo tipo.
Ospite fino al 12 maggio delle serate del Circolo Oltrepo è invece la milanese Piccola Compagnia Dammacco,
che propone al Fringe lo spettacolo con cui nel 2010 ha vinto il premio nazionale di drammaturgia Il centro del
discorso.
“L’ultima notte di Antonio”, primo di tre spettacoli a formare "La Trilogia della Fine del Mondo", mette in scena le
voluttuose idiosincrasie di un cocainomane ormai giunto a uno stato di incontrollabile delirio.
La notte di Antonio non è mai l’ultima finché non viene la fine, cioè l’inizio dello spettacolo: il funerale, raccontato
dalla donna che è rimasta con lui nel crescendo della sua dipendenza.
Gambe sghembe e microfono in mano. L’attrice Serena Balivo parla con voce sobria e profonda, non le servono
grandi interpretazioni per cominciare il racconto del funerale d’Antonio, a partire dalle domande dei genitori su
quella sua strana abitudine.
Poi, l’apparizione di Antonio dalla porta da cui prima era entrato il pubblico, ora stipato sulle panche in fondo alla
stanza, in trappola davanti all’assito di legno su cui i due attori si muovono.
Antonio entra quasi fosse una visione dell’amata man mano che ne racconta la storia. Parla di dipendenza,
necessità, urgenza. Di incubi e paranoie. L’atmosfera è onirica, sembra galleggiare su una scena vuota.
Gli attori indossano abiti di velluto dal taglio irregolare, dai colori intensi e opachi che ci portano alla mente
un’epoca remota, forse mai esistita, quasi fossero personaggi di Tim Burton. Non comunicano che attraverso
microfoni, strumento sintomatico della contemporaneità, e il contrasto che ne deriva, unito a quello tra i loro gesti
lenti e improbabili e le turbolenze emotive di Antonio, tra i balzi improvvisi da un registro interpretativo comicogrottesco ad uno lirico-poetico, amplificano la dissociazione psichica e lo spaesamento del protagonista,
denunciando il rovinoso inganno della tossicodipendenza.
Lo spettacolo è scenicamente ben studiato. Lo stesso Mariano Dammacco racconterà, durante il successivo
incontro con il pubblico, della lunga gestazione del lavoro, frutto anche del contributo di diversi attori e del parere
di qualche critico teatrale che ha assistito il progressivo sviluppo.
Ma dei tanti scrupoli artistici non arriva purtroppo che il riflesso.
La recitazione è meticolosa e molto misurata, ma le immagini non si fanno palpabili, la comunicazione a tratti
tace. Dammacco usa toni e modi poco permeabili e presto diventa prevedibile. Serena Balivo è più insistente
nella sua ricerca scenica, ma stenta a incidere nel qui e ora teatrale.
Intanto, tra un acquazzone e uno squarcio
di sole, la prima edizione del Torino Fringe
Festival va avanti, proponendo fino al 13
maggio un programma di performance e
workshop dislocati in varie zone della città.
Oltre agli spazi teatrali, anche esibizioni per
le strade del centro e feste in locali.
Gli obiettivi dichiarati dagli organizzatori del
festival sono essenzialmente due:
“invadere” e avvolgere la città in un vivace
clima artistico, e promuovere la cultura
facilitando l’incontro coi produttori. Due
compiti di certo non semplici.
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sottraziono, Kataplixi Teatro, Saulo Lucci e Gianluigi Barberis, O.P.S – Officina Per la Scena sono le sette
compagnie di riferimento per altrettanti spazi teatrali che ospitano le performance: Caffè del Progresso, Cecchi
Point, Circolo Oltrepo, Circolo Rainbow, Magazzino sul Po, la zona teatrale del cimitero di San Pietro in Vincoli e
lo Spazio Ferramenta.
ATorino, oltre quelle 'di casa', sono quindi arrivate compagnie da Roma, Napoli, Milano, Pisa, Catania, Cagliari,
Aosta ma anche da Scozia, Inghilterra, Spagna e Francia, allargano il respiro del festival e cercando di
inaugurare, anche a Torino, quella grande tradizione dell’off nata a Edimburgo nel 1947, e che lì è diventata una
concreta occasione (seppur costosissima) di incontro tra realtà affermate ed emergenti.
Crab Teatro al Caffè del Progresso (photo: Christian Baldin)
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Tags: La Ballata Dei Lenna Officina Per La Scena Piccola Compagnia Dammacco Torino Fringe Festival
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