“IN ALTO” E - Rivista S.S.E.F.

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“IN ALTO” E “IN AVANTI”: LA PROVVIDENZA E IL PROGRESSO
Sommario: Introduzione. Sulla linea di confine - 1. Plotino o della meraviglia dell’Uno
– 2. Ero ogni giorno la delizia dell’Altissimo: figure della Provvidenza fra l’uno e l’altro
Testamento – 3. L’impulso in avanti del progresso: escatologia e secolarizzazione - 3.
1. Ciò che era luce interiore diviene fiamma bruciante: Messianismo teoretico e
marxismo in Ernst Bloch - 3.2. Etsi Deus daretur: l’espressione di una nostalgia – 4. Il
futuro di Dio: approdi teologici nel segno della provvidenza - 4.1. Tra i tempi:
differenza antropologica e teologia politica - 4.2. Escatologia della promessa o del
progetto del Regno - Conclusione. La fenditura del tempo
Introduzione. Sulla linea di confine
Non si potrebbe immaginare una filosofia senza archetipi, giacché meraviglia, mito e
mistero, nella loro strettissima affinità elettiva configurano il pensiero dell’inizio;
tuttavia ta prota sono strettamente connessi a ta eschata, cosicché riflettere
sull’origine – ed è già questo un essere iniziati- è anticipare nella ragione la cosa
ultima, postulare l’ordo ma non già come spiegazione causale, quanto invece come
logica della speranza, tanto che non si prescinde dalla tautegoricità del linguaggio che
la articola. Lo stesso connettersi insieme di bellezza e verità nella prima epifania
dell’essere del pensiero classico dice già di una meta-physika che non ha sic et
simpliciter valenza cosmologica, ma sottende una precisa ontologia che implica a
nostro avviso un valore fruitivo. Non per nulla l’epifania dell’essere è detta dai poemi
classici charis, ovvero manifestazione prima dell’essere come bellezza che dona
misura al mondo e che spesso viene rappresentata dall’eroe epico. Dire che la charis è
una sorta di synolon di kalos kai agathos è ammettere che la condizione di
disvelamento, la verità come aletheia, è la stessa del riconoscimento della giustezza di
un nomos la cui misura è la provvidenza per cui il kosmos è fatto e manifesto.
In epoca classica mai alcuno meglio di Plotino nelle sue Enneadi ha potuto formulare
più felicemente questa idea, sottendendo come lo stesso Streben filosofico è tensione
e nostalgia verso l’uno fontale che armonizza il cosmo e si effonde pur nella sua quiete
sovrasostanziale come bontà e bellezza. Dunque l’idea di provvidenza attraversa come
una corrente interiore il pensiero ponendo in evidenza come la stessa idea del Bene è
sempre oltre, ben oltre l’essere e le sue determinazioni (epekeina tes ousias) ed è
essa stessa a sottendere il mistero del mondo per cui omnia ad unum convertuntur,
ma anche omnia ad bonum et pulchrum convertuntur, nell’aplosis, ovvero nella
semplicità totale del logos interiore e superiore che è ad un tempo l’intrinseco ordine
del mondo.
Mentre ci riserviamo un’analisi senza dubbio più diffusiva e puntuale, ci preme, a ogni
modo mettere in luce che l’aurora del pensiero e i primi passi verso la conoscenza
sono dettati da un desiderio amoroso del Vero tale che essi non possono non essere
connessi all’anelito di salvezza. Già in epoca classica, tanto l’idea del kosmos, quanto
l’idea della physis sottendevano il concetto dell’interezza, di una sorta di praxis theleia
segno di un contatto del divino stesso che, come mirabilmente canta Hölderlin, ogni
giorno ha un vestito per amore degli uomini. Si potrebbe quasi dire che la pronoia
faccia da controcanto alla consapevolezza di una realtà drammatica, a tratti tragica, in
procinto di far emergere l’aorgico, ma vinta, infine dalla stessa gratuità diffusiva
dell’Unum.
Si ha dunque bisogno di risalire ai miti fondatori, anzi, di formulare sempre
nuovamente una teoria degli eventi fondatori per poter individuare come in essi si
esplichi l’idea archetipica di un ordine di giustizia e bellezza e verità, ad un tempo
secondo necessità ed oltre la necessità. Secondo necessità, per il fatto che non si può
non pensare ad un’essenza razionale del mondo, e forse la formulazione migliore
sarebbe katà logon, che tutto ordina per il bene, oltre la necessità in quanto tale
2
causalità non è costretta ab alio, ma per sua natura procede alla giustezza dell’ordine
cosmico. Altrettanto che nella prova fisico-teologica, ove si postula che dato un ordine
di armonia e giustizia, deve esistere un ordinatore giusto e santo, anche in questo
caso, tale dovere non sa affatto di costrizione quanto invece inerisce al più autentico
fondamento ontologico che si esplica in una causalità libera.
La categoria della provvidenza è altrettanto pregnante nel mondo biblico, ove la
bontà della creazione manifesta la stessa perfezione del Creatore che, compiacendosi
della Sua opera, continua a trarla dal nulla e a farla partecipare del Suo essere. Essa
si esplica altresì nella stessa rivelazione del mondo e dell’uomo come creature di Dio,
nella redenzione che fa nuove le cose e si pone come consumata apocalisse del
Progetto iniziale di Dio. In essa, pertanto, tutto è contenuto e trova un senso, dato
che, essendo intrinseca allo stesso Mistero di Dio, la provvidenza unisce ogni evento
contingente all’hodie della divina creazione connotato da un carattere fortemente
trinitario nella sua articolazione attraverso l’incarnazione e la passione che
costituiscono il Mistero taciuto e rivelato di Dio e la resurrezione, apax divino su cui
poggia la docta spes della stessa resurrezione dell’uomo e del cosmo nel Dio divenuto
tutto in tutti.
Questo, tuttavia, implica l’esigenza di un logon didonai, e dunque di far in modo che il
pensiero contenga l’incontenibile intenzionandolo nel suo carattere prolettico e
profetico, quasi che il pensiero stesso si esprima sotto la luce della redenzione come
mirabilmente recita la conclusione dei Minima Moralia di Adorno:
«La filosofia quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il
tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della
redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla
redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa
parte della tecnica»1
D’altra parte, però, si tratta di un pensiero che deve comprendere la propria
impossibilità per amore della possibilità2, un pensiero sanguinante sul crinale della
sua povertà per essere colmato della ricchezza indisponibile, e per il quale la cifra
plotiniana dell’Uno è forse l’immagine più adeguata.
Il carattere dell’impossibilità, in ogni caso, non è certo una sorta di finis philosophiae,
anzi è proprio ciò che lo fa rivestire della fodera rossa della speranza e orientare verso
l’utopia, pur facendolo permanere nella storia come gesto annunciatore capace di dar
forma al mistero del desiderio e capace di coniugare in modo secolarizzato la
provvidenza. Ottimo, da questo punto di vista, l’iter di Ernst Bloch nella sua istanza
teoretica di portare a coscienza il latente Noch Nicht Geworden, che recupera al
pensiero teoretico il suo primo immemoriale pensato, l’utopia geografica dell’Eden e
dell’Eldorado leggendola nella sua forma macrocosmica, come un simbolo dell’apex
mentis eckhartiano, di quel punto più prossimo all’increato nell’anima che, in maniera
quasi paradossale implicherebbe una sorta di epistrophé della ragione raziocinante
verso la regione di una protologia che sottende già l’escatologia di una natura sovranaturata per gratiam.
La coscienza utopica, accesa nelle cose che Ernst Bloch interpreta nell’impulso
teoretico del giovane Marx, il quale giunge a formulare una resurrectio naturae, molto
spesso viene a configurarsi come progresso, ed è già una figura nota alla filosofia
moderna, basti solo pensare alla Casa di Salomone di Francis Bacon, nella quale
elaborare un’idea secondo cui le magnifiche sorti e progressive dell’uomo avrebbero
raggiunto il loro culmine in una perfetta disvelatezza della natura all’uomo stesso, che
ne sarebbe stato il libero dominatore, imponendo ad essa il sigillo della sua tecnica
capace di tutto spiegare e tutto maneggiare fino ad eliminare ogni mito e far
risplendere il bagliore trionfante della ragione scientifica. A ben vedere, però già
Nietzsche lo aveva ben arguito mettendo in evidenza il carattere del linguaggio
scientifico come criptomitologico, non si tratta forse della secolarizzazione della
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provvidenza, istituita per condurre a termine il processo di immanentizzazione
dell’ordine del mondo facendolo culminare nella misurabilità matematica come nel suo
principio intrinsecamente divino?
Fra le due posizioni autoescludentesi, di una provvidenza supersostanziale, divina,
trascendente e quella di un progresso consustanziale al mondo e al suo divenire
secondo la legge irrecusabile della scienza, sicuramente se ne pone una terza capace
di includere l’in alto della prima e l’in avanti della seconda, quella di un experimentum
mundi come experimentum Regni, ove le due figure si incontrano in una tangenza
misteriosa che è data dall’universale concreto dell’Incarnazione.
Sarà questo il nostro orizzonte di attestazione in questo convergente viaggio in cui
filosofia e teologia si fronteggiano ancora serratamene interrogandosi.
1. Plotino o della meraviglia dell’Uno
L’Uno plotiniano è una quiete armonica che racchiude in se il drama, l’azione stessa
con cui il discendere e l’ascendere sottende l’esser fatto del cosmo, la pro-odosis,
l’epistrophé, il procedere ed il convertirsi alla Fonte. Questa idea grandiosa del
dramma cosmico nell’Uno e dell’Uno nei molti presenta, come già si diceva, una sorta
di liquido legame, di synolon archetipo che regge la complessa vicissitudine del
cosmo, che chiamiamo provvidenza.
Essa si articola attraverso la triade di Nous, Anima, Bene ed è quest’ultimo il climax in
cui ogni vita partecipa dell’essere.
Scrive Plotino nella Prima Enneade a proposito della partecipazione al Bene:
«Ogni cosa ha qualcosa del Bene, perché in qualche modo è una e in qualche modo è
un essere. Inoltre partecipa anche di una forma; quindi, come partecipa di queste
cose, così partecipa anche del Bene. In realtà partecipa di un’immagine del Bene,
poiché ciò di cui partecipa sono immagini dell’essere e dell’Uno e lo stesso si può dire
anche della forma. Ma per l’Anima, per la prima Anima che viene dopo l’Intelletto, la
vita è la più prossima alla verità, e questa prima anima tramite l’Intelletto ha la forma
del bene, m possederà il Bene solo se guarderà verso quello: e l’Intelletto, da parte
sua, viene dopo il Bene. La vita, di conseguenza è il bene di ciò che vive, e l’Intelletto
per ciò che partecipa dell’Intelletto, cosicché per chi ha vita assieme all’Intelletto, vi
sono due modi di giungere al Bene»3
La stessa idea di partecipazione al Bene esprime mirabilmente la provvidenza,
disegnando una cosmologia e a sua volta, una antropologia ante litteram per cui il
Bene, ben lungi dall’abbandonare quanto da lui procede, fa in modo di sussistere
ipostaticamente in esso così che ogni suo cammino verso il telos non sia altro che un
volgersi alla Fonte. E in questo diffondersi via via da ciò che è più prossimo, a ciò che
è meno prossimo alla verità, fa in modo che pervenirvi sia il cammino stesso del
cosmo compiuto. La stessa gerarchia di Bene, Intelletto, Anima che, per qualche
aspetto ricorda la coelestis hierarchia dinonisiana, sottende comunque, non già il
vagare delle cose in perturbante vertigo, ma il loro percorso noetico verso la sublimità
della fruizione del Bene, sottendendo quasi che la dialettica sia una propedeutica a
questa eudaimonia che ha il suo culmine nel theorein.
Diremmo quasi, che il Bene informa di sé ogni cosa, per questo il suo discendere non
è un mutare; la sua pienezza è tale che si effonde naturaliter, ma tale effondersi non
impoverisce, anzi colma la povertà del molteplice. Il Bene è, perciò, generosità
dell’essere. Occorre comunque sottolineare come il Bene plotiniano resta custodito dal
mistero della propria trascendenza. Si partecipa dell’imago boni, ed anche tale
partecipazione speculo et aenigmate sottende il carattere provvidenziale della
cosmologia plotiniana nella quale l’epistrophé culmina comunque nella pienezza
dell’Uno sovrasostanziale.
Un pensiero, questo dell’ebbrezza e dello stupore, anche quando va a trattare della
caduta, su cui in seguito ci diffonderemo. Per questo motivo ci pare opportuno
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riportare una chiosa alla riflessione plotiniana di uno dei più insigni esponenti della
teologia cristiana della contemporaneità, Hans Urs Von Baltahsar, il quale scrive:
«Plotino si affaccia con ammirazione davanti alla gloria del cosmo. Questo è
manifestamente un immenso organismo animato a cui hanno parte tutte le anime
singole, ragionevoli ed irragionevoli(questo è l’aspetto tardoplatonico, aristotelico e
soprattutto stoico); attraverso tutto questo magnifico mondo irradia e brilla uno
spirito eterno e pensante, in cui poesis e noema, atto ed oggetto di pensiero sono
un’unica cosa, e nel fondo più eccelso di questo spirito regna un inesprimibile mistero
fontale che si rivela in tutta la sua magnificenza cosmica e insieme vi si nasconde,
onnipresente ed inaccessibile»4
Sotto questa luce si desume che ogni singola cosa esiste secondo quanto si conviene
alla propria natura, laddove, però, tale convenire è la convergenza nel Bene in quanto
fontale mistero. Nessun disprezzo del mondo, dunque, tanto meno del corpo; la gloria
del kosmos, la sua luminosa manifestazione invita alla più alta syntehsis nell’aplosis
suprema dell’Uno Bene, eppure già nella synesis, che rappresenta la prima fase di
questo processum ad bonum è lo stesso spirito fontale a sostenere il moto di ogni
singolo esistente.
Meravigliosa in sé questa visione,eppure, anche in essa si insinua come un cuneo che
fa sanguinare la mente il concetto della caduta, che – pure- deve essere armonizzata
all’idea della provvidenza.
Plotino procede con una mirabile dialettica: se il Bene è ciò a cui ogni cosa deve la
propria esistenza, risulta chiaro che il male è una privatio boni, dunque un principio di
non essere che si mescola alle cose sensibili, ove, però, per non essere o privazione si
deve intendere l’irrazionalità in quanto mancanza di misura.
Così si esprime l’autore delle Enneadi:
«Ma che cos’è che produce questo male e come lo potrai ricondurre a quel principio o
a quella causa? Innanzi tutto un’anima di questo genere non è fuori della materia e
neppure esiste da se stessa. Essa, infatti, è mescolata alla mancanza di misura e non
partecipa della forma che la ordina e la riconduce alla misura poiché è fusa con un
corpo che ha materia. E poi, se anche la sua parte razionale viene danneggiata, è
impedita nella sua vista dalle passioni e dall’essere ottenebrata dalla materia, la quale
è tanto cattiva da contaminare con il proprio male anche quello che non è ancora in
lei,ma che si limita soltanto a rivolgerle lo sguardo. Poiché, essendo del tutto priva del
bene, anzi, essendo privazione di questo e pura insufficienza, rende simile a sé tutto
ciò che in qualunque modo entra in contatto con lei»5
Se ad una prima lettura ci si può sentire quasi legittimati a conchiudere ad
un’equazione che possa suonare male = materia, una più approfondita analisi del
testo denuncia subito l’inadeguatezza della primitiva e mal abbozzata interpretazione.
Non la materia ut sic è male, ma la materia in quanto non formata. E’ nella sua
condizione di in-forme, in effetti, che essa è refrattaria alla mensura, al logos, al telos
del bene. Inoltre, ammettendo il sinolo di materia e forma nell’esistenza sensibile, più
che un carattere statico la materia sembra assumere un carattere dinamico di impulso
accecato verso l’irrazionale. Il che deporrebbe a favore di una fragilità del sensibile e
di una sua natura parzialmente corruttibile. Dunque non la corporeità è male, ma la
corporeità che impedisce con la sua pulsione d’ombra l’itinerarium verso la gloria del
Nous e del Bene.
Non solo, è la stessa pagina plotiniana a sostenerci in questa interpretazione, allorché
lo stesso Plotino invoca l’autorità di Platone.
«(…) Poiché “fuga” precisa Platone non vuol dire andarsene dalla terra, ma essere
sulla terra “giusto e pio e mediante la saggezza come se l’espressione volesse
significare che bisogna fuggire il vizio. Cosicché i mali per lui consistono nel vizio e in
tutto ciò che ne consegue. Ma, dunque, come può il vizio che è proprio degli uomini
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essere contrario a quel Bene trascendente?Infatti il vizio è contrario alla virtù, ma la
virtù non è il Bene, bensì un bene che rende capaci di dominare la materia»6
Da notare, qui, come la materia sia accorpata al contesto semantico dell’inclinazione
verso ciò che contrasta il bene, ma anche come la virtù è la stessa disposizione
orientata al bene che fa si che si possa perseguire e condursi nella saggezza,
nonostante la possibilità della caduta. La virtù, infatti, non è il bene ma ciò che al
Bene dispone, nonostante l’incombente orma dell’informe, e per la virtù, nonostante la
caduta non si perisce del tutto.
Ancora una volta ci può essere di ausilio la chiosa di Von Balthasar riguardo alla
caduta. Egli argomenta in questo modo
«Plotino annota a questo riguardo con vigore tre cose 1) Che la discesa come tale
resta anche per l’anima individuale a doppio senso: che in essa c’è un’inclinazione
volontaria per esercitare la sua potenza e mettere ordine in ciò che le è inferiore»
E dunque
« l’anima come tale non può divenire cattiva e che resta sempre qualcosa di lei
“sopra”»7
Questa è la ragione per la quale si desume il carattere imperituro, dovuto ad una
consapevolezza che la stessa esistenza è una meraviglia. Si può leggere tale
meraviglia, alla guisa gadameriana, come dynamis8in modo tale da riconoscervi
l’infinita possibilità esistenziale rispetto al puro actus essendi, così che quest’ultimo
diventa la forza che sonnecchia in tutte le cose. E’ forse essa ciò che rimane sopra
l’anima tanto da comprenderla sempre nel misterioso logos che forma l’universo,
caratterizzato da una sorta di unità organica della vita. Chiara prova di questo sono le
metafore della sorgente e dell’albero, usate da Plotino per tradurre la magnificenza di
tale cosmologia.
Tuttavia, è qui che entra in azione la pronoia.
Il filosofo greco dedica degli scritti specifici alla provvidenza nelle sue Enneadi,
evidenziando che sia necessario postularne il carattere universale dato che:
«se dicessimo che il cosmo prima non c’era, è venuto ad esistere in un dato momento
del tempo, introdurremo nel discorso la medesima provvidenza che dicevamo esistere
per le cose particolari:sarebbe una sorta di previsione e di calcolo divino su come
creare l’universo e renderlo migliore possibile»9
Tale postulato, però, serve a concludere che data l’eternità del cosmo secondo il Nous,
e dato il Nous come archetipo e modello universale, la provvidenza verrebbe a
coincidere con questo stesso principio noetico, quasi che il Logos, come progetto
razionale del mondo si manifesti nella provvidenza che regge le cose e informa le cose
singolari della species aeternitatis. Tanto lo stoicismo, quanto il monismo spinoziano
sembrano, da questo punto di vista, una successiva elaborazione plotiniana.
In ogni caso, si dà, qui, una generosa eccedenza del Logos che è forza d’attrazione a
sé mediante il bello e che esprime questa bellezza come dynamis delle cose e traccia
la loro conversione ad unum.
Plotino esprime mirabilmente questa idea in un altro importante passaggio:
«Poiché, dunque, venuto ad esistere è il cosmo intero, contemplandolo potresti forse
udirlo dire:”un dio mi ha fatto e di lì sono venuto perfetto, composto come sono da
tutti i viventi, bastevole a me stesso ed autosufficiente, di nulla bisognoso poiché in
me vi sono tutte le piante e gli animali, la natura di tutti gli esseri generati(…)10
La provvidenza è, dunque un ordo intrinseco, così generosamente intelligente da
prevedere persino l’inclinazione verso la caduta, dato che noi non siamo separati
dall’essere, né l’essere è separato da noi. Così, se tale ordine procede secondo
ipostasi, ed ognuna conduce a quella più alta, tutte convergono in un unico centro.
Questa gloria dell’essere multiforme in Uno è lo stesso dramma che deve essere
recitato da Dio, così che egli sortisca in questa ricchezza di esseri dal suo inaccessibile
5
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mistero11. Tale ontodrammatica giustificherebbe anche la fuoriuscita da sé dello
spirito per rientrare a riposare in se stesso.
Un altro punto nodale attiene all’idea di una ricaduta etica di questo ordine, con cui
Plotino stesso forse ha cercato di rendere ragione della vexata questio circa” unde
malum”. La provvidenza veglia sull’uomo, rivelandosi, come visto, quel quid al di
sopra dell’anima che in essa riposa. Dunque il buono che conduce una vita secondo
virtù sarà compensato da una vita buona. Tuttavia, il malvagio stesso, però, non sarà
abbandonato dalla provvidenza, in quanto:
«il divino, però, esiste anche ora, e si è fatto incontro a qualcos’altro non per
distruggerlo ma con un altro intento»12
Se l’intento è il preservare l’esistenza, anche coloro che sono malvagi non sono
abbandonati nel loro luogo di perdizione, ma sono sempre tratti in alto con i mezzi che
il divino impiega perché la virtù prevalga. La provvidenza è una sorta di trama
drammatica che anche nei conflitti volge tutto secondo l’armonia del suo ordine
creatore. Per questo stesso motivo il cammino del pensiero plotiniano è ascetico e
redentivo, atto a rendere ragione di come il divino in ogni cosa salga fino alla
coincidenza con il divino che è nel tutto. Dunque la pronoia sottende la metafisica
plotiniana e la configura come dottrina del Principio dal quale tutto procede ritornando
ad esso per forza d’attrazione, questa forza che è principalmente erotica e che coglie
lo spirito in un’estatica meraviglia per il sovraessenziale ed inesprimibile bello
mediante cui lo stesso essere, effondendosi, attira.
Se è dunque vero che il divino in noi coincide con il divino del Tutto, la stessa
provvidenza si esplica anche nell’eros che ad essa si rivolge intrinsecamente mosso
dalla sapienza che regge le cose. Per questo, con intensa meraviglia, Plotino potrà
affermare
«Le anime e le opere sono tra loro in accordo, al punto che da esse deriva un’unità sia
pure risultante da opposti, Tutte le cose che sono infatti scaturite da un’unità
convergono per necessità di natura verso un’unità in modo che quanto spuntò diverso
e nacque opposto sarà tuttavia inserito, per il fatto di derivare da un’unità in una
coordinazione unica»13
Filosofia dell’ebbrezza, quella di Plotino è anche una filosofia della fruizione
contemplativa della bellezza per la quale ogni essere è la forza irradiante di Dio e
effusione della sorgente primeva,per la quale ogni uscita è per trovare la via del
ritorno, la via della semplicità totale che è termine e compimento. E’ facile, dunque
dedurre, quanto questo pensiero sia propedeutico alla prima grande mediazione
culturale fra Cristianesimo e filosofia greca, una sorta di pia philosophia avente un
climax orante, diremmo, e non solo per la sete dell’Uno ma anche per la capacità di
farsi uno nell’Uno.
Se è possibile tentare un accostamento letterario che meglio dica l’idea plotiniana di
provvidenza, potremmo citare la lirica Burnt Norton, tratta dai Four Quartets di Eliot là
dove recita:
«Noi muoviamo al di sopra dell’albero/in moto/nella luce sopra le foglie/istoriate/e
udiamo sul suolo bagnato/lì sotto il veltro e il cinghiale/continuare la trama di
sempre/ma riconciliati con gli astri/Al punto fermo del mondo che ruota/né corporeo
né incorporeo/ne muove da né verso; al punto fermo/là è la danza/ma né arresto né
movimento. E non la chiamate fissità/quella dove sono riuniti il passato e il futuro, né
moto da, né verso»14
Ecco compiersi la drammatica vicenda della pronoia, universale e ad un tempo posta
nel cuore del divenire delle cose, alla confluenza dell’essere in quiete e della sua
misteriosa danza dentro il moto delle cose ad un tempo transfughe ed in patria nella
polifonia dell’Uno.
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2: Ero ogni giorno la delizia dell’Altissimo: figure della Provvidenza fra l’uno e
l’altro Testamento
Prima di entrare in medias res occorre specificare subito una questione
assolutamente rilevante. La parola Provvidenza non compare nei testi biblici, se non in
esigui casi, di cui, pure ci occuperemo, e, comunque, non ha una matrice ebraicobiblica. Ciononostante la traditio della Chiesa ha fatto sua questa idea. Si potrebbe
ascrivere questa fede ad una sorta di subtilitas applicandi che, presupponendo
l’esemplarità di Cristo nella Creazione, il Suo ruolo soteriologico nell’Incarnazione
come liberalissima disposizione di Dio a parlare in modo definitivo nel Verbo e a
rendere manifesto il Mistero taciuto per secoli, e quello ricapitolativi del mondo,
riconsegnato al Padre come sancisce l’Apocalisse, ha concluso che è la stessa Divina
Volontà a sorreggere il mondo, a volerlo salvo, a volgere al bene ogni inclinazione
contraria. Dunque se la Rivelazione affonda la sue radici nella salvezza e se la
salvezza stessa si articola nel progetto della Redenzione presentando, già nel Primo
Testamento, il Dio in esodo nell’esodo del Suo popolo, questo stesso disegno che si
snoda nel tempo era prestabilito nell’eterno, in Principio, in Cristo.
Denunciamo, così, un’ermeneutica tipologica secondo cui tale lettura dell’A.T si snoda
a partire dal compimento che il N.T sottende; in Cristo, il mondo era già redento. Per
questo, Scoto Eriugena parla di una natura che non crea e non è creata, intendendo il
finalismo cristologico per cui la creazione è ricomposta in Dio attraverso lo Spirito.
Tale natura increata e non creante è l’eschaton in quanto riposo del dies septimus.
In tal senso, dovremmo anche specificare quanto segue:
qualora si sia legittimati ad usare il termine provvidenza nella sua espressione
denotativa (Bedeutung) esso non attiene ad un principio astratto, quanto ad
un’economia soteriologica che si fonda sul Dio loquens, che è in sé relazione, il cui
intimo dialogo è volto ad estrinseco
esso nasce da un’esperienza di fede più che da un’elaborazione protologica,
laddove si intende per fede l’emunah, che implica un atto di confidenza assoluta e di
assoluta fedeltà15 fides ex auditu, e ciò che si ascolta è la Parola dell’Alleanza divina
che si rinnova nella storia.
Questo ci permette di spostare l’asse interpretativo dall’istanza cosmologica offertaci
da Plotino a quella storica offerta dal mondo ebraico, dove la Rivelazione non è una
muta proodosis ma Parola interpellante, dunque bisognosa di accadere nell’ascolto e
nel tempo umani. La sua eternità si esplica via via che l’uomo, nella sua storia e nella
sua esperienza scopre l’identità del Dio che libera con il Dio che creando in modo
continuo tiene in vita la creazione.
In ultima analisi l’idea di Provvidenza non sarebbe che il tentativo di una traduzione in
greco del Grande Codice biblico.
Su questo orizzonte, riteniamo possibile riferirci ad un testo dell’ A.T., un testo di tipo
sapienziale che testimonia questa sorta di contaminazione, anche se non si può affatto
trascurare la collocazione cronologica, ovvero il fatto che la redazione è successiva ai
libri storici, a dimostrazione che la riflessione sulla creazione, sul destino ultimo della
vita umana e cosmica, la convergenza sull’identica personalità del Dio dell’Esodo e del
Dio del Genesi, nascono da un’elaborazione postuma dovuta all’effettiva esperienza
della liberazione ex parte Dei. Ci riferiamo al Libro della Sapienza, specie in quanto
concerne la meditazione sulla sorte dei giusti, che pure hanno vissuto la loro giustizia
nella persecuzione dei nemici. Qui, in effetti, l’opera divina inserita in primis nella
storia della liberazione del popolo, si rivela come quell’altissimo consiglio con il quale è
stata concepita per la vita eterna la creaturalità dell’uomo, dato che le anime dei giusti
sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà (Sap. 3,1). Essa, inoltre sarà
capace di illuminare lo stesso mistero della morte, che pure – in questa economia
umano-cosmica-è entrata nel mondo per invidia di Satana, così che in virtù della
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8
Sapienza l’anima di colui che muore è gradita al Signore, perciò egli lo tolse in fretta
da un ambiente malvagio.
Resta comunque il fatto che la parola provvidenza non ricorre mai, nonostante l’allure
del libro biblico denoti una certa familiarità con l’argomentazione filosofica tipica della
civiltà ellenistica. Il che ci conduce ad evidenziare come la categoria di provvidenza
ricorrente in ambito cristiano possa considerarsi una sorta di prova ex-post, dato che
il Dio dell’Esodo, il Liberatore dalla schiavitù del popolo, non potrebbe non essere
anche Colui la cui Sapienza crea, custodisce, fa ritornare a sé. Da questo punto di
vista, anche lo stesso esilio storico assurge a metafora di un esilio lontano dal Signore
destinato a terminare nel ritorno a Lui.
Notevole è il fatto che il libro si apre con una riflessione sulla sorte dei giusti, su quella
dei malvagi e sulla forza sovversiva divina che è capace di ristabilire l’ordine che
procede dal Suo stesso Consiglio. Dal Cap. 7, però, la riflessione subisce un
mutamento: da meditazione esistenziale, forse talora parenetica, viene ad assumere
un tono maggiormente filosofico, protologico. Così recita, infatti, il testo
«In essa c’è uno spirito intelligente, santo,
unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante, senza macchia,
terso, inoffensivo, amante del bene, acuto,
libero, benefico, amico dell’uomo,
stabile sicuro, senz’affanni, onnipotente, onniveggente,
e che pervade tutti gli spiriti intelligenti, puri sottilissimi»16
Due elementi catturano l’attenzione:
1)
lo spirito come principio perfetto in sé
2)
il suo carattere diffusivo
Questo è sufficiente a ravvisarvi il principio creatore del mondo. Il testo, però,
continua ancora
«E’ un’emanazione della potenza di Dio,
un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente,
per questo nulla di contaminato in essa s’infiltra.
E’ un riflesso della luce perenne
Uno specchio senza macchia dell’attività di Dio
E un’immagine della sua bontà.
Sebbene unica essa può tutto
Pur rimanendo in se stessa tutto rinnova
E attraverso le età entrando nelle anime sante,
forma amici di Dio e profeti»17
Non può di certo sfuggire una certa assonanza con il carattere processivo dell’Uno
plotiniano ed un’andatura maggiormente speculativa, specie per ciò che concerne la
capacità di rinnovare tutto pur nell’immutabilità del Principio Supremo. Tuttavia il
testo ostende una novità. Verso la fine scrive che la Sapienza dimora nelle anime
sante, forma profeti. Crediamo che questo quid novi non sia altro che il carattere
linguistico, il che ci riporta pienamente nel mondo ebraico-biblico. Tale spirito della
Sapienza è la Parola di Dio, non le emanazioni che ascendono e discendono nel
dinamismo dell’Uno secondo un ordo logico. Si tratta del Verbo della Creazione, inizio
sonoro del mondo che risuona sempre nuovo per voce dei profeti, per l’appunto
plettro vivo di questa Sapienza. Molto più che un’emanazione, la Sapienza che plasma
gli amici di Dio e i profeti apre lo spazio alla storia, all’eterno nel tempo. Per questo i
libri profetici sono prossimi a quelli sapienziali, ma ne rappresentano una sorta di
subtilitas applicandi, dato che tale Parola viene esplicata come la promessa del Regno
messianico. Questo, però, ci riporta alla tesi di partenza. L’idea di una provvidenza
come ricapitolazione in Dio di tutte le cose e come ritorno a Lui dall’esilio fino alla
piena comunione del Regno instaurato non può che incardinarsi nell’idea di
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Alleanza;altrettanto necessita del pieno dispiegamento della Rivelazione di Cristo
come cifra del Regno presente.
Crediamo opportuno affiancare questi testi ad un altro assolutamente mirabile,
proprio per questo bisogno di percorrere l’uno e l’altro Testamento nel segno di una
unità articolata e tipologica. Si tratta del prologo del Vangelo di Giovanni18
«Al Principio la Parola già esisteva,
e la Parola si rivolgeva a Dio
e la Parola era Dio.
Essa al Principio si rivolgeva a Dio.
Mediante essa tutto cominciò a esistere,
senza di essa non cominciò ad esistere cosa alcuna
di quanto esiste.
Essa conteneva la vita
e la vita era la luce dell’uomo:
questa luce splende nella tenebra
e la tenebra non l’ha soffocata.
Comparve un uomo mandato da Dio,
il suo nome era Giovanni;
egli venne per rendere testimonianza alla luce,
cosicché per mezzo suo tutti giungessero a credere.
Questa luce era la vera,
quella che illumina ogni uomo giungendo nel mondo(…)»
I primi tre versetti costituiscono un richiamo alla Sapienza, così come viene
rappresentata nel libro dei Proverbi, ovvero come la narrazione o l’esplicazione del
Progetto che Dio vuole realizzare. La Sapienza stessa dice di essere principio delle vie
del Signore. Eppure anche qui sembra esservi un’articolazione ab intrinseco. Il Logos è
il Progetto della Creazione, anche se- come asserisce l’esegesi di questo passo- il
termine può essere intercambiabile con quello di sophia, esso viene formulato ed
eseguito nella Parola, dunque il richiamo è qui al Genesi. Per questo essa è prima
della fondazione del modo. E’ importante qui sottolineare l’opzione linguistica si
rivolgeva, perché richiama la familiarità semantica con fu rivolta, espressione usata
per indicare l’elezione profetica. Dunque il progetto della creazione è esplicato nel
mondo come vita che è luce dell’uomo, e di questo progetto si dà testimonianza nel
mondo.
Questo mirabile testo sottende un’economia creatrice ma anche salvifica, sancita dal
conferimento del potere di diventare figli di Dio, perché da Dio stesso, non da carne e
sangue generati. In ogni caso, anche qui non si fa riferimento all’idea di provvidenza,
così come la conosciamo in Plotino, quanto ad una Sapienza divina invisibile che si è
articolata nel tempo come narrazione del Mistero, in quanto la Parola divenne uomo e
si accampò fra noi. Tale Sapienza della Parola è ora persona, la persona di Cristo. Qui
si ha davvero un punto di non ritorno: la carne di Dio è cardo salutis, dunque si ha
una connotazione del tutto cristologica, per la quale ogni evento è spiegato secondo
l’ermeneutica del novum che illumina il veterum, e questo novum è il Cristo
resuscitato, ma se la Resurrezione è l’eschaton, secondo una teologia della finalità
della storia, questo eschaton era già realizzato al Principio, nel Logos sarx egheneto.
Questo stesso tema ritorna negli inni cristologica paolini, per esempio quello
contenuto nella Lettera ai Colossesi:
«Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura;
perché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili(…)
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Tutte le cose sono state create
Per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose
E tutte sussistono in lui
Egli è anche il capo del corpo cioè la Chiesa,
il principio, il primogenito di coloro
che resuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose.
Perché piacque a Dio
Di fare abitare in lui ogni pienezza
E per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli19
Anche in tal caso, la cristologia presentata riguarda la comprensione della Chiesa
ellenistica di Cristo come l’incarnazione del Figlio preesistente da cui procede la stessa
sorte storica e cosmica, per questo è figura cristica la stessa Sapienza che, nel libro
dei Proverbi, dichiara di essere stata creata dal Signore all’inizio della sua attività,
prima di ogni sua opera, fin dal principio,o di essere con lui come architetto, la sua
delizia ogni giorno, dilettandosi davanti a lui in ogni istante.
Forse si potrebbe desumere che l’ellenismo abbia giocato un ruolo fondamentale
nell’induzione della provvidenza come re-institutio in integrum di quanto era
dall’eterno,così che la Sapienza dell’Altissimo, riposando nella creazione ne rivela la
sorte stessa dei santi nella Luce. Abbiamo cercato di abbozzare un contesto di tipo
teologico in modo tale da porre l’accento su come una così feconda contaminazione
culturale sia capace anche di influenzare l’uso linguistico che contrassegna il codice di
una determinata cultura. Tuttavia, sarà altrettanto necessario fissare l’attenzione
tanto sull’etimologia, quanto sulla filologia per rendere ancora meglio ragione di come
l’istanza cristologica sancisca, in effetti, l’idea di una pre-visone di Dio riguardo alla
salvezza della creazione, ove pre-visone è intesa come un vedere prima, per questo i
Padri della Chiesa sostengono che in Adamo Dio prevedeva Cristo, ma anche come
una sollecitudine nei riguardi di qualcuno.
Ci avvarremo del Lessico del Nuovo Testamento redatto dal Kittel per analizzare la
ricorrenza del termine20Il verbo che indica la provvidenza- ed anche il fatto che essa
sia espressa come un atto più che come una categoria metafisica non è per nulla
trascurabile- è pronoeo, che traduce di fatto darsi pensiero per i propri cari. In tale
significato ricorre p. es in 2. Cor 8,21, o 1 Tm 5,8, ma anche in Sap 6,7 ove si fa
riferimento esplicito ad un Dio che ha cura egualmente di tutti. Tuttavia, uno dei testi
ove compare la dizione provvidenza eterna è Sap.17,2 ma si dovrà notare che qui
essa assume un’istanza escatologica, significando l’atto di scrutare e svelare i pensieri
dei cuori da parte di Dio. Non solo, anche il Vangelo di Luca riporta due brani poetici
che, pur non nominando questo termine espressamente, rinviano a questo senso
messianico ed ultimo; intendiamo, per esempio, il Magnificat, (Lc. 1,46-55) ove
l’Alleanza del Dio liberatore si traduce in misericordia per ogni generazione che
ricolma di beni gli affamati, o il Benedcitus, (Lc.1,67-79) il mirabile canto di Zaccaria
in cui si rende gloria al Signore che viene come luce a rischiarare chi dimora
nell’ombra della morte.
Tuttavia, si dovrà, qui, ammettere che tale concetto di provvidenza è essenzialmente
collegato all’idea del Regno, tanto da dare carne all’istanza messianica che attraversa
il mondo biblico. In questo senso, essa potrebbe fornire una connessione fra A. T e N.
T, dato che il Regno di Dio si rivela nella persona Christi. Basta leggere la meravigliosa
pericope contenuta nel Cap. 5 del Vangelo di Matteo, noto come il manifesto
programmatico del messianismo di Gesù, quella in cui si dice che i gigli del campo e
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gli uccelli del cielo sono vestiti di gloria dal Padre celeste il quale ha tanta cura
dell’erba che viene gettata da non poter che essere sollecito alla necessità dei Suoi
figli. Si dovrà, però, riflettere in particolare su un versetto, il 33. che recita:
”Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in
aggiunta”21
In effetti, il Regno che viene è contrassegnato dalla pace messianica e dalla pienezza
escatologica, ma il Vangelo di Matteo pone in luce che questo eschaton si realizza oggi
nella persona di Gesù in quanto Egli ha già pronunciato il discorso programmatico del
Regno, le otto Beatitudini. Chi si pone alla sequela di Gesù ha già scoperto in Lui
l’azione del Regno di Dio (malkut Jhwh), scoprendo altresì il Progetto originale di Dio,
come annunciato dai profeti. Ecco, dunque che l’umiltà, la pace, la misericordia,la
profezia, la sete di giustizia divengono tutte azioni che attestano la Presenza del
Regno articolata fra il già del Progetto divino, il non ancora dell’eschaton; fra queste
due figure si pone una sorta di diastasi definibile come il kairos prolettico
dell’incidenza del Regno nella storia.
Se le cose stanno così, è chiaro che l’istanza provvidenziale assurge a criterio
ermeneutico di una teologia della storia la cui pregnanza si può ravvisare nel
messianismo secolarizzato delle utopie la cui lettura filosofico-politica è attagliata sul
retaggio ebraico-biblico.
3: L’impulso in avanti del progresso: escatologia e secolarizzazione
Che l’espansione del Cristianesimo abbia implicato lo sviluppo di una teologia e di una
filosofia della storia risulta facilmente comprensibile per il fatto che proprio la cultura
biblica ha inaugurato una nuova comprensione della storia intesa come succedersi di
generazioni, investite dalla memoria dell’Alleanza divina e chiamate all’istituzione di
un presente volto al futuro escatologico, ma a sua volta riferito ad esso perché
trainato da questo stesso apax non più cronologico bensì kairologico. Dunque la storia
non è più, come nel mondo greco il luogo dell’accidentale, del possibile, del particolare
e quindi del non necessario, anzi essa diventa paradigma di universalità in virtù dello
stesso invio profetico che l’Alleanza divina implica.
Si parla di locus theologicus, dunque di luogo dell’accadere della Verità di Dio. In essa
si esplica l’azione di Dio che volge al bene ogni cosa. E’ stata proprio questa idea a
suggerire la metafora topologica di una linearità del progresso finalizzata al kairós del
Regno. In realtà, in una siffatta concezione la categoria di ripresa è più idonea che
quella di progresso a designare un perfetto profetico che, essendo meta-temporale è
capace di imprimere un senso al tempo.22 In ogni caso si è adottata l’idea del
progresso come punto di assoluta discontinuità, cifra del novum che sposta in avanti il
compimento, come una sorta di freccia scoccata.
D’altro canto, però, non si può escludere che il Cristianesimo abbia dato un vigore
affatto nuovo alla domanda sul senso della storia, basti pensare a quale
preponderante ruolo assuma nelle Scritture Neotestamentarie l’attesa della Parusia e
quale esigenza di riflessione implichi, a partire dalla Rivelazione totalmente compiuta
nella Pentecoste, sul senso del qui e dell’ora. E’ naturale giungere ad una filosofia
della storia atta a mettere in gioco questi stessi interrogativi,nonché a lasciar
emergere un senso spirituale capace di interpretare l’esser-ci.
Ammettere questo, tuttavia, equivale ad individuare una sorta di messianismo
secolarizzato23 per il quale la storia intesa come progresso non altro sarebbe che lo
svolgimento dello spirito come logos universale orientato ad un telos. Paradigma
ineludibile è quello che troviamo nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel nella quale
le figure transitorie entro cui lo Spirito sperimenta il suo carattere di divenire non sono
che un procedere logico verso la perfetta rivelazione dello Spirito Assoluto. Non è
affatto un caso che l’antico studente di teologia dello Stift di Tubinga assuma il
concetto teologico della Rivelazione e addirittura il modello della circuminsessione
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trinitaria per spiegare il carattere spirituale del divenire della storia e per individuarne
la portata universale. Per converso, non è un caso che la lettura hegeliana inserita
come rilettura dell’orizzonte trinitario sia esaminata con estrema attenzione da alcuni
esponenti della teologia contemporanea; non possiamo non citare l’italiano Bruno
Forte che nella sua opera Trinità come storia sottolinea che:
«La malia del Dio hegeliano resta tuttavia immensa: la “storia” di Dio e la “storia in
Dio” appaiono concetti la cui fecondità non è più trascurabile. Ne è esempio la teologia
trinitaria di Karl Barth; se netto è il rifiuto della riduzione hegeliana dell’Assoluto alla
storia, colta come un’indebita assolutizzazione dell’atto della ragione e dunque come
una forma suprema di idolatria, convinta è l’assunzione della storia in Dio, la cui vita è
professata a partire dalla rivelazione come movimento dell’unico soggetto divino nelle
tre divine maniere di essere»24
Se lo sguardo profondo del teologo italiano ravvisa nel sistema hegeliano l’assunzione
della storia in Dio, operazione assolutamente legittima in virtù dell’evento di grazia
dell’Incarnazione, è pur vero che quello altrettanto penetrante del grande autore della
teologia dialettica mette in guardia contro l’Oggetto immenso hegeliano, caduto in
effetti nella malia del logos. Tuttavia il concetto di storia in Dio ci è prezioso per poter
spiegare l’idea di progresso come secolarizzazione dell’idea della provvidenza, dato
che esso designa una dialettica intrinseca nella storia stessa, tale che i momenti di
negazione divengono essi stessi tappe del superamento (Aufhebung) perché
originariamente comprese in una economia della totalità del senso. A ben vedere,
tuttavia, si giunge ad un passaggio sottile quanto notevole per cui alla fine è il
progresso stesso a divenire cifra dello Spirito capace di rendere ragione di ogni
momento; questo viene però ad assurgere ad istanza giustificazionista che in Hegel
viene definita List der Vernunft. Per questo motivo Hegel procede in qualche modo ad
una immanentizzazione dell’ordo trinitario proprio della teologia cristiana, di cui
condivide, però, la struttura escatologica e la portata universale ed infinita.
Ciononostante non si può escludere che emergano in Hegel due coordinate logiche
perché se da un lato troviamo la storia in Dio, dall’altro si ravvisa Dio nella storia in
quanto Spirito che la illumina nel suo procedere. Questa è una sfida filosofica di cui si
dovrà rendere ragione se si vuole comprendere in maniera piena il connettersi di
provvidenza-progresso, l’una come possibilità che il kerygma abbia una portata
ermeneutica, l’altro come possibilità di fare i conti con la sua anormalità logica.
Questo significa che se,come dice Barth, Dio è Dio e il mondo è il mondo, è pur vero
che il pensiero, nella consapevolezza di questa infinita differenza qualitativa, deve
assumersi il compito paradossale di parlare di Dio, e quindi presentarsi nel suo
carattere ermeneutico; d’altro canto non può porsi come medium decisivo della
Rivelazione operando un’assimilazione.
Impieghiamo il termine assimilazione perché siamo certi che nel pensiero di un
messianismo secolarizzato che procede da Hegel fino al giovane Marx ed alla lettura
calda del marxismo che fa nel Novecento Ernst Bloch non venga mai esclusa la cifra
teologica, anzi è sulla base di un suo impulso pur immanentizzato che si origina la
capacità critica e profetica della riflessione stessa25. Hegel è stato preso come punto
nodale per rendere maggiormente ragione di quanto l’evento rivelativo cristiano possa
incidere sulle stesse condizioni di possibilità di un pensiero che, da un lato assuma
seriamente la storia, dall’altro cerchi di leggerne l’orientamento ad una finalità di
riconciliazione e di pienezza.
Dunque Spirito e storia non possono che essere connessi ed è forse il progresso che
rende visibile questa connessione, nella sua celebrazione delle magnifiche sorti
dell’uomo secondo un’accezione illuministico-romantica.
Per questo motivo intendiamo leggere il progresso nella sua coniugazione con il
pensiero utopico, la cui stoffa rossa è intessuta della trama della speranza a sua volta
originata da un inequivocabile principio messianico e la cui portata critica è forse
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ancor più pregna di una nostalgia del totalmente altro da farci chiedere con insistenza
quale spazio si possa fare al divino, nuovamente accolto nella nudità del suo annuncio
liberato da ogni contaminazione sacrale.
Dovremo citare necessariamente il millenarismo con la sua ansia di escatologia
realizzata da tentare l’experimentum Regni, specie nel suo connubio con il marxismo
caldo di Ernst Bloch che cerca di ritornare ad un’ermeneutica biblica percorrendo a
ritroso la via, dalle risposte dogmatiche, al dominio delle domande critiche o la Scuola
di Francoforte con la sua ebbrezza di redenzione come cifra ermeneutica della storia e
della conoscenza. Pensieri questi tanto inediti quanto assolutamente estranei ai
sentieri dogmatici battuti dal religioso e pure così preziosi a far ripensare il carattere
incarnativo della storia del Dio con noi tanto da aver dato un nuovo impulso
all’ermeneutica teologica, inducendola a trovare una nuova traducibilità dell’eterno nel
futuro, del Regno nell’esodo, dell’Incarnazione nello sviluppo della creazione, della
Resurrezione e dell’eschaton nella speranza. D’altra parte questo risulta fecondo allo
stesso pensiero capace di ravvisare nella speranza l’ipotesi di una nuova ontologia, nel
messianismo la cifra di una verità inoggettivabile nonché la riserva critica di una
nuova prassi
3. 1: Ciò che era luce interiore diviene fiamma bruciante: Messianismo
teoretico e marxismo in Ernst Bloch
Nel suo intenso volume su Teologia, Ideologia, Utopia, Italo Mancini definisce la
visione di Ernst Bloch sinfoniale26 perché in realtà la filosofia blochiana è una sorta di
grande sinfonia arpeggiata sulla speranza, ma per l’effetto di una singolare sinestesia
essa evoca un rosso calore che è a un tempo una luminosità diffusa in tutte le cose,
come risvegliate alla loro coscienza. Ecco dunque che la grande topologia
provvidenza-progresso si fa più nitida; stendendosi su due coordinate scandisce una
direzione ascensionale, quella della redenzione di adorniana memoria, per cui solo può
il pensiero superarsi, quella della speranza che assurge ad un impulso di
avanzamento. Ecco dunque l’experimentum mundi come experimentum Regni, in alto
ed in avanti. La luce interiore della redenzione che scandisce il paradigma di un dies
septimus è, nella dimensione orizzontale della storia, la fiamma bruciante che ridona il
mondo nella sua consumata giustizia. Non è certo assente da qui l’idea di un germe
profetico che riecheggia i gesti annunciatori dei profeti. Per questo motivo si può
altrettanto legittimamente definire la sua riflessione filosofica un messianismo
teoretico capace di accendere nell’alveo della vita la coscienza utopica, presentandosi
con un contrassegno così tanto caro a Bloch, quello del novum, che è insieme quello
dell’ultimum, dove la metafora della resurrectio naturae del giovane Marx si coniuga
con quella agostiniana del dies septimus del riposo in Dio, il giorno nel quale nos ipsi
erimus. Da un lato categorie marxiste e dall’altro categorie bibliche fanno si che Bloch
si attesti su di un orizzonte inedito, dove, però, la dicotomia esodo-regno si associa a
quella provvidenza-progresso.
Ne Il Principio Speranza Bloch stesso presenta il contrassegno ineludibile del suo
pensiero:
«Il sapere, di cui hanno bisogno il coraggio e soprattutto la decisione, non può però
avere la forma più frequente di quello finora avutosi, cioè una forma contemplativa.
Infatti il sapere che è solo contemplativo si riferisce necessariamente a cose già
concluse e perciò passate ed è impotente nei confronti del presente e cieco rispetto al
futuro(…). Il sapere necessario alla decisione ha, sensatamente, un altro modo: un
modo non soltanto contemplativo ma piuttosto uno che va con il processo, che cospira
in maniera attiva e partigiana con il bene che si va elaborando, cioè con la dimensione
del processo che è degna dell’uomo»27
Il carattere processuale di questo sapere non può non attrarre l’attenzione. Esso,
infatti, acquisisce la capacità di porsi come verum in quanto il suo bonum si coglie
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nell’ordine delle cose come compimento a quanto è degno dell’uomo. Davvero non
sfugge il tono per qualche verso annunciatore, che riecheggia l’idea di un’umanità
liberata ma anche di un mondo redento. Una seconda caratteristica è certo quella
temporale. Anche Bloch ritiene che una comprensione ontologica dell’esserci si dia nel
tempo, in realtà, però, la sua ontologia è quella di un Non ancora, tratta fuori dal
futuro come senso del presente. La cifra del già in Bloch è latente, perché quest’ultima
potrà essere chiarificata a partire dalla luce promanata dal futuro. Se di materialismo
dialettico si deve pur parlare, non si può non tenere in considerazione che la materia
di Bloch è concepita secondo quello che lui chiama aristostelismo di sinistra, facente
capo ai commentatori arabi dello Stagirita i quali vi colgono quella immensa dynamis
che non permette mai la chiusura, dunque la materia è l’impulso in avanti in virtù del
messianismo che promana dal futuro. Forse per Ernst Bloch è possibile impiegare la
figura dell’Angelus novus di Klee, le cui ali dispiegate alla tempesta che soffia dal
Paradiso impediscono la sosta, l’indugio sul già stato. La materia stessa è la possibilità
reale verso sempre nuove forme.
Per questo motivo, Italo Mancini sostiene che l’incantamento della materia in Ernst
Bloch presenta delle assonanze con la teologia dell’universale personale di Teilhard De
Chardin. Essa è una sorta di corpo vivo che contiene tutti gli impulsi di crescita e di
possibilità di una creazione e di un uomo rimasti ancora absconditi, di cui il socialismo
può e deve essere la chiave ermeneutica. Qui si pone la questione del marxismo
blochiano, la cui interpretazione gli ha guadagnato sospetti dalla Germania orientale
del tempo, e la cui ricaduta nel suo pensiero contribuisce ancora di più a delineare le
categorie dell’esodo e del Regno.
Quale marxismo? Si chiede giustamente Italo Mancini. La risposta a questa domanda
suona utopia, ovvero Bloch invoca l’utopia per salvare il comunismo28. In ogni caso
anche qui l’utopia è una figura paradossale da leggere oltre la semantica topologica,
forse si può più adeguatamente applicare ad essa l’idea spinoziana di conatus, inteso
però come impulso ed affetto, Affekt come recita il termine in tedesco, esso, infatti, è
lo stesso principio che trae in avanti, ma non ci sembra che si possa sic et simpliciter
trattare di un trascendere senza trascendenza. Come giustamente osserva Moltmann
nella prefazione italiana agli scritti di filosofia della religione di Bloch, tale
trascendenza non è denominata o definita, ma rimane una cifra critica che interpreta
la storia interpellandola, in modo tale da non renderla mai un sistema chiuso, il
superamento che Bloch individua è nella direzione di una trascendenza che talora,
debitore delle utopie chiliastiche delle eresie cristiane 29chiama in tedesco
Christusimpuls, impulso cristico. Basterebbe questo, a nostro avviso a lasciare il
principio-trascendenza blochiano come un concetto problematico. Quanto alla
questione del marxismo, ivi direttamente connessa, si dovrebbe tenere conto di un
passo tratto dalla celebre opera Ateismo nel Cristianesimo
«la Bibbia può essere letta anche dalla visuale del Manifesto comunista ad evitare che
il sole ateo diventi sciocco»30
Se torniamo alla metafora topologica, possiamo certo evidenziare come è proprio l’in
alto la cifra critica che orienta l’in avanti, ma questo legittima l’affermazione secondo
cui il retaggio biblico si traduce nella possibilità di un’ontologia critica che pone nel
non ancora la capacità di sperimentare il mondo redento. L’allusione blochiana al dies
septimus è un chiaro indizio.
In Bloch l’utopia del progresso assume un fascino particolare in virtù di questa
colorazione escatologico-messianica il cui debito biblico è del tutto evidente, anzi
l’originalità di tale riflessione teoretica sta anche nel fatto che grazie al Bloch non solo
la Croce di Cristo non è evacuata ma diventa anche una pista ermeneutica di tutto
rilievo per assumere la storia in senso critico.
Così scrive il celebre esponente del marxismo caldo nell’opera dianzi citata
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«L’onda finale sovversiva ed escatologica è travolgente, con l’exodus intrapreso, con il
regno utopico del tutto novum della sponda, fino alla frase di Agostino, Dies septimus
nos ipsi erimus, nel giorno settimo che non è ancora venuto saremo noi stessi nella
nostra comunità come nella natura»31
In tal modo si colora la trama della speranza, mostrando un accento religioso che
trasforma però la religione in eredità viva, capace di dare un impulso alla storia, non
tanto alla luce del passato quanto nella coscienza di vivere nel futuro, che è
effettivamente il terreno dove il presente è seminato, dove germoglia e cresce.
Che poi la categoria temporale del futuro giochi con quella locativa del Regno
arricchisce a nostro avviso la semantica già complessa e sovrabbondante dei due
termini provvidenza e progresso, ma forse, invitando da un lato il pensiero ad
attestarsi sull’ulteriorità, offre anche alla teologia l’opportunità di una nuova
coniugazione dell’eterno con il dinamismo del futuro e della speranza, così che
entrambe si trovino nel fecondo intreccio che la loro stessa storicità offre
dell’alleggerimento della terra.
3.2. Etsi Deus daretur: l’espressione di una nostalgia
«Così ogni volta che un poco d’infinito è nella vita, torna nella mente l’immagine
dell’Incarnazione: così tutto il lavoro della civiltà, della vera Civiltà è una continua
immagine, una conseguenza, anzi una vera conseguenza dell’Incarnazione. Senza
Incarnazione niente si sarebbe avuto, e nessun ordine, e nessuna traccia di Infinito
sarebbe potuta insinuarsi nella fitta trama delle cose» (G. Capograssi, Lettera del 17
giugno 1919)
L’esergo posto all’inizio del paragrafo riassume in maniera magistrale la paradossalità
del pensiero novecentesco che si trova ad intenzionare l’ulteriore dentro le trame della
sua ragione ferita, basti solo pensare che il giovane Lukacs, colpito dall’ineluttabile
dimensione tragica dell avita invocava un miracolo come pienezza di senso, come
salvezza. Tale identica Stimmung attraversa la Scuola di Francoforte, specie nelle
espressioni più felici di Adorno ed Horkheimer, i quali giungono alla consapevolezza
che la cifra della salvezza deve poter essere una cifra filosofica, altra dall’insufficiente
categoria di un progresso lineare che infine avvolge la ragione nei meccanismi del
mondo amministrato. Anche l’illuminismo ha fatto destare l’uomo nella sua alba grigia,
la demitizzazione ha mostrato il volto bieco del pensiero strumentale, l’assenza dei
miti,in seguito alla distruzione operata dalla stessa cultura illuministica ha fatto spazio
ad un progresso imprigionato in sé la cui metafora è la ben povera ed illusoria astuzia
di Odisseo, condannato alla malia dell’anamnesi. Infine anche il progresso lineare è
maschera del mondo vero divenuto favola, l’invenzione di un altro mito, perverso,
imposto dalla ragione calcolante.
Se il progresso scientifico doveva sancire la secolarizzata fede in una crescita
progressiva, non poteva che essere, in questa ottica, l’avvenire di un’illusione.
Da tale punto di vista il pensiero critico ha bisogno di un postulato che esprima la sua
nostalgia, una sorta di simbolo anticipante, un noumeno per cui si dà al pensiero la
fruizione silente di ciò di cui non si può parlare, o forse di ciò che la ragione non può
dedurre, ma attendere al di là del suo stesso misurare ed asseverare. Se c’è una
civiltà che ha sete di una perfetta e consumata giustizia, se c’è un uomo che grida il
suo voler essere liberato dal suo corpo di morte, allora deve esserci la possibilità di un
Principio protologico che a questo dispone ogni evento storico: non nella dialettica
dell’Aufhebung ma nella misteriosa cura di ogni cosa. Tale protologia non ha nome
Incarnazione in questa filosofia: ad essa non è dato esprimerla come un positum, ma
sommessamente postularla in un metaforico come se, che quasi diventa una preghiera
filosofica.
Scrive Horkheimer
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«Possano tutte le vecchie confessioni continuare ad esistere e ad agire confessando
che esse esprimono una nostalgia e non un dogma»32
In questo senso la speranza è una cifra critica pur nel suo rinvio escatologico che,
intenzionando l’al di là ritorna sull’la di qua come locus nel quale tale radicale alterità
possa divenire sperimentabile, intuibile nell’impulso ad una vita più giusta, più bella,
più affrancata dal dolore. Da un lato la cifra della radicale alterità, mentre dall’altro il
recupero di una valenza politica dell’agire in base a tale intenzionalità della coscienza
così che, come sostiene ancora Horkheimer nella sua memorabile intervista
«una politica che non conservi in sé, per quanto in forma estremamente irriflessa, una
teologia rimane, in ultima analisi,per quanto abile possa essere, speculazione»33
Se pur questo pensiero esprima una irrecusabile finitudine, se pur si fermi talora con
disincanto sul fenomeno del mondo, esso ha occhi che vedono e scorgono oltre
l’incertezza del fenomenico una luce che traluce dalla speranza; quasi lo potremmo
formulare secondo l’adagio spero ergo ero. Qui non compare mai la parola
provvidenza, eppure si intuisce l’autentica attesa latente dietro questa teoria critica
«Teologia significa, qui, che il mondo è fenomeno, che non è la verità assoluta la
quale solo è la realtà ultima. La teologia è- devo esprimermi con molta cautela- la
speranza che nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa
avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola»34
Non si può non scorgere una risonanza profetica, quasi iobica oseremo dire, come
emergente da una fede spezzata e sferzata, capace, però, di confessare nello scandalo
e nell’apparente stultitia che il Redentore è vivo.
Occorre però diffonderci anche su questa figura del Totalmente Altro, che assume
assonanze bibliche tipiche della cultura ebraica. Il postulato del totaliter Alter
corrisponde in qualche maniera al vedere di spalle, una sorta di teologica cognitio
vespertina, Colui che si sottrae all’onnipotenza del visibile, la cui mancanza, però, è
quanto fonda la possibilità del pensiero di un’ultima armonia, la stessa pensabilità di
quanto smarrisce salvificamente la ragione in un’estasi del suo cominciamento. Alla
luce delle istanze di Horkheimer si può capire meglio l’idea del noumeno kantiano e
come quest’ultimo, pur non essendo soggetto alle categorie intellettuali, possa
comunque fondare l’ordo dei fenomeni in un’architettonica magistrale.
Dunque il totalmente Altro assurge a cifra di una rottura dell’eguale e dell’identico, è
l’irruzione di una realtà nuova nella continuità del tempo che ne mostra tutte le sue
possibilità impossibili per rifarci ad un celebre paradosso barthiano.
Horkheimer ci fa rileggere, tramite le categorie ebraiche suggerite dal suo pensiero, la
figura della provvidenza in una maniera nuova e feconda. Essa è l’impensato che si
insinua nel cuore del pensiero, il paradosso che intenziona il suo avvento al di là di
ogni cogenza dialettica, nel kairos intemporale che morde il tempo. Da questa soglia
l’al di là si sporge incontrando la sporgenza dell’al di qua, si fa possibilità dell’evento
atteso e pure inattendibile invertendo persino la trama della speranza nell’insperabile
possibile
4. Il futuro di Dio: approdi teologici nel segno della provvidenza
4.1. Tra i tempi: differenza antropologica e teologia politica
La categoria di storicità entrata in modo preponderante nel cuore del pensiero
contemporaneo non ha di certo lasciato indifferente o inerte la teologia, che, anzi, ha
potuto- sulla scorta di questa sfida- riflettere sulla sua vocazione a dire la Parola di
Dio sul mondo cercando di auscultare a sua volta la domanda del mondo a Dio.
Questo ha implicato un orizzonte ermeneutico sul quale essa ha dovuto rifarsi con
Bonhoeffer la domanda radicale Che senso ha dirsi cristiani oggi e che senso ha Cristo.
Così è stata messa nelle condizioni di ripensare il linguaggio per rendere il kerygma
comprensibile e soprattutto per ribadire la Verità liberante del Vangelo.
16
17
Come dire che il pensiero con le sue istanze sempre più cogenti e pregnanti l’ha
indotta a interrogarsi circa le condizioni di possibilità della comprensione dell’
annuncio, inducendola –com’è ovvio- a fare i conti con le figure stesse del pensiero
che urgevano alla sua stessa intrinseca essenza.
Naturalmente questo implicava la possibilità di rileggere in chiave nuova le categorie
di fondo dello stesso annuncio cristiano. Un esempio paradigmatico è proprio quello di
eternità riletto sullo sfondo della chiave del progresso inteso come carattere dinamico
e finalistico orientato al compimento. In effetti, esso non ha più potuto implicare, sic
et simpliciter, l’idea di un’immobilità estranea alla passione del divenire, o quella di
una restaurazione escludente ogni mutamento, quanto, al contrario, un ingresso nel
tempo che l’ha resa permeabile all’orizzontalità fino ad assumerla e a portarne la
vocazione all’ascesa. La teologia ha avuto bisogno di decifrare le categorie
antropologiche che si stavano sviluppando per rifondare il proprio statuto di
depositaria della Parola e soprattutto di serva della parola intesa nel senso alto ed
incarnativo.
Per tutte basti questa suggestione di Bruno Forte
«Fra il trionfo dell’identità assoluta e l’apologia della differenza, risolta nel dominio
onnicomprensivo del nulla, fra il tempo dell’ideologia e quello del nichilismo, la causa
dell’uomo esige che si cerchi una via altra e diversa, “fra i tempi”, capace di sfuggire
tanto alla seduzione alienante del pensiero solare, quanto alla malia tragica della
finale vittoria delle tenebre»
Tale nuova via è a suo avviso:
«l’antropologia dell’Assoluto che entra nella storia, rimanendo altro e sovrano rispetto
ad essa, del Trascendente che viene ad abitare e a redimere l’esodo della condizione
umana, della Gloria che si partecipa ai giorni degli uomini aprendoli al dono della vita
eterna, dell’alleanza di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio. Anche così, una tale
concezione sta “fra i tempi”,fra il tempo dell’eternità e il tempo della storia: è
l’antropologia dell’eternità nel tempo»35
L’Assoluto che entra nella storia è un’interruzione che contraddice – nella sua
accezione di dire il contrario- con la sua possibilità l’ordo dell’ingiustizia e fa emergere
d’altro canto la contraddizione che inerisce ad una categoria come quella di progresso
la cui linearità in avanti dovrebbe sancire l’ ad meliora. Dunque la stessa categoria di
progresso viene criticamente assunta dalla teologia per rivelarne l’insufficienza quando
seduce con il sogno titanico della tecnica, traducendo in termini di ferrea immanenza
ed in termini di assoluto dominio la tensione al superamento ed al bene propria di
tutta l’umanità
Compito della teologia è , allora, rivelare il Nome della Differenza Antropologica che,
inserendosi come segno di contraddizione della e nella già presente contraddizione ha
la pretesa fondata di annunciare l’instaurarsi di questo Novum. Quanto della dialettica
dell’illuminismo abbia ereditato la teologia cristiana è del tutto evidente nelle letture
date dalla teologia della speranza di Moltmann, o da alcune teologie politiche, fra le
quali quella di Metz e Pannenberg, tutte concentrate e convergenti sul senso del
Regno come riserva critica che possa porsi come correttivo dell’ingiustizia in virtù
dell’annuncio dell’Evangelo, ad intra quanto ad extra. Asserisce Metz
«La chiesa deve comprendersi e dimostrarsi come la testimone pubblica e la
trasmettitrice di una memoria sovversiva di libertà in mezzo ai sistemi delle nostre
società protese verso l’emancipazione.
Questa tesi si fonda sulla memoria come forma fondamentale di espressione della
fede cristiana e sulla portata centrale e peculiare che in essa detiene la libertà. Nella
fede noi cristiani attuiamo la memoria passionis et resurrectionisi Jesu
Christi;credendo ci ricordiamo del suo amore nel quale il regno di Dio appare in mezzo
agli uomini proprio per il fatto che i potenti hanno cominciato ad essere abbattuti»36
17
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La preoccupazione fondamentale di Metz è quella circa la presenza della Chiesa nel
mondo, che traduce altrimenti quell’intreccio di in alto ed in avanti assunto come
presupposto della nostra tesi. Essa è una presenza memoriale, in quanto trova il suo
senso nella celebrazione del Mistero di Cristo, e nella traduzione di questo Mistero
eterno nelle opere e nei giorni dell’uomo. Così quanto l’uomo sperimenta della libertà
e della grazia nella storia è ciò che la Resurrezione come paradigma del Novum ha già
predisposto. Quindi si può parlare di una memoria sovversiva che non può ridursi ad
una malia temporis actis, ma non può neppure chiamarsi fuori dalla storia, in virtù
dell’economia della Rivelazione e della salvezza su cui si attesta. Proprio per questo
motivo deve fare i conti con le possibilità che si schiudono nell’idea del futuro.
Metz così prosegue:
«Questa memoria Jesu Christi non è un ricordo che dispensi illusoriamente dalle
audacie del futuro. Non è come una specie di controfigura borghese della speranza. Al
contrario, in essa si attua una certa anticipazione del futuro, appunto di un futuro per
coloro che sono senza speranza, appunto per i falliti e per gli oppressi»37
Nessuna fuga mundi, se mai un correttivo critico incidente nel mondo, che può essere
definito come capacità di futuro in virtù della memoria Dei in Christo. L’anticipazione
in virtù della memoria celebrata assume la caratteristica escatologica, ma di un
eschaton che si realizza nella progressiva consapevolezza che esso è già presente
perché l’Incarnazione è un fatto paradigmatico che si rinnova sempre come rottura
dell’ingiustizia e assume il valore profetico della testimonianza ecclesiale nel mondo e
per il mondo.
Per questo motivo Johann Baptist Metz ritiene che l’eschaton sancito in questa
memoria tanto sovversiva quanto liberante permetta una sorta di investitura delle
generazioni in maniera trasversale che ci rende comunione persino con le vittime del
passato in questa tensione verso la perfetta e consumata giustizia. Dunque non
possiamo parlare né di linearità progressiva del tempo che si risolverebbe un
trascendere senza trascendenza, né tanto meno di una ciclicità quanto invece di un
tempo kairologico per cui il già avvenuto è l’evento del futuro della perfetta
comunione, per cui la memoria è assunta come paradigma anticipatorio dello stesso
mistero del mondo. Per questo motivo il paradigma è la celebrazione liturgica, nella
quale l’Eucaristia è unità con il Christus passus e risorto, avvenuta una volta per tutte
nella storia di Dio in Cristo stesso, avvenente oggi nel tempo dello Spirito, di cui la
Chiesa stessa è custode, e sostanza della fede in ciò che sarà, nella rivelazione del
mondo redento e fatto uno in Cristo. Non si può dunque dire che l’eternità della
teologia cristiana escluda una lettura secondo la categoria del futuro, il cui debito è
sicuramente la tensione umana ad una perfetta e consumata giustizia. Anzi, proprio
questa memoria rende il teologo Metz consapevole della necessità di una teologia
politica.
Anche qui, però, occorre fare una precisazione onde evitare che, ad un timore per
una presunta secolarizzazione come distruzione del religioso si risponda con una
sacralizzazione che riporti in luce uno scandaloso steccato.38 Diamo voce a Metz
stesso che, su questo, ammonisce in modo molto preciso.
«Io intendo la teologia politica in primo luogo come correzione critica di una tendenza
estrema della teologia attuale alla privatizzazione. Nello stesso tempo, la intendo
positivamente come il tentativo di formulare il messaggio escatologico alla luce delle
condizioni richieste dalla nostra società attuale»39
L’esigenza del teologo tedesco è quella di poter rispondere alle critiche
dell’illuminismo, del marxismo che ravvisano nella religione un seme ideologico, così
che è necessario che sia la stessa teologia a fare i conti con la stessa categoria di
ideologia presentando l’Evangelo come liberazione anche dall’ideologia, se essa, come
la definisce il giovane Marx, è la falsa coscienza indotta talora da una verità metafisica
fondata sull’oggettivazione. Allo stato attuale delle cose, tuttavia, è la stessa teologia
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19
che deve misurarsi con la stessa tendenza ideologica del progresso inteso come
possibilità di fare dell’uomo il padrone assoluto, salvo poi riassoggettarlo agli idola fori
del capitale, del mercato, della macchinazione industriale (E. Fromm). Quindi essa non
può non annunciare il segno di contraddizione di questo mondo che è il Cristo
salvatore,per dire che è già iniziato il nuovo eone. Metz ha messo in luce in modo
inequivocabile come il Dio della Bibbia non si adatti al mondo borghese. E’ il Dio
dell’Apocalisse, del tempo divenuto breve, il Dio della contraddizione e dello scandalo.
Dunque tale teologia non può che porsi in termini critici dinanzi ad un interesse per
l’emancipazione della ragione che ha assunto la bieca forma della ragione
strumentale. Essa è già sull’orizzonte di uno scarto salvifico perché l’ideale di libertà e
di emancipazione della Chiesa non può essere identificato né con la storia borghese
dell’illuminismo né con l’apoteosi della storia rivoluzionaria di liberazione. Non solo,
ponendo l’accento sul messianismo del futuro che il Cristianesimo propone, Metz
asserisce
«(…). Il futuro messianico della fede cristiana non si limita a confermare e a rafforzare
il nostro futuro borghese precostituito, non lo prolunga, non vi aggiunge nulla, non lo
sopraeleva né trasfigura, al contrario lo interrompe. “i primi saranno gli ultimi, gli
ultimi i primi.»40
Tale interruzione sancisce il novum del Cristianesimo per cui il sale non può divenire
scipito, ma anzi deve sciogliersi nelle pieghe della storia umana per continuare ad
imprimerle una sorta di impulso cristico che coniughi il factum dell’Incarnazione tra
filosofia e teologia come riserva critica ed escatologica ma che sappia anche farsi
auscultazione paziente e silente del germe ancora celato di questo futuro già
presente,incontro a noi.
4.2: Escatologia della promessa o del progetto del Regno
La categoria della promessa non era ancora stata esplicitata, ma in questo momento il
suo ingresso può aiutarci ad evidenziare come è sul suo fondamento che il correttivo
critico della teologia può incidere nel tessuto della storia. Essa, infatti, si collega alla
trama storica della speranza e, per usare un’efficace asserto di Moltmann, che sarà il
compagno di viaggio fino al termine dell’excursus, delinea una rivelazione progressiva.
Tale determinazione attiene all’assunzione della storicità come terminus ad quem della
stessa Parola di Dio, che pure si rivela definitivamente, nell’ultimità dell’Incarnazione
di Cristo, ma progressivamente quanto alla portata ermeneutica dell’esperienza di
fede. Essa, infatti, è eterna, immutabile quanto al Progetto, ma capace di
accompagnare i passi intenzionali dell’uomo verso il Regno, e quindi di assumerne dal
di dentro le stesse esigenze, le stesse inquietudini, rispondendo ad esse di volta in
volta con l’ultima Parola da sempre realizzata, la Parola della Promessa che è la
Resurrezione di Cristo. Questa ultimità che è il puntuale avvenire dell’eterno si rende
via via presente nella consapevolezza dell’uomo tanto della divinità della Rivelazione
che oggi accade tra Dio e la sua storia nel mondo, quanto della persona Christi come
telos della realizzazione delle attese. Prova di questa progressiva coscienza è proprio
la redazione dei Vangeli in quanto rilettura alla luce di questo evento futurante, la
Resurrezione, della trama ancora oscura della storia. In realtà quella Rivelazione è
sempre in atto, oggi stesso, ed oggi stesso dice ancora la Sua Promessa realizzata e,
al contempo, da realizzare. Dunque, la nozione di progresso sembra entrare in questa
ermeneutica teologica, con la precisa semantica di una via via accresciuta capacità di
comprendere la Rivelazione, per cui lo stesso kerygma possa di fatto risuonare
eternamente nuovo ed il Vangelo trovare giovani e franchi legami con la storia. Il
progresso, però, attiene qui alla coscienza di fede, specie di quella fede nella
Resurrezione come definitiva instaurazione della signoria di Dio in Cristo,
instaurazione già iniziata per l’azione dello Spirito nella Pentecoste, così che l’eschaton
19
20
del Regno è sempre un evento trinitario, così come trinitaria è l’economia della
salvezza che volge ad estrinseco lo stesso Mistero di Dio (la trinità immanente)41.
Da questo punto di vista la teologia della speranza non può che assumere i tratti
anche di una teologia della storia, quindi non può non collegare fra loro l’eschaton
come realizzata promessa e il tempo come ambito dell’attesa. Moltmann attesta
magistralmente questa istanza nel suo Teologia della Speranza, confrontando la
rivelazione in quanto possibilità di una teologia della Parola e teologia della storia in
quanto applicazione, per così, dire della forza escatologica della Promessa che in
questa stessa Parola si dona. Se, in un primo momento esse sono sembrate stare in
un insanabile contrasto, probabilmente a causa di un’inadeguata ermeneutica, oggi
tuttavia il loro riavvicinamento è avvenuto per un secondo aspetto dello svolgimento
della “rivelazione come storia che aprendo lo spazio della traditio ha permesso di
rileggere e comprendere la promessa escatologica a partire dal suo irrevocabile
adempimento,così che la storia stessa è divenuta un locus theologicus di questa
azione salvifica di Dio42
Moltmann contribuisce in modo inequivocabile ad indurre nella teologia cristiana tanto
l’idea di una forte escatologia che è insita nella stessa economia trinitaria, quanto
l’istanza di una storia finalizzata già al Regno per il fatto di essere stata assunta come
storia di Dio per noi.
D’altro canto la sua elaborazione risente fortemente del debito con la filosofia
blochiana contribuendo anche a dare un nuovo impulso al dialogo. Se in Metz il
dialogo Chiesa- mondo risulta imprescindibile, in Moltmann il dialogo fra teologia ed
istanze del pensiero filosofico assume un ruolo fondamentale.
La teologia della storia fondata sull’ermeneutica della Parola rende una nuova
accezione dell’esistenza,la cui storicità è fondata sulla fede in un Dio che
«conduce ad un futuro che non è mera ripetizione e convalida del presente, ma è la
méta degli eventi che attualmente sono in movimento. La méta è ciò che dà
significato alla migrazione e alle sue difficoltà; e la decisione odierna di aver fiducia
nel Dio che chiama è gravida di futuro. Questa è l’essenza della promessa alla luce
della trasmigrazione»43
Da notare come Moltmann parli di futuro e come questo conferisca un’accezione di
progresso al suo argomentare. In ogni caso si può vedere l’abbandono di qualsivoglia
categoria di linearità, dato che esso è discontinuo rispetto ad una possibile verifica del
presente, è il futuro di chi fa nuove tutte le cose.
Questa idea che ha attraversato tutto il mondo biblico come un filo rosso, è giunta
fino al Cristianesimo primitivo come suo nucleo più autentico, legato all’attesa della
parusia è stata elaborata ulteriormente una volta che, il ritardo di questa stessa
parusia, ha fatto in modo di dover affrontare la diastasi della storia, così che si è
pervenuti alla comprensione di un eschaton già presente, di una presenza nell’eternità
esperibile nella celebrazione e nel culto in ispirito. Tuttavia l’eterno presente di cui la
liturgia è effettivamente prolessi si inserisce come rottura, come memoria
anticipatoria, se pur il termine sia ossimorica e paradossale, del presente continuo e
lineare sottendendo quello spostamento in avanti sancito dall’adempiuta promessa del
Regno. Per questo il dato della riflessione moltmanniana si intreccia inevitabilmente
con le istanze della filosofia della speranza, ove il tempo futuro connota
ontologicamente l’esistenza del qui ed ora. Lo stesso Moltmann fornisce,in appendice
al suo testo fondamentale, delle preziose indicazioni quanto al suo interesse per la
filosofia di Ernst Bloch
«La filosofia della speranza di Ernst Bloch nella sua più alta espressione vuol essere
meta-religione,ossia eredità di religione. Egli ritiene di poter dimostrare che l’autentico
sostrato ereditario di tutte le religioni è “totalità di speranza”(….)
Non un mito statico quindi apologetico ma un messianismo umano escatologico,
quindi dirompente.»44
20
21
Il paradigma messianico sembra la figura più adatta a smarcare il termine
provvidenza, pur coniato dalla traditio cristiana, da quello greco, ma parlare di
messianismo implica, dal versante della filosofia, recuperare un pensiero della
Differenza dove si spezza l’insolente identità del pensiero con se stesso, che faccia
tabula rasa degli idola della ragione calcolante, dal lato della teologia rendere alla
storia il dinamismo trinitario per evidenziare come in essa si esercita di fatto la
signoria della libertà di Dio e come quest’ultimo fornisca una chiave ermeneutica
capace di leggere il futuro nel segno dell’eternità.
Ad ogni modo, Moltmann esplicita in maniera eloquente il debito che la teologia ha
contratto con un pensiero messianico come quello blochiano, in quanto esso, proprio
esso che è nato sulla base del marxismo, ha contribuito non solo a demistificare la
forma cristallizzata ed ideologica della religione, bensì a riproporre una lettura del
religioso nella sua portata messianica consustanziale alla speranza. Da un lato
dunque, il dato religioso come correttivo critico del marxismo, secondo il felice
connubio di Ernst Bloch, dall’altro il messianismo teoretico come richiamo alla teologia
che finalmente recupera nell’al di qua l’efficacia della promessa del Regno.
«La religione, in quanto è speranza e protegge la speranza, non deriva dalla paura,
dalla stoltezza, dall’inganno pretesco. In tal caso, però, anche Ludwig Feuerbach con
la sua teoria della religione come desiderio, con la sua riduzione della duplicazione
celeste dell’uomo all’uomo fisico che diventa padrone di sé, non incide sulla religione
la cui essenza è la speranza. Feuerbach ricondusse le immagini che l’uomo si fa degli
dei, alla realtà fisica dell’uomo come è finora apparsa, e precisamente all’astratta ed
astorica specie “uomo”. Ma le “immagini religiose del Regno veniente” che fanno
esplodere lo stato attuale delle cose” (Ecco io faccio ogni cosa nuova) non si possono
ridurre all’uomo che nella fattualità sensibile acquista consapevolezza di sé .
Feuerbach ha solo ereditato solo la mistica del cristianesimo, non l’escatologia
cristiana»45
L’escatologia cristiana, così fortemente sottolineata da Moltmann è il nome della
provvidenza ed il riferimento da tener presente ogni volta che si intenda parlare di una
finalità della storia secondo il bene originario del progetto creativo, tenendo
altrettanto presente che l’inveramento come esito ultimo di questo bonum protologico
che è la salvezza progettata da Dio riguarda sempre e solo la Sua Promessa, secondo
la bella espressione di Dietrich Bonhoeffer, Dio non è fedele ai nostri desideri ma alla
Sua Promessa. Per questo motivo essa si presenta come segno di contraddizione ed
interruzione del tempo in modo da sancire un presente possibile, eppure si dona
ineludibilmente nella dialettica fra l’in-sperabile e ciò che invece contro speranza si
spera. Da un lato dunque è stato colmato il fossato scandaloso di lessinghiana
memoria, in quanto la stessa storia è sempre una storia di salvezza (Heilsgeschichte),
dall’altro, tuttavia, resta lo skandalon dello scarto temporale quanto alla realizzazione
della Promessa e dell’infinita differenza qualitativa perché le vie di Dio e quelle
dell’uomo non sono identiche, come già dice il profeta Isaia, il che richiama
fortemente le suggestioni kierkegaardiane sul paradosso del Cristianesimo, che, a
nostro avviso, proprio per questo motivo mostra la sua mordente capacità nella storia
umana. Proprio in questo scarto, infatti, è possibile testimoniare che l’eterno, avendo
avuto ab initio tempo per l’uomo, è il senso stesso del tempo redento.
Conclusione. La fenditura del tempo
L’excursus proposto su due idee così fondanti nella domanda esistenziale, tanto di
natura teologica quanto di natura filosofica ha mostrato come la contraddizione possa
essere origine e fonte di ricchezza, altrettanto, ha posto in luce l’infinita possibilità
ermeneutica della contaminazione culturale tanto da indurre a pensare la possibilità di
un nuovo incontro fra ebraismo-cristianesimo e pensiero greco. Questo connubio non
sempre facile e lieve ha contribuito, inoltre, alla capacità del pensiero di sostenere il
21
22
paradosso della sua vocazione, ora più postulatoria che deterministica, più simbolica
che non logico-strumentale, così che il suo recupero di termini teologici lo ha messo in
grado di porre in gioco l’ulteriorità dell’in-disponibile a quanto è passibile di
oggettivazione, di formulare il desiderio come ontologia del superamento e come inoggettivabile verità dell’uomo che fa implodere il qui e l’ora del tempo come malia
dell’identità.
D’altro lato la teologia ha potuto fornirgli trame inattese, legami da ricostruire,
paesaggi aperti da riconfigurare, soglie, per usare un efficace termine benjaminiano,
forse piccole soglie confitte lungo la linea cronologica come fessure sul gratuito e
sull’inedito. Da esse il Messia può sempre entrare,in un Oggi che è sempre il
perfektum propheticum del Regno, ove, si è già, superandosi, perché coniugati ad una
fenditura del tempo. (P. Celan)
Paola Mancinelli
dottore di ricerca in Filosofia e scienze umane
insegna Filosofia e Scienze dell’educazione presso
Istituto "V.Bonifazi", Recanati
1 T. W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, trad. it di
R. Solmi, Minima moralia, Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 304.
2 Ibidem
3 Plotino, Enneadi, a cura di M. Casaglia, C. Guidelli, A. Linguiti, F. Moriani, vol. I,
UTET, Torino 1997,pp. 205-206
4 H. U. Von Balthasar, Herrlichkeit, Im Raum der Metaphysik, Bd. 4 trad. it. di G.
Sommavilla, Gloria. Nello spazio della metafisica, vol 4, Jaca Book, Milano 1975,p.257
5 Plotino, op. cit.,p .213
6 Ivi, p. 216
7 H. U. Von Balthasar, Herrlichkeit, trad. it. cit.,p.260
8 Si veda ed esempio il bel saggio Il pensiero come redenzione. Plotino tra Platone ed
Agostino,
in Platos dialektische Ethik und anderen Studien zur platonischen
Philosophie, trad. it. di G. Moretto, Studi platonici, 2 voll.Marietti, Genova 1983, p.
287
9 Plotino, op. cit, p. 372
10 Ivi, p .375
11 H. U. Von Balthasar, Herrlichkeit, trad. it. cit.p..261
12 Plotino, op. cit.,p. 385
13 Ivi,p. 399.
14 T. S. Eliot, The complete poems, trad. It e cura di R. Sanesi, Opere, Bompiani,
Milano 1986, p. 265
15 Per questo rinviamo al prezioso studio di M. Buber, Der Glaube der Propheten,
trad. it di A. Poma, La fede dei profeti, Marietti, Genova 1885
16 Sap. 7, 22-24
17 Sap. 7, 25-27
18 Lo riportiamo nella traduzione fatta dal celebre esegeta Juan Mateos, in J. Mateos,
J. Barreto, El Evangelio de Juan, trad. it. di T. Tosatti, Cittadella Assisi 1982
19 Col.,15-20
20 GLNT, Voce Pronoia, vol. VII, Colonna 1201,ss.
21 Mt, 5,33. In ogni caso sarebbe importante tenere presente l’intero capitolo del
Vangelo matteano, anche perché è quello che maggiormente evidenzia la continuitàcontraddizione con l’istanza messianica dell’ebraismo e quella che si esplica nella
pretesa di Gesù
22
23
22 Dobbiamo qui rinviare all’idea di temporalità nella cultura ebraico-cristiana e non
possiamo non segnalare la celebre opera di O. Cullmann, Cristo e il tempo, Il Mulino,
Bologna 1965, dove si sottolinea, per altro, lo spostamento del centro del tempo
apportato dall’avvento di Cristo. Questo carattere di già avvenuto nel non ancora
dell’av-venire è fondamentale anche per il fatto che non si ottiene una linearità
progressiva cronologica quanto invece una temporalità intesa come soglia da cui
emerge l’ora della pienezza del tempo. Nonostante questo, la figura del progresso è
stata assunta come criterio di mutazione dell’ermeneutica storica. E’ vero che non si
può parlare di eterno ritorno dell’eguale, ma è altrettanto vero che nel tempo feriale si
inserisce il kairos della festa come anticipazione del riposo escatologico,in modo tale
da farci parlare di un’escatologia realizzata.
23 Facciamo nostra l’espressione del filosofo Italo Mancini
24 B. Forte, Trinità come storia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985,p.79
25 Di tutto rilievo è la riflessione di Ludwig Feuerbach sul pensiero filosofico a lui
contemporaneo come criptoteologia. In effetti essa sancisce l’imprescindibilità della
presenza della teologia nella riflessione filosofica dell’Ottocento tedesco, la quale è
coniugata con l’istanza critica dell’Illuminismo che contribuisce a nostro avviso in
maniera feconda a sviluppare i germi dell’ermeneutica contemporanea. Se
l’assunzione critica della cifra teologica è un fenomeno ben ravvisabile in Germania,
nel movimento dell’Aufklärung e in quello successivo dell’idealismo, abbiamo buone
ragioni di ritenere che lo stesso Illuminismo europeo fa criticamente i conti con le
categorie cristiane, e dà origine al loro processo di secolarizzazione. Basti pensare al
motto della Rivoluzione francese, liberté,égalité, fraternité
26 I. Mancini, Teologia, Ideologia, Utopia, Queriniana, Brescia 1974,p. 541
27 E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Il principio
Speranza, Garzanti, Milano 1994, 2a ed. 2005,p. 233
28 Mancini, Teologia, cit.p.545
29 Lo spazio della trattazione disponibile non ci permette di diffonderci ulteriormente
su tale fenomeno. Ci limitiamo a citare l’utopia delle tre età di Gioacchino da Fiore di
cui lo stesso Bloch tratta ne Il Principio Speranza, o la figura di Thomas Müntzer
come teologo della rivoluzione, cui Bloch dedica una grande attenzione. Analisi queste,
per altro molto preziose per il nostro tema. Inoltre vorremmo aggiungere come il
Regno, figura escatologica biblica si è mostrata una costante che ha guidato la prassi
dei grandi riformatori politici da Cromwell ai Pilgrim Fathers, in quanto misura di una
possibile giustizia presente già sulla terra. Su questo si può consultare anche, oltre
alla classica Utopia di Th. More, A. Dempf, Sacrum Imperium,, Le lettere, Firenze
1988, e M. Walzer, Esodo e Rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986
30 E. Bloch, Atheismus in Christentum. Zur Religion des Exodus und des Reich trad.
it. di F. Coppellotti, Feltrinelli, Milano 1971,p.169
31 Bloch, Atheismus…,cit.,p24-25
32 M. Horkheimer, Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen, trad. it di R. Gibellini, La
nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia 2001 3° ed,p. 1
33 Ivi,p.73
34 Ivi, p.75
35 B. Forte, L’eternità nel tempo,saggio di antropologia ed etica sacramentale,
Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1993, pp. 25-26
36 J. B Metz, Sulla presenza della Chiesa nella società, cit. in G. Ferretti, F. Ardusso,
C. Ciancio, A. M. Pastore, U. Perone, La teologia contemporanea, Marietti, Torino
1988,p 552.
37 Ivi,p. 552
38 Questa per altro non è la nostra posizione, attestata, al contrario sull’esigenza di
riproporre la domanda fondamentale sulla pensabilità e la riserva di senso del religioso
23
24
onde evitare tanto una latitanza ed un declino quanto una presenza equivoca e
incapace di fare appello alle istanze dell’uomo contemporaneo, raccogliendo il
memorabile appello di Dietrich Bonhoeffer
39 Metz, da Sulla teologia del mondo, in G. Ferretti , F. Ardusso….., La teologia,cit.,p.
547
40 Metz,Religione messianica o religione borghese, cit. in G. Ferretti….., La
teologia..,cit.,p. 560
41 Facciamo nostra la suggestiva espressione di Karl Rahner secondo cui la Trinità
economica è la Trinità immanente
42 J. Moltmann, Theologie der Hoffnung. Untersuchungen zur Begründung du zu den
Konsequenzen einer christliche Eschatologie, trad. it. di A. Comba, Teologia della
speranza, Queriniana, Brescia 1970,p.77
43 Moltmann, Theologie, trad. it. cit,p.97
44 Moltmann, Theologie, trad. it. cit.,p.351
45 Ivi,p. 352
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