“IN ALTO” E “IN AVANTI”: LA PROVVIDENZA E IL PROGRESSO Sommario: Introduzione. Sulla linea di confine - 1. Plotino o della meraviglia dell’Uno – 2. Ero ogni giorno la delizia dell’Altissimo: figure della Provvidenza fra l’uno e l’altro Testamento – 3. L’impulso in avanti del progresso: escatologia e secolarizzazione - 3. 1. Ciò che era luce interiore diviene fiamma bruciante: Messianismo teoretico e marxismo in Ernst Bloch - 3.2. Etsi Deus daretur: l’espressione di una nostalgia – 4. Il futuro di Dio: approdi teologici nel segno della provvidenza - 4.1. Tra i tempi: differenza antropologica e teologia politica - 4.2. Escatologia della promessa o del progetto del Regno - Conclusione. La fenditura del tempo Introduzione. Sulla linea di confine Non si potrebbe immaginare una filosofia senza archetipi, giacché meraviglia, mito e mistero, nella loro strettissima affinità elettiva configurano il pensiero dell’inizio; tuttavia ta prota sono strettamente connessi a ta eschata, cosicché riflettere sull’origine – ed è già questo un essere iniziati- è anticipare nella ragione la cosa ultima, postulare l’ordo ma non già come spiegazione causale, quanto invece come logica della speranza, tanto che non si prescinde dalla tautegoricità del linguaggio che la articola. Lo stesso connettersi insieme di bellezza e verità nella prima epifania dell’essere del pensiero classico dice già di una meta-physika che non ha sic et simpliciter valenza cosmologica, ma sottende una precisa ontologia che implica a nostro avviso un valore fruitivo. Non per nulla l’epifania dell’essere è detta dai poemi classici charis, ovvero manifestazione prima dell’essere come bellezza che dona misura al mondo e che spesso viene rappresentata dall’eroe epico. Dire che la charis è una sorta di synolon di kalos kai agathos è ammettere che la condizione di disvelamento, la verità come aletheia, è la stessa del riconoscimento della giustezza di un nomos la cui misura è la provvidenza per cui il kosmos è fatto e manifesto. In epoca classica mai alcuno meglio di Plotino nelle sue Enneadi ha potuto formulare più felicemente questa idea, sottendendo come lo stesso Streben filosofico è tensione e nostalgia verso l’uno fontale che armonizza il cosmo e si effonde pur nella sua quiete sovrasostanziale come bontà e bellezza. Dunque l’idea di provvidenza attraversa come una corrente interiore il pensiero ponendo in evidenza come la stessa idea del Bene è sempre oltre, ben oltre l’essere e le sue determinazioni (epekeina tes ousias) ed è essa stessa a sottendere il mistero del mondo per cui omnia ad unum convertuntur, ma anche omnia ad bonum et pulchrum convertuntur, nell’aplosis, ovvero nella semplicità totale del logos interiore e superiore che è ad un tempo l’intrinseco ordine del mondo. Mentre ci riserviamo un’analisi senza dubbio più diffusiva e puntuale, ci preme, a ogni modo mettere in luce che l’aurora del pensiero e i primi passi verso la conoscenza sono dettati da un desiderio amoroso del Vero tale che essi non possono non essere connessi all’anelito di salvezza. Già in epoca classica, tanto l’idea del kosmos, quanto l’idea della physis sottendevano il concetto dell’interezza, di una sorta di praxis theleia segno di un contatto del divino stesso che, come mirabilmente canta Hölderlin, ogni giorno ha un vestito per amore degli uomini. Si potrebbe quasi dire che la pronoia faccia da controcanto alla consapevolezza di una realtà drammatica, a tratti tragica, in procinto di far emergere l’aorgico, ma vinta, infine dalla stessa gratuità diffusiva dell’Unum. Si ha dunque bisogno di risalire ai miti fondatori, anzi, di formulare sempre nuovamente una teoria degli eventi fondatori per poter individuare come in essi si esplichi l’idea archetipica di un ordine di giustizia e bellezza e verità, ad un tempo secondo necessità ed oltre la necessità. Secondo necessità, per il fatto che non si può non pensare ad un’essenza razionale del mondo, e forse la formulazione migliore sarebbe katà logon, che tutto ordina per il bene, oltre la necessità in quanto tale 2 causalità non è costretta ab alio, ma per sua natura procede alla giustezza dell’ordine cosmico. Altrettanto che nella prova fisico-teologica, ove si postula che dato un ordine di armonia e giustizia, deve esistere un ordinatore giusto e santo, anche in questo caso, tale dovere non sa affatto di costrizione quanto invece inerisce al più autentico fondamento ontologico che si esplica in una causalità libera. La categoria della provvidenza è altrettanto pregnante nel mondo biblico, ove la bontà della creazione manifesta la stessa perfezione del Creatore che, compiacendosi della Sua opera, continua a trarla dal nulla e a farla partecipare del Suo essere. Essa si esplica altresì nella stessa rivelazione del mondo e dell’uomo come creature di Dio, nella redenzione che fa nuove le cose e si pone come consumata apocalisse del Progetto iniziale di Dio. In essa, pertanto, tutto è contenuto e trova un senso, dato che, essendo intrinseca allo stesso Mistero di Dio, la provvidenza unisce ogni evento contingente all’hodie della divina creazione connotato da un carattere fortemente trinitario nella sua articolazione attraverso l’incarnazione e la passione che costituiscono il Mistero taciuto e rivelato di Dio e la resurrezione, apax divino su cui poggia la docta spes della stessa resurrezione dell’uomo e del cosmo nel Dio divenuto tutto in tutti. Questo, tuttavia, implica l’esigenza di un logon didonai, e dunque di far in modo che il pensiero contenga l’incontenibile intenzionandolo nel suo carattere prolettico e profetico, quasi che il pensiero stesso si esprima sotto la luce della redenzione come mirabilmente recita la conclusione dei Minima Moralia di Adorno: «La filosofia quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica»1 D’altra parte, però, si tratta di un pensiero che deve comprendere la propria impossibilità per amore della possibilità2, un pensiero sanguinante sul crinale della sua povertà per essere colmato della ricchezza indisponibile, e per il quale la cifra plotiniana dell’Uno è forse l’immagine più adeguata. Il carattere dell’impossibilità, in ogni caso, non è certo una sorta di finis philosophiae, anzi è proprio ciò che lo fa rivestire della fodera rossa della speranza e orientare verso l’utopia, pur facendolo permanere nella storia come gesto annunciatore capace di dar forma al mistero del desiderio e capace di coniugare in modo secolarizzato la provvidenza. Ottimo, da questo punto di vista, l’iter di Ernst Bloch nella sua istanza teoretica di portare a coscienza il latente Noch Nicht Geworden, che recupera al pensiero teoretico il suo primo immemoriale pensato, l’utopia geografica dell’Eden e dell’Eldorado leggendola nella sua forma macrocosmica, come un simbolo dell’apex mentis eckhartiano, di quel punto più prossimo all’increato nell’anima che, in maniera quasi paradossale implicherebbe una sorta di epistrophé della ragione raziocinante verso la regione di una protologia che sottende già l’escatologia di una natura sovranaturata per gratiam. La coscienza utopica, accesa nelle cose che Ernst Bloch interpreta nell’impulso teoretico del giovane Marx, il quale giunge a formulare una resurrectio naturae, molto spesso viene a configurarsi come progresso, ed è già una figura nota alla filosofia moderna, basti solo pensare alla Casa di Salomone di Francis Bacon, nella quale elaborare un’idea secondo cui le magnifiche sorti e progressive dell’uomo avrebbero raggiunto il loro culmine in una perfetta disvelatezza della natura all’uomo stesso, che ne sarebbe stato il libero dominatore, imponendo ad essa il sigillo della sua tecnica capace di tutto spiegare e tutto maneggiare fino ad eliminare ogni mito e far risplendere il bagliore trionfante della ragione scientifica. A ben vedere, però già Nietzsche lo aveva ben arguito mettendo in evidenza il carattere del linguaggio scientifico come criptomitologico, non si tratta forse della secolarizzazione della 2 3 provvidenza, istituita per condurre a termine il processo di immanentizzazione dell’ordine del mondo facendolo culminare nella misurabilità matematica come nel suo principio intrinsecamente divino? Fra le due posizioni autoescludentesi, di una provvidenza supersostanziale, divina, trascendente e quella di un progresso consustanziale al mondo e al suo divenire secondo la legge irrecusabile della scienza, sicuramente se ne pone una terza capace di includere l’in alto della prima e l’in avanti della seconda, quella di un experimentum mundi come experimentum Regni, ove le due figure si incontrano in una tangenza misteriosa che è data dall’universale concreto dell’Incarnazione. Sarà questo il nostro orizzonte di attestazione in questo convergente viaggio in cui filosofia e teologia si fronteggiano ancora serratamene interrogandosi. 1. Plotino o della meraviglia dell’Uno L’Uno plotiniano è una quiete armonica che racchiude in se il drama, l’azione stessa con cui il discendere e l’ascendere sottende l’esser fatto del cosmo, la pro-odosis, l’epistrophé, il procedere ed il convertirsi alla Fonte. Questa idea grandiosa del dramma cosmico nell’Uno e dell’Uno nei molti presenta, come già si diceva, una sorta di liquido legame, di synolon archetipo che regge la complessa vicissitudine del cosmo, che chiamiamo provvidenza. Essa si articola attraverso la triade di Nous, Anima, Bene ed è quest’ultimo il climax in cui ogni vita partecipa dell’essere. Scrive Plotino nella Prima Enneade a proposito della partecipazione al Bene: «Ogni cosa ha qualcosa del Bene, perché in qualche modo è una e in qualche modo è un essere. Inoltre partecipa anche di una forma; quindi, come partecipa di queste cose, così partecipa anche del Bene. In realtà partecipa di un’immagine del Bene, poiché ciò di cui partecipa sono immagini dell’essere e dell’Uno e lo stesso si può dire anche della forma. Ma per l’Anima, per la prima Anima che viene dopo l’Intelletto, la vita è la più prossima alla verità, e questa prima anima tramite l’Intelletto ha la forma del bene, m possederà il Bene solo se guarderà verso quello: e l’Intelletto, da parte sua, viene dopo il Bene. La vita, di conseguenza è il bene di ciò che vive, e l’Intelletto per ciò che partecipa dell’Intelletto, cosicché per chi ha vita assieme all’Intelletto, vi sono due modi di giungere al Bene»3 La stessa idea di partecipazione al Bene esprime mirabilmente la provvidenza, disegnando una cosmologia e a sua volta, una antropologia ante litteram per cui il Bene, ben lungi dall’abbandonare quanto da lui procede, fa in modo di sussistere ipostaticamente in esso così che ogni suo cammino verso il telos non sia altro che un volgersi alla Fonte. E in questo diffondersi via via da ciò che è più prossimo, a ciò che è meno prossimo alla verità, fa in modo che pervenirvi sia il cammino stesso del cosmo compiuto. La stessa gerarchia di Bene, Intelletto, Anima che, per qualche aspetto ricorda la coelestis hierarchia dinonisiana, sottende comunque, non già il vagare delle cose in perturbante vertigo, ma il loro percorso noetico verso la sublimità della fruizione del Bene, sottendendo quasi che la dialettica sia una propedeutica a questa eudaimonia che ha il suo culmine nel theorein. Diremmo quasi, che il Bene informa di sé ogni cosa, per questo il suo discendere non è un mutare; la sua pienezza è tale che si effonde naturaliter, ma tale effondersi non impoverisce, anzi colma la povertà del molteplice. Il Bene è, perciò, generosità dell’essere. Occorre comunque sottolineare come il Bene plotiniano resta custodito dal mistero della propria trascendenza. Si partecipa dell’imago boni, ed anche tale partecipazione speculo et aenigmate sottende il carattere provvidenziale della cosmologia plotiniana nella quale l’epistrophé culmina comunque nella pienezza dell’Uno sovrasostanziale. Un pensiero, questo dell’ebbrezza e dello stupore, anche quando va a trattare della caduta, su cui in seguito ci diffonderemo. Per questo motivo ci pare opportuno 3 4 riportare una chiosa alla riflessione plotiniana di uno dei più insigni esponenti della teologia cristiana della contemporaneità, Hans Urs Von Baltahsar, il quale scrive: «Plotino si affaccia con ammirazione davanti alla gloria del cosmo. Questo è manifestamente un immenso organismo animato a cui hanno parte tutte le anime singole, ragionevoli ed irragionevoli(questo è l’aspetto tardoplatonico, aristotelico e soprattutto stoico); attraverso tutto questo magnifico mondo irradia e brilla uno spirito eterno e pensante, in cui poesis e noema, atto ed oggetto di pensiero sono un’unica cosa, e nel fondo più eccelso di questo spirito regna un inesprimibile mistero fontale che si rivela in tutta la sua magnificenza cosmica e insieme vi si nasconde, onnipresente ed inaccessibile»4 Sotto questa luce si desume che ogni singola cosa esiste secondo quanto si conviene alla propria natura, laddove, però, tale convenire è la convergenza nel Bene in quanto fontale mistero. Nessun disprezzo del mondo, dunque, tanto meno del corpo; la gloria del kosmos, la sua luminosa manifestazione invita alla più alta syntehsis nell’aplosis suprema dell’Uno Bene, eppure già nella synesis, che rappresenta la prima fase di questo processum ad bonum è lo stesso spirito fontale a sostenere il moto di ogni singolo esistente. Meravigliosa in sé questa visione,eppure, anche in essa si insinua come un cuneo che fa sanguinare la mente il concetto della caduta, che – pure- deve essere armonizzata all’idea della provvidenza. Plotino procede con una mirabile dialettica: se il Bene è ciò a cui ogni cosa deve la propria esistenza, risulta chiaro che il male è una privatio boni, dunque un principio di non essere che si mescola alle cose sensibili, ove, però, per non essere o privazione si deve intendere l’irrazionalità in quanto mancanza di misura. Così si esprime l’autore delle Enneadi: «Ma che cos’è che produce questo male e come lo potrai ricondurre a quel principio o a quella causa? Innanzi tutto un’anima di questo genere non è fuori della materia e neppure esiste da se stessa. Essa, infatti, è mescolata alla mancanza di misura e non partecipa della forma che la ordina e la riconduce alla misura poiché è fusa con un corpo che ha materia. E poi, se anche la sua parte razionale viene danneggiata, è impedita nella sua vista dalle passioni e dall’essere ottenebrata dalla materia, la quale è tanto cattiva da contaminare con il proprio male anche quello che non è ancora in lei,ma che si limita soltanto a rivolgerle lo sguardo. Poiché, essendo del tutto priva del bene, anzi, essendo privazione di questo e pura insufficienza, rende simile a sé tutto ciò che in qualunque modo entra in contatto con lei»5 Se ad una prima lettura ci si può sentire quasi legittimati a conchiudere ad un’equazione che possa suonare male = materia, una più approfondita analisi del testo denuncia subito l’inadeguatezza della primitiva e mal abbozzata interpretazione. Non la materia ut sic è male, ma la materia in quanto non formata. E’ nella sua condizione di in-forme, in effetti, che essa è refrattaria alla mensura, al logos, al telos del bene. Inoltre, ammettendo il sinolo di materia e forma nell’esistenza sensibile, più che un carattere statico la materia sembra assumere un carattere dinamico di impulso accecato verso l’irrazionale. Il che deporrebbe a favore di una fragilità del sensibile e di una sua natura parzialmente corruttibile. Dunque non la corporeità è male, ma la corporeità che impedisce con la sua pulsione d’ombra l’itinerarium verso la gloria del Nous e del Bene. Non solo, è la stessa pagina plotiniana a sostenerci in questa interpretazione, allorché lo stesso Plotino invoca l’autorità di Platone. «(…) Poiché “fuga” precisa Platone non vuol dire andarsene dalla terra, ma essere sulla terra “giusto e pio e mediante la saggezza come se l’espressione volesse significare che bisogna fuggire il vizio. Cosicché i mali per lui consistono nel vizio e in tutto ciò che ne consegue. Ma, dunque, come può il vizio che è proprio degli uomini 4 5 essere contrario a quel Bene trascendente?Infatti il vizio è contrario alla virtù, ma la virtù non è il Bene, bensì un bene che rende capaci di dominare la materia»6 Da notare, qui, come la materia sia accorpata al contesto semantico dell’inclinazione verso ciò che contrasta il bene, ma anche come la virtù è la stessa disposizione orientata al bene che fa si che si possa perseguire e condursi nella saggezza, nonostante la possibilità della caduta. La virtù, infatti, non è il bene ma ciò che al Bene dispone, nonostante l’incombente orma dell’informe, e per la virtù, nonostante la caduta non si perisce del tutto. Ancora una volta ci può essere di ausilio la chiosa di Von Balthasar riguardo alla caduta. Egli argomenta in questo modo «Plotino annota a questo riguardo con vigore tre cose 1) Che la discesa come tale resta anche per l’anima individuale a doppio senso: che in essa c’è un’inclinazione volontaria per esercitare la sua potenza e mettere ordine in ciò che le è inferiore» E dunque « l’anima come tale non può divenire cattiva e che resta sempre qualcosa di lei “sopra”»7 Questa è la ragione per la quale si desume il carattere imperituro, dovuto ad una consapevolezza che la stessa esistenza è una meraviglia. Si può leggere tale meraviglia, alla guisa gadameriana, come dynamis8in modo tale da riconoscervi l’infinita possibilità esistenziale rispetto al puro actus essendi, così che quest’ultimo diventa la forza che sonnecchia in tutte le cose. E’ forse essa ciò che rimane sopra l’anima tanto da comprenderla sempre nel misterioso logos che forma l’universo, caratterizzato da una sorta di unità organica della vita. Chiara prova di questo sono le metafore della sorgente e dell’albero, usate da Plotino per tradurre la magnificenza di tale cosmologia. Tuttavia, è qui che entra in azione la pronoia. Il filosofo greco dedica degli scritti specifici alla provvidenza nelle sue Enneadi, evidenziando che sia necessario postularne il carattere universale dato che: «se dicessimo che il cosmo prima non c’era, è venuto ad esistere in un dato momento del tempo, introdurremo nel discorso la medesima provvidenza che dicevamo esistere per le cose particolari:sarebbe una sorta di previsione e di calcolo divino su come creare l’universo e renderlo migliore possibile»9 Tale postulato, però, serve a concludere che data l’eternità del cosmo secondo il Nous, e dato il Nous come archetipo e modello universale, la provvidenza verrebbe a coincidere con questo stesso principio noetico, quasi che il Logos, come progetto razionale del mondo si manifesti nella provvidenza che regge le cose e informa le cose singolari della species aeternitatis. Tanto lo stoicismo, quanto il monismo spinoziano sembrano, da questo punto di vista, una successiva elaborazione plotiniana. In ogni caso, si dà, qui, una generosa eccedenza del Logos che è forza d’attrazione a sé mediante il bello e che esprime questa bellezza come dynamis delle cose e traccia la loro conversione ad unum. Plotino esprime mirabilmente questa idea in un altro importante passaggio: «Poiché, dunque, venuto ad esistere è il cosmo intero, contemplandolo potresti forse udirlo dire:”un dio mi ha fatto e di lì sono venuto perfetto, composto come sono da tutti i viventi, bastevole a me stesso ed autosufficiente, di nulla bisognoso poiché in me vi sono tutte le piante e gli animali, la natura di tutti gli esseri generati(…)10 La provvidenza è, dunque un ordo intrinseco, così generosamente intelligente da prevedere persino l’inclinazione verso la caduta, dato che noi non siamo separati dall’essere, né l’essere è separato da noi. Così, se tale ordine procede secondo ipostasi, ed ognuna conduce a quella più alta, tutte convergono in un unico centro. Questa gloria dell’essere multiforme in Uno è lo stesso dramma che deve essere recitato da Dio, così che egli sortisca in questa ricchezza di esseri dal suo inaccessibile 5 6 mistero11. Tale ontodrammatica giustificherebbe anche la fuoriuscita da sé dello spirito per rientrare a riposare in se stesso. Un altro punto nodale attiene all’idea di una ricaduta etica di questo ordine, con cui Plotino stesso forse ha cercato di rendere ragione della vexata questio circa” unde malum”. La provvidenza veglia sull’uomo, rivelandosi, come visto, quel quid al di sopra dell’anima che in essa riposa. Dunque il buono che conduce una vita secondo virtù sarà compensato da una vita buona. Tuttavia, il malvagio stesso, però, non sarà abbandonato dalla provvidenza, in quanto: «il divino, però, esiste anche ora, e si è fatto incontro a qualcos’altro non per distruggerlo ma con un altro intento»12 Se l’intento è il preservare l’esistenza, anche coloro che sono malvagi non sono abbandonati nel loro luogo di perdizione, ma sono sempre tratti in alto con i mezzi che il divino impiega perché la virtù prevalga. La provvidenza è una sorta di trama drammatica che anche nei conflitti volge tutto secondo l’armonia del suo ordine creatore. Per questo stesso motivo il cammino del pensiero plotiniano è ascetico e redentivo, atto a rendere ragione di come il divino in ogni cosa salga fino alla coincidenza con il divino che è nel tutto. Dunque la pronoia sottende la metafisica plotiniana e la configura come dottrina del Principio dal quale tutto procede ritornando ad esso per forza d’attrazione, questa forza che è principalmente erotica e che coglie lo spirito in un’estatica meraviglia per il sovraessenziale ed inesprimibile bello mediante cui lo stesso essere, effondendosi, attira. Se è dunque vero che il divino in noi coincide con il divino del Tutto, la stessa provvidenza si esplica anche nell’eros che ad essa si rivolge intrinsecamente mosso dalla sapienza che regge le cose. Per questo, con intensa meraviglia, Plotino potrà affermare «Le anime e le opere sono tra loro in accordo, al punto che da esse deriva un’unità sia pure risultante da opposti, Tutte le cose che sono infatti scaturite da un’unità convergono per necessità di natura verso un’unità in modo che quanto spuntò diverso e nacque opposto sarà tuttavia inserito, per il fatto di derivare da un’unità in una coordinazione unica»13 Filosofia dell’ebbrezza, quella di Plotino è anche una filosofia della fruizione contemplativa della bellezza per la quale ogni essere è la forza irradiante di Dio e effusione della sorgente primeva,per la quale ogni uscita è per trovare la via del ritorno, la via della semplicità totale che è termine e compimento. E’ facile, dunque dedurre, quanto questo pensiero sia propedeutico alla prima grande mediazione culturale fra Cristianesimo e filosofia greca, una sorta di pia philosophia avente un climax orante, diremmo, e non solo per la sete dell’Uno ma anche per la capacità di farsi uno nell’Uno. Se è possibile tentare un accostamento letterario che meglio dica l’idea plotiniana di provvidenza, potremmo citare la lirica Burnt Norton, tratta dai Four Quartets di Eliot là dove recita: «Noi muoviamo al di sopra dell’albero/in moto/nella luce sopra le foglie/istoriate/e udiamo sul suolo bagnato/lì sotto il veltro e il cinghiale/continuare la trama di sempre/ma riconciliati con gli astri/Al punto fermo del mondo che ruota/né corporeo né incorporeo/ne muove da né verso; al punto fermo/là è la danza/ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità/quella dove sono riuniti il passato e il futuro, né moto da, né verso»14 Ecco compiersi la drammatica vicenda della pronoia, universale e ad un tempo posta nel cuore del divenire delle cose, alla confluenza dell’essere in quiete e della sua misteriosa danza dentro il moto delle cose ad un tempo transfughe ed in patria nella polifonia dell’Uno. 6 7 2: Ero ogni giorno la delizia dell’Altissimo: figure della Provvidenza fra l’uno e l’altro Testamento Prima di entrare in medias res occorre specificare subito una questione assolutamente rilevante. La parola Provvidenza non compare nei testi biblici, se non in esigui casi, di cui, pure ci occuperemo, e, comunque, non ha una matrice ebraicobiblica. Ciononostante la traditio della Chiesa ha fatto sua questa idea. Si potrebbe ascrivere questa fede ad una sorta di subtilitas applicandi che, presupponendo l’esemplarità di Cristo nella Creazione, il Suo ruolo soteriologico nell’Incarnazione come liberalissima disposizione di Dio a parlare in modo definitivo nel Verbo e a rendere manifesto il Mistero taciuto per secoli, e quello ricapitolativi del mondo, riconsegnato al Padre come sancisce l’Apocalisse, ha concluso che è la stessa Divina Volontà a sorreggere il mondo, a volerlo salvo, a volgere al bene ogni inclinazione contraria. Dunque se la Rivelazione affonda la sue radici nella salvezza e se la salvezza stessa si articola nel progetto della Redenzione presentando, già nel Primo Testamento, il Dio in esodo nell’esodo del Suo popolo, questo stesso disegno che si snoda nel tempo era prestabilito nell’eterno, in Principio, in Cristo. Denunciamo, così, un’ermeneutica tipologica secondo cui tale lettura dell’A.T si snoda a partire dal compimento che il N.T sottende; in Cristo, il mondo era già redento. Per questo, Scoto Eriugena parla di una natura che non crea e non è creata, intendendo il finalismo cristologico per cui la creazione è ricomposta in Dio attraverso lo Spirito. Tale natura increata e non creante è l’eschaton in quanto riposo del dies septimus. In tal senso, dovremmo anche specificare quanto segue: qualora si sia legittimati ad usare il termine provvidenza nella sua espressione denotativa (Bedeutung) esso non attiene ad un principio astratto, quanto ad un’economia soteriologica che si fonda sul Dio loquens, che è in sé relazione, il cui intimo dialogo è volto ad estrinseco esso nasce da un’esperienza di fede più che da un’elaborazione protologica, laddove si intende per fede l’emunah, che implica un atto di confidenza assoluta e di assoluta fedeltà15 fides ex auditu, e ciò che si ascolta è la Parola dell’Alleanza divina che si rinnova nella storia. Questo ci permette di spostare l’asse interpretativo dall’istanza cosmologica offertaci da Plotino a quella storica offerta dal mondo ebraico, dove la Rivelazione non è una muta proodosis ma Parola interpellante, dunque bisognosa di accadere nell’ascolto e nel tempo umani. La sua eternità si esplica via via che l’uomo, nella sua storia e nella sua esperienza scopre l’identità del Dio che libera con il Dio che creando in modo continuo tiene in vita la creazione. In ultima analisi l’idea di Provvidenza non sarebbe che il tentativo di una traduzione in greco del Grande Codice biblico. Su questo orizzonte, riteniamo possibile riferirci ad un testo dell’ A.T., un testo di tipo sapienziale che testimonia questa sorta di contaminazione, anche se non si può affatto trascurare la collocazione cronologica, ovvero il fatto che la redazione è successiva ai libri storici, a dimostrazione che la riflessione sulla creazione, sul destino ultimo della vita umana e cosmica, la convergenza sull’identica personalità del Dio dell’Esodo e del Dio del Genesi, nascono da un’elaborazione postuma dovuta all’effettiva esperienza della liberazione ex parte Dei. Ci riferiamo al Libro della Sapienza, specie in quanto concerne la meditazione sulla sorte dei giusti, che pure hanno vissuto la loro giustizia nella persecuzione dei nemici. Qui, in effetti, l’opera divina inserita in primis nella storia della liberazione del popolo, si rivela come quell’altissimo consiglio con il quale è stata concepita per la vita eterna la creaturalità dell’uomo, dato che le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà (Sap. 3,1). Essa, inoltre sarà capace di illuminare lo stesso mistero della morte, che pure – in questa economia umano-cosmica-è entrata nel mondo per invidia di Satana, così che in virtù della 7 8 Sapienza l’anima di colui che muore è gradita al Signore, perciò egli lo tolse in fretta da un ambiente malvagio. Resta comunque il fatto che la parola provvidenza non ricorre mai, nonostante l’allure del libro biblico denoti una certa familiarità con l’argomentazione filosofica tipica della civiltà ellenistica. Il che ci conduce ad evidenziare come la categoria di provvidenza ricorrente in ambito cristiano possa considerarsi una sorta di prova ex-post, dato che il Dio dell’Esodo, il Liberatore dalla schiavitù del popolo, non potrebbe non essere anche Colui la cui Sapienza crea, custodisce, fa ritornare a sé. Da questo punto di vista, anche lo stesso esilio storico assurge a metafora di un esilio lontano dal Signore destinato a terminare nel ritorno a Lui. Notevole è il fatto che il libro si apre con una riflessione sulla sorte dei giusti, su quella dei malvagi e sulla forza sovversiva divina che è capace di ristabilire l’ordine che procede dal Suo stesso Consiglio. Dal Cap. 7, però, la riflessione subisce un mutamento: da meditazione esistenziale, forse talora parenetica, viene ad assumere un tono maggiormente filosofico, protologico. Così recita, infatti, il testo «In essa c’è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante, senza macchia, terso, inoffensivo, amante del bene, acuto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile sicuro, senz’affanni, onnipotente, onniveggente, e che pervade tutti gli spiriti intelligenti, puri sottilissimi»16 Due elementi catturano l’attenzione: 1) lo spirito come principio perfetto in sé 2) il suo carattere diffusivo Questo è sufficiente a ravvisarvi il principio creatore del mondo. Il testo, però, continua ancora «E’ un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente, per questo nulla di contaminato in essa s’infiltra. E’ un riflesso della luce perenne Uno specchio senza macchia dell’attività di Dio E un’immagine della sua bontà. Sebbene unica essa può tutto Pur rimanendo in se stessa tutto rinnova E attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti»17 Non può di certo sfuggire una certa assonanza con il carattere processivo dell’Uno plotiniano ed un’andatura maggiormente speculativa, specie per ciò che concerne la capacità di rinnovare tutto pur nell’immutabilità del Principio Supremo. Tuttavia il testo ostende una novità. Verso la fine scrive che la Sapienza dimora nelle anime sante, forma profeti. Crediamo che questo quid novi non sia altro che il carattere linguistico, il che ci riporta pienamente nel mondo ebraico-biblico. Tale spirito della Sapienza è la Parola di Dio, non le emanazioni che ascendono e discendono nel dinamismo dell’Uno secondo un ordo logico. Si tratta del Verbo della Creazione, inizio sonoro del mondo che risuona sempre nuovo per voce dei profeti, per l’appunto plettro vivo di questa Sapienza. Molto più che un’emanazione, la Sapienza che plasma gli amici di Dio e i profeti apre lo spazio alla storia, all’eterno nel tempo. Per questo i libri profetici sono prossimi a quelli sapienziali, ma ne rappresentano una sorta di subtilitas applicandi, dato che tale Parola viene esplicata come la promessa del Regno messianico. Questo, però, ci riporta alla tesi di partenza. L’idea di una provvidenza come ricapitolazione in Dio di tutte le cose e come ritorno a Lui dall’esilio fino alla piena comunione del Regno instaurato non può che incardinarsi nell’idea di 8 9 Alleanza;altrettanto necessita del pieno dispiegamento della Rivelazione di Cristo come cifra del Regno presente. Crediamo opportuno affiancare questi testi ad un altro assolutamente mirabile, proprio per questo bisogno di percorrere l’uno e l’altro Testamento nel segno di una unità articolata e tipologica. Si tratta del prologo del Vangelo di Giovanni18 «Al Principio la Parola già esisteva, e la Parola si rivolgeva a Dio e la Parola era Dio. Essa al Principio si rivolgeva a Dio. Mediante essa tutto cominciò a esistere, senza di essa non cominciò ad esistere cosa alcuna di quanto esiste. Essa conteneva la vita e la vita era la luce dell’uomo: questa luce splende nella tenebra e la tenebra non l’ha soffocata. Comparve un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni; egli venne per rendere testimonianza alla luce, cosicché per mezzo suo tutti giungessero a credere. Questa luce era la vera, quella che illumina ogni uomo giungendo nel mondo(…)» I primi tre versetti costituiscono un richiamo alla Sapienza, così come viene rappresentata nel libro dei Proverbi, ovvero come la narrazione o l’esplicazione del Progetto che Dio vuole realizzare. La Sapienza stessa dice di essere principio delle vie del Signore. Eppure anche qui sembra esservi un’articolazione ab intrinseco. Il Logos è il Progetto della Creazione, anche se- come asserisce l’esegesi di questo passo- il termine può essere intercambiabile con quello di sophia, esso viene formulato ed eseguito nella Parola, dunque il richiamo è qui al Genesi. Per questo essa è prima della fondazione del modo. E’ importante qui sottolineare l’opzione linguistica si rivolgeva, perché richiama la familiarità semantica con fu rivolta, espressione usata per indicare l’elezione profetica. Dunque il progetto della creazione è esplicato nel mondo come vita che è luce dell’uomo, e di questo progetto si dà testimonianza nel mondo. Questo mirabile testo sottende un’economia creatrice ma anche salvifica, sancita dal conferimento del potere di diventare figli di Dio, perché da Dio stesso, non da carne e sangue generati. In ogni caso, anche qui non si fa riferimento all’idea di provvidenza, così come la conosciamo in Plotino, quanto ad una Sapienza divina invisibile che si è articolata nel tempo come narrazione del Mistero, in quanto la Parola divenne uomo e si accampò fra noi. Tale Sapienza della Parola è ora persona, la persona di Cristo. Qui si ha davvero un punto di non ritorno: la carne di Dio è cardo salutis, dunque si ha una connotazione del tutto cristologica, per la quale ogni evento è spiegato secondo l’ermeneutica del novum che illumina il veterum, e questo novum è il Cristo resuscitato, ma se la Resurrezione è l’eschaton, secondo una teologia della finalità della storia, questo eschaton era già realizzato al Principio, nel Logos sarx egheneto. Questo stesso tema ritorna negli inni cristologica paolini, per esempio quello contenuto nella Lettera ai Colossesi: «Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; perché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili(…) 9 10 Tutte le cose sono state create Per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose E tutte sussistono in lui Egli è anche il capo del corpo cioè la Chiesa, il principio, il primogenito di coloro che resuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio Di fare abitare in lui ogni pienezza E per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli19 Anche in tal caso, la cristologia presentata riguarda la comprensione della Chiesa ellenistica di Cristo come l’incarnazione del Figlio preesistente da cui procede la stessa sorte storica e cosmica, per questo è figura cristica la stessa Sapienza che, nel libro dei Proverbi, dichiara di essere stata creata dal Signore all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin dal principio,o di essere con lui come architetto, la sua delizia ogni giorno, dilettandosi davanti a lui in ogni istante. Forse si potrebbe desumere che l’ellenismo abbia giocato un ruolo fondamentale nell’induzione della provvidenza come re-institutio in integrum di quanto era dall’eterno,così che la Sapienza dell’Altissimo, riposando nella creazione ne rivela la sorte stessa dei santi nella Luce. Abbiamo cercato di abbozzare un contesto di tipo teologico in modo tale da porre l’accento su come una così feconda contaminazione culturale sia capace anche di influenzare l’uso linguistico che contrassegna il codice di una determinata cultura. Tuttavia, sarà altrettanto necessario fissare l’attenzione tanto sull’etimologia, quanto sulla filologia per rendere ancora meglio ragione di come l’istanza cristologica sancisca, in effetti, l’idea di una pre-visone di Dio riguardo alla salvezza della creazione, ove pre-visone è intesa come un vedere prima, per questo i Padri della Chiesa sostengono che in Adamo Dio prevedeva Cristo, ma anche come una sollecitudine nei riguardi di qualcuno. Ci avvarremo del Lessico del Nuovo Testamento redatto dal Kittel per analizzare la ricorrenza del termine20Il verbo che indica la provvidenza- ed anche il fatto che essa sia espressa come un atto più che come una categoria metafisica non è per nulla trascurabile- è pronoeo, che traduce di fatto darsi pensiero per i propri cari. In tale significato ricorre p. es in 2. Cor 8,21, o 1 Tm 5,8, ma anche in Sap 6,7 ove si fa riferimento esplicito ad un Dio che ha cura egualmente di tutti. Tuttavia, uno dei testi ove compare la dizione provvidenza eterna è Sap.17,2 ma si dovrà notare che qui essa assume un’istanza escatologica, significando l’atto di scrutare e svelare i pensieri dei cuori da parte di Dio. Non solo, anche il Vangelo di Luca riporta due brani poetici che, pur non nominando questo termine espressamente, rinviano a questo senso messianico ed ultimo; intendiamo, per esempio, il Magnificat, (Lc. 1,46-55) ove l’Alleanza del Dio liberatore si traduce in misericordia per ogni generazione che ricolma di beni gli affamati, o il Benedcitus, (Lc.1,67-79) il mirabile canto di Zaccaria in cui si rende gloria al Signore che viene come luce a rischiarare chi dimora nell’ombra della morte. Tuttavia, si dovrà, qui, ammettere che tale concetto di provvidenza è essenzialmente collegato all’idea del Regno, tanto da dare carne all’istanza messianica che attraversa il mondo biblico. In questo senso, essa potrebbe fornire una connessione fra A. T e N. T, dato che il Regno di Dio si rivela nella persona Christi. Basta leggere la meravigliosa pericope contenuta nel Cap. 5 del Vangelo di Matteo, noto come il manifesto programmatico del messianismo di Gesù, quella in cui si dice che i gigli del campo e 10 11 gli uccelli del cielo sono vestiti di gloria dal Padre celeste il quale ha tanta cura dell’erba che viene gettata da non poter che essere sollecito alla necessità dei Suoi figli. Si dovrà, però, riflettere in particolare su un versetto, il 33. che recita: ”Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”21 In effetti, il Regno che viene è contrassegnato dalla pace messianica e dalla pienezza escatologica, ma il Vangelo di Matteo pone in luce che questo eschaton si realizza oggi nella persona di Gesù in quanto Egli ha già pronunciato il discorso programmatico del Regno, le otto Beatitudini. Chi si pone alla sequela di Gesù ha già scoperto in Lui l’azione del Regno di Dio (malkut Jhwh), scoprendo altresì il Progetto originale di Dio, come annunciato dai profeti. Ecco, dunque che l’umiltà, la pace, la misericordia,la profezia, la sete di giustizia divengono tutte azioni che attestano la Presenza del Regno articolata fra il già del Progetto divino, il non ancora dell’eschaton; fra queste due figure si pone una sorta di diastasi definibile come il kairos prolettico dell’incidenza del Regno nella storia. Se le cose stanno così, è chiaro che l’istanza provvidenziale assurge a criterio ermeneutico di una teologia della storia la cui pregnanza si può ravvisare nel messianismo secolarizzato delle utopie la cui lettura filosofico-politica è attagliata sul retaggio ebraico-biblico. 3: L’impulso in avanti del progresso: escatologia e secolarizzazione Che l’espansione del Cristianesimo abbia implicato lo sviluppo di una teologia e di una filosofia della storia risulta facilmente comprensibile per il fatto che proprio la cultura biblica ha inaugurato una nuova comprensione della storia intesa come succedersi di generazioni, investite dalla memoria dell’Alleanza divina e chiamate all’istituzione di un presente volto al futuro escatologico, ma a sua volta riferito ad esso perché trainato da questo stesso apax non più cronologico bensì kairologico. Dunque la storia non è più, come nel mondo greco il luogo dell’accidentale, del possibile, del particolare e quindi del non necessario, anzi essa diventa paradigma di universalità in virtù dello stesso invio profetico che l’Alleanza divina implica. Si parla di locus theologicus, dunque di luogo dell’accadere della Verità di Dio. In essa si esplica l’azione di Dio che volge al bene ogni cosa. E’ stata proprio questa idea a suggerire la metafora topologica di una linearità del progresso finalizzata al kairós del Regno. In realtà, in una siffatta concezione la categoria di ripresa è più idonea che quella di progresso a designare un perfetto profetico che, essendo meta-temporale è capace di imprimere un senso al tempo.22 In ogni caso si è adottata l’idea del progresso come punto di assoluta discontinuità, cifra del novum che sposta in avanti il compimento, come una sorta di freccia scoccata. D’altro canto, però, non si può escludere che il Cristianesimo abbia dato un vigore affatto nuovo alla domanda sul senso della storia, basti pensare a quale preponderante ruolo assuma nelle Scritture Neotestamentarie l’attesa della Parusia e quale esigenza di riflessione implichi, a partire dalla Rivelazione totalmente compiuta nella Pentecoste, sul senso del qui e dell’ora. E’ naturale giungere ad una filosofia della storia atta a mettere in gioco questi stessi interrogativi,nonché a lasciar emergere un senso spirituale capace di interpretare l’esser-ci. Ammettere questo, tuttavia, equivale ad individuare una sorta di messianismo secolarizzato23 per il quale la storia intesa come progresso non altro sarebbe che lo svolgimento dello spirito come logos universale orientato ad un telos. Paradigma ineludibile è quello che troviamo nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel nella quale le figure transitorie entro cui lo Spirito sperimenta il suo carattere di divenire non sono che un procedere logico verso la perfetta rivelazione dello Spirito Assoluto. Non è affatto un caso che l’antico studente di teologia dello Stift di Tubinga assuma il concetto teologico della Rivelazione e addirittura il modello della circuminsessione 11 12 trinitaria per spiegare il carattere spirituale del divenire della storia e per individuarne la portata universale. Per converso, non è un caso che la lettura hegeliana inserita come rilettura dell’orizzonte trinitario sia esaminata con estrema attenzione da alcuni esponenti della teologia contemporanea; non possiamo non citare l’italiano Bruno Forte che nella sua opera Trinità come storia sottolinea che: «La malia del Dio hegeliano resta tuttavia immensa: la “storia” di Dio e la “storia in Dio” appaiono concetti la cui fecondità non è più trascurabile. Ne è esempio la teologia trinitaria di Karl Barth; se netto è il rifiuto della riduzione hegeliana dell’Assoluto alla storia, colta come un’indebita assolutizzazione dell’atto della ragione e dunque come una forma suprema di idolatria, convinta è l’assunzione della storia in Dio, la cui vita è professata a partire dalla rivelazione come movimento dell’unico soggetto divino nelle tre divine maniere di essere»24 Se lo sguardo profondo del teologo italiano ravvisa nel sistema hegeliano l’assunzione della storia in Dio, operazione assolutamente legittima in virtù dell’evento di grazia dell’Incarnazione, è pur vero che quello altrettanto penetrante del grande autore della teologia dialettica mette in guardia contro l’Oggetto immenso hegeliano, caduto in effetti nella malia del logos. Tuttavia il concetto di storia in Dio ci è prezioso per poter spiegare l’idea di progresso come secolarizzazione dell’idea della provvidenza, dato che esso designa una dialettica intrinseca nella storia stessa, tale che i momenti di negazione divengono essi stessi tappe del superamento (Aufhebung) perché originariamente comprese in una economia della totalità del senso. A ben vedere, tuttavia, si giunge ad un passaggio sottile quanto notevole per cui alla fine è il progresso stesso a divenire cifra dello Spirito capace di rendere ragione di ogni momento; questo viene però ad assurgere ad istanza giustificazionista che in Hegel viene definita List der Vernunft. Per questo motivo Hegel procede in qualche modo ad una immanentizzazione dell’ordo trinitario proprio della teologia cristiana, di cui condivide, però, la struttura escatologica e la portata universale ed infinita. Ciononostante non si può escludere che emergano in Hegel due coordinate logiche perché se da un lato troviamo la storia in Dio, dall’altro si ravvisa Dio nella storia in quanto Spirito che la illumina nel suo procedere. Questa è una sfida filosofica di cui si dovrà rendere ragione se si vuole comprendere in maniera piena il connettersi di provvidenza-progresso, l’una come possibilità che il kerygma abbia una portata ermeneutica, l’altro come possibilità di fare i conti con la sua anormalità logica. Questo significa che se,come dice Barth, Dio è Dio e il mondo è il mondo, è pur vero che il pensiero, nella consapevolezza di questa infinita differenza qualitativa, deve assumersi il compito paradossale di parlare di Dio, e quindi presentarsi nel suo carattere ermeneutico; d’altro canto non può porsi come medium decisivo della Rivelazione operando un’assimilazione. Impieghiamo il termine assimilazione perché siamo certi che nel pensiero di un messianismo secolarizzato che procede da Hegel fino al giovane Marx ed alla lettura calda del marxismo che fa nel Novecento Ernst Bloch non venga mai esclusa la cifra teologica, anzi è sulla base di un suo impulso pur immanentizzato che si origina la capacità critica e profetica della riflessione stessa25. Hegel è stato preso come punto nodale per rendere maggiormente ragione di quanto l’evento rivelativo cristiano possa incidere sulle stesse condizioni di possibilità di un pensiero che, da un lato assuma seriamente la storia, dall’altro cerchi di leggerne l’orientamento ad una finalità di riconciliazione e di pienezza. Dunque Spirito e storia non possono che essere connessi ed è forse il progresso che rende visibile questa connessione, nella sua celebrazione delle magnifiche sorti dell’uomo secondo un’accezione illuministico-romantica. Per questo motivo intendiamo leggere il progresso nella sua coniugazione con il pensiero utopico, la cui stoffa rossa è intessuta della trama della speranza a sua volta originata da un inequivocabile principio messianico e la cui portata critica è forse 12 13 ancor più pregna di una nostalgia del totalmente altro da farci chiedere con insistenza quale spazio si possa fare al divino, nuovamente accolto nella nudità del suo annuncio liberato da ogni contaminazione sacrale. Dovremo citare necessariamente il millenarismo con la sua ansia di escatologia realizzata da tentare l’experimentum Regni, specie nel suo connubio con il marxismo caldo di Ernst Bloch che cerca di ritornare ad un’ermeneutica biblica percorrendo a ritroso la via, dalle risposte dogmatiche, al dominio delle domande critiche o la Scuola di Francoforte con la sua ebbrezza di redenzione come cifra ermeneutica della storia e della conoscenza. Pensieri questi tanto inediti quanto assolutamente estranei ai sentieri dogmatici battuti dal religioso e pure così preziosi a far ripensare il carattere incarnativo della storia del Dio con noi tanto da aver dato un nuovo impulso all’ermeneutica teologica, inducendola a trovare una nuova traducibilità dell’eterno nel futuro, del Regno nell’esodo, dell’Incarnazione nello sviluppo della creazione, della Resurrezione e dell’eschaton nella speranza. D’altra parte questo risulta fecondo allo stesso pensiero capace di ravvisare nella speranza l’ipotesi di una nuova ontologia, nel messianismo la cifra di una verità inoggettivabile nonché la riserva critica di una nuova prassi 3. 1: Ciò che era luce interiore diviene fiamma bruciante: Messianismo teoretico e marxismo in Ernst Bloch Nel suo intenso volume su Teologia, Ideologia, Utopia, Italo Mancini definisce la visione di Ernst Bloch sinfoniale26 perché in realtà la filosofia blochiana è una sorta di grande sinfonia arpeggiata sulla speranza, ma per l’effetto di una singolare sinestesia essa evoca un rosso calore che è a un tempo una luminosità diffusa in tutte le cose, come risvegliate alla loro coscienza. Ecco dunque che la grande topologia provvidenza-progresso si fa più nitida; stendendosi su due coordinate scandisce una direzione ascensionale, quella della redenzione di adorniana memoria, per cui solo può il pensiero superarsi, quella della speranza che assurge ad un impulso di avanzamento. Ecco dunque l’experimentum mundi come experimentum Regni, in alto ed in avanti. La luce interiore della redenzione che scandisce il paradigma di un dies septimus è, nella dimensione orizzontale della storia, la fiamma bruciante che ridona il mondo nella sua consumata giustizia. Non è certo assente da qui l’idea di un germe profetico che riecheggia i gesti annunciatori dei profeti. Per questo motivo si può altrettanto legittimamente definire la sua riflessione filosofica un messianismo teoretico capace di accendere nell’alveo della vita la coscienza utopica, presentandosi con un contrassegno così tanto caro a Bloch, quello del novum, che è insieme quello dell’ultimum, dove la metafora della resurrectio naturae del giovane Marx si coniuga con quella agostiniana del dies septimus del riposo in Dio, il giorno nel quale nos ipsi erimus. Da un lato categorie marxiste e dall’altro categorie bibliche fanno si che Bloch si attesti su di un orizzonte inedito, dove, però, la dicotomia esodo-regno si associa a quella provvidenza-progresso. Ne Il Principio Speranza Bloch stesso presenta il contrassegno ineludibile del suo pensiero: «Il sapere, di cui hanno bisogno il coraggio e soprattutto la decisione, non può però avere la forma più frequente di quello finora avutosi, cioè una forma contemplativa. Infatti il sapere che è solo contemplativo si riferisce necessariamente a cose già concluse e perciò passate ed è impotente nei confronti del presente e cieco rispetto al futuro(…). Il sapere necessario alla decisione ha, sensatamente, un altro modo: un modo non soltanto contemplativo ma piuttosto uno che va con il processo, che cospira in maniera attiva e partigiana con il bene che si va elaborando, cioè con la dimensione del processo che è degna dell’uomo»27 Il carattere processuale di questo sapere non può non attrarre l’attenzione. Esso, infatti, acquisisce la capacità di porsi come verum in quanto il suo bonum si coglie 13 14 nell’ordine delle cose come compimento a quanto è degno dell’uomo. Davvero non sfugge il tono per qualche verso annunciatore, che riecheggia l’idea di un’umanità liberata ma anche di un mondo redento. Una seconda caratteristica è certo quella temporale. Anche Bloch ritiene che una comprensione ontologica dell’esserci si dia nel tempo, in realtà, però, la sua ontologia è quella di un Non ancora, tratta fuori dal futuro come senso del presente. La cifra del già in Bloch è latente, perché quest’ultima potrà essere chiarificata a partire dalla luce promanata dal futuro. Se di materialismo dialettico si deve pur parlare, non si può non tenere in considerazione che la materia di Bloch è concepita secondo quello che lui chiama aristostelismo di sinistra, facente capo ai commentatori arabi dello Stagirita i quali vi colgono quella immensa dynamis che non permette mai la chiusura, dunque la materia è l’impulso in avanti in virtù del messianismo che promana dal futuro. Forse per Ernst Bloch è possibile impiegare la figura dell’Angelus novus di Klee, le cui ali dispiegate alla tempesta che soffia dal Paradiso impediscono la sosta, l’indugio sul già stato. La materia stessa è la possibilità reale verso sempre nuove forme. Per questo motivo, Italo Mancini sostiene che l’incantamento della materia in Ernst Bloch presenta delle assonanze con la teologia dell’universale personale di Teilhard De Chardin. Essa è una sorta di corpo vivo che contiene tutti gli impulsi di crescita e di possibilità di una creazione e di un uomo rimasti ancora absconditi, di cui il socialismo può e deve essere la chiave ermeneutica. Qui si pone la questione del marxismo blochiano, la cui interpretazione gli ha guadagnato sospetti dalla Germania orientale del tempo, e la cui ricaduta nel suo pensiero contribuisce ancora di più a delineare le categorie dell’esodo e del Regno. Quale marxismo? Si chiede giustamente Italo Mancini. La risposta a questa domanda suona utopia, ovvero Bloch invoca l’utopia per salvare il comunismo28. In ogni caso anche qui l’utopia è una figura paradossale da leggere oltre la semantica topologica, forse si può più adeguatamente applicare ad essa l’idea spinoziana di conatus, inteso però come impulso ed affetto, Affekt come recita il termine in tedesco, esso, infatti, è lo stesso principio che trae in avanti, ma non ci sembra che si possa sic et simpliciter trattare di un trascendere senza trascendenza. Come giustamente osserva Moltmann nella prefazione italiana agli scritti di filosofia della religione di Bloch, tale trascendenza non è denominata o definita, ma rimane una cifra critica che interpreta la storia interpellandola, in modo tale da non renderla mai un sistema chiuso, il superamento che Bloch individua è nella direzione di una trascendenza che talora, debitore delle utopie chiliastiche delle eresie cristiane 29chiama in tedesco Christusimpuls, impulso cristico. Basterebbe questo, a nostro avviso a lasciare il principio-trascendenza blochiano come un concetto problematico. Quanto alla questione del marxismo, ivi direttamente connessa, si dovrebbe tenere conto di un passo tratto dalla celebre opera Ateismo nel Cristianesimo «la Bibbia può essere letta anche dalla visuale del Manifesto comunista ad evitare che il sole ateo diventi sciocco»30 Se torniamo alla metafora topologica, possiamo certo evidenziare come è proprio l’in alto la cifra critica che orienta l’in avanti, ma questo legittima l’affermazione secondo cui il retaggio biblico si traduce nella possibilità di un’ontologia critica che pone nel non ancora la capacità di sperimentare il mondo redento. L’allusione blochiana al dies septimus è un chiaro indizio. In Bloch l’utopia del progresso assume un fascino particolare in virtù di questa colorazione escatologico-messianica il cui debito biblico è del tutto evidente, anzi l’originalità di tale riflessione teoretica sta anche nel fatto che grazie al Bloch non solo la Croce di Cristo non è evacuata ma diventa anche una pista ermeneutica di tutto rilievo per assumere la storia in senso critico. Così scrive il celebre esponente del marxismo caldo nell’opera dianzi citata 14 15 «L’onda finale sovversiva ed escatologica è travolgente, con l’exodus intrapreso, con il regno utopico del tutto novum della sponda, fino alla frase di Agostino, Dies septimus nos ipsi erimus, nel giorno settimo che non è ancora venuto saremo noi stessi nella nostra comunità come nella natura»31 In tal modo si colora la trama della speranza, mostrando un accento religioso che trasforma però la religione in eredità viva, capace di dare un impulso alla storia, non tanto alla luce del passato quanto nella coscienza di vivere nel futuro, che è effettivamente il terreno dove il presente è seminato, dove germoglia e cresce. Che poi la categoria temporale del futuro giochi con quella locativa del Regno arricchisce a nostro avviso la semantica già complessa e sovrabbondante dei due termini provvidenza e progresso, ma forse, invitando da un lato il pensiero ad attestarsi sull’ulteriorità, offre anche alla teologia l’opportunità di una nuova coniugazione dell’eterno con il dinamismo del futuro e della speranza, così che entrambe si trovino nel fecondo intreccio che la loro stessa storicità offre dell’alleggerimento della terra. 3.2. Etsi Deus daretur: l’espressione di una nostalgia «Così ogni volta che un poco d’infinito è nella vita, torna nella mente l’immagine dell’Incarnazione: così tutto il lavoro della civiltà, della vera Civiltà è una continua immagine, una conseguenza, anzi una vera conseguenza dell’Incarnazione. Senza Incarnazione niente si sarebbe avuto, e nessun ordine, e nessuna traccia di Infinito sarebbe potuta insinuarsi nella fitta trama delle cose» (G. Capograssi, Lettera del 17 giugno 1919) L’esergo posto all’inizio del paragrafo riassume in maniera magistrale la paradossalità del pensiero novecentesco che si trova ad intenzionare l’ulteriore dentro le trame della sua ragione ferita, basti solo pensare che il giovane Lukacs, colpito dall’ineluttabile dimensione tragica dell avita invocava un miracolo come pienezza di senso, come salvezza. Tale identica Stimmung attraversa la Scuola di Francoforte, specie nelle espressioni più felici di Adorno ed Horkheimer, i quali giungono alla consapevolezza che la cifra della salvezza deve poter essere una cifra filosofica, altra dall’insufficiente categoria di un progresso lineare che infine avvolge la ragione nei meccanismi del mondo amministrato. Anche l’illuminismo ha fatto destare l’uomo nella sua alba grigia, la demitizzazione ha mostrato il volto bieco del pensiero strumentale, l’assenza dei miti,in seguito alla distruzione operata dalla stessa cultura illuministica ha fatto spazio ad un progresso imprigionato in sé la cui metafora è la ben povera ed illusoria astuzia di Odisseo, condannato alla malia dell’anamnesi. Infine anche il progresso lineare è maschera del mondo vero divenuto favola, l’invenzione di un altro mito, perverso, imposto dalla ragione calcolante. Se il progresso scientifico doveva sancire la secolarizzata fede in una crescita progressiva, non poteva che essere, in questa ottica, l’avvenire di un’illusione. Da tale punto di vista il pensiero critico ha bisogno di un postulato che esprima la sua nostalgia, una sorta di simbolo anticipante, un noumeno per cui si dà al pensiero la fruizione silente di ciò di cui non si può parlare, o forse di ciò che la ragione non può dedurre, ma attendere al di là del suo stesso misurare ed asseverare. Se c’è una civiltà che ha sete di una perfetta e consumata giustizia, se c’è un uomo che grida il suo voler essere liberato dal suo corpo di morte, allora deve esserci la possibilità di un Principio protologico che a questo dispone ogni evento storico: non nella dialettica dell’Aufhebung ma nella misteriosa cura di ogni cosa. Tale protologia non ha nome Incarnazione in questa filosofia: ad essa non è dato esprimerla come un positum, ma sommessamente postularla in un metaforico come se, che quasi diventa una preghiera filosofica. Scrive Horkheimer 15 16 «Possano tutte le vecchie confessioni continuare ad esistere e ad agire confessando che esse esprimono una nostalgia e non un dogma»32 In questo senso la speranza è una cifra critica pur nel suo rinvio escatologico che, intenzionando l’al di là ritorna sull’la di qua come locus nel quale tale radicale alterità possa divenire sperimentabile, intuibile nell’impulso ad una vita più giusta, più bella, più affrancata dal dolore. Da un lato la cifra della radicale alterità, mentre dall’altro il recupero di una valenza politica dell’agire in base a tale intenzionalità della coscienza così che, come sostiene ancora Horkheimer nella sua memorabile intervista «una politica che non conservi in sé, per quanto in forma estremamente irriflessa, una teologia rimane, in ultima analisi,per quanto abile possa essere, speculazione»33 Se pur questo pensiero esprima una irrecusabile finitudine, se pur si fermi talora con disincanto sul fenomeno del mondo, esso ha occhi che vedono e scorgono oltre l’incertezza del fenomenico una luce che traluce dalla speranza; quasi lo potremmo formulare secondo l’adagio spero ergo ero. Qui non compare mai la parola provvidenza, eppure si intuisce l’autentica attesa latente dietro questa teoria critica «Teologia significa, qui, che il mondo è fenomeno, che non è la verità assoluta la quale solo è la realtà ultima. La teologia è- devo esprimermi con molta cautela- la speranza che nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola»34 Non si può non scorgere una risonanza profetica, quasi iobica oseremo dire, come emergente da una fede spezzata e sferzata, capace, però, di confessare nello scandalo e nell’apparente stultitia che il Redentore è vivo. Occorre però diffonderci anche su questa figura del Totalmente Altro, che assume assonanze bibliche tipiche della cultura ebraica. Il postulato del totaliter Alter corrisponde in qualche maniera al vedere di spalle, una sorta di teologica cognitio vespertina, Colui che si sottrae all’onnipotenza del visibile, la cui mancanza, però, è quanto fonda la possibilità del pensiero di un’ultima armonia, la stessa pensabilità di quanto smarrisce salvificamente la ragione in un’estasi del suo cominciamento. Alla luce delle istanze di Horkheimer si può capire meglio l’idea del noumeno kantiano e come quest’ultimo, pur non essendo soggetto alle categorie intellettuali, possa comunque fondare l’ordo dei fenomeni in un’architettonica magistrale. Dunque il totalmente Altro assurge a cifra di una rottura dell’eguale e dell’identico, è l’irruzione di una realtà nuova nella continuità del tempo che ne mostra tutte le sue possibilità impossibili per rifarci ad un celebre paradosso barthiano. Horkheimer ci fa rileggere, tramite le categorie ebraiche suggerite dal suo pensiero, la figura della provvidenza in una maniera nuova e feconda. Essa è l’impensato che si insinua nel cuore del pensiero, il paradosso che intenziona il suo avvento al di là di ogni cogenza dialettica, nel kairos intemporale che morde il tempo. Da questa soglia l’al di là si sporge incontrando la sporgenza dell’al di qua, si fa possibilità dell’evento atteso e pure inattendibile invertendo persino la trama della speranza nell’insperabile possibile 4. Il futuro di Dio: approdi teologici nel segno della provvidenza 4.1. Tra i tempi: differenza antropologica e teologia politica La categoria di storicità entrata in modo preponderante nel cuore del pensiero contemporaneo non ha di certo lasciato indifferente o inerte la teologia, che, anzi, ha potuto- sulla scorta di questa sfida- riflettere sulla sua vocazione a dire la Parola di Dio sul mondo cercando di auscultare a sua volta la domanda del mondo a Dio. Questo ha implicato un orizzonte ermeneutico sul quale essa ha dovuto rifarsi con Bonhoeffer la domanda radicale Che senso ha dirsi cristiani oggi e che senso ha Cristo. Così è stata messa nelle condizioni di ripensare il linguaggio per rendere il kerygma comprensibile e soprattutto per ribadire la Verità liberante del Vangelo. 16 17 Come dire che il pensiero con le sue istanze sempre più cogenti e pregnanti l’ha indotta a interrogarsi circa le condizioni di possibilità della comprensione dell’ annuncio, inducendola –com’è ovvio- a fare i conti con le figure stesse del pensiero che urgevano alla sua stessa intrinseca essenza. Naturalmente questo implicava la possibilità di rileggere in chiave nuova le categorie di fondo dello stesso annuncio cristiano. Un esempio paradigmatico è proprio quello di eternità riletto sullo sfondo della chiave del progresso inteso come carattere dinamico e finalistico orientato al compimento. In effetti, esso non ha più potuto implicare, sic et simpliciter, l’idea di un’immobilità estranea alla passione del divenire, o quella di una restaurazione escludente ogni mutamento, quanto, al contrario, un ingresso nel tempo che l’ha resa permeabile all’orizzontalità fino ad assumerla e a portarne la vocazione all’ascesa. La teologia ha avuto bisogno di decifrare le categorie antropologiche che si stavano sviluppando per rifondare il proprio statuto di depositaria della Parola e soprattutto di serva della parola intesa nel senso alto ed incarnativo. Per tutte basti questa suggestione di Bruno Forte «Fra il trionfo dell’identità assoluta e l’apologia della differenza, risolta nel dominio onnicomprensivo del nulla, fra il tempo dell’ideologia e quello del nichilismo, la causa dell’uomo esige che si cerchi una via altra e diversa, “fra i tempi”, capace di sfuggire tanto alla seduzione alienante del pensiero solare, quanto alla malia tragica della finale vittoria delle tenebre» Tale nuova via è a suo avviso: «l’antropologia dell’Assoluto che entra nella storia, rimanendo altro e sovrano rispetto ad essa, del Trascendente che viene ad abitare e a redimere l’esodo della condizione umana, della Gloria che si partecipa ai giorni degli uomini aprendoli al dono della vita eterna, dell’alleanza di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio. Anche così, una tale concezione sta “fra i tempi”,fra il tempo dell’eternità e il tempo della storia: è l’antropologia dell’eternità nel tempo»35 L’Assoluto che entra nella storia è un’interruzione che contraddice – nella sua accezione di dire il contrario- con la sua possibilità l’ordo dell’ingiustizia e fa emergere d’altro canto la contraddizione che inerisce ad una categoria come quella di progresso la cui linearità in avanti dovrebbe sancire l’ ad meliora. Dunque la stessa categoria di progresso viene criticamente assunta dalla teologia per rivelarne l’insufficienza quando seduce con il sogno titanico della tecnica, traducendo in termini di ferrea immanenza ed in termini di assoluto dominio la tensione al superamento ed al bene propria di tutta l’umanità Compito della teologia è , allora, rivelare il Nome della Differenza Antropologica che, inserendosi come segno di contraddizione della e nella già presente contraddizione ha la pretesa fondata di annunciare l’instaurarsi di questo Novum. Quanto della dialettica dell’illuminismo abbia ereditato la teologia cristiana è del tutto evidente nelle letture date dalla teologia della speranza di Moltmann, o da alcune teologie politiche, fra le quali quella di Metz e Pannenberg, tutte concentrate e convergenti sul senso del Regno come riserva critica che possa porsi come correttivo dell’ingiustizia in virtù dell’annuncio dell’Evangelo, ad intra quanto ad extra. Asserisce Metz «La chiesa deve comprendersi e dimostrarsi come la testimone pubblica e la trasmettitrice di una memoria sovversiva di libertà in mezzo ai sistemi delle nostre società protese verso l’emancipazione. Questa tesi si fonda sulla memoria come forma fondamentale di espressione della fede cristiana e sulla portata centrale e peculiare che in essa detiene la libertà. Nella fede noi cristiani attuiamo la memoria passionis et resurrectionisi Jesu Christi;credendo ci ricordiamo del suo amore nel quale il regno di Dio appare in mezzo agli uomini proprio per il fatto che i potenti hanno cominciato ad essere abbattuti»36 17 18 La preoccupazione fondamentale di Metz è quella circa la presenza della Chiesa nel mondo, che traduce altrimenti quell’intreccio di in alto ed in avanti assunto come presupposto della nostra tesi. Essa è una presenza memoriale, in quanto trova il suo senso nella celebrazione del Mistero di Cristo, e nella traduzione di questo Mistero eterno nelle opere e nei giorni dell’uomo. Così quanto l’uomo sperimenta della libertà e della grazia nella storia è ciò che la Resurrezione come paradigma del Novum ha già predisposto. Quindi si può parlare di una memoria sovversiva che non può ridursi ad una malia temporis actis, ma non può neppure chiamarsi fuori dalla storia, in virtù dell’economia della Rivelazione e della salvezza su cui si attesta. Proprio per questo motivo deve fare i conti con le possibilità che si schiudono nell’idea del futuro. Metz così prosegue: «Questa memoria Jesu Christi non è un ricordo che dispensi illusoriamente dalle audacie del futuro. Non è come una specie di controfigura borghese della speranza. Al contrario, in essa si attua una certa anticipazione del futuro, appunto di un futuro per coloro che sono senza speranza, appunto per i falliti e per gli oppressi»37 Nessuna fuga mundi, se mai un correttivo critico incidente nel mondo, che può essere definito come capacità di futuro in virtù della memoria Dei in Christo. L’anticipazione in virtù della memoria celebrata assume la caratteristica escatologica, ma di un eschaton che si realizza nella progressiva consapevolezza che esso è già presente perché l’Incarnazione è un fatto paradigmatico che si rinnova sempre come rottura dell’ingiustizia e assume il valore profetico della testimonianza ecclesiale nel mondo e per il mondo. Per questo motivo Johann Baptist Metz ritiene che l’eschaton sancito in questa memoria tanto sovversiva quanto liberante permetta una sorta di investitura delle generazioni in maniera trasversale che ci rende comunione persino con le vittime del passato in questa tensione verso la perfetta e consumata giustizia. Dunque non possiamo parlare né di linearità progressiva del tempo che si risolverebbe un trascendere senza trascendenza, né tanto meno di una ciclicità quanto invece di un tempo kairologico per cui il già avvenuto è l’evento del futuro della perfetta comunione, per cui la memoria è assunta come paradigma anticipatorio dello stesso mistero del mondo. Per questo motivo il paradigma è la celebrazione liturgica, nella quale l’Eucaristia è unità con il Christus passus e risorto, avvenuta una volta per tutte nella storia di Dio in Cristo stesso, avvenente oggi nel tempo dello Spirito, di cui la Chiesa stessa è custode, e sostanza della fede in ciò che sarà, nella rivelazione del mondo redento e fatto uno in Cristo. Non si può dunque dire che l’eternità della teologia cristiana escluda una lettura secondo la categoria del futuro, il cui debito è sicuramente la tensione umana ad una perfetta e consumata giustizia. Anzi, proprio questa memoria rende il teologo Metz consapevole della necessità di una teologia politica. Anche qui, però, occorre fare una precisazione onde evitare che, ad un timore per una presunta secolarizzazione come distruzione del religioso si risponda con una sacralizzazione che riporti in luce uno scandaloso steccato.38 Diamo voce a Metz stesso che, su questo, ammonisce in modo molto preciso. «Io intendo la teologia politica in primo luogo come correzione critica di una tendenza estrema della teologia attuale alla privatizzazione. Nello stesso tempo, la intendo positivamente come il tentativo di formulare il messaggio escatologico alla luce delle condizioni richieste dalla nostra società attuale»39 L’esigenza del teologo tedesco è quella di poter rispondere alle critiche dell’illuminismo, del marxismo che ravvisano nella religione un seme ideologico, così che è necessario che sia la stessa teologia a fare i conti con la stessa categoria di ideologia presentando l’Evangelo come liberazione anche dall’ideologia, se essa, come la definisce il giovane Marx, è la falsa coscienza indotta talora da una verità metafisica fondata sull’oggettivazione. Allo stato attuale delle cose, tuttavia, è la stessa teologia 18 19 che deve misurarsi con la stessa tendenza ideologica del progresso inteso come possibilità di fare dell’uomo il padrone assoluto, salvo poi riassoggettarlo agli idola fori del capitale, del mercato, della macchinazione industriale (E. Fromm). Quindi essa non può non annunciare il segno di contraddizione di questo mondo che è il Cristo salvatore,per dire che è già iniziato il nuovo eone. Metz ha messo in luce in modo inequivocabile come il Dio della Bibbia non si adatti al mondo borghese. E’ il Dio dell’Apocalisse, del tempo divenuto breve, il Dio della contraddizione e dello scandalo. Dunque tale teologia non può che porsi in termini critici dinanzi ad un interesse per l’emancipazione della ragione che ha assunto la bieca forma della ragione strumentale. Essa è già sull’orizzonte di uno scarto salvifico perché l’ideale di libertà e di emancipazione della Chiesa non può essere identificato né con la storia borghese dell’illuminismo né con l’apoteosi della storia rivoluzionaria di liberazione. Non solo, ponendo l’accento sul messianismo del futuro che il Cristianesimo propone, Metz asserisce «(…). Il futuro messianico della fede cristiana non si limita a confermare e a rafforzare il nostro futuro borghese precostituito, non lo prolunga, non vi aggiunge nulla, non lo sopraeleva né trasfigura, al contrario lo interrompe. “i primi saranno gli ultimi, gli ultimi i primi.»40 Tale interruzione sancisce il novum del Cristianesimo per cui il sale non può divenire scipito, ma anzi deve sciogliersi nelle pieghe della storia umana per continuare ad imprimerle una sorta di impulso cristico che coniughi il factum dell’Incarnazione tra filosofia e teologia come riserva critica ed escatologica ma che sappia anche farsi auscultazione paziente e silente del germe ancora celato di questo futuro già presente,incontro a noi. 4.2: Escatologia della promessa o del progetto del Regno La categoria della promessa non era ancora stata esplicitata, ma in questo momento il suo ingresso può aiutarci ad evidenziare come è sul suo fondamento che il correttivo critico della teologia può incidere nel tessuto della storia. Essa, infatti, si collega alla trama storica della speranza e, per usare un’efficace asserto di Moltmann, che sarà il compagno di viaggio fino al termine dell’excursus, delinea una rivelazione progressiva. Tale determinazione attiene all’assunzione della storicità come terminus ad quem della stessa Parola di Dio, che pure si rivela definitivamente, nell’ultimità dell’Incarnazione di Cristo, ma progressivamente quanto alla portata ermeneutica dell’esperienza di fede. Essa, infatti, è eterna, immutabile quanto al Progetto, ma capace di accompagnare i passi intenzionali dell’uomo verso il Regno, e quindi di assumerne dal di dentro le stesse esigenze, le stesse inquietudini, rispondendo ad esse di volta in volta con l’ultima Parola da sempre realizzata, la Parola della Promessa che è la Resurrezione di Cristo. Questa ultimità che è il puntuale avvenire dell’eterno si rende via via presente nella consapevolezza dell’uomo tanto della divinità della Rivelazione che oggi accade tra Dio e la sua storia nel mondo, quanto della persona Christi come telos della realizzazione delle attese. Prova di questa progressiva coscienza è proprio la redazione dei Vangeli in quanto rilettura alla luce di questo evento futurante, la Resurrezione, della trama ancora oscura della storia. In realtà quella Rivelazione è sempre in atto, oggi stesso, ed oggi stesso dice ancora la Sua Promessa realizzata e, al contempo, da realizzare. Dunque, la nozione di progresso sembra entrare in questa ermeneutica teologica, con la precisa semantica di una via via accresciuta capacità di comprendere la Rivelazione, per cui lo stesso kerygma possa di fatto risuonare eternamente nuovo ed il Vangelo trovare giovani e franchi legami con la storia. Il progresso, però, attiene qui alla coscienza di fede, specie di quella fede nella Resurrezione come definitiva instaurazione della signoria di Dio in Cristo, instaurazione già iniziata per l’azione dello Spirito nella Pentecoste, così che l’eschaton 19 20 del Regno è sempre un evento trinitario, così come trinitaria è l’economia della salvezza che volge ad estrinseco lo stesso Mistero di Dio (la trinità immanente)41. Da questo punto di vista la teologia della speranza non può che assumere i tratti anche di una teologia della storia, quindi non può non collegare fra loro l’eschaton come realizzata promessa e il tempo come ambito dell’attesa. Moltmann attesta magistralmente questa istanza nel suo Teologia della Speranza, confrontando la rivelazione in quanto possibilità di una teologia della Parola e teologia della storia in quanto applicazione, per così, dire della forza escatologica della Promessa che in questa stessa Parola si dona. Se, in un primo momento esse sono sembrate stare in un insanabile contrasto, probabilmente a causa di un’inadeguata ermeneutica, oggi tuttavia il loro riavvicinamento è avvenuto per un secondo aspetto dello svolgimento della “rivelazione come storia che aprendo lo spazio della traditio ha permesso di rileggere e comprendere la promessa escatologica a partire dal suo irrevocabile adempimento,così che la storia stessa è divenuta un locus theologicus di questa azione salvifica di Dio42 Moltmann contribuisce in modo inequivocabile ad indurre nella teologia cristiana tanto l’idea di una forte escatologia che è insita nella stessa economia trinitaria, quanto l’istanza di una storia finalizzata già al Regno per il fatto di essere stata assunta come storia di Dio per noi. D’altro canto la sua elaborazione risente fortemente del debito con la filosofia blochiana contribuendo anche a dare un nuovo impulso al dialogo. Se in Metz il dialogo Chiesa- mondo risulta imprescindibile, in Moltmann il dialogo fra teologia ed istanze del pensiero filosofico assume un ruolo fondamentale. La teologia della storia fondata sull’ermeneutica della Parola rende una nuova accezione dell’esistenza,la cui storicità è fondata sulla fede in un Dio che «conduce ad un futuro che non è mera ripetizione e convalida del presente, ma è la méta degli eventi che attualmente sono in movimento. La méta è ciò che dà significato alla migrazione e alle sue difficoltà; e la decisione odierna di aver fiducia nel Dio che chiama è gravida di futuro. Questa è l’essenza della promessa alla luce della trasmigrazione»43 Da notare come Moltmann parli di futuro e come questo conferisca un’accezione di progresso al suo argomentare. In ogni caso si può vedere l’abbandono di qualsivoglia categoria di linearità, dato che esso è discontinuo rispetto ad una possibile verifica del presente, è il futuro di chi fa nuove tutte le cose. Questa idea che ha attraversato tutto il mondo biblico come un filo rosso, è giunta fino al Cristianesimo primitivo come suo nucleo più autentico, legato all’attesa della parusia è stata elaborata ulteriormente una volta che, il ritardo di questa stessa parusia, ha fatto in modo di dover affrontare la diastasi della storia, così che si è pervenuti alla comprensione di un eschaton già presente, di una presenza nell’eternità esperibile nella celebrazione e nel culto in ispirito. Tuttavia l’eterno presente di cui la liturgia è effettivamente prolessi si inserisce come rottura, come memoria anticipatoria, se pur il termine sia ossimorica e paradossale, del presente continuo e lineare sottendendo quello spostamento in avanti sancito dall’adempiuta promessa del Regno. Per questo il dato della riflessione moltmanniana si intreccia inevitabilmente con le istanze della filosofia della speranza, ove il tempo futuro connota ontologicamente l’esistenza del qui ed ora. Lo stesso Moltmann fornisce,in appendice al suo testo fondamentale, delle preziose indicazioni quanto al suo interesse per la filosofia di Ernst Bloch «La filosofia della speranza di Ernst Bloch nella sua più alta espressione vuol essere meta-religione,ossia eredità di religione. Egli ritiene di poter dimostrare che l’autentico sostrato ereditario di tutte le religioni è “totalità di speranza”(….) Non un mito statico quindi apologetico ma un messianismo umano escatologico, quindi dirompente.»44 20 21 Il paradigma messianico sembra la figura più adatta a smarcare il termine provvidenza, pur coniato dalla traditio cristiana, da quello greco, ma parlare di messianismo implica, dal versante della filosofia, recuperare un pensiero della Differenza dove si spezza l’insolente identità del pensiero con se stesso, che faccia tabula rasa degli idola della ragione calcolante, dal lato della teologia rendere alla storia il dinamismo trinitario per evidenziare come in essa si esercita di fatto la signoria della libertà di Dio e come quest’ultimo fornisca una chiave ermeneutica capace di leggere il futuro nel segno dell’eternità. Ad ogni modo, Moltmann esplicita in maniera eloquente il debito che la teologia ha contratto con un pensiero messianico come quello blochiano, in quanto esso, proprio esso che è nato sulla base del marxismo, ha contribuito non solo a demistificare la forma cristallizzata ed ideologica della religione, bensì a riproporre una lettura del religioso nella sua portata messianica consustanziale alla speranza. Da un lato dunque, il dato religioso come correttivo critico del marxismo, secondo il felice connubio di Ernst Bloch, dall’altro il messianismo teoretico come richiamo alla teologia che finalmente recupera nell’al di qua l’efficacia della promessa del Regno. «La religione, in quanto è speranza e protegge la speranza, non deriva dalla paura, dalla stoltezza, dall’inganno pretesco. In tal caso, però, anche Ludwig Feuerbach con la sua teoria della religione come desiderio, con la sua riduzione della duplicazione celeste dell’uomo all’uomo fisico che diventa padrone di sé, non incide sulla religione la cui essenza è la speranza. Feuerbach ricondusse le immagini che l’uomo si fa degli dei, alla realtà fisica dell’uomo come è finora apparsa, e precisamente all’astratta ed astorica specie “uomo”. Ma le “immagini religiose del Regno veniente” che fanno esplodere lo stato attuale delle cose” (Ecco io faccio ogni cosa nuova) non si possono ridurre all’uomo che nella fattualità sensibile acquista consapevolezza di sé . Feuerbach ha solo ereditato solo la mistica del cristianesimo, non l’escatologia cristiana»45 L’escatologia cristiana, così fortemente sottolineata da Moltmann è il nome della provvidenza ed il riferimento da tener presente ogni volta che si intenda parlare di una finalità della storia secondo il bene originario del progetto creativo, tenendo altrettanto presente che l’inveramento come esito ultimo di questo bonum protologico che è la salvezza progettata da Dio riguarda sempre e solo la Sua Promessa, secondo la bella espressione di Dietrich Bonhoeffer, Dio non è fedele ai nostri desideri ma alla Sua Promessa. Per questo motivo essa si presenta come segno di contraddizione ed interruzione del tempo in modo da sancire un presente possibile, eppure si dona ineludibilmente nella dialettica fra l’in-sperabile e ciò che invece contro speranza si spera. Da un lato dunque è stato colmato il fossato scandaloso di lessinghiana memoria, in quanto la stessa storia è sempre una storia di salvezza (Heilsgeschichte), dall’altro, tuttavia, resta lo skandalon dello scarto temporale quanto alla realizzazione della Promessa e dell’infinita differenza qualitativa perché le vie di Dio e quelle dell’uomo non sono identiche, come già dice il profeta Isaia, il che richiama fortemente le suggestioni kierkegaardiane sul paradosso del Cristianesimo, che, a nostro avviso, proprio per questo motivo mostra la sua mordente capacità nella storia umana. Proprio in questo scarto, infatti, è possibile testimoniare che l’eterno, avendo avuto ab initio tempo per l’uomo, è il senso stesso del tempo redento. Conclusione. La fenditura del tempo L’excursus proposto su due idee così fondanti nella domanda esistenziale, tanto di natura teologica quanto di natura filosofica ha mostrato come la contraddizione possa essere origine e fonte di ricchezza, altrettanto, ha posto in luce l’infinita possibilità ermeneutica della contaminazione culturale tanto da indurre a pensare la possibilità di un nuovo incontro fra ebraismo-cristianesimo e pensiero greco. Questo connubio non sempre facile e lieve ha contribuito, inoltre, alla capacità del pensiero di sostenere il 21 22 paradosso della sua vocazione, ora più postulatoria che deterministica, più simbolica che non logico-strumentale, così che il suo recupero di termini teologici lo ha messo in grado di porre in gioco l’ulteriorità dell’in-disponibile a quanto è passibile di oggettivazione, di formulare il desiderio come ontologia del superamento e come inoggettivabile verità dell’uomo che fa implodere il qui e l’ora del tempo come malia dell’identità. D’altro lato la teologia ha potuto fornirgli trame inattese, legami da ricostruire, paesaggi aperti da riconfigurare, soglie, per usare un efficace termine benjaminiano, forse piccole soglie confitte lungo la linea cronologica come fessure sul gratuito e sull’inedito. Da esse il Messia può sempre entrare,in un Oggi che è sempre il perfektum propheticum del Regno, ove, si è già, superandosi, perché coniugati ad una fenditura del tempo. (P. Celan) Paola Mancinelli dottore di ricerca in Filosofia e scienze umane insegna Filosofia e Scienze dell’educazione presso Istituto "V.Bonifazi", Recanati 1 T. W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, trad. it di R. Solmi, Minima moralia, Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 304. 2 Ibidem 3 Plotino, Enneadi, a cura di M. Casaglia, C. Guidelli, A. Linguiti, F. Moriani, vol. I, UTET, Torino 1997,pp. 205-206 4 H. U. Von Balthasar, Herrlichkeit, Im Raum der Metaphysik, Bd. 4 trad. it. di G. Sommavilla, Gloria. Nello spazio della metafisica, vol 4, Jaca Book, Milano 1975,p.257 5 Plotino, op. cit.,p .213 6 Ivi, p. 216 7 H. U. Von Balthasar, Herrlichkeit, trad. it. cit.,p.260 8 Si veda ed esempio il bel saggio Il pensiero come redenzione. Plotino tra Platone ed Agostino, in Platos dialektische Ethik und anderen Studien zur platonischen Philosophie, trad. it. di G. Moretto, Studi platonici, 2 voll.Marietti, Genova 1983, p. 287 9 Plotino, op. cit, p. 372 10 Ivi, p .375 11 H. U. Von Balthasar, Herrlichkeit, trad. it. cit.p..261 12 Plotino, op. cit.,p. 385 13 Ivi,p. 399. 14 T. S. Eliot, The complete poems, trad. It e cura di R. Sanesi, Opere, Bompiani, Milano 1986, p. 265 15 Per questo rinviamo al prezioso studio di M. Buber, Der Glaube der Propheten, trad. it di A. Poma, La fede dei profeti, Marietti, Genova 1885 16 Sap. 7, 22-24 17 Sap. 7, 25-27 18 Lo riportiamo nella traduzione fatta dal celebre esegeta Juan Mateos, in J. Mateos, J. Barreto, El Evangelio de Juan, trad. it. di T. Tosatti, Cittadella Assisi 1982 19 Col.,15-20 20 GLNT, Voce Pronoia, vol. VII, Colonna 1201,ss. 21 Mt, 5,33. In ogni caso sarebbe importante tenere presente l’intero capitolo del Vangelo matteano, anche perché è quello che maggiormente evidenzia la continuitàcontraddizione con l’istanza messianica dell’ebraismo e quella che si esplica nella pretesa di Gesù 22 23 22 Dobbiamo qui rinviare all’idea di temporalità nella cultura ebraico-cristiana e non possiamo non segnalare la celebre opera di O. Cullmann, Cristo e il tempo, Il Mulino, Bologna 1965, dove si sottolinea, per altro, lo spostamento del centro del tempo apportato dall’avvento di Cristo. Questo carattere di già avvenuto nel non ancora dell’av-venire è fondamentale anche per il fatto che non si ottiene una linearità progressiva cronologica quanto invece una temporalità intesa come soglia da cui emerge l’ora della pienezza del tempo. Nonostante questo, la figura del progresso è stata assunta come criterio di mutazione dell’ermeneutica storica. E’ vero che non si può parlare di eterno ritorno dell’eguale, ma è altrettanto vero che nel tempo feriale si inserisce il kairos della festa come anticipazione del riposo escatologico,in modo tale da farci parlare di un’escatologia realizzata. 23 Facciamo nostra l’espressione del filosofo Italo Mancini 24 B. Forte, Trinità come storia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985,p.79 25 Di tutto rilievo è la riflessione di Ludwig Feuerbach sul pensiero filosofico a lui contemporaneo come criptoteologia. In effetti essa sancisce l’imprescindibilità della presenza della teologia nella riflessione filosofica dell’Ottocento tedesco, la quale è coniugata con l’istanza critica dell’Illuminismo che contribuisce a nostro avviso in maniera feconda a sviluppare i germi dell’ermeneutica contemporanea. Se l’assunzione critica della cifra teologica è un fenomeno ben ravvisabile in Germania, nel movimento dell’Aufklärung e in quello successivo dell’idealismo, abbiamo buone ragioni di ritenere che lo stesso Illuminismo europeo fa criticamente i conti con le categorie cristiane, e dà origine al loro processo di secolarizzazione. Basti pensare al motto della Rivoluzione francese, liberté,égalité, fraternité 26 I. Mancini, Teologia, Ideologia, Utopia, Queriniana, Brescia 1974,p. 541 27 E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Il principio Speranza, Garzanti, Milano 1994, 2a ed. 2005,p. 233 28 Mancini, Teologia, cit.p.545 29 Lo spazio della trattazione disponibile non ci permette di diffonderci ulteriormente su tale fenomeno. Ci limitiamo a citare l’utopia delle tre età di Gioacchino da Fiore di cui lo stesso Bloch tratta ne Il Principio Speranza, o la figura di Thomas Müntzer come teologo della rivoluzione, cui Bloch dedica una grande attenzione. Analisi queste, per altro molto preziose per il nostro tema. Inoltre vorremmo aggiungere come il Regno, figura escatologica biblica si è mostrata una costante che ha guidato la prassi dei grandi riformatori politici da Cromwell ai Pilgrim Fathers, in quanto misura di una possibile giustizia presente già sulla terra. Su questo si può consultare anche, oltre alla classica Utopia di Th. More, A. Dempf, Sacrum Imperium,, Le lettere, Firenze 1988, e M. Walzer, Esodo e Rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986 30 E. Bloch, Atheismus in Christentum. Zur Religion des Exodus und des Reich trad. it. di F. Coppellotti, Feltrinelli, Milano 1971,p.169 31 Bloch, Atheismus…,cit.,p24-25 32 M. Horkheimer, Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen, trad. it di R. Gibellini, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia 2001 3° ed,p. 1 33 Ivi,p.73 34 Ivi, p.75 35 B. Forte, L’eternità nel tempo,saggio di antropologia ed etica sacramentale, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1993, pp. 25-26 36 J. B Metz, Sulla presenza della Chiesa nella società, cit. in G. Ferretti, F. Ardusso, C. Ciancio, A. M. Pastore, U. Perone, La teologia contemporanea, Marietti, Torino 1988,p 552. 37 Ivi,p. 552 38 Questa per altro non è la nostra posizione, attestata, al contrario sull’esigenza di riproporre la domanda fondamentale sulla pensabilità e la riserva di senso del religioso 23 24 onde evitare tanto una latitanza ed un declino quanto una presenza equivoca e incapace di fare appello alle istanze dell’uomo contemporaneo, raccogliendo il memorabile appello di Dietrich Bonhoeffer 39 Metz, da Sulla teologia del mondo, in G. Ferretti , F. Ardusso….., La teologia,cit.,p. 547 40 Metz,Religione messianica o religione borghese, cit. in G. Ferretti….., La teologia..,cit.,p. 560 41 Facciamo nostra la suggestiva espressione di Karl Rahner secondo cui la Trinità economica è la Trinità immanente 42 J. Moltmann, Theologie der Hoffnung. Untersuchungen zur Begründung du zu den Konsequenzen einer christliche Eschatologie, trad. it. di A. Comba, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970,p.77 43 Moltmann, Theologie, trad. it. cit,p.97 44 Moltmann, Theologie, trad. it. cit.,p.351 45 Ivi,p. 352 24