2008 2 1 Sommario Cogito ergo sum Penso dunque sono La filosofia secondo me I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII Nasce la scienza Francesco Bacone Renato Cartesio Razionalismo e Liberismo Thomas Hobbes Blaise Pascal Baruch Spinoza Isaac Newton John Locke George Berkley Gottfried Leibniz David Hume Gian Battista Vico p. 4 p. 10 p. 13 p. 2 1 p. 24 p. 29 p. 33 p. 40 p. 45 p. 55 p. 57 p. 62 p. 68 Click su di una riga del Sommario per andare alla pagina Sandro Montorfano 28/05/2008 3 Volume III Sommario 4 Anno III I Cogito ergo sum Penso dunque sono La Filosofia secondo me ±±±±±±±±±±±±±±±±±±±±±±±±±± Sandro Montorfano Nasce la Scienza Gran parte di ciò che distingue il mondo moderno dal mondo antico, è da attribuirsi al trionfo della scienza e questa, ebbe il suo massimo sviluppo e i più rivoluzionari successi nel XVII secolo. Il Rinascimento Italiano, pur essendosi liberato dalla servitù medioevale, non può ancora essere considerato moderno essendo rimasto, nella forma mentale, molto più simile alla miglior età della Grecia classica. Anticipatore dello slancio scientifico dei secoli che seguirono, fu Copernico, appartenente al XVI secolo ma sul quale, ebbe scarsa influenza nel corso della vita. Le nuove idee scientifiche si affermarono e vennero valorizzate nel secolo successivo da Cartesio, influenzando profondamente l’atmosfera culturale del tempo, tanto da poter affermare che è lui il fondatore della moderna filosofia. Copernico (1473-1543) era un ecclesiastico polacco di specchiata ortodossia, aveva la passione per l’astronomia che esercitava durante il tempo libero. Presto si rese consapevole che era il sole a trovarsi al centro dell’universo non la terra e che questa si muoveva con un duplice moto: uno rotatorio quotidiano e l’altro rivoluzionario annuale intorno al sole. La teoria eliocentrica, a lungo andare, avrebbe reso difficile conservare all’uomo l’importanza cosmica assegnatagli dalla teologia cristiana e questo, da ortodosso di sincera osservanza, gli procurò non pochi sensi di colpa e scrupoli di coscienza, dovendosi confrontare con la Bibbia. La scoperta era di tale portata rivoluzionaria che il suo scritto principale 5 I * Nasce la Scienza “de Revolutionibus Orbium Coelestium” venne pubblicato solo dopo la morte, da un amico, soltanto “come ipotesi”, tanto era la paura di incorre nelle maglie delle leggi ecclesiastiche, le quali sanzionavano pesantemente tutto quanto non fosse ortodossia ufficiale, anche se non erano ancora i tempi post conciliari. Fu dopo l’istituzione della compagnia di Gesù e la rinata Inquisizione a decretarne, in seguito, la messa all’indice. Autentiche furono le difficoltà incontrate nel dimostrare le proprie teorie e intuizioni, dovute alla mancanza di strumenti ottici adeguati (il cannocchiale non era ancora stato scoperto) e di misurazioni e teoremi matematici appropriati, che vennero inventati e applicati successivamente da altri (Keplero, Galileo, Newton, ecc), basti pensare che solo nel XIX secolo, la tecnica di misurazione divenne sufficientemente precisa da permettere di osservare il parallasse stellare, che Copernico aveva già intuito osservando come alcune stelle fisse fossero molto più lontane dal sole. Egli chiamò la sua teoria un’ipotesi, intuendo come la rotazione quotidiana della terra fosse un’ipotesi più “economica” per l’universo, che non la rivoluzione di tutte le sfere celesti. Quanto alla rivoluzione annuale della terra, anche se in misura minore, ne intuiva una notevole semplificazione. Queste opinioni non vennero condivise dai suoi contemporanei e forse, per un senso di colpa, anche non completamente da lui, ma gli vanno riconosciute due qualità; la tenacia e l’audacia. La tenacia nell’osservazione paziente e l’annotazione scrupolosa dei fatti considerati, l’audacia nel formulare congetture che legano insieme i fatti stessi. Quando Lutero venne a conoscenza di queste teorie si scandalizzò non poco: “questo pazzo desidera mettere sottosopra tutta la scienza dell’astronomia; ma le Sacre Scritture ci dicono che Giosuè comandò al sole di fermarsi, non alla terra.” Anche Calvino, analogamente, ebbe parole di 6 I * Nasce la Scienza sdegno; citando il versetto dei salmi “ …anche il mondo sta saldo, e non può muoversi”, esclamò con disprezzo “Chi oserà porre l’autorità di Copernico al di sopra di quella dello Spirito Santo?” a dimostrazione che anche il clero protestante non era meno bigotto degli ecclesiastici cattolici; ma a favore dei primi giocò il fatto di avere meno potere presso gli Stati, dovuto allo scisma più che all’eresia. Con la nascita delle Chiese nazionali, queste non ebbero il tempo di organizzare e controllare i nuovi governi laici, per cui nei paesi protestanti si instaurò un clima di maggiore libertà critica, favorendo coloro che si opponevano alle direttive conservatrici e tradizionaliste delle Chiese. Purtroppo Copernico non aveva gli strumenti per dare prove conclusive a sostegno delle sue teorie e intuizioni e per un lungo periodo, dagli astronomi del tempo, non venne preso in considerazione. Galileo (1564-1642) è il più grande tra i fondatori della scienza moderna. Fu il primo che scoprì l’importanza dell’accelerazione in dinamica, sostenendo che un corpo in movimento lasciato a se stesso continua a muoversi in linea retta alla medesima velocità, e qualsiasi mutamento di direzione o di velocità è causato necessariamente dall’azione di un’altra “forza”. Questo principio è poi stato enunciato da Newton come la “prima legge del moto” o “legge d’inerzia”. Altre e ugualmente importanti furono la scoperte di Galileo a cominciare dalla legge della caduta dei gravi, cioè quando un corpo in caduta libera, (in condizione di assenza di aria), riceve una accelerazione costante uguale per tutti corpi, grandi o piccoli, pesanti o leggeri. Fino ad allora si pensava che un corpo di massa maggiore era più veloce nella caduta di una piccola massa, ma Galileo dimostrò sperimentalmente che questo non era vero, e riuscì a determinare che l’aumento della velocità è di 9,8 metri al secondo. Studiò anche la traiettoria di un 7 I * Nasce la Scienza proiettile, dimostrando, contro ogni credenza che immaginava una traiettoria almeno in principio rettilinea e una rapida caduta in verticale verso la fine, che il proiettile si sposta descrivendo una linea a parabola, secondo un principio generale detto “parallelogrammo delle forze”. Egli adottò con slancio il sistema eliocentrico e per primo usò il telescopio su larga scala per scopi scientifici osservando e scoprendo tutta una serie di corpi celesti, pianeti e satelliti del nostro sistema solare. Parecchi furono gli scritti e gli appunti sulle sue osservazioni che contribuirono a dare ulteriori scossoni al vecchio sistema astronomico. Ne “dialogo sopra i due massimi sistemi” (1632) espone le ragioni filosofiche e naturali sia del sistema tolemaico-aristotelico, che quello copernicano. Nello svolgersi degli argomenti appare chiara la sua propensione per il copernicanesimo. Il ricorso, alla fine dell’opera, alla “maestà della sapienza divina”, appare una ferma presa di posizione contro il sistema aristotelico. Inevitabilmente tale opera provocò da subito forti reazioni, infatti venne interpretata dal clero tradizionalista come una congiura contro la tradizione e le Sacre Scritture. Venne impedita la vendita e Galileo fu sottoposto al giudizio dell’Inquisizione e condannato in modo definitivo nel 1633. In seguito egli ritrattò promettendo di non sostenere mai più che la terra gira intorno al sole e ruoti su se stessa. Fu così che l’Inquisizione per alcuni secoli, pose forti ostacoli agli studi scientifici in Italia, arrecando considerevole danno alla Chiesa stessa. E’ stata una fortuna che ciò non avvenne nei paesi protestanti, dove il clero era altrettanto desideroso di danneggiare la scienza, ma non ebbe la possibilità di giungere al controllo degli apparati degli Stati. E’ convinzione comune che Galileo fu lo scopritore del metodo per l’analisi scientifica, avendo avviato la fisica, per la prima 8 I * Nasce la Scienza volta, sulla via della scienza, quando questa era ancora considerata magia. Base del suo metodo analitico è: I ) il momento osservativo-induttivo; cioè l’attenta ricognizione del caso, messo a confronto con un’ipotesi matematica; II) la necessaria dimostrazione; quando lo scienziato formula delle ipotesi, dalle quali dedurre il comportamento dei fatti che si propone di verificare. III) solo in seguito alla verifica sperimentale e superata la prova in termini matematici, questa costituisce una teoria scientifica. Questa verifica può essere anche indiretta, basta che venga formulata in senso critico, e che tutte le proposizioni e i fatti studiati risultino inquadrati e legati nella teoria. Con Galileo entra definitivamente in crisi il concetto millenario della metafisica, con la sua visione antropocentrica e qualitativa della natura, ad essa viene contrapposta una concezione dell’Universo come sistema di leggi e relazioni oggettive misurabili quantitativamente. Pur se la scienza, definita (utopisticamente) dal neopositivismo “l’antimetafisica” , Galileo trova in essa una concezione platonica importante (ne’ “il Saggiatore”) nella formulazione dell’ipotesi scientifica, quando indica nel sistema matematico e geometrico l’unica lingua possibile per la conoscenza dell’Universo, senza la quale è impossibile intenderne le leggi, “senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”. Diversamente, il metodo di approccio alla conoscenza, è Aristotelico, nel senso del concreto e dell’importanza accordata a “l’esperienza sensata”. Quanto all’esclusione dall’indagine sulla Natura, degli aspetti qualitativi a favore di quelli quantitativi, si può constatare un’attinenza alle teorie democritee. Sulla disputa tra scienza-fede, il problema viene affrontato da Galileo con una netta demarcazione, rivendicando alla scienza l’autonomia; “l’intenzione dello Spirito Santo essere Sommario 9 10 I * Nasce la Scienza II d’insegnarci come si vadia in cielo, non come vadia il cielo”. Essendo l’una e l’altra incomparabili, sono tra loro compatibili, proprio perché a ognuna compete un diverso compito. Quando emergono quelle che sembrano contraddizioni, c’è il fondato sospetto che lo scienziato voglia sostituirsi al metafisico o che il teologo voglia riscrivere la Bibbia in un trattato scientifico. Keplero (1571-1630) fu il primo astronomo importante ad adottare, dopo Copernico, la teoria eliocentrica, dimostrando la felice intuizione del suo predecessore, pur apportando profondi cambiamenti teorici, intesi a correggerne i macroscopici errori . La sua grande conquista, fu la scoperta delle tre leggi che regolano il moto planetario. Egli intuì che i pianeti si muovono intorno al sole descrivendo un’ellissi e non un cerchio, come più naturalmente si era immaginato, e su questa constatazione formulò la prima legge: i pianeti descrivono orbite ellittiche, di cui il sole occupa uno dei fuochi. La seconda, riguarda la velocità nei diversi punti dell’orbita: la retta congiungente un pianeta al sole, descrive aree uguali in tempi uguali, per cui risulta più veloce in prossimità del sole, più lento al vertice opposto. La terza legge mette a confronto i moti dei differenti pianeti: il quadrato del periodo di rivoluzione di un pianeta è proporzionale al cubo della distanza media dal sole; fissando una proporzionalità inversa al quadrato della velocità. Sostituire il moto ellittico a quello circolare, superando il pregiudizio estetico radicato tra gli astrologi gia dal tempo di Pitagora, ha richiesto a quegli uomini uno sforzo di emancipazione dalla tradizione, inimmaginabile a noi moderni. Allora le sfere celesti come corpi perfetti venivano posti in stretta relazione con gli dei, per cui era ovvio che dovessero muoversi secondo una figura perfetta come il cerchio in un moto libero e naturale. Francesco Bacone Francesco Bacone (1561-1626) fu uomo di Stato, giovanissimo entrò in parlamento come consigliere di Essex che in seguito abbandonò per divergenze. Con l’ascesa al trono d’Inghilterra di re Giacomo divenne Lord Cancelliere. Durò due anni in carica, poi cadde in disgrazia, venne condannato e costretto ad abbandonare la vita pubblica. Passò il resto dei suoi giorni scrivendo libri importanti. Morì nel 1626 per una infreddatura presa mentre eseguiva degli esperimenti di refrigerazione sui polli. Bacone, merita senza dubbio il titolo di primo filosofo dell’età industriale (anche se non fu grande filosofo), per l’orgoglio, la determinazione e l’enfasi con la quale annunciò l’avvento della rivoluzione industriale. Con lui la filosofia subisce una svolta decisiva con l’esaltazione dell’uomo imprenditore, chiaro atteggiamento di stampo umanista. Il detto “Sapere è potere” a lui attribuito, è la base della sua filosofia, volendo indicare come il fine ultimo delle invenzioni e delle scoperte scientifiche acquisite dall’uomo, è di fornire i mezzi per imporre il dominio della scienza sulla natura e trasformarne le condizioni di vita. Occorre rilevare che se Bacone è il paladino della nuova religione della scienza, non si può dire che fosse uno scientista a oltranza, anzi la sua dottrina è così formulata: la liberazione dell’uomo si realizza attraverso la scienza e la tecnica, poste però al servizio dell’ideale di carità e fratellanza. Bacone si contrappone, all’ideale del sapere magicoalchimistico, affermando i caratteri differenti del sapere scientifico, sottolineando come il sapere magico indagando su cause occulte, è un sapere privato, di pochi iniziati il cui scopo è il dominio sugli altri e quando raggiunge qualche parte di 11 I * Francesco Bacone verità, questa è solo casuale per cui non crea esperienza; per contro il sapere scientifico, è conoscenza di nature sperimentabili, nasce dalla collaborazione ed è controllabile da tutti perché scritto in un linguaggio chiaro e accessibile, costruito su un procedimento metodico e frutto di autentiche esperienze. In nome di un ideale di sapere, comprensibile, chiaro, intersoggettivo, polemizza contro la filosofia tradizionale, soprattutto aristotelica, accusata di essere mistificatrice del pensiero e parolaia, incapace di generare e produrre. Critico severo della logica aristotelica in quanto basata su una falsa induzione. Essa, prende in esame pochi casi e in modo affrettato, arriva rapidamente ad una nozione generale, la quale determina e perpetua gli errori della tradizione. Anche Bacone ha provato, con la sua maggiore opera, (Il novum Organum) a dare un metodo di analisi al sapere. Questo si articola in due momenti, nel primo dei quali (Pars destruens) occorre emendare, sgomberare il nostro intelletto da tutte quelle fantasie che causano errori o pregiudizi con i quali anticipiamo la natura. Nel secondo (Pars construens) con la mente libera dagli errori, possiamo accostarci allo studio della natura usando il metodo induttivo baconiano, molto più accurato di quello aristotelico, seguendo la procedura dell’esclusione dall’ipotesi falsa. Alla fine di questa classificazione ci si appresta a trarre dal materiale così ordinato, una prima tosatura, cioè una prima ipotesi, che verrà sottoposta a ulteriori e successivi controlli fino a quello decisivo rappresentato dalla “istantia crucis”, che ci consentirebbe di decidere della validità o della falsità della nostra ipotesi. Inutile dire che, le conoscenze contemporanee, hanno avanzato molte riserve sulla possibilità e validità di tale metodologia d’indagine. Il valore del suo metodo, consisteva nel mostrare come 12 II * Francesco Bacone andassero disposti i dati sperimentali su cui si basa la scienza. Noi non dobbiamo essere, lui diceva, né come il ragno, che srotola ciò che gli occorre dal proprio interno, né come la formica, che si limita ad accumulare, ma come l’ape, che raccoglie e dispone opportunamente. Con “la Nuova Atlantide”, Bacone, profondamente convinto della ineluttabilità della scienza e del metodo scientifico, quale motore indispensabile nella produzione di beni necessari al miglioramento della vita, si lascia tentare da questa grande utopia, ponendo come protagonista al centro della sua opera, non una problematica sociale di uguaglianza, ma la “Casa di Salomone” una sorta di accademia scientifica, localizzata in un’isola sconosciuta che si presenta come un grandioso laboratorio, dove con un lavoro di equipe, tutta la popolazione è impegnata nello sviluppo delle scienze e di tutto l’apparato tecnologico indispensabile, al fine di procurare benessere e felicità a tutti gli abitanti. Come si vede anche in questo caso, Bacone si rivela un vero e proprio propagandista della nuova scienza, e ciò gli valse dopo la morte per volere di Carlo II, l’intestazione della fondazione Royal Society, la più famosa delle Accademie Scientifiche d’Europa. Sommario 13 14 III * Renato Cartesio III Renato Cartesio Cartesio Renato (Renè Descartes 1596-1650), nato a La Haye da famiglia benestante, frequentò la famosa scuola dei gesuiti di La Flèche dalla quale ricevette una solida formazione umanistica, filosofica e scientifica. Proseguì gli studi di diritto per due anni e poi decise di rompere con i libri e di ricercare la scienza direttamente dal “gran libro del mondo”. Andò a Parigi, poi in Olanda dove si arruolò come volontario nell’esercito. Partecipò con l’esercito bavarese alla guerra dei trent’anni, e durante il lungo inverno (1619-20), pose le basi di molta parte della sua filosofia. Tornato a Parigi nel 1621, strinse amicizia con padre Marin Mersenne, uomo di straordinaria cultura, al quale nel ’33 comunicò di aver ultimato il suo trattato di metafisica “il Mondo”, ma essendo cattolico praticante e timoroso di temperamento, saputo della condanna di Galileo e condividendone le “eresie” sulla rotazione terrestre e dell’infinità dell’universo, non trovò il coraggio di pubblicarlo. Solo nel ’37 si decise a presentare alcune parti delle sue dottrine geometrico-fisiche, rendendole note in tre parti, scritte in francese, facendole precedere dal famoso discorso del metodo. Nel frattempo ritornò in Olanda, probabilmente per paura delle persecuzioni, conobbe Isac Beeckman, scienziato olandese che lo introdusse agli studi di meccanica. Nel 1641 inviò a Mersenne, scritto in latino, “le Meditazioni metafisiche”, allo scopo di farlo conoscere ai dotti e raccoglierne le obiezioni, ma questo suscitò aspre polemiche che si trascinarono per parecchi anni. Sono di quel periodo altri scritti i “Principi di filosofia” (1644) e “Passioni dell’anima” (1649). Amareggiato per l’aumentare degli attacchi, non dalla Chiesa romana, ma da parte dei protestanti bigotti, abbandonò l’Olanda e si trasferì alla corte svedese, dove morì dopo breve permanenza a causa del clima rigido e della non troppo robusta costituzione. Cartesio fu scienziato, matematico e filosofo. Il suo lavoro in filosofia e matematica è di estrema importanza, non lo è altrettanto come scienziato. Originale è il metodo delle coordinate geometriche, cioè la determinazione della posizione di un punto su un piano per mezzo della sua distanza da due rette fissate. In filosofia pura Cartesio, lo troviamo impegnato a rivedere gli studi compiuti in età giovanile a La Flèche, avendo coscienza dello stato di assoluta incertezza in cui la conoscenza e il sapere si trovano, a causa del carattere più esplicativo che creativo. Di fronte alla mancanza di un metodo unitario di indagine, matura l’idea di rifondare il sapere, ponendo in questo progetto tutti gli sforzi possibili onde poter dare una base certa, semplice e sicura, sulla quale erigere tutto l’edificio della nuova scienza. A tale scopo mette a punto un metodo di ricerca che si basa: sull’evidenza, sull’analisi, sulla sintesi e infine sull’enumerazione e la revisione dell’oggetto indagato. Al termine di questo percorso si ritrova daccapo, avendo però di fronte non più un oggetto sconosciuto ma, mediato dall’analisi, un oggetto conosciuto, certo, chiaro e definito, quindi vero. Fondamento di questo processo di analisi è il dubbio, conosciuto in seguito come “il dubbio cartesiano”, inteso non in senso scettico, cioè sospensivo del giudizio, ma al contrario, che sappia rimuovere quegli impedimenti che, come la sabbia e la terra ostacolano la visione chiara ed essenziale della roccia, permettano di costruire sulla certezza, il grande edificio della vera conoscenza. Per questo, disciplina la sua mente secondo le regole dello scetticismo, incominciando a dubitare della capacità dei sensi. Si può dubitare, egli pensa, che stia facendo la tal cosa? 15 III * Renato Cartesio Certamente, perché la medesima azione può capitare mentre si sogna, quindi potrei benissimo essere nella condizione di non essere sveglio. Del resto i sogni, come i quadri, si presentano come copie della realtà. E’ altrettanto possibile che mi trovi in uno stato di allucinazione, come i pazzi. Anche la natura materiale in genere, presentandosi con le dimensioni misurabili con l’aritmetica e la geometria, quindi presumibilmente più sicure non occupandosi delle singole cose, potrebbe essere meno facile da mettere in dubbio, però anche in questo caso è possibile dubitare, dato che si può errare facendo dei calcoli o nello scrivere i numeri o che un demone cattivo (cosi lui dice), furbo e ingannatore, si diverta ad ingannarmi, prospettandomi soltanto illusioni e burlandosi della mia credulità. La conoscenza dei corpi attraverso i sensi è confuso ed è comune anche agli animali. Quando sono per la strada vedo degli uomini, in realtà i miei sensi percepiscono solo il cappotto, i pantaloni o il cappello, “io capisco solo ciò che il giudizio che risiede nella mia mente, pensa di aver visto attraverso i miei occhi”. Quando vedo un uomo ho la certezza della mia esistenza non quella dell’uomo, che potrebbe essere una visione, per cui la conoscenza delle cose esterne attraverso i sensi è dubbia, non sicuramente vera, ma è tale solo se depurata attraverso la mente. Cartesio considera un errore pensare che le idee siano corrispondenti alle cose esterne. Questo errore, in parte, è la natura stessa che insegna a pensarla così e in parte, attraverso i sensi, si forma in noi inconsciamente, all’infuori dalla nostra volontà. Anche se ciò che si vede “per luce naturale” non lo si può negare, non vi sono buone ragioni per pensare che la realtà vera ci venga comunicata da qualcosa di esterno, non potendo escludere di avere un’inclinazione a capire il falso, per cui queste idee evidenziate dalla natura e non volontarie, vanno accolte soltanto come supposizione, avendo una certa inclinazione a credere. 16 III * Renato Cartesio Rimane però qualcosa di cui è impossibile dubitare, nessun demone potrebbe ingannarmi se io non esistessi. Anche se il corpo fosse un’illusione, la mia mente nell’istante in cui pensa dimostra, necessariamente, che io sono qualcosa; quindi questa verità, “penso, dunque sono” (cogito, ergo sum), la giudicai poterla accettare come principio primo, della filosofia che cercavo. Questo brano, conosciuto come il cogito di Cartesio, è il nocciolo della teoria cartesiana della conoscenza ed è ciò che di più importante rappresenta la sua filosofia. Questa ha attribuito grande importanza alla teoria della conoscenza rendendo lo spirito più certo della materia, ed il proprio spirito (per se) più certo dello spirito altrui. C’è in Cartesio una certa tendenza al soggettivismo, e a considerare la conoscenza della materia possibile solo attraverso la conoscenza dello spirito. Anche S.Agostino, proponeva un argomento analogo al cogito, tendente al riconoscimento della presenza trascendente di Dio nell’uomo, senza però rilevarne l’importanza, ma l’avere compreso e sottolineato il valore del cogito in tutte le sue complicanze è stata l’originalità di Cartesio. “Penso” è da lui usato in senso molto ampio, ciò che dubita, capisce, concepisce, afferma, nega, vuole, immagina, vede, sente, anche il sogno è una forma di pensiero. Con questo sono state poste le fondamenta sicure all’edificio della conoscenza; con la certezza della mia esistenza, dedotta senza ombra di dubbio dal fatto che io penso e da ciò che più esclusivamente specifico di me, cioè la sostanza, la cui intera natura o essenza è di pensare, non ho bisogno di alcun luogo, ne di alcuna cosa materiale per la mia esistenza. Analogamente anche l’anima, presentandosi interamente distinta dal corpo, sarebbe ciò che è anche se il corpo non ci fosse. Cartesio, procedendo nella sua indagine, pensa che il poter 17 III * Renato Cartesio dimostrare l’esistenza di Dio nell’evidenza del suo attributo di veridicità, possa facilitare il cammino verso la teoria della conoscenza. E’ nell’atto di dubitare e riconoscere imperfette le proprie idee, che ci si rapporta necessariamente all’idea di una perfezione assoluta e quindi alla causa di questa idea, cioè Dio. L’Essere immensamente perfetto non può essere pensato senza quella perfezione che è l’esistenza, analogamente un triangolo non è pensabile senza le proprietà delle quali è necessitato. Dio esiste in virtù della sua stessa essenza, che è la perfezione, della quale è costituito. Egli, nella sua bontà non può ingannare come il demone, ma dando una forte predisposizione a credere nei corpi, ha dato la certezza della loro esistenza e ciò che risulta chiaro e distinto è vero. Questa certezza permette di continuare a costruire, con rinnovata fiducia, l’edificio della scienza nella ragione, avendo presente che la verità scientifica viene raggiunta solo attraverso il pensiero. Anche in questo Cartesio, riconosce un’ulteriore prova dell’esistenza di Dio. Le norme del metodo unitario di analisi hanno trovato la conferma definitiva della loro validità, con la dimostrazione dell’esistenza di Dio e del suo attributo di veridicità, diventando esso stesso la garanzia ultima di giudizio, che quando usato correttamente (attraverso la mente e la ragione), non può indurre in errore. “Con questo principio posso conoscere la matematica e la fisica, anche se devo avere presente che la verità la posso conoscere solo attraverso la mente”. L’ateo non potrà conoscere con certezza la perfezione della natura, in quanto il dubbio permane anche nelle cose che si presentano evidenti, non riconoscendo ad alcun Dio il principio di ogni verità. Con la certezza, oramai pienamente garantita dovuta alla 18 III * Renato Cartesio rimozione del dubbio, sulla inaffidabilità di giudizio dei sensi, Cartesio, affronta l’analisi della realtà corporea certo dell’esistenza delle idee. Queste ci giungono da una coscienza esterna, la quale non può che essere un corpo, entro il quale è concepito realmente ciò che nelle idee è contenuto rappresentativamente. Questa idea, che non è in noi non possedendo una facoltà creativa attiva, per essere riconosciuta bisogna che sia di una sostanza estesa, con caratteri diversi da quella sostanza pensante che siamo noi, e che abbia una natura nella quale sia contenuta materialmente ciò che nelle idee è solo rappresentato. L’estensione diventa l’unica proprietà sensoriale immutabile, si presenta come la sola che, dei corpi, si recepisce in modo chiaro e distinto, ed è quindi l’unica proprietà che si deve ritenere costitutiva dei corpi stessi. Ecco allora che Cartesio perviene ad una visione dualistica del mondo, il mondo spirituale (cogito) e il mondo materiale (esteso). Questa visione è prefigurata come un immenso orologio meccanico, in cui materia e movimento sono gli elementi essenziali con i quali spiegare il mondo fisico. Causa prima del movimento è Dio stesso, che al principio ha creato la materia con una giusta quantità di quiete e di moto, che in seguito si è conservata immutata in essa, e da ciò ne derivano le leggi fondamentali dell’estensione: I) il principio di conservazione della quantità del moto, per il quale non c’è dispersione di energia II) principio di inerzia, secondo cui un corpo mantiene la direzione rettilinea III) principio di conservazione dell’energia, quando vi è una collisione tra due corpi, uno dei due cede all’altro tutto o in parte una quantità di moto, pur rimanendo questo inalterato all’interno del sistema. 19 III * Renato Cartesio Queste tre leggi, secondo Cartesio, bastano a spiegare tutti i fenomeni della natura, la struttura dell’intero universo, e come si sia formato l’ordine attuale del mondo, a partire dal caos. L’universo è una gigantesca macchina dalla quale è esclusa, ogni forza animata e ogni causa finale della natura, riferita al campo della fisica perché: “non dubitiamo che esistono o esistettero un tempo e hanno già cessato di essere, molte cose che non sono mai state viste o comprese dagli uomini e che perciò non furono loro di nessuna necessità”. Immaginare, che tutto sia stato creato da Dio per l’esclusivo vantaggio dell’uomo può sembrare un semplice atto di superbia. Con Cartesio cambia anche la visione dell’uomo. Diversamente da Aristotele, il corpo (sia uomo o animale) si presenta come un automa, funzionante unicamente come un modello meccanicistico, dal movimento del quale è esclusa l’anima non avendo questa alcun principio vitale. Essa diventa pensiero non più vita (quindi di esclusiva proprietà dell’uomo), e la separazione dal corpo, per morte di questo dovuta a cause meccaniche o fisiologiche, non ne provoca il suo dissolvimento. Questo dualismo o diversità sostanziale tra corpo e anima, ci conduce lontano dalla concezione tradizionale aristotelica, che considerava il corpo come strumento o organo della sostanza anima. Al contrario, riconoscere come sostanza (estensione) il corpo, significa in primo luogo, rendere possibile la considerazione e lo studio del corpo come tale, senza riferirsi all’anima e ai suoi poteri, ponendo le basi e la condizione necessaria per lo studio scientifico del corpo umano. Cartesio rappresenta nella storia della filosofia la svolta epocale, lo spartiacque tra la filosofia antica e quella moderna. Affermando il primato della ragione sull’essere, nessuna verità potrà essere garantita, dopo di lui, che non risulti evidente alla ragione. Il razionalismo diventa il tratto caratteristico della 20 III * Renato Cartesio modernità e la realtà, interpretabile solo attraverso un principio comprensibile dal pensiero (l’uomo). Con la modernità comincia anche ad intravedersi e farsi strada il nichilismo, inaugurando quel processo per cui la volontà del soggetto si pone come lo strumento in grado di controllare, emancipare, dominare illuministicamente l’esistente. Questo processo arriverà fino a Nietzsche e la dottrina della volontà di potenza: “il superuomo”, in cui la concezione di annullamento “dell’essere”, appare nella sua più compiuta espressione. La volontà di potenza pienamente attuata, diviene lo strumento del progetto umano di dominio sulla natura la quale, costretta a sottomettersi alla ragione pianificatrice e calcolatrice, ne risulterà definitivamente inaridita, privata di quei valori eterni e ideali che sono apparsi nel corso della storia dell’uomo, risultando d’ora in poi depotenziati e privi di senso. La morte del Dio diviene cosi la conseguenza della modernità, proprio mentre Lo si cerca. Sommario 21 22 IV * Razionalismo e Liberismo IV Razionalismo e Liberismo Con il cartesianesimo e il diffondersi delle sue dottrine nasce quella “lotta per la ragione”, che impegnò la cultura filosofica del XVII secolo, in un confronto molto aspro, tendente a far prevalere la ragione, con la sua autonomia di giudizio nel dominio morale, politico e religioso, oltre naturalmente in quello scientifico. Nel contempo si viene a chiarire il concetto stesso di ragione, riconoscendo ad essa la sola guida capace di dare all’uomo la garanzia nella ricerca, sia scientifica che metafisica. Del contrasto tra cartesiani e anticartesiani, né le università europee né i collegi religiosi, poco o nulla subirono l’influsso, continuando ancora per lungo tempo la tradizione scolastica. Fanno eccezione quelle olandesi e alcuni illuminati inglesi. La letteratura minuta, specialmente della seconda metà del secolo, fu molto ricca di confutazioni, di rettifiche, di critiche, ma anche di parziali accoglimenti del cartesianesimo, dimostrando nel loro insieme la crescente importanza che tale movimento andava assumendo nella cultura del tempo. Questo fiorire di movimenti letterari posero le basi per la formazione di altri fenomeni e movimenti culturali come l’occasionalismo, il giansenismo, e il libertinismo, il quale ebbe a caratterizzare buona parte del secolo XVIII. Questo movimento, peculiare della cultura olandese e in parte inglese del tempo, che gli oppositori contrastarono aspramente in ogni forma, connotandolo ad un aspetto di comportamento permissivo, dissoluto, immorale, e gaudente, rimasto anche nell’accezione corrente attuale, fu all’inizio inteso e praticato come espressione del libero pensiero e di un nuovo modo di intendere l’insieme delle dottrine, tipiche di letterati, di notabili, magistrati, filosofi, moralisti, specialmente in Francia, ai quali si deve la critica alle credenze tradizionali, dando così l’avvio all’esplosione illuministica. Fu quindi un movimento elitario praticato principalmente nei salotti e tra la gente colta, affidato principalmente agli scritti e alle conversazioni private, delle quali rimane traccia nella ricca letteratura anonima o clandestina del tempo. Altra caratteristica del libertinismo è la tolleranza religiosa, tendenzialmente protestante, ma di un protestantesimo tranquillo e non fanatico che ripudia le guerre di religione considerate stupide. La critica alle credenze religiose tradizionali, è fatta utilizzando motivi desunti dal Rinascimento Italiano e per buona parte dall’opera di Gassendi, il quale apportando delle correzioni alla filosofia epicurea classica, ne rinnova i capisaldi, liberandola da tutto ciò che è contro il cristianesimo, ancorando il materialismo epicureo alla possibilità della fede religiosa e bocciando per tale scopo sia l’aristotelismo che il cartesianesimo, responsabili secondo lui, della predominante scettica. Il liberalismo teneva in gran conto il commercio e l’industria favorendo l’affermarsi delle classi medie contro la monarchia e l’aristocrazia, era rispettoso della proprietà privata soprattutto quando accumulata col lavoro di chi la possedeva, rifiutava il diritto ereditario dei Re ritenendo che ogni comunità abbia il diritto di scegliersi il proprio governo. In questo clima di contestazione e revisione va via via caratterizzandosi, all’interno del movimento e della società, l’individualismo, dovuto alla perdita da parte della Chiesa dopo la rivolta protestante, dell’autorità capace di imporre un'unica verità, la ricerca della quale diventa una prerogativa non più sociale ma individuale. Dato che individui differenti giungono a differenti conclusioni, il risultato non può che essere una lotta continua, le cui decisioni vengono affidate alle guerre, in una condizione molto simile a quella hobbesiana, (tutti contro tutti) Sommario 23 24 IV * Razionalismo e Liberismo V ma non avendo nessuno dei contendenti, la forza sufficiente per eliminare l’altro, si rende necessario addivenire ad un metodo che conciliasse l’individualismo intellettuale ed etico, con una ordinata vita sociale. E’ il desiderio di vivere in pace suggerito dalla ragione, che spinge gli uomini a stipulare un patto sociale, il quale non dia origine ad uno Stato assoluto, ma uno Stato che possieda una struttura ontologica, il cui fine è la promozione della razionalità e della libertà dell’uomo. E’ l’Olanda, lo Stato che più di ogni altro, ha rappresentato e garantito al meglio la libertà, salvaguardando pace e sicurezza all’espandersi di una vita pienamente razionale, la quale ha potuto esprimere ai livelli più alti il pensiero e la cultura del XVII secolo.. Thomas Hobbes Thomas Hobbes (1588-1679) fin da giovinetto, a causa del cattivo carattere del padre, venne preso in casa da uno zio e avviato agli studi appassionandosi alla lettura dei classici greci, dei quali conseguì una buona conoscenza. Quindicenne frequentò Oxford, dove studiò logica scolastica e filosofia aristotelica, con poco profitto. Dopo gli studi, venne richiesto come tutore da una importante famiglia inglese, con la quale ebbe la possibilità, per parecchi anni, di girare l’Europa e l’Italia incontrando i migliori studiosi e pensatori dell’epoca tra i quali Cartesio e Galileo apprezzandone i metodi matematici delle loro scoperte, cosa del quale l’empirismo inglese ne era poco influenzato. La sua fu una filosofia prettamente politica, volta principalmente a evitare i pericoli della guerra civile e le calamità sociali, verso le quali provava terrore, allo scopo di garantirne la pacifica convivenza. Questa, legata a presupposti nominalistici e materialistici, intravede nella ragione una tecnica adatta al superamento dei conflitti, del tutto opposta a quella cartesiana più spiritualista e metafisica. Le dottrine politiche di Hobbes, espresse principalmente nel “Leviatano”, al quale deve principalmente la sua fama, sono opinioni monarchiche portate all’eccesso. Gia dall’inizio dell’opera pone come premessa la sua visione materialista, affermando che la vita non è altro che un moto delle membra, paragonandola a quella di un automa. La Comunità-Stato che egli chiama “Leviatano”, è un organismo artificiale, è un creazione artistica, un meccanismo, le cui regole di funzionamento “la sovranità”, cioè i patti e gli accordi coi quali all’inizio viene creata la comunità, è di competenza unica del legislatore che è il “Sovrano” (uomo o assemblea ). Allo stato naturale, prima di qualsiasi forma di governo, 25 V * Thomas Hobbes l’individuo desidera in primo luogo conservare la propria libertà, aspirando ad avere il dominio sugli altri. Questi desideri, dettati dall’istinto di conservazione, confliggono in una guerra di tutti contro tutti, rendendo la vita brutale, breve e sgradevole. In natura non esiste la proprietà, la giustizia, o l’ingiustizia; c’è solo la guerra e in guerra la forza e la frode sono virtù inderogabili. Per sfuggire a questi mali e costruirsi una vita migliore, l’individuo si organizza in comunità, rinunciando a una parte di libertà e sottomettendosi ad una autorità centrale, singola o assembleare, scelta a maggioranza, la quale impone la fine della guerra universale, esercitando l’autorità e il potere attraverso l’interpretazione esclusiva della legge. Questa convenzione, come la chiama Hobbes, va intesa come metafora, ed è usata per spiegare perché gli uomini si sottomettano alle limitazioni della libertà personale sottostando all’autorità. La convenzione per essere applicata, deve conferire tutto il potere e l’autorità al sovrano, perché la convenzione “senza la spada, non è che una serie di parole inutili”. Premesso questo, il ribellarsi ad essa diventa un errore, in primo luogo perché solitamente fallisce, in secondo luogo perché il governante non è legato da alcun patto con il governato, ma svolge un incarico che gli è stato assegnato da una maggioranza. Nel caso della tirannide, per Hobbes, questa non esiste, “è soltanto una monarchia che non piace a colui che ne sta parlando”. Il possibile dispotismo del sovrano è tollerato essendo una condizione migliore dell’anarchia. Quando il Sovrano è stato scelto, i cittadini perdono tutti i diritti e le libertà politiche, tranne quelli che al governo stesso converrà garantire loro. Una comunità così organizzata legata da questa convenzione, che Hobbes ha motivato e immaginato per un 26 V * Thomas Hobbes governo monarchico, può essere adattata ad ogni altra forma di governo, in cui ci sia un’autorità suprema, non limitata da diritti legali o costituzionali. Ciò che egli propone, è un “Sovrano” con poteri illimitati, con diritto di censura su qualsiasi manifestazione, il cui interesse principale ed esclusivo è la difesa e la conservazione della pace interna. Seguono poi tutta una serie di leggi, regolamenti e suggerimenti sul come tradurre in pratica la convenzione. La proprietà dipende interamente dal sovrano, dato che in natura non esiste la proprietà ma viene creata dal governo. Si sofferma poi in considerazioni sul perché è da preferire il governo di un monarca ad un governo assembleare. Hobbes non considera la possibilità di elezioni periodiche, ma concepisce la democrazia come forma politica alla maniera degli antichi, che implica la partecipazione diretta dei cittadini alla legislazione e all’amministrazione. La successione è stabilita dal sovrano stesso, come usava nell’impero romano, quando non si intrometteva qualche rivolta a sostituirlo. Sulla libertà dei sudditi, questa è coerente alla necessità del sovrano. Su questo tema vi è una definizione singolarmente meccanicistica e precisa: ”la libertà è l’assenza di impedimenti esterni al movimento”. I sudditi sono liberi la dove non intervengono le leggi, ma non hanno diritti da far valere nei confronti del sovrano, all’infuori di quelli che il sovrano stesso ritiene di concedere. Vi è una limitazione al dovere di sottomissione, ed è il diritto all’autodifesa personale anche contro i monarchi, quindi la resistenza al sovrano è giustificata solo in caso di autodifesa. Naturalmente decade il diritto di obbedienza, quando il sovrano non ha più la forza sufficiente per proteggerli. Non esistono partiti od organizzazioni di categoria, la scuola e lo studio deve insegnare solo ciò che il sovrano 27 V * Thomas Hobbes reputa utile, e l’istruzione deve dipendere da un saggio insegnamento su cui occorre vigilare con oculatezza. La religione deve essere quella del sovrano, per cui non c’è separazione tra il potere spirituale e temporale, chiesa e stato coincidono in un potere assolutistico. Ciò che risalta maggiormente come riflessione, nella parte più importante della sua dottrina, è il formalismo rigido del modello, non dato per ordine o intervento divino, ma creato da una decisione umana naturale, razionalmente legittimato, capace di facoltà di previsione e scelte opportune, senza possibilità di critica individuale, da cui discendono le leggi e i poteri allo Stato dal Sovrano. Queste dottrine erano già conosciute e praticate, durante il Rinascimento e la Riforma, in modi di governo molto simili, in Europa Occidentale. Prima, Luigi XI, Edoardo IV, Ferdinando e Isabella, sottomettendo la nobiltà feudale. Poi con la Riforma, nei paesi protestanti, si ebbe il sopravvento del governo sulla Chiesa, Enrico VIII, in Inghilterra, Enrico IV e Richelieu in Francia, Carlo V in Spagna. L’esperienza personale ha suggerito ad Hobbes, che i pericoli per ogni comunità sono l’anarchia o il dispotismo, ed avendo sperimentato l’orrore dei due fanatismi rivali (era ossessionato dal terrore per l’anarchismo), causato dalla guerra contro il Sovrano, l’ebbe a identificare come la peggiore delle calamità. E’ da questa ossessione che concepisce un progetto capace di costruire una comunità ordinata e pacifica, e un governo illuminato e autonomo. C’è da pensare però che se i sudditi, avessero adottato universalmente, questo atteggiamento di sottomissione indicato da Hobbes, sicuramente i governi si troverebbero in condizioni peggiori di quel che sono, considerato che: i governanti, tenterebbero tutto il possibile per rendersi inamovibili, 28 V * Thomas Hobbes Gli economisti, sarebbero portati ad arricchire se stessi e i loro amici, a scapito dello Stato, Gli scienziati, nel campo culturale, ostacolerebbero ogni nuova scoperta o dottrina che minacciasse il loro potere. Sono tutte buone ragioni queste per non pensare che il pericolo peggiore sia l’anarchia, ma ancora peggiore fosse il rischio dell’ingiustizia legato all’onnipotenza del governo. I meriti di Hobbes, appaiono chiari ed evidenti ove egli venga confrontato con precedenti teorici della politica. D'altronde si presenta come il primo, a parte Machiavelli, scrittore veramente moderno in teoria politica, completamente libero dalla superstizione senza riferimenti esoterici o mistici, con un linguaggio comprensibile e logico, anche se filosoficamente non completamente condivisibile. Il suo ragionamento appare debole la dove considera l’interesse nazionale del sovrano come tutt’uno con l’interesse individuale dei sudditi. Se ciò può essere vero in tempo di guerra, in tempo di pace possono crearsi gravissimi conflitti di interessi tra le diverse classi sociali. In simili situazioni, non è detto che il miglior modo per evitare l’anarchia, sia adottare il potere assoluto del sovrano. L’altro punto oscuro è la non menzione della possibilità di usare la via diplomatica intesa a derimere contrasti tra i diversi Stati, ma tutto viene affidato alla capacità di risoluzione delle guerre, con le armi e la conquista. Sommario 29 30 VI * Blaise Pascal VI Blaise Pascal Blaise Pascal (1623-1662) nacque a Clermont, ma ben presto dovette trasferirsi a Parigi, con il padre e le due sorelle. Già da giovane fu attratto dagli studi scientifici verso i quali si dedicò con entusiasmo compiendo numerosi esperimenti e realizzando anche delle invenzioni. Nel frattempo alcuni avvenimenti lo segnarono profondamente nella coscienza indirizzandolo verso la conversione alla vita religiosa. Iniziò a frequentare l’abbazia di Port-Royal, noto centro giansenista, dove già una sua sorella si era ritirata come monaca. Anche se nella nuova condizione continuò a coltivare gli interessi scientifici, diede il via ad una forte polemica, prendendo le difese della dottrina giansenista, contro la morale gesuitica a suo parere troppo lassista, e il malcostume degli ecclesiastici, riaffermando il rigore morale della Chiesa primitiva e il ritorno alle pratiche di culto autentiche e interiori. In seguito si rivolse anche contro i libertini e gli atei del suo tempo, con una serie di scritti facenti parte di una Apologia della religione cristiana, rimasta però incompiuta a causa della morte sopraggiunta a trentanove anni. Pubblicata postuma col titolo di “Pensieri”, rappresenta un vero capolavoro di indagine introspettiva della natura umana. Il pensiero di Pascal, nella lotta per la ragione in cui la filosofia del XVII secolo si riassume, è senza dubbio una voce fuori dal coro in ogni senso. Non già perché intende difendere la tradizione con mezzi tradizionali ma, accettando e facendo suo il razionalismo nel campo della scienza (anche se con alcuni limiti), si oppone all’idea che questo possa estendersi al dominio della religione e della morale, essendo la razionalità incapace di comprensione, esigenza prima e fondamentale dell’uomo, in questo campo. “L’uomo, - dice Pascal - non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante”. Anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sa di morire, e sa riconoscere la superiorità dell’universo su di lui, ma l’universo non ne sa niente. E’ nel pensiero che consiste tutta la nostra dignità. La natura dell’uomo ha carattere mediano, in mezzo tra l’essere un nulla rispetto all’infinito, e un tutto rispetto al niente. In questa ambiguità diventa pericoloso mostrargli quanto sia simile alla bestia senza mostrargli la sua grandezza, ma è altrettanto pericoloso mostrargli la sua grandezza senza la sua bassezza. In questa situazione il meglio diventa prospettare ambedue le condizioni. Nella circostanza di incertezza nel riconoscere veramente chi siamo, la ragione scientifica, non ci è di grande aiuto in quanto coglie solo gli aspetti esteriori e macroscopici. Per Pascal l’organo che riesce a captare gli aspetti più profondi della condizione umana, è il cuore “exprit de finesse”. Infatti “il cuore ha le ragioni, che la ragione non conosce”. Il cuore è una via più intuitiva, che sente più che vedere, che coglie di colpo più che attraverso un ragionamento, il solo spesso in grado di interpretare il senso del non detto. Il sapere scientifico e il cuore quindi si contrappongono, ma Pascal ha evitato accuratamente il dualismo troppo netto tra ragione e cuore. Il sapere umano, a differenza della teologia, non si basa sul principio di autorità, perché ciò renderebbe impossibile ogni progresso. Per ciò la scienza deve essere progressiva, perché solo così l’uomo costruisce seguendo nuove esperienze, sulle quali si sviluppa e si corregge il sapere. La scienza ha però dei limiti strutturali, e proprio l’esperienza se permette da un lato di accompagnare ogni proposizione scientifica, dall’altro circoscrive e limita i poteri della ragione, la quale non può 31 VI * Blaise Pascal andare oltre la stessa esperienza, dunque non è assoluta. Gli stessi principi primi della scienza sono indimostrabili: infatti non è possibile regredire all’infinito, riguardo al principio di non contraddizione, ma ci dobbiamo arrestare a dei termini primi oltre i quali non possiamo precedere, ma dai quali necessariamente dobbiamo partire con la catena dei nostri ragionamenti. Pascal, rifiutando con forza l’intromissione della teologia o del principio di autorità nella scienza, ne circoscrive gli ambiti in modo tale, da segnare una separazione netta tra fede e sapere scientifico. Ma curiosamente, non manca di sottolineare quanto l’exprit de finesse (l’intuito, in un certo senso la fede), sia assolutamente necessaria per la stessa scienza quando, i principi primi sono colti istintivamente dallo scienziato con la stessa creatività, quando vuole costruire ipotesi. La scienza non copre tutto l’ambito del vero, perché a lei sfuggono tutte le verità etico-religiose da cui dipende il senso della nostra esistenza. L’uomo messo di fronte ai problemi esistenziali di fatto assume due atteggiamenti: 1) o lo stordimento e l’oblio di sé, il “divertissment”, allontanandosi da sé per non saper restare solo con se stesso, in fuga dalle miserie, verso uno smarrimento angosciante, che lo conduce verso una felicità effimera e superficiale, miseramente noiosa; 2) o accettare quella che è la realtà dell’esistenza con le sue contraddizioni sapendo, che la dignità dell’uomo e il suo pregio sono il pensare, ricercare nella fede cristiana la vera risposta alle proprie angosce, iniziando il cammino verso la verità, a partire da sé per riappropriarsi di sé. Pascal, rivolgendosi in tono polemico contro Cartesio e i deisti del suo tempo, i quali ricercavano l’esistenza di Dio su basi razionali, ribadisce che: 32 VI * Blaise Pascal “non solo è impossibile ma è inutile conoscere Dio senza Gesù Cristo”, la fede è un evento, un’esperienza storica: al Dio dei filosofi occorre contrapporre quello storico, il Dio di Cristo. Come l’ateismo, anche il deismo si mostra altrettanto lontano dalla religione cristiana. Di Cartesio scrive di non poterlo perdonare, per il fatto che in tutta la sua filosofia avrebbe pur voluto fare a meno di Dio, ma non ha potuto esimersi dal fargli dare un colpetto, per mettere in movimento il mondo: “dopo di che non sa cosa farne di lui”. La conoscenza di Dio, senza conoscere la nostra miseria, genera la superbia dei filosofi; la conoscenza della nostra miseria, senza quella di Gesù Cristo, genera la disperazione degli atei. Sul concetto della conoscenza e dell’esistenza di Dio, Pascal formula il famoso tema della scommessa. Noi non conosciamo né l’esistenza né la natura di Dio, tuttavia grazie alla fede, sappiamo della Sua esistenza. La ragione non ci può aiutare a conoscere, per cui ci troviamo costretti a dover fare una scelta, vivere come se Dio esiste, o vivere come se Dio non ci fosse, senza poterci esimere dallo scegliere. Se alla ragione non possiamo chiedere aiuto, tanto vale fare testa o croce, oppure considerare la scelta più conveniente; scommettere sull’esistenza di Dio. Se si vince, vinciamo tutto il Bene infinito che è Dio per l’eternità, se perdiamo non perdiamo nulla se non beni effimeri e mondani. Scommettere sull’esistenza di Dio, diventa una scelta più che ragionevole, e in questo senso anche la ragione può mostrare che non è contraria alla fede e alla natura umana, ossia non è irrazionale. Sommario 33 34 VII * Baruch Spinoza VII Baruch Spinoza Baruch Spinoza (1632-1677), figlio di un rifugiato ebreo, fuggito dalla Spagna per sottrarsi alle persecuzioni dell’Inquisizione, ed esule in Olanda. Visse da emarginato e appartato dedito al suo lavoro, alla meditazione e allo studio, espulso dai suoi stessi correligionari per le sue idee eterodosse in campo religioso. Per il timore di perdere la sua libertà intellettuale, rifiutò persino la cattedra all’Università di Heidelberg. L’interesse principale di Spinoza è la ricerca del vero bene, quindi non le procedure del conoscere, ma la capacità fondamentale di dare un senso all’esistenza umana, cioè l’etica. La sua attenzione è rivolta soprattutto all’uomo, alla sua vita morale, religiosa, politica. Conoscere è sempre volere e verità e bene coincidono, per cui cercando l’una si ritrova insieme l’altro, e trovato il bene è trovare la felicità. Questo bene supremo, va ricercato per tutta la vita ed è il “legame che unisce interamente la mente con la natura”. Questi principi fondamentali della filosofia spinoziana, risultano essere il presupposto per conseguire la verità, delineando fin dall’inizio l’ambito della ricerca futura. Assolutamente diverso e originale è lo stile narrativo di Spinoza, volendosi contrapporre al metodo classico del sillogismo scolastico, ormai abusato e svuotato, adotta un linguaggio geometrico, fatto di definizioni e di postulati, decisamente difficile e pedante da intendere, ma preciso, razionale, più adeguato alle esigenze di chiarezza. Scopo del suo filosofare, lo annuncia nell’”Etica”, è la conoscenza dell’unità della mente con la totalità della natura. Se la metafisica aristotelica comprendeva una molteplicità gerarchicamente ordinate di sostanze, e Cartesio ammetteva come sostanze il divino, il pensiero e l’estensione; Spinoza, pur mantenendone la definizione di Sostanza, ne afferma l’unicità e l’infinità: “ciò che è in sé e per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di altra cosa, dal quale esso debba essere formato”. Per raggiungere questa unità, l’uomo deve conoscere se stesso e contemporaneamente la natura, con le differenze, le concordanze, le opposizioni esistenti tra le cose, affinché impari a conoscere ciò che esse gli consentono e quale sia la propria natura e la propria potenza. L’unica conoscenza utilizzabile dall’uomo per tale scopo, non potendo utilizzare altri tipi di percezione (quella simbolica, quella accidentale o quella dedotta da certi effetti), è quella conoscenza che si adegua pienamente all’idea dell’oggetto ed ha perciò in sé la garanzia necessaria della sua verità. Impostando il problema del metodo con il quale la mente viene indirizzata per giungere alla norma dell’idea vera, la quale non può essere altra che l’idea data dall’essere perfettissimo, Spinoza, ha inteso porre al centro della sua dottrina la considerazione dell’essere perfettissimo, cioè Dio, come la sostanza unica che esiste in sé ed è concepita per sé, e che non ha bisogno di nessun’altra realtà. Se la sostanza è unica, infinita ed è anche causa di sé, ciò implica la sua esistenza e questa, non può che essere Dio, essendo egli eterno. Dio quale sostanza, unica, infinita, eterna, causa di sé, concepita per sé, costituita da infiniti attributi, conosciuti come, “ciò che l’intelletto riconosce costitutivo della sua essenza”, ognuno dei quali espressione di un’essenza eterna e infinita. Quindi Dio quale causa efficiente di tutto ciò che è. Natura naturante, è la sostanza stessa, cioè Dio, nella sua essenza infinita. Natura naturata, sono i modi le manifestazioni singole dell’essenza divina. Tutto deriva da Dio 35 VII * Baruch Spinoza in virtù della sua perfetta conformità con la natura divina, per cui nulla nelle cose e nell’agire è contingente, cioè tale da dover essere prodotte in altro modo o altro ordine da quello per il quale sono state prodotte da Dio. La sua potenza si identifica con la sua essenza e tutto ciò che egli può, esiste necessariamente. Spinoza, affermando che nulla c’è al mondo che non derivi da un aspetto necessario di Dio e quindi intrinsecamente determinato, manifesta con forza la negazione della libertà della volontà umana. L’uomo si crede libero e consapevole della sua volontà, perché ignora la causa che la determina; questa causa è Dio stesso, che la determina, necessariamente, come per ogni altro modo d’essere, non essendoci differenza, sotto questo aspetto, tra l’uomo e la natura; tutto è necessità nell’uno come nell’altra. Con queste affermazioni Spinoza decreta coerentemente una radicale critica del finalismo. Se tutto necessariamente discende da Dio, non può esistere nessun fine né per l’uomo né per la natura, quindi ammettere che vi sia una causa finale per la quale natura e umanità siano stati destinati, è semplicemente un pregiudizio dovuto all’intelletto umano, che pone il fine in vista di un bene o vantaggio. Pensare che Dio abbia agito per un fine, toglierebbe la perfezione del mondo e la perfezione di Dio stesso, in quanto egli avrebbe creato in vista di qualcosa di cui mancava. Spinoza, ritiene la concezione finalistica del mondo, un prodotto dell’immaginazione, dovuto al tentativo di spiegare il mondo mediante nozioni come il bene, il male, il bello, il brutto, il caldo, ecc… le quali non esprimono se non il modo in cui le cose colpiscono gli uomini, ma non hanno valore oggettivo per intendere la realtà stessa. La perfezione delle cose deve essere valutata, non secondo il piacere o l’offesa ai sensi 36 VII * Baruch Spinoza degli uomini, ma dalla loro natura e dalla loro potenza. Non esistono imperfezioni in natura, perché le sue leggi sono così ampie che bastano a produrre tutto ciò che può essere concepito da un intelletto infinito. La caratteristica più evidente della dottrina spinoziana è l’identificazione di Dio con la natura naturante e la natura naturata considerata come sua immediata creazione. Questo implica, la considerazione che se Dio e la natura sono un'unica potenza, nulla può accadere che non sia necessità e perfezione, perché in natura nessuna legge può agire contro se tessa, per cui non esistono né disgrazie né miracoli, ma fatti e avvenimenti fuori dal comune, per i quali all’uomo per ignoranza o pregiudizio, sfugge la causa naturale degli accadimenti. La natura non è ristretta alle leggi della ragione umana, le quali tendono soltanto all’utilità e alla conservazione degli uomini, ma si estendono ad infinite altre leggi che concernono l’ordine eterno della natura intera, di cui l’uomo è solo una particella. Quindi, Spinoza considera che ”la sostanza, come identità di natura e Dio, è l’ordine necessario del tutto”. Essa non è certamente ragione, alla quale spetta un campo assai più ristretto, avendo il suo riferimento in quella parte della natura che è l’uomo. La sostanza non può essere considerata come causa, perché essa essendo ordine necessario, comprende insieme il necessitante e il necessitato, l’attributo e i modi, l’uno e il molteplice. Spinoza evita di avvalersi della dottrina della creazione, né di quella della emanazione di tipo neoplatonico, né la sovrabbondanza di potenza di Giordano Bruno. Cos’è allora questa sostanza spinoziana? La sostanza divina cioè Dio, sono i singoli modi, quell’ordine geometrico, quella necessità intrinseca della natura divina, per cui il tutto è 37 VII * Baruch Spinoza concatenato non per un fine, ma per un ordine cosmico da cui tutte le cose scaturiscono necessariamente, al pari dei singoli teoremi e proposizioni che in geometria si saldano nell’insieme, come dalla nozione di triangolo segue che la somma degli angoli interni è di 180°. Questa connessione, questa realtà, quest’ordine; in ultima analisi l’ordine geometrico dell’Universo, cioè il Sistema con tutte le sue leggi necessarie, è per Spinoza, la Sostanza Divina. Nel suo libro dell’Etica, delinea e caratterizza la figura dell’uomo libero. Questo riconosce l’utilità della vita associata e comunitaria scegliendo di conformarsi e sottostare alle leggi, pur avendo temperamenti diversi e contrastanti, a causa delle loro emozioni. Queste emozioni, tanto differenti e antitetiche vanno considerate così come sono, e non già vizi o negatività, ma parte della natura stessa dell’uomo, come dell’aria dipendono il caldo, il freddo, il vento ecc… fenomeni che anche se dannosi, sono tuttavia necessari. Questo realismo politico lo si può accostare a Hobbes, ma Spinoza ritiene le norme di diritto naturale fondate sull’ordine necessario del mondo, non già sulla ragione umana. Egli intende per diritto di natura “le stesse regole o leggi naturali secondo le quali tutte le cose accadono, cioè la potenza stessa della natura… Tutto ciò che un uomo fa secondo le leggi della sua natura, lo fa per sommo diritto di natura e ha sulla natura tanto diritto per quanto vale la sua potenza”. La potenza della natura si identifica infatti con la potenza di Dio. Ogni uomo, sia sapiente o ignorante, è parte della natura e tutto ciò da cui è determinato ad agire deve essere riferito alla potenza della natura, pertanto tutto ciò che l’uomo fa, sia guidato dalla ragione o dalla cupidigia, è conforme alle regole e alle leggi della natura cioè al diritto naturale. Il diritto naturale, quale espressione di necessità, può configurarsi come mancanza di libertà, ma ciò 38 VII * Baruch Spinoza non può essere, dato che esso non impedisce se non ciò che l’uomo non può o non desidera fare, quindi non elimina, in generale, l’istinto che agisce nell’uomo. Questa condizione, di non inibizione degli istinti, se spinta all’eccesso, determina una situazione che già Hobbes chiamava la guerra di tutti contro tutti. Da qui ne deriva che l’uomo non potendosi difendere da solo, né provvedere ai suoi bisogni senza un aiuto reciproco, il diritto di natura del genere umano, consiglia alla ragione la ricerca di un comune accordo di convivenza. E’ evidente che tanti più individui si associano tanto più cresce il loro diritto e la loro forza, così l’organizzazione di questa associazione determina il sorgere di un diritto comune e l’istituzione di un governo. Il diritto del governo è lo stesso diritto di natura, determinato però dalla potenza della moltitudine guidata da una sola mente, e non dalla potenza del singolo. La differenza fondamentale tra lo stato di natura e lo stato civile è che in quest’ultimo tutti temono le stesse leggi, ma i vantaggi che ne deriva sono tali che la ragione ne consiglia l’accettazione, secondo la regola del male minore. Sulla religione Spinoza pensa che tutte, pur nelle loro differenze storiche, sono simili, perché mirano a muovere l’animo all’obbedienza. La religione infatti appartiene a quel grado di conoscenza in cui domina l’immaginazione, i cui concetti non sono razionali ma solo immagini veritiere che insegnano la vita pratica e la virtù, ma non certamente la verità. E’ la fede che sovrintende alla totalità dei sentimenti o degli atteggiamenti, a condizionare l’obbedienza alla divinità. L’analisi che il filosofo della necessità ha fatto, dell’opera creatrice di Dio, del suo governo del mondo come l’ordine geometrico infallibile, non ha avuto altro scopo, nella sua opera speculativa, che difendere e garantire all’uomo la libertà della ricerca filosofica, la libertà politica, la libertà religiosa, la Sommario 39 40 VII * Baruch Spinoza VIII libertà dalle emozioni. Due righe di riflessioni sull’opera di Spinoza. Egli insegna che la natura del mondo e dell’uomo possa essere logicamente dedotta da assiomi evidenti, come due più due fanno quattro, e che la fortuna, la sfortuna, le catastrofi, la gioia, ecc… esistono solo nella nostra piccola realtà umana interessata, ma non hanno nessun significato per l’intero universo, sono concatenazioni di cause che si susseguono già dall’inizio del tempo e continueranno fino alla fine, contribuendo ad accrescere l’universale armonia. La metafisica di Spinoza, è il miglior esempio di ciò che si può chiamare monismo logico, la dottrina cioè che considera il mondo e l’universo come un'unica sostanza di cui nessuna parte sia capace di esistere da sola. Il concatenarsi di situazioni e condizioni necessitate, servono a mostrare, a definire, quello che è il pensiero ultimo della filosofia di Spinoza, cioè la fede nella bontà finale dell’universo, la convinzione che questo sia l’unico mondo necessitato. Isaac Newton Newton (1642-1727) raccolse e perfezionò i risultati delle osservazioni e degli studi dei tre grandi, Copernico, Keplero e Galileo, enunciando la sua legge della “gravitazione universale”, con la quale fu in grado di dedurre tutta la teoria planetaria: i moti dei pianeti e dei satelliti, le orbite delle comete e i moti delle maree. Il suo trionfo fu così completo che rischiò di divenire un secondo Aristotele, ponendosi a sua volta come ostacolo al progresso. Questa teoria, che la leggenda vuole causata dalla vista della caduta di una mela dall’albero e diffusa ad arte da Voltaire, afferma che la forza con cui due corpi si attraggono è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza, trovando conferma nel 1682, quando il francese Picard ha fornito l’esatta misurazione del raggio terrestre. Essa, non solo ha stabilito un unico principio capace di rendere conto di una enorme quantità di fenomeni, ma ha contribuito al moltiplicarsi di altri programmi di ricerca in altri settori, a prima vista completamente differenti come l’elettricità, la fisiologia, l’ottica, ecc.. nello sforzo comune di giungere ad una loro unificazione totale. Il metodo di ricerca di Newton è quello analitico induttivo, di tipo galileiano, egli si propone di partire dalla conoscenza dei fatti riscontrati dall’esperienza, cercando di risalire gradualmente alle prime cause fino agli ultimi elementi dei fatti stessi. Compito principale della fisica è la descrizione dei fenomeni, non la loro giustificazione sulla base di una causa ultima. Egli ha trovato la formula matematica che consente di descrivere i fenomeni che concernono la forza di gravità, ma si rifiuta di proporre un’ipotesi sulla natura di tale fenomeno. L’orientamento che ha voluto dare alla sua ricerca è stato di 41 VIII * Isaac Newton ridare importanza alla descrizione della natura e ai suoi fenomeni, trascurando completamente la loro spiegazione, ciò di cui si occupava la fisica antica e medioevale. Tuttavia non sempre, Newton stesso, si mantenne fedele a questo spirito. Certamente Newton fu uno degli iniziatori dell’illuminismo, principalmente inglese, avendo dato con i suoi studi, una visione compiuta di un sistema puramente meccanico di tutto il mondo celeste e terreno. Attraverso le sue speculazioni, ha voluto continuare per conto suo il tentativo di razionalizzare le credenze religiose e di ricercare la saldatura tra fede e scienza moderna, come già i platonici di Cambridge avevano intrapreso. Anche Robert Boyle (1627-1691), autore di scritti teologici e scientifici, specialmente di chimica, si pone sulla stessa linea nel tentativo di conciliare fede e scienza, seguendo una via originale consistente nel sottrarre la fede all’entusiasmo, cioè al fanatismo e all’integralismo, la scienza al dogmatismo, riconducendo entrambi nei limiti di una ragione che rifiuti di proporre verità assolute e si mantenga pronta a correggere le proprie conclusioni. L’opera di Boyle ha avuto per la filosofia di Locke un’importanza grandissima, perché da essa ne derivò quella distinzione tra qualità primarie e secondarie cui fu attribuita tanta importanza nel corso successivo della scienza e della filosofia gnoseologica. Come si può notare il XVII secolo non fu importante solo in astronomia e nelle scienze, ma in tutti gli altri campi della cultura e della filosofia. La strumentazione scientifica si arricchì di tutta una serie di oggetti: dal microscopio, al telescopio al termometro, il barometro, la pompa pneumatica, nel campo della misurazione del tempo anche se gli orologi non erano una novità, fecero passi da gigante nella ricerca della precisione, in 42 VIII * Isaac Newton buona parte per opera di Galileo. Tutta questa strumentazione rese le osservazioni scientifiche immensamente più esatte ed estese di quanto non fossero mai state prima. Importanti lavori vennero compiuti da Gilbert sul magnetismo, Harvey scoprì la circolazione sanguinea, Leeuwenhoek scoprì i protozoi, nonché i batteri e gli organismi unicellulari, Boyle formulò la legge sulle sostanze gassose, ecc. Anche nella matematica pura vennero fatti progressi addirittura indispensabili per gli studi fisici. Napier formulò gli studi sui logaritmi, la geometria delle coordinate ricevettero un impulso decisivo da Cartesio, Newton e Leibniz, anche se separatamente, contribuirono a inventare il calcolo differenziale ed integrale. Queste sono solo le conquiste di maggior rilievo, ma innumerevoli altre di grande importanza vennero formulate durante il XVII secolo. Il risultato di tutti questi studi e scoperte scientifiche e tecniche fu straordinario. Il modo di vedere l’universo, da parte dell’uomo di una certa educazione, subì una completa trasformazione. Con le leggi fisiche sparì completamente ogni traccia di animismo. All’epoca della Grecia classica, i filosofi consideravano la capacità di movimento come un segno di vita, mentre ciò che si muoveva a causa di una spinta esterna era materia inerte. I quarantasette o cinquantatre motori immoti che muovono i cieli secondo Aristotele, il sole e le stelle, venivano visti come mossi dagli dei o da forze che dirigevano e controllavano, per cui l’anima doveva esercitare la sua attività sulla materia costantemente altrimenti il moto sarebbe venuto meno. La prima legge del moto, che decreta come la materia senza vita una volta messasi in moto, continui a muoversi per sempre a causa della sua stessa forza inerziale e delle sue leggi, se non modificata da qualche ragione esterna, sovvertiva 43 44 VIII * Isaac Newton VIII * Isaac Newton completamente la concezione antica del movimento, in quanto l’azione divina, se mai necessaria, avrebbe operato solo in principio per mettere in azione il meccanismo. Anche il posto centrale che l’uomo occupava nell’universo durante il medioevo, subisce un improvviso declassamento, fino a divenire un piccolissimo essere facente parte di un piccolo corpo celeste relegato in un angolino sperduto del cielo, per cui apparve improbabile che tutto questo immenso apparato fosse messo a disposizione di certe piccole creature, viventi in questo angolino sperduto e che tutto dovesse riguardare lui in un modo o nell’altro. Ciascuno era libero di credere che il mondo esistesse per proclamare la gloria di Dio, ma nessuno più avrebbe introdotto questo concetto tra le spiegazioni scientifiche. Buona parte della speculazione filosofica del secolo XVIII in Inghilterra, verteva intorno al tema della religione rivelata, o della religione naturale, intesa quest’ultima come la religione che si limita a insegnare solo quelle verità che la ragione può dimostrare o almeno comprendere (deismo). Questo neo illuminismo inglese, che tanto fece discutere e tanto influenzò l’ Europa e la Francia in particolare, ebbe la sua origine e la sua nutrice nel XVII secolo, secolo di grande fermento e di straordinaria cultura paragonabile, a mio avvisi, al miglior secolo della Grecia classica, quello di Platone, Aristotele e Alessandro. Il deismo è la religione, che accetta il concetto della divinità, solo in quanto riconoscibile con la forza della ragione, perciò escludente ogni connotazione misterica o comunque non accessibile dalla ragione. Queste dottrine, che sono il tentativo di razionalizzare la teologia che già i “platonici di Cambridge” avevano portato avanti ricorrendo al platonismo rinascimentale, vengono annunciate da numerosi intellettuali detti anche “liberi pensatori”. E’ Locke, l’iniziatore di questo movimento, il quale riesce ad attirare l’attenzione sulle sue dottrine sapientemente amalgamate di cartesianesimo ed empirismo, tanto da conquistare a questa filosofia i liberi pensatori inglesi, e non solo, che trovano in queste dottrine un terreno favorevole sopra il quale innestare la razionalizzazione della religione, ricorrendo alla nuova gnoseologia empiristica, radicata nella certezza della ragione. Benché la maggior parte degli uomini di scienza erano modelli di piieta religiosa, le scoperte turbavano le loro coscienze ma preoccupavano non poco l’ortodossia (non era trascorso tanto tempo dalla polemica su Galileo), tanto che il disagio dei teologi era pienamente giustificato. I presupposti magici e neoplatonici erano oramai scomparsi definitivamente, come i dogmi della fisica tradizionale, come il mito della circolarità o la diversità essenziale tra i cieli e la terra. Ciò che andava imponendosi invece era l’idea di una religione dominata dalla ragione, limitata e controllata dall’esperienza, non più libera di muoversi a piacere nel campo della fede e della tradizione. Sommario 45 46 IX * John Locke IX John Locke John Locke (1632-1704) scrisse le sue opere di maggiore influenza, nel periodo della rivoluzione inglese del 1688, la più moderata e riuscita delle rivoluzioni, della quale fu l’apostolo e ne impersonò lo spirito. Dopo il conseguimento del titolo di maestro delle Arti, ad Oxford, continuò la sua formazione culturale in vari ambiti, dalla medicina alla fisica. Fu membro della Royal Society e segretario di Lord Shaftesbury, partecipando attivamente alla vita politica. Nel 1682 dovette rifugiarsi in Olanda con il suo protettore a seguito di una congiura contro Re Carlo II. Con l’avvento della monarchia orangista in Inghilterra, potè rientrare in patria nel 1689, dedicandosi per gli ultimi anni di vita alla meditazione e all’attività letteraria. L’influenza che ebbe nella filosofia della politica fu grande e durevole, tanto da essere considerato il fondatore del liberismo e dell’empirismo. La sua filosofia venne seguita e abbracciata dagli uomini di governo del suo paese che proprio in quegli anni conquistarono il potere e per molti anni ancora le idee da lui difese e sostenute, furono condivise dai politici e dai filosofi più energici, anche al di fuori dell’Inghilterra. Il pensiero politico del XVII secolo era dominato da due correnti distinte e contrastanti intorno all’origine del governo. La prima, di cui era esponente Sir Robert Filmer, sosteneva la sacralità di certe persone e loro eredi, alle quali Dio avrebbe affidato il potere e la legittimità di governare, ribellandosi ai quali si commetterebbe tradimento ed empietà. Questa opinione, risaliva alla concezione arcaica delle antiche civiltà nelle quali il re si riteneva una persona indicata dalla divinità. Naturalmente i regnanti consideravano ancora questa teoria validissima. Per l’aristocrazia, questa convinzione veniva valutata secondo circostanza, appoggiata, quando la nuova classe mercantile sempre più forte, cercava di destituirla dei privilegi ereditari, oppure si opponeva alla dottrina del diritto divino, nella situazione in cui l’aristocrazia aveva la possibilità di prevalere sul potere supremo del re. L’altra fondamentale teoria, della quale Locke era rappresentante, sosteneva che il governo civile fosse il risultato di un contratto riguardante unicamente la società come fatto storico o come condizione mediata legalmente, attinente unicamente a questo mondo, in cui l’autorità di governo è di origine terrena e non depositaria di alcuna direttiva divina. Tale governo ottiene pertanto il diritto di obbedienza assoluto, diritto conferito e contrattato con la società civile. Naturalmente questa dottrina venne rappresentata da tutti coloro i quali erano contrari al diritto divino dei re. Date queste premesse, Locke si schiera per la seconda corrente, con il desiderio di prevenire, promuovere e condizionare gli avvenimenti (la rivoluzione del 1689) che faranno seguito. Egli espone la sua concezione della politica teorizzando uno Stato costituzionale che nasce dal diritto di natura, coincidente con la ragione, la quale porta a ritenere tutti gli uomini uguali e indipendenti, in possesso dei diritti naturali che sono la vita, la libertà, la proprietà, il diritto all’autodifesa. Gli uomini riunendosi in società, rinunciano al diritto di farsi giustizia da soli, ma si garantiscono una migliore difesa per tutti gli altri diritti. Diversamente da Hobbes, dove è l’istinto selvaggio all’origine dello Stato, qui è la ragione a prevalere. I limiti del potere dello Stato, che sono stabiliti dalla carta costituzionale, risiedono in quei diritti naturali, che sono per definizione, inviolabili, in particolare il diritto di proprietà, la cui difesa è uno dei compiti primari dello Stato. La divisione dei poteri in legislativo, esecutivo, e federativo (quest’ultimo con lo 47 IX * John Locke scopo di garantire la pace nel consesso internazionale), assicura che il potere non si trasformi in tirannia. Infine lo Stato non deve intervenire in questioni religiose, in quanto la fede è qualcosa di interiore a ciascuno. Locke sostiene la ferma separazione tra governo civile e religioso. Esclude dalle competenze del magistrato civile le questioni di fede, conferma che le leggi dello Stato per essere giudicate giuste, debbano essere conformi alle leggi di natura. Lo Stato non deve comprimere la libertà dei cittadini, ai quali invece va garantita al massimo, per non essere messa a rischio da un potere statuale centralizzato e dispotico. Sul problema religioso, Locke, ritiene la religione cristiana possedere una intrinseca ragionevolezza, fondata sull’insegnamento di Gesù, perfettamente accordato con la ragione. Le verità del Vangelo mostrano essere perfettamente conformi alla ragione, e ciò ha trovato in Locke un antesignano del deismo, che proprio in quegli anni andava diffondendosi in parallelo con la nascente cultura illuministica. Oltre a teorizzare la separazione tra la sfera civile e quella religiosa, Locke si rivolge contro il potere ecclesiastico ritenendo illegittima la pretesa di forzare i cristiani a professare verità religiose imposte dogmaticamente, o praticare determinate forme di culto. “Cristo inviò i suoi ministri alla conquista delle nazioni per radunarle nella Chiesa, non armati di ferro, non di spada, non di violenza, ma del Vangelo, di un annuncio di pace, di santi costumi e del suo esempio… La tolleranza verso coloro che dissentono dagli altri in fatto di religione è cosa talmente consona al Vangelo e alla ragione, che è mostruoso che vi siano uomini ciechi a tanta luce”. La religione, riguarda la coscienza e richiede un’adesione interiore cui nessuno può obbligare. Questo principio di tolleranza secondo Locke, viene meno quando si incontrano i cattolici e gli atei, i primi già per natura 48 IX * John Locke intolleranti essendo “papisti”, quindi al servizio di un altro sovrano, i secondi essendo non credenti in Dio e asociali, non credono neppure nella sacralità del giuramento sui quali si fonda la società. Se per Cartesio la ragione è una forza unica, infallibile e onnipotente, per Locke, la ragione non possiede nessuno di questi caratteri. L’unità della ragione non è data ne garantita, ma va formata e assicurata attraverso una apposita disciplina. L’infallibilità della ragione, è resa impossibile dalla limitata disponibilità delle idee, dalla loro frequente oscurità, dalla mancanza di prove e dal carattere imperfetto del linguaggio del quale la ragione ha bisogno. L‘onnipotenza, è esclusa, in quanto i principi e il materiale di cui si serve la ragione, non li produce da sé, ma fa uso dei principi del sapere per costruire qualcosa di grande. Date queste limitazioni costitutive, la ragione può comprendere solo l’ambito della sfera del sapere probabile, secondo quanto già prospettato da Gassendi. Locke fu certamente il primo che intuì la necessità, prima di addentrarsi nell’indagine relativa alla conoscenza, di esaminare le capacità proprie dell’uomo nel vedere quali oggetti il suo intelletto fosse o non fosse capace di considerare. Analizzarne cioè le sue capacità, le sue funzioni, i suoi limiti. Da questa intuizione, nasce la prima indagine critica della filosofia moderna, diretta a stabilire le effettive possibilità umane con il riconoscimento dei limiti che sono propri dell’uomo. Per Locke la conoscenza non ha a che fare con gli oggetti ma con le idee come per Cartesio, ma a differenza di questo, tutte le nostre idee derivano solo dall’esperienza. Questa affermazione mostra, che il materiale su cui la ragione opera è frutto dell’esperienza per cui, l’attività conoscitiva umana da questa condizionata, né stabilisce i limiti e i poteri della ragione 49 IX * John Locke stessa, quindi dell’uso che l’uomo può farne in tutti i campi delle sue attività. L’esperienza condiziona la ragione, in primo luogo fornendole il materiale che essa da sola è incapace di creare, in secondo luogo, proponendo alla ragione stessa, le regole o i modelli o i limiti secondo i quali questo materiale va ordinato e utilizzato. Non esistono idee innate, ma l’intelletto è simile “a un foglio bianco, privo di caratteri, senza alcuna idea”, recupero dall’antica tesi dell’anima come tabula rasa. Queste asserzioni denotano la diversa impostazione della dottrina di Locke e una critica al cartesianesimo e al neoplatonismo, i quali sostenevano la presenza nella mente di idee anteriori all’esperienza (innatismo). Nella dottrina delle idee, Locke le suddivide in “semplici” e “complesse”. L’esperienza, che è la sensazione e la riflessione, ci fornisce soltanto di idee semplici, mentre le complesse sono prodotte dal nostro spirito mediante la riunione di varie idee semplici. Difatti l’intelletto, provvisto della sensazione e della riflessione di idee semplici, ha la capacità di riprodurle, paragonarle, unirle, in modo infinitamente vario. Le idee essendo rappresentazioni mentali, esistono solo nella nostra mente, ma derivando dall’esperienza, stanno a indicare che fuori dalla nostra mente esiste qualcosa capace di produrle in noi. Questa capacità è chiamata “qualità”, che può essere primaria ed è quella oggettiva, o secondaria che è soggettiva, ma pur sempre riferita all’oggetto (dolore, amaro, freddo, ecc…). Le idee semplici vengono ricevute in modo passivo dal nostro intelletto, ma questo però opera su di esse in varia maniera, producendo le idee complesse, suddivise a loro volta in: idee complesse di “modo”, di “sostanza”, di “relazioni”. Per quanto riguarda l’analisi dell’idea complessa della sostanza, Locke osserva come un certo numero di idee semplici 50 IX * John Locke vanno costantemente insieme, ciò fa ritenere che quelle idee appartengano ad una sola cosa, tanto da non riuscire a immaginare come queste idee possano esistere separate. Il nostro intelletto, in queste occasioni, è portato a supporre l’esistenza di un substratum che regga, o leghi un certo numero di idee semplici che di solito si accompagnano insieme. Quando le idee semplici sono sensoriali si hanno sostanze corporee, quando sono di riflessioni, abbiamo sostanze spirituali. Cosa sia questo substratum o sostanza a cui sono vincolate varie qualità, come il peso, il colore, ecc.. Locke, riconoscendo l’esistenza delle sostanze al di là delle qualità che noi percepiamo delle cose, nega che il nostro intelletto possa avare un’idea chiara e distinta in grado di conoscerlo. Ciò che genericamente chiamiamo oro è una sostanza che ha certe qualità di peso, colore, lucentezza, malleabilità, ecc.. Questo insieme di qualità per poterle spiegare ricorriamo al temine di sostanza, ma la vera sostanza se ci fosse o fosse conoscibile all’uomo, dovrebbe essere conosciuta a prescindere dalle diverse qualità, e costituire quella ragion d’essere dalla quale essa dovrebbe venire compresa senza l’aiuto dell’esperienza. “Che cosa sia la sostanza non lo sappiamo perché non è un’idea semplice e il nostro intelletto non la può conoscere”. E’ questo l’aspetto più importante della critica di Locke alla nozione di sostanza. Affrontando i temi relativi alla validità della conoscenza, nel IV libro del Saggio, egli intende rispondere in modo conclusivo al progetto generale della sua intera opera. L’esperienza fornisce il materiale della conoscenza, ma non è la conoscenza stessa. Questa ha a che fare con l’idea la quale è l’unico oggetto possibile dell’intelletto, consistente nella percezione di un accordo o di un disaccordo delle idee tra di loro. Per tanto la conoscenza può essere di due specie 51 IX * John Locke fondamentali. Conoscenza intuitiva, quando l’accordo o il disaccordo di due idee è percepito immediatamente (il bianco non è nero questo è intuitivo) in virtù delle idee stesse senza l’intervento di altre idee. Questa conoscenza è la più certa che l’uomo possa raggiungere ed è il fondamento della certezza di ogni altra conoscenza. La conoscenza dimostrativa si à quando l’accordo o il disaccordo tra le idee non è percepito immediatamente, ma si rende evidente solo con l’uso di idee intermedie che si chiamano prove (nelle dimostrazioni geometriche). Queste si fondano evidentemente su un certo numero di conoscenze intuitive, ma quando le prove sono numerose la possibilità di errore diventa maggiore, per cui la conoscenza dimostrativa è meno sicura di quella intuitiva. Accanto a queste due specie di conoscenza ce n’è un’altra ed è la conoscenza delle cose esistenti al di fuori di noi. Locke si rende conto che la dottrina sulla conoscenza, precedentemente enunciata, consistente nella percezione dell’accordo o del disaccordo tra le idee, non aiuta a giungere alla conoscenza della realtà esistente al di fuori dalle idee. Come può essere garantita questa conformità tra idee e realtà delle cose, se questa ci è conosciuta solo attraverso le idee? Questa è la sua risposta. Per poter giungere alla conoscenza reale delle cose l’uomo, non ha altro mezzo di apprendimento che la sensazione, e precisamente la sensazione attuale. Nel momento in cui l’oggetto esterno colpisce i sensi si produce l’idea, la quale ci fa conoscere che qualcosa in questo momento esiste fuori di noi. E’ quindi l’attualità della sensazione che consente di affermare la realtà del suo oggetto. “Avere l’idea di una cosa nel nostro spirito, non prova l’esistenza di quella cosa non più del ritratto di un uomo non provi che egli è al mondo”. Indubbiamente la conoscenza che abbiamo della realtà delle cose esterne non è così certa come la conoscenza intuitiva di noi stessi, tuttavia 52 IX * John Locke essa è abbastanza sicura da meritare il nome di conoscenza. Noi dobbiamo avere fiducia nelle nostre facoltà dal momento che non possiamo conoscerle se non adoperandole. La sensazione attuale rende la certezza intorno alla realtà che la produce, sufficiente a tutti gli scopi e le necessità dell’uomo. Locke riconoscendo che le facoltà umane non sono adatte ad estendersi a tutto l’essere, né a raggiungere una conoscenza libera da dubbi, riconosce comunque che così come sono, pervengono ad una sufficiente evidenza adatta agli scopi della vita, cioè ad orientarci di fronte alla felicità e alla miseria; “di la da questo, nulla ci concerne, né dell’essere né del conoscere”. Al di là della certezza, si estende il dominio della conoscenza probabile. La vita umana sarebbe impossibile se dipendesse unicamente dal possesso della conoscenza certa. Provvidenzialmente, per supplire a ciò, l’uomo è dotato di una capacità, con la quale rimediare a questa mancanza di certezza; questa attitudine è il giudizio. Anche il giudizio, consiste nell’accordo o nel disaccordo delle idee fra loro, ma a differenza della conoscenza, questo accordo non è percepito, ma solo presunto. Nella conoscenza, la dimostrazione della prova dell’accordo o disaccordo tra due idee hanno una connessione costante e immutabile, ben visibile l’una con l’altra. Il giudizio, non dà questa dimostrazione, ma soltanto probabilità dovute a delle prove, la cui connessione non è costante né immutabile, ma appare sufficiente a indurre lo spirito ad accettarle. La probabilità dunque concerne proposizioni che non sono certe, ma incoraggiano a ritenerle vere. La probabilità ha diversi gradi di assenso. Il primo grado si ha quando una proposizione riceve il consenso generale di tutti gli uomini e in questo caso si è vicino alla conoscenza. Il secondo grado è quando la nostra esperienza coincide con la testimonianza di molte persone degne di fede. Il terzo grado della probabilità si ha rispetto alle 53 IX * John Locke cose che accadono, indifferentemente testimoniate da poche persone degne di fede. E’ curioso il fatto che Locke abbia confinato, la storia, in quest’ultimo e più basso grado della probabilità, ponendola fuori dalla conoscenza certa. L’attività propria della ragione interviene nella conoscenza dimostrativa e nel giudizio probabile, nel trovare le prove, cioè le idee intermedie e a ordinare, esaminare, valutare i fondamenti della probabilità di tali prove. La ragione, è la facoltà che trova la necessaria e indubitabile relazione delle idee nella dimostrazione, o la connessione probabile delle prove nel giudizio. Locke, nega che la ragione abbia il suo strumento più adatto, nel sillogismo della logica aristotelica-scolastica, non ritenendo questo necessario per ragionare rettamente, perché non serve né a scoprire le idee né a stabilire la loro connessione. Pur nella sua limitata possibilità, dovuta alla fallibilità e in parecchi casi alla poca disponibilità di idee, senza le quali peraltro il nostro ragionare si ferma, o per l’impedimento dovuto alla confusione e all’imperfezione causate dalla mancanza di prove, dovendo queste servire a dimostrare la concordanza certa o probabile delle idee, ciò nonostante, la ragione, è la sola guida che l’uomo dispone in tutte le occasioni della sua vita, della quale anche la fede stessa non può farne a meno. In campo religioso, l’entusiasmo e il fanatismo, di coloro che credono di possedere la verità assoluta ispirata da Dio, vanno contrastati, dice Locke, prospettando la ragione, che “essa sola, deve essere il nostro ultimo giudice e la nostra guida di tutto”. Per concludere si può dire che Locke fu l’iniziatore del movimento liberista. Dai suoi lavori traspare evidente il rispetto per la proprietà privata residente in quei diritti naturali inviolabili per i quali lo Stato, attraverso la carta Costituzionale ha il dovere di difendere. Fu colui che promosse l’empirismo, 54 IX * John Locke proseguito e portato a compimento da Hume. La sua dottrina ha inteso dimostrare come solo dall’esperienza vengono originate le idee, respingendo l’innatismo. E’ l’esperienza il criterio di Verità; “non giudicare le cose secondo le opinioni, ma le opinioni secondo le cose”. Locke, volendo restringere la conoscenza umana nei limiti dell’esperienza, non intende diminuirne il valore; anzi ne ha riconosciuto, in quei limiti, una piena validità. Sommario 55 56 X * George Berkeley X George Berkeley Di origine irlandese, George Berkley (1685-1753), compì gli studi al Trinity College di Dublino, divenne prete anglicano e progettando l’evangelizzazione dei selvaggi d’America emigrò, ma la missione fallì. Ritornò in Irlanda, fu nominato vescovo in un piccolo territorio irlandese cattolico. L’impegno dichiarato del suo lavoro è di scardinare le basi filosofiche del materialismo e dell’ateismo dominante in quel periodo, portando una critica serrata ai liberi pensatori, Locke e Newton in primo luogo, ma non solo. Il suo interesse dominante non è la filosofia ma la difesa della religiosità, da lui considerata come fondamento necessario alla vita morale e politica. Come Cartesio, Berkley, ritiene che tutta la nostra conoscenza abbia come oggetti le idee e non le cose stesse. Le idee provengono e si formano attraverso i sensi (i colori, i rumori, il calore, ecc..), quindi sono sensazioni, e la combinazione costante di più idee e l’abituale coesistenza di alcune di queste, producono in noi gli oggetti. Ma sia le idee che le loro combinazioni costanti sono solo nella mente, quindi sono sensazioni e le sensazioni non stanno fuori dalla mente, perché fuori da questa non c’è nulla. Le parole stesse per avere un senso devono stare per idee, cioè per sensazioni. Anche il tempo è una sensazione, quindi è soggettivo, più lungo o più breve secondo di come è avvertito, e allo stesso modo sono sensazioni il moto e l’estensione. La distanza che noi percepiamo tra due oggetti non è una qualità oggettiva delle cose, ma una nostra interpretazione , ossia “la realtà oggettiva sorge di fronte a noi solo in virtù di un’interpretazione di segni sensibili, i soli che in un primo tempo ci siamo dati”. Per comprendere meglio il ragionamento. Percepire la distanza non è una semplice opera della vista, ma il frutto di una complessa operazione del nostro spirito, consistente nella comparazione di dati visivi attualmente percepiti con sensazioni tattili già conosciute nel passato e nell’associazione, resa possibile dall’abitudine, degli uni con le altre. Con queste premesse, Berkeley, ha voluto dimostrare come tutta la realtà è spirituale e il solo criterio per dire che una cosa esiste, è che essa venga percepita (del nulla non c’è percezione). E’ falso perciò parlare di sostanze materiali indipendenti dalle nostre percezioni, dato che la nostra conoscenza è fatta solo di sensazioni oltre cui non si può andare. Volendo portare una critica pesante al materialismo, il suo ragionamento viene formulato sul concetto di percezione delle qualità delle cose che sono “nello spirito” o “spirituali” e non sulle “sostanze materiali”, le quali non vengono percepite dai sensi per cui, un oggetto non conosciuto esistente in una sostanza non pensante, ossia esterna a ogni spirito, è in se stessa una contraddizione evidente. E’ manifesto il rifiuto a voler considerare la possibilità che ci possa essere le due cose assieme. Non c’è motivo – dice B. Russell - per cui ogni fenomeno debba appartenere all’uno o all’altro tipo, e non c’è motivo per cui qualche fenomeno non debba appartenere ad entrambi i tipi; quindi qualche fenomeno può non essere né spirituale né materiale, ed altri fenomeni possono essere entrambe le cose. Un’ultima considerazione, con la sua opera Berkley ha voluto negare l’esistenza della materia dimostrando che tutta la realtà è spirituale, ma ciò che ha dimostrato è che noi percepiamo e riconosciamo solo le qualità non le cose, e le qualità sono soggettive a chi le percepisce. Forse non era questa la vera conclusione, anche se ugualmente importante, a cui pensava di arrivare. Sommario 57 58 XI * Gottfried Leibniz XI Gottfried Leibniz Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) nacque a Lipsia dove suo padre era professore di filosofia morale. Studiò legge in quella università e nel ’66 si laureò ad Altdorf (Norimberga). Persona di grande cultura fu al servizio dell’arcivescovo di Magonza, per il quale si recò a Parigi per promuovere un progetto politico militare (senza peraltro riuscirci). Durante quella permanenza, che si prolungò per parecchi anni, ebbe modo di conoscere e frequentare il meglio della cultura europea, con notevole vantaggio per la sua formazione culturale. Viaggiò parecchio nelle altre capitali culturali allargando la cerchia delle sue conoscenze da Newton a Spinoza. Fu storico e consigliere dei duchi di Hannover, oltre che fondatore dell’Accademia delle scienze a Berlino. Si adoperò anche per l’unificazione tra protestanti e cattolici e la pacificazione tra gli Stati europei. Gli ultimi anni ebbe delle tensioni con gli Hannover e delle polemiche con la Royal Society londinese circa la priorità della scoperta del calcolo infinitesimale tra lui e Newton. Come intellettuale fu sicuramente uno dei più alti di ogni tempo, ma come uomo non fu molto ammirevole soprattutto riguardo al denaro, si direbbe oggi che “ha il braccino corto”. Come regalo di nozze per le giovani dame della corte degli Hannover, usava “regalare” un libretto con massime di comportamento, che terminavano con il consiglio di non tralasciare l’igiene personale. Non si sa se queste gli fossero grate dei consigli. Il pensiero centrale di Leibniz, va sintetizzato nell’idea di un unico ordine universale spontaneamente organizzato quindi libero, suscettibile di far valere in tutti i campi la capacità di predisporsi e svilupparsi nel modo migliore, secondo una regola non necessitante, ma secondo una scelta libera tra diversi ordini possibili. La sua dottrina, quindi è la possibilità non la necessità, di un ordine matematico o geometrico, che tra vari possibili, Dio ha scelto il più perfetto, quello che nello stesso tempo è il più semplice ma più ricco di fenomeni. La scelta dunque è regolata dal principio del meglio, cioè da una regola morale finalista. Diversamente dalla dottrina di Spinoza, in cui ciò che esiste è una necessaria manifestazione dell’essenza di Dio. Tutto ciò che esiste è una possibilità realizzata non secondo una regola necessitante o senza regola, ma in virtù di una scelta contemplata tra diverse, liberamente accettata secondo la regola che ha considerato l’eccesso di bene sul male. Questo vuol dire che non tutto ciò che possibile si è realizzato o si realizza e che il mondo dei possibili è assai più vasto del mondo del reale. Infiniti sono i mondi possibili, Dio ha realizzato il migliore per libera scelta, secondo una regola che si è posto per la sua saggezza suprema. Sull’innatismo, Leibniz ha espresso delle idee opposte da Locke, ammettendo l’esistenza delle idee innate, anche se queste si presentano in modo piuttosto confuse ed oscure, percezioni, o tendenze e non in una forma chiara e distinta. E’ l’esperienza che, come il martello dello scultore con pochi colpi toglie il marmo superfluo per portare alla luce la statua, compie il lavoro di rendere pienamente chiare e distinte le idee, che nell’anima sono semplici possibilità o tendenze. Per formulare il concetto di sostanza individuale Leibniz, si avvale del principio di ragione sufficiente. Una verità di ragione è tale che in essa il soggetto e il predicato sono in realtà identici, per cui non è possibile negare il predicato senza contraddirsi (es. un triangolo non può non avere tre lati o gli angoli interni non uguali a due retti senza contraddizione). Ma nelle verità di fatto il predicato non è identico al soggetto quindi può essere negato senza alcuna contraddizione. Il soggetto a sua volta deve però contenere la 59 XI * Gottfried Leibniz ragione sufficiente del suo predicato. Questo è ciò che Leibniz intende per sostanza individuale. “la natura di una sostanza individuale o di un essere completo è che la sua nozione è così compiuta che basta a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati dal soggetto a cui esso è attribuita”. Per chiarire, la nozione di Alessandro Magno include la ragione sufficiente di tutti i predicati che si possono dire di lui con verità, per es. che vinse la battaglia contro Dario e Poro ecc. Naturalmente l’uomo non può avere una conoscenza compiuta della sostanza individuale, perciò desume dalla storia e dall’esperienza tutti gli attributi a lui riferiti. Ma Dio la cui conoscenza è perfetta, è in grado di scorgere di ogni sostanza individuale la ragione sufficiente di tutti i suoi predicati, quindi di tutti i residui di ciò che gli è accaduto e di ciò che gli accadrà. Ma questo, non vuol dire che una sostanza individuale sia necessitata ad agire in un certo modo (es. Alessandro poteva non vincere contro Dario o non fare la campagna fino in India), ciò poteva benissimo non accadere perché il loro contrario non è in contraddizione. In realtà era certissimo che sarebbe andata così data la natura della sostanza individuale che le ha compiute, in quanto tale natura è la ragione sufficiente di essa. Dio scegliendo liberamente quel particolare ordine dell’universo che richiede quella particolare sostanza individuale; o le azioni e le scelte di Alessandro liberamente volute, in ambedue i casi hanno la loro ragione sufficiente che le spiega e le rende intellegibili. Dio avrebbe potuto scegliere un mondo diverso, e Alessandro avrebbe potuto non compiere quelle azioni, ma la perfezione dell’universo ne avrebbe sofferto e così le cose dovevano svolgersi nel modo in cui si sono svolte. In contrapposizione con Cartesio e connessa alla teoria delle monadi, è posto il problema sull’estensione della sostanza. Cartesio ammette come l’estensione sia l’essenza della 60 XI * Gottfried Leibniz materia; per Spinoza, sia l’estensione che il pensiero sono attributi di Dio; Leibniz da parte sua, nega che l’estensione possa attribuirsi ad una sola sostanza. Egli sostiene l’estensione riferirsi ad una pluralità di enti quindi la configura come un aggregato di sostanze, ed ogni singola sostanza è esente da estensione. Tali sostanze devono essere evidentemente in numero infinito che chiama “monadi”, ciascuna delle quali rappresenta una sostanza semplice, senza parti, priva di estensione e di figura, indivisibile, costituente tutta la realtà. In pratica ogni monade è conformata a un’anima. Questa ha la capacità di percepire e rappresentare tutto il mondo, ognuna da una prospettiva diversa. Non esiste nessuna monade uguale all’altra, come non ci sono due foglie o due gocce d’acqua perfettamente identiche, non fosse altro per la posizione spaziale che occupano, dato che anche la diversità spaziale crea all’interno di ogni sostanza una differenza. Nessuna tra loro può avere alcun casuale rapporto dato che esse “non hanno ne porte ne finestre”, ma ognuna è “lo specchio vivente perpetuo dell’universo” tanto da poter scorgere in ognuna, se avessimo mente sufficiente, tutto ciò che è avvenuto, che avviene e anche quello che avverrà. Infatti “il presente è gravido dell’avvenire”, come avevano intuito i naturalisti greci (tutto è in tutto). L’universo è composto da una infinita varietà e una straordinaria ricchezza di realtà. La gerarchia di monadi, vede al grado più basso quelle in cui nessuna percezione giunge al livello di appercezione (percezione consapevole), fino al grado più alto “Dio”, in cui l’appercezione è assolutamente chiara e consapevole. Ne risulta una visione armonica dell’universo, che trova nella legge della continuità senza salti, il complemento del principio dell’identità degli indiscernibili (negazione dell’esistenza di due enti simili, aventi in comune tutte le Sommario 61 62 XI * Gottfried Leibniz XII proprietà, tanto da essere indistinguibili). Sebbene Leibniz, non è stato un filosofo di professione, sicuramente ha lasciato una profonda istanza universalistica, espressa nel progetto di creare una scienza enciclopedica capace di raccogliere tutto lo scibile dell’epoca e dare una interpretazione unitaria del mondo. Anche se le ipotesi teologiche sono il punto di arrivo della speculazione, ciò non è stata tutta la sua filosofia. Gli studi di giurisprudenza, di storia, di matematica, l’impegno in politica, stanno a dimostrare come il principio ispiratore della sua opera, sia stato la libertà dell’ordine universale. Egli cercò di dare alla sua filosofia una giustificazione dell’atteggiamento preso di fronte ai problemi che egli assunse su di sé durante tutta la vita: l’atteggiamento di chi vuole promuovere e fondare nel mondo umano, e in tutto l’universo, un insieme di attività che liberamente si incontrano, e finiscono per trovare la loro pacifica coordinazione in questo, che è il migliore mondo possibile che Dio ha voluto. David Hume Nato a Edimburgo in Scozia, David Hume (1711-1776) si laureò in giurisprudenza presso quella università, anche se i suoi interessi erano già rivolti alla filosofia. Si recò in Francia per proseguire gli studi e qui venne a contatto con la filosofia francese. Iniziò la stesura del “Trattato sulla natura umana”, che terminò al ritorno in Inghilterra e pubblicato non ottenne alcun successo. Tra il 1745 e il 1748 si procurò alcuni incarichi politici che lo portarono in varie capitali europee fino a giungere a Parigi nel ’63 frequentando per tre anni, la società intellettuale della capitale, avendo modo di conoscere e incontrare JeanJacques Rousseau. Il loro rapporto non durò a lungo per cause caratteriali, seguì quindi tra i due una rottura. Oramai ricco e benestante nel 1769, si ritirò a vita tranquilla fino alla morte. Oltre al già citato Trattato, scrisse sulle “Ricerche sull’intelletto umano”, e “Ricerche sui principi della morale”, ed altri sulla religione, ma il libro che gli diede il grande successo è la “Storia dell’Inghilterra”. Come per altri pensatori, anche Hume persegue “il tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali”. Egli vuole essere “il filosofo della natura umana che è la sola scienza dell’uomo” e si sentirà soddisfatto soltanto quando riuscirà a renderla un argomento alla moda, essendo a suo giudizio, troppo trascurata. In realtà tutte le scienze confluiscono verso la natura umana, perché tutte fanno parte delle conoscenze umane e giudicate dai poteri e dalle facoltà dell’uomo. Per questo, la ricerca filosofica va indirizzata direttamente verso il centro, identificato nella natura umana e da questa potrà poi muovere agevolmente alla conquista delle altre scienze che sono diversamente legate con essa. La natura umana è sentimento e istinto, più che ragione. 63 XII * David Hume Quando questa scopre che le verità ritenute oggettive, sono soggettive e dettate all’uomo soltanto dall’istinto o dall’abitudine, un contrasto appare inevitabile tra l’istinto e la ragione. Questo contrasto si risolve riconoscendo alla ragione, che dubita e ricerca, essere una manifestazione della natura istintiva dell’uomo. La filosofia che smonta e distrugge le credenze fondate sull’istinto, è essa stessa un impulso istintivo, e come tale indistruttibile perché fa parte della natura umana. Hume ha inteso radicare nella natura umana il compito critico e distruttivo, che l’illuminismo ha in seguito ritenuto individuare nella ragione, come la sola guida possibile dell’uomo. La mente umana ha due gradi diversi di sensibilità con cui viene colpito lo spirito. Le impressioni, che penetrano con maggiore forza e evidenza nella coscienza, le idee o pensieri, che sono le immagini illanguidite delle impressioni stesse. La differenza tra l’una e l’altra sta nel rapporto esistente tra il dolore che si prova nel momento in cui mi procuro una ferita e l’immagine di questo dolore nella memoria. Ogni idea deriva dalla corrispettiva impressione, per cui non esistono pensieri o idee senza l’esperienza di una precedente impressione. Diversamente da Locke, che ammettendo come l’unico oggetto di conoscenza umana essere l’idea, riconosce anche la realtà dell’io, delle cose, e di Dio. Anche Berkeley, pur negando la materia, ammette la realtà degli spiriti finiti e dello spirito infinito di Dio, quindi due realtà non riducibili all’idea. Hume risolve totalmente la realtà del mondo e dell’io, esclusivamente con le impressioni sensibili e le loro copie, non ammettendo nulla al di la da esse (empirismo). Ne deriva che non esistono idee astratte, cioè che non abbiano caratteri individuali specifici (riferiti a questo uomo, a quel triangolo equilatero ecc…), ne tantomeno idee universali se non derivate dall’impressione. Per spiegare come un’idea possa 64 XII * David Hume richiamare altre idee simili identificandole con un unico segno, Hume ricorre all’abitudine. Queste idee particolari che, per alcuni aspetti hanno una certa somiglianza tra di loro, ma per molte altre esteriorità sono diverse, assumono lo stesso segno come idea per richiamarne altre simili (idee di diversi uomini, diversi triangoli), ma per abitudine noi ci serviamo di un unico nome (uomo, triangolo) per indicarle. Si crea così l’abitudine a considerare in qualche modo uguali tra loro le idee designate con un unico nome, tale da suscitare in noi, al percepire quel nome, non una sola ne tutte, ma alcune di esse a seconda dell’occasione. Il principio dell’abitudine (o consuetudine) viene definito come la ripetizione di un atto qualsiasi che produce una disposizione a rinnovare lo stesso atto senza che intervenga il ragionamento. Per fare un esempio noi concateniamo a dei fatti o a oggetti, la fiamma al calore, il peso alla solidità, l’acqua alle sue proprietà (galleggiamento, affondamento, di certi corpi ecc…) Questa abitudine ci fa da guida nella nostra vita quotidiana, assicurandoci che il corso degli avvenimenti non muti e si mantenga uguale e costante, affinché sia possibile regolarsi per il futuro. Questa abitudine non spiega la loro connessione necessaria, ne tantomeno giustifica questa necessità, del resto ingiustificabile, ma ne rileva solo la congiunzione dei fatti. L’abitudine, come l’istinto degli animali, è una guida per la pratica della vita, ma non un principio di giustificazione razionale o filosofico. Come si può notare il pensiero di Hume ci spinge a fare considerazioni diametralmente opposte. Da una parte troviamo una posizione decisamente scettica anche se non pirroniana: la nostra conoscenza è sempre particolare perché fondata sulle impressioni. L’esperienza non può mai superare la ragione andando al di la da essa. Compito della ragione critica (quindi 65 XII * David Hume scettica), è quello di scovare e smontare le astruserie e i sofismi di teologi e metafisici, senza peraltro pretendere di distruggere ogni certezza dell’uomo nella vita. Dall’altra parte pone accanto alla ragione, delle componenti istintive e sentimentali (abitudine, credenze) dalle quali, come abbiamo visto, dipende il generarsi nell’uomo comune di credenze intellettuali ma anche morali che nessun scetticismo della ragione può estirpare, per cui il compito di questa è soltanto di metterle in luce e descriverle, senza la pretesa né di fondarli né di negarli in forza di argomentazioni razionali (ambedue impossibili), proprio per quei meccanismi irrazionali che permettono all’uomo di costruirsi una conoscenza valida, a suo modo, della realtà. Anche per il problema morale, Hume, ritiene che la coscienza dell’io si realizza in ambito emozionale, tramite le passioni, le quali sono qualcosa di originario della natura umana, indipendente dalla ragione e da essa non controllabili. Ciò significa che questa non potrà mai contrapporsi alle passioni nella guida della volontà; “La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire ad esse”. Fondamento della passione non può essere la ragione, ma il sentimento morale, che deve avere un carattere assolutamente disinteressato ed è con questo principio che le nostre valutazioni morali assumono un valore universale. Non è la ragione ma la forza istintiva della simpatia il cemento che permette all’uomo di uscire da sé, di superare il proprio egoismo e sentirsi parte dell’umanità. Nel suo “Saggi e trattati” Hume, auspica una nuova riforma morale suffragata dal metodo sperimentale, col quale approntare delle regole generali, contrapposto al metodo scientifico che anche se più sottile e ingegnoso è meno adatto all’imperfetta 66 XII * David Hume natura umana e fonte di errore e illusione. Come si vede propone un’etica descrittiva ed empirica, dove il problema morale risulta analizzato e deciso col metodo dell’osservazione. Sulla politica Hume, si sofferma ad analizzare le opposte tesi, dell’origine divina del governo e del contratto sociale, costatando che sia l’uno che l’altro si possono ritenere giusti ma non assolvono pienamente ai compiti loro richiesti. Nel caso del diritto divino, se è pur vero che quanto accade nel mondo rientra nei piani della provvidenza, questa tesi potrebbe legittimare anche l’autorità di un usurpatore di un pirata o tiranno. Nel secondo caso se la teoria del contratto sociale è giusta in quanto afferma l’origine popolare del potere, questa dottrina non si trova completamente realizzata da nessuna parte, dato che gli stati nascono e si formano a causa di conquiste, rivoluzioni, o usurpazioni, per cui l’autorità di tali governi non può essere ritenuta fondata sul consenso popolare. Due sono le classi di doveri che un uomo sociale possiede. Una classe in cui l’uomo è spinto da doveri naturali che operano in lui indipendentemente da ogni obbligo e considerazione pubblica o privata. Questi sono l’amore per i figli, per la famiglia, la gratitudine verso i benefattori la pietà per gli sfortunati. L’altra in cui i doveri derivano unicamente da un senso di obbligo nei confronti delle necessità della società umana, impossibile sottrarsi senza subire gravi conseguenze. Tali sono il rispetto della proprietà altrui, la giustizia, l’osservanza delle regole, l’obbedienza civile. Quest’ultimo dovere nasce dalla riflessione che la società non può mantenersi senza l’autorità dei magistrati e che tale autorità è nulla se non è seguita dall’obbedienza dei cittadini. Il dovere dell’obbedienza civile non nasce quindi dall’obbligo di fedeltà al patto originario, giacché anche quest’ultimo non si intenderebbe senza l’esigenza di mantenere in vita la società Sommario 67 68 XII * David Hume XIII civile. La sola ragione vera dell’obbedienza civile è che senza di essa non potrebbe sussistere la società. L’ordine politico e sociale è fatto rispettare dalla magistratura, alla quale ogni cittadino deve riconoscerne l’autorità. Questa posizione esposta da Hume, si può collocare in una posizione intermedia tra, la dottrina della resistenza alla tirannia proclamata da Locke, e quella dell’obbedienza passiva affermata da Berkeley, ritenendo la prima una incitazione alla ribellione, e la seconda una resa senza combattere, mentre occorre mantenere una necessaria insistenza nella difesa dei diritti della verità e della libertà. Gian Battista Vico G. Battista Vico nacque a Napoli nel giugno del 1668. Studiò filosofia e diritto nella sua città. Divenne precettore del figlio del marchese Rocca nel castello di Vatolla nel Cilento, dove grazie alla enorme biblioteca si formò una vasta cultura. Ritornato a Napoli ottenne la cattedra di retorica presso quella università. Visse il resto della vita modestamente lavorando tenacemente alla sua opera fondamentale, “la Scienza Nuova”, che a causa dell’originalità dell’argomento e alla complessità del suo pensiero, solo in tempi recenti gli venne riconosciuto il posto che gli spetta nella storia della cultura. Morì a Napoli nel gennaio del 1744. Punto di partenza della speculazione di Vico è la critica al cartesianesimo, a quel Cogito causa del mio essere, che Vico contesta, considerandolo solo un segno, un indizio dell’essere, quindi coscienza e non scienza, la quale Dio solo può avere in modo pieno. La vera scienza la possiamo conoscere solo da ciò che noi stessi produciamo, ossia ciò di cui siamo causa, solo allora davanti all’uomo si apre tutto il campo delle creazioni umane. Delle discipline matematiche abbiamo scienza, perché esse sono nostre creazioni. Infatti col definire le nozioni l’uomo crea gli elementi delle matematiche i quali però sono astrazioni anche se rigorose. Nel proseguire la sua analisi, Vico intuisce per la prima volta come nel campo della storia, essendo l’uomo autore della medesima, questa è generatrice di verità, quindi nella storia c’è vera scienza e non coscienza. Ora proprio quel mondo del verosimile che Cartesio aveva tenuto sospeso ritenendolo inutilizzabile, Vico lo raccoglie e lo mette al centro dell’indagine filosofica ridandole nuova dignità. Se per Cartesio la storia può essere al massimo scuola di 69 XIII * Gian Battista Vico morale, per Vico può diventare scienza, solo che certe condizioni si realizzino. Queste condizioni indispensabili perché la storia diventi scienza, sono la necessità di liberarsi: dalla boria delle nazioni: è il pregiudizio di immaginare origini illustri o divine degli Stati dalla boria dei dotti: consiste nell’estendere ad epoche indebitamente lontane da noi, categorie tipiche del nostro tempo nell’implicita convinzione che la ragione operi in tutti i tempi allo stesso modo. Nei fatti della storia, la Filosofia, ossia l’ambito del vero e la Filologia ossia l’ambito del certo, debbono costituirsi in una sintesi dinamica. La filosofia non è una costruzione aprioristica, ma trova la sua capacità esplicativa solo a contatto con i fatti. Anche la filologia si deve confrontare con il fatto usando la capacità di elevarsi, perché non esistono fatti bruti o neutrali ma questi, rimandano immediatamente ad una prospettiva teorica di ampio respiro. L’accertamento dei fatti sarebbe impossibile se non sorretto dal vero filosofico, come d’altra parte il vero filosofico sarebbe pura astrazione se non si concretizzasse nel fatto, trovando in esso l’unico tribunale in grado di provare la sua creatività. Non il vero fuori del fatto o il vero senza il fatto, ma il fatto nel vero e il vero nel fatto. Ecco che lo storico sarà allora chiamato ad “inverare il certo e accertare il vero”. Ciò che rende intelligibili i fatti, sono chiamati da Vico degnità e costituiscono l’impalcatura teorica della sua filosofia. Il punto di riferimento della speculazione filosofica è l’aver dato all’accadimento la dignità di scienza. Onde poter valutare il fatto storico è necessario, per la comunità alla quale il fatto si riferisce, riconoscersi in esso sulla base delle proprie tradizioni, valori, istituzioni, per cui c’è l’esigenza di orientare, scegliere, tra le diverse possibili direzioni che il corso cronologico dei fatti può assumere, la sola direzione capace di interpretare l’ordine 70 XIII * Gian Battista Vico della comunità ideale, senza peraltro annullare la possibilità delle altre alternative. L’ordine e il significato universale della storia (l’idea eterna), non si identifica mai con la storia nel tempo. Per questo occorre uno sforzo per risalire dal fatto all’idea (la sola capace di darci vera scienza), la quale si congiunge con il disegno della storia ideale eterna, “sopra la quale corrono le storie di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fine”. Questo comporta che la struttura con la quale confrontare e rapportare la storia temporale delle singole nazioni, può anche non adeguarsi ad essa, trattandosi del confronto tra l’ideale e il reale, dove la libertà dell’uomo assume grande importanza ed operando, manifesta la sua natura originariamente socievole. A tale proposito Vico, riconosce come modello ideale del pensiero “la repubblica” platonica, quale termine finale dal quale la storia deve muovere. I fatti storici diventano tali quando sono espressione di aspetti fondamentali dell’uomo, allora si incidono nella mente umana diventando tradizione. Tutto quell’immenso materiale che la storia ci ha consegnato, del quale la filologia si occupa, liberato dalle forme arbitrarie e surrettizie che le epoche successive hanno accumulato (boria delle nazioni e dei dotti), ci viene restituito nella sua piena verità, in accordo al corso della storia, come scienza in quanto creata dall’uomo. Anche il linguaggio, per la prima volta in filosofia, assurge a testimonianza degli antichi costumi dei popoli. In esso è possibile rintracciare la vita reale delle genti, perché la lingua è talmente connessa con la vita da non poter comprendere l’una senza l’altra. L’origine naturale del linguaggio ha inoltre assecondato un’iniziale lingua comune, favorendo quella struttura comunicativa originaria, che ha reso possibile la convivenza sociale e la stessa storia umana. 71 XIII * Gian Battista Vico Procedendo nella descrizione per cicli della storia umana,Vico si avvale dell’idea della successione per età, in cui i fini particolari perseguiti dall’uomo fin da principio si rivelano essere mezzi per i fini universali. Così se “l’uomo nello stato bestiale” ama solamente la sua salvezza, procedendo verso lo stato della “ragione tutta spiegata” si crea una serie di necessità, dovute alla sua condizione umana, per le quali è portato ad amare la salvezza della città, entro la quale soddisfare le nuove esigenze dell’uomo sociale. All’interno del corso degli eventi umani si evidenzia la presenza di una “Provvidenza”, che peraltro Vico non nega, la quale porta a concludere: se la storia è opera dell’uomo, necessariamente lo è anche di Dio. Si evidenzia a questo punto una contraddizione che coinvolge il pensiero vichiano: il vero soggetto della storia è l’uomo, o la Provvidenza? Da parte sua Vico ha sempre difeso la trascendenza della Provvidenza, sostenendo il significato ultimo della storia essere continuamente al di la dei singoli eventi temporali. Quale che sia la fase di sviluppo della storia, sia quella dell’umanità rozza e bestiale, sia quella successiva eroica, sia quella umana della riflessione spiegata, esiste comunque un rapporto con l’ordine totale della storia eterna, che impedisce e ha impedito la dispersione, l’immobilismo e la morte della comunità umana. I primi uomini pur essendo “bestioni” non avrebbero dato inizio alla nascita del genere umano se dentro di loro non avessero latenti e operanti germi di storia eterna. Questo progetto ideale che è nella storia, spinge l’uomo a vivere sotto il suo influsso, senza diventarne mai padrone, perché di quello ne è posseduto. L’uomo è spesso inconsapevole della propria azione perché questa racchiude in sé molto più di quanto egli stesso non sappia. La sua consapevolezza, limitata al campo della tecnica e delle sue azioni, non lo è altrettanto dal versante 72 XIII * Gian Battista Vico ideale. La teoria della Provvidenza diviene allora teoria del limite dell’uomo e della sua coscienza, oltre che del senso della storia. Un famosissimo aforisma vichiano recita: ”gli uomini prima sentono senza avvertire, poi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”. Questa verità ideale, scandisce il cammino dell’uomo e la sua storia secondo tre età. L’età degli dei è l’età dell’infanzia dell’umanità in cui gli uomini erano: “stupidi, insensati e orribili bestioni”, senza nessun potere di riflessione, ma del tutto immersi nella sensibilità, in un rapporto immediato (di dolore e piacere) col mondo e dotati di una robustissima fantasia. Essi immaginano nelle forze naturali che li minacciano terribili divinità punitrici, per timore delle quali cominciano a frenare gli istinti bestiali, creando i primi raggruppamenti e le prime famiglie per meglio rinfrancarsi. In questo periodi i governi sono teocratici, perché l’uomo crede che ogni cosa sia comandata dagli dei e fondati sull’autorità paterna, espressione del potere divino. L’età degli eroi è l’età caratterizzata dal predominio della fantasia sulla riflessione razionale. E’ in questa età che hanno origine le prime forme di vita associata, nascono le prime città fondate da una classe aristocratica che si attribuisce le proprie origini agli dei. Questi dettano il diritto eroico ponendo la ragione sulla punta della spada e fanno della fortezza, del coraggio, della temperanza, le virtù eroiche per eccellenza. E’ l’età eroica, poetica e religiosa assieme, animata da forti passioni e robusta fantasia, è il mondo cantato da Omero, espressione dell’estro poetico della Grecia più arcaica. L’età degli uomini, ossia l’età della ragione totalmente dispiegata. E’ questo il periodo che nascono le repubbliche ad opera della borghesia oramai affrancata, diventata cosciente 73 74 XIII * Gian Battista Vico Epilogo dell’infondatezza della superiorità naturale dei nobili. A decidere della distribuzione del potere è il merito e il censo, la legislatura è codificata nella scrittura, il diritto è dettato dalla ragione umana e la prosa sostituisce il linguaggio poetico. Nascono la disputa, la retorica, e la filosofia, è l’epoca di Platone che va a sostituire l’ètà di Omero. Grande importanza è stata riservata da Vico al linguaggio quale fonte di sapienza poetica fondata sulla fantasia. Esso non è una creazione arbitraria, ma nasce naturalmente dall’esigenza degli uomini di comunicare tra loro, sotto la pressione di urgenti bisogni attorno a problemi immediati e pressanti. Originariamente nel mondo primitivo il linguaggio era fondamentalmente poesia, linguaggio cantato secondo cadenze ritmiche, in cui gli uomini sfogano le grandi passioni di dolore o allegria. Questo è un linguaggio spontaneo, intuitivo, poetico e fantastico in cui predomina la metafora e la similitudine. La poesia non è l’espressione, tramite immagini corpulente, di una verità già conosciuta razionalmente, ma è creatività, originalità, è alogicità, viste come forma autonoma rispetto alla ragione. Stesso valore hanno i miti quali espressione di costumi di antichi popoli, la sola forma in cui l’uomo eroico poteva pensare le cose per tramandare ad altri la propria esperienza. Man mano che la riflessione prevale, la poesia decade, gli uomini si appropriano dei concetti universali, lasciando dietro di se tutto ciò che è sensibile, ingombrante e rozzo. Sebbene nelle vicende dei popoli si riscontri l’attuarsi progressivo della Provvidenza, ciò non significa che la storia abbia un percorso lineare e non sia soggetta al periodico ritorno sui suoi passi. Le deviazioni e gli arresti, la presenza di nazioni barbariche e la diversità di tempi nel progredire di un popolo rispetto ad un altro, testimoniano la libertà dell’uomo. Volendo esprimere un pensiero sul lavoro di questo anno, devo dire che mi è sembrato molto difficile e confesso che in alcuni momenti ho pensato di non farcela e abbandonare tutto. Ho il dubbio che in alcuni punti ho mal interso il pensiero dell’autore, ma comunque ho cercato di sintetizzare i vari concetti da come li ho saputo interpretare. Se nel primo scritto “so solo di non sapere” mi sono immerso con grande entusiasmo e curiosità, nel mondo della Grecia classica, e poi l’età Ellenista per arrivare al primo neoplatonismo di Plotino, nel secondo “credo per capire, capisco per credere”, l’ho affrontato e vissuto come un lungo percorso storico che ha attraversato il Medio Evo, il Rinascimento, fino alla Riforma, l’ultimo, questo, “cogito ergo sum, penso dunque sono”, iniziato con la rivoluzione scientifica, attraverso il XVII secolo fino agli inizi del 1700, mi ha impegnato come non avrei pensato, ripagandomi con una grande soddisfazione. Certamente questo impegno mi ha migliorato. 75 76 Scritti precedenti So solo di non sapere 2006 Credo per capire capisco per credere Anno III 2007 Volume III 77 Sandro Montorfano La Filosofia secondo me 78