Cogito ergo sum - Classe 1941 Albate

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2008
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Sommario
Cogito ergo sum
Penso dunque sono La filosofia secondo me I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
Nasce la scienza
Francesco Bacone
Renato Cartesio
Razionalismo e Liberismo
Thomas Hobbes
Blaise Pascal
Baruch Spinoza
Isaac Newton
John Locke
George Berkley
Gottfried Leibniz
David Hume
Gian Battista Vico
p. 4
p. 10
p. 13
p. 2 1
p. 24
p. 29
p. 33
p. 40
p. 45
p. 55
p. 57
p. 62
p. 68
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Sandro Montorfano
28/05/2008
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Volume III
Sommario
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Anno III
I
Cogito ergo sum
Penso dunque sono
La Filosofia secondo me
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Sandro Montorfano
Nasce la Scienza
Gran parte di ciò che distingue il mondo moderno dal
mondo antico, è da attribuirsi al trionfo della scienza e questa,
ebbe il suo massimo sviluppo e i più rivoluzionari successi nel
XVII secolo.
Il Rinascimento Italiano, pur essendosi liberato dalla servitù
medioevale, non può ancora essere considerato moderno essendo
rimasto, nella forma mentale, molto più simile alla miglior età
della Grecia classica.
Anticipatore dello slancio scientifico dei secoli che
seguirono, fu Copernico, appartenente al XVI secolo ma sul
quale, ebbe scarsa influenza nel corso della vita. Le nuove idee
scientifiche si affermarono e vennero valorizzate nel secolo
successivo da Cartesio, influenzando profondamente l’atmosfera
culturale del tempo, tanto da poter affermare che è lui il
fondatore della moderna filosofia.
Copernico (1473-1543) era un ecclesiastico polacco di
specchiata ortodossia, aveva la passione per l’astronomia che
esercitava durante il tempo libero. Presto si rese consapevole che
era il sole a trovarsi al centro dell’universo non la terra e che
questa si muoveva con un duplice moto: uno rotatorio quotidiano
e l’altro rivoluzionario annuale intorno al sole. La teoria
eliocentrica, a lungo andare, avrebbe reso difficile conservare
all’uomo l’importanza cosmica assegnatagli dalla teologia
cristiana e questo, da ortodosso di sincera osservanza, gli
procurò non pochi sensi di colpa e scrupoli di coscienza,
dovendosi confrontare con la Bibbia. La scoperta era di tale
portata rivoluzionaria che il suo scritto principale
5
I * Nasce la Scienza
“de Revolutionibus Orbium Coelestium” venne pubblicato
solo dopo la morte, da un amico, soltanto “come ipotesi”, tanto
era la paura di incorre nelle maglie delle leggi ecclesiastiche, le
quali sanzionavano pesantemente tutto quanto non fosse
ortodossia ufficiale, anche se non erano ancora i tempi post
conciliari. Fu dopo l’istituzione della compagnia di Gesù e la
rinata Inquisizione a decretarne, in seguito, la messa all’indice.
Autentiche furono le difficoltà incontrate nel dimostrare le
proprie teorie e intuizioni, dovute alla mancanza di strumenti
ottici adeguati (il cannocchiale non era ancora stato scoperto) e
di misurazioni e teoremi matematici appropriati, che vennero
inventati e applicati successivamente da altri (Keplero, Galileo,
Newton, ecc), basti pensare che solo nel XIX secolo, la tecnica
di misurazione divenne sufficientemente precisa da permettere di
osservare il parallasse stellare, che Copernico aveva già intuito
osservando come alcune stelle fisse fossero molto più lontane
dal sole.
Egli chiamò la sua teoria un’ipotesi, intuendo come la
rotazione quotidiana della terra fosse un’ipotesi più “economica”
per l’universo, che non la rivoluzione di tutte le sfere celesti.
Quanto alla rivoluzione annuale della terra, anche se in misura
minore, ne intuiva una notevole semplificazione. Queste
opinioni non vennero condivise dai suoi contemporanei e forse,
per un senso di colpa, anche non completamente da lui, ma gli
vanno riconosciute due qualità; la tenacia e l’audacia. La tenacia
nell’osservazione paziente e l’annotazione scrupolosa dei fatti
considerati, l’audacia nel formulare congetture che legano
insieme i fatti stessi. Quando Lutero venne a conoscenza di
queste teorie si scandalizzò non poco: “questo pazzo desidera
mettere sottosopra tutta la scienza dell’astronomia; ma le Sacre
Scritture ci dicono che Giosuè comandò al sole di fermarsi, non
alla terra.” Anche Calvino, analogamente, ebbe parole di
6
I * Nasce la Scienza
sdegno; citando il versetto dei salmi “ …anche il mondo sta
saldo, e non può muoversi”, esclamò con disprezzo “Chi oserà
porre l’autorità di Copernico al di sopra di quella dello Spirito
Santo?” a dimostrazione che anche il clero protestante non era
meno bigotto degli ecclesiastici cattolici; ma a favore dei primi
giocò il fatto di avere meno potere presso gli Stati, dovuto allo
scisma più che all’eresia. Con la nascita delle Chiese nazionali,
queste non ebbero il tempo di organizzare e controllare i nuovi
governi laici, per cui nei paesi protestanti si instaurò un clima di
maggiore libertà critica, favorendo coloro che si opponevano alle
direttive conservatrici e tradizionaliste delle Chiese.
Purtroppo Copernico non aveva gli strumenti per dare prove
conclusive a sostegno delle sue teorie e intuizioni e per un lungo
periodo, dagli astronomi del tempo, non venne preso in
considerazione.
Galileo (1564-1642) è il più grande tra i fondatori della
scienza moderna. Fu il primo che scoprì l’importanza
dell’accelerazione in dinamica, sostenendo che un corpo in
movimento lasciato a se stesso continua a muoversi in linea retta
alla medesima velocità, e qualsiasi mutamento di direzione o di
velocità è causato necessariamente dall’azione di un’altra
“forza”. Questo principio è poi stato enunciato da Newton come
la “prima legge del moto” o “legge d’inerzia”. Altre e
ugualmente importanti furono la scoperte di Galileo a
cominciare dalla legge della caduta dei gravi, cioè quando un
corpo in caduta libera, (in condizione di assenza di aria), riceve
una accelerazione costante uguale per tutti corpi, grandi o
piccoli, pesanti o leggeri. Fino ad allora si pensava che un corpo
di massa maggiore era più veloce nella caduta di una piccola
massa, ma Galileo dimostrò sperimentalmente che questo non
era vero, e riuscì a determinare che l’aumento della velocità è di
9,8 metri al secondo. Studiò anche la traiettoria di un
7
I * Nasce la Scienza
proiettile, dimostrando, contro ogni credenza che
immaginava una traiettoria almeno in principio rettilinea e una
rapida caduta in verticale verso la fine, che il proiettile si sposta
descrivendo una linea a parabola, secondo un principio generale
detto “parallelogrammo delle forze”.
Egli adottò con slancio il sistema eliocentrico e per primo
usò il telescopio su larga scala per scopi scientifici osservando e
scoprendo tutta una serie di corpi celesti, pianeti e satelliti del
nostro sistema solare. Parecchi furono gli scritti e gli appunti
sulle sue osservazioni che contribuirono a dare ulteriori scossoni
al vecchio sistema astronomico. Ne “dialogo sopra i due
massimi sistemi” (1632) espone le ragioni filosofiche e naturali
sia del sistema tolemaico-aristotelico, che quello copernicano.
Nello svolgersi degli argomenti appare chiara la sua propensione
per il copernicanesimo. Il ricorso, alla fine dell’opera, alla
“maestà della sapienza divina”, appare una ferma presa di
posizione contro il sistema aristotelico. Inevitabilmente tale
opera provocò da subito forti reazioni, infatti venne interpretata
dal clero tradizionalista come una congiura contro la tradizione
e le Sacre Scritture. Venne impedita la vendita e Galileo fu
sottoposto al giudizio dell’Inquisizione e condannato in modo
definitivo nel 1633.
In seguito egli ritrattò promettendo di non sostenere mai più
che la terra gira intorno al sole e ruoti su se stessa. Fu così che
l’Inquisizione per alcuni secoli, pose forti ostacoli agli studi
scientifici in Italia, arrecando considerevole danno alla Chiesa
stessa. E’ stata una fortuna che ciò non avvenne nei paesi
protestanti, dove il clero era altrettanto desideroso di
danneggiare la scienza, ma non ebbe la possibilità di giungere al
controllo degli apparati degli Stati.
E’ convinzione comune che Galileo fu lo scopritore del metodo
per l’analisi scientifica, avendo avviato la fisica, per la prima
8
I * Nasce la Scienza
volta, sulla via della scienza, quando questa era ancora
considerata magia. Base del suo metodo analitico è:
I ) il momento osservativo-induttivo; cioè l’attenta ricognizione
del caso, messo a confronto con un’ipotesi matematica;
II) la necessaria dimostrazione; quando lo scienziato formula
delle ipotesi, dalle quali dedurre il comportamento dei fatti che si
propone di verificare.
III) solo in seguito alla verifica sperimentale e superata la prova
in termini matematici, questa costituisce una teoria scientifica.
Questa verifica può essere anche indiretta, basta che venga
formulata in senso critico, e che tutte le proposizioni e i fatti
studiati risultino inquadrati e legati nella teoria.
Con Galileo entra definitivamente in crisi il concetto
millenario della metafisica, con la sua visione antropocentrica e
qualitativa della natura, ad essa viene contrapposta una
concezione dell’Universo come sistema di leggi e relazioni
oggettive misurabili quantitativamente. Pur se la scienza,
definita (utopisticamente) dal neopositivismo “l’antimetafisica” ,
Galileo trova in essa una concezione platonica importante (ne’
“il Saggiatore”) nella formulazione dell’ipotesi scientifica,
quando indica nel sistema matematico e geometrico l’unica
lingua possibile per la conoscenza dell’Universo, senza la quale
è impossibile intenderne le leggi, “senza questi è un aggirarsi
vanamente per un oscuro labirinto”. Diversamente, il metodo di
approccio alla conoscenza, è Aristotelico, nel senso del concreto
e dell’importanza accordata a “l’esperienza sensata”. Quanto
all’esclusione dall’indagine sulla Natura, degli aspetti qualitativi
a favore di quelli quantitativi, si può constatare un’attinenza alle
teorie democritee.
Sulla disputa tra scienza-fede, il problema viene affrontato
da Galileo con una netta demarcazione, rivendicando alla
scienza l’autonomia; “l’intenzione dello Spirito Santo essere
Sommario
9
10
I * Nasce la Scienza
II
d’insegnarci come si vadia in cielo, non come vadia il
cielo”. Essendo l’una e l’altra incomparabili, sono tra loro
compatibili, proprio perché a ognuna compete un diverso
compito. Quando emergono quelle che sembrano contraddizioni,
c’è il fondato sospetto che lo scienziato voglia sostituirsi al
metafisico o che il teologo voglia riscrivere la Bibbia in un
trattato scientifico.
Keplero (1571-1630) fu il primo astronomo importante ad
adottare, dopo Copernico, la teoria eliocentrica, dimostrando la
felice intuizione del suo predecessore, pur apportando profondi
cambiamenti teorici, intesi a correggerne i macroscopici errori .
La sua grande conquista, fu la scoperta delle tre leggi che
regolano il moto planetario. Egli intuì che i pianeti si muovono
intorno al sole descrivendo un’ellissi e non un cerchio, come più
naturalmente si era immaginato, e su questa constatazione
formulò la prima legge: i pianeti descrivono orbite ellittiche, di
cui il sole occupa uno dei fuochi. La seconda, riguarda la
velocità nei diversi punti dell’orbita: la retta congiungente un
pianeta al sole, descrive aree uguali in tempi uguali, per cui
risulta più veloce in prossimità del sole, più lento al vertice
opposto. La terza legge mette a confronto i moti dei differenti
pianeti: il quadrato del periodo di rivoluzione di un pianeta è
proporzionale al cubo della distanza media dal sole; fissando
una proporzionalità inversa al quadrato della velocità.
Sostituire il moto ellittico a quello circolare, superando il
pregiudizio estetico radicato tra gli astrologi gia dal tempo di
Pitagora, ha richiesto a quegli uomini uno sforzo di
emancipazione dalla tradizione, inimmaginabile a noi moderni.
Allora le sfere celesti come corpi perfetti venivano posti in
stretta relazione con gli dei, per cui era ovvio che dovessero
muoversi secondo una figura perfetta come il cerchio in un moto
libero e naturale.
Francesco Bacone
Francesco Bacone (1561-1626) fu uomo di Stato,
giovanissimo entrò in parlamento come consigliere di Essex che
in seguito abbandonò per divergenze. Con l’ascesa al trono
d’Inghilterra di re Giacomo divenne Lord Cancelliere. Durò due
anni in carica, poi cadde in disgrazia, venne condannato e
costretto ad abbandonare la vita pubblica. Passò il resto dei suoi
giorni scrivendo libri importanti. Morì nel 1626 per una
infreddatura presa mentre eseguiva degli esperimenti di
refrigerazione sui polli.
Bacone, merita senza dubbio il titolo di primo filosofo
dell’età industriale (anche se non fu grande filosofo), per
l’orgoglio, la determinazione e l’enfasi con la quale annunciò
l’avvento della rivoluzione industriale. Con lui la filosofia
subisce una svolta decisiva con l’esaltazione dell’uomo
imprenditore, chiaro atteggiamento di stampo umanista. Il detto
“Sapere è potere” a lui attribuito, è la base della sua filosofia,
volendo indicare come il fine ultimo delle invenzioni e delle
scoperte scientifiche acquisite dall’uomo, è di fornire i mezzi per
imporre il dominio della scienza sulla natura e trasformarne le
condizioni di vita.
Occorre rilevare che se Bacone è il paladino della nuova
religione della scienza, non si può dire che fosse uno scientista a
oltranza, anzi la sua dottrina è così formulata: la liberazione
dell’uomo si realizza attraverso la scienza e la tecnica, poste
però al servizio dell’ideale di carità e fratellanza.
Bacone si contrappone, all’ideale del sapere magicoalchimistico, affermando i caratteri differenti
del sapere
scientifico, sottolineando come il sapere magico indagando su
cause occulte, è un sapere privato, di pochi iniziati il cui scopo è
il dominio sugli altri e quando raggiunge qualche parte di
11
I * Francesco Bacone
verità, questa è solo casuale per cui non crea esperienza; per
contro il sapere scientifico, è conoscenza di nature
sperimentabili, nasce dalla collaborazione ed è controllabile da
tutti perché scritto in un linguaggio chiaro e accessibile,
costruito su un procedimento metodico e frutto di autentiche
esperienze.
In nome di un ideale di sapere, comprensibile, chiaro,
intersoggettivo, polemizza contro la filosofia tradizionale,
soprattutto aristotelica, accusata di essere mistificatrice del
pensiero e parolaia, incapace di generare e produrre. Critico
severo della logica aristotelica in quanto basata su una falsa
induzione. Essa, prende in esame pochi casi e in modo affrettato,
arriva rapidamente ad una nozione generale, la quale determina
e perpetua gli errori della tradizione.
Anche Bacone ha provato, con la sua maggiore opera, (Il
novum Organum) a dare un metodo di analisi al sapere. Questo
si articola in due momenti, nel primo dei quali (Pars destruens)
occorre emendare, sgomberare il nostro intelletto da tutte quelle
fantasie che causano errori o pregiudizi con i quali anticipiamo
la natura. Nel secondo (Pars construens) con la mente libera
dagli errori, possiamo accostarci allo studio della natura usando
il metodo induttivo baconiano, molto più accurato di quello
aristotelico, seguendo la procedura dell’esclusione dall’ipotesi
falsa. Alla fine di questa classificazione ci si appresta a trarre dal
materiale così ordinato, una prima tosatura, cioè una prima
ipotesi, che verrà sottoposta a ulteriori e successivi controlli fino
a quello decisivo rappresentato dalla “istantia crucis”, che ci
consentirebbe di decidere della validità o della falsità della
nostra ipotesi. Inutile dire che, le conoscenze contemporanee,
hanno avanzato molte riserve sulla possibilità e validità di tale
metodologia d’indagine.
Il valore del suo metodo, consisteva nel mostrare come
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II * Francesco Bacone
andassero disposti i dati sperimentali su cui si basa la
scienza.
Noi non dobbiamo essere, lui diceva, né come il ragno, che
srotola ciò che gli occorre dal proprio interno, né come la
formica, che si limita ad accumulare, ma come l’ape, che
raccoglie e dispone opportunamente.
Con “la Nuova Atlantide”, Bacone, profondamente convinto
della ineluttabilità della scienza e del metodo scientifico, quale
motore indispensabile nella produzione di beni necessari al
miglioramento della vita, si lascia tentare da questa grande
utopia, ponendo come protagonista al centro della sua opera, non
una problematica sociale di uguaglianza, ma la “Casa di
Salomone” una sorta di accademia scientifica, localizzata in
un’isola sconosciuta che si presenta come un grandioso
laboratorio, dove con un lavoro di equipe, tutta la popolazione è
impegnata nello sviluppo delle scienze e di tutto l’apparato
tecnologico indispensabile, al fine di procurare benessere e
felicità a tutti gli abitanti. Come si vede anche in questo caso,
Bacone si rivela un vero e proprio propagandista della nuova
scienza, e ciò gli valse dopo la morte per volere di Carlo II,
l’intestazione della fondazione Royal Society, la più famosa
delle Accademie Scientifiche d’Europa.
Sommario
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III * Renato Cartesio
III
Renato Cartesio
Cartesio Renato (Renè Descartes 1596-1650), nato a La
Haye da famiglia benestante, frequentò la famosa scuola dei
gesuiti di La Flèche dalla quale ricevette una solida formazione
umanistica, filosofica e scientifica. Proseguì gli studi di diritto
per due anni e poi decise di rompere con i libri e di ricercare la
scienza direttamente dal “gran libro del mondo”. Andò a Parigi,
poi in Olanda dove si arruolò come volontario nell’esercito.
Partecipò con l’esercito bavarese alla guerra dei trent’anni, e
durante il lungo inverno (1619-20), pose le basi di molta parte
della sua filosofia. Tornato a Parigi nel 1621, strinse amicizia
con padre Marin Mersenne, uomo di straordinaria cultura, al
quale nel ’33 comunicò di aver ultimato il suo trattato di
metafisica “il Mondo”, ma essendo cattolico praticante e
timoroso di temperamento, saputo della condanna di Galileo e
condividendone le “eresie” sulla rotazione terrestre e
dell’infinità dell’universo, non trovò il coraggio di pubblicarlo.
Solo nel ’37 si decise a presentare alcune parti delle sue dottrine
geometrico-fisiche, rendendole note in tre parti, scritte in
francese, facendole precedere dal famoso discorso del metodo.
Nel frattempo ritornò in Olanda, probabilmente per paura delle
persecuzioni, conobbe Isac Beeckman, scienziato olandese che
lo introdusse agli studi di meccanica.
Nel 1641 inviò a Mersenne, scritto in latino, “le Meditazioni
metafisiche”, allo scopo di farlo conoscere
ai dotti e
raccoglierne le obiezioni, ma questo suscitò aspre polemiche che
si trascinarono per parecchi anni. Sono di quel periodo altri
scritti i “Principi di filosofia” (1644) e “Passioni dell’anima”
(1649). Amareggiato per l’aumentare degli attacchi, non dalla
Chiesa romana, ma da parte dei protestanti bigotti, abbandonò
l’Olanda e si trasferì alla corte svedese, dove morì dopo
breve permanenza a causa del clima rigido e della non
troppo robusta costituzione.
Cartesio fu scienziato, matematico e filosofo. Il suo lavoro
in filosofia e matematica è di estrema importanza, non lo è
altrettanto come scienziato. Originale è il metodo delle
coordinate geometriche, cioè la determinazione della posizione
di un punto su un piano per mezzo della sua distanza da due rette
fissate.
In filosofia pura Cartesio, lo troviamo impegnato a rivedere
gli studi compiuti in età giovanile a La Flèche, avendo coscienza
dello stato di assoluta incertezza in cui la conoscenza e il sapere
si trovano, a causa del carattere più esplicativo che creativo. Di
fronte alla mancanza di un metodo unitario di indagine, matura
l’idea di rifondare il sapere, ponendo in questo progetto tutti gli
sforzi possibili onde poter dare una base certa, semplice e sicura,
sulla quale erigere tutto l’edificio della nuova scienza.
A tale scopo mette a punto un metodo di ricerca che si basa:
sull’evidenza,
sull’analisi,
sulla
sintesi
e
infine
sull’enumerazione e la revisione dell’oggetto indagato. Al
termine di questo percorso si ritrova daccapo, avendo però di
fronte non più un oggetto sconosciuto ma, mediato dall’analisi,
un oggetto conosciuto, certo, chiaro e definito, quindi vero.
Fondamento di questo processo di analisi è il dubbio,
conosciuto in seguito come “il dubbio cartesiano”, inteso non in
senso scettico, cioè sospensivo del giudizio, ma al contrario, che
sappia rimuovere quegli impedimenti che, come la sabbia e la
terra ostacolano la visione chiara ed essenziale della roccia,
permettano di costruire sulla certezza, il grande edificio della
vera conoscenza. Per questo, disciplina la sua mente secondo le
regole dello scetticismo, incominciando a dubitare della capacità
dei sensi.
Si può dubitare, egli pensa, che stia facendo la tal cosa?
15
III * Renato Cartesio
Certamente, perché la medesima azione può capitare mentre
si sogna, quindi potrei benissimo essere nella condizione di non
essere sveglio. Del resto i sogni, come i quadri, si presentano
come copie della realtà. E’ altrettanto possibile che mi trovi in
uno stato di allucinazione, come i pazzi. Anche la natura
materiale in genere, presentandosi con le dimensioni misurabili
con l’aritmetica e la geometria, quindi presumibilmente più
sicure non occupandosi delle singole cose, potrebbe essere meno
facile da mettere in dubbio, però anche in questo caso è possibile
dubitare, dato che si può errare facendo dei calcoli o nello
scrivere i numeri o che un demone cattivo (cosi lui dice), furbo e
ingannatore, si diverta ad ingannarmi, prospettandomi soltanto
illusioni e burlandosi della mia credulità.
La conoscenza dei corpi attraverso i sensi è confuso ed è
comune anche agli animali. Quando sono per la strada vedo
degli uomini, in realtà i miei sensi percepiscono solo il cappotto,
i pantaloni o il cappello, “io capisco solo ciò che il giudizio che
risiede nella mia mente, pensa di aver visto attraverso i miei
occhi”. Quando vedo un uomo ho la certezza della mia esistenza
non quella dell’uomo, che potrebbe essere una visione, per cui la
conoscenza delle cose esterne attraverso i sensi è dubbia, non
sicuramente vera, ma è tale solo se depurata attraverso la mente.
Cartesio considera un errore pensare che le idee siano
corrispondenti alle cose esterne. Questo errore, in parte, è la
natura stessa che insegna a pensarla così e in parte, attraverso i
sensi, si forma in noi inconsciamente, all’infuori dalla nostra
volontà. Anche se ciò che si vede “per luce naturale” non lo si
può negare, non vi sono buone ragioni per pensare che la realtà
vera ci venga comunicata da qualcosa di esterno, non potendo
escludere di avere un’inclinazione a capire il falso, per cui
queste idee evidenziate dalla natura e non volontarie, vanno
accolte soltanto come supposizione, avendo una certa
inclinazione a credere.
16
III * Renato Cartesio
Rimane però qualcosa di cui è impossibile dubitare, nessun
demone potrebbe ingannarmi se io non esistessi. Anche se il
corpo fosse un’illusione, la mia mente nell’istante in cui pensa
dimostra, necessariamente, che io sono qualcosa; quindi questa
verità, “penso, dunque sono” (cogito, ergo sum), la giudicai
poterla accettare come principio primo, della filosofia che
cercavo.
Questo brano, conosciuto come il cogito di Cartesio, è il
nocciolo della teoria cartesiana della conoscenza ed è ciò che di
più importante rappresenta la sua filosofia. Questa ha attribuito
grande importanza alla teoria della conoscenza rendendo lo
spirito più certo della materia, ed il proprio spirito (per se) più
certo dello spirito altrui. C’è in Cartesio una certa tendenza al
soggettivismo, e a considerare la conoscenza della materia
possibile solo attraverso la conoscenza dello spirito. Anche
S.Agostino, proponeva un argomento analogo al cogito, tendente
al riconoscimento della presenza trascendente di Dio nell’uomo,
senza però rilevarne l’importanza, ma l’avere compreso e
sottolineato il valore del cogito in tutte le sue complicanze è
stata l’originalità di Cartesio. “Penso” è da lui usato in senso
molto ampio, ciò che dubita, capisce, concepisce, afferma, nega,
vuole, immagina, vede, sente, anche il sogno è una forma di
pensiero.
Con questo sono state poste le fondamenta sicure
all’edificio della conoscenza; con la certezza della mia esistenza,
dedotta senza ombra di dubbio dal fatto che io penso e da ciò che
più esclusivamente specifico di me, cioè la sostanza, la cui intera
natura o essenza è di pensare, non ho bisogno di alcun luogo, ne
di alcuna cosa materiale per la mia esistenza. Analogamente
anche l’anima, presentandosi interamente distinta dal corpo,
sarebbe ciò che è anche se il corpo non ci fosse.
Cartesio, procedendo nella sua indagine, pensa che il poter
17
III * Renato Cartesio
dimostrare l’esistenza di Dio nell’evidenza del suo attributo
di veridicità, possa facilitare il cammino verso la teoria della
conoscenza.
E’ nell’atto di dubitare e riconoscere imperfette le proprie
idee, che ci si rapporta necessariamente all’idea di una
perfezione assoluta e quindi alla causa di questa idea, cioè Dio.
L’Essere immensamente perfetto non può essere pensato senza
quella perfezione che è l’esistenza, analogamente un triangolo
non è pensabile senza le proprietà delle quali è necessitato. Dio
esiste in virtù della sua stessa essenza, che è la perfezione, della
quale è costituito. Egli, nella sua bontà non può ingannare come
il demone, ma dando una forte predisposizione a credere nei
corpi, ha dato la certezza della loro esistenza e ciò che risulta
chiaro e distinto è vero. Questa certezza permette di continuare a
costruire, con rinnovata fiducia, l’edificio della scienza nella
ragione, avendo presente che la verità scientifica viene raggiunta
solo attraverso il pensiero.
Anche in questo Cartesio, riconosce un’ulteriore prova
dell’esistenza di Dio.
Le norme del metodo unitario di analisi hanno trovato la
conferma definitiva della loro validità, con la dimostrazione
dell’esistenza di Dio e del suo attributo di veridicità, diventando
esso stesso la garanzia ultima di giudizio, che quando usato
correttamente (attraverso la mente e la ragione), non può indurre
in errore. “Con questo principio posso conoscere la matematica e
la fisica, anche se devo avere presente che la verità la posso
conoscere solo attraverso la mente”.
L’ateo non potrà conoscere con certezza la perfezione della
natura, in quanto il dubbio permane anche nelle cose che si
presentano evidenti, non riconoscendo ad alcun Dio il principio
di ogni verità.
Con la certezza, oramai pienamente garantita dovuta alla
18
III * Renato Cartesio
rimozione del dubbio, sulla inaffidabilità di giudizio dei
sensi, Cartesio, affronta l’analisi della realtà corporea certo
dell’esistenza delle idee. Queste ci giungono da una coscienza
esterna, la quale non può che essere un corpo, entro il quale è
concepito realmente ciò che nelle idee è contenuto
rappresentativamente.
Questa idea, che non è in noi non possedendo una facoltà
creativa attiva, per essere riconosciuta bisogna che sia di una
sostanza estesa, con caratteri diversi da quella sostanza pensante
che siamo noi, e che abbia una natura nella quale sia contenuta
materialmente ciò che nelle idee è solo rappresentato.
L’estensione diventa l’unica proprietà sensoriale
immutabile, si presenta come la sola che, dei corpi, si recepisce
in modo chiaro e distinto, ed è quindi l’unica proprietà che si
deve ritenere costitutiva dei corpi stessi. Ecco allora che Cartesio
perviene ad una visione dualistica del mondo, il mondo
spirituale (cogito) e il mondo materiale (esteso). Questa visione
è prefigurata come un immenso orologio meccanico, in cui
materia e movimento sono gli elementi essenziali con i quali
spiegare il mondo fisico. Causa prima del movimento è Dio
stesso, che al principio ha creato la materia con una giusta
quantità di quiete e di moto, che in seguito si è conservata
immutata in essa, e da ciò ne derivano le leggi fondamentali
dell’estensione:
I) il principio di conservazione della quantità del moto, per il
quale non c’è dispersione di energia
II) principio di inerzia, secondo cui un corpo mantiene la
direzione rettilinea
III) principio di conservazione dell’energia, quando vi è una
collisione tra due corpi, uno dei due cede all’altro tutto o in parte
una quantità di moto, pur rimanendo questo inalterato all’interno
del sistema.
19
III * Renato Cartesio
Queste tre leggi, secondo Cartesio, bastano a spiegare tutti i
fenomeni della natura, la struttura dell’intero universo, e come si
sia formato l’ordine attuale del mondo, a partire dal caos.
L’universo è una gigantesca macchina dalla quale è esclusa, ogni
forza animata e ogni causa finale della natura, riferita al campo
della fisica perché: “non dubitiamo che esistono o esistettero un
tempo e hanno già cessato di essere, molte cose che non sono
mai state viste o comprese dagli uomini e che perciò non furono
loro di nessuna necessità”. Immaginare, che tutto sia stato creato
da Dio per l’esclusivo vantaggio dell’uomo può sembrare un
semplice atto di superbia.
Con Cartesio cambia anche la visione dell’uomo.
Diversamente da Aristotele, il corpo (sia uomo o animale) si
presenta come un automa, funzionante unicamente come un
modello meccanicistico, dal movimento del quale è esclusa
l’anima non avendo questa alcun principio vitale. Essa diventa
pensiero non più vita (quindi di esclusiva proprietà dell’uomo), e
la separazione dal corpo, per morte di questo dovuta a cause
meccaniche o fisiologiche, non ne provoca il suo dissolvimento.
Questo dualismo o diversità sostanziale tra corpo e anima,
ci conduce lontano dalla concezione tradizionale aristotelica, che
considerava il corpo come strumento o organo della sostanza
anima. Al contrario, riconoscere come sostanza (estensione) il
corpo, significa in primo luogo, rendere possibile la
considerazione e lo studio del corpo come tale, senza riferirsi
all’anima e ai suoi poteri, ponendo le basi e la condizione
necessaria per lo studio scientifico del corpo umano.
Cartesio rappresenta nella storia della filosofia la svolta
epocale, lo spartiacque tra la filosofia antica e quella moderna.
Affermando il primato della ragione sull’essere, nessuna
verità potrà essere garantita, dopo di lui, che non risulti evidente
alla ragione. Il razionalismo diventa il tratto caratteristico della
20
III * Renato Cartesio
modernità e la realtà, interpretabile solo attraverso un
principio comprensibile dal pensiero (l’uomo).
Con la modernità comincia anche ad intravedersi e farsi
strada il nichilismo, inaugurando quel processo per cui la
volontà del soggetto si pone come lo strumento in grado di
controllare, emancipare, dominare illuministicamente l’esistente.
Questo processo arriverà fino a Nietzsche e la dottrina della
volontà di potenza: “il superuomo”, in cui la concezione di
annullamento “dell’essere”, appare nella sua più compiuta
espressione. La volontà di potenza pienamente attuata, diviene lo
strumento del progetto umano di dominio sulla natura la quale,
costretta a sottomettersi alla ragione pianificatrice e calcolatrice,
ne risulterà definitivamente inaridita, privata di quei valori eterni
e ideali che sono apparsi nel corso della storia dell’uomo,
risultando d’ora in poi depotenziati e privi di senso. La morte del
Dio diviene cosi la conseguenza della modernità, proprio mentre
Lo si cerca.
Sommario
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22
IV * Razionalismo e Liberismo
IV
Razionalismo e Liberismo
Con il cartesianesimo e il diffondersi delle sue dottrine
nasce quella “lotta per la ragione”, che impegnò la cultura
filosofica del XVII secolo, in un confronto molto aspro,
tendente a far prevalere la ragione, con la sua autonomia di
giudizio nel dominio morale, politico e religioso, oltre
naturalmente in quello scientifico. Nel contempo si viene a
chiarire il concetto stesso di ragione, riconoscendo ad essa la
sola guida capace di dare all’uomo la garanzia nella ricerca, sia
scientifica che metafisica.
Del contrasto tra cartesiani e anticartesiani, né le università
europee né i collegi religiosi, poco o nulla subirono l’influsso,
continuando ancora per lungo tempo la tradizione scolastica.
Fanno eccezione quelle olandesi e alcuni illuminati inglesi.
La letteratura minuta, specialmente della seconda metà del
secolo, fu molto ricca di confutazioni, di rettifiche, di critiche,
ma anche di parziali accoglimenti del cartesianesimo,
dimostrando nel loro insieme la crescente importanza che tale
movimento andava assumendo nella cultura del tempo.
Questo fiorire di movimenti letterari posero le basi per la
formazione di altri fenomeni e movimenti culturali come
l’occasionalismo, il giansenismo, e il libertinismo, il quale ebbe
a caratterizzare buona parte del secolo XVIII. Questo
movimento, peculiare della cultura olandese e in parte inglese
del tempo, che gli oppositori contrastarono aspramente in ogni
forma,
connotandolo ad un aspetto di comportamento
permissivo, dissoluto, immorale, e gaudente, rimasto anche
nell’accezione corrente attuale, fu all’inizio inteso e praticato
come espressione del libero pensiero e di un nuovo modo di
intendere l’insieme delle dottrine, tipiche di letterati, di
notabili, magistrati, filosofi, moralisti, specialmente in Francia,
ai quali si deve la critica alle credenze tradizionali, dando
così l’avvio all’esplosione illuministica. Fu quindi un
movimento elitario praticato principalmente nei salotti e tra la
gente colta, affidato principalmente agli scritti e alle
conversazioni private, delle quali rimane traccia nella ricca
letteratura anonima o clandestina del tempo. Altra caratteristica
del libertinismo è la tolleranza religiosa, tendenzialmente
protestante, ma di un protestantesimo tranquillo e non fanatico
che ripudia le guerre di religione considerate stupide. La critica
alle credenze religiose tradizionali, è fatta utilizzando motivi
desunti dal Rinascimento Italiano e per buona parte dall’opera
di Gassendi, il quale apportando delle correzioni alla filosofia
epicurea classica, ne rinnova i capisaldi, liberandola da tutto
ciò che è contro il cristianesimo, ancorando il materialismo
epicureo alla possibilità della fede religiosa e bocciando per
tale scopo sia l’aristotelismo che il cartesianesimo, responsabili
secondo lui, della predominante scettica.
Il liberalismo teneva in gran conto il commercio e
l’industria favorendo l’affermarsi delle classi medie contro la
monarchia e l’aristocrazia, era rispettoso della proprietà privata
soprattutto quando accumulata col lavoro di chi la possedeva,
rifiutava il diritto ereditario dei Re ritenendo che ogni comunità
abbia il diritto di scegliersi il proprio governo.
In questo clima di contestazione e revisione va via via
caratterizzandosi, all’interno del movimento e della società,
l’individualismo, dovuto alla perdita da parte della Chiesa dopo
la rivolta protestante, dell’autorità capace di imporre un'unica
verità, la ricerca della quale diventa una prerogativa non più
sociale ma individuale. Dato che individui differenti giungono
a differenti conclusioni, il risultato non può che essere una lotta
continua, le cui decisioni vengono affidate alle guerre, in una
condizione molto simile a quella hobbesiana, (tutti contro tutti)
Sommario
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IV * Razionalismo e Liberismo
V
ma non avendo nessuno dei contendenti, la forza
sufficiente per eliminare l’altro, si rende necessario addivenire
ad un metodo che conciliasse l’individualismo intellettuale ed
etico, con una ordinata vita sociale.
E’ il desiderio di vivere in pace suggerito dalla ragione,
che spinge gli uomini a stipulare un patto sociale, il quale non
dia origine ad uno Stato assoluto, ma uno Stato che possieda
una struttura ontologica, il cui fine è la promozione della
razionalità e della libertà dell’uomo. E’ l’Olanda, lo Stato che
più di ogni altro, ha rappresentato e garantito al meglio la
libertà, salvaguardando pace e sicurezza all’espandersi di una
vita pienamente razionale, la quale ha potuto esprimere ai
livelli più alti il pensiero e la cultura del XVII secolo..
Thomas Hobbes
Thomas Hobbes (1588-1679) fin da giovinetto, a causa del
cattivo carattere del padre, venne preso in casa da uno zio e
avviato agli studi appassionandosi alla lettura dei classici greci,
dei quali conseguì una buona conoscenza. Quindicenne
frequentò Oxford, dove studiò logica scolastica e filosofia
aristotelica, con poco profitto. Dopo gli studi, venne richiesto
come tutore da una importante famiglia inglese, con la quale
ebbe la possibilità, per parecchi anni, di girare l’Europa e
l’Italia incontrando i migliori studiosi e pensatori dell’epoca tra
i quali Cartesio e Galileo apprezzandone i metodi matematici
delle loro scoperte, cosa del quale l’empirismo inglese ne era
poco influenzato. La sua fu una filosofia prettamente politica,
volta principalmente a evitare i pericoli della guerra civile e le
calamità sociali, verso le quali provava terrore, allo scopo di
garantirne la pacifica convivenza.
Questa, legata a presupposti nominalistici e materialistici,
intravede nella ragione una tecnica adatta al superamento dei
conflitti, del tutto opposta a quella cartesiana più spiritualista e
metafisica. Le dottrine politiche di Hobbes, espresse
principalmente nel “Leviatano”, al quale deve principalmente
la sua fama, sono opinioni monarchiche portate all’eccesso.
Gia dall’inizio dell’opera pone come premessa la sua
visione materialista, affermando che la vita non è altro che un
moto delle membra, paragonandola a quella di un automa. La
Comunità-Stato che egli chiama “Leviatano”, è un organismo
artificiale, è un creazione artistica, un meccanismo, le cui
regole di funzionamento “la sovranità”, cioè i patti e gli accordi
coi quali all’inizio viene creata la comunità, è di competenza
unica del legislatore che è il “Sovrano” (uomo o assemblea ).
Allo stato naturale, prima di qualsiasi forma di governo,
25
V * Thomas Hobbes
l’individuo desidera in primo luogo conservare la propria
libertà, aspirando ad avere il dominio sugli altri. Questi
desideri, dettati dall’istinto di conservazione, confliggono in
una guerra di tutti contro tutti, rendendo la vita brutale, breve e
sgradevole. In natura non esiste la proprietà, la giustizia, o
l’ingiustizia; c’è solo la guerra e in guerra la forza e la frode
sono virtù inderogabili. Per sfuggire a questi mali e costruirsi
una vita migliore, l’individuo si organizza in comunità,
rinunciando a una parte di libertà e sottomettendosi ad una
autorità centrale, singola o assembleare, scelta a maggioranza,
la quale impone la fine della guerra universale, esercitando
l’autorità e il potere attraverso l’interpretazione esclusiva della
legge.
Questa convenzione, come la chiama Hobbes, va intesa
come metafora, ed è usata per spiegare perché gli uomini si
sottomettano alle limitazioni della libertà personale sottostando
all’autorità. La convenzione per essere applicata, deve conferire
tutto il potere e l’autorità al sovrano, perché la convenzione
“senza la spada, non è che una serie di parole inutili”. Premesso
questo, il ribellarsi ad essa diventa un errore, in primo luogo
perché solitamente fallisce, in secondo luogo perché il
governante non è legato da alcun patto con il governato, ma
svolge un incarico che gli è stato assegnato da una
maggioranza. Nel caso della tirannide, per Hobbes, questa non
esiste, “è soltanto una monarchia che non piace a colui che ne
sta parlando”. Il possibile dispotismo del sovrano è tollerato
essendo una condizione migliore dell’anarchia.
Quando il Sovrano è stato scelto, i cittadini perdono tutti i
diritti e le libertà politiche, tranne quelli che al governo stesso
converrà garantire loro.
Una comunità così organizzata legata da questa
convenzione, che Hobbes ha motivato e immaginato per un
26
V * Thomas Hobbes
governo monarchico, può essere adattata ad ogni altra
forma di governo, in cui ci sia un’autorità suprema, non
limitata da diritti legali o costituzionali. Ciò che egli propone, è
un “Sovrano” con poteri illimitati, con diritto di censura su
qualsiasi manifestazione, il cui interesse principale ed esclusivo
è la difesa e la conservazione della pace interna.
Seguono poi tutta una serie di leggi, regolamenti e
suggerimenti sul come tradurre in pratica la convenzione. La
proprietà dipende interamente dal sovrano, dato che in natura
non esiste la proprietà ma viene creata dal governo. Si sofferma
poi in considerazioni sul perché è da preferire il governo di un
monarca ad un governo assembleare. Hobbes non considera la
possibilità di elezioni periodiche, ma concepisce la democrazia
come forma politica alla maniera degli antichi, che implica la
partecipazione diretta dei cittadini alla legislazione e
all’amministrazione. La successione è stabilita dal sovrano
stesso, come usava nell’impero romano, quando non si
intrometteva qualche rivolta a sostituirlo.
Sulla libertà dei sudditi, questa è coerente alla necessità
del sovrano. Su questo tema vi è una definizione singolarmente
meccanicistica e precisa: ”la libertà è l’assenza di impedimenti
esterni al movimento”. I sudditi sono liberi la dove non
intervengono le leggi, ma non hanno diritti da far valere nei
confronti del sovrano, all’infuori di quelli che il sovrano stesso
ritiene di concedere. Vi è una limitazione al dovere di
sottomissione, ed è il diritto all’autodifesa personale anche
contro i monarchi, quindi la resistenza al sovrano è giustificata
solo in caso di autodifesa. Naturalmente decade il diritto di
obbedienza, quando il sovrano non ha più la forza sufficiente
per proteggerli.
Non esistono partiti od organizzazioni di categoria, la
scuola e lo studio deve insegnare solo ciò che il sovrano
27
V * Thomas Hobbes
reputa utile, e l’istruzione deve dipendere da un saggio
insegnamento su cui occorre vigilare con oculatezza.
La religione deve essere quella del sovrano, per cui non
c’è separazione tra il potere spirituale e temporale, chiesa e
stato coincidono in un potere assolutistico.
Ciò che risalta maggiormente come riflessione, nella parte
più importante della sua dottrina, è il formalismo rigido del
modello, non dato per ordine o intervento divino, ma creato da
una decisione umana naturale, razionalmente legittimato,
capace di facoltà di previsione e scelte opportune, senza
possibilità di critica individuale, da cui discendono le leggi e i
poteri allo Stato dal Sovrano. Queste dottrine erano già
conosciute e praticate, durante il Rinascimento e la Riforma, in
modi di governo molto simili, in Europa Occidentale.
Prima, Luigi XI, Edoardo IV, Ferdinando e Isabella,
sottomettendo la nobiltà feudale. Poi con la Riforma, nei paesi
protestanti, si ebbe il sopravvento del governo sulla Chiesa,
Enrico VIII, in Inghilterra, Enrico IV e Richelieu in Francia,
Carlo V in Spagna.
L’esperienza personale ha suggerito ad Hobbes, che i
pericoli per ogni comunità sono l’anarchia o il dispotismo, ed
avendo sperimentato l’orrore dei due fanatismi rivali (era
ossessionato dal terrore per l’anarchismo), causato dalla guerra
contro il Sovrano, l’ebbe a identificare come la peggiore delle
calamità. E’ da questa ossessione che concepisce un progetto
capace di costruire una comunità ordinata e pacifica, e un
governo illuminato e autonomo.
C’è da pensare però che se i sudditi, avessero adottato
universalmente, questo atteggiamento di sottomissione indicato
da Hobbes, sicuramente i governi si troverebbero in condizioni
peggiori di quel che sono, considerato che: i governanti,
tenterebbero tutto il possibile per rendersi inamovibili,
28
V * Thomas Hobbes
Gli economisti, sarebbero portati ad arricchire se stessi e i
loro amici, a scapito dello Stato,
Gli scienziati, nel campo culturale, ostacolerebbero ogni
nuova scoperta o dottrina che minacciasse il loro potere.
Sono tutte buone ragioni queste per non pensare che il
pericolo peggiore sia l’anarchia, ma ancora peggiore fosse il
rischio dell’ingiustizia legato all’onnipotenza del governo.
I meriti di Hobbes, appaiono chiari ed evidenti ove egli
venga confrontato con precedenti teorici della politica.
D'altronde si presenta come il primo, a parte Machiavelli,
scrittore veramente moderno in teoria politica, completamente
libero dalla superstizione senza riferimenti esoterici o mistici,
con un linguaggio comprensibile e logico, anche se
filosoficamente non completamente condivisibile. Il suo
ragionamento appare debole la dove considera l’interesse
nazionale del sovrano
come tutt’uno con l’interesse
individuale dei sudditi. Se ciò può essere vero in tempo di
guerra, in tempo di pace possono crearsi gravissimi conflitti di
interessi tra le diverse classi sociali. In simili situazioni, non è
detto che il miglior modo per evitare l’anarchia, sia adottare il
potere assoluto del sovrano. L’altro punto oscuro è la non
menzione della possibilità di usare la via diplomatica intesa a
derimere contrasti tra i diversi Stati, ma tutto viene affidato alla
capacità di risoluzione delle guerre, con le armi e la conquista.
Sommario
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30
VI * Blaise Pascal
VI
Blaise Pascal
Blaise Pascal (1623-1662) nacque a Clermont, ma ben
presto dovette trasferirsi a Parigi, con il padre e le due sorelle.
Già da giovane fu attratto dagli studi scientifici verso i quali si
dedicò con entusiasmo compiendo numerosi esperimenti e
realizzando anche delle invenzioni. Nel frattempo alcuni
avvenimenti lo segnarono profondamente nella coscienza
indirizzandolo verso la conversione alla vita religiosa.
Iniziò a frequentare l’abbazia di Port-Royal, noto centro
giansenista, dove già una sua sorella si era ritirata come
monaca. Anche se nella nuova condizione continuò a coltivare
gli interessi scientifici, diede il via ad una forte polemica,
prendendo le difese della dottrina giansenista, contro la morale
gesuitica a suo parere troppo lassista, e il malcostume degli
ecclesiastici, riaffermando il rigore morale della Chiesa
primitiva e il ritorno alle pratiche di culto autentiche e interiori.
In seguito si rivolse anche contro i libertini e gli atei del
suo tempo, con una serie di scritti facenti parte di una Apologia
della religione cristiana, rimasta però incompiuta a causa della
morte sopraggiunta a trentanove anni. Pubblicata postuma col
titolo di “Pensieri”, rappresenta un vero capolavoro di indagine
introspettiva della natura umana.
Il pensiero di Pascal, nella lotta per la ragione in cui la
filosofia del XVII secolo si riassume, è senza dubbio una voce
fuori dal coro in ogni senso. Non già perché intende difendere
la tradizione con mezzi tradizionali ma, accettando e facendo
suo il razionalismo nel campo della scienza (anche se con
alcuni limiti), si oppone all’idea che questo possa estendersi al
dominio della religione e della morale, essendo la razionalità
incapace di comprensione, esigenza prima e fondamentale
dell’uomo, in questo campo.
“L’uomo, - dice Pascal - non è che una canna, la più
debole della natura, ma è una canna pensante”. Anche se
l’universo lo schiacciasse, l’uomo sa di morire, e sa riconoscere
la superiorità dell’universo su di lui, ma l’universo non ne sa
niente. E’ nel pensiero che consiste tutta la nostra dignità.
La natura dell’uomo ha carattere mediano, in mezzo tra
l’essere un nulla rispetto all’infinito, e un tutto rispetto al
niente. In questa ambiguità diventa pericoloso mostrargli
quanto sia simile alla bestia senza mostrargli la sua grandezza,
ma è altrettanto pericoloso mostrargli la sua grandezza senza la
sua bassezza. In questa situazione il meglio diventa prospettare
ambedue le condizioni.
Nella circostanza di incertezza nel riconoscere veramente
chi siamo, la ragione scientifica, non ci è di grande aiuto in
quanto coglie solo gli aspetti esteriori e macroscopici. Per
Pascal l’organo che riesce a captare gli aspetti più profondi
della condizione umana, è il cuore “exprit de finesse”. Infatti
“il cuore ha le ragioni, che la ragione non conosce”. Il cuore è
una via più intuitiva, che sente più che vedere, che coglie di
colpo più che attraverso un ragionamento, il solo spesso in
grado di interpretare il senso del non detto. Il sapere scientifico
e il cuore quindi si contrappongono, ma Pascal ha evitato
accuratamente il dualismo troppo netto tra ragione e cuore.
Il sapere umano, a differenza della teologia, non si basa sul
principio di autorità, perché ciò renderebbe impossibile ogni
progresso. Per ciò la scienza deve essere progressiva, perché
solo così l’uomo costruisce seguendo nuove esperienze, sulle
quali si sviluppa e si corregge il sapere. La scienza ha però dei
limiti strutturali, e proprio l’esperienza se permette da un lato di
accompagnare ogni proposizione scientifica, dall’altro
circoscrive e limita i poteri della ragione, la quale non può
31
VI * Blaise Pascal
andare oltre la stessa esperienza, dunque non è assoluta.
Gli stessi principi primi della scienza sono indimostrabili:
infatti non è possibile regredire all’infinito, riguardo al
principio di non contraddizione, ma ci dobbiamo arrestare a dei
termini primi oltre i quali non possiamo precedere, ma dai quali
necessariamente dobbiamo partire con la catena dei nostri
ragionamenti.
Pascal, rifiutando con forza l’intromissione della teologia
o del principio di autorità nella scienza, ne circoscrive gli
ambiti in modo tale, da segnare una separazione netta tra fede e
sapere scientifico. Ma curiosamente, non manca di sottolineare
quanto l’exprit de finesse (l’intuito, in un certo senso la fede),
sia assolutamente necessaria per la stessa scienza quando, i
principi primi sono colti istintivamente dallo scienziato con la
stessa creatività, quando vuole costruire ipotesi.
La scienza non copre tutto l’ambito del vero, perché a lei
sfuggono tutte le verità etico-religiose da cui dipende il senso
della nostra esistenza. L’uomo messo di fronte ai problemi
esistenziali di fatto assume due atteggiamenti:
1) o lo stordimento e l’oblio di sé, il “divertissment”,
allontanandosi da sé per non saper restare solo con se stesso, in
fuga dalle miserie, verso uno smarrimento angosciante, che lo
conduce verso una felicità effimera e superficiale, miseramente
noiosa;
2) o accettare quella che è la realtà dell’esistenza con le sue
contraddizioni sapendo, che la dignità dell’uomo e il suo pregio
sono il pensare, ricercare nella fede cristiana la vera risposta
alle proprie angosce, iniziando il cammino verso la verità, a
partire da sé per riappropriarsi di sé. Pascal, rivolgendosi in
tono polemico contro Cartesio e i deisti del suo tempo, i quali
ricercavano l’esistenza di Dio su basi razionali, ribadisce che:
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VI * Blaise Pascal
“non solo è impossibile ma è inutile conoscere Dio senza Gesù
Cristo”, la fede è un evento, un’esperienza storica: al Dio dei
filosofi occorre contrapporre quello storico, il Dio di Cristo.
Come l’ateismo, anche il deismo si mostra altrettanto lontano
dalla religione cristiana. Di Cartesio scrive di non poterlo
perdonare, per il fatto che in tutta la sua filosofia avrebbe pur
voluto fare a meno di Dio, ma non ha potuto esimersi dal fargli
dare un colpetto, per mettere in movimento il mondo: “dopo di
che non sa cosa farne di lui”.
La conoscenza di Dio, senza conoscere la nostra miseria,
genera la superbia dei filosofi; la conoscenza della nostra
miseria, senza quella di Gesù Cristo, genera la disperazione
degli atei.
Sul concetto della conoscenza e dell’esistenza di Dio,
Pascal formula il famoso tema della scommessa. Noi non
conosciamo né l’esistenza né la natura di Dio, tuttavia grazie
alla fede, sappiamo della Sua esistenza. La ragione non ci può
aiutare a conoscere, per cui ci troviamo costretti a dover fare
una scelta, vivere come se Dio esiste, o vivere come se Dio non
ci fosse, senza poterci esimere dallo scegliere. Se alla ragione
non possiamo chiedere aiuto, tanto vale fare testa o croce,
oppure considerare la scelta più conveniente; scommettere
sull’esistenza di Dio. Se si vince, vinciamo tutto il Bene
infinito che è Dio per l’eternità, se perdiamo non perdiamo
nulla se non beni effimeri e mondani. Scommettere
sull’esistenza di Dio, diventa una scelta più che ragionevole, e
in questo senso anche la ragione può mostrare che non è
contraria alla fede e alla natura umana, ossia non è irrazionale.
Sommario
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VII * Baruch Spinoza
VII
Baruch Spinoza
Baruch Spinoza (1632-1677), figlio di un rifugiato ebreo,
fuggito dalla Spagna per sottrarsi alle persecuzioni
dell’Inquisizione, ed esule in Olanda. Visse da emarginato e
appartato dedito al suo lavoro, alla meditazione e allo studio,
espulso dai suoi stessi correligionari per le sue idee eterodosse
in campo religioso. Per il timore di perdere la sua libertà
intellettuale, rifiutò persino la cattedra all’Università di
Heidelberg.
L’interesse principale di Spinoza è la ricerca del vero
bene, quindi non le procedure del conoscere, ma la capacità
fondamentale di dare un senso all’esistenza umana, cioè l’etica.
La sua attenzione è rivolta soprattutto all’uomo, alla sua
vita morale, religiosa, politica. Conoscere è sempre volere e
verità e bene coincidono, per cui cercando l’una si ritrova
insieme l’altro, e trovato il bene è trovare la felicità. Questo
bene supremo, va ricercato per tutta la vita ed è il “legame che
unisce interamente la mente con la natura”. Questi principi
fondamentali della filosofia spinoziana, risultano essere il
presupposto per conseguire la verità, delineando fin dall’inizio
l’ambito della ricerca futura.
Assolutamente diverso e originale è lo stile narrativo di
Spinoza, volendosi contrapporre al metodo classico del
sillogismo scolastico, ormai abusato e svuotato, adotta un
linguaggio geometrico, fatto di definizioni e di postulati,
decisamente difficile e pedante da intendere, ma preciso,
razionale, più adeguato alle esigenze di chiarezza.
Scopo del suo filosofare, lo annuncia nell’”Etica”, è la
conoscenza dell’unità della mente con la totalità della natura.
Se la metafisica aristotelica comprendeva una molteplicità
gerarchicamente ordinate di sostanze, e Cartesio ammetteva
come sostanze il divino, il pensiero e l’estensione; Spinoza, pur
mantenendone la definizione di Sostanza, ne afferma
l’unicità e l’infinità: “ciò che è in sé e per sé si concepisce:
ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di altra
cosa, dal quale esso debba essere formato”. Per raggiungere
questa unità, l’uomo deve conoscere se stesso e
contemporaneamente la natura, con le differenze, le
concordanze, le opposizioni esistenti tra le cose, affinché
impari a conoscere ciò che esse gli consentono e quale sia la
propria natura e la propria potenza. L’unica conoscenza
utilizzabile dall’uomo per tale scopo, non potendo utilizzare
altri tipi di percezione (quella simbolica, quella accidentale o
quella dedotta da certi effetti), è quella conoscenza che si
adegua pienamente all’idea dell’oggetto ed ha perciò in sé la
garanzia necessaria della sua verità.
Impostando il problema del metodo con il quale la mente
viene indirizzata per giungere alla norma dell’idea vera, la
quale non può essere altra che l’idea data dall’essere
perfettissimo, Spinoza, ha inteso porre al centro della sua
dottrina la considerazione dell’essere perfettissimo, cioè Dio,
come la sostanza unica che esiste in sé ed è concepita per sé, e
che non ha bisogno di nessun’altra realtà.
Se la sostanza è unica, infinita ed è anche causa di sé, ciò
implica la sua esistenza e questa, non può che essere Dio,
essendo egli eterno. Dio quale sostanza, unica, infinita, eterna,
causa di sé, concepita per sé, costituita da infiniti attributi,
conosciuti come, “ciò che l’intelletto riconosce costitutivo della
sua essenza”, ognuno dei quali espressione di un’essenza
eterna e infinita. Quindi Dio quale causa efficiente di tutto ciò
che è.
Natura naturante, è la sostanza stessa, cioè Dio, nella sua
essenza infinita. Natura naturata, sono i modi le manifestazioni
singole dell’essenza divina. Tutto deriva da Dio
35
VII * Baruch Spinoza
in virtù della sua perfetta conformità con la natura divina,
per cui nulla nelle cose e nell’agire è contingente, cioè tale da
dover essere prodotte in altro modo o altro ordine da quello per
il quale sono state prodotte da Dio. La sua potenza si identifica
con la sua essenza e tutto ciò che egli può, esiste
necessariamente.
Spinoza, affermando che nulla c’è al mondo che non derivi
da un aspetto necessario di Dio e quindi intrinsecamente
determinato, manifesta con forza la negazione della libertà
della volontà umana. L’uomo si crede libero e consapevole
della sua volontà, perché ignora la causa che la determina;
questa causa è Dio stesso, che la determina, necessariamente,
come per ogni altro modo d’essere, non essendoci differenza,
sotto questo aspetto, tra l’uomo e la natura; tutto è necessità
nell’uno come nell’altra.
Con queste affermazioni Spinoza decreta coerentemente
una radicale critica del finalismo. Se tutto necessariamente
discende da Dio, non può esistere nessun fine né per l’uomo né
per la natura, quindi ammettere che vi sia una causa finale per
la quale natura e umanità siano stati destinati, è semplicemente
un pregiudizio dovuto all’intelletto umano, che pone il fine in
vista di un bene o vantaggio.
Pensare che Dio abbia agito per un fine, toglierebbe la
perfezione del mondo e la perfezione di Dio stesso, in quanto
egli avrebbe creato in vista di qualcosa di cui mancava.
Spinoza, ritiene la concezione finalistica del mondo, un
prodotto dell’immaginazione, dovuto al tentativo di spiegare il
mondo mediante nozioni come il bene, il male, il bello, il
brutto, il caldo, ecc… le quali non esprimono se non il modo in
cui le cose colpiscono gli uomini, ma non hanno valore
oggettivo per intendere la realtà stessa. La perfezione delle cose
deve essere valutata, non secondo il piacere o l’offesa ai sensi
36
VII * Baruch Spinoza
degli uomini, ma dalla loro natura e dalla loro potenza.
Non esistono imperfezioni in natura, perché le sue leggi sono
così ampie che bastano a produrre tutto ciò che può essere
concepito da un intelletto infinito.
La caratteristica più evidente della dottrina spinoziana è
l’identificazione di Dio con la natura naturante e la natura
naturata considerata come sua immediata creazione. Questo
implica, la considerazione che se Dio e la natura sono un'unica
potenza, nulla può accadere che non sia necessità e perfezione,
perché in natura nessuna legge può agire contro se tessa, per
cui non esistono né disgrazie né miracoli, ma fatti e
avvenimenti fuori dal comune, per i quali all’uomo per
ignoranza o pregiudizio, sfugge la causa naturale degli
accadimenti. La natura non è ristretta alle leggi della ragione
umana, le quali tendono soltanto all’utilità e alla conservazione
degli uomini, ma si estendono ad infinite altre leggi che
concernono l’ordine eterno della natura intera, di cui l’uomo è
solo una particella.
Quindi, Spinoza considera che ”la sostanza, come identità
di natura e Dio, è l’ordine necessario del tutto”. Essa non è
certamente ragione, alla quale spetta un campo assai più
ristretto, avendo il suo riferimento in quella parte della natura
che è l’uomo. La sostanza non può essere considerata come
causa, perché essa essendo ordine necessario, comprende
insieme il necessitante e il necessitato, l’attributo e i modi,
l’uno e il molteplice. Spinoza evita di avvalersi della dottrina
della creazione, né di quella della emanazione di tipo
neoplatonico, né la sovrabbondanza di potenza di Giordano
Bruno.
Cos’è allora questa sostanza spinoziana? La sostanza
divina cioè Dio, sono i singoli modi, quell’ordine geometrico,
quella necessità intrinseca della natura divina, per cui il tutto è
37
VII * Baruch Spinoza
concatenato non per un fine, ma per un ordine cosmico da
cui tutte le cose scaturiscono necessariamente, al pari dei
singoli teoremi e proposizioni che in geometria si saldano
nell’insieme, come dalla nozione di triangolo segue che la
somma degli angoli interni è di 180°. Questa connessione,
questa realtà, quest’ordine; in ultima analisi l’ordine
geometrico dell’Universo, cioè il Sistema con tutte le sue leggi
necessarie, è per Spinoza, la Sostanza Divina.
Nel suo libro dell’Etica, delinea e caratterizza la figura
dell’uomo libero. Questo riconosce l’utilità della vita associata
e comunitaria scegliendo di conformarsi e sottostare alle leggi,
pur avendo temperamenti diversi e contrastanti, a causa delle
loro emozioni. Queste emozioni, tanto differenti e antitetiche
vanno considerate così come sono, e non già vizi o negatività,
ma parte della natura stessa dell’uomo, come dell’aria
dipendono il caldo, il freddo, il vento ecc… fenomeni che
anche se dannosi, sono tuttavia necessari. Questo realismo
politico lo si può accostare a Hobbes, ma Spinoza ritiene le
norme di diritto naturale fondate sull’ordine necessario del
mondo, non già sulla ragione umana. Egli intende per diritto di
natura “le stesse regole o leggi naturali secondo le quali tutte le
cose accadono, cioè la potenza stessa della natura… Tutto ciò
che un uomo fa secondo le leggi della sua natura, lo fa per
sommo diritto di natura e ha sulla natura tanto diritto per
quanto vale la sua potenza”. La potenza della natura si
identifica infatti con la potenza di Dio. Ogni uomo, sia sapiente
o ignorante, è parte della natura e tutto ciò da cui è determinato
ad agire deve essere riferito alla potenza della natura, pertanto
tutto ciò che l’uomo fa, sia guidato dalla ragione o dalla
cupidigia, è conforme alle regole e alle leggi della natura cioè
al diritto naturale. Il diritto naturale, quale espressione di
necessità, può configurarsi come mancanza di libertà, ma ciò
38
VII * Baruch Spinoza
non può essere, dato che esso non impedisce se non ciò
che l’uomo non può o non desidera fare, quindi non elimina, in
generale, l’istinto che agisce nell’uomo. Questa condizione, di
non inibizione degli istinti, se spinta all’eccesso, determina una
situazione che già Hobbes chiamava la guerra di tutti contro
tutti. Da qui ne deriva che l’uomo non potendosi difendere da
solo, né provvedere ai suoi bisogni senza un aiuto reciproco, il
diritto di natura del genere umano, consiglia alla ragione la
ricerca di un comune accordo di convivenza. E’ evidente che
tanti più individui si associano tanto più cresce il loro diritto e
la loro forza, così l’organizzazione di questa associazione
determina il sorgere di un diritto comune e l’istituzione di un
governo. Il diritto del governo è lo stesso diritto di natura,
determinato però dalla potenza della moltitudine guidata da una
sola mente, e non dalla potenza del singolo. La differenza
fondamentale tra lo stato di natura e lo stato civile è che in
quest’ultimo tutti temono le stesse leggi, ma i vantaggi che ne
deriva sono tali che la ragione ne consiglia l’accettazione,
secondo la regola del male minore.
Sulla religione Spinoza pensa che tutte, pur nelle loro
differenze storiche, sono simili, perché mirano a muovere
l’animo all’obbedienza. La religione infatti appartiene a quel
grado di conoscenza in cui domina l’immaginazione, i cui
concetti non sono razionali ma solo immagini veritiere che
insegnano la vita pratica e la virtù, ma non certamente la verità.
E’ la fede che sovrintende alla totalità dei sentimenti o degli
atteggiamenti, a condizionare l’obbedienza alla divinità.
L’analisi che il filosofo della necessità ha fatto, dell’opera
creatrice di Dio, del suo governo del mondo come l’ordine
geometrico infallibile, non ha avuto altro scopo, nella sua opera
speculativa, che difendere e garantire all’uomo la libertà della
ricerca filosofica, la libertà politica, la libertà religiosa, la
Sommario
39
40
VII * Baruch Spinoza
VIII
libertà dalle emozioni.
Due righe di riflessioni sull’opera di Spinoza. Egli insegna
che la natura del mondo e dell’uomo possa essere logicamente
dedotta da assiomi evidenti, come due più due fanno quattro, e
che la fortuna, la sfortuna, le catastrofi, la gioia, ecc… esistono
solo nella nostra piccola realtà umana interessata, ma non
hanno nessun significato per l’intero universo, sono
concatenazioni di cause che si susseguono già dall’inizio del
tempo e continueranno fino alla fine, contribuendo ad
accrescere l’universale armonia. La metafisica di Spinoza, è il
miglior esempio di ciò che si può chiamare monismo logico, la
dottrina cioè che considera il mondo e l’universo come
un'unica sostanza di cui nessuna parte sia capace di esistere da
sola. Il concatenarsi di situazioni e condizioni necessitate,
servono a mostrare, a definire, quello che è il pensiero ultimo
della filosofia di Spinoza, cioè la fede nella bontà finale
dell’universo, la convinzione che questo sia l’unico mondo
necessitato.
Isaac Newton
Newton (1642-1727) raccolse e perfezionò i risultati delle
osservazioni e degli studi dei tre grandi, Copernico, Keplero e
Galileo, enunciando la sua legge della “gravitazione universale”,
con la quale fu in grado di dedurre tutta la teoria planetaria: i
moti dei pianeti e dei satelliti, le orbite delle comete e i moti
delle maree. Il suo trionfo fu così completo che rischiò di
divenire un secondo Aristotele, ponendosi a sua volta come
ostacolo al progresso. Questa teoria, che la leggenda vuole
causata dalla vista della caduta di una mela dall’albero e diffusa
ad arte da Voltaire, afferma che la forza con cui due corpi si
attraggono è direttamente proporzionale al prodotto delle loro
masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro
distanza, trovando conferma nel 1682, quando il francese Picard
ha fornito l’esatta misurazione del raggio terrestre. Essa, non
solo ha stabilito un unico principio capace di rendere conto di
una enorme quantità di fenomeni, ma ha contribuito al
moltiplicarsi di altri programmi di ricerca in altri settori, a prima
vista completamente differenti come l’elettricità, la fisiologia,
l’ottica, ecc.. nello sforzo comune di giungere ad una loro
unificazione totale.
Il metodo di ricerca di Newton è quello analitico induttivo,
di tipo galileiano, egli si propone di partire dalla conoscenza dei
fatti riscontrati dall’esperienza, cercando di risalire gradualmente
alle prime cause fino agli ultimi elementi dei fatti stessi.
Compito principale della fisica è la descrizione dei fenomeni,
non la loro giustificazione sulla base di una causa ultima.
Egli ha trovato la formula matematica che consente di
descrivere i fenomeni che concernono la forza di gravità, ma si
rifiuta di proporre un’ipotesi sulla natura di tale fenomeno.
L’orientamento che ha voluto dare alla sua ricerca è stato di
41
VIII * Isaac Newton
ridare importanza alla descrizione della natura e ai suoi
fenomeni, trascurando completamente la loro spiegazione, ciò di
cui si occupava la fisica antica e medioevale. Tuttavia non
sempre, Newton stesso, si mantenne fedele a questo spirito.
Certamente Newton fu uno degli iniziatori dell’illuminismo,
principalmente inglese, avendo dato con i suoi studi, una visione
compiuta di un sistema puramente meccanico di tutto il mondo
celeste e terreno.
Attraverso le sue speculazioni, ha voluto continuare per
conto suo il tentativo di razionalizzare le credenze religiose e di
ricercare la saldatura tra fede e scienza moderna, come già i
platonici di Cambridge avevano intrapreso.
Anche Robert Boyle (1627-1691), autore di scritti teologici
e scientifici, specialmente di chimica, si pone sulla stessa linea
nel tentativo di conciliare fede e scienza, seguendo una via
originale consistente nel sottrarre la fede all’entusiasmo, cioè al
fanatismo e all’integralismo, la scienza al dogmatismo,
riconducendo entrambi nei limiti di una ragione che rifiuti di
proporre verità assolute e si mantenga pronta a correggere le
proprie conclusioni.
L’opera di Boyle ha avuto per la filosofia di Locke
un’importanza grandissima, perché da essa ne derivò quella
distinzione tra qualità primarie e secondarie cui fu attribuita
tanta importanza nel corso successivo della scienza e della
filosofia gnoseologica.
Come si può notare il XVII secolo non fu importante solo in
astronomia e nelle scienze, ma in tutti gli altri campi della
cultura e della filosofia. La strumentazione scientifica si arricchì
di tutta una serie di oggetti: dal microscopio, al telescopio al
termometro, il barometro, la pompa pneumatica, nel campo della
misurazione del tempo anche se gli orologi non erano una
novità, fecero passi da gigante nella ricerca della precisione, in
42
VIII * Isaac Newton
buona parte per opera di Galileo. Tutta questa
strumentazione rese le osservazioni scientifiche immensamente
più esatte ed estese di quanto non fossero mai state prima.
Importanti lavori vennero compiuti da Gilbert sul magnetismo,
Harvey scoprì la circolazione sanguinea, Leeuwenhoek scoprì i
protozoi, nonché i batteri e gli organismi unicellulari, Boyle
formulò la legge sulle sostanze gassose, ecc.
Anche nella matematica pura vennero fatti progressi
addirittura indispensabili per gli studi fisici. Napier formulò gli
studi sui logaritmi, la geometria delle coordinate ricevettero un
impulso decisivo da Cartesio, Newton e Leibniz, anche se
separatamente, contribuirono a inventare il calcolo differenziale
ed integrale. Queste sono solo le conquiste di maggior rilievo,
ma innumerevoli altre di grande importanza vennero formulate
durante il XVII secolo. Il risultato di tutti questi studi e scoperte
scientifiche e tecniche fu straordinario. Il modo di vedere
l’universo, da parte dell’uomo di una certa educazione, subì una
completa trasformazione.
Con le leggi fisiche sparì completamente ogni traccia di
animismo. All’epoca della Grecia classica, i filosofi
consideravano la capacità di movimento come un segno di vita,
mentre ciò che si muoveva a causa di una spinta esterna era
materia inerte. I quarantasette o cinquantatre motori immoti che
muovono i cieli secondo Aristotele, il sole e le stelle, venivano
visti come mossi dagli dei o da forze che dirigevano e
controllavano, per cui l’anima doveva esercitare la sua attività
sulla materia costantemente altrimenti il moto sarebbe venuto
meno.
La prima legge del moto, che decreta come la materia senza
vita una volta messasi in moto, continui a muoversi per sempre a
causa della sua stessa forza inerziale e delle sue leggi, se non
modificata da qualche ragione esterna, sovvertiva
43
44
VIII * Isaac Newton
VIII * Isaac Newton
completamente la concezione antica del movimento, in
quanto l’azione divina, se mai necessaria, avrebbe operato solo
in principio per mettere in azione il meccanismo.
Anche il posto centrale che l’uomo occupava nell’universo
durante il medioevo, subisce un improvviso declassamento, fino
a divenire un piccolissimo essere facente parte di un piccolo
corpo celeste relegato in un angolino sperduto del cielo, per cui
apparve improbabile che tutto questo immenso apparato fosse
messo a disposizione di certe piccole creature, viventi in questo
angolino sperduto e che tutto dovesse riguardare lui in un modo
o nell’altro. Ciascuno era libero di credere che il mondo esistesse
per proclamare la gloria di Dio, ma nessuno più avrebbe
introdotto questo concetto tra le spiegazioni scientifiche.
Buona parte della speculazione filosofica del secolo XVIII
in Inghilterra, verteva intorno al tema della religione rivelata, o
della religione naturale, intesa quest’ultima come la religione
che si limita a insegnare solo quelle verità che la ragione può
dimostrare o almeno comprendere (deismo). Questo neo
illuminismo inglese, che tanto fece discutere e tanto influenzò l’
Europa e la Francia in particolare, ebbe la sua origine e la sua
nutrice nel XVII secolo, secolo di grande fermento e di
straordinaria cultura paragonabile, a mio avvisi, al miglior
secolo della Grecia classica, quello di Platone, Aristotele e
Alessandro.
Il deismo è la religione, che accetta il concetto della
divinità, solo in quanto riconoscibile con la forza della ragione,
perciò escludente ogni connotazione misterica o comunque
non accessibile dalla ragione. Queste dottrine, che sono il
tentativo di razionalizzare la teologia che già i “platonici di
Cambridge” avevano portato avanti ricorrendo al platonismo
rinascimentale, vengono annunciate da numerosi intellettuali
detti anche “liberi pensatori”.
E’ Locke, l’iniziatore di questo movimento, il quale riesce
ad attirare l’attenzione sulle sue dottrine sapientemente
amalgamate di cartesianesimo ed empirismo, tanto da
conquistare a questa filosofia i liberi pensatori inglesi, e non
solo, che trovano in queste dottrine un terreno favorevole sopra
il quale innestare la razionalizzazione della religione, ricorrendo
alla nuova gnoseologia empiristica, radicata nella certezza della
ragione.
Benché la maggior parte degli uomini di scienza erano
modelli di piieta religiosa, le scoperte turbavano le loro
coscienze ma preoccupavano non poco l’ortodossia (non era
trascorso tanto tempo dalla polemica su Galileo), tanto che il
disagio dei teologi era pienamente giustificato. I presupposti
magici e neoplatonici erano oramai scomparsi definitivamente,
come i dogmi della fisica tradizionale, come il mito della
circolarità o la diversità essenziale tra i cieli e la terra. Ciò che
andava imponendosi invece era l’idea di una religione
dominata dalla ragione, limitata e controllata dall’esperienza,
non più libera di muoversi a piacere nel campo della fede e
della tradizione.
Sommario
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46
IX * John Locke
IX
John Locke
John Locke (1632-1704) scrisse le sue opere di maggiore
influenza, nel periodo della rivoluzione inglese del 1688, la più
moderata e riuscita delle rivoluzioni, della quale fu l’apostolo e
ne impersonò lo spirito. Dopo il conseguimento del titolo di
maestro delle Arti, ad Oxford, continuò la sua formazione
culturale in vari ambiti, dalla medicina alla fisica. Fu membro
della Royal Society e segretario di Lord Shaftesbury,
partecipando attivamente alla vita politica. Nel 1682 dovette
rifugiarsi in Olanda con il suo protettore a seguito di una
congiura contro Re Carlo II. Con l’avvento della monarchia
orangista in Inghilterra, potè rientrare in patria nel 1689,
dedicandosi per gli ultimi anni di vita alla meditazione e
all’attività letteraria. L’influenza che ebbe nella filosofia della
politica fu grande e durevole, tanto da essere considerato il
fondatore del liberismo e dell’empirismo. La sua filosofia venne
seguita e abbracciata dagli uomini di governo del suo paese che
proprio in quegli anni conquistarono il potere e per molti anni
ancora le idee da lui difese e sostenute, furono condivise dai
politici e dai filosofi più energici, anche al di fuori
dell’Inghilterra.
Il pensiero politico del XVII secolo era dominato da due
correnti distinte e contrastanti intorno all’origine del governo.
La prima, di cui era esponente Sir Robert Filmer, sosteneva la
sacralità di certe persone e loro eredi, alle quali Dio avrebbe
affidato il potere e la legittimità di governare, ribellandosi ai
quali si commetterebbe tradimento ed empietà. Questa opinione,
risaliva alla concezione arcaica delle antiche civiltà nelle quali il
re si riteneva una persona indicata dalla divinità. Naturalmente i
regnanti consideravano ancora questa teoria validissima. Per
l’aristocrazia, questa convinzione veniva valutata secondo
circostanza, appoggiata, quando la nuova classe mercantile
sempre più forte, cercava di destituirla dei privilegi ereditari,
oppure si opponeva alla dottrina del diritto divino, nella
situazione in cui l’aristocrazia aveva la possibilità di prevalere
sul potere supremo del re.
L’altra fondamentale teoria, della quale Locke era
rappresentante, sosteneva che il governo civile fosse il risultato
di un contratto riguardante unicamente la società come fatto
storico o come condizione mediata legalmente, attinente
unicamente a questo mondo, in cui l’autorità di governo è di
origine terrena e non depositaria di alcuna direttiva divina. Tale
governo ottiene pertanto il diritto di obbedienza assoluto, diritto
conferito e contrattato con la società civile. Naturalmente questa
dottrina venne rappresentata da tutti coloro i quali erano contrari
al diritto divino dei re.
Date queste premesse, Locke si schiera per la seconda
corrente, con il desiderio di prevenire, promuovere e
condizionare gli avvenimenti (la rivoluzione del 1689) che
faranno seguito. Egli espone la sua concezione della politica
teorizzando uno Stato costituzionale che nasce dal diritto di
natura, coincidente con la ragione, la quale porta a ritenere tutti
gli uomini uguali e indipendenti, in possesso dei diritti naturali
che sono la vita, la libertà, la proprietà, il diritto all’autodifesa.
Gli uomini riunendosi in società, rinunciano al diritto di farsi
giustizia da soli, ma si garantiscono una migliore difesa per tutti
gli altri diritti. Diversamente da Hobbes, dove è l’istinto
selvaggio all’origine dello Stato, qui è la ragione a prevalere.
I limiti del potere dello Stato, che sono stabiliti dalla carta
costituzionale, risiedono in quei diritti naturali, che sono per
definizione, inviolabili, in particolare il diritto di proprietà, la
cui difesa è uno dei compiti primari dello Stato. La divisione dei
poteri in legislativo, esecutivo, e federativo (quest’ultimo con lo
47
IX * John Locke
scopo di garantire la pace nel consesso internazionale),
assicura che il potere non si trasformi in tirannia. Infine lo Stato
non deve intervenire in questioni religiose, in quanto la fede è
qualcosa di interiore a ciascuno. Locke sostiene la ferma
separazione tra governo civile e religioso. Esclude dalle
competenze del magistrato civile le questioni di fede, conferma
che le leggi dello Stato per essere giudicate giuste, debbano
essere conformi alle leggi di natura. Lo Stato non deve
comprimere la libertà dei cittadini, ai quali invece va garantita al
massimo, per non essere messa a rischio da un potere statuale
centralizzato e dispotico.
Sul problema religioso, Locke, ritiene la religione cristiana
possedere
una
intrinseca
ragionevolezza,
fondata
sull’insegnamento di Gesù, perfettamente accordato con la
ragione. Le verità del Vangelo mostrano essere perfettamente
conformi alla ragione, e ciò ha trovato in Locke un antesignano
del deismo, che proprio in quegli anni andava diffondendosi in
parallelo con la nascente cultura illuministica. Oltre a teorizzare
la separazione tra la sfera civile e quella religiosa, Locke si
rivolge contro il potere ecclesiastico ritenendo illegittima la
pretesa di forzare i cristiani a professare verità religiose imposte
dogmaticamente, o praticare determinate forme di culto.
“Cristo inviò i suoi ministri alla conquista delle nazioni per
radunarle nella Chiesa, non armati di ferro, non di spada, non di
violenza, ma del Vangelo, di un annuncio di pace, di santi
costumi e del suo esempio… La tolleranza verso coloro che
dissentono dagli altri in fatto di religione è cosa talmente
consona al Vangelo e alla ragione, che è mostruoso che vi siano
uomini ciechi a tanta luce”. La religione, riguarda la coscienza e
richiede un’adesione interiore cui nessuno può obbligare.
Questo principio di tolleranza secondo Locke, viene meno
quando si incontrano i cattolici e gli atei, i primi già per natura
48
IX * John Locke
intolleranti essendo “papisti”, quindi al servizio di un altro
sovrano, i secondi essendo non credenti in Dio e asociali, non
credono neppure nella sacralità del giuramento sui quali si fonda
la società.
Se per Cartesio la ragione è una forza unica, infallibile e
onnipotente, per Locke, la ragione non possiede nessuno di
questi caratteri. L’unità della ragione non è data ne garantita, ma
va formata e assicurata attraverso una apposita disciplina.
L’infallibilità della ragione, è resa impossibile dalla limitata
disponibilità delle idee, dalla loro frequente oscurità, dalla
mancanza di prove e dal carattere imperfetto del linguaggio del
quale la ragione ha bisogno. L‘onnipotenza, è esclusa, in quanto
i principi e il materiale di cui si serve la ragione, non li produce
da sé, ma fa uso dei principi del sapere per costruire qualcosa di
grande. Date queste limitazioni costitutive, la ragione può
comprendere solo l’ambito della sfera del sapere probabile,
secondo quanto già prospettato da Gassendi.
Locke fu certamente il primo che intuì la necessità, prima
di addentrarsi nell’indagine relativa alla conoscenza, di
esaminare le capacità proprie dell’uomo nel vedere quali oggetti
il suo intelletto fosse o non fosse capace di considerare.
Analizzarne cioè le sue capacità, le sue funzioni, i suoi limiti.
Da questa intuizione, nasce la prima indagine critica della
filosofia moderna, diretta a stabilire le effettive possibilità
umane con il riconoscimento dei limiti che sono propri
dell’uomo.
Per Locke la conoscenza non ha a che fare con gli oggetti
ma con le idee come per Cartesio, ma a differenza di questo,
tutte le nostre idee derivano solo dall’esperienza. Questa
affermazione mostra, che il materiale su cui la ragione opera è
frutto dell’esperienza per cui, l’attività conoscitiva umana da
questa condizionata, né stabilisce i limiti e i poteri della ragione
49
IX * John Locke
stessa, quindi dell’uso che l’uomo può farne in tutti i campi
delle sue attività.
L’esperienza condiziona la ragione, in primo luogo
fornendole il materiale che essa da sola è incapace di creare, in
secondo luogo, proponendo alla ragione stessa, le regole o i
modelli o i limiti secondo i quali questo materiale va ordinato e
utilizzato. Non esistono idee innate, ma l’intelletto è simile “a
un foglio bianco, privo di caratteri, senza alcuna idea”, recupero
dall’antica tesi dell’anima come tabula rasa.
Queste asserzioni denotano la diversa impostazione della
dottrina di Locke e una critica al cartesianesimo e al
neoplatonismo, i quali sostenevano la presenza nella mente di
idee anteriori all’esperienza (innatismo).
Nella dottrina delle idee, Locke le suddivide in “semplici” e
“complesse”. L’esperienza, che è la sensazione e la riflessione,
ci fornisce soltanto di idee semplici, mentre le complesse sono
prodotte dal nostro spirito mediante la riunione di varie idee
semplici. Difatti l’intelletto, provvisto della sensazione e della
riflessione di idee semplici, ha la capacità di riprodurle,
paragonarle, unirle, in modo infinitamente vario. Le idee
essendo rappresentazioni mentali, esistono solo nella nostra
mente, ma derivando dall’esperienza, stanno a indicare che fuori
dalla nostra mente esiste qualcosa capace di produrle in noi.
Questa capacità è chiamata “qualità”, che può essere primaria
ed è quella oggettiva, o secondaria che è soggettiva, ma pur
sempre riferita all’oggetto (dolore, amaro, freddo, ecc…). Le
idee semplici vengono ricevute in modo passivo dal nostro
intelletto, ma questo però opera su di esse in varia maniera,
producendo le idee complesse, suddivise a loro volta in: idee
complesse di “modo”, di “sostanza”, di “relazioni”.
Per quanto riguarda l’analisi dell’idea complessa della
sostanza, Locke osserva come un certo numero di idee semplici
50
IX * John Locke
vanno costantemente insieme, ciò fa ritenere che quelle
idee appartengano ad una sola cosa, tanto da non riuscire a
immaginare come queste idee possano esistere separate. Il
nostro intelletto, in queste occasioni, è portato a supporre
l’esistenza di un substratum che regga, o leghi un certo numero
di idee semplici che di solito si accompagnano insieme. Quando
le idee semplici sono sensoriali si hanno sostanze corporee,
quando sono di riflessioni, abbiamo sostanze spirituali.
Cosa sia questo substratum o sostanza a cui sono vincolate
varie qualità, come il peso, il colore, ecc.. Locke, riconoscendo
l’esistenza delle sostanze al di là delle qualità che noi
percepiamo delle cose, nega che il nostro intelletto possa avare
un’idea chiara e distinta in grado di conoscerlo. Ciò che
genericamente chiamiamo oro è una sostanza che ha certe
qualità di peso, colore, lucentezza, malleabilità, ecc.. Questo
insieme di qualità per poterle spiegare ricorriamo al temine di
sostanza, ma la vera sostanza se ci fosse o fosse conoscibile
all’uomo, dovrebbe essere conosciuta a prescindere dalle
diverse qualità, e costituire quella ragion d’essere dalla quale
essa dovrebbe venire compresa senza l’aiuto dell’esperienza.
“Che cosa sia la sostanza non lo sappiamo perché non è un’idea
semplice e il nostro intelletto non la può conoscere”. E’ questo
l’aspetto più importante della critica di Locke alla nozione di
sostanza.
Affrontando i temi relativi alla validità della conoscenza,
nel IV libro del Saggio, egli intende rispondere in modo
conclusivo al progetto generale della sua intera opera.
L’esperienza fornisce il materiale della conoscenza, ma non
è la conoscenza stessa. Questa ha a che fare con l’idea la quale è
l’unico oggetto possibile dell’intelletto, consistente nella
percezione di un accordo o di un disaccordo delle idee tra di
loro. Per tanto la conoscenza può essere di due specie
51
IX * John Locke
fondamentali. Conoscenza intuitiva, quando l’accordo o il
disaccordo di due idee è percepito immediatamente (il bianco
non è nero questo è intuitivo) in virtù delle idee stesse senza
l’intervento di altre idee. Questa conoscenza è la più certa che
l’uomo possa raggiungere ed è il fondamento della certezza di
ogni altra conoscenza. La conoscenza dimostrativa si à quando
l’accordo o il disaccordo tra le idee non è percepito
immediatamente, ma si rende evidente solo con l’uso di idee
intermedie che si chiamano prove (nelle dimostrazioni
geometriche). Queste si fondano evidentemente su un certo
numero di conoscenze intuitive, ma quando le prove sono
numerose la possibilità di errore diventa maggiore, per cui la
conoscenza dimostrativa è meno sicura di quella intuitiva.
Accanto a queste due specie di conoscenza ce n’è un’altra
ed è la conoscenza delle cose esistenti al di fuori di noi. Locke
si rende conto che la dottrina sulla conoscenza, precedentemente
enunciata, consistente nella percezione dell’accordo o del
disaccordo tra le idee, non aiuta a giungere alla conoscenza
della realtà esistente al di fuori dalle idee. Come può essere
garantita questa conformità tra idee e realtà delle cose, se questa
ci è conosciuta solo attraverso le idee? Questa è la sua risposta.
Per poter giungere alla conoscenza reale delle cose l’uomo,
non ha altro mezzo di apprendimento che la sensazione, e
precisamente la sensazione attuale. Nel momento in cui
l’oggetto esterno colpisce i sensi si produce l’idea, la quale ci fa
conoscere che qualcosa in questo momento esiste fuori di noi.
E’ quindi l’attualità della sensazione che consente di affermare
la realtà del suo oggetto. “Avere l’idea di una cosa nel nostro
spirito, non prova l’esistenza di quella cosa non più del ritratto
di un uomo non provi che egli è al mondo”. Indubbiamente la
conoscenza che abbiamo della realtà delle cose esterne non è
così certa come la conoscenza intuitiva di noi stessi, tuttavia
52
IX * John Locke
essa è abbastanza sicura da meritare il nome di conoscenza.
Noi dobbiamo avere fiducia nelle nostre facoltà dal momento
che non possiamo conoscerle se non adoperandole. La
sensazione attuale rende la certezza intorno alla realtà che la
produce, sufficiente a tutti gli scopi e le necessità dell’uomo.
Locke riconoscendo che le facoltà umane non sono adatte ad
estendersi a tutto l’essere, né a raggiungere una conoscenza
libera da dubbi, riconosce comunque che così come sono,
pervengono ad una sufficiente evidenza adatta agli scopi della
vita, cioè ad orientarci di fronte alla felicità e alla miseria; “di la
da questo, nulla ci concerne, né dell’essere né del conoscere”.
Al di là della certezza, si estende il dominio della
conoscenza probabile. La vita umana sarebbe impossibile se
dipendesse unicamente dal possesso della conoscenza certa.
Provvidenzialmente, per supplire a ciò, l’uomo è dotato di una
capacità, con la quale rimediare a questa mancanza di certezza;
questa attitudine è il giudizio. Anche il giudizio, consiste
nell’accordo o nel disaccordo delle idee fra loro, ma a differenza
della conoscenza, questo accordo non è percepito, ma solo
presunto. Nella conoscenza, la dimostrazione della prova
dell’accordo o disaccordo tra due idee hanno una connessione
costante e immutabile, ben visibile l’una con l’altra. Il giudizio,
non dà questa dimostrazione, ma soltanto probabilità dovute a
delle prove, la cui connessione non è costante né immutabile,
ma appare sufficiente a indurre lo spirito ad accettarle. La
probabilità dunque concerne proposizioni che non sono certe,
ma incoraggiano a ritenerle vere. La probabilità ha diversi gradi
di assenso. Il primo grado si ha quando una proposizione riceve
il consenso generale di tutti gli uomini e in questo caso si è
vicino alla conoscenza. Il secondo grado è quando la nostra
esperienza coincide con la testimonianza di molte persone
degne di fede. Il terzo grado della probabilità si ha rispetto alle
53
IX * John Locke
cose che accadono, indifferentemente testimoniate da
poche persone degne di fede. E’ curioso il fatto che Locke abbia
confinato, la storia, in quest’ultimo e più basso grado della
probabilità, ponendola fuori dalla conoscenza certa.
L’attività propria della ragione interviene nella conoscenza
dimostrativa e nel giudizio probabile, nel trovare le prove, cioè
le idee intermedie e a ordinare, esaminare, valutare i fondamenti
della probabilità di tali prove. La ragione, è la facoltà che trova
la necessaria e indubitabile relazione delle idee nella
dimostrazione, o la connessione probabile delle prove nel
giudizio. Locke, nega che la ragione abbia il suo strumento più
adatto, nel sillogismo della logica aristotelica-scolastica, non
ritenendo questo necessario per ragionare rettamente, perché
non serve né a scoprire le idee né a stabilire la loro connessione.
Pur nella sua limitata possibilità, dovuta alla fallibilità e in
parecchi casi alla poca disponibilità di idee, senza le quali
peraltro il nostro ragionare si ferma, o per l’impedimento
dovuto alla confusione e all’imperfezione causate dalla
mancanza di prove, dovendo queste servire a dimostrare la
concordanza certa o probabile delle idee, ciò nonostante, la
ragione, è la sola guida che l’uomo dispone in tutte le occasioni
della sua vita, della quale anche la fede stessa non può farne a
meno. In campo religioso, l’entusiasmo e il fanatismo, di coloro
che credono di possedere la verità assoluta ispirata da Dio,
vanno contrastati, dice Locke, prospettando la ragione, che
“essa sola, deve essere il nostro ultimo giudice e la nostra guida
di tutto”.
Per concludere si può dire che Locke fu l’iniziatore del
movimento liberista. Dai suoi lavori traspare evidente il rispetto
per la proprietà privata residente in quei diritti naturali
inviolabili per i quali lo Stato, attraverso la carta Costituzionale
ha il dovere di difendere. Fu colui che promosse l’empirismo,
54
IX * John Locke
proseguito e portato a compimento da Hume. La sua
dottrina ha inteso dimostrare come solo dall’esperienza vengono
originate le idee, respingendo l’innatismo. E’ l’esperienza il
criterio di Verità; “non giudicare le cose secondo le opinioni,
ma le opinioni secondo le cose”. Locke, volendo restringere la
conoscenza umana nei limiti dell’esperienza, non intende
diminuirne il valore; anzi ne ha riconosciuto, in quei limiti, una
piena validità.
Sommario
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X * George Berkeley
X
George Berkeley
Di origine irlandese, George Berkley (1685-1753), compì
gli studi al Trinity College di Dublino, divenne prete anglicano
e progettando l’evangelizzazione dei selvaggi d’America
emigrò, ma la missione fallì. Ritornò in Irlanda, fu nominato
vescovo in un piccolo territorio irlandese cattolico.
L’impegno dichiarato del suo lavoro è di scardinare le basi
filosofiche del materialismo e dell’ateismo dominante in quel
periodo, portando una critica serrata ai liberi pensatori, Locke e
Newton in primo luogo, ma non solo. Il suo interesse dominante
non è la filosofia ma la difesa della religiosità, da lui considerata
come fondamento necessario alla vita morale e politica.
Come Cartesio, Berkley, ritiene che tutta la nostra
conoscenza abbia come oggetti le idee e non le cose stesse. Le
idee provengono e si formano attraverso i sensi (i colori, i
rumori, il calore, ecc..), quindi sono sensazioni, e la
combinazione costante di più idee e l’abituale coesistenza di
alcune di queste, producono in noi gli oggetti. Ma sia le idee che
le loro combinazioni costanti sono solo nella mente, quindi sono
sensazioni e le sensazioni non stanno fuori dalla mente, perché
fuori da questa non c’è nulla. Le parole stesse per avere un
senso devono stare per idee, cioè per sensazioni. Anche il
tempo è una sensazione, quindi è soggettivo, più lungo o più
breve secondo di come è avvertito, e allo stesso modo sono
sensazioni il moto e l’estensione. La distanza che noi
percepiamo tra due oggetti non è una qualità oggettiva delle
cose, ma una nostra interpretazione , ossia “la realtà oggettiva
sorge di fronte a noi solo in virtù di un’interpretazione di segni
sensibili, i soli che in un primo tempo ci siamo dati”. Per
comprendere meglio il ragionamento. Percepire la distanza non
è una semplice opera della vista, ma il frutto di una complessa
operazione del nostro spirito, consistente nella
comparazione di dati visivi attualmente percepiti con sensazioni
tattili già conosciute nel passato e nell’associazione, resa
possibile dall’abitudine, degli uni con le altre. Con queste
premesse, Berkeley, ha voluto dimostrare come tutta la realtà è
spirituale e il solo criterio per dire che una cosa esiste, è che
essa venga percepita (del nulla non c’è percezione). E’ falso
perciò parlare di sostanze materiali indipendenti dalle nostre
percezioni, dato che la nostra conoscenza è fatta solo di
sensazioni oltre cui non si può andare.
Volendo portare una critica pesante al materialismo, il suo
ragionamento viene formulato sul concetto di percezione delle
qualità delle cose che sono “nello spirito” o “spirituali” e non
sulle “sostanze materiali”, le quali non vengono percepite dai
sensi per cui, un oggetto non conosciuto esistente in una
sostanza non pensante, ossia esterna a ogni spirito, è in se stessa
una contraddizione evidente.
E’ manifesto il rifiuto a voler considerare la possibilità che
ci possa essere le due cose assieme. Non c’è motivo – dice B.
Russell - per cui ogni fenomeno debba appartenere all’uno o
all’altro tipo, e non c’è motivo per cui qualche fenomeno non
debba appartenere ad entrambi i tipi; quindi qualche fenomeno
può non essere né spirituale né materiale, ed altri fenomeni
possono essere entrambe le cose.
Un’ultima considerazione, con la sua opera Berkley ha
voluto negare l’esistenza della materia dimostrando che tutta la
realtà è spirituale, ma ciò che ha dimostrato è che noi
percepiamo e riconosciamo solo le qualità non le cose, e le
qualità sono soggettive a chi le percepisce. Forse non era questa
la vera conclusione, anche se ugualmente importante, a cui
pensava di arrivare.
Sommario
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58
XI * Gottfried Leibniz
XI
Gottfried Leibniz
Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) nacque a Lipsia
dove suo padre era professore di filosofia morale. Studiò legge
in quella università e nel ’66 si laureò ad Altdorf (Norimberga).
Persona di grande cultura fu al servizio dell’arcivescovo di
Magonza, per il quale si recò a Parigi per promuovere un
progetto politico militare (senza peraltro riuscirci). Durante
quella permanenza, che si prolungò per parecchi anni, ebbe
modo di conoscere e frequentare il meglio della cultura europea,
con notevole vantaggio per la sua formazione culturale. Viaggiò
parecchio nelle altre capitali culturali allargando la cerchia delle
sue conoscenze da Newton a Spinoza. Fu storico e consigliere
dei duchi di Hannover, oltre che fondatore dell’Accademia delle
scienze a Berlino. Si adoperò anche per l’unificazione tra
protestanti e cattolici e la pacificazione tra gli Stati europei. Gli
ultimi anni ebbe delle tensioni con gli Hannover e delle
polemiche con la Royal Society londinese circa la priorità della
scoperta del calcolo infinitesimale tra lui e Newton. Come
intellettuale fu sicuramente uno dei più alti di ogni tempo, ma
come uomo non fu molto ammirevole soprattutto riguardo al
denaro, si direbbe oggi che “ha il braccino corto”. Come regalo
di nozze per le giovani dame della corte degli Hannover, usava
“regalare” un libretto con massime di comportamento, che
terminavano con il consiglio di non tralasciare l’igiene
personale. Non si sa se queste gli fossero grate dei consigli.
Il pensiero centrale di Leibniz, va sintetizzato nell’idea di
un unico ordine universale spontaneamente organizzato quindi
libero, suscettibile di far valere in tutti i campi la capacità di
predisporsi e svilupparsi nel modo migliore, secondo una regola
non necessitante, ma secondo una scelta libera tra diversi ordini
possibili. La sua dottrina, quindi è la possibilità non la necessità,
di un ordine matematico o geometrico, che tra vari
possibili, Dio ha scelto il più perfetto, quello che nello stesso
tempo è il più semplice ma più ricco di fenomeni.
La scelta dunque è regolata dal principio del meglio, cioè
da una regola morale finalista. Diversamente dalla dottrina di
Spinoza, in cui ciò che esiste è una necessaria manifestazione
dell’essenza di Dio. Tutto ciò che esiste è una possibilità
realizzata non secondo una regola necessitante o senza regola,
ma in virtù di una scelta contemplata tra diverse, liberamente
accettata secondo la regola che ha considerato l’eccesso di bene
sul male. Questo vuol dire che non tutto ciò che possibile si è
realizzato o si realizza e che il mondo dei possibili è assai più
vasto del mondo del reale. Infiniti sono i mondi possibili, Dio ha
realizzato il migliore per libera scelta, secondo una regola che si
è posto per la sua saggezza suprema.
Sull’innatismo, Leibniz ha espresso delle idee opposte da
Locke, ammettendo l’esistenza delle idee innate, anche se
queste si presentano in modo piuttosto confuse ed oscure,
percezioni, o tendenze e non in una forma chiara e distinta. E’
l’esperienza che, come il martello dello scultore con pochi colpi
toglie il marmo superfluo per portare alla luce la statua, compie
il lavoro di rendere pienamente chiare e distinte le idee, che
nell’anima sono semplici possibilità o tendenze.
Per formulare il concetto di sostanza individuale Leibniz, si
avvale del principio di ragione sufficiente.
Una verità di ragione è tale che in essa il soggetto e il
predicato sono in realtà identici, per cui non è possibile negare il
predicato senza contraddirsi (es. un triangolo non può non avere
tre lati o gli angoli interni non uguali a due retti senza
contraddizione). Ma nelle verità di fatto il predicato non è
identico al soggetto quindi può essere negato senza alcuna
contraddizione. Il soggetto a sua volta deve però contenere la
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XI * Gottfried Leibniz
ragione sufficiente del suo predicato. Questo è ciò che
Leibniz intende per sostanza individuale. “la natura di una
sostanza individuale o di un essere completo è che la sua
nozione è così compiuta che basta a comprendere e a farne
dedurre tutti i predicati dal soggetto a cui esso è attribuita”.
Per chiarire, la nozione di Alessandro Magno include la
ragione sufficiente di tutti i predicati che si possono dire di lui
con verità, per es. che vinse la battaglia contro Dario e Poro ecc.
Naturalmente l’uomo non può avere una conoscenza compiuta
della sostanza individuale, perciò desume dalla storia e
dall’esperienza tutti gli attributi a lui riferiti. Ma Dio la cui
conoscenza è perfetta, è in grado di scorgere di ogni sostanza
individuale la ragione sufficiente di tutti i suoi predicati, quindi
di tutti i residui di ciò che gli è accaduto e di ciò che gli accadrà.
Ma questo, non vuol dire che una sostanza individuale sia
necessitata ad agire in un certo modo (es. Alessandro poteva
non vincere contro Dario o non fare la campagna fino in India),
ciò poteva benissimo non accadere perché il loro contrario non è
in contraddizione. In realtà era certissimo che sarebbe andata
così data la natura della sostanza individuale che le ha compiute,
in quanto tale natura è la ragione sufficiente di essa.
Dio scegliendo liberamente quel particolare ordine
dell’universo che richiede quella particolare sostanza
individuale; o le azioni e le scelte di Alessandro liberamente
volute, in ambedue i casi hanno la loro ragione sufficiente che le
spiega e le rende intellegibili. Dio avrebbe potuto scegliere un
mondo diverso, e Alessandro avrebbe potuto non compiere
quelle azioni, ma la perfezione dell’universo ne avrebbe sofferto
e così le cose dovevano svolgersi nel modo in cui si sono svolte.
In contrapposizione con Cartesio e connessa alla teoria
delle monadi, è posto il problema sull’estensione della sostanza.
Cartesio ammette come l’estensione sia l’essenza della
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XI * Gottfried Leibniz
materia; per Spinoza, sia l’estensione che il pensiero sono
attributi di Dio; Leibniz da parte sua, nega che l’estensione
possa attribuirsi ad una sola sostanza. Egli sostiene l’estensione
riferirsi ad una pluralità di enti quindi la configura come un
aggregato di sostanze, ed ogni singola sostanza è esente da
estensione.
Tali sostanze devono essere evidentemente in numero
infinito che chiama “monadi”, ciascuna delle quali rappresenta
una sostanza semplice, senza parti, priva di estensione e di
figura, indivisibile, costituente tutta la realtà. In pratica ogni
monade è conformata a un’anima. Questa ha la capacità di
percepire e rappresentare tutto il mondo, ognuna da una
prospettiva diversa. Non esiste nessuna monade uguale all’altra,
come non ci sono due foglie o due gocce d’acqua perfettamente
identiche, non fosse altro per la posizione spaziale che
occupano, dato che anche la diversità spaziale crea all’interno di
ogni sostanza una differenza. Nessuna tra loro può avere alcun
casuale rapporto dato che esse “non hanno ne porte ne finestre”,
ma ognuna è “lo specchio vivente perpetuo dell’universo” tanto
da poter scorgere in ognuna, se avessimo mente sufficiente,
tutto ciò che è avvenuto, che avviene e anche quello che
avverrà. Infatti “il presente è gravido dell’avvenire”, come
avevano intuito i naturalisti greci (tutto è in tutto).
L’universo è composto da una infinita varietà e una
straordinaria ricchezza di realtà. La gerarchia di monadi, vede
al grado più basso quelle in cui nessuna percezione giunge al
livello di appercezione (percezione consapevole), fino al grado
più alto “Dio”, in cui l’appercezione è assolutamente chiara e
consapevole. Ne risulta una visione armonica dell’universo, che
trova nella legge della continuità senza salti, il complemento del
principio dell’identità degli indiscernibili (negazione
dell’esistenza di due enti simili, aventi in comune tutte le
Sommario
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XI * Gottfried Leibniz
XII
proprietà, tanto da essere indistinguibili).
Sebbene Leibniz, non è stato un filosofo di professione,
sicuramente ha lasciato una profonda istanza universalistica,
espressa nel progetto di creare una scienza enciclopedica capace
di raccogliere tutto lo scibile dell’epoca e dare una
interpretazione unitaria del mondo. Anche se le ipotesi
teologiche sono il punto di arrivo della speculazione, ciò non è
stata tutta la sua filosofia. Gli studi di giurisprudenza, di storia,
di matematica, l’impegno in politica, stanno a dimostrare come
il principio ispiratore della sua opera, sia stato la libertà
dell’ordine universale. Egli cercò di dare alla sua filosofia una
giustificazione dell’atteggiamento preso di fronte ai problemi
che egli assunse su di sé durante tutta la vita: l’atteggiamento di
chi vuole promuovere e fondare nel mondo umano, e in tutto
l’universo, un insieme di attività che liberamente si incontrano,
e finiscono per trovare la loro pacifica coordinazione in questo,
che è il migliore mondo possibile che Dio ha voluto.
David Hume
Nato a Edimburgo in Scozia, David Hume (1711-1776) si
laureò in giurisprudenza presso quella università, anche se i suoi
interessi erano già rivolti alla filosofia. Si recò in Francia per
proseguire gli studi e qui venne a contatto con la filosofia
francese. Iniziò la stesura del “Trattato sulla natura umana”, che
terminò al ritorno in Inghilterra e pubblicato non ottenne alcun
successo. Tra il 1745 e il 1748 si procurò alcuni incarichi
politici che lo portarono in varie capitali europee fino a giungere
a Parigi nel ’63 frequentando per tre anni, la società intellettuale
della capitale, avendo modo di conoscere e incontrare JeanJacques Rousseau. Il loro rapporto non durò a lungo per cause
caratteriali, seguì quindi tra i due una rottura. Oramai ricco e
benestante nel 1769, si ritirò a vita tranquilla fino alla morte.
Oltre al già citato Trattato, scrisse sulle “Ricerche sull’intelletto
umano”, e “Ricerche sui principi della morale”, ed altri sulla
religione, ma il libro che gli diede il grande successo è la “Storia
dell’Inghilterra”.
Come per altri pensatori, anche Hume persegue “il
tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento
negli argomenti morali”. Egli vuole essere “il filosofo della
natura umana che è la sola scienza dell’uomo” e si sentirà
soddisfatto soltanto quando riuscirà a renderla un argomento
alla moda, essendo a suo giudizio, troppo trascurata. In realtà
tutte le scienze confluiscono verso la natura umana, perché tutte
fanno parte delle conoscenze umane e giudicate dai poteri e
dalle facoltà dell’uomo. Per questo, la ricerca filosofica va
indirizzata direttamente verso il centro, identificato nella natura
umana e da questa potrà poi muovere agevolmente alla
conquista delle altre scienze che sono diversamente legate con
essa. La natura umana è sentimento e istinto, più che ragione.
63
XII * David Hume
Quando questa scopre che le verità ritenute oggettive, sono
soggettive e dettate all’uomo soltanto dall’istinto o
dall’abitudine, un contrasto appare inevitabile tra l’istinto e la
ragione. Questo contrasto si risolve riconoscendo alla ragione,
che dubita e ricerca, essere una manifestazione della natura
istintiva dell’uomo. La filosofia che smonta e distrugge le
credenze fondate sull’istinto, è essa stessa un impulso istintivo,
e come tale indistruttibile perché fa parte della natura umana.
Hume ha inteso radicare nella natura umana il compito critico e
distruttivo, che l’illuminismo ha in seguito ritenuto individuare
nella ragione, come la sola guida possibile dell’uomo.
La mente umana ha due gradi diversi di sensibilità con cui
viene colpito lo spirito. Le impressioni, che penetrano con
maggiore forza e evidenza nella coscienza, le idee o pensieri,
che sono le immagini illanguidite delle impressioni stesse. La
differenza tra l’una e l’altra sta nel rapporto esistente tra il
dolore che si prova nel momento in cui mi procuro una ferita e
l’immagine di questo dolore nella memoria. Ogni idea deriva
dalla corrispettiva impressione, per cui non esistono pensieri o
idee senza l’esperienza di una precedente impressione.
Diversamente da Locke, che ammettendo come l’unico oggetto
di conoscenza umana essere l’idea, riconosce anche la realtà
dell’io, delle cose, e di Dio. Anche Berkeley, pur negando la
materia, ammette la realtà degli spiriti finiti e dello spirito
infinito di Dio, quindi due realtà non riducibili all’idea. Hume
risolve totalmente la realtà del mondo e dell’io, esclusivamente
con le impressioni sensibili e le loro copie, non ammettendo
nulla al di la da esse (empirismo).
Ne deriva che non esistono idee astratte, cioè che non
abbiano caratteri individuali specifici (riferiti a questo uomo, a
quel triangolo equilatero ecc…), ne tantomeno idee universali se
non derivate dall’impressione. Per spiegare come un’idea possa
64
XII * David Hume
richiamare altre idee simili identificandole con un unico
segno, Hume ricorre all’abitudine.
Queste idee particolari che, per alcuni aspetti hanno una
certa somiglianza tra di loro, ma per molte altre esteriorità sono
diverse, assumono lo stesso segno come idea per richiamarne
altre simili (idee di diversi uomini, diversi triangoli), ma per
abitudine noi ci serviamo di un unico nome (uomo, triangolo)
per indicarle. Si crea così l’abitudine a considerare in qualche
modo uguali tra loro le idee designate con un unico nome, tale
da suscitare in noi, al percepire quel nome, non una sola ne
tutte, ma alcune di esse a seconda dell’occasione.
Il principio dell’abitudine (o consuetudine) viene definito
come la ripetizione di un atto qualsiasi che produce una
disposizione a rinnovare lo stesso atto senza che intervenga il
ragionamento. Per fare un esempio noi concateniamo a dei fatti
o a oggetti, la fiamma al calore, il peso alla solidità, l’acqua alle
sue proprietà (galleggiamento, affondamento, di certi corpi
ecc…) Questa abitudine ci fa da guida nella nostra vita
quotidiana, assicurandoci che il corso degli avvenimenti non
muti e si mantenga uguale e costante, affinché sia possibile
regolarsi per il futuro. Questa abitudine non spiega la loro
connessione necessaria, ne tantomeno giustifica questa
necessità, del resto ingiustificabile, ma ne rileva solo la
congiunzione dei fatti. L’abitudine, come l’istinto degli animali,
è una guida per la pratica della vita, ma non un principio di
giustificazione razionale o filosofico.
Come si può notare il pensiero di Hume ci spinge a fare
considerazioni diametralmente opposte. Da una parte troviamo
una posizione decisamente scettica anche se non pirroniana: la
nostra conoscenza è sempre particolare perché fondata sulle
impressioni. L’esperienza non può mai superare la ragione
andando al di la da essa. Compito della ragione critica (quindi
65
XII * David Hume
scettica), è quello di scovare e smontare le astruserie e i
sofismi di teologi e metafisici, senza peraltro pretendere di
distruggere ogni certezza dell’uomo nella vita.
Dall’altra parte pone accanto alla ragione, delle
componenti istintive e sentimentali (abitudine, credenze) dalle
quali, come abbiamo visto, dipende il generarsi nell’uomo
comune di credenze intellettuali ma anche morali che nessun
scetticismo della ragione può estirpare, per cui il compito di
questa è soltanto di metterle in luce e descriverle, senza la
pretesa né di fondarli né di negarli in forza di argomentazioni
razionali (ambedue impossibili), proprio per quei meccanismi
irrazionali che permettono all’uomo di costruirsi una
conoscenza valida, a suo modo, della realtà.
Anche per il problema morale, Hume, ritiene che la
coscienza dell’io si realizza in ambito emozionale, tramite le
passioni, le quali sono qualcosa di originario della natura
umana, indipendente dalla ragione e da essa non controllabili.
Ciò significa che questa non potrà mai contrapporsi alle
passioni nella guida della volontà; “La ragione è, e deve solo
essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun
caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire ad
esse”. Fondamento della passione non può essere la ragione, ma
il sentimento morale, che deve avere un carattere assolutamente
disinteressato ed è con questo principio che le nostre valutazioni
morali assumono un valore universale. Non è la ragione ma la
forza istintiva della simpatia il cemento che permette all’uomo
di uscire da sé, di superare il proprio egoismo e sentirsi parte
dell’umanità.
Nel suo “Saggi e trattati” Hume, auspica una nuova riforma
morale suffragata dal metodo sperimentale, col quale approntare
delle regole generali, contrapposto al metodo scientifico che
anche se più sottile e ingegnoso è meno adatto all’imperfetta
66
XII * David Hume
natura umana e fonte di errore e illusione. Come si vede
propone un’etica descrittiva ed empirica, dove il problema
morale risulta analizzato e deciso col metodo dell’osservazione.
Sulla politica Hume, si sofferma ad analizzare le opposte
tesi, dell’origine divina del governo e del contratto sociale,
costatando che sia l’uno che l’altro si possono ritenere giusti ma
non assolvono pienamente ai compiti loro richiesti. Nel caso
del diritto divino, se è pur vero che quanto accade nel mondo
rientra nei piani della provvidenza, questa tesi potrebbe
legittimare anche l’autorità di un usurpatore di un pirata o
tiranno. Nel secondo caso se la teoria del contratto sociale è
giusta in quanto afferma l’origine popolare del potere, questa
dottrina non si trova completamente realizzata da nessuna parte,
dato che gli stati nascono e si formano a causa di conquiste,
rivoluzioni, o usurpazioni, per cui l’autorità di tali governi non
può essere ritenuta fondata sul consenso popolare.
Due sono le classi di doveri che un uomo sociale possiede.
Una classe in cui l’uomo è spinto da doveri naturali che operano
in lui indipendentemente da ogni obbligo e considerazione
pubblica o privata. Questi sono l’amore per i figli, per la
famiglia, la gratitudine verso i benefattori la pietà per gli
sfortunati. L’altra in cui i doveri derivano unicamente da un
senso di obbligo nei confronti delle necessità della società
umana, impossibile sottrarsi senza subire gravi conseguenze.
Tali sono il rispetto della proprietà altrui, la giustizia,
l’osservanza delle regole, l’obbedienza civile.
Quest’ultimo dovere nasce dalla riflessione che la società
non può mantenersi senza l’autorità dei magistrati e che tale
autorità è nulla se non è seguita dall’obbedienza dei cittadini. Il
dovere dell’obbedienza civile non nasce quindi dall’obbligo di
fedeltà al patto originario, giacché anche quest’ultimo non si
intenderebbe senza l’esigenza di mantenere in vita la società
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XII * David Hume
XIII
civile. La sola ragione vera dell’obbedienza civile è che
senza di essa non potrebbe sussistere la società. L’ordine
politico e sociale è fatto rispettare dalla magistratura, alla quale
ogni cittadino deve riconoscerne l’autorità.
Questa posizione esposta da Hume, si può collocare in una
posizione intermedia tra, la dottrina della resistenza alla tirannia
proclamata da Locke, e quella dell’obbedienza passiva
affermata da Berkeley, ritenendo la prima una incitazione alla
ribellione, e la seconda una resa senza combattere, mentre
occorre mantenere una necessaria insistenza nella difesa dei
diritti della verità e della libertà.
Gian Battista Vico
G. Battista Vico nacque a Napoli nel giugno del 1668.
Studiò filosofia e diritto nella sua città. Divenne precettore del
figlio del marchese Rocca nel castello di Vatolla nel Cilento,
dove grazie alla enorme biblioteca si formò una vasta cultura.
Ritornato a Napoli ottenne la cattedra di retorica presso quella
università. Visse il resto della vita modestamente lavorando
tenacemente alla sua opera fondamentale, “la Scienza Nuova”,
che a causa dell’originalità dell’argomento e alla complessità
del suo pensiero, solo in tempi recenti gli venne riconosciuto il
posto che gli spetta nella storia della cultura. Morì a Napoli nel
gennaio del 1744.
Punto di partenza della speculazione di Vico è la critica al
cartesianesimo, a quel Cogito causa del mio essere, che Vico
contesta, considerandolo solo un segno, un indizio dell’essere,
quindi coscienza e non scienza, la quale Dio solo può avere in
modo pieno.
La vera scienza la possiamo conoscere solo da ciò che noi
stessi produciamo, ossia ciò di cui siamo causa, solo allora
davanti all’uomo si apre tutto il campo delle creazioni umane.
Delle discipline matematiche abbiamo scienza, perché esse
sono nostre creazioni. Infatti col definire le nozioni l’uomo crea
gli elementi delle matematiche i quali però sono astrazioni
anche se rigorose. Nel proseguire la sua analisi, Vico intuisce
per la prima volta come nel campo della storia, essendo l’uomo
autore della medesima, questa è generatrice di verità, quindi
nella storia c’è vera scienza e non coscienza.
Ora proprio quel mondo del verosimile che Cartesio aveva
tenuto sospeso ritenendolo inutilizzabile, Vico lo raccoglie e lo
mette al centro dell’indagine filosofica ridandole nuova dignità.
Se per Cartesio la storia può essere al massimo scuola di
69
XIII * Gian Battista Vico
morale, per Vico può diventare scienza, solo che certe
condizioni si realizzino. Queste condizioni indispensabili perché
la storia diventi scienza, sono la necessità di liberarsi:
dalla boria delle nazioni: è il pregiudizio di immaginare
origini illustri o divine degli Stati
dalla boria dei dotti: consiste nell’estendere ad epoche
indebitamente lontane da noi, categorie tipiche del nostro tempo
nell’implicita convinzione che la ragione operi in tutti i tempi
allo stesso modo.
Nei fatti della storia, la Filosofia, ossia l’ambito del vero e
la Filologia ossia l’ambito del certo, debbono costituirsi in una
sintesi dinamica. La filosofia non è una costruzione aprioristica,
ma trova la sua capacità esplicativa solo a contatto con i fatti.
Anche la filologia si deve confrontare con il fatto usando la
capacità di elevarsi, perché non esistono fatti bruti o neutrali ma
questi, rimandano immediatamente ad una prospettiva teorica di
ampio respiro. L’accertamento dei fatti sarebbe impossibile se
non sorretto dal vero filosofico, come d’altra parte il vero
filosofico sarebbe pura astrazione se non si concretizzasse nel
fatto, trovando in esso l’unico tribunale in grado di provare la
sua creatività. Non il vero fuori del fatto o il vero senza il fatto,
ma il fatto nel vero e il vero nel fatto. Ecco che lo storico sarà
allora chiamato ad “inverare il certo e accertare il vero”.
Ciò che rende intelligibili i fatti, sono chiamati da Vico
degnità e costituiscono l’impalcatura teorica della sua filosofia.
Il punto di riferimento della speculazione filosofica è l’aver
dato all’accadimento la dignità di scienza. Onde poter valutare
il fatto storico è necessario, per la comunità alla quale il fatto si
riferisce, riconoscersi in esso sulla base delle proprie tradizioni,
valori, istituzioni, per cui c’è l’esigenza di orientare, scegliere,
tra le diverse possibili direzioni che il corso cronologico dei fatti
può assumere, la sola direzione capace di interpretare l’ordine
70
XIII * Gian Battista Vico
della comunità ideale, senza peraltro annullare la possibilità
delle altre alternative.
L’ordine e il significato universale della storia (l’idea
eterna), non si identifica mai con la storia nel tempo. Per questo
occorre uno sforzo per risalire dal fatto all’idea (la sola capace
di darci vera scienza), la quale si congiunge con il disegno della
storia ideale eterna, “sopra la quale corrono le storie di tutte le
nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fine”.
Questo comporta che la struttura con la quale confrontare e
rapportare la storia temporale delle singole nazioni, può anche
non adeguarsi ad essa, trattandosi del confronto tra l’ideale e il
reale, dove la libertà dell’uomo assume grande importanza ed
operando, manifesta la sua natura originariamente socievole.
A tale proposito Vico, riconosce come modello ideale del
pensiero “la repubblica” platonica, quale termine finale dal
quale la storia deve muovere.
I fatti storici diventano tali quando sono espressione di
aspetti fondamentali dell’uomo, allora si incidono nella mente
umana diventando tradizione. Tutto quell’immenso materiale
che la storia ci ha consegnato, del quale la filologia si occupa,
liberato dalle forme arbitrarie e surrettizie che le epoche
successive hanno accumulato (boria delle nazioni e dei dotti), ci
viene restituito nella sua piena verità, in accordo al corso della
storia, come scienza in quanto creata dall’uomo.
Anche il linguaggio, per la prima volta in filosofia, assurge
a testimonianza degli antichi costumi dei popoli. In esso è
possibile rintracciare la vita reale delle genti, perché la lingua è
talmente connessa con la vita da non poter comprendere l’una
senza l’altra. L’origine naturale del linguaggio ha inoltre
assecondato un’iniziale lingua comune, favorendo quella
struttura comunicativa originaria, che ha reso possibile la
convivenza sociale e la stessa storia umana.
71
XIII * Gian Battista Vico
Procedendo nella descrizione per cicli della storia
umana,Vico si avvale dell’idea della successione per età, in cui i
fini particolari perseguiti dall’uomo fin da principio si rivelano
essere mezzi per i fini universali. Così se “l’uomo nello stato
bestiale” ama solamente la sua salvezza, procedendo verso lo
stato della “ragione tutta spiegata” si crea una serie di necessità,
dovute alla sua condizione umana, per le quali è portato ad
amare la salvezza della città, entro la quale soddisfare le nuove
esigenze dell’uomo sociale. All’interno del corso degli eventi
umani si evidenzia la presenza di una “Provvidenza”, che
peraltro Vico non nega, la quale porta a concludere: se la storia
è opera dell’uomo, necessariamente lo è anche di Dio. Si
evidenzia a questo punto una contraddizione che coinvolge il
pensiero vichiano: il vero soggetto della storia è l’uomo, o la
Provvidenza?
Da parte sua Vico ha sempre difeso la trascendenza della
Provvidenza, sostenendo il significato ultimo della storia essere
continuamente al di la dei singoli eventi temporali. Quale che
sia la fase di sviluppo della storia, sia quella dell’umanità rozza
e bestiale, sia quella successiva eroica, sia quella umana della
riflessione spiegata, esiste comunque un rapporto con l’ordine
totale della storia eterna, che impedisce e ha impedito la
dispersione, l’immobilismo e la morte della comunità umana.
I primi uomini pur essendo “bestioni” non avrebbero dato
inizio alla nascita del genere umano se dentro di loro non
avessero latenti e operanti germi di storia eterna. Questo
progetto ideale che è nella storia, spinge l’uomo a vivere sotto il
suo influsso, senza diventarne mai padrone, perché di quello ne
è posseduto. L’uomo è spesso inconsapevole della propria
azione perché questa racchiude in sé molto più di quanto egli
stesso non sappia. La sua consapevolezza, limitata al campo
della tecnica e delle sue azioni, non lo è altrettanto dal versante
72
XIII * Gian Battista Vico
ideale. La teoria della Provvidenza diviene allora teoria del
limite dell’uomo e della sua coscienza, oltre che del senso della
storia.
Un famosissimo aforisma vichiano recita: ”gli uomini
prima sentono senza avvertire, poi avvertono con animo
perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”.
Questa verità ideale, scandisce il cammino dell’uomo e la sua
storia secondo tre età.
L’età degli dei è l’età dell’infanzia dell’umanità in cui gli
uomini erano: “stupidi, insensati e orribili bestioni”, senza
nessun potere di riflessione, ma del tutto immersi nella
sensibilità, in un rapporto immediato (di dolore e piacere) col
mondo e dotati di una robustissima fantasia. Essi immaginano
nelle forze naturali che li minacciano terribili divinità punitrici,
per timore delle quali cominciano a frenare gli istinti bestiali,
creando i primi raggruppamenti e le prime famiglie per meglio
rinfrancarsi. In questo periodi i governi sono teocratici, perché
l’uomo crede che ogni cosa sia comandata dagli dei e fondati
sull’autorità paterna, espressione del potere divino.
L’età degli eroi è l’età caratterizzata dal predominio della
fantasia sulla riflessione razionale. E’ in questa età che hanno
origine le prime forme di vita associata, nascono le prime città
fondate da una classe aristocratica che si attribuisce le proprie
origini agli dei. Questi dettano il diritto eroico ponendo la
ragione sulla punta della spada e fanno della fortezza, del
coraggio, della temperanza, le virtù eroiche per eccellenza. E’
l’età eroica, poetica e religiosa assieme, animata da forti
passioni e robusta fantasia, è il mondo cantato da Omero,
espressione dell’estro poetico della Grecia più arcaica.
L’età degli uomini, ossia l’età della ragione totalmente
dispiegata. E’ questo il periodo che nascono le repubbliche ad
opera della borghesia oramai affrancata, diventata cosciente
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XIII * Gian Battista Vico
Epilogo
dell’infondatezza della superiorità naturale dei nobili. A
decidere della distribuzione del potere è il merito e il censo, la
legislatura è codificata nella scrittura, il diritto è dettato dalla
ragione umana e la prosa sostituisce il linguaggio poetico.
Nascono la disputa, la retorica, e la filosofia, è l’epoca di
Platone che va a sostituire l’ètà di Omero.
Grande importanza è stata riservata da Vico al linguaggio
quale fonte di sapienza poetica fondata sulla fantasia. Esso non
è una creazione arbitraria, ma nasce naturalmente dall’esigenza
degli uomini di comunicare tra loro, sotto la pressione di urgenti
bisogni attorno a problemi immediati e pressanti.
Originariamente nel mondo primitivo il linguaggio era
fondamentalmente poesia, linguaggio cantato secondo
cadenze ritmiche, in cui gli uomini sfogano le grandi passioni di
dolore o allegria. Questo è un linguaggio spontaneo, intuitivo,
poetico e fantastico in cui predomina la metafora e la
similitudine. La poesia non è l’espressione, tramite immagini
corpulente, di una verità già conosciuta razionalmente, ma è
creatività, originalità, è alogicità, viste come forma autonoma
rispetto alla ragione. Stesso valore hanno i miti quali
espressione di costumi di antichi popoli, la sola forma in cui
l’uomo eroico poteva pensare le cose per tramandare ad altri la
propria esperienza. Man mano che la riflessione prevale, la
poesia decade, gli uomini si appropriano dei concetti universali,
lasciando dietro di se tutto ciò che è sensibile, ingombrante e
rozzo.
Sebbene nelle vicende dei popoli si riscontri l’attuarsi
progressivo della Provvidenza, ciò non significa che la storia
abbia un percorso lineare e non sia soggetta al periodico ritorno
sui suoi passi. Le deviazioni e gli arresti, la presenza di nazioni
barbariche e la diversità di tempi nel progredire di un popolo
rispetto ad un altro, testimoniano la libertà dell’uomo.
Volendo esprimere un pensiero sul lavoro di questo anno,
devo dire che mi è sembrato molto difficile e confesso che in
alcuni momenti ho pensato di non farcela e abbandonare tutto.
Ho il dubbio che in alcuni punti ho mal interso il pensiero
dell’autore, ma comunque ho cercato di sintetizzare i vari
concetti da come li ho saputo interpretare.
Se nel primo scritto “so solo di non sapere” mi sono
immerso con grande entusiasmo e curiosità, nel mondo della
Grecia classica, e poi l’età Ellenista per arrivare al primo
neoplatonismo di Plotino, nel secondo “credo per capire,
capisco per credere”, l’ho affrontato e vissuto come un lungo
percorso storico che ha attraversato il Medio Evo, il
Rinascimento, fino alla Riforma, l’ultimo, questo, “cogito ergo
sum, penso dunque sono”, iniziato con la rivoluzione scientifica,
attraverso il XVII secolo fino agli inizi del 1700, mi ha
impegnato come non avrei pensato, ripagandomi con una grande
soddisfazione. Certamente questo impegno mi ha migliorato.
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Scritti precedenti
So solo di non sapere
2006
Credo per capire capisco per credere
Anno III
2007
Volume III
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Sandro Montorfano
La Filosofia secondo me
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