2012-12-15 la testimonianza nel nuovo e antico testamento

PROFILO BIBLICO.
Entriamo adesso nell’ambito biblico per vedere come il concetto di
testimonianza acquisisca un senso nuovo, una dimensione nuova, cioè
quella religiosa, con un significato più profondo rispetto quello che riceve
dal solo senso empirico, giuridico e antropologico visti in precedenza.
Vedremo come il termine testimonianza è stato concepito sia dall’Antico
Testamento che dal Nuovo Testamento. Noteremo, in particolare, che
comunque la testimonianza è sempre su Qualcuno: Dio come salvatore,
nell’Antico Testamento, o Dio che in Gesù Cristo ci dona la salvezza, nel
Nuovo Testamento.
1. La testimonianza nell’Antico Testamento.
Il contesto fondamentale in cui la categoria della testimonianza viene ad
assumere il suo significato è quello dell’Alleanza tra Jahvè ed Israele. Tra
questi si pone la presenza dei testimoni che svolgono il ruolo di mediatori
tra le due parti, i quali ricordano al popolo d’Israele, popolo scelto e
chiamato da Jahwè, l’alleanza fatta con Lui e lo richiamano alla fedeltà
quando questa viene meno a causa del loro peccato. Tutta la storia del popolo
d’Israele appare come il luogo in cui risuona continuamente la parola dei
testimoni che Jahvè manda.
Testimone per eccellenza nell’ambito antico testamentario è il profeta. Ma
cosa intendiamo affermando che il profeta è testimone? Qual è l’origine della
sua testimonianza e come essa si esplica? Riprendiamo un testo profetico del
Deutero-Isaia in cui ritroviamo tutti gli aspetti che abbiamo precedentemente
esaminato: «Fa uscire il popolo cieco, ma che ha gli occhi, e i sordi che pure
hanno le orecchie. Tutte le nazioni si radunino insieme e si raccolgano i
popoli. Chi tra loro ha potuto annunciare questo e ci ha fatto intendere il
passato? Presentino i loro testimoni per essere giustificati, perché si ascolti e
si dica: “E’ vero”. Voi siete i miei testimoni, oracolo del Signore, voi siete i
miei servi, che ho eletto, perché sappiate, crediate in me e comprendiate che
sono io. Prima di me non fu fatto alcun dio e dopo di me non vi sarà alcuno.
Io, io sono il Signore e all’infuori di me non c’è alcun salvatore! Io ho
annunciato, salvato e proclamato, non un dio straniero tra voi! Voi siete i
miei testimoni, oracolo del Signore, ed io sono Dio, dall’eternità sempre lo
stesso. Nessuno può liberare dalla mia mano: agisco e chi lo può cambiare?»
(Is 43, 8-13).
Dal brano si contraddistinguono quattro caratteristiche che riguardano il
testimone, che parallelamente riguardano il profeta come testimone:
1) Il testimone è colui che è stato scelto e inviato per testimoniare, non è
chiunque si presenta e depone. L’origine della testimonianza è al di là del
testimone. Il profeta conosce Jahvè perché Jahvè per primo gli ha parlato e gli
ha fatto conoscere il suo progetto. Egli vede e ascolta direttamente (vedi i
tanti racconti di vocazione presenti nell’Antico Testamento), per questo può
essere testimone.
2) La testimonianza non riguarda dei fatti ma la realtà globale dell’esperienza
umana a cui Jahvè da consistenza e pieno senso; ecco perché fuori di Lui non
vi è altro salvatore.
3) La testimonianza è orientata alla proclamazione e alla divulgazione, è
fatta in favore di tutti i popoli (Cf Giona a Ninive). Il profeta ha ricevuto la
parola di Dio per trasmetterla. Egli non può essere reticente poiché ciò di cui
è stato testimone è più forte di lui e lo costringe a parlare.
4) Tale proclamazione implica un impegno radicale e coerente fatto non
solo a parole ma con la stessa vita, fino al suo stesso sacrificio. Infatti,
spesso la testimonianza avviene in un ambiente che è ostile e pericoloso per il
profeta. Egli è perseguitato per ciò che ha visto e per ciò che di conseguenza
dice. La testimonianza determina, così, tutta l’esistenza del profeta.
Il nuovo significato che ne viene fuori sta nel fatto che la testimonianza non
appartiene al testimone, ma viene da un’iniziativa assoluta, in altre parole
da Jahvè, quanto alla sua origine e al suo contenuto. Dice Renè Latourelle:
«L’autorità del testimone non viene dalla sua persona, ma dalla sua vocazione
privilegiata e dal suo mandato».
1. La testimonianza nel Nuovo Testamento.
Il concetto di testimonianza qui assume un senso che riprende e
sviluppa, per certi aspetti, quello visto nell’Antico Testamento manifestando
una certa continuità con esso, pur comprendendo la differenza.
In tutto il Nuovo Testamento sia gli apostoli che i primi discepoli di Gesù
sapevano chiaramente che il loro principale e fondamentale compito era
quello di dare testimonianza del fatto che Gesù è il Cristo, il Risorto.
Analizziamo ora come viene inteso il concetto di testimonianza in coloro
che, nel Nuovo Testamento, gli hanno dato particolare importanza, cioè in
Luca, in Paolo e in Giovanni.
A) Nell’opera lucana.
Facendo una statistica notiamo come il concetto della testimonianza nel
secondo libro di Luca, cioè gli Atti degli Apostoli, occupa un ruolo centrale.
Infatti, termini come testimone, testimonianza e testimoniare si ritrovano
con una frequenza media di una o due volte a capitolo. Si trova il termine
“testimone” per la prima volta proprio all’inizio del libro, nelle parole che
Gesù rivolge agli Apostoli prima della sua Ascensione: «Così venutisi a
trovare insieme gli domandarono: “Signore, è questo il tempo in cui
ricostituirai il regno di Israele?”. Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere
i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza
dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a
Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della
terra» (At 1, 6-8). Gesù affida agli apostoli un compito: la testimonianza.
Anche qui si vede, come per l’Antico Testamento, che il testimone è inviato e
che la testimonianza che opera non viene da lui, infatti, dice Gesù che sarà lo
Spirito Santo che scenderà su di loro a renderli capaci d’essere suoi testimoni.
Soggetti di questa testimonianza sono gli Apostoli. Essi sono uomini scelti
dal Signore Gesù (At 1,2. 24), come i profeti nell’Antico Testamento, che
hanno visto e sentito Cristo (At 4,20) e hanno vissuto con lui fin dall’inizio
della vita pubblica (At 1,22; 10, 40-41), quindi hanno esperienza diretta della
sua persona, del suo insegnamento e delle sue opere, ma soprattutto hanno
sperimentato la vita del Risorto (At 1,3), da cui hanno ricevuto la missione di
testimoniare (At 10,41). Della Morte e Risurrezione di Gesù gli Apostoli
hanno fatto reale esperienza e la loro testimonianza non si limita all’annuncio
semplice di queste realtà, ma
dovranno proclamare il loro significato
salvifico per ogni uomo. “Gli Apostoli, testimoni di Gesù Risorto, diventano
strumenti di Rivelazione e di Salvezza”.
Per realizzare tale missione che va al di là delle normali forze umane
Gesù invia su di loro la forza dello Spirito Santo. Infatti, solo dopo l’evento
della Pentecoste inizierà ad attuarsi tale mandato, solo dopo che lo Spirito,
prima sempre promesso, scende su di loro trasformandoli nel profondo
fino a portarli a non tacere quello che hanno visto e ascoltato.
La testimonianza diviene, quindi, comunicazione del Vangelo a tutto il mondo
circostante, cercando di attrarre l’attenzione non sulle proprie persone
ma sulla storia di Gesù Cristo. Certo il testimone e la sua esperienza sono il
mezzo con il quale si comunica il contenuto della testimonianza. Il loro
linguaggio non è costituito solo dal dire ma anche dall’agire. I testimoni
comunicano il Vangelo nel loro quotidiano con gesti e parole.
Dice Latourelle: «La testimonianza, infatti, verte contemporaneamente sulle
cose viste e udite e sul senso degli avvenimenti. E’ ad un tempo narrazione e
confessione». Gli apostoli di Cristo danno a lui testimonianza sia con la loro
predicazione sia con la loro vita concreta; e tale testimonianza apostolica è il
fondamento della Chiesa di tutti i tempi.
Il Gesù storico, conosciuto in vita, è lo stesso del Gesù della fede, visto
risorto tramite le apparizioni. Pietro lo afferma chiaramente in At 10, 37-43:
«Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla
Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in
Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e
risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era
con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione
dei giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma
Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse non a tutto il popolo
ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui
dopo la sua risurrezione dai morti».
Nella testimonianza apostolica vi è, quindi, unione tra l’evento storico e il suo
valore salvifico. La stessa caratteristica che ritroviamo nel Kêrygma di
Paolo.
B) Nella predicazione di Paolo.
Paolo, come gli Apostoli, ha ricevuto l’elezione al servizio testimoniale e tale
ministero si fonda su un’esperienza viva del Risorto, sulla via di Damasco.
Infatti, vengono richiamati i verbi vedere e udire: «Il Dio dei nostri padri, ti
ha prescelto a conoscere la sua volontà, a vedere il giusto e ad ascoltare una
parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli
uomini delle cose che hai visto e udito» (At 22, 14).
In un secondo momento sarà la voce di Gesù stesso che lo abiliterà ad essere
suo testimone: «Io ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone
di quelle cose che hai visto e per cui ti apparirò ancora» (At 26, 16).
Certamente il vedere e sentire di Paolo sono basati sulla fede, a differenza
degli Apostoli che hanno visto e sentito Gesù di Persona. Ma ormai siamo nel
tempo del cristianesimo primitivo in cui le testimonianze oculari della vita di
Gesù e l’incontro col Risorto non è percepita come una differenza
fondamentale.
Paolo non predica le apparizioni, ma Gesù crocifisso, morto e risorto, lo
stesso Gesù che è apparso agli apostoli, a più di cinquecento fratelli e poi a lui
come ad un aborto (cfr. 1 Cor 15, 3-11). Coloro che lo accolgono
sperimentano la vita nuova, donata dallo Spirito a colui che, attraverso la fede
e il battesimo, partecipa realmente alla morte e alla risurrezione di Cristo.
C) Nell’opera giovannea.
L’evangelista che più accentua la categoria della testimonianza è proprio
Giovanni, riprendendola sia nel quarto Vangelo sia nella sua prima lettera sia
nell’Apocalisse. Questo particolare è reso evidente dalla frequenza con cui
ricorrono i termini.
All’interno dei testi di Giovanni
troviamo
diversi soggetti
della
testimonianza. Primo fra tutti è Giovanni Battista, anche se il quarto
Vangelo non lo chiama mai così. Di lui si parla fin dai primi versetti: «Egli
venne come testimone» (1, 7). La sua testimonianza la rende al mistero di
Gesù, rivelatore del Padre, cui si sottomette completamente e specificando di
non essere lui il Messia atteso, di cui parlano le Scritture. La testimonianza
delle Scritture, fra l’altro, è la prima tra quelle che il Padre rende al Figlio.
Infatti, è Gesù stesso che lo afferma quando nello scontro con i giudei
afferma: «Scrutate le Scritture: sono esse a rendermi testimonianza» (5, 39).
Altri soggetti importanti sono i discepoli, ai quali Gesù nell’ultima cena dice:
«Anche voi mi renderete testimonianza perché siete stati con me fin dal
principio» (15, 27). E' proprio questo stare con lui in modo prolungato che gli
ha permesso di conoscere in profondità e contemplare il mistero del Figlio.
Ma tutto ciò per i discepoli è possibile grazie all’aiuto illuminante dello
Spirito che testimonia Gesù nel profondo del loro cuore permettendogli di
trasformare l’esperienza del Gesù storico in testimonianza al mistero del
Figlio, anche nelle situazioni di prova e persecuzione. Lo Spirito conduce
progressivamente gli uomini alla piena comprensione della persona di Gesù.
Lo stesso autore del Vangelo dice è che testimone. Afferma, infatti: «Costui è
il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e noi sappiamo che la sua
testimonianza è vera». Egli ha incontrato Gesù di persona, nella storia, e nella
luce dello Spirito vi ha riconosciuto l’evento decisivo della fede. Ma il
soggetto principale della testimonianza nei testi di Giovanni è Gesù
stesso. E’ qui che la nozione di testimonianza subisce un mutamento che qui
esprimo con le parole di Ricoeur: «La testimonianza non è prima di tutto
ciò che l’uomo fa quando rende testimonianza, ma ciò che fa il Figlio
manifestando il Padre. Il polo della testimonianza è così slittato dalla
confessione-narrazione verso la manifestazione stessa alla quale si rende
testimonianza. L’esegesi di Dio e la testimonianza del Figlio sono la stessa
cosa». Si capisce come per Cristo essere testimone significa rivelare il Padre.
La sua è autotestimonianza che rende con la sua presenza, con gesti e con
parole e con tutta la sua esistenza. La sua testimonianza implica
automanifestarsi e farsi conoscere nel suo mistero di Figlio perché proprio
così rivela il volto di Dio come Padre. Il Vangelo di Giovanni porta una forte
impronta giudiziaria e proprio in tale situazione viene contestato a Gesù dai
giudei che egli rende testimonianza a se stesso: «Tu dai testimonianza a te
stesso, la tua testimonianza non è vera!» (8, 13). Ma la testimonianza di
Gesù si radica proprio nella testimonianza del Padre che lo ha mandato
(3, 34; 14, 24). Che il Padre abbia inviato il Figlio ne sono anche prova le
opere che Gesù compie: «Le opere che il Padre mi ha dato da compiere,
quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha
mandato» (5, 36). La testimonianza del Padre dona autorevolezza e
credibilità all’autotestimonianza del Figlio. Inoltre essa è la fonte e
l’origine d’ogni altra testimonianza che si rende a Gesù. L’apice della
rivelazione di Gesù culmina sulla croce, dove è manifestato il supremo amore
del Padre per gli uomini nel supremo amore di Gesù per i suoi. L’estrema
testimonianza, la croce, è dunque nel pensiero di Giovanni, svelamento del
mistero del Figlio ed in lui rivelazione suprema del Padre ed effusione dello
Spirito. Così l’uomo si ritrova dinanzi ad una testimonianza che lo provoca a
prendere una decisione, che lo invita a fare una opzione fondamentale per la
propria esistenza, a credere nella fede al mistero che è Gesù Cristo o a
rifiutarlo.
Certamente non ci sarebbe quest’accoglienza nella fede della testimonianza
dell’assoluto, manifestata in Cristo, e la sua interiorizzazione nel cuore del
credente senza una testimonianza dello Spirito.
Come si è visto, vi è dunque una molteplicità di testimoni, ma uno solo è
l’oggetto della testimonianza, verso cui convergono tutte le testimonianze, ed
è la persona di Gesù.