ch Reihe an den Schulen | Collection ch dans les écoles | Collana ch nelle scuole REVAZ Noëlle Efina / Tanti cari saluti Original / originale: Efina Gallimard, F-Paris, 2011 224 pages / pagine EUR 15.15 ISBN 9782070440375 www.gallimard.fr Traduction / traduzione: Tanti cari saluti Keller Editore, I-Milano, 2008 Traduit par / tradotto da Maurizia Balmelli 168 pages / pagine EUR 14.50 ISBN 978-88-89767-58-0 www.kellereditore.it Biografia di Noëlle Revaz Noëlle Revaz nasce nel 1968 a Vernayaz, sesta tra nove figli. Nel 2002, Éditions Gallimard pubblica il suo primo romanzo Rapport aux bêtes riconosciuto, tra gli altri, con il Prix de la Fondation Schiller, il Prix Lettres Frontière e il Prix MargueriteAudoux. Il libro è stato tradotto in diverse lingue e arriva ora in Italia (2013) col titolo Cuore di bestia, a cura di Keller editore. Il romanzo è stato adattato due volte per la scena. Noëlle Revaz ha scritto alcune novelle, monologhi e radiodrammi. Collabora con l'Istituto svizzero di letteratura a Bienne ed è membro del gruppo di scrittori "Berna è ovunque". Vive a Bienne, in Svizzera. Biografia di Maurizia Balmelli Maurizia Balmelli vive a Torino e a Parigi. Per Casagrande ha tradotto libri di Agota Kristof, Bernard Comment e Romain Gary; tra i tanti autori da lei tradotti dal francese e dall’inglese per altri editori: J.-M. G. Le Clézio, Aleksandar Hemon, Martin Amis e Cormac McCarthy. Per il sostegno alla traduzione di quest’opera ringraziamo Titolo originale: Efina Traduzione dal francese di Maurizia Balmelli © Editions Gallimard 2009 immagine di copertina shutterstock | zurijeta © 2014 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it [email protected] prima edizione, giugno duemilaquattordici na giovane donna, va a teatro, un giovedì. In scena vede due uomini, due attori che si alternano nelle entrate. L’uno, con la pancia, un delinquente. L’altro, snello e calmo, un pezzo grosso. Quando la pièce giunge al termine, un attore esce a salutare e lei vedendolo capisce: da solo era i due uomini contemporaneamente. Lui è a bordo scena, la giovane donna in terza fila. Riesce a contargli i capelli, la cipria che gli ricopre i pori. Può dirsi che quei sorrisi sono per lei, che quegli sguardi non si perdono nei riflettori, stanno cercando il suo. Chi sarà quell’attore meraviglioso. Il suo nome esplode ovunque: l’attore si chiama T. Ma certo, quell’uomo si chiama T. La sua faccia non le dice niente. Il suo corpo è irriconoscibile. Però il nome è un ricordo. Nella vita della giovane donna quel nome è già esistito. C’è stata una lettera. Una lettera è stata scritta, spedita non sa quando né per quale ragione. Quell’uomo, qualche anno prima giovane e bruno, oggi panciuto, grigio. Un uomo giovane e robusto. Un foglio con la sua scrittura, che aveva tenuto tra le mani e su cui per vari minuti si era posato il suo pensiero. La giovane donna va a fargli visita nel ripostiglio ingombro di scatoloni: quella lettera, chissà se l’ha conservata, se l’ha gettata nella cartastraccia. Ci sono stati dei traslochi, delle partenze, uomini. Quella lettera sarà passata di casa in casa chiusa in una cassa. In soffitta quando lei andava a convivere. Assopita nella sua busta durante le scene di rottura. A brandelli quando la cena era sul fuoco, quando il telefono restava muto o dal letto o dal divano la sua mente non vagava in nessun posto. L’attore è nel foyer del teatro. Lei non ne ritrova i tratti, ma è T, o comunque così dicono e il suo nome è sul programma. La folla spinge verso l’uscita, bisogna passargli davanti. T la vede e la saluta ed ecco, può congratularsi. Si congeda pensando alla lettera, alla quale non sa più se ha risposto, e di ritorno al suo appartamento mette su carta parole che sa bene lui non leggerà. T, scrive, non può scrivere caro, perché non le è caro, è questo che le sfugge e per questo che scrive. T, scrive, Stasera l’ho vista in scena e come ho detto all’uscita, sono soggiogata dalla sua interpretazione. Non so la pièce come sia. La regia non è male e la scenografia mi è parsa buona. Ma la finezza della sua interpretazione mi ha trasportata lontano. Sono andata in luoghi che quasi non ricordavo. Ho rivisto ore e ore di film alla tv. Ho visitato ogni sorta di prigione d’America, rivisto volti di uomini spiati negli ascensori. Quello che era in gioco sulla sua pelle l’ho percepito senza perderne una briciola, e lei mi ha catapultata fuori dallo spazio e dal tempo. È diventato gli uomini. Grazie a lei, per un’ora, ho dimenticato che mi chiamo Efina, che avrò presto trentadue anni, che abito in centro in un trilocale orientato a est con due gracili ragni. I miei vicini sono sordi e ascoltano la tv dalla sera alla mattina. Il martedì porto giù l’immondizia. Mangio con qualche amico. Le mie tende non sono mai tirate. Ecco quello che avevo da dirle: è possibile che in passato non abbia accolto le sue righe come lei sperava. Non so più cos’ho pensato né che cosa sia accaduto. Mi dica, è una domanda che mi frulla in testa, se ha ricevuto una mia risposta al suo messaggio. Ricordo lo stupore quando l’ho letta, la busta l’ho aperta, la lettera si è fatta accecante e non sono riuscita a comprenderla. Concludo qui, e non mi resta che una cosa da aggiungere: non vorrei che credesse, che vedesse nella mia lettera una di quelle lettere d’amore. Tra noi non è amore. 11 12 U Qualcosa di diverso, forse, che siamo liberi di lasciar parlare o tacere. Preferisco dirlo subito, da parte mia mi auguro che questa cosa non torni. È possibile che i casi della vita ci facciano incontrare ancora. Spero che non riceverà più i miei complimenti con gli occhi fissi a terra. Quel sorriso risveglia idee che non saprei definire, ma che mi fanno uscire di senno. Dopo averla lasciata, ho dovuto appoggiarmi al muro e un tassista mi ha chiesto se volevo una mano. Un uomo mi ha offerto una dose. Un altro mi ha chiesto quanto prendevo. I vicini mi hanno osservata mentre salivo le scale, hanno intuito il mio stato e pensano che a breve succederà qualcosa di grave o difficile. Conclusa così la lettera, Efina la imbusta con cura. Controlla che i bordi siano ben spennellati di saliva. L’indirizzo non lo conosce, basterebbe aprire l’elenco. Posa la busta sulla scrivania, dove aspetterà diciassette mesi. Poi trasloca e la butta via. Dopo la serata a teatro, T racconta l’incontro alla compagna: la giovane donna che ha rivisto, che non aveva risposto. O che aveva risposto, nella sua testa le cose si annebbiano e poi lui non conserva niente, se un giorno c’è stata risposta, è da un pezzo finita in fumo nel fuoco della discarica. La sua compagna non ascolta. La lettera è stata scritta in un tempo in cui non lo frequentava. Nei giorni successivi, T considera l’idea di scrivere. Non conosce quella donna; non è interessante, né particolarmente simpatica. E tuttavia lui scrive una lettera. Signora, sta per scrivere, ma la donna è ancora giovane, forse anche più giovane di lui, e scrive il suo nome di battesimo, ma il tono è troppo confidenziale, non riesce a cominciare, si risolve a scrivere cara Efina, quando invece pensa che non gli è cara e che scrivere gli secca. C’è solo da chiarire una cosa e sarà tutto finito. Cara Efina, esordisce, Le scrivo perché mi sembra che ci resti una cosa da risolvere, una cosa rimasta in sospeso da anni e che noi credevamo sedimentata. L’abbiamo sentito entrambi, al bar del teatro l’altra sera. Non lo può negare, l’ho avvertito nella sua voce, nel suo modo di lanciare parole alla rinfusa. Ho dovuto tenere gli occhi bassi perché non potevo svelarle il caos che ho dentro. Ho temuto che lo scoprisse e comunque non è uno spettacolo per donne come lei. Le donne come lei sono fragili. Le donne come lei crollano. Le donne del suo genere sono propense a infatuarsi in un niente e lei sa che ho una compagna, ho tre figli e una figlia altrove e nessuna intenzione di ricominciare daccapo e a ogni modo lo sa, non è l’amore che mi muove. Sappiamo entrambi che a legare uomini e donne non c’è solo l’amore, vasta e sottile è la gamma dei cardini che ci uniscono. Non lasciamoci semplificare dai romanzi e dai film. Ma torniamo al momento della lettera. Sì, ho dovuto scrivere una lettera. Anni or sono non pensavo ad altro che a scriverle. Ricordo ancora il posto. Rivedo la luce dei luoghi e il colore della modesta scrivania di compensato a cui mi sono seduto. Era una giornata luminosa, benché fosse autunno inoltrato. So precisamente quali passi e percorsi ho fatto e quale passeggiata mi ha di colpo convinto a sedermi davanti a un foglio. C’è uno stagno che non è estraneo ad alcune espressioni ridicole che posso avere formulato qui e là. Anche gli uccelli e le foglie degli alberi sono di sicuro responsabili di eventuali sciocchezze che l’avranno forse punteggiata. Ma non voglio tornare a quello che era in sostanza. Quello che le parole possono aver veicolato e che posso avere chiesto non devo certo scoprirlo. Non c’è più da pensare. Di lei voglio serbare soltanto, così come mostrava a teatro, la pelle giovane ma sciupata, gli occhi cerchiati e inquieti, le orbite scure sotto il fondotinta che potrebbe stendere meglio. Le sue guance anco- 13 14 ra ingannano, i capelli sono acconciati male e le restano dieci, quindici anni per pretendere di fare l’amante. T alza la testa un istante. Si chiede se continuare o se sia meglio fermarsi qui. Ha la tentazione di stracciare tutto. Non lo fa e sul tavolo della cucina il foglio mette radici. La sua compagna lo scorre a colazione il mattino. Ogni giorno gliene legge qualche frase. Lo chiama il romanzo a puntate e T ne ride con lei. Efina ha traslocato in un altro quartiere della città. Se T le torna in mente lo caccia, lui per lei non è niente, no. La vita gira la sua manovella e nella pancia di Efina cresce una ranocchia. Un paio di braccia la stringono sotto il piumone. Il sole inonda la sua camera, la sua camera è orientata a sud e Efina va al lavoro. No, non c’è posto per T. L’unico posto che T può occupare è sui programmi degli spettacoli. Il suo nome tre o quattro volte l’anno spunta come un fungo nell’elenco degli attori. Efina si prende il tempo di passare in rassegna i programmi, di scoprire i luoghi in cui T va in scena, e quali sere. Ogni tanto la silhouette di T finisce nella sua cassetta delle lettere sul cartoncino di un teatro. Le foto sono artistiche e non si vede quasi niente, ma Efina lo riconosce anche di schiena. Anche da un piede. Anche da un dito del piede pensa che lo riconoscerebbe, ma ovviamente si sbaglia e altre donne in città quelle dita dei piedi le conoscono alla perfezione. Talvolta in questi elenchi legge il nome di qualche bella attrice. Immagina con sdegno quello che accadrà nei camerini. Nei camerini non di rado nascono degli intrecci. I camerini forniscono le loro provette a fermentazioni di ogni tipo. Un certo spettacolo ha sbattuto una di queste attrici in mutande sull’ultima pagina del giornale. Abbandonata tra le braccia di T. Secondo l’articolo la pièce 15 conteneva scene audaci. Scene forti e molto movimentate. Da non far vedere ai bambini. Scene in cui T era nudo. E l’attrice pure a quanto pare. Che gli facciano interpretare quel che vogliono, fa lo stesso e a Efina dà fastidio unicamente perché – non lo sa nemmeno lei. Nel frattempo T ha scritto altre lettere. Sono nascoste nell’armadio. In una scatola ha un paio di scarpe che non mette perché gli fanno male. Le lettere sono sotto le scarpe. Oggi per T inizia un periodo di disoccupazione. Va a cercare la scatola e sfila una lettera da sotto le scarpe. Cara Efina, c’è scritto, Devo prendere un altro foglio e scrivere di nuovo queste parole. Credevo che fosse stato detto tutto, ma mi rendo conto che altre pagine si profilano dietro quella lettera scritta non so quanti anni fa, quante generazioni. Pagine solide che da sole non si distruggeranno. Pagine che pesano e che tirano. Pagine che diventano schermo. Inizio a pensare che queste pagine siano monoliti sui quali non si può avere ragione con un temperino. Occorre tagliarle con la sega. Occorrerà mettere in piedi un cantiere e ci vorranno molte più forze di quanto probabilmente credi. Non so dove vivi e non faccio ricerche, perché tu non conti nella mia vita. La mia vita è piena come un uovo. La mia vita straripa da tutte le parti. Ho quattro figli a carico più una compagna esigente, altre donne da soddisfare di cui ho dimenticato tutto, salvo il conto in banca che dovrei onorare ogni mese. Non troverei nella mia vita il benché minimo interstizio dove ospitarti Efina, benché sappia che sei sciolta, che hai la vita snodata e sottile e che volendo le tue braccia saprebbero piegarsi in sedici. Lo scrivo anche se, 16 chiaramente, non ne sono sicuro, dico quello che immagino pensando al tuo nome gracilino. Che cosa strana non parlare e doverti scrivere ancora. Questo è un mezzo lento, superato. La carta bisogna distruggerla. Bisogna mettere via le lettere, ma del resto perché conservarle, non abbiamo il tempo di rileggerle. Torno continuamente a quella prima lettera. Un giorno, ero seduto a una scrivania e i miei pensieri sono venuti ad articolarsi sotto i tuoi occhi. Che cosa c’era di così forte e così importante per mettermi a scrivere. Ti ho chiesto un favore. Ti ho supplicata eppure tu mi hai respinto. Il fango con cui ci hanno plasmati doveva averti saldato le palpebre. Ma adesso mi vedi. Sì, cambio aspetto ma è il mio lavoro, lo sai. I miei occhi sono neri e brillanti. A piacimento li trasformo, li ho tondi, piccoli, sottili. Li ho avuti perfino azzurri. Posso apparire tarchiato o magro a piacimento, ma quando lo ritrovo, il mio corpo è forte e massiccio. Ho una tendenza a prendere peso che combatto camminando in tondo nel parco. Ho capelli grossi, corti. La mattina mi rado le guance. Non porto occhiali. Non fumo, bevo poco. Ho un’andatura silenziosa. Il quarantadue e mezzo di piede. La mia bocca adotta qualsiasi forma, le mie labbra sono camaleonti. Dicono che emani un certo magnetismo. Tutto questo per ricordarti che esisto, quasi identico a quello di un tempo. T volta pagina e sceglie un altro passaggio: Naturalmente sto parlando di cose che oggi sono superate. Poiché, e torno a ribadirlo, oggi tu mi sei familiare quanto quelle che incrocio per strada e che, se si chiamasse Efina, si volterebbero in cinquanta. Sono passati i mesi e la pancia di Efina mette al mondo un neonato. Efina ha molto da fare. No, non pensa a T. Non pensa a T quando allatta il bambino. Non pensa a T quando spinge il passeggino. Non pensa a T. Pensa solo al bambino. Lo lava, gli cambia il pannolino. Gli frulla le carote. Pensa solo al bambino e alla possibile faccia dei bambini nati da T. Si chiede se il suo grembo avrebbe potuto concepire con T un bambino ancora più bello, con fossette ancora più numerose, un bambino come miele che non piangesse ogni notte e non facesse pipì in continuazione. Efina immagina che nati da T i bambini siano pepite di zucchero candito che si trasformano in ragazzini. In adolescenti scalmanati. In uomini tutti d’un pezzo come T. Chissà perché T è diventato calvo. Sarà veramente calvo o si rade per lo spettacolo. Avrà davvero la pancia o si è messo a mangiare dolci su richiesta dei registi in modo da calarsi nei personaggi. Efina compera un cane color marron glacé. Lo porta a spasso nella foresta. Il cane all’inizio è irruente, poi cambia carattere. Dev’essere perché è cresciuto. È un piacere a vedersi. I riflessi gli corrono sul dorso. Ha un portamento elegante, quattro zampe che affondano in una massa elastica. Il cane entra nella boscaglia e subito ne riemerge. Ha il pelo pulito e lucido. Procede agile davanti a lei. Gira la testa e il suo muso si alza a guardarla. Efina trasloca all’altro capo della città. Mangia da sola al tavolo. Non era il caso che un uomo imbolsisse al fianco. Deve ammettere che non ci tiene affatto, preferisce avventurarsi da sola. Il bambino lascia il tempo che trova. Efina va a teatro, e prima di prenotare spulcia il cast per vedere se T è tra gli interpreti e se è tra loro rinuncia alla pièce. È una seccatura, perché T lavora molto e le tocca rinunciare a una quantità di spettacoli. T ha raggiunto quella fascia di età che i registi considerano perfetta sia per il fisico che per le capacità attoriali. Ogni tanto le prende la paura di incontrarlo per strada. Non c’è pericolo, la città è grande, a volte però qualche amico lo si incontra. Ma 17 18