Oltre il folk. Percorsi musicali in Italia tra tradizione orale e musiche del mondo. di Ciro De Rosa Alla luce del panorama musicale contemporaneo segnato dal costante mescolarsi di differenti forme espressive, a partire dal folk revival degli anni ’50 del secolo scorso si presenta una rilettura delle classificazioni che studiosi ed operatori hanno utilizzato per etichettare le musiche ispirate a espressioni tradizionali orali. Nell’Italia globalizzata del nuovo millennio si prende in esame il caso di un artista nella cui musica convivono stilemi tradizionali italiani ma non solo, linguaggio colti e popular. L‘idea di catalogare la musica, costringerla in qualche misura entro steccati terminologici può apparire esercizio paradossale per la sostanza sonica percepita come (im-)materiale sfuggente, per lo scenario sonoro nell’epoca della cosiddetta globalizzazione in cui convivono espressioni musicali differenti, tendenti ininterrottamente ad ibridarsi in misura maggiore e secondo modalità molto diversificate rispetto ai secoli passati. Siamo di fronte ad una complessità che chiama in causa le stesse discipline che studiano pratiche musicali (scienze etnodemoantropologiche, etnomusicologia, studi di popular music), alle prese con la messa in questione del loro statuto epistemologico, che impone il ripensare le metodologie di indagine di fronte al mutare degli oggetti stessi di ricerca1. Stando così le cose, termini come musica folk, musica tradizionale, musica popolare, musica etnica, world music, musiche del mondo possono finire per sovrapporsi, ma soprattutto sono etichette rispondenti e funzionali a prospettive, angolazioni e trame di carattere differente. Cionondimeno, si avverte la necessità di non rinunciare del tutto al linguaggio classificatorio seppur decostruito, per concepire modi ed espressioni musicali nelle loro molteplici reti di relazioni tra artista e tecnologia, artista e pubblico, musicisti e mercato globale. In questo lavoro si intende tracciare un percorso in quell’articolato fenomeno delle manifestazioni musicali ispirate Sullo statuto dell’etnomusicologia, si rinvia al capitolo introduttivo di Francesco Giannattasio, Il concetto di musica, 1992, Roma, La Nuova Italia. 1 1 alle musiche di tradizione orale della Penisola. Si attraverseranno decenni cruciali della seconda metà del Novecento per giungere al nuovo millennio musicale, isolando un caso paradigmatico dell’intreccio tra tradizioni musicali e linguaggi contemporanei. Musica popolare tra ricerca sul campo e folk revival Sul finire degli anni ’50 del secolo scorso si sviluppa in Italia un interesse per le musiche di tradizione orale sull’onda del folk revival statunitense incarnato da musicisti come Woody Guthrie e Pete Seeger, e delle ricerche dell’antropologo ed etnomusicologo statunitense Alan Lomax2. L’impulso è ascrivibile anche al clima culturale, politico e scientifico rappresentato dalla pubblicazione postuma delle riflessioni gramsciane sul folklore ripensato all’interno dei rapporti di classe3, dalla propulsione data dalla fondazione nel 1948 del Centro Nazionale Studi di Musica Popolare a Roma da parte del compositore e musicologo Giorgio Nataletti e dalle campagne di indagine nel Sud dell’antropologo Ernesto de Martino e dell’etnomusicologo Diego Carpitella, quest’ultimo collaboratore di Lomax nella sua indagine sul campo italiana4. Nel 1953 inizia l’attività nel campo editoriale delle Edizioni Avanti! ad opera di Gianni Bosio con il proposito di valorizzare la cultura dell’ ”altra Italia”. Intorno al lavoro di musicisti, intellettuali e studiosi della cultura popolare nasce a Torino il gruppo dei Cantacronache (1957)5. Successivamente, a Milano si forma il Nuovo Canzoniere Italiano (1962) legato soprattutto alle figure di Roberto Leydi, altro padre dell’etnomusicologia italiana, e di Gianni Bosio 6. Non è Sull’attività del ricercatore texano in Italia si veda Alan Lomax, L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia 1954-1955, a cura di Goffredo Plastino,2008, Milano, Il Saggiatore. 3 La riflessione sul folklore del grande pensatore sardo fu pubblicata nei suoi Quaderni del carcere. Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, 1975, Torino, Einaudi. 4 Su quegli anni formidabili in cui prende forma l’etnomusicologia italiana, si vedano Antonello Ricci, I suoni e lo sguardo, 2007, Milano, Angeli e il primo capitolo di Maurizio Agamennone (a cura di), Musiche tradizionali del Salento. Le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto de Martino (1959, 1960), Roma, Squilibri. 5 Tra i protagonisti del gruppo dei Cantacronache, ricordiamo Sergio Liberovici, Fausto Amodei, Emilio Jona, Michele L. Straniero, Italo Calvino, Franco Fortini, Margot. Per un’introduzione alla produzione dei Cantacronache si può vedere il trailer di un documentario sul gruppo su http://www.youtube.com/watch?v=x3MYRYpyZB4. 6 Questo gruppo creò gli spettacoli Bella Ciao (1964) e Ci ragione e canto (1966). La fondazione dell’Istituto Ernesto de Martino, proiettato segnatamente alla ricerca e all’analisi del canto sociale, eserciterà non poca influenza sulla cultura italiana: dalla musica leggera ai cantautori, dalla musica colta alla didattica musicale, dall’etnomusicologia alla storia orale. In seguito, in 2 2 questa la sede per ripercorrere appieno la vitalità, il fermento, le diatribe di quegli anni7 in cui prevaleva la denominazione di musica popolare, a sua volta ben sostanziata da una lunga tradizione di studi e composizioni musicali in area neolatina8 e dalla prospettiva gramsciana sul conflitto egemonia/subalternità9. In altre parole, con l’espressione musica popolare ci si riferiva alle pratiche musicali dei ceti subalterni presenti nelle cosiddette società complesse (pastori, contadini, pescatori, artigiani) in opposizione alle espressioni musicali colte dei ceti dominanti. Parallelamente, l’avvento del folk music revival di matrice americana e britannica10 conduce all’affermarsi del termine folk, peraltro già consolidato da una tradizione di studi sul folklore11, anche in virtù della valorizzazione apportata da Carpitella che nei suoi studi parla di “musica folklorica” pertinente un’area sociale che egli stesso aveva definito “fascia folklorica”12. Sotto il profilo più squisitamente musicale, oltre alle raccolte che testimoniano la consistenza di formidabili repertori di musica di tradizione orale 13 (altra locuzione ancora in uso ma confronto critico con scelte del NCI fu fondato L’Almanacco Popolare, intorno alle figure dello stesso Leydi, di Sandra Mantovani e di Bruno Pianta. 7 Per una ricostruzione degli anni del folk revival, si vedano: Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997. Trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino,1997, Milano/Sesto Fiorentino (FI), Jaca Books/ Istituto Ernesto de Martino; Roberto Leydi, Il Folk music revival, 1972, Palermo, Flaccovio; Michele Straniero, Manuale di Musica Popolare, 1991, Milano, Rizzoli. La casa editrice Nota Records di Udine (www.nota.it) sta ristampando la discografia del gruppo dei Cantacronache. 8 Cfr. Maurizio Agamennone, Le opere e i giorni.. e i nomi, in Alessandro Rigolli e Nicola Scaldaferri (a cura di), Popular music e musica popolare, 2010, Venezia/Parma, Marsilio/Istituzione Casa della Musica, pp. 12-14. 9 Nella cornice gramsciana si inscrive l’analisi di Alberto Maria Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, 1976, Palermo, Palumbo. 10 Accanto ai nomi statunitensi occorre ricordare in ambito britannico il lavoro di Albert Lloyd ed Ewan McColl. Nel Regno Unito McColl aveva non soltanto ricercato e riproposto il patrimonio tradizionale orale isolano, ma anche lavorato alla creazione di una nuova canzone politica che seguiva stilemi folklorici all’interno del circuito dei folk club. Sul folk revival britannico si vedano Peter Cox, Set into Songs, 2008, Cambridge, Labatie Books. 11 Ad introdurre il termine folklore è stato l’archeologo inglese William John Thoms che nel 1846 interviene nel dibattito in corso tra gli studiosi sulle denominazione da conferire agli studi sulle tradizioni popolari. 12 Per la bibliografia dell’opera di Diego Carpitella si rinvia a Roberta Tucci, Carpitella: bibliografia, consultabile sul sito web http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/archivio/bibliografie/biblio_carpitella.p df 13 Ci si riferisce alla collana discografica de I Dischi del Sole, fondata dall’Istituto de Martino, e alla collana Albatros, promossa da Roberto Leydi, ma anche al lavoro di ricerca e documentazione svolto dal Servizio per la cultura del mondo popolare istituito presso la Regione Lombardia per volontà dello stesso Leydi. La collana I Dischi del Sole è stata ristampata dal gruppo Al Bianca. Per un’analisi della collana si veda Luca Pastore, I dischi del Sole, CD+DVD, 2004, Fandango. I materiali della storica e prestigiosa collezione Albatros sono in via di ristampa presso la Nota Records. Sul lavoro svolto al 3 già utilizzata da Carpitella nelle sue opere) che vedono la luce tra gli anni ’60 e ‘70, in una fase di profonda trasformazione del tessuto socio-economico e culturale della Penisola, si assiste al proliferare delle esperienze musicali di canzonieri che si muovono all’interno del circuito del revival e della cultura politica della sinistra. Su tutti il lavoro di studio e ricerca di Roberto De Simone, che sul piano artistico trova espressione nell’incontro con i giovani che formeranno la Nuova Compagnia di Canto Popolare, di cui fino al 1977 sarà mentore e direttore artistico. Nel ruolo di direttore della NCCP, De Simone sviluppa un approccio che piuttosto che ricalcare i modi contadini, cercava la stilizzazione delle forme espressive contadine, ricomponendone lo spirito. Com’è noto, la NCCP sarà a lungo fonte di ispirazione per tantissimi musicisti dalle Alpi alla Sicilia. Tra le esperienze revivaliste di maggior rilievo va segnalato il gruppo Canzoniere del Lazio protagonista dopo la fase di ricerca e riproposta e di un lavoro di nuova scrittura musicale con tratti fortemente innovativi mentre personaggi centrali a cavallo tra ricerca, riproposta e nuova elaborazione, pur nel loro differente background socioculturale, sono stati Gualtiero Bertelli, Giovanna Marini, Rosa Balistreri, Caterina Bueno, Otello Profazio, Matteo Salvatore, solo per citarne alcuni. Anni ’80. Dall’alterità politico-sociale al prevalere delle “etnie”. Sul finire degli anni ‘70 e nei primi anni ’80, in uno scenario socio-economico, culturale e politico profondamente mutato, la forza propulsiva del folk revival di matrice meridionale, soprattutto incarnato dalla NCCP prima e da Eugenio Bennato & Musicanova poi, e dal Gruppo Operaio ‘E Zezi di Pomigliano d’Arco, segna il passo o addirittura si esaurisce, anche se non mancano nuovi gruppi, come i calabresi Re Niliu, in Sicilia i Cilliri di Carlo Muratori o nel Sannio beneventano i Musicalia, provenienti dalla stagione musicale dei canzonieri. Anche dal punto di vista mediatico la visibilità del folk segna una flessione, mentre nuovi fermenti musicali globali si impongono sul mercato con il reggae giamaicano – già dalla seconda metà degli anni ’70 - e, con Servizio per la cultura del mondo popolare della Regione Lombardia, si vedano Renata Meazza e Nicola Scaldaferri (a cura di), Patrimoni sonori della Lombardia. Le ricerche dell’Archivio di etnografia e storia sociale, 2008, Roma, Squilibri. 4 minore incidenza verso le giovani generazioni europee, alcune forme di musica urbana dell’Africa occidentale. Ritornando al cosiddetto folk revival, nei primi anni ‘80 la parte settentrionale del nostro Paese si rivela molto fertile con gruppi piemontesi come Ciapa Rusa, Prinsi Raimund e Sergio Berardo & Lou Dalfin (questi ultimi inquadrabili nell’articolato revival della cultura occitana), lombardi come Baraban, veneti come Calicanto, friulani come La Sedon Salvadie: è una nuova stagione che mette a frutto la ricerca degli anni precedenti e la lezione dell’ etnomusicologia. Nell’Italia centrale troviamo l’organettista Riccardo Tesi in Toscana, La Macina nelle Marche; in Sardegna, che rappresenta un mondo sonoro a parte per espressioni tradizionali, manifestazioni sonore e mercato musicale, si segnala l’esperienza di Suonofficina, da cui inizieranno le carriere di Mauro Palmas e Elena Ledda, esponenti oggi della migliore musica sarda. Altro fenomeno è rappresentato dai tentativi di rifunzionalizzazione di rituali e feste, la ripresa di strumenti e di forme coreutiche desuete come esito dell’interesse dei ricercatori verso le forme e i modi della cultura popolare. A farsene carico sono sovente musicisti e cultori originari degli stessi territori ma con una formazione musicale spesso più articolata che assumono il ruolo di élite culturali in termini di ripresa della materia folklorica14. Nondimeno, non mancano i modelli esteri a cui molti artisti guardano: da quello anglo-americano al “celtico” e nel caso delle formazioni piemontesi al revival francese: ecco il gran fiorir di ghironde e cornamuse in aree dove questi strumenti erano da tempo scomparsi. Tuttavia, viene a mancare a questo nuovo folk revival è la capacità di imporsi mediaticamente come era accaduto con la NCCP nella decade precedente. In questa nuova stagione musicale inizia ad farsi strada la nuova aggettivazione di “musica etnica”, dunque non più un’alterità espressa in termini di differenza sociale (secondo le antinomie egemonia/ subalternità oppure colto/extracolto) ma di diversità in termini di appartenenza locale, etnica o nazionale. Non è casuale che questo slittamento che è classificatorio, semantico ma anche di segno analitico ed interpretativo si manifesti in una fase storica segnata da numerosi “revival etnici” e forme di affermazione di appartenenza locale da mettere in relazione con i processi di globalizzazione, e dall’accentuarsi di Penso a quanto accaduto nell’Appennino bolognese con la ripresa dei balli staccati precedenti l’avvento del liscio e la centralità ridata a figure come il violinista Melchiade Benni tra il finire degli anni ’70 e gli anni ’80. O ancora alla ripresa delle musiche per piffero nell’area delle cosiddette Quattro Province, territorio culturalmente uniforme ma amministrativamente appartenente a quattro province diverse (GE, AL, PC, PV). Si veda http://www.appennino4p.it/ 14 5 fenomeni migratori nelle società europee e negli Stati Uniti. Ma non solo, perché nelle scienze sociali sin dagli anni ’70 il termine etnia e soprattutto etnicità diventano categorie analitiche centrali per la lettura di molto conflitti e rivendicazioni sociali e politiche.15 Musiche del mondo e world music nel mondo globalizzato A partire dagli ultimi decenni del Novecento nel mondo postcoloniale e globalizzato si affermano due espressioni che designano musicisti, etichette discografiche, dischi, musicisti, festival, periodici musicali e rubriche all’interno di periodici di popular music16: si tratta di “musiche del mondo” e soprattutto di “world music”. Siamo di fronte a due termini che finiscono per classificare un movimento musicale che assume una dimensione mondiale inglobando ambiguamente nelle sue differenti angolazioni fini commerciali, riproduzione di forme di esotismo e di alterità musicale: tutto ciò che non è pop angloamericano o musica colta occidentale è definita world music, mentre il jazz oscilla tra chi lo ascrive come world music ante litteram, e chi pur riconoscendo il contributo afro-americano lo riconduce all’occidentale musicale. Senza dimenticare che nella terminologia giornalistica anche il jazz è sovente sposato ad aggettivi come etno o world. La nozione di world music finisce per comprendere espressioni sonore completamente diverse: dalla musica d’arte extraeuropea alla musica rituale di operatori musicali tradizionali che ricevono il riconoscimento di una comunità locale, dai musicisti appartenenti alle numerose diaspore legate ai processi migratori che miscelano forme della propria tradizione con linguaggi contemporanei ai musicisti urbani occidentali che rileggono le negli ultimi decenni le scienze sociali hanno decostruito le nozioni di nazione, etnia, etnicità, identità etnica, svelandone i limiti di utilizzo o rigettandole. In ogni modo, hanno messo l’accento sugli aspetti processuali e dinamici, non statici, cristallizzati ed essenzialisti che stanno alla base del concetto di identità culturale. La bibliografia relativa al dibattito sulle questioni etnico-nazionali, sui fenomeni migratori e su tematiche ad esse associate come razzismo e multiculturalismo è molto ampia. Mi limito a segnalare Jean Loup Amselle, Logiche meticce, 2001, Torino [ed. or. 1990]; Claudio Marta, Relazioni interetniche, 2005, Napoli, Guida; Francesco Remotti, 2005, L’ossessione identitaria, Bari, Laterza. 16 Sulla popular music si veda, fra gli altri, Franco Fabbri, Around the clock, 008, Torino, Utet; Richard Middleton, 1994, Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli. Curato da Philip Tagg, di grande interesse ed utilità è il Database bibliografico sugli studi di popular music, 2008, disponibile sul sito www.cini.it/publication. Sui rapporti tra etnomusicologia e studi di popular music, si rinvia a Alessandro Rigolli e Nicola Scaldaferri, a cura di, Popular music e musica popolare. Riflessioni ed esperienze a confronto,2010, Parma/Venezia, Marsilio/Casa della Musica. 15 6 tradizioni contadine o popolaresche, fino alle ibridazioni che mettono insieme artisti originari di diverse parti del globo17. Tra gli esiti della world music anche la riduzione delle sfaccettature sonore, della complessità musicale di un Paese che è ricondotto ad un cliché, ad una singola forma (la Spagna è il flamenco, il Portogallo è il fado) o ad tratto emotivo caratteriale (a Capo Verde, arcipelago segnato dall’emigrazione verso i Paesi occidentali, tutta la musica esprimerebbe la morabeza, declinazione locale della brasiliana saudade). Ma non solo, perché la stessa etnomusicologia ha finito per ridefinire il suo campo di indagine identificandosi come disciplina che studia le musiche del mondo.18 Per nulla estranea al fenomeno, l’Italia ha visto accentuarsi l’interesse verso le espressioni tradizionali orali ancora funzionali (rituali, feste, pellegrinaggi devozionali). Si assiste ad un rinnovato interesse verso strumenti del mondo agro-pastorale come le zampogna, ma anche verso uno strumento come l’organetto diatonico, divenuto icona del mondo contadino, pur essendo nato nella prima metà dell’Ottocento, figlio dell’era industriale del quale il mondo contadino si è appropriato, mostrando una dinamicità spesso negatagli dai consumatori borghesi che idealizzano la cultura popolare e considerano la tradizione come qualcosa di immobile. 19 Altro dato significativo dell’esperienza italiana è il ruolo avuto da certa cultura musicale hip hop a partire dagli anni ‘90 nell’adoperare testi nei dialetti della Penisola. Studiosi, giornalisti e gli stessi artisti individuano, non senza forzature, una continuità di musiche come il rap e il raggamuffin con le forme musicali tradizionali 20. In Salento, più che altrove, il mondo hip hop smuove le acque sollecitando dal basso un revival del ballo della pizzica che conduce alla creazione di un vigoroso movimento di nuovo revival che vedrà 17 Un significativo contributo alla lettura delle ambiguità del fenomeno della world music lo fornisce il volume EM, Rivista degli Archivi di Etnomusicologia Accademia di Santa Cecilia, nuova serie, intitolato World Music. Globalizzazione Identità Musicali Diritti Profitti, Roma, Squilibri, 2003, vol. 1. Una ricostruzione della nascita del termine world music associato a classificazione di piccoli imprenditori discografici, operatori culturali, giornalisti e musicisti si può rintracciare sul sito web del mensile britannico fRoots alla pagina http://www.frootsmag.com/content/features/world_music_history/minutes/ 18 Cfr. Tullia Magrini “Lo sviluppo storico degli studi sulle musiche del mondo”, in Tullia Magrini (a cura di), Universi sonori, 2002, Torino, Einaudi, pp.5-24; Philip V. Bohlman, World Music, 2006, Torino, EDT [ed. or. 2002] 19 Sulla cultura popolare come pratica distintiva giocata sul terreno del consumo culturale, si veda Fabio Dei, Beethoven e le mondine, 2002, Roma, Meltemi. Per una rilettura della nozione di tradizione, si veda il saggio di Gerard Lenclud, La tradizione non è più quella di un tempo, in Pietro Clemente e Fabio Mugnaini, Oltre il folklore, Roma, Carocci. 20 Cfr. Goffredo Plastino, Mappa delle voci, 1996, Roma, Meltemi. 7 l’intervento di nuove generazioni di musicisti affiancheranno ai protagonisti del revival degli anni ’70 che si 21. Le nuove “tradizioni” nell’Italia del nuovo millennio Non è questa la sede per proporre un abecedario dei musicisti che in Italia sono ascrivibili al composito universo della world music e delle musiche in qualche misura ispirate alle tradizioni orali. Moltissimi artisti provengono da esperienze folk revivaliste degli decenni precedenti. A livello artistico e di critica musicale, c’è chi intende comunque riproporre una logica antagonista privilegiando l’espressione folk, rispetto a world music che porta in sé lo stigma originale dell’associazione al mercato delle merci. C’è poi chi pur ponendosi nella scia del folk ha preferito coniare nuove etichette come quella di “folk geneticamente modificato”, per indicare quel novero di artisti che, messa da parte l’idea del ricalco e della riproduzione filologia della musica della fascia folklorica, hanno dato vita ad una musica, che assume nuovi strumenti, tecnologie e influenze sulla base di scelte estetiche22. In ogni modo, si tratta di creazione e produzione discografica che mette insieme logiche popular con procedure compositive che riprendono modi della tradizione orale, ma che attingono a strumentari o a espressioni e grammatiche musicali di altri Paesi europei o extraeuropei. Così nell’Italia musicale del XXI secolo esistono suonatori tradizionali impegnati in manifestazioni rituali come i suonatori del Carnevali di Bagolino (BS) di Ponte Caffaro (BS) o quelli del Carnevale di Montemarano (AV), “custodi delle voci”, per dirla con Maurizio Agamennone, come le confraternite laicali protagoniste dei rituali della Settimana Santa, e suonatori giovani e meno giovani che hanno avuto un rapporto diretto con le vecchie generazioni del mondo contadino o pastorale nella trasmissione dei saperi musicali. Ci sono poi musicisti di estrazione urbana che ricevono il riconoscimento delle comunità locali come portatori di un repertorio musical tradizionale. Naturalmente c’è tutto l’universo di artisti, che possono avere legami più o meno prossimi con il mondo tradizionale orale ma che sono propensi La ricostruzione del lungo, articolato contraddittorio processo di reinvenzione e recupero della tradizione musicale salentina e di fenomeni come La Notte della taranta sono affrontati in maniera esaustiva da Vincenzo Santoro, Il ritorno della taranta, 2009, Roma, Squilibri. 22 Cfr. Luca Ferrari, Folk Geneticamente Modificato, 2003, Viterbo, Stampa alternativa. Allo stato attuale, il lavoro di Ferrari rappresenta l’unica analisi del fenomeno folk revival nelle sue ondate successive a quello storico dagli anni ’50 e ’60. Il volume costituisce una rassegna utile, perché ricca di numerose testimonianze, ma rappresenta solo in parte un'analisi globale del fenomeno e delle sue caratteristiche. 21 8 all’ibridazione sonora, che può significare armonizzazione colta, uso dei linguaggi pop e rock o della canzone d’autore, uso di strumenti non legati ad un territorio o provenienti da Paesi lontani, impiego dell’elettronica o innesti di forme e ritmiche provenienti dai quattro angoli del globo, scrittura di nuovi testi sulla base di metriche tradizionali. L’organetto world di Riccardo Tesi Un caso italiano che più di altri, per il valore estetico e per il lungo percorso artistico e di ricerca che attraversa i decenni analizzati e le classificazioni che sono state passate in rassegna, può assurgere a paradigma di una nuova musica frutto di incroci tra tradizione orale ed altri linguaggi è quello di Riccardo Tesi, che ha iniziato come accompagnatore di Caterina Bueno nel 1978.23 Dopo il suo esordio discografico da solista con Il Ballo della Lepre (1984), Tesi è all’avanguardia con l’idea di un neo-folk mediterraneo con i progetti Ritmia, in cui è più incisiva la presenza della musica tradizionale sarda (Forse il mare,1986), e Anita Anita (Anita Anita,1988). Il pistoiese ha coniugato senza dogmatismi la tradizione toscana, sarda e centro-italiana dell’organetto diatonico con altri linguaggi, dal Rinascimento ai Balcani, dal jazz alla contemporaneità. Seminale il suo impegno di didatta per la diffusione presso le giovani generazioni dell’organetto in Italia. Tesi ha dato al suono dell‘organetto italiano un respiro internazionale, incrociando i mantici con l’influento musicista francese Marc Perrone, poi con l’inglese John Kirkpatrick e il basco Kepa Junkera (Trans Europe diatonique, 1993), rincontrando le corde di quell’altro eclettico mediterraneo che è il nizzardo Patrick Vaillant in Veranda (1991) con cui aveva condiviso la scena nel progetto Anita Anita. Questo sodalizio transfrontaliero ha aperto la strada al dialogo tra colori etnici popolari, jazz e improvvisazione che sfocia in Colline (1994), album in cui il duo tosco-nizzardo trova nel sax di Gianluigi Trovesi un altro partner straordinario. Una significativa video intervista a Riccardo Tesi, divisa in due parti, è visibile su www.youtube.com/watch?v=rgN0qoLhtvQ e www.youtube.com/watch?v=5ZfQUq2V3AQ&feature=relmfu. Note biografiche e notizi sull’artista sul sito www.riccardotesi.com 23 9 Tesi è figlio del folk revival, quindi musicista esterno alle culture etniche; è un autodidatta dello strumento che nella fase iniziale di apprendimento, secondo una prassi non lontana per taluni aspetti dalla trasmissione orale, ha utilizzato la tecnica del ricalco, riproducendo esattamente la musica che ascoltava.24 In Tesi, è ben chiara la consapevolezza del suo ruolo autoriale e dell’essere un personaggio musicale di confine. In un’intervista raccolta nel 1995 dichiara: “Mi sento un musicista di popular music ma credo di assolvere bene la funzione di musicista etnico, anche se ho capito subito che non avrei mai potuto suonare come gli organettisti sardi. […]La mia musica raccoglie una grande influenza proveniente dalla musica etnica, è stimolante per me creare forme musicali nuove”25. La capacità di andare in profondità senza preconcetti conduce Tesi ad indagare le pagine più antiche e nitide, per fascino melodico, del liscio romagnolo realizzando Un ballo liscio (1995) e di magnificare la tradizione popolare della montagna pistoiese nel lavoro Acqua Foco e Vento (2001 dal vivo e 2003 in studio). Con la creazione del quartetto Banditaliana nel 1998 si assiste ad un altro passaggio cruciale che conduce ad un suono acustico che conserva lo spirito popolare pur alimentandosi di orditi timbrici, armonici, ritmici e melodici che attingono dal jazz e da altri linguaggi folk e world. Dall’omonimo Banditaliana (1998) a da Thapsos (2000), da Lune (2004) a Crinali (2006), sguardo sull’Appennino bolognese, concepito con Claudio Carboni, musicista versatile dal fraseggio raffinato, e indirizzato dalla competenza e passione della ricercatrice Placida Staro. Tesi ha trovato anche il tempo di mostrare la sua intimità di organettista, di restituire l’emozione del suono “puro” dei mantici nel suo lavoro solista Riccardo Tesi (2007). Con Sopra i tetti di Firenze (2010) ha reso omaggio agli insegnamenti e al repertorio della Bueno. Nel recente Madreperla (2011) ha creato un progetto che potremmo definire cantautorale, grazie anche ai testi di Maurizio Geri e al contributo di Claudio Carboni che stravolge ancora una volta paletti e steccati per creare una musica popular: musica d’autore che guarda al mondo, ma conserva un forte e vitale aroma popolare. Cfr. l’intervista di Patrizio Visco, L’organetto (dia)tonico…Tesi a confronto, in World Music, 1995, n. 19, p.59. 25 ivi, p. 60. In un’altra significativa intervista, pubblicata in Luca Ferrari, op. cit., pp. 152-162, Tesi ritorna a parlare di classificazioni ed etichette musicali, nonché sul suo ruolo di musicista, dichiarandosi musicista di world music. Quest’ultimo termine, parimenti a musica popolare, musica folk, musica etnica, per Tesi non sarebbe altro che un dei tanti modi di indicare quel movimento generato dal folk revival americano. 24 10 11