Ciro De Rosa, Oltre il folk, percorsi musicali in Italia

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Oltre il folk. Percorsi musicali in Italia tra tradizione
orale e musiche del mondo.
di Ciro De Rosa
Alla luce del panorama musicale contemporaneo segnato dal costante mescolarsi di
differenti forme espressive, a partire dal folk revival degli anni ’50 del secolo scorso
si presenta una rilettura delle classificazioni che studiosi ed operatori hanno
utilizzato per etichettare le musiche ispirate a espressioni tradizionali orali.
Nell’Italia globalizzata del nuovo millennio si prende in esame il caso di un artista
nella cui musica convivono stilemi tradizionali italiani ma non solo, linguaggio colti e
popular.
L‘idea di catalogare la musica, costringerla in qualche misura
entro steccati terminologici può apparire esercizio paradossale
per la sostanza sonica percepita come (im-)materiale sfuggente,
per lo scenario sonoro nell’epoca della cosiddetta globalizzazione
in cui convivono espressioni musicali differenti, tendenti
ininterrottamente ad ibridarsi in misura maggiore e secondo
modalità molto diversificate rispetto ai secoli passati.
Siamo di fronte ad una complessità che chiama in causa le
stesse
discipline
che
studiano
pratiche
musicali
(scienze
etnodemoantropologiche, etnomusicologia, studi di popular music),
alle
prese
con
la
messa
in
questione
del
loro
statuto
epistemologico, che impone il ripensare le metodologie di indagine
di fronte al mutare degli oggetti stessi di ricerca1. Stando così
le cose, termini come musica folk, musica tradizionale,
musica
popolare, musica etnica, world music, musiche del mondo possono
finire per sovrapporsi, ma soprattutto sono etichette rispondenti
e funzionali a prospettive, angolazioni e trame di carattere
differente.
Cionondimeno, si avverte la necessità di non rinunciare del
tutto al linguaggio classificatorio seppur decostruito, per
concepire modi ed espressioni musicali nelle loro molteplici reti
di relazioni tra artista e tecnologia, artista e pubblico,
musicisti e mercato globale.
In questo lavoro si intende tracciare un percorso in
quell’articolato fenomeno delle manifestazioni musicali ispirate
Sullo statuto dell’etnomusicologia, si rinvia al capitolo introduttivo di
Francesco Giannattasio, Il concetto di musica, 1992, Roma, La Nuova Italia.
1
1
alle
musiche
di
tradizione
orale
della
Penisola.
Si
attraverseranno decenni cruciali della seconda metà del Novecento
per giungere al nuovo millennio musicale, isolando un caso
paradigmatico dell’intreccio tra tradizioni musicali e linguaggi
contemporanei.
Musica popolare tra ricerca sul campo e folk revival
Sul finire degli anni ’50 del secolo scorso si sviluppa in
Italia un interesse per le musiche di tradizione orale sull’onda
del folk revival statunitense incarnato da musicisti come Woody
Guthrie e Pete Seeger, e delle ricerche dell’antropologo ed
etnomusicologo statunitense Alan Lomax2. L’impulso è ascrivibile
anche al clima culturale, politico e scientifico rappresentato
dalla pubblicazione postuma delle riflessioni gramsciane sul
folklore ripensato all’interno dei rapporti di classe3, dalla
propulsione data dalla fondazione nel 1948 del Centro Nazionale
Studi di Musica Popolare a Roma da parte del compositore e
musicologo Giorgio Nataletti e dalle campagne di indagine nel Sud
dell’antropologo Ernesto de Martino e dell’etnomusicologo Diego
Carpitella, quest’ultimo collaboratore di Lomax nella sua indagine
sul campo italiana4. Nel 1953 inizia l’attività nel campo
editoriale delle Edizioni Avanti! ad opera di Gianni Bosio con il
proposito di valorizzare la cultura dell’ ”altra Italia”. Intorno
al lavoro di musicisti, intellettuali e studiosi della cultura
popolare nasce a Torino il gruppo dei Cantacronache (1957)5.
Successivamente, a Milano si forma il Nuovo Canzoniere Italiano
(1962) legato soprattutto alle figure di Roberto Leydi, altro
padre dell’etnomusicologia italiana, e di Gianni Bosio 6. Non è
Sull’attività del ricercatore texano in Italia si veda Alan Lomax, L’anno più
felice della mia vita. Un viaggio in Italia 1954-1955, a cura di Goffredo
Plastino,2008, Milano, Il Saggiatore.
3 La riflessione sul folklore del grande pensatore sardo fu pubblicata nei suoi
Quaderni del carcere. Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di
Valentino Gerratana, 1975, Torino, Einaudi.
4 Su quegli anni formidabili in cui prende forma l’etnomusicologia italiana, si
vedano Antonello Ricci, I suoni e lo sguardo, 2007, Milano, Angeli e il primo
capitolo di Maurizio Agamennone (a cura di), Musiche tradizionali del Salento.
Le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto de Martino (1959, 1960), Roma,
Squilibri.
5 Tra i protagonisti del gruppo dei Cantacronache, ricordiamo Sergio Liberovici,
Fausto Amodei, Emilio Jona, Michele L. Straniero, Italo Calvino, Franco Fortini,
Margot. Per un’introduzione alla produzione dei Cantacronache si può vedere il
trailer
di
un
documentario
sul
gruppo
su
http://www.youtube.com/watch?v=x3MYRYpyZB4.
6
Questo gruppo creò gli spettacoli Bella Ciao (1964) e Ci ragione e canto
(1966). La fondazione dell’Istituto Ernesto de Martino, proiettato segnatamente
alla ricerca e all’analisi del canto sociale, eserciterà non poca influenza
sulla cultura italiana: dalla musica leggera ai cantautori, dalla musica colta
alla didattica musicale, dall’etnomusicologia alla storia orale. In seguito, in
2
2
questa la sede per ripercorrere appieno la vitalità, il fermento,
le diatribe di quegli anni7 in cui prevaleva la denominazione di
musica popolare, a sua volta ben sostanziata da una lunga
tradizione di studi e composizioni musicali in area neolatina8 e
dalla prospettiva gramsciana sul conflitto egemonia/subalternità9.
In altre parole, con l’espressione musica popolare ci si riferiva
alle pratiche musicali dei ceti subalterni presenti nelle
cosiddette società complesse (pastori, contadini, pescatori,
artigiani) in opposizione alle espressioni musicali colte dei ceti
dominanti. Parallelamente, l’avvento del folk music revival di
matrice americana e britannica10 conduce all’affermarsi del
termine folk, peraltro già consolidato da una tradizione di studi
sul folklore11, anche in virtù della valorizzazione apportata da
Carpitella che nei suoi studi parla di “musica folklorica”
pertinente un’area sociale che egli stesso aveva definito “fascia
folklorica”12.
Sotto il profilo più squisitamente musicale, oltre alle
raccolte che testimoniano la consistenza di formidabili repertori
di musica di tradizione orale 13 (altra locuzione ancora in uso ma
confronto critico con scelte del NCI fu fondato L’Almanacco Popolare, intorno
alle figure dello stesso Leydi, di Sandra Mantovani e di Bruno Pianta.
7
Per una ricostruzione degli anni del folk revival, si vedano: Cesare Bermani,
Una storia cantata. 1962-1997. Trentacinque anni di attività del Nuovo
Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino,1997, Milano/Sesto Fiorentino
(FI), Jaca Books/ Istituto Ernesto de Martino; Roberto Leydi, Il Folk music
revival, 1972, Palermo, Flaccovio; Michele Straniero, Manuale di Musica
Popolare, 1991, Milano, Rizzoli. La casa editrice Nota Records di Udine
(www.nota.it) sta ristampando la discografia del gruppo dei Cantacronache.
8 Cfr. Maurizio Agamennone, Le opere e i giorni.. e i nomi, in Alessandro
Rigolli e Nicola Scaldaferri (a cura di), Popular music e musica popolare, 2010,
Venezia/Parma, Marsilio/Istituzione Casa della Musica, pp. 12-14.
9 Nella cornice gramsciana si inscrive l’analisi di Alberto Maria Cirese,
Cultura egemonica e culture subalterne, 1976, Palermo, Palumbo.
10 Accanto ai nomi statunitensi occorre ricordare in ambito britannico il lavoro
di Albert Lloyd ed Ewan McColl. Nel Regno Unito McColl aveva non soltanto
ricercato e riproposto il patrimonio tradizionale orale isolano, ma anche
lavorato alla creazione di una nuova canzone politica che seguiva stilemi
folklorici all’interno del circuito dei folk club. Sul folk revival britannico
si vedano Peter Cox, Set into Songs, 2008, Cambridge, Labatie Books.
11 Ad introdurre il termine folklore è stato l’archeologo inglese William John
Thoms che nel 1846 interviene
nel dibattito in corso tra gli studiosi sulle
denominazione da conferire agli studi sulle tradizioni popolari.
12
Per la bibliografia dell’opera di Diego Carpitella si rinvia a Roberta Tucci,
Carpitella:
bibliografia,
consultabile
sul
sito
web
http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/archivio/bibliografie/biblio_carpitella.p
df
13 Ci si riferisce alla collana discografica de I Dischi
del Sole, fondata
dall’Istituto de Martino, e alla collana Albatros, promossa da Roberto Leydi, ma
anche al lavoro di ricerca e documentazione svolto dal Servizio per la cultura
del mondo popolare istituito presso la Regione Lombardia per volontà dello
stesso Leydi. La collana I Dischi del Sole è stata ristampata dal gruppo Al
Bianca. Per un’analisi della collana si veda Luca Pastore, I dischi del Sole,
CD+DVD, 2004, Fandango. I materiali della storica e prestigiosa collezione
Albatros sono in via di ristampa presso la Nota Records. Sul lavoro svolto al
3
già utilizzata da Carpitella nelle sue opere) che vedono la luce
tra gli anni ’60 e ‘70, in una fase di profonda trasformazione del
tessuto socio-economico e culturale della Penisola, si assiste al
proliferare delle esperienze musicali di canzonieri che si muovono
all’interno del circuito del revival e della cultura politica
della sinistra. Su tutti il lavoro di studio e ricerca di Roberto
De Simone, che sul piano artistico trova espressione nell’incontro
con i giovani che formeranno la Nuova Compagnia di Canto Popolare,
di cui fino al 1977 sarà mentore e direttore artistico. Nel ruolo
di direttore della NCCP, De Simone sviluppa un approccio che
piuttosto che ricalcare i modi contadini, cercava la stilizzazione
delle forme espressive contadine, ricomponendone lo spirito. Com’è
noto, la NCCP sarà a lungo fonte di ispirazione per tantissimi
musicisti dalle Alpi alla Sicilia. Tra le esperienze revivaliste
di maggior rilievo va segnalato il gruppo Canzoniere del Lazio protagonista dopo la fase di ricerca e riproposta e di un lavoro
di nuova scrittura musicale con tratti fortemente innovativi mentre personaggi centrali a cavallo tra ricerca, riproposta e
nuova elaborazione, pur nel loro differente background socioculturale, sono stati Gualtiero Bertelli, Giovanna Marini, Rosa
Balistreri, Caterina Bueno, Otello Profazio, Matteo Salvatore,
solo per citarne alcuni.
Anni ’80. Dall’alterità politico-sociale al prevalere delle
“etnie”.
Sul finire degli anni ‘70 e nei primi anni ’80, in uno scenario
socio-economico, culturale e politico profondamente mutato, la
forza propulsiva del folk revival di matrice meridionale,
soprattutto incarnato dalla NCCP prima e da Eugenio Bennato &
Musicanova poi, e dal Gruppo Operaio ‘E Zezi di Pomigliano d’Arco,
segna il passo o addirittura si esaurisce, anche se non mancano
nuovi gruppi, come i calabresi Re Niliu, in Sicilia i Cilliri di
Carlo Muratori o nel Sannio beneventano i Musicalia, provenienti
dalla stagione musicale dei canzonieri. Anche dal punto di vista
mediatico la visibilità del folk segna una flessione, mentre nuovi
fermenti musicali globali si impongono sul mercato con il reggae
giamaicano – già dalla seconda metà degli anni ’70 - e, con
Servizio per la cultura del mondo popolare della Regione Lombardia, si vedano
Renata Meazza e Nicola Scaldaferri (a cura di), Patrimoni sonori della
Lombardia. Le ricerche dell’Archivio di etnografia e storia sociale, 2008, Roma,
Squilibri.
4
minore incidenza verso le giovani generazioni europee, alcune
forme di musica urbana dell’Africa occidentale.
Ritornando al cosiddetto folk revival, nei primi anni ‘80 la
parte settentrionale del nostro Paese si rivela molto fertile con
gruppi piemontesi come Ciapa Rusa, Prinsi Raimund e Sergio Berardo
& Lou Dalfin (questi ultimi inquadrabili nell’articolato revival
della cultura occitana), lombardi come Baraban, veneti come
Calicanto, friulani come La Sedon Salvadie: è una nuova stagione
che mette a frutto la ricerca degli anni precedenti e la lezione
dell’ etnomusicologia. Nell’Italia centrale troviamo
l’organettista Riccardo Tesi in Toscana, La Macina nelle Marche;
in Sardegna, che rappresenta un mondo sonoro a parte per
espressioni tradizionali, manifestazioni sonore e mercato
musicale, si segnala l’esperienza di Suonofficina, da cui
inizieranno le carriere di Mauro Palmas e Elena Ledda, esponenti
oggi della migliore musica sarda. Altro fenomeno è rappresentato
dai tentativi di rifunzionalizzazione di rituali e feste, la
ripresa di strumenti e di forme coreutiche desuete come esito
dell’interesse dei ricercatori verso le forme e i modi della
cultura popolare. A farsene carico sono sovente musicisti e
cultori originari degli stessi territori ma con una formazione
musicale spesso più articolata che assumono il ruolo di élite
culturali in termini di ripresa della materia folklorica14.
Nondimeno, non mancano i modelli esteri a cui molti artisti
guardano: da quello anglo-americano al “celtico” e nel caso delle
formazioni piemontesi al revival francese: ecco il gran fiorir di
ghironde e cornamuse in aree dove questi strumenti erano da tempo
scomparsi. Tuttavia, viene a mancare a questo nuovo folk revival è
la capacità di
imporsi mediaticamente come era accaduto con la
NCCP nella decade precedente.
In questa nuova stagione musicale inizia ad farsi strada la
nuova
aggettivazione
di
“musica
etnica”,
dunque
non
più
un’alterità espressa in termini di differenza sociale (secondo le
antinomie egemonia/ subalternità oppure colto/extracolto) ma di
diversità in termini di appartenenza locale, etnica o nazionale.
Non è casuale che questo slittamento che è classificatorio,
semantico ma anche di segno analitico ed interpretativo
si
manifesti in una fase storica segnata da numerosi “revival etnici”
e forme di affermazione di appartenenza locale da mettere in
relazione con i processi di globalizzazione, e dall’accentuarsi di
Penso a quanto accaduto nell’Appennino bolognese con la ripresa dei balli
staccati precedenti l’avvento del liscio e la centralità ridata a figure come il
violinista Melchiade Benni tra il finire degli anni ’70 e gli anni ’80. O ancora
alla ripresa delle musiche per piffero nell’area delle cosiddette Quattro
Province, territorio culturalmente uniforme ma amministrativamente appartenente
a quattro province diverse (GE, AL, PC, PV). Si veda http://www.appennino4p.it/
14
5
fenomeni migratori nelle società europee e negli Stati Uniti. Ma
non solo, perché nelle scienze sociali sin dagli anni ’70 il
termine
etnia
e
soprattutto
etnicità
diventano
categorie
analitiche centrali per la lettura di molto conflitti e
rivendicazioni sociali e politiche.15
Musiche del mondo e world music nel mondo globalizzato
A partire dagli ultimi decenni del Novecento nel mondo postcoloniale e globalizzato
si affermano due espressioni che
designano musicisti, etichette discografiche, dischi, musicisti,
festival, periodici musicali e rubriche all’interno di periodici
di popular music16: si tratta di “musiche del mondo” e soprattutto
di “world music”. Siamo di fronte a due termini che finiscono per
classificare un movimento musicale che assume una dimensione
mondiale inglobando ambiguamente nelle sue differenti angolazioni
fini commerciali, riproduzione di forme di esotismo e di alterità
musicale: tutto ciò che non è pop angloamericano o musica colta
occidentale è definita world music, mentre il jazz oscilla tra chi
lo ascrive come world music ante litteram, e chi pur riconoscendo
il contributo afro-americano lo riconduce
all’occidentale
musicale. Senza dimenticare che nella terminologia giornalistica
anche il jazz è sovente sposato ad aggettivi come etno o world.
La nozione di world music finisce per comprendere espressioni
sonore completamente diverse: dalla musica d’arte extraeuropea
alla musica rituale di operatori musicali tradizionali che
ricevono il riconoscimento di una comunità locale, dai musicisti
appartenenti alle numerose diaspore legate ai processi migratori
che miscelano forme della propria tradizione con linguaggi
contemporanei ai musicisti urbani occidentali che rileggono le
negli ultimi decenni le scienze sociali hanno decostruito le nozioni di
nazione, etnia, etnicità, identità etnica, svelandone i limiti di utilizzo o
rigettandole. In ogni modo, hanno messo l’accento sugli aspetti processuali e
dinamici, non statici, cristallizzati ed essenzialisti che stanno alla base del
concetto di identità culturale. La bibliografia relativa al dibattito sulle
questioni etnico-nazionali, sui fenomeni migratori e su tematiche ad esse
associate come razzismo e multiculturalismo è molto ampia. Mi limito a
segnalare Jean Loup Amselle, Logiche meticce, 2001, Torino [ed. or. 1990];
Claudio Marta, Relazioni interetniche, 2005, Napoli, Guida; Francesco Remotti,
2005, L’ossessione identitaria, Bari, Laterza.
16
Sulla popular music si veda, fra gli altri, Franco Fabbri, Around the clock,
008, Torino, Utet; Richard Middleton, 1994, Studiare la popular music, Milano,
Feltrinelli. Curato da Philip Tagg, di grande interesse ed utilità è il Database
bibliografico sugli studi di popular music, 2008, disponibile sul sito
www.cini.it/publication. Sui rapporti tra etnomusicologia e studi di popular
music, si rinvia a Alessandro Rigolli e Nicola Scaldaferri, a cura di, Popular
music e musica popolare. Riflessioni ed esperienze a confronto,2010,
Parma/Venezia, Marsilio/Casa della Musica.
15
6
tradizioni contadine o popolaresche, fino alle ibridazioni che
mettono insieme artisti originari di diverse parti del globo17.
Tra gli esiti della world music anche la riduzione delle
sfaccettature sonore, della complessità musicale di un Paese che
è ricondotto ad un cliché, ad una singola forma (la Spagna è il
flamenco, il Portogallo è il fado) o ad tratto emotivo
caratteriale (a Capo Verde, arcipelago segnato dall’emigrazione
verso i Paesi occidentali, tutta la musica esprimerebbe la
morabeza, declinazione locale della brasiliana saudade). Ma non
solo, perché la stessa etnomusicologia ha finito per ridefinire il
suo campo di indagine identificandosi come disciplina che studia
le musiche del mondo.18
Per nulla estranea al fenomeno, l’Italia ha visto accentuarsi
l’interesse verso le espressioni tradizionali orali ancora
funzionali (rituali, feste, pellegrinaggi devozionali). Si assiste
ad un rinnovato interesse verso strumenti del mondo agro-pastorale
come le zampogna, ma anche verso uno strumento come l’organetto
diatonico, divenuto icona del mondo contadino, pur essendo nato
nella prima metà dell’Ottocento, figlio dell’era industriale del
quale il mondo contadino si è appropriato, mostrando una
dinamicità
spesso
negatagli
dai
consumatori
borghesi
che
idealizzano la cultura popolare e considerano la tradizione come
qualcosa di immobile. 19 Altro dato significativo dell’esperienza
italiana è il ruolo avuto da certa cultura musicale hip hop a
partire dagli anni ‘90 nell’adoperare
testi nei dialetti della
Penisola. Studiosi, giornalisti e gli stessi artisti individuano,
non senza forzature, una continuità di musiche come il rap e il
raggamuffin con le forme musicali tradizionali 20. In Salento, più
che altrove, il mondo hip hop smuove le acque sollecitando dal
basso un revival del ballo della pizzica che conduce alla
creazione di un vigoroso movimento di nuovo revival che vedrà
17
Un significativo contributo alla lettura delle ambiguità del fenomeno della
world music lo fornisce il volume EM, Rivista degli Archivi di Etnomusicologia
Accademia di Santa Cecilia, nuova serie, intitolato World Music.
Globalizzazione Identità Musicali Diritti Profitti, Roma, Squilibri, 2003, vol.
1. Una ricostruzione della nascita del termine world music associato a
classificazione di piccoli imprenditori discografici, operatori culturali,
giornalisti e musicisti si può rintracciare sul sito web del mensile britannico
fRoots alla pagina
http://www.frootsmag.com/content/features/world_music_history/minutes/
18 Cfr. Tullia Magrini “Lo sviluppo storico degli studi sulle musiche del mondo”,
in Tullia Magrini (a cura di), Universi sonori, 2002, Torino, Einaudi, pp.5-24;
Philip V. Bohlman, World Music, 2006, Torino, EDT [ed. or. 2002]
19 Sulla cultura popolare come pratica distintiva giocata sul terreno del consumo
culturale, si veda Fabio Dei, Beethoven e le mondine, 2002, Roma, Meltemi. Per
una rilettura della nozione di tradizione, si veda il saggio di Gerard Lenclud,
La tradizione non è più quella di un tempo, in Pietro Clemente e Fabio Mugnaini,
Oltre il folklore, Roma, Carocci.
20
Cfr. Goffredo Plastino, Mappa delle voci, 1996, Roma, Meltemi.
7
l’intervento
di
nuove
generazioni
di
musicisti
affiancheranno ai protagonisti del revival degli anni ’70
che
si
21.
Le nuove “tradizioni” nell’Italia del nuovo millennio
Non è questa la sede per proporre un abecedario dei musicisti
che in Italia sono ascrivibili al composito universo della world
music e delle musiche in qualche misura ispirate alle tradizioni
orali.
Moltissimi
artisti
provengono
da
esperienze
folk
revivaliste degli decenni precedenti. A livello artistico e di
critica musicale, c’è chi intende comunque riproporre una logica
antagonista privilegiando l’espressione folk, rispetto a world
music che porta in sé lo stigma originale dell’associazione al
mercato delle merci. C’è poi chi pur ponendosi nella scia del folk
ha preferito coniare nuove etichette come quella di “folk
geneticamente modificato”, per indicare quel novero di artisti
che, messa da parte l’idea del ricalco e della riproduzione
filologia della musica della fascia folklorica, hanno dato vita ad
una musica, che assume nuovi strumenti, tecnologie e influenze
sulla base di scelte estetiche22. In ogni modo, si tratta di
creazione e produzione discografica che mette insieme logiche
popular con procedure compositive che riprendono modi della
tradizione orale, ma che attingono a strumentari o a espressioni e
grammatiche musicali di altri Paesi europei o extraeuropei.
Così nell’Italia musicale del XXI secolo esistono suonatori
tradizionali impegnati in manifestazioni rituali come i suonatori
del Carnevali di Bagolino (BS) di Ponte Caffaro (BS) o quelli del
Carnevale di Montemarano (AV), “custodi delle voci”, per dirla con
Maurizio Agamennone, come le confraternite laicali protagoniste
dei rituali della
Settimana Santa, e suonatori giovani e meno
giovani che hanno avuto un rapporto diretto con le vecchie
generazioni del mondo contadino o pastorale nella trasmissione dei
saperi musicali. Ci sono poi musicisti di estrazione urbana che
ricevono il riconoscimento delle comunità locali come portatori di
un repertorio musical tradizionale. Naturalmente c’è tutto
l’universo di artisti, che possono avere legami più o meno
prossimi con il mondo tradizionale orale ma che sono propensi
La ricostruzione del lungo, articolato contraddittorio processo di
reinvenzione e recupero della tradizione musicale salentina e di fenomeni come
La Notte della taranta sono affrontati in maniera esaustiva da Vincenzo Santoro,
Il ritorno della taranta, 2009, Roma, Squilibri.
22 Cfr. Luca Ferrari, Folk Geneticamente Modificato, 2003, Viterbo, Stampa
alternativa. Allo stato attuale, il lavoro di Ferrari rappresenta l’unica
analisi del fenomeno folk revival nelle sue ondate successive a quello storico
dagli anni ’50 e ’60. Il volume costituisce una rassegna utile, perché ricca di
numerose testimonianze, ma rappresenta solo in parte un'analisi globale del
fenomeno e delle sue caratteristiche.
21
8
all’ibridazione sonora, che può significare armonizzazione colta,
uso dei linguaggi pop e rock o della canzone d’autore, uso di
strumenti non legati ad un territorio o provenienti da Paesi
lontani, impiego dell’elettronica o innesti di forme e ritmiche
provenienti dai quattro angoli del globo, scrittura di nuovi testi
sulla base di metriche tradizionali.
L’organetto world di Riccardo Tesi
Un caso italiano che più di altri, per il valore estetico e per
il lungo percorso artistico e di ricerca che attraversa i decenni
analizzati e le classificazioni che sono state passate in
rassegna, può assurgere a paradigma di una nuova musica frutto di
incroci tra tradizione orale ed altri linguaggi è quello di
Riccardo Tesi, che ha iniziato come accompagnatore di Caterina
Bueno nel 1978.23 Dopo il suo esordio discografico da solista con
Il Ballo della Lepre (1984), Tesi è all’avanguardia con l’idea di
un neo-folk mediterraneo con i progetti Ritmia, in cui è più
incisiva la presenza della musica tradizionale sarda (Forse il
mare,1986), e Anita Anita (Anita Anita,1988).
Il pistoiese ha coniugato senza dogmatismi la tradizione
toscana, sarda e centro-italiana dell’organetto diatonico con
altri linguaggi, dal Rinascimento ai Balcani, dal jazz alla
contemporaneità. Seminale il suo impegno di didatta per la
diffusione presso le giovani generazioni dell’organetto in Italia.
Tesi ha dato al suono dell‘organetto italiano un respiro
internazionale, incrociando i mantici con l’influento musicista
francese Marc Perrone, poi con l’inglese John Kirkpatrick e il
basco Kepa Junkera (Trans Europe diatonique, 1993), rincontrando
le corde di quell’altro eclettico mediterraneo che è il nizzardo
Patrick Vaillant in Veranda (1991) con cui aveva condiviso la
scena nel progetto Anita Anita. Questo sodalizio transfrontaliero
ha aperto la strada al dialogo tra colori etnici popolari, jazz e
improvvisazione che sfocia in Colline (1994), album in cui il duo
tosco-nizzardo trova nel sax di Gianluigi Trovesi un altro partner
straordinario.
Una significativa video intervista a Riccardo Tesi, divisa in due parti, è
visibile su www.youtube.com/watch?v=rgN0qoLhtvQ e
www.youtube.com/watch?v=5ZfQUq2V3AQ&feature=relmfu. Note biografiche e notizi
sull’artista sul sito www.riccardotesi.com
23
9
Tesi è figlio del folk revival, quindi musicista esterno alle
culture etniche; è un autodidatta dello strumento che nella fase
iniziale di apprendimento, secondo una prassi non lontana per
taluni aspetti dalla trasmissione orale, ha utilizzato la tecnica
del ricalco, riproducendo esattamente la musica che ascoltava.24 In
Tesi, è ben chiara la consapevolezza del suo ruolo autoriale e
dell’essere un personaggio musicale di confine. In un’intervista
raccolta nel 1995 dichiara: “Mi sento un musicista di popular
music ma credo di assolvere bene la funzione di musicista etnico,
anche se ho capito subito che non avrei mai potuto suonare come
gli organettisti sardi. […]La mia musica raccoglie una grande
influenza proveniente dalla musica etnica, è stimolante per me
creare forme musicali nuove”25.
La capacità di andare in profondità senza preconcetti conduce
Tesi ad indagare le pagine più antiche e nitide, per fascino
melodico, del liscio romagnolo realizzando Un ballo liscio (1995)
e di magnificare la tradizione popolare della montagna pistoiese
nel lavoro Acqua Foco e Vento (2001 dal vivo e 2003 in studio).
Con la creazione del quartetto Banditaliana nel 1998 si assiste ad
un altro passaggio cruciale che conduce ad un suono acustico che
conserva lo spirito popolare pur alimentandosi di orditi timbrici,
armonici, ritmici e melodici che attingono dal jazz e da altri
linguaggi folk e world. Dall’omonimo Banditaliana (1998) a da
Thapsos (2000), da Lune (2004) a Crinali (2006), sguardo
sull’Appennino bolognese, concepito con Claudio Carboni, musicista
versatile dal fraseggio raffinato, e indirizzato dalla competenza
e passione della ricercatrice Placida Staro.
Tesi ha trovato anche il tempo di mostrare la sua intimità di
organettista, di restituire l’emozione del suono “puro” dei
mantici nel suo lavoro solista Riccardo Tesi (2007). Con Sopra i
tetti di Firenze (2010) ha reso omaggio agli insegnamenti e al
repertorio della Bueno. Nel recente Madreperla (2011) ha creato un
progetto che potremmo definire cantautorale, grazie anche ai testi
di Maurizio Geri e al contributo di Claudio Carboni che stravolge
ancora una volta paletti e steccati per creare una musica popular:
musica d’autore che guarda al mondo, ma conserva un forte e vitale
aroma popolare.
Cfr. l’intervista di Patrizio Visco, L’organetto (dia)tonico…Tesi a confronto,
in World Music, 1995, n. 19, p.59.
25
ivi, p. 60. In un’altra significativa intervista, pubblicata in Luca Ferrari,
op. cit., pp. 152-162, Tesi ritorna a parlare di classificazioni ed etichette
musicali, nonché sul suo ruolo di musicista, dichiarandosi musicista di world
music. Quest’ultimo termine, parimenti a musica popolare, musica folk, musica
etnica, per Tesi non sarebbe altro che un dei tanti modi di indicare quel
movimento generato dal folk revival americano.
24
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