Introduzione La «Germania» e la filosofia tedesca Nel 1763 uno dei vari avvenimenti storici che si contendono il titolo di «prima guerra mondiale» – in questo caso la «Guerra dei Sette anni» – volse a conclusione. I suoi effetti su scala mondiale furono evidenti: risultato della guerra fu che la Francia, oltre a essere gravata di perdite finanziarie enormi, venne di fatto cacciata dal Nord America e dall’India a opera della Gran Bretagna, né avrebbe mai piú recuperato quei territori. Fa specie, però, che la guerra avesse avuto inizio e fosse stata per lo piú combattuta sul suolo «tedesco»; e uno dei suoi effetti maggiori fu che il Land tedesco della Prussia diventò (o almeno si confermò) una delle maggiori potenze europee. In ogni caso è difficile dire cosa allora significasse il termine «Germania», dal momento che, com’è stato sottolineato da un gran numero di storici, fino a quel momento la Germania ancora non esisteva, se non come una sorta d’espressione di comodo per designare le parti di lingua tedesca del «Sacro Romano Impero della Nazione Germanica»: entità politica, quest’ultima, che a sua volta era in progressiva dissoluzione. Un tempo – nel Medioevo e nel Rinascimento – centro di transazioni commerciali e di scambi, la «Germania», intesa in questo senso, a partire dal XVII secolo era ridotta a un ruolo marginale all’interno dello scenario europeo, dopo aver già perso gran parte della propria vitalità economica quando l’asse del commercio si era spostato nell’Atlantico Settentrionale, in seguito ai viaggi di scoperta e all’intensa attività colonizzatrice di quello che gli europei chiamavano «Nuovo Mondo». Dopo aver subito ingenti perdite di popolazione nel corso della Guerra dei Trent’anni (1618-48), la «Germania», secondo quanto stabilito dal Trattato di Vestfalia del 1648, si era cosí ritrovata suddivisa in una serie di principati – alcuni relativamente vasti, altri non piú estesi d’un villaggio – tenuti assieme solamente dall’idea, poco piú di una finzione, di far parte e di essere protetti dalla legge e dal potere del Sacro Ro- 4 la filosofia tedesca mano Impero (il quale, come recitava una vecchia battuta, ormai non era piú né sacro né romano, e neanche un impero; e perciò non era nemmeno propriamente uno Stato, una confederazione o un’organizzazione nata da un trattato, bensí costituiva un’entità politica completamente sui generis, difficile da descrivere oggi facendo ricorso alla terminologia politica a noi familiare). Per buona parte della sua storia, all’inizio dell’età moderna, l’espressione «Germania» non denotava neppure un’entità culturale, se non altro perché la caratteristica principale di quella terra era costituita dalla profonda divisione religiosa fra aree protestanti e cattoliche, con tutti i conflitti e le rivalità che ne erano seguiti. Del resto, né la «Germania» protestante né quella cattolica si concepivano a vicenda come appartenenti a una cultura comune; tutt’al piú attingevano (in qualche modo) a una lingua condivisa e, accidentalmente, avevano una certa prossimità geografica. Se si fa riferimento a questo periodo, il termine «Germania» deve quindi essere messo tra virgolette, poiché a tutti gli effetti, all’epoca, qualcosa come la «Germania» semplicemente non esisteva ancora. Solo con il senno di poi questa parola corrisponde a ciò che sarebbe in seguito divenuta la Germania propriamente detta. Eppure, a partire dal 1781 la filosofia «tedesca» giunse per un certo periodo a dominare il pensiero europeo e a trasformare il modo che non solo gli europei, ma in pratica i cittadini del mondo intero avevano di concepire se stessi, la natura, la religione, la storia umana; nonché la natura del sapere, della politica e la struttura della mente dell’uomo in generale. Fin dai suoi inizi, questa filosofia fu sempre al centro di controversie; spesso era difficile da comprendere e quasi sempre veniva descritta proprio per questa caratteristica come tedesca. Basti pensare alla recensione dedicata da William Hazlitt, nel 1816, a un libro di Friedrich Schlegel, la cui prima riga recitava: «Il libro è tedesco» – ove è chiaro che il termine «tedesco» veniva talvolta utilizzato per denotare profondità, talaltra per designare semplicemente oscurità, e in qualche occasione addirittura per accusare l’autore del tentativo di dare una «profondità» pretestuosa alle proprie opere, avvolgendole in un linguaggio oscurantista1. Già solo il fatto che al tempo non vi fosse una «Germania» è indicativo di quanto poco la filosofia tedesca possa spiegarsi facendo appello al suo essere per l’appunto 1 La prima riga della recensione di Hazlitt è citata in P. Gay, The Naked Heart, W. W. Norton, New York 1995, p. 40. introduzione 5 «tedesca», quasi che l’essere tale bastasse di per sé a chiarirne lo sviluppo nel periodo in esame. In questione piuttosto era che cosa mai dovesse considerarsi «tedesco», e intorno a ciò, proprio in quegli anni, si andavano articolando gli sforzi e le argomentazioni di scrittori, politici e pubblicisti, oltre che naturalmente dei filosofi. Tuttavia, le domande che in quel periodo si sono posti i filosofi «tedeschi» rimangono le stesse che ci poniamo anche noi. Forse, nel frattempo, abbiamo imparato ad articolarle in maniera un po’ piú raffinata, e tra le altre cose abbiamo appreso quali reiterazioni o risposte ai problemi posti da quei pensatori implichino di per sé nuovi problemi, e in che cosa consistano questi problemi ulteriori. Le loro questioni, in ogni caso, restano ancora le nostre questioni, e perciò la filosofia «tedesca» rimane una parte essenziale della filosofia moderna. Ma in che cosa mai consisteva, allora, il rapporto tra la filosofia «tedesca» e la «Germania»? Si sarebbe tentati di pensare che la «Germania» sia diventata la Germania grazie all’esplosione di opere filosofiche, letterarie e scientifiche che ebbe luogo in quella parte del mondo alla fine del XVIII secolo: un’esplosione tale da far sí che la «Germania» diventasse una Germania culturalmente unitaria (o giungesse a riconoscersi nei termini di unità culturale) proprio per merito e per mezzo delle sue conquiste letterarie e filosofiche. Nel 1810 Madame de Staël, nel suo libro Sulla Germania, coniò l’immagine di quella terra come luogo di poeti e filosofi, i quali vivevano nella dimensione del pensiero ciò che non erano in grado di conquistare nella realtà politica. Fu cosí che l’immagine di una Germania «apolitica», in fuga nel mondo etereo della poesia e della filosofia, divenne il fulcro delle modalità in cui veniva percepita all’estero, al punto che, da quel momento in poi, anche molti tedeschi avrebbero condiviso tale maniera d’intendere la loro cultura. Una simile lettura, tuttavia, è gravemente fuorviante, se non affatto sbagliata. In questo periodo i tedeschi non furono in alcun senso «apolitici», né erano indifferenti alla dimensione etico-politica dell’esistenza2. In realtà, stavano sperimentando una transizione lacerante verso la vita moderna, che coinvolgeva e modificava il loro modo di considerare ogni cosa. Per capire la fi2 Esposizioni assai critiche del mito del «tedesco apolitico» si possono vedere in F. Beiser, Enlightenment, Revolution, and Romanticism: The Genesis of German Political Thought 17901800, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1992; e in D. Blackbourn, The Long Nineteenth Century: A History of Germany, 1780-1919, Oxford University Press, Oxford 1997. 6 la filosofia tedesca losofia tedesca dobbiamo ricordare, come ebbe a dire Hegel, che il vero è l’intero, che le idee e le strutture sociali non si ordinano separatamente in comparti diversi, bensí procedono di pari passo, ora adattandosi agevolmente le une alle altre, ora stridendo tra loro e spingendo al cambiamento – e proprio un cambiamento era allora nell’aria, in «Germania». Capire la filosofia tedesca significa dunque capire, almeno in parte, quell’«intero», nonché il motivo per cui le forme contingenti che quest’ultimo assume abbiano finito per rivestire un significato universale per noi. Per comprendere tutto ciò è utile delineare, sia pure per brevi tratti, alcuni problemi che la «Germania» dell’epoca si trovò ad affrontare, e alcune tensioni che quei problemi andavano inevitabilmente generando. Alla metà del XVIII secolo la «Germania» conosceva un forte incremento demografico; stava affrontando il passaggio a una commercializzazione della produzione agricola e la sua economia cominciava ad avvertire le prime, deboli spinte espansioniste già all’opera in altre parti d’Europa. La realtà sociale e politica tedesca, tuttavia, era alquanto diversificata e profondamente instabile. In alcune aree gli effetti della Guerra dei Trent’anni erano stati devastanti; ad esempio il Württemberg (la regione natale di Hegel) era sceso da un popolazione di 445 000 abitanti nel 1622 a una popolazione di soli 97 000 nel 16393. Sull’economia della regione quegli effetti erano stati addirittura peggiori; l’economia tedesca, già malconcia per lo spostamento dei commerci verso l’Atlantico Settentrionale, in conseguenza della guerra non poté che indebolirsi ulteriormente. La guerra aveva inoltre modificato gli antagonismi, trasformandoli, da pura e semplice opposizione fra protestantesimo e cattolicesimo, in varie questioni di carattere piú territoriale; numerosi principi avevano infatti stretto alleanza contro l’imperatore (rimettendo cosí in questione l’assetto e, in definitiva, persino l’esistenza del Sacro Romano Impero), con il risultato di una perdita di autorità da parte imperiale in favore dei governatori locali. In questo periodo, i sovrani locali finirono per esigere piú denaro (in aggiunta a quanto già impegnavano per le spese militari, alle quali si sentivano obbligati) al fine di mantenere un tenore di vita, a corte, analogo a quello della Francia, che ne aveva stabilito il modello; molti principi tedeschi facevano di tutto per emulare 3 Queste cifre sono tratte da M. Fulbrook, A Concise History of Germany, Cambridge University Press, Cambridge 1990, p. 64. introduzione 7 la corte reale di Versailles, con iniziative pretenziose come promuovere balli, edificare palazzi sontuosi, mantenere una schiera di cortigiani, sovvenzionare le arti a corte e cosí via. La vita di corte però aveva dei costi, e quei principi furono perciò spinti a cercare un modo piú efficiente per governare i loro dominî, alzare le tasse e promuovere la crescita economica. Ne risultò (almeno in un primo momento) una crescente richiesta d’una burocrazia efficiente in questo senso, capace di esercitare le piú moderne tecniche amministrative per gestire in modo efficace gli affari dei principi. A tal fine i governanti guardavano alle loro università, che in Germania erano numerose, proprio in ragione dell’alto numero di principi: ognuno di loro voleva essere certo che la propria università licenziasse chierici come si deve, cioè ligi alla corretta ortodossia, e amministratori come si deve, cioè capaci di gestire al meglio i suoi dominî. Queste pressanti esigenze, a loro volta, contribuirono a preparare la strada a una graduale introduzione del pensiero illuminista all’interno del suolo tedesco: i principi furono via via persuasi dai loro stessi funzionari che solo grazie a idee piú moderne e piú aggiornate sulla società e sull’amministrazione avrebbero potuto perseguire i nuovi obiettivi d’un governo assolutista, con un adeguato apparato di corte. Tuttavia, proprio le medesime istanze pressanti contribuirono tanto a confermare quanto a intensificare le tendenze dei monarchi a governare senza riguardo per la legalità; questi diventarono inoltre sempre piú ostili verso tutti quegli elementi della tradizione e del diritto ereditato che i loro consiglieri illuminati presentavano come ostacoli al conseguimento delle ricchezze, necessarie in quantità sempre maggiore, per trasformare le loro minuscole corti in tante piccole Versailles. I principi d’altronde non erano particolarmente interessati a incoraggiare una crescita economica che avrebbe potuto favorire il sorgere di centri di potere autonomi, né i loro funzionari vedevano di buon occhio il fatto che altri gruppi ottenessero uno status sociale e un potere maggiore del loro. Questo insieme di circostanze ridusse seriamente le possibilità di sviluppo economico e di creazione di una classe media indipendente e intraprendente. Nel medesimo tempo in cui venivano introdotti i nuovi ideali illuministi provenienti dalla Gran Bretagna e dalla Francia, e la popolazione tornava ad aumentare (nel 1740, ad esempio, il Württemberg era risalito a 472 000 abitanti), l’economia, nonostante una certa regolarità nella crescita, rimaneva perciò incapace di far fronte a un cosí ra 8 la filosofia tedesca pido aumento demografico4. Pertanto, l’economia non era affatto in grado di offrire sufficienti opportunità d’occupazione a tutti i giovani che entravano nelle università o nei seminari per formarsi alle idee dei Lumi, con la speranza di intraprendere in seguito una carriera professionale adeguata. La situazione peggiorò ulteriormente per il fatto che, dopo la Guerra dei Trent’anni, qualunque professione intellettuale divenne a tutti gli effetti un impiego statale: ciò significa che ogni occupazione di questo genere finí, in pratica, per dipendere interamente da un sistema clientelare gestito dall’alto. (Il numero dei giovani non aristocratici che per sostentarsi poteva contare sul patrimonio familiare o su una carriera indipendente e al di fuori dell’impiego pubblico era infatti piuttosto ridotto). Tuttavia, le stesse dottrine illuministe a cui questi giovani venivano educati, e che imparavano ad applicare, favorivano di per sé l’introduzione di principî d’unità, ordine e razionalità nella pratica amministrativa; di conseguenza, la burocrazia di cui costoro entravano a far parte finí per trovarsi sempre piú in tensione con l’arbitrio del potere dei principi; il quale, ovviamente, rimaneva l’unica fonte di potere clientelare cui quei burocrati stessi, in prima battuta, dovevano il loro impiego. Gli amministratori, di fatto, erano stati addestrati a mordere la mano stessa che li nutriva; ma non può sorprendere che, all’eventuale piacere che quel morso avrebbe procurato loro (con conseguente perdita dell’impiego), essi in genere preferissero il sostentamento che veniva loro offerto. Il che però, lungi dal rimuovere la tensione di cui sopra, non faceva che palesare le ragioni della loro scelta. Ciò accadeva in ognuna delle singole unità politiche e culturali in cui era frammentata l’intera «Germania» del tempo. Spostarsi da una zona a un’altra della «Germania» significava allora, in tutti i sensi, viaggiare verso un paese straniero. Durante il percorso cambiavano le leggi, cambiava il dialetto, cambiava il modo di vestire, e cambiavano le usanze; le strade erano pessime, e la comunicazione tra le diverse zone difficoltosa (e di conseguenza poco frequente); inoltre, per compiere il viaggio si richiedeva di solito un passaporto. Ogni «libertà» era ancora una libertà pensata all’interno del contesto dell’ancien régime, vale a dire non era un «diritto» universale, bensí il «privilegio» di fare una determinata 4 Per le cifre del Wüttemberg si veda J. Sheehan, German History: 1770-1866, Oxford University Press, Oxford 1989, p. 75. introduzione 9 cosa – come utilizzare chiodi di ferro, o raccogliere la legna da una particolare riserva –, e dipendeva dalla zona in cui tale privilegio veniva esercitato. Trovarsi al di fuori della propria particolare località di pertinenza significava quindi essere senza «diritti», magari fino a esserne del tutto privi. Il «particolarismo» inteso in questo senso, ossia l’appartenere a un territorio e l’esservi confinati, si scontrava con la crescente fiducia che l’illuminismo riversava nel diffondersi della ragione e dell’«universalismo»; i quali, peraltro, venivano professati in quanto mezzi idonei a procurare ai principi «particolaristi» i fondi necessari per proseguire la gestione clientelare delle professioni intellettuali. Tutto ciò si accompagnava a un senso di fragilità non meno marcato, che all’epoca avvolgeva i tedeschi in tutti gli ambiti della loro esistenza. Gli uomini allora erano soliti sposarsi intorno ai ventotto anni e le donne intorno ai venticinque, ma a quell’età arrivava piú o meno la metà della popolazione, e solo il quattro per cento di essa viveva piú di sessantacinque anni. L’incremento della povertà e la minaccia (letterale e non metaforica) di perdere casa e riparo pendeva sulla testa di gran parte dei «tedeschi», specialmente dei poveri. In questo contesto le comunità locali e le famiglie offrivano la sola protezione reale dai pericoli del mondo circostante, al prezzo però d’un conformismo sociale che, alla fine del XVIII secolo, era ormai divenuto soffocante. L’unica possibilità di scampo consisteva nell’andar via; e in quel secolo l’emigrazione nel «Nuovo Mondo» e in altre parti d’Europa (in particolare nell’Europa Orientale e in Turchia) finí per crescere. Oltre a tutti coloro che partirono per il «Nuovo Mondo», molti altri emigrarono spostandosi da un’area della Germania o dell’Europa a un’altra, e ciò in un’epoca in cui trovarsi al di fuori della propria terra d’origine significava – come s’è detto – esporsi particolarmente a tutti i generi di pericoli connessi alla mancanza di diritti civili. In «Germania» il periodo tra la metà e la fine del XVIII secolo fu gravato da alcune tensioni fondamentali, se non addirittura attraversato da esplicite contraddizioni. Da una parte si era in presenza di uno scenario sociale frammentario, pieno di pericoli, con un alto tasso di mortalità, che esigeva uno spiccato conformismo: atteggiamento che per molti rimaneva l’unico elemento di tranquillità in una vita altrimenti precaria, ma che per altri era pian piano divenuto soffocante e poco rassicurante. Per gli aspiranti burocrati e i loro figli spirava un vento nuovo, ma ai loro occhi 10 la filosofia tedesca ben pochi cambiamenti sembravano seguirne. Non senza sorpresa, le antiche usanze finirono cosí per collassare proprio nel momento in cui davano l’impressione di essere assai stabili; in questo periodo, ad esempio, tanto in Europa quanto nell’America Settentrionale il numero delle nascite illegittime subí un’impennata, visto che i giovani, frustrati dalla necessità di posticipare il matrimonio, spesso forzavano le nozze con una gravidanza prematrimoniale (e, come sempre, le donne finivano per sobbarcarsi i costi di tutte quelle gravidanze che non sfociavano poi effettivamente nel matrimonio sperato). In America, la prospettiva di una nuova terra, apparentemente illimitata, spesso garantiva ai giovani di quella società per lo piú agricola una via di uscita; una gravidanza, esigendo un matrimonio, non di rado risolveva il problema della contrarietà dei genitori, e la nuova coppia di coniugi poteva cosí stabilirsi nella propria terra per costruire un futuro assieme. In Germania, però, tutto ciò non era possibile, e tale situazione non fece altro che accrescere le tensioni sociali già in atto. Per molti, questo significava dipendere dalla famiglia per un lungo periodo, anche nell’età adulta; in altri casi, dava ai presunti fidanzati la scusa che cercavano per evitare di assumersi le responsabilità che ci si attendeva da loro. Per la fiorente classe degli amministratori, e per coloro i quali aspiravano a farne parte, sorsero ovunque «circoli di lettura»; circostanza che spinse persino alcuni degli osservatori di tendenze conservatrici a deplorare ciò a cui assistevano come se si trattasse di una nuova patologia: la «dipendenza da lettura» (Lesesucht), malattia che si pensava potesse attecchire particolarmente su un certo genere di persone (specialmente i servi privi dell’opportuna soggezione nei confronti del padrone, le donne i cui costumi non si adattavano alla moralità del tempo e, ovviamente, i giovani studenti facilmente impressionabili). In particolare, erano i romanzi a dare ai giovani la possibilità di immaginare una vita diversa da quella che vivevano o a cui sembravano destinati, e alle persone piú anziane un mezzo per discutere nei circoli e nelle società di lettura di un materiale che attaccava l’arbitrio dell’autorità dei principi e lodava in generale le virtú delle professioni intellettuali. La letteratura di viaggio – con la sua capacità di esercitare l’immaginazione su differenti stili di vita – divenne di per sé un culto. Nel corso del periodo, nelle aree germanofone d’Europa la pubblicazione di libri aumentò piú rapidamente che in qualunque altro luogo; fatto che indica non solo come l’alfabetizzazione fosse in crescita, ma introduzione 11 anche come le persone si aspettassero ormai qualcosa di piú dai libri che leggevano. La pubblicazione dei libri aveva subito un drastico crollo dopo le devastazioni della Guerra dei Trent’anni; per contro, come ha sottolineato Robert Darnton, nel 1764 il catalogo delle nuove acquisizioni bibliografiche della città di Lipsia aveva raggiunto circa i 1200 titoli, pareggiando la quota precedente alla guerra, mentre nel 1770 (che è anche l’anno di nascita di Hegel e Hölderlin) era salito a 1600 titoli, e nel 1800 a 50005. La cultura emergente dei circoli di lettura non era una cultura «di corte», ma nemmeno una cultura «popolare». Era la cultura di un gruppo in ascesa che non si concepiva tanto come borghese, quanto piuttosto come colto, istruito e, cosa piú importante, autonomo, in grado cioè di condursi da sé. Il suo ideale era cristallizzato nella parola tedesca Bildung, che indica un certo modo educato, raffinato e colto di rapportarsi alle cose. Un uomo o una donna dotati di Bildung non erano semplicemente persone istruite, ma persone di buon gusto, educate a una complessiva capacità di cogliere il mondo intorno a loro e capaci perciò di condursi in «autonomia», in contrasto con le predominanti spinte all’omologazione conformista. Per acquisire Bildung inoltre non bastava aver ricevuto un’«educazione»; questa infatti era possibile acquisirla anche, per cosí dire, in modo meramente passivo, apprendendo le cose in maniera meccanica, oppure facendo propria l’abilità di imitare le opinioni che all’epoca godevano di approvazione generale. Essere una persona di Bildung, invece, richiedeva la capacità di fare di se stessi un uomo o una donna colti, dotati di buon gusto e intelligenza. L’uomo o la donna di Bildung costituivano i membri ideali di un circolo di lettura; e tutti costoro, nel loro insieme, giunsero a considerarsi alla stregua di un «pubblico»: una Öffentlichkeit, ovvero un gruppo di persone che aveva collettivamente e liberamente raggiunto la capacità di valutare ciò che è buono o cattivo in ambito culturale, politico e sociale. Nel saggio da lui redatto nel 1784, e che gli valse un premio, Moses Mendelssohn (figura chiave dell’illuminismo tedesco) giunse addirittura a identificare l’illuminismo stesso con la Bildung. In questo contesto, l’ideale della Bildung si intrecciò agevolmente ad altre tendenze allora emergenti in Germania e nel resto d’Europa, quali quelle della religione del sentimento. La Rifor5 R. Darnton, History of Reading, in P. Burke (a cura di), New Perspectives on Historical Writing, Pennsylvania University Press, University Park (Pa) 1992. 12 la filosofia tedesca ma aveva esortato a mettere in dubbio l’autorità ecclesiastica; ma quando le guerre di religione e la Guerra dei Trent’anni erano ormai diventate un polveroso ricordo, essa di fatto aveva finito per deporre un’autorità dottrinaria, sostituendola a favore della propria e di altre. L’assetto che in Germania fece seguito alle guerre, e che permetteva ai principi locali di decidere quale chiesa dovesse essere riconosciuta nel loro dominio, ebbe a sua volta il paradossale risultato, da un lato, di indebolire ulteriormente la pretesa di autorità assoluta che in precedenza la chiesa aveva rivendicato per sé, e dall’altro di imprimere nel tessuto sociale, con fermezza ancora maggiore, proprio un’autorità di quel tipo. La risoluzione che obbligava ad attenersi a una particolare confessione in ciascuno dei diversi territori della Germania non fece che sottolineare la frammentazione della «cristianità», rendendo del tutto evidente che quest’ultima non parlava ormai piú necessariamente a una sola voce. L’ovvia conclusione fu che determinare cosa mai davvero «significasse» il termine cristianità richiedeva una riflessione ulteriore; e alla luce di ciò molti cristiani fecero proprio il consiglio di Agostino e si rivolsero alla loro interiorità per trovare la «vera» voce della cristianità che era stata soffocata, se non addirittura ridotta al silenzio, dalla frammentazione ecclesiastica. Molti pensatori protestanti spronarono le persone a ricercare la presenza di Dio e della sua volontà nel cuore, piú che nei libri di teologia (un movimento analogo nacque anche all’interno delle aree cattoliche). In molte zone della Germania protestante questo movimento prese la forma di quel che sarebbe poi divenuto noto come Pietismo: il quale esaltava la lettura di gruppo della Bibbia e la riflessione personale o collettiva sulla libera espressione del «cuore» come mezzo per trasformare se stessi, invitando a convogliare gli sforzi verso un cambiamento della società, ora che la Riforma era stata (parzialmente) portata a compimento all’interno della chiesa stessa. Il Pietismo inoltre insegnava alle persone a compiere una sorta di autoriflessione il cui fulcro consisteva nel tenere diari, discutere la propria esperienza di fede con gli altri, attenersi saldamente a un principio e, in breve, imparare a vedere se si stava conducendo un’esistenza in accordo con il volere di Dio. Nel secolo precedente, Leibniz aveva sostenuto che, in virtú della perfezione di Dio, questo mondo doveva essere «il migliore dei mondi possibili», e la nozione di perfezione contenuta nella dottrina leibniziana era poi divenuta essa stessa una sorta di ortodossia, in Germania, grazie al suo sviluppo e alla sua codificazione introduzione 13 a opera di Christian Wolff. Le «perfezioni» del mondo, associate alle «armonie» che avrebbero dovuto corrispondervi, portarono persino al conio di una parola nuova, «ottimismo»; e nel 1755 l’Accademia delle Scienze di Berlino bandí un premio destinato alla stesura di un saggio su questo tema: «tutto è bene»6. L’immane terremoto di Lisbona che ebbe luogo di lí a poco spinse Voltaire a ridicolizzare l’intera questione nel suo romanzo Candido; dopodiché si fece sempre piú difficile affermare che nel mondo ogni cosa si trovasse nell’ordine che le spettava. Questa linea di pensiero, tuttavia, non si riduceva a semplici affermazioni compiaciute sul fatto che il mondo fosse proprio come doveva essere. Ricercare la perfezione di Dio nel mondo significava riflettere sull’amore di Dio per il mondo; il che, a sua volta, cominciò gradualmente a minare la tetra immagine della natura umana presentata da alcuni pensatori cristiani (in particolare calvinisti), in favore di una visione che concepiva le imperfezioni del mondo come passibili d’una sorta di redenzione nel qui e ora, e non in una qualche vita futura. Stando a questa prospettiva emergente, dovere dei cristiani era perciò quello di riformare il mondo alla luce dell’amore di Dio, e per farlo dovevano distogliere lo sguardo dall’ortodossia, finanche da una considerazione teologica della cristianità eccessivamente intellettualistica, e concentrarsi invece sulla verità presente «dentro» i loro «cuori», al fine di realizzare il regno di Dio sulla terra. L’enfasi mondana posta dall’illuminismo sulla compassione e sull’empatia si sposò dunque alla perfezione con questo sentimento religioso volto a promuovere negli uomini l’amore di Dio per il mondo, tipico della riflessione pietista; e allo stesso tempo si adattò, anche se a fatica, all’idea secondo cui si dovrebbe indirizzare la propria vita alla progressiva coltivazione di se stessi, attenendosi a un principio morale. I giovani istruiti, uomini e donne, dei «circoli di lettura» e delle università sposarono cosí tanto l’idea di una Bildung intesa come capacità di condurre se stessi, quanto quella di una soggettività pensata come riflessione intima sul sentimento religioso, concepito a sua volta come principio di autonomia. Questa mescolanza diede luogo a una modalità di autocomprensione lievemente confusa, ma comunque propositiva, che nel migliore dei casi si adattava solo in maniera precaria 6 Il tema del concorso bandito dall’Accademia delle Scienze di Berlino per l’anno 1755 era cosí formulato: «On demande l’examen du système de Pope, contenu dans la proposition: Tout est bien» [N.d.T.]. 14 la filosofia tedesca al mondo frammentato, autoritario e conformista nel quale costoro sembravano destinati a vivere. Non si trattava soltanto del fatto che aspettative crescenti finissero per non trovare conferme nelle condizioni sociali, né semplicemente di una questione legata alle forze economiche o a urgenze di classe tali da costringere le persone a cambiare abitudini per adeguarsi ai nuovi modi di produzione. Nella Germania dell’epoca i giovani, uomini e donne, si ritrovarono piuttosto a vivere di persona un dilemma pratico, esistenziale: molti di loro non riuscivano piú a essere persone capaci di adattarsi a quel tipo di milieu sociale; e fu quindi ovvio che ai loro occhi emergesse anche il problema di cosa significava per loro essere in generale una persona. Quando la cogenza normativa del vecchio ordine cominciò lentamente a sgretolarsi sotto ai loro piedi, le generazioni piú giovani (grossomodo quelle divenute adulte nel corso degli anni Settanta del Settecento, nonché quelle nate all’inizio di quello stesso decennio) giunsero a credere che la vita che si trovavano a condurre non avesse precedenti, e andarono cosí in cerca di un nuovo insieme di significati capace di ancorarla in quello che non era ancora diventato un vero e proprio «mondo nuovo»7. Per ragioni del tutto contingenti, i tedeschi dell’epoca si trovavano perciò ad affrontare di petto quel genere di problemi che oggi chiamiamo «moderni». La forza della tradizione, delle Scritture, persino della natura e della religione in generale, aveva ai loro occhi subito uno scossone: qualunque fosse stato l’orientamento offerto loro in passato da queste cose, esso ora sembrava del tutto assente, o quantomeno rimesso in gioco. Come è ovvio, la loro intenzione non era puramente e semplicemente di abbandonare l’appello alle Scritture o alla tradizione; piuttosto, ritenevano che, per poter costituire ancora un valido appiglio, tutte quelle cose richiedessero prove ulteriori, e l’autorità della tradizione e della religione costituita non fosse piú autoevidente o garantita di per sé. Tutto ciò non dipendeva tanto dal fatto che le nuove generazioni si trovavano di fronte a un mondo sempre piú complesso, per cui erano chiamate a essere piú esigenti dei loro genitori; il punto era che a essere cambiato era proprio il loro mondo sociale, e anche loro stesse 7 Il testo dice «brave new world», espressione che allude evidentemente al titolo del romanzo di Aldous Huxley, Brave New World del 1932 (Il mondo nuovo, trad. it. di L. Gigli, in A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano 1989) [N.d.T.]. introduzione 15 erano cambiate: di conseguenza, appellarsi ai criteri che in passato avevano funzionato per i loro antenati – in ossequio all’antichissimo ideale particolaristico di origine genuinamente «tedesca»: «un posto per tutti e tutti al loro posto» – non costituiva piú una via praticabile. Ciò che un tempo era parso stabile e definitivo prese cosí a mostrarsi vuoi questione di convenzioni variabili, vuoi, nel migliore dei casi, qualcosa di «stabilito» dagli esseri umani nel mondo; non piú, tuttavia, come parte della struttura eterna delle cose. Ciò che a quei giovani veniva lasciato erano semmai le «loro proprie vite», e quanto erano «chiamati» a fare era condurle. Tutto questo, però, non faceva che sollevare un ulteriore problema: qual era il tipo di vita da considerarsi come «propria»? Tentando di interpretare il mondo, essi si accorsero che le istituzioni e le pratiche che li circondavano erano ben poco di ausilio in questo compito, dal momento che loro non ci si «ritrovavano» piú e non vi «scorgevano» il proprio riflesso. Metaforicamente parlando, si scoprirono perciò «privi di asilo»; il conforto e la protezione offerti dal proprio luogo d’origine, che avevano garantito una struttura alla vita di moltissimi avi, per loro non costituivano piú un che di immediato. Non per questo si sentivano privi di direzione o di guida; vivevano pur sempre in una società ordinata e regolamentata, che aveva ritagliato loro dei ruoli specifici da svolgere. Furono perciò costretti a farsi carico, nelle loro vite, di una specie di dualismo: da un lato la consapevolezza (a tratti soffocante) di ciò che ci si aspettava facessero – ossia la sensazione che il cammino della loro vita fosse già prestabilito – associata, dall’altro, alla consapevolezza altrettanto stringente di non essere affatto «determinati» in tutto e per tutto da questi percorsi socialmente predefiniti, e che ciò che erano chiamati a condurre erano le «loro proprie vite». Infine tale situazione si presentava loro insieme a quella che si può definire una questione urgente sul piano sia morale sia politico: come vivere, come mantenersi fedeli a familiari, amici, al contesto sociale, talora persino alla religione, sostenendo nel contempo questa posizione alienata e «duplice» nei confronti di se stessi? La «Germania» finí cosí per trovarsi in una situazione rivoluzionaria, anche se in realtà nessuno faceva appello alla rivoluzione. Nell’aria c’era la sensazione palpabile che le cose dovessero cambiare, ma nessuno era sicuro della forma che quel cambiamento avrebbe dovuto assumere, né di dove questo potesse condurre. Avvertendo che il passato non era piú, di per sé solo, una guida 16 la filosofia tedesca adeguata, essi si trovarono cosí nella necessità di confezionare risposte a interrogativi per loro privi di precedenti, via via che questi si presentavano. Non sorprende che Rousseau esercitasse tanta attrazione su queste generazioni. Le sue idee si accordavano con tutto ciò di cui quelle persone facevano esperienza: per prima cosa, la consapevolezza di essere «corrotti» dalla civiltà (con la sua cultura di corte e i cortigiani ossequiosi, ciascuno con gli occhi fissi su ciò che facevano gli altri per decidere chi imitare, oppure pronti a sbirciare un metaforico breviario sociale che guidasse il loro agire); in secondo luogo, l’idea che, per contro, avrebbero dovuto cercare una sorta di autonomia dagli intricati vincoli della società, essere cioè «naturali», ritrovare un’autenticità nell’esistenza, essere in grado di condursi da soli e considerare le emozioni come una guida piú «naturale» per la vita. Il culto del sentimento e della sensibilità mise, specie in Germania, forti radici. L’unica possibilità di esprimersi per uomini la cui coscienza di sé e del proprio mondo era duplice e divisa in quel modo – ciò che gli idealisti tedeschi avrebbero piú tardi chiamato «scissione» (Entzweiung) – fu quella di coltivare una sensibilità autentica, di attenersi a ciò che era «proprio» e indipendente dal mondo conformista e artificioso delle corti e della burocrazia che già li circondava, o inevitabilmente li attendeva. La loro «relazione a se stessi» – il modo di avvertire l’andamento della propria esistenza, la consapevolezza di come si adattavano al piano previsto per loro e alla piú ampia disposizione generale delle cose – era apparentemente imposto «dall’esterno», da un sistema sociale che ne pianificava la vita e imponeva un insieme altamente preordinato di regole da seguire. Erano schiacciati dal pensiero opprimente di non poter aspirare a vivere la «propria» vita all’interno dell’ambito sociale che era stato loro assegnato, ma di non poter fare altro che prendere in consegna vite «ereditate». Ma la vita che sentivano come propria doveva essere «naturale», nonché venir condotta all’interno del regno di quei «sentimenti» che solo loro potevano coltivare e di cui potevano autenticamente rispondere. In tale contesto, il culto del sentimento e della sensibilità sembrava concedere la forza per ricavarsi (o, immedesimandosi nel loro punto di vista, per «scoprire») uno spazio all’interno della vita nel quale ciascuno giungesse a intrattenere una relazione diretta con se stesso e con gli altri – rapportandosi a sé e agli altri per quello che era la sua natura «reale e indipendente», e non nel modo in cui la società o la famiglia avevano stabilito per lui. Questa maniera di introduzione 17 relazionarsi emotivamente con se stessi, significava anche relazionarsi con la natura tramite qualcosa di «proprio», e non tramite qualcosa che la società avesse comandato o imposto. Perché essere «naturali» e in contatto con la propria «sensibilità» era necessario per essere indipendenti dalle aspettative sociali a cui quegli individui si sentivano tanto estranei. Questo modo di prendere posizione verso se stessi, gli altri e la natura sembrò (per lo meno a molti) un modo per consolarsi, o addirittura per riconciliarsi con ciò che altrimenti pareva costituire un ordine immutabile. Era possibile cambiare quel mondo? La filosofia dominante all’epoca, quella wolffiana – una forma di sistematizzazione del pensiero di Leibniz organizzata e codificata in maniera quasi legalistica –, riferiva che l’ordinamento corrente delle cose non corrispondeva semplicemente al modo in cui le potenze dominanti le avevano stabilite, bensí anche al modo stesso in cui il mondo doveva essere in sé. Inoltre affermava che la maniera migliore per concepire lo Stato era intenderlo come una «macchina» che idealmente doveva funzionare in base a principî resi efficaci e trasparenti dall’applicazione delle dottrine parlamentariste dell’illuminismo, per il tramite di amministratori ben addestrati. Allo stesso modo, la teologia «illuminista» diceva ai propri lettori di abbandonare la superstizione popolare, e di guardare ogni cosa dal punto di vista di un mondo concepito secondo i dettami di una ragione imparziale. La teologia dei Lumi giunse cosí a considerarsi al servizio di Dio proprio in quanto era al servizio dei sovrani. In questa forma di «illuminismo» che prese piede nella Germania degli albori, il mondo retto da principi assolutisti, istruiti e consigliati da teologi e amministratori «illuminati» sarebbe stato qualcosa di prossimo al mondo perfetto, almeno nella misura in cui poteva realizzarlo l’essere umano, che è peccatore. Infatti, ogni cosa in esso stava al proprio posto, esattamente come doveva essere. Questo mondo, però, venne scosso profondamente dalla grande esplosione determinata, nel 1774, dalla pubblicazione del romanzo Le passioni del giovane Werther (titolo reso fin da subito, in maniera fuorviante, come «i dolori del giovane Werther») da parte del ventitreenne Johann Wolfgang Goethe8. Questo evento gettò lo 8 I Leiden di cui parla il titolo tedesco non sono infatti semplicemente «dolori»; sono anche «sofferenze», e corrispondono al termine con cui si designa la Passione di Cristo. Nel contesto teologico evocato dal titolo del libro, sarebbe quantomeno inusuale – se non affatto improbabile – rendere le «passioni» di Cristo con la parola «dolori» (cfr. J. W. 18 la filosofia tedesca scompiglio in Germania, e anzi nell’Europa intera, facendo istantaneamente del suo giovane autore una celebrità, forse addirittura la prima grande celebrità letteraria (un uomo che tutti volevano incontrare, e al quale volevano porre domande sulla relazione tra la sua esperienza personale e gli eventi narrati nel libro). Si dice che in tutta Europa questo evento letterario ispirò un’ondata di suicidi nelle generazioni a venire. La trama del Werther è semplice: un giovane, Werther appunto, si innamora di una ragazza, Charlotte (Lotte), che però è promessa a un altro uomo, un amico di Werther. L’amore del giovane, sebbene ricambiato da Lotte, è disperato, e l’indifferenza del mondo (tanto sociale, quanto naturale) nei confronti delle sofferenze del suo cuore e di quello di Lotte lo divora al punto che, inesorabilmente, egli non trova altra via d’uscita che spararsi con la pistola del marito di lei. Un «curatore» dell’opera raccoglie, poi, le lettere di Werther e le pubblica arricchendole con commenti sparsi (il fatto, piuttosto ovvio, che il libro contenesse un misto di elementi autobiografici, riferimenti a persone reali e invenzioni pure e semplici contribuí ad aumentarne il fascino: la gente voleva sapere quanto della storia fosse «realmente» accaduto). Ciò che in quel libro elettrizzava il pubblico del tempo (e che tuttora è in grado di galvanizzare un pubblico giovane e con la mente abbastanza aperta per apprezzarlo, nonostante la sua atmosfera risulti un po’ bizzarra al lettore odierno) era il suo modo di esprimere alla perfezione il sentire di allora, offrendone contemporaneamente un commento, per cosí dire, dall’interno. Werther viene presentato come una persona che vive il culto del sentimento e della sensibilità, sperimenta l’alienazione dal mondo sociale che lo circonda, e giunge alla conclusione che, se una tale sensibilità resta inappagata, la vita semplicemente non vale la pena di essere vissuta (ovvero alla conclusione che o lui o il marito di Lotte debbano sparire). Werther cioè effettivamente corrispondeva al suo pubblico (di lettori), e rispecchiava ai loro occhi ciò che essi stessi (sia pure in modo germinale) sostenevano di essere. Come loro, Werther era totalmente assorbito dalle «convenzioni» o dalla «moda» della sensibilità e del sentimento; diversamente da loro però (o meglio, diversamente da alcuni di loro), ne era assorbito a un punto tale da non poter far altro che trarne l’unica conclusione logica: suicidarsi al cospetto del proprio irrevocabile fallimento. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di G. Baioni, trad. it. di A. Spaini, note di S. Sbarra, Einaudi, Torino 2005). [N.d.T.]. introduzione 19 Il pubblico, i lettori, erano altrettanto assorbiti da quella stessa «moda» (altrimenti il libro non avrebbe esercitato su di loro un richiamo di quella portata); ma, leggendo l’opera (assistiti, sempre in maniera assai sottile, dalla presunta oggettività del «curatore»), al contempo ne prendevano le distanze, e perciò, mentre lo leggevano, finivano per non esserne assorbiti del tutto. Il Werther svolse cosí il ruolo, quasi senza precedenti, di far effettivamente sorgere nei propri lettori una coscienza duplice, o almeno di portarla a piena consapevolezza; consapevolezza del fatto che essi erano quel personaggio, eppure, proprio per averne letto la storia, non lo erano piú. Il culto di sentimento e sensibilità che, si pensava, li avrebbe resi liberi, o almeno avrebbe offerto loro un nucleo di indipendenza da quelle circostanze sociali alienanti nelle quali versavano, si mostrava non meno alienante: era infatti gravemente oppresso da una coscienza duplice, proprio come la condizione dalla quale si credeva che questo stesso culto fosse in grado di liberare. Il medesimo culto del sentimento aveva indotto le persone a credere che ciascuno, per quanto destinato a una vita di torpore burocratico e di conformismo, avrebbe potuto trovare un nucleo «interiore» di sentimento e sensibilità soggettiva, indipendente da tutto il resto, che lo avrebbe liberato da quella torpida realtà «esteriore», anche se doveva subirne l’andamento e adeguarvisi nei fatti. Il Werther invece mostrava a tutti costoro che la moda del sentimento (unita alla conseguente ipocrisia di quanti fingevano di provare emozioni per essere al passo coi tempi) era essa stessa autodistruttiva e, rendendo ciò palese, li allontanava da essa, senza nel contempo eliminarla del tutto dalla loro esperienza. Il Werther non era un romanzo didattico; non terminava predicando una morale, non delineava il modo appropriato di vivere, né quale alternativa vi fosse a una vita scissa, entzweites. Semplicemente, rendeva familiare ai suoi lettori chi essi stessi fossero, e che cosa ciò significasse (con raccapriccio dell’autore, pare che alcuni lettori giungessero a trarre proprio le medesime conclusioni di Werther, finendo per gettarsi da un ponte o per spararsi, portando con sé una copia del Werther mentre lo facevano). Sarebbe semplicistico sostenere che il Werther, presso il pubblico dei lettori, abbia pienamente causato, o almeno accelerato, un mutamento di coscienza (ovvero, per dirla nei termini degli idealisti, un cambiamento nel modo di relazionarsi a se stessi). Tuttavia, colse e fissò un modo di sentire e un atteggiamento già diffusi, dando loro una forma. Per i suoi lettori, comunque, quest’ope- 20 la filosofia tedesca ra sollevò in modo scioccante e coinvolgente il problema centrale dell’epoca: che cosa significa vivere la «propria» vita? Che cosa significa essere una persona «moderna», o piú esattamente un tedesco moderno? Alla vertigine suscitata dalla popolarità del Werther non seguí tuttavia che una serie di anni di disillusione. Dal successo del Werther, infatti, non derivò alcunché di paragonabile sul piano letterario. Goethe (almeno da principio) non diede al proprio successo una continuazione altrettanto emozionante e avvincente e, sebbene seguitasse a scrivere e a godere della propria fama letteraria, nessun’altra sua opera seppe prendere il posto (o sviluppare le implicazioni) del Werther 9. La grande esplosione del Werther sembrò con ciò esaurirsi; nella vita tedesca, non sembrava profilarsi nulla all’orizzonte che potesse invocare la medesima autorità. L’insoddisfazione e il senso di spaesamento esistenziale che il Werther contribuí non solo a portare alla luce, ma a scatenare, non scomparvero affatto; le questioni cruciali che esso aveva sollevato rimasero però irrisolte, e in lontananza non si scorgeva nulla di utile per organizzare qualcosa di simile a una risposta. Era chiaro che una rivoluzione era in fermento; ma non si trattava di una rivoluzione politica, né certo avrebbe potuto somigliarvi (almeno da principio). In fin dei conti, il carattere oppressivo della vita in «Germania» non sembrava possedere un’origine cosí definita da farne il bersaglio per una ribellione. Nella «Germania» frammentata non vi erano né un’unica corte, né un’unica chiesa, e neppure un’unica economia cui si potesse ascrivere la responsabilità della situazione. Non c’era una Bastiglia che teneva prigionieri i dissidenti della vita «tedesca». Anzi, non c’era affatto una vita «tedesca» – c’erano soltanto la vita sassone, quella prussiana, quella francofortese, quella sveva e via dicendo. Tuttavia il Werther suggeriva che un certo sentire ribolliva in tutta la «Germania», forse addirittura in tutta Europa; e che le cose, nel senso piú lato del termine, dovevano cambiare. Per contro, la filosofia ufficiale del tempo, quella wolffiana, dimostrava che «le cose» stavano esattamente nel modo in cui dovevano, conformemente alla natura delle cose in sé. Una coscienza scissa, una dualità vissuta nella vita 9 L’unico altro candidato a tale ruolo avrebbe potuto essere il dramma di Schiller I masnadieri, con i suoi temi legati alla virtú personale, alla resistenza contro l’oppressione, e al sorgere della consapevolezza dei propri doveri; il dramma di Schiller, però, sebbene alquanto popolare, non seppe catturare l’immaginazione del pubblico come aveva fatto l’opera di Goethe, poiché non riuscí a coglierne altrettanto bene gli umori. introduzione 21 di ciascuno sembrava costituire la conseguenza necessaria non di un qualche assetto contingente, bensí del modo in cui le cose erano in se stesse di necessità. Nel 1781, però, le cose in effetti cambiarono. A Königsberg, un lontano avamposto della Prussia, addirittura al di fuori dei dominî del Sacro Romano Impero, si costituí un centro dell’illuminismo scozzese e inglese, frutto del grande scambio mercantile di quell’area. Le preoccupazioni della marina britannica su dove procurarsi un legname dal giusto equilibrio di rigidità e flessibilità, necessario alla costruzione degli alberi maestri delle imbarcazioni, aveva condotto a un intenso coinvolgimento della Gran Bretagna nel commercio baltico di legname, che partiva da Königsberg. Grazie all’ampio insediamento britannico a Königsberg il pensiero illuminista scozzese si mescolò gradualmente con il pensiero tedesco. Da questa miscela scaturí di lí a poco il fulmine che di fatto avrebbe demolito in un soffio il sistema metafisico che, con tutta la sua grandiosità, pareva tenere al suo posto l’intero scacchiere «tedesco». Detronizzando la vecchia metafisica, esso inserí un’idea nuova nel lessico con cui la Germania e l’Europa moderna parlavano della loro vita: auto-determinazione. Dopo Kant, nulla sarebbe piú stato lo stesso.