Capitolo Primo.................................... Il diritto ecclesiastico: definizione e fonti 1. Definizione Il diritto ecclesiastico è quella parte dell’ordinamento giuridico che ha per oggetto la disciplina del fenomeno religioso (TEDESCHI). Per fenomeno religioso si intende il complesso delle credenze e delle convinzioni dell’uomo organizzate in una visione del mondo fondata sull’idea del sacro e del divino. Tale fenomeno non coinvolge soltanto l’individuo, ma interessa anche le formazioni sociali in cui si sviluppa la dimensione religiosa della personalità umana: le comunità di credenti. Qualche autore (DEL GIUDICE F.) alla dizione «diritto ecclesiastico» preferisce quella di «diritto dei culti» per ricomprendere qualsiasi culto alla luce dei principi costituzionali vigenti. Ciò perché uno «Stato pluralista» non può riferirsi ad una unica ed esclusiva fonte di carattere spirituale, ma è tenuto ad osservare una condotta pluralista e laicista improntata sul riconoscimento della «libertà di culto» e dell’«eguaglianza in materia di credo religioso», principi garantiti e riconosciuti a tutti dalle moderne democrazie. Malgrado questa diversa precisazione terminologica la dottrina italiana continua a definire il rapporto Stato-confessioni religiose con diritto ecclesiastico privilegiando lo studio dei rapporti con la Chiesa cattolica sugli altri culti in virtù del fatto che il suo credo è il più diffuso fra cittadini italiani. A differenza di quanto accade in Paesi, quali la Gran Bretagna e la Francia, dove le tematiche relative al fenomeno religioso sono inserite nell’ambito del diritto pubblico, amministrativo o privato, in Italia – così come in Spagna, Austria, Germania etc. – tali tematiche sono trattate in maniera autonoma in quanto dotate di propri elementi di specificità e di criteri metodologici originali (MUSELLI - TOZZI). Il diritto ecclesiastico in Italia, pertanto, si caratterizza: — come parte del diritto interno in quanto trattasi di un complesso di norme che vige all’interno dello Stato; — quale ramo del diritto pubblico poiché contempla diritti soggettivi pubblici spettanti a persone fisiche o giuridiche che vivono nell’organizzazione statale. Le norme del diritto ecclesiastico non costituiscono un corpo organico, ma si trovano in tutti i settori nei quali si articola l’ordinamento giuridico, dal diritto internazionale (al quale appartengono, ad esempio, le norme delle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo) al diritto costituzionale (che enuncia i principi fondamentali in materia), al diritto civile (disciplina degli enti ecclesiastici, matrimonio religioso), al diritto penale (tutela penale del 6 Capitolo Primo sentimento religioso), al diritto del lavoro (rapporto di lavoro nelle organizzazioni di tendenza), al diritto amministrativo (edilizia di culto, beni culturali di interesse religioso). Dottrina Per Casuscelli il diritto ecclesiastico ha una struttura policentrica ed articolata che lo connota diversamente dalle altre scienze giuridiche, e pertanto si può affermare che: a) non fa parte del diritto internazionale: il diritto internazionale, infatti, comprende, nel suo ambito, solo norme che si indirizzano agli «Stati» e alle organizzazioni considerati come enti sovrani (ciò non esclude, comunque, che esista un «autonomo» diritto ecclesiastico internazionale che regoli i rapporti tra la Santa Sede e gli altri Stati) anche se vigono e sono riconosciute convenzioni multilaterali o bilaterali (es. Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (10-12-1948), Convenzione dei diritti del fanciullo (L. 176/1991) e numerose altre convenzioni sulla libertà religiosa delle minoranze nazionali, sui lavoratori migranti etc.); b) fa parte del diritto interno in quanto trattasi di un complesso di norme che vige all’interno dello Stato; c) è un ramo del diritto pubblico (con estensioni nel diritto privato), poiché contempla diritti soggettivi pubblici spettanti a persone fisiche o giuridiche che vivono nell’organizzazione statale; d) si relaziona col diritto dell’Unione europea sia convenzionale (trattati) sia non convenzionale (regolamenti, decisioni e direttive che disciplinano il fattore religioso, le credenze, etc.); e) non è presente in tutti gli ordinamenti: la materia dei rapporti Stato-confessioni religiose è prevalentemente collocata nell’ambito del diritto costituzionale nella disciplina relativa alla libertà di coscienza, di culto, di associazione, carattere laico dello Stato, etc. Fino all’Accordo del 18 febbraio 1984, il nostro ordinamento giuridico operava una netta distinzione tra la religione cattolica, considerata come religione dello Stato (art. 1 Trattato Lateranense) e i culti acattolici (cd. culti ammessi); di conseguenza, secondo alcuni autori (FEDELE, PETRONCELLI) per diritto ecclesiastico doveva intendersi «quel complesso di norme che disciplinavano la vita della Chiesa cattolica entro l’ordinamento dello Stato» mentre il complesso delle norme statuali che regolavano (ed in effetti tuttora regolano) la vita dei culti differenti da quello cattolico rappresentava, invece, il «diritto dei culti acattolici». Venuto meno, con l’art. 1 del sopramenzionato Accordo, il principio della religione cattolica come religione di Stato, non c’è più alcuna distinzione tra Chiesa cattolica e altre confessioni religiose, l’una e le altre tutte egualmente libere di fronte alla legge (art. 8 comma 1, Cost.). Oggi, pertanto, col termine diritto ecclesiastico, deve intendersi, in Italia, il complesso delle norme che, ispirandosi ai principi costituzionali di libertà e di eguaglianza religiosa, disciplinano, con regimi giuridici particolari, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica nonché con le confessioni diverse dalla cattolica. In questo senso il diritto ecclesiastico va tenuto distinto dal diritto canonico che è il diritto interno della Chiesa cattolica. Il diritto ecclesiastico: definizione e fonti 7 Differenze tra diritto canonico e diritto ecclesiastico Il diritto canonico studia i principali elementi che formano la struttura del diritto della Chiesa cattolica come ordinamento giuridico. In particolare tale disciplina tratta la struttura e l’organizzazione giuridica fondamentale del Popolo di Dio, i principi e le norme giuridiche che danno senso e coerenza all’intera disciplina canonica. Tali norme fondamentali — alcune di istituzione divina, altre derivanti da opzioni storiche del legislatore — sono diffuse in tutto l’ordinamento canonico. In questa luce vengono esaminati, fra gli altri: lo statuto giuridico fondamentale del fedele, la potestà ecclesiastica, gli organi costituzionali di governo e la dimensione universale e particolare della Chiesa. Il diritto ecclesiastico considera la posizione di diversi ordinamenti civili nei confronti della dimensione religiosa e i principi cui questi ordinamenti si ispirano, particolarmente in rapporto con la religione cattolica. Esamina sotto un profilo formale le fonti statali di natura costituzionale o pattizia (concordati, intese, accordi etc.), nonché le norme da esse derivate e il valore degli ordinamenti confessionali (particolarmente quello canonico) nei confronti del diritto civile. Studia poi i temi della libertà religiosa, la posizione giuridica delle confessioni, la personalità degli enti religiosi, lo statuto dei ministri del culto, il matrimonio religioso, la libertà di insegnamento, la cooperazione economica e tutto ciò che attiene all’esperienza giuridica del fenomeno religioso. 2. Le fonti del diritto ecclesiastico A)Premessa Fonti del diritto sono tutti gli atti o i fatti dai quali traggono origine le norme giuridiche. Tradizionalmente si suole distinguere: a) le fonti di produzione, che rappresentano lo strumento tecnico predisposto o riconosciuto dall’ordinamento per creare, modificare ed estinguere le norme giuridiche; b) le fonti di cognizione, ovvero gli strumenti attraverso cui è possibile conoscere le fonti di produzione (ad es. la Gazzetta Ufficiale). Nel diritto ecclesiastico le norme che concorrono a costituirlo hanno origine differente, in quanto alcune sono di immediata derivazione statale, altre sono esecuzione di preventivi accordi con l’autorità religiosa (concordati, intese etc.) o norme prodotte da ordinamenti diversi da quello statale (ad es. i trattati internazionali), recepite in quest’ultimo attraverso particolari forme di adattamento. Da ciò consegue una ripartizione delle fonti di diritto ecclesiastico in: — fonti dell’Unione europea; — fonti internazionali; — fonti costituzionali; — fonti di provenienza unilaterale statale; — fonti di provenienza unilaterale confessionale; — fonti di provenienza bilaterale statale e confessionale. 8 Capitolo Primo B)Il diritto dell’Unione europea L’Unione europea si occupa del fenomeno religioso sia attraverso il diritto convenzionale costituito dai Trattati europei, sia attraverso il diritto non convenzionale, costituito da regolamenti, direttive, decisioni e raccomandazioni. Un primo riconoscimento della rilevanza, a livello europeo, di tale fenomeno fu attuato in occasione della firma del Trattato di Amsterdam, nel 1997, attraverso la Dichiarazione n. 11 annessa al Trattato, nella quale si affermava che «L’Unione europea rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri. L’Unione europea rispetta egualmente lo status delle organizzazioni filosofiche e non confessionali». Tale «Dichiarazione», pur non avendo valore giuridico, confermava la non competenza dell’Unione europea a definire il regime relativo alle confessioni religiose e l’impegno della stessa a non pregiudicare la regolamentazione dettata dai singoli Stati membri. Nonostante i passi avanti segnati nel corso degli anni dalle istituzioni dell’Unione europea, una tutela specifica dei diritti dell’uomo si è avuta solo con il progetto di codificazione che ha dato vita alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A seguito dell’approvazione da parte del Parlamento europeo e della Commissione, la Carta è stata ufficialmente proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Essa, però, non si integrava nei trattati istitutivi, ma rappresentava un documento separato privo di efficacia vincolante. Il progetto ha ottenuto piena efficacia giuridica con la firma, il 13 dicembre 2007, del Trattato di Lisbona, in base al quale i principi contenuti nella Carta assumono efficacia vincolante. L’Unione, infatti, ha espressamente riconosciuto (Dichiarazione n. 1, nuovo art. 6 TUE) il valore giuridico della Carta. La Carta, in particolare, sancisce all’art. 10, il diritto alla libertà di religione, la libertà di cambiare religione, la libertà di manifestare la propria religione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. Per quanto riguarda l’ambito religioso, rileva anche l’art. 21 della Carta che, fra l’altro, vieta qualsiasi discriminazione fondata sulla religione. Anche i trattati istitutivi — il Trattato sull’Unione europea e il Trattato sulla Comunità europea sostituito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea —, così come modificati dal Trattato di Lisbona, dettano alcuni cambiamenti per quanto riguarda il fattore religioso. In particolare, l’art. 17 TFUE sancisce il rispetto del diritto ecclesiastico degli Stati membri per quanto concerne lo status giuridico di chiese, associazioni e comunità religiose («L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale»), equiparando ad esse anche le organizzazioni filosofiche e non confessionali («L’Unione rispetta ugualmente lo status di cui godono, in virtù del diritto nazionale, le organizzazioni filosofiche e non confessionali»); la novità è l’impegno da parte dell’Unione europea di mantenere un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni, riconoscendone l’identità e il contributo specifico. Da ultimo, va segnalato come il Parlamento europeo ha adottato la Risoluzione del 19 gennaio 2016 sul ruolo del dialogo interculturale, della diversità Il diritto ecclesiastico: definizione e fonti 9 culturale e dell’istruzione al fine di promuovere i valori fondamentali dell’UE nella quale, fra l’altro, invita a tener conto del dialogo interreligioso come componente del dialogo interculturale, un presupposto essenziale per la pace e uno strumento fondamentale per la gestione dei conflitti, concentrandosi sulla dignità dell’individuo e sulla necessità di rispettare i diritti umani nel mondo, con particolare riferimento alla libertà di pensiero, coscienza e religione e al diritto alla protezione delle minoranze religiose. Inoltre, sollecita gli Stati membri a coinvolgere le comunità religiose e laiche, in processi d’inclusione che garantiscano loro rispetto, opportunità e partecipazione alla vita civile e culturale in modo umano, rispettoso e sostenibile in tutte le situazioni, specialmente nelle situazioni di emergenza. C)Il diritto internazionale Il fenomeno religioso non è un problema che riguarda il solo diritto interno degli Stati, ma è oggetto di tutela a livello internazionale. L’art. 117, comma 1 Cost., infatti, stabilisce che la potestà legislativa regionale e statale è esercitata nel rispetto degli obblighi internazionali. In tale categoria, ad esempio, rientrano, oltre ai Trattati del Laterano e di Villa Madama il Trattato di pace del 10-2-1947, il cui art. 15 è dedicato alla tutela delle minoranze religiose; la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, che all’art. 18 riconosce ad ogni individuo il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 16 dicembre 1966. Fra le convenzioni internazionali particolare rilievo assume la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 nell’ambito del Consiglio d’Europa e divenuta esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848. Tale documento è stato successivamente integrato da diversi protocolli aggiuntivi che hanno esteso la tutela a una serie di diritti non contemplati nel testo originario e modificato alcuni aspetti istituzionali e procedurali del sistema di protezione dei diritti inizialmente concepito. La CEDU riconosce ad ogni persona il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9). Tale diritto include la libertà di cambiare religione o pensiero, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. La libertà di religione può essere oggetto di restrizioni soltanto con misure stabilite per legge e necessarie alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. La Convenzione, inoltre, istituisce la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che può essere adita da un altro Stato membro, da una persona fisica o da un’associazione per chiedere la condanna di uno Stato al pagamento di un adeguato indennizzo. 10 Capitolo Primo Nell’ambito della libertà religiosa, la Corte europea dei diritti dell’uomo, fra l’altro, è intervenuta: — in una vicenda relativa ad alcuni Testimoni di Geova che, in Grecia, erano stati condannati per il reato di proselitismo: la Corte ha distinto fra proselitismo lecito e proselitismo abusivo, che supera il limite della semplice volontà di testimoniare la personale adesione a un credo; — per quanto riguarda la sentenza di scioglimento della Corte costituzionale turca nei confronti del partito Refah Partisi, di ispirazione religiosa, che intendeva instaurare un sistema teocratico basato sull’applicazione della legge religiosa islamica e degli statuti personali agli appartenenti alle altre confessioni: la Corte ha ritenuto legittima tale sentenza in quanto i comportamenti e le dichiarazioni degli esponenti di tale partito minacciavano la laicità dello Stato turco, sancita dalla Costituzione, e la sua unità politica e legislativa; — in merito al divieto di indossare il velo islamico durante le attività universitarie, imposto per assicurare la pacifica convivenza fra studenti di fedi diverse: la Corte non ha rilevato in questo caso una violazione della libertà religiosa. D)Le fonti costituzionali La Costituzione italiana manifesta un interesse di ampio respiro per la coscienza del singolo e per il sentimento religioso, a prescindere dal culto di appartenenza. Il fenomeno religioso è trattato dal punto di vista: a) organizzativo esterno, riconoscendo una posizione di particolare favore verso la Chiesa cattolica bilanciata dalla pari rilevanza giuridica di tutte le formazioni sociali con finalità religiose; b) individuale, riconoscendo un diritto soggettivo di libertà religiosa. In particolare, gli articoli della Carta repubblicana in cui sono consacrati i principi ispiratori dello Stato in materia religiosa sono: — artt. 2-3 che tutelano i diritti fondamentali, nei quali rientra la libertà confessionale, e sanciscono il principio personalista e il principio di eguaglianza, senza discriminazioni in materia di religione; — artt. 7-8 che tracciano il regime dei rapporti tra lo Stato con la Chiesa cattolica e tutte le altre confessioni acattoliche che ricevono tutte uguale tutela; — artt. 19-20 che riconoscono e tutelano la libertà religiosa e vietano trattamenti discriminatori fondati sul fine di culto o sul carattere ecclesiastico degli enti; — artt. 17, 18 e 21 che riconoscono alle confessioni religiose l’esercizio delle libertà connesse a quella religiosa quali la libertà di riunione, di associazione e di manifestazione del pensiero; — art. 33 che sancisce la libertà di insegnamento, anche religioso. Per l’analisi delle singole disposizioni della Costituzione si rinvia al Cap. 2. E)Le fonti di provenienza unilaterale Le fonti unilaterali sono quelle provenienti unicamente dal legislatore nazionale italiano che possono distinguersi in: a) generali, ossia quelle norme contenute nei codici o in altre leggi che, pur non essendo proprie della materia ecclesiastica, si riferiscono comunque a Il diritto ecclesiastico: definizione e fonti 11 quest’ultima (ad es. l’art. 629 c.c. relativo alle disposizioni a favore dell’anima; il D.Lgs. 22-1-2004, n. 42 recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio; la L. 14-4-1982, n. 164 relativa al cambiamento di sesso etc.); b) settoriali, ossia tutte le norme emanate per disciplinare esplicitamente la materia ecclesiastica. Va anzitutto menzionata la L. 25-6-1929, n. 1159 (e successivo R.D. 28-2-1930, n. 289) regolatrice della vita e dell’attività di tutte le confessioni acattoliche esistenti in Italia, nonché tutte le intese con queste stipulate. Inoltre, è possibile ricordare il D.M. 11 giugno 1980, relativo alla macellazione degli animali secondo il rito ebraico e islamico; la L. 4 marzo 1982, n. 68 relativo al trattamento giuridico ed economico dei cappellani degli istituti di prevenzione e di pena; etc. Le fonti regionali I rapporti fra Stato e confessioni religiose sono di esclusiva competenza statale (art. 117, comma 2, lett. c, Cost.), per cui un’eventuale legislazione regionale in materia religiosa non può che riguardare aspetti specifici, direttamente connessi con gli interessi delle comunità territoriali come, ad esempio, le norme in materia di istruzione, tutela della salute, valorizzazione e promozione dei beni culturali etc. F)Le fonti di provenienza unilaterale confessionale Sono norme, come quelle di diritto canonico, promananti da ordinamenti giuridici religiosi che attengono a rapporti lasciati all’esclusiva regolamentazione dell’autorità religiosa, cui lo Stato riconosce efficacia nel proprio ordinamento mediante rinvio (che può essere formale se la norma richiamata resta esterna all’ordinamento statale italiano e assoggettata nel suo essere, divenire ed efficacia al sistema esterno cui apartiene; oppure materiale, quando la stessa norma entri a far parte dell’ordinamento statale e come tale resti assoggettata ai principi di quest’ultimo), ovvero considerandole presupposti o elementi di fatto della fattispecie regolata da norme statali. G)Le fonti di provenienza bilaterale Sono quelle norme di fonte pattizia, le quali rivestono esteriormente il carattere di atti unilaterali, poiché sono recepite in leggi dello Stato, ma trovano la loro fonte in accordi bilaterali; tra le più importanti possiamo citare la L. 27-5-1929 n. 810, con la quale è stata data esecuzione ai Patti Lateranensi; la L. 25-9-1985 n. 121, con la quale è stata data esecuzione al Nuovo Concordato; la L. 20-5-1985, n. 222, sulla disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici; varie leggi di attuazione delle intese stipulate con le confessioni acattoliche. Rientrano in tale categoria anche le intese stipulate fra organi dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana e fra Regioni e Conferenze Episcopali regionali. H)Le sentenze della Corte costituzionale Il diritto ecclesiastico italiano si è sviluppato nel corso del tempo non solo attraverso le tipiche fonti di produzione del diritto, ma anche tramite l’atti- 12 Capitolo Primo vità della Corte costituzionale che con le proprie decisioni (sentenze, ma anche ordinanze) ha inciso in modo rilevante sulla materia religiosa, a tutela soprattutto della libertà di coscienza e di culto, di eguaglianza e di non discriminazione per motivi religiosi. In particolare, le modifiche apportate al diritto ecclesiastico sono avvenute anzitutto mediante sentenze di accoglimento con cui sono state dichiarate l’incostituzionalità delle norme sia unilaterali che di derivazione pattizia (Casuscelli). In altre occasioni la Consulta è intervenuta mediante sentenze addittive, ossia dichiarando l’illegittimità di un testo nella parte in cui «omette» una norma che doveva necessariamente esserci. In base a quanto sostenuto dalla stessa Corte costituzionale (ord. 13-15 gennaio 2003, n. 7), tali sentenze, in ragione dei mutamenti normativi, «sono assimilabili a vere e proprie fonti del diritto», anche se non sono da considerare «fonti in senso stretto». Capitolo Secondo.................................. I principi costituzionali del diritto ecclesiastico 1. Introduzione La Costituzione italiana ha scelto di valorizzare il fenomeno religioso considerandolo un aspetto della libertà dell’individuo indipendente dalla scelta di appartenenza ad una specifica fede religiosa. L’atteggiamento della Repubblica nei confronti della fede deve, pertanto, considerarsi non «neutrale», ma interventista, per l’aspirazione del Costituente a rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2 Cost.). I principi costituzionali, per la loro ampiezza e generalità, influenzano la natura e l’interpretazione delle norme di diritto ecclesiastico costituendo i limiti invalicabili e insindacabili dell’ordinamento italiano. 2. Il principio personalista e il principio di eguaglianza Il principio personalista e quello di eguaglianza rappresentano un «microsistema» e danno luogo ad una configurazione unitaria che offre un quadro normativo complessivo di riferimento che trova il suo principio guida in quello di laicità, mai citato espressamente dal Costituente. In relazione al principio personalista, l’art. 2 Cost. stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nell’ambito delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. In base a tale disposizione, in particolare: — la persona rappresenta un fine rispetto allo Stato, che costituisce, invece, un mezzo per perseguire i diritti inviolabili; — lo sviluppo della personalità comporta la piena realizzazione dei valori e dei bisogni, tanto materiali quanto spirituali, di ciascun individuo; — si afferma che le credenze religiose contribuiscono al progresso spirituale della società; — la persona è oggetto di attenzione non solo nella sua individualità, ma anche nell’insieme di relazioni, aggregazioni e organizzazioni in cui realizza i suoi interessi e bisogni, anche spirituali; — le formazioni sociali, fra cui sono comprese anche le confessioni religiose, costituiscono uno strumento indispensabile per lo sviluppo della personalità umana e a tal fine l’ordinamento riconosce ad esse diritti e garanzie uguali rispetto a quelli riservati ai singoli (principio pluralista). 14 Capitolo Secondo In relazione al principio di eguaglianza, l’art. 3 Cost. stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (eguaglianza formale) e attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (eguaglianza sostanziale). Il primo comma dell’art. 3 evidenzia il nucleo concettuale del principio di forte eguaglianza, in quanto vieta discriminazioni fondate su: sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali. Tuttavia, tali distinzioni non sono vietate in assoluto, dal momento che la Repubblica ha il compito di intervenire per rimuovere gli ostacoli che di fatto limitano l’eguaglianza. Pertanto i trattamenti differenziati sono vietati quando incidono sul godimento dei diritti e delle libertà; ciò, però, non vale se gli stessi rappresentano il contenuto di una legislazione premiale a favore di quelle persone che, proprio a causa di una delle cinque condizioni sopra enunciate, si trovano, di fatto, in una condizione di discriminazione. 3. Il principio di laicità A differenza dello Statuto albertino, che all’art. 1 definiva la religione cattolica, apostolica e romana come religione di Stato, nella Costituzione repubblicana, al contrario, non ci sono norme che indicano una religione ufficiale. Peraltro, il Trattato fra la Santa Sede e l’Italia, sottoscritto nel 1929 e facente parte integrante dei Patti Lateranensi, riaffermava e riconosceva il principio della religione cattolica come religione di Stato. Tuttavia, solo con la sottoscrizione, nel 1984, del Protocollo addizionale all’accordo recante modifiche al Concordato del 1929 viene affermato, al numero 1, che nel nostro ordinamento «si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano» (v. anche cap. 3). Questa dichiarazione congiunta dello Stato italiano e della Chiesa cattolica sancisce ufficialmente la scomparsa dall’ordinamento giuridico italiano del confessionismo statale che aveva continuato ad informare, tra numerose polemiche, il diritto ecclesiastico anche dopo la promulgazione della Costituzione del 1948. Pertanto, dopo la firma del Concordato del 1984, la Corte costituzionale ha potuto affermare che il principio di laicità rappresenta un principio supremo del nostro ordinamento, che caratterizza, cioè, la stessa forma di Stato repubblicana (sent. 203/1989). Il suo contenuto si evince dalla lettura dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione che impongono allo Stato non un atteggiamento di indifferenza dinanzi alle religioni e al fenomeno religioso, o addirittura di estraneità o di ostilità, bensì la garanzia della salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale. I principi costituzionali del diritto ecclesiastico 15 La Corte costituzionale nelle pronunce successive ha sancito i corollari del principio di laicità: — il pluralismo confessionale (sent. 440/95 e 117/97 per i diritti dei non credenti); — l’eguaglianza sulla libertà religiosa (sent. 440/95 e 329/97); — il dovere nei confronti dei culti di equitanza e imparzialità dello Stato (sent. 508/2000); — l’incompetenza dello Stato in specifiche materie religiose (sent. 195/99, 334/96) salvo i limiti del buon costume e dell’ordine pubblico etc. Sulla scia del Costituente anche il legislatore ordinario è intervenuto, ad esempio con la L. 85/2006, apportando opportune modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, mentre già con il D.Lgs. 507/99 la bestemmia è stata derubricata da reato a «illecito amministrativo» (Dalla Torre, Pistan). Anche la magistratura è spesso intervenuta in materia religiosa (esposizione del crocefisso nelle scuole e nei seggi elettorali, nelle aule di giustizia etc.). Tutti questi interventi a favore del pluralismo e della libertà religiosa ha portato a definire un concetto di laicità positiva «a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini» più che limitarsi ad una mera equidistanza o indifferenza verso il credo dei sudditi da parte dello Stato. 4. La distinzione degli ordini Stato-Chiesa A)L’autonomia della Chiesa I rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano sono disciplinati dall’art. 7, che afferma testualmente: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In particolare, il comma 1 dell’art. 7 puntualizza il principio della co-vigenza di due istituzioni indipendenti e sovrane che esercitano autonomamente («ciascuno nel proprio ordine») le loro potestà (cd. ordinamenti giuridici primari). Più specificamente, secondo parte della dottrina (Casuscelli), per «ordine» deve intendersi «un complesso di materie o contenuti sui quali ognuno dei due soggetti esercita, secondo le specifiche caratteristiche, il potere sovrano di costruire un proprio ed esclusivo sistema di valori e di principi, di produrre una regolamentazione giuridica e di apprestare la garanzia dei correlati interessi umani». Affermato, al comma 1, il principio della esistenza di un ordine riservato alla sovranità della Chiesa e della necessità di delimitarne in concreto i confini, l’art. 7, al comma 2 (superando la tesi di una regolamentazione concordataria futura), sancisce che la regolamentazione delle materie mixtae vada fatta in base ai Patti Lateranensi in vigore al momento della formulazione della Carta costituzionale. In tal modo, i Patti sono divenuti la «misura costituzionale» della competenza che lo Stato ha attribuito all’ordine suo e della Chiesa (Petroncelli). 16 Capitolo Secondo Emerge, dunque, il principio della bilateralità (o cooperazione) desumibile dalla lettura congiunta degli articoli 7 (comma 2) e 8 (comma 3) della Costituzione. Tale regola, nel prevedere preventivi accordi Stato-confessioni religiose, impegna lo Stato a non legiferare in via unilaterale, sulle materie che riguardano la libertà religiosa, ma richiede la formazione di un «diritto speciale pattizio» (Pasquali Cerioli). La bilateralità, così, informa il complesso dei rapporti Stato-confessioni religiose e richiede la stipulazione di specifici concordati o intese tra le parti per il rispetto della loro specificità e libertà (Pistan) con la differenza che il Concordato Stato-Chiesa, implicando l’intervento di due soggetti di diritto internazionale, assume, un rango interstatuale e internazionale. B)I conflitti tra le norme pattizie e le altre norme Esiste la possibilità che sorgano conflitti tra le norme pattizie e le altre norme dell’ordinamento giuridico. In particolare, il contrasto può sorgere con una norma: a) statale ordinaria: quanto innanzi precisato circa il cd. «riconoscimento costituzionale del diritto concordatario» (Gismondi), porta alla conclusione della prevalenza della norma pattizia nei confronti di quella interna (conclusione che ha trovato il conforto di alcune decisioni della giurisprudenza sia ordinaria che costituzionale); b) costituzionale (1): parte della dottrina (Jemolo) è stata dell’avviso che debba prevalere, in ogni caso, la norma costituzionale; altra parte (Del Giudice V., Petroncelli) ritiene invece che prevalga la norma pattizia avendo questa carattere «speciale» («lex posterior generalis non derogat priori speciali»). Tale seconda soluzione troverebbe conferma anche nel dettato dell’art. 7, comma 2, che evidenzierebbe la volontà del Costituente di far prevalere le pattuizioni degli accordi anche sulle altre norme della stessa Costituzione. Il problema è stato preso in esame dalla Corte costituzionale la quale, con sentt. 30/1971 e 175/1973, ha affermato la giuridica rilevanza delle norme pattizie anche quando contrastino con altre disposizioni della Costituzione, a meno che non si tratti (ed è questo un criterio innovativo) dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato. c) di attuazione dei Patti. Prima dell’entrata in vigore della Costituzione il conflitto era tra due norme interne di pari valenza: l’una di esecuzione generale riproducente il testo dei Patti (L. 27-5-29, n. 810, cit.) e l’altra (o le altre) di attuazione di singole norme degli stessi Patti (si veda, ad esempio, la legge matrimoniale); in quel caso la norma di attuazione, in (1) Va sottolineato che alcuni contrasti manifesti tra norme pattizie e norme costituzionali sono stati eliminati dal nuovo Concordato. Si pensi, ad esempio, ad alcune norme del vecchio Concordato, ora abrogate: — l’art. 5, che, comportando una limitata incapacità giuridica per il chierico apostata, contrastava con il disposto degli artt. 3, 21 e 51 della Costituzione; — l’art. 39, relativo all’insegnamento religioso cattolico, che appariva in contrasto con l’art. 33 Cost. I principi costituzionali del diritto ecclesiastico 17 quanto posteriore, e quindi, interpretativa, della norma pattizia prevaleva su quest’ultima (Ciprotti). Con l’entrata in vigore dell’art. 7, comma 2, Cost., essendo stata riconosciuta alle norme pattizie una efficacia pari a quelle costituzionali, esse prevalgono sulle altre norme che, per quanto successive, sono di minor forza vincolante perché norme di legge ordinarie. C)Modifiche dei Patti Lateranensi Per modificare le norme contenute nei Patti Lateranensi si possono seguire due vie, ambedue sancite dalla Costituzione: 1) mediante nuovo accordo con la Santa Sede: il comma 2 dell’art. 7 parla di «modificazioni accettate dalle due parti»: si tratta quindi di un nuovo accordo (totale o parziale) tra Stato e Chiesa che, poi, dopo l’approvazione delle Camere, verrebbe ratificato dal Capo dello Stato ed avrebbe piena e intera esecuzione con legge ordinaria (non costituzionale) dello Stato; è ciò che si è verificato, in pratica, con l’accordo di revisione del Concordato Lateranense (cd. nuovo Concordato) firmato il 18 febbraio 1984. 2) mediante revisione costituzionale ex art. 138 Cost.: alcuni Autori (Del Giudice V.), ritenendo che l’art. 7 abbia costituzionalizzato solo il principio della regolamentazione, tramite i Patti, dei rapporti tra Stato e Chiesa, sono dell’avviso che lo Stato, unilateralmente, senza concorso della Santa Sede, possa eliminare, con procedimento di revisione costituzionale, lo stesso art. 7, restando poi libero di dare un diverso autonomo assetto alla materia ecclesiastica. Altri invece (Olivero, Petroncelli) ritengono che, qualora manchi l’accordo con la controparte, lo Stato possa procedere alla modifica di singole norme pattizie (ad es. quelle in materia matrimoniale), ricorrendo, al procedimento di revisione costituzionale. È indubbio che la modificazione unilaterale, tramite il procedimento di revisione ex art. 138 Cost., anche di una sola norma pattizia, altererebbe profondamente il sistema dei rapporti tra Stato e Chiesa, la quale potrebbe ricorrere addirittura alla denuncia degli accordi; ma ciò, a parere dei sostenitori di questa tesi, non inficia il potere (formalmente illimitato) che lo Stato ha di alterare o sostituire il vecchio sistema con uno nuovo. 5. Il pluralismo confessionale A)Il riconoscimento dell’identità religiosa Tale principio si ricava dal riconoscimento dell’eguaglianza religiosa sancita dall’art. 8, comma 1 Cost. («Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge») e dal divieto di discriminazioni basate sulla religione contenuto nell’art. 3 Cost. L’art. 8, comma 1 sancisce il principio del pluralismo confessionale ed esclude ogni forma confessionismo di Stato. 18 Capitolo Secondo Non sono, quindi, ammesse discriminazioni tra i culti che si basino sulla loro più ampia diffusione rispetto alle altre confessioni. La protezione del sentimento religioso, inteso come aspetto della libertà religiosa, non è, infatti, graduabile e ogni violazione colpisce la coscienza religiosa del fedele allo stesso modo, indipendentemente dalla confessione di appartenenza (v. anche cap. 11). Giurisprudenza Con sent. 13-3-2014, n. 641 la Corte di Appello di Venezia, ha ribadito che la Costituzione italiana, tutelando la libertà religiosa e i diritti della personalità, tutela anche il sentimento religioso. La carta costituzionale, tuttavia, afferma il principio della laicità dello Stato, il che esclude il diritto di un singolo cittadino di pretendere che lo Stato impedisca manifestazioni di pensiero contrarie ai principi della propria religione (ovviamente purché non si pongano problemi di ordine pubblico o fatti di rilevanza penale). Non può costituire fattore discriminante neppure l’esistenza di un’intesa con lo Stato. Le intese non possono, cioè, costituire una condizione imposta dai pubblici poteri alle confessioni per poter godere della libertà di organizzazione e di azione garantita dal comma 1 e dal comma 2 dell’art. 8, né per usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose (Corte cost., sent. 346/2002). La «pari libertà» riconosciuta alle confessioni religiose non esclude, però, che attraverso lo strumento delle intese, non possa introdursi un regime giuridico differenziato volto alla valorizzazione dell’identità della singola confessione mediante una regolazione concordata dei reciproci rapporti con lo Stato calibrata rispetto alle proprie specificità. B)I limiti all’esercizio del culto acattolico L’art. 8, comma 2, Cost., ricollegandosi al principio generale dell’art. 2, ha riconosciuto alle confessioni non cattoliche un ambito di autonomia e di libertà maggiore rispetto alla passata legislazione a tutela dei principi di eguaglianza dei cittadini oltre a quello di libertà religiosa. È stato, infatti, sancito il potere di autodeterminazione, cioè di porre norme efficaci anche nei confronti dello Stato, attraverso statuti interni alle singole confessioni. Alla capacità delle confessioni acattoliche di dotarsi di propri statuti corrisponde il conseguente abbandono da parte dello Stato della pretesa di fissarne direttamente per legge i contenuti degli stessi. Il riconoscimento di tale autonomia istituzionale, dunque, esclude ogni possibilità di ingerenza dello Stato nell’emanazione delle disposizioni statutarie delle confessioni religiose, purché gli statuti di tali culti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Tale espressione può essere intesa solo in riferimento ai principi fondamentali dell’ordinamento stesso e non anche a specifiche limitazioni derivanti da particolari disposizioni normative (Corte cost. sent. 43/1998). I principi costituzionali del diritto ecclesiastico 19 La dottrina prevalente è, comunque, del parere che tale formula comprenda, quanto meno, l’ordine pubblico e il buon costume. Per quanto concerne l’esercizio in pratica dei culti acattolici, la Costituzione repubblicana prevede, tra i diritti fondamentali, la libertà di culto; unici limiti a questa libertà sono quelli derivanti tassativamente dal combinato disposto degli artt. 19 e 17 Cost. L’art. 19 stabilisce la libertà d’esercizio del culto in pubblico e in privato, sempreché si tratti di riti non contrari al buon costume. L’art. 17 sancisce il diritto dei cittadini di riunirsi pacificamente e senz’armi, anche in luogo aperto al pubblico, senza preavviso alle autorità, ed in luogo pubblico con preavviso alle autorità, le quali possono vietare la riunione soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. C)Le «intese» con i culti acattolici Il comma 3 dell’art. 8 Cost. stabilisce che i rapporti fra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica per il principio della bilateralità «sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze». Le intese costituiscono un accordo tra la confessione religiosa e lo Stato su questioni concernenti sia l’una che l’altra parte. Dottrina Alcuni autori (Bianconi, Casuscelli, Finocchiaro) hanno operato un parallelismo con l’art. 7, 2° comma, Cost., configurando le intese come dei veri e propri concordati. Questa tesi non è accolta dalla dottrina prevalente (Jemolo, Del Giudice V., Petroncelli, Lariccia) in base alle seguenti considerazioni: — le intese ex art. 8 Cost. esauriscono la loro funzione sul piano del diritto nazionale e costituiscono convenzioni di diritto pubblico interno; — gli accordi o concordati ex art. 7 Cost. intervengono tra due ordinamenti giuridici primari (ciascuno nel suo ordine «indipendente e sovrano») con rilevanza internazionale. Infine, secondo Crisafulli ambedue le norme fanno riferimento a un principio comune più generale, che prescrive che la legislazione statale in materia ecclesiastica non debba essere unilaterale, ma preventivamente concordata fra Stato e confessione religiosa. Per quanto concerne il valore delle intese c’è da rilevare che una parte della dottrina ha attribuito, alle intese stesse, la natura di semplici presupposti politici, negando sostanzialmente qualunque valore giuridico, con la conseguenza che all’art. 8 Cost. deriverebbe non un obbligo, ma solo una facoltà per lo Stato (Corte cost. sent. 59/1958); l’obbligo per lo Stato è solo di emanare una legge conforme all’intesa preventivamente raggiunta. In ogni caso, una volta che le intese siano recepite in legge, le stesse godono di una forza passiva rinforzata in quanto possono essere modificate soltanto da successive leggi che recepiscono una nuova intesa fra le parti. Si noti, però, che le leggi di recepimento delle intese conservano il rango di leggi ordinarie e le norme in esse contenute sono sindacabili dalla Corte costituzionale non solo quando violano i principi supremi, ma anche qualunque altra norma di rango costituzionale. 20 Capitolo Secondo La particolarità del disegno di legge di intesa, è che può essere accettato o respinto dal Parlamento, ma non emendato, al fine di evitare che lo Stato approvi un accordo difforme dai contenuti concordati con la confessione religiosa. Nel caso di mancata approvazione da parte delle Camere, totale o parziale, il testo torna al Governo che è tenuto di nuovo a riaprire le trattative con la confessione per eventuali e ulteriori modifiche. Per quanto concerne la condizione giuridica delle confessioni che dovessero (o volessero) rimanere prive di intesa, si ritiene in dottrina che lo Stato sia libero di legiferare unilateralmente, sempre in armonia con i principi fondamentali stabiliti dalla Costituzione, non solo nei primi due commi dell’art. 8, ma anche nel comma 2 dell’art. 3 il cui disposto fa obbligo alla Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana tra l’altro nel campo religioso». Per l’esame dei principi fondamentali cui si ispirano le intese di rinvia al cap. 10. 6. La libertà di coscienza La libertà di coscienza, costituisce una vera e propria libertà autonoma che abbraccia tutti gli atteggiamenti dell’individuo direttamente imputabili alla sua coscienza. Pur non essendo espressamente prevista dalla Costituzione, la libertà di coscienza trova comunque tutela a partire anzitutto dall’art. 2 della Costituzione: riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo significa anche assicurare protezione costituzionale a quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con sé stesso che di quelli costituisce la base spirituale di qualsiasi culto (Corte cost. sent. 467/1991). La Corte costituzionale, nella sentenza 117/1979, ha chiarito, poi, che la libertà di coscienza dei non credenti va fatta rientrare nella più ampia libertà religiosa assicurata dall’art. 19 Cost., il quale garantirebbe anche una corrispondente libertà negativa di non credere (cd. ateismo). Un esplicito riconoscimento della libertà di coscienza in materia religiosa è arrivato dal legislatore che ha recepito le intese con le confessioni acattoliche. La L. 449/1984 (che recepisce l’intesa con la Tavola valdese) dichiara che la Repubblica, nell’assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, materne, elementari, medie e secondarie superiori, riconosce agli alunni di dette scuole, al fine di garantire la libertà di coscienza di tutti, il diritto di non avvalersi dell’insegnamento religioso. Formulazione analoghe sono contenute anche nelle altre leggi ricettive delle intese. Ciò spiega perché l’insegnamento della religione cattolica non è stato considerato dalla Corte costituzionale causa di discriminazione, né tanto meno in contrasto con il principio di laicità, in quanto lo stato di non obbligo degli studenti che scelgono di non avvalersi di tale insegnamento esclude che si operino dei condizionamenti dall’esterno della coscienza sulla libertà di religione. La libertà di coscienza ha ricevuto riconoscimento e tutela anche a livello sovranazionale tanto dall’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quanto dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. I principi costituzionali del diritto ecclesiastico 21 7. La libertà religiosa A)Nozione e natura giuridica La libertà religiosa può definirsi la libertà, garantita dallo Stato a ogni cittadino, di scegliere la propria credenza in fatto di religione (D’Avack). Come tutti i diritti di libertà, esso si differenzia dai cd. «diritti sociali» (es. diritto all’assistenza) perché, mentre tali diritti comportano la pretesa verso lo Stato ad una prestazione positiva (esempio: costruzione di ospedali etc.), la libertà religiosa postula, invece, la pretesa di una prestazione negativa da parte dello Stato che è tenuto ad astenersi da tutti quegli atti che possano impedirne il libero esercizio. B)La previsione costituzionale Nella Costituzione repubblicana il principio della libertà religiosa è sancito in tutta la sua completezza, sia sotto il profilo individuale che collettivo: a) all’art. 19 che afferma: «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». L’art. 19 usa la parola «tutti» per indicare i destinatari e, quindi, chiunque si trova nel territorio italiano, anche i non cittadini (stranieri, apolidi, rifugiati etc.). In tal senso, tale norma si deve considerare intimamente connessa sia all’art. 2, che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo» sia all’art. 3, che sancisce «l’eguaglianza dei cittadini davanti la legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»; b) all’art. 20 che prevede: «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività». Attraverso tale disposizione viene garantita la facoltà dei singoli e delle confessioni religiose di creare associazioni o istituzioni aventi carattere ecclesiastico o finalità religiosa senza che la legge possa introdurre trattamenti sfavorevoli o discriminatori a carico degli enti religiosi rispetto ad altre associazioni che perseguano scopi diversi, né utilizzare lo strumento fiscale per rendere più difficoltosi la costituzione ed il funzionamento degli stessi. In base a quanto previsto dalla Costituzione si può, dunque, sostenere che la libertà religiosa costituisce un diritto personalissimo, inalienabile, indisponibile, inviolabile ed intangibile riconosciuto a ciascun individuo e a tutte le comunità religiose. 22 Capitolo Secondo C)Gli aspetti della libertà religiosa Il diritto di libertà religiosa include diversi aspetti: 1) libertà di fede, ossia libertà di professare qualunque fede, di mutare convincimento, di non professare alcuna fede, di manifestare nei confronti del fenomeno religioso un atteggiamento di indifferenza e di scetticismo, senza che ciò comporti alcuna conseguenza o discriminazione. Anche la libertà religiosa negativa (la cd. libertà di ateismo), quindi, va ricompresa nella libertà religiosa e godere della stessa tutela riconosciuta a quest’ultima dall’art. 19 Cost. L’ordinamento, infatti, attribuisce pari tutela anche al rifiuto di ogni credo religioso così come confermato anche dalla sentenza n. 117/79 della Corte costituzionale, che ha modificato la formula del giuramento dei testimoni, nei processi, nella parte in cui imponeva di assumere la responsabilità delle proprie dichiarazioni «davanti a Dio» (v. anche cap. 11, par. 1); 2) libertà di propaganda, ossia libertà riconosciuta a tutti di fare proseliti sia all’interno dei luoghi di culto che al di fuori, mediante la parola, gli scritti, i libri e gli altri mezzi di esternazione del pensiero. Anche con l’esaltazione della propria fede o attraverso la contestazione o la negazione del fondamento dogmatico degli altri culti sia con argomentazioni motivate che perfino con asserzioni immotivate, purché non rappresentino ingiurie al credente; La libertà di propaganda dipende molto dalla capacità, anche economica, di ciascuna confessione religiosa di dar vita e saper gestire mezzi di comunicazione di massa adeguati a diffondere il proprio messaggio religioso. L’art. 3 del D.Lgs. 31 luglio 2005, n. 177 (modificato dall’art. 17, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 44), annovera fra i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo il pluralismo dei mezzi e l’apertura alle diverse tendenze anche religiose; 3) libertà di culto, ossia la libertà di compiere atti di culto sia in privato che in luogo pubblico. La previsione dell’art. 19 va coordinata con quanto prevede l’art. 17 Cost., che impone il preavviso per le riunioni in luogo pubblico alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica. Sono stati pertanto dichiarati incostituzionali l’art. 1 del R.D. 289/1930, nella parte in cui imponeva l’autorizzazione ministeriale per l’apertura del tempio di un culto ammesso, e l’art. 2 dello stesso regio decreto, che consentiva le riunioni dei fedeli senza preventiva autorizzazione governativa soltanto in un edificio la cui apertura fosse stata autorizzata e a condizione che la riunione fosse presieduta o autorizzata da un ministro di culto. In tutti gli altri casi la disposizione dell’art. 2 applicava le norme comuni per le riunioni pubbliche. Da ultimo, la Corte costituzionale, il 23 febbraio 2016, ha dichiarato incostituzionale la legge Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12. In particolare la legge richiede, per la realizzazione di luoghi di culto acattolici, che la confessione abbia una «presenza diffusa, organizzata e stabile sul territorio» e che abbia stipulato un’apposita convenzione con il Comune interessato. Tali condizioni non sono richieste, invece, per la costruzione di Chiese cattoliche. La legge prevede, inoltre, che i finanziamenti destinati alle comunità religiose e le aree individuate dal Comune ad accogliere edifici di culto siano suddivise fra gli enti che ne abbiano fatto richiesta «in base alla consistenza ed incidenza sociale delle rispettive confessioni». Pertanto, la Consulta ha stabilito che tale legge regionale viola il principio della libertà di culto sancito dalla Costituzione, prevedendo misure più restrittive per le religioni diverse dalla cattolica. I principi costituzionali del diritto ecclesiastico 23 D)Il problema dei limiti L’unico limite che espressamente l’art. 19 Cost. pone all’esercizio della libertà religiosa è rappresentato dal divieto di riti contrari al buon costume. Questa espressione è stata intesa dalla dottrina in maniera restrittiva, come esclusione della legittimità dei riti che offendono il pudore sessuale, la libertà sessuale ed il sentimento morale dei giovani. Si tratta di concetto elastico e caratterizzato dal principio di relatività storica, dal quale deve essere escluso ogni riferimento al concetto generico di «ordine pubblico», come, invece, previsto dall’art. 1 della legge n. 1159 del 1930 per i culti acattolici. Oltre al limite esplicito della contrarietà dei riti al buon costume, sussiste un limite implicito connaturato alla necessità di tutelare altri diritti o interessi aventi rilevanza costituzionale. L’ordinamento statale può limitare la libertà di una confessione religiosa solo quando mette in pericolo altri diritti fondamentali. Nello svolgimento dei riti del culto, pertanto, non è mai consentita la limitazione dei diritti di libertà (sono perciò vietate la segregazione, la sottoposizione a sofferenze, anche di carattere psicologico, o lo svolgimento di riti macabri e/o sacrificali satanici) per motivi religiosi. Ciò spiega il contenuto della L. 7/2006, che introduce gravi sanzioni per il nuovo reato di mutilazione degli organi genitali femminili (che trova in fini religiosi il suo fondamento) (v. Cap. 11, par. 13).