Capitolo Primo....................................
Il diritto ecclesiastico:
definizione e fonti
1. Definizione
Il diritto ecclesiastico è quella parte dell’ordinamento giuridico che
ha per oggetto la disciplina del fenomeno religioso (TEDESCHI). Per
fenomeno religioso si intende il complesso delle credenze e delle convinzioni
dell’uomo organizzate in una visione del mondo fondata sull’idea del sacro
e del divino. Tale fenomeno non coinvolge soltanto l’individuo, ma interessa
anche le formazioni sociali in cui si sviluppa la dimensione religiosa della
personalità umana: le comunità di credenti.
Qualche autore (DEL GIUDICE F.) alla dizione «diritto ecclesiastico» preferisce quella di «diritto dei culti» per ricomprendere qualsiasi culto alla luce
dei principi costituzionali vigenti. Ciò perché uno «Stato pluralista» non può
riferirsi ad una unica ed esclusiva fonte di carattere spirituale, ma è tenuto ad
osservare una condotta pluralista e laicista improntata sul riconoscimento
della «libertà di culto» e dell’«eguaglianza in materia di credo religioso», principi
garantiti e riconosciuti a tutti dalle moderne democrazie.
Malgrado questa diversa precisazione terminologica la dottrina italiana continua a definire il rapporto Stato-confessioni religiose con diritto ecclesiastico
privilegiando lo studio dei rapporti con la Chiesa cattolica sugli altri culti in
virtù del fatto che il suo credo è il più diffuso fra cittadini italiani.
A differenza di quanto accade in Paesi, quali la Gran Bretagna e la Francia, dove le tematiche relative al fenomeno religioso sono inserite nell’ambito del diritto pubblico, amministrativo
o privato, in Italia – così come in Spagna, Austria, Germania etc. – tali tematiche sono trattate
in maniera autonoma in quanto dotate di propri elementi di specificità e di criteri metodologici
originali (MUSELLI - TOZZI).
Il diritto ecclesiastico in Italia, pertanto, si caratterizza:
— come parte del diritto interno in quanto trattasi di un complesso di norme
che vige all’interno dello Stato;
— quale ramo del diritto pubblico poiché contempla diritti soggettivi pubblici
spettanti a persone fisiche o giuridiche che vivono nell’organizzazione statale.
Le norme del diritto ecclesiastico non costituiscono un corpo organico,
ma si trovano in tutti i settori nei quali si articola l’ordinamento giuridico,
dal diritto internazionale (al quale appartengono, ad esempio, le norme delle
convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo) al diritto costituzionale (che
enuncia i principi fondamentali in materia), al diritto civile (disciplina degli
enti ecclesiastici, matrimonio religioso), al diritto penale (tutela penale del
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Capitolo Primo
sentimento religioso), al diritto del lavoro (rapporto di lavoro nelle organizzazioni di tendenza), al diritto amministrativo (edilizia di culto, beni culturali
di interesse religioso).
Dottrina
Per Casuscelli il diritto ecclesiastico ha una struttura policentrica ed articolata che lo
connota diversamente dalle altre scienze giuridiche, e pertanto si può affermare che:
a) non fa parte del diritto internazionale: il diritto internazionale, infatti, comprende, nel
suo ambito, solo norme che si indirizzano agli «Stati» e alle organizzazioni considerati
come enti sovrani (ciò non esclude, comunque, che esista un «autonomo» diritto ecclesiastico internazionale che regoli i rapporti tra la Santa Sede e gli altri Stati) anche se vigono
e sono riconosciute convenzioni multilaterali o bilaterali (es. Dichiarazione Universale dei
diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (10-12-1948), Convenzione dei diritti del fanciullo (L.
176/1991) e numerose altre convenzioni sulla libertà religiosa delle minoranze nazionali,
sui lavoratori migranti etc.);
b) fa parte del diritto interno in quanto trattasi di un complesso di norme che vige all’interno
dello Stato;
c) è un ramo del diritto pubblico (con estensioni nel diritto privato), poiché contempla diritti
soggettivi pubblici spettanti a persone fisiche o giuridiche che vivono nell’organizzazione
statale;
d) si relaziona col diritto dell’Unione europea sia convenzionale (trattati) sia non convenzionale
(regolamenti, decisioni e direttive che disciplinano il fattore religioso, le credenze, etc.);
e) non è presente in tutti gli ordinamenti: la materia dei rapporti Stato-confessioni religiose
è prevalentemente collocata nell’ambito del diritto costituzionale nella disciplina relativa
alla libertà di coscienza, di culto, di associazione, carattere laico dello Stato, etc.
Fino all’Accordo del 18 febbraio 1984, il nostro ordinamento giuridico operava una netta distinzione tra la religione cattolica, considerata come religione
dello Stato (art. 1 Trattato Lateranense) e i culti acattolici (cd. culti ammessi);
di conseguenza, secondo alcuni autori (FEDELE, PETRONCELLI) per diritto
ecclesiastico doveva intendersi «quel complesso di norme che disciplinavano la
vita della Chiesa cattolica entro l’ordinamento dello Stato» mentre il complesso
delle norme statuali che regolavano (ed in effetti tuttora regolano) la vita dei
culti differenti da quello cattolico rappresentava, invece, il «diritto dei culti
acattolici».
Venuto meno, con l’art. 1 del sopramenzionato Accordo, il principio della
religione cattolica come religione di Stato, non c’è più alcuna distinzione tra
Chiesa cattolica e altre confessioni religiose, l’una e le altre tutte egualmente
libere di fronte alla legge (art. 8 comma 1, Cost.).
Oggi, pertanto, col termine diritto ecclesiastico, deve intendersi, in Italia,
il complesso delle norme che, ispirandosi ai principi costituzionali di libertà e di
eguaglianza religiosa, disciplinano, con regimi giuridici particolari, i rapporti dello
Stato con la Chiesa cattolica nonché con le confessioni diverse dalla cattolica.
In questo senso il diritto ecclesiastico va tenuto distinto dal diritto canonico che è il diritto interno della Chiesa cattolica.
Il diritto ecclesiastico: definizione e fonti
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Differenze tra diritto canonico e diritto ecclesiastico
Il diritto canonico studia i principali elementi che formano la struttura del diritto della Chiesa
cattolica come ordinamento giuridico.
In particolare tale disciplina tratta la struttura e l’organizzazione giuridica fondamentale del
Popolo di Dio, i principi e le norme giuridiche che danno senso e coerenza all’intera disciplina
canonica.
Tali norme fondamentali — alcune di istituzione divina, altre derivanti da opzioni storiche del
legislatore — sono diffuse in tutto l’ordinamento canonico.
In questa luce vengono esaminati, fra gli altri: lo statuto giuridico fondamentale del fedele,
la potestà ecclesiastica, gli organi costituzionali di governo e la dimensione universale e particolare della Chiesa.
Il diritto ecclesiastico considera la posizione di diversi ordinamenti civili nei confronti
della dimensione religiosa e i principi cui questi ordinamenti si ispirano, particolarmente in
rapporto con la religione cattolica. Esamina sotto un profilo formale le fonti statali di natura
costituzionale o pattizia (concordati, intese, accordi etc.), nonché le norme da esse derivate e
il valore degli ordinamenti confessionali (particolarmente quello canonico) nei confronti del
diritto civile. Studia poi i temi della libertà religiosa, la posizione giuridica delle confessioni,
la personalità degli enti religiosi, lo statuto dei ministri del culto, il matrimonio religioso,
la libertà di insegnamento, la cooperazione economica e tutto ciò che attiene all’esperienza
giuridica del fenomeno religioso.
2. Le fonti del diritto ecclesiastico
A)Premessa
Fonti del diritto sono tutti gli atti o i fatti dai quali traggono origine le
norme giuridiche.
Tradizionalmente si suole distinguere:
a) le fonti di produzione, che rappresentano lo strumento tecnico predisposto
o riconosciuto dall’ordinamento per creare, modificare ed estinguere le
norme giuridiche;
b) le fonti di cognizione, ovvero gli strumenti attraverso cui è possibile conoscere le fonti di produzione (ad es. la Gazzetta Ufficiale).
Nel diritto ecclesiastico le norme che concorrono a costituirlo hanno origine
differente, in quanto alcune sono di immediata derivazione statale, altre sono
esecuzione di preventivi accordi con l’autorità religiosa (concordati, intese etc.)
o norme prodotte da ordinamenti diversi da quello statale (ad es. i trattati internazionali), recepite in quest’ultimo attraverso particolari forme di adattamento.
Da ciò consegue una ripartizione delle fonti di diritto ecclesiastico in:
— fonti dell’Unione europea;
— fonti internazionali;
— fonti costituzionali;
— fonti di provenienza unilaterale statale;
— fonti di provenienza unilaterale confessionale;
— fonti di provenienza bilaterale statale e confessionale.
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Capitolo Primo
B)Il diritto dell’Unione europea
L’Unione europea si occupa del fenomeno religioso sia attraverso il diritto
convenzionale costituito dai Trattati europei, sia attraverso il diritto non convenzionale, costituito da regolamenti, direttive, decisioni e raccomandazioni.
Un primo riconoscimento della rilevanza, a livello europeo, di tale fenomeno fu attuato in occasione della firma del Trattato di Amsterdam, nel 1997, attraverso la Dichiarazione n. 11 annessa al
Trattato, nella quale si affermava che «L’Unione europea rispetta e non pregiudica lo status previsto
nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri.
L’Unione europea rispetta egualmente lo status delle organizzazioni filosofiche e non confessionali».
Tale «Dichiarazione», pur non avendo valore giuridico, confermava la non competenza
dell’Unione europea a definire il regime relativo alle confessioni religiose e l’impegno della
stessa a non pregiudicare la regolamentazione dettata dai singoli Stati membri.
Nonostante i passi avanti segnati nel corso degli anni dalle istituzioni
dell’Unione europea, una tutela specifica dei diritti dell’uomo si è avuta solo con
il progetto di codificazione che ha dato vita alla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea. A seguito dell’approvazione da parte del Parlamento
europeo e della Commissione, la Carta è stata ufficialmente proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000.
Essa, però, non si integrava nei trattati istitutivi, ma rappresentava un documento separato
privo di efficacia vincolante. Il progetto ha ottenuto piena efficacia giuridica con la firma, il 13
dicembre 2007, del Trattato di Lisbona, in base al quale i principi contenuti nella Carta assumono
efficacia vincolante. L’Unione, infatti, ha espressamente riconosciuto (Dichiarazione n. 1, nuovo
art. 6 TUE) il valore giuridico della Carta.
La Carta, in particolare, sancisce all’art. 10, il diritto alla libertà di religione,
la libertà di cambiare religione, la libertà di manifestare la propria religione
individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto,
l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. Per quanto riguarda l’ambito religioso, rileva anche l’art. 21 della Carta che, fra l’altro, vieta qualsiasi
discriminazione fondata sulla religione.
Anche i trattati istitutivi — il Trattato sull’Unione europea e il Trattato
sulla Comunità europea sostituito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea —, così come modificati dal Trattato di Lisbona, dettano alcuni cambiamenti per quanto riguarda il fattore religioso.
In particolare, l’art. 17 TFUE sancisce il rispetto del diritto ecclesiastico
degli Stati membri per quanto concerne lo status giuridico di chiese, associazioni e comunità religiose («L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui
le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù
del diritto nazionale»), equiparando ad esse anche le organizzazioni filosofiche
e non confessionali («L’Unione rispetta ugualmente lo status di cui godono, in
virtù del diritto nazionale, le organizzazioni filosofiche e non confessionali»);
la novità è l’impegno da parte dell’Unione europea di mantenere un dialogo
aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni, riconoscendone
l’identità e il contributo specifico.
Da ultimo, va segnalato come il Parlamento europeo ha adottato la Risoluzione del 19 gennaio 2016 sul ruolo del dialogo interculturale, della diversità
Il diritto ecclesiastico: definizione e fonti
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culturale e dell’istruzione al fine di promuovere i valori fondamentali dell’UE
nella quale, fra l’altro, invita a tener conto del dialogo interreligioso come
componente del dialogo interculturale, un presupposto essenziale per la pace e
uno strumento fondamentale per la gestione dei conflitti, concentrandosi sulla
dignità dell’individuo e sulla necessità di rispettare i diritti umani nel mondo,
con particolare riferimento alla libertà di pensiero, coscienza e religione e
al diritto alla protezione delle minoranze religiose. Inoltre, sollecita gli Stati
membri a coinvolgere le comunità religiose e laiche, in processi d’inclusione
che garantiscano loro rispetto, opportunità e partecipazione alla vita civile e
culturale in modo umano, rispettoso e sostenibile in tutte le situazioni, specialmente nelle situazioni di emergenza.
C)Il diritto internazionale
Il fenomeno religioso non è un problema che riguarda il solo diritto interno
degli Stati, ma è oggetto di tutela a livello internazionale. L’art. 117, comma 1
Cost., infatti, stabilisce che la potestà legislativa regionale e statale è esercitata
nel rispetto degli obblighi internazionali.
In tale categoria, ad esempio, rientrano, oltre ai Trattati del Laterano e di Villa Madama il
Trattato di pace del 10-2-1947, il cui art. 15 è dedicato alla tutela delle minoranze religiose; la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, che all’art. 18 riconosce ad
ogni individuo il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; il Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici del 16 dicembre 1966.
Fra le convenzioni internazionali particolare rilievo assume la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950 nell’ambito del Consiglio d’Europa e divenuta esecutiva in Italia con L.
4 agosto 1955, n. 848.
Tale documento è stato successivamente integrato da diversi protocolli
aggiuntivi che hanno esteso la tutela a una serie di diritti non contemplati
nel testo originario e modificato alcuni aspetti istituzionali e procedurali del
sistema di protezione dei diritti inizialmente concepito.
La CEDU riconosce ad ogni persona il diritto alla libertà di pensiero,
di coscienza e di religione (art. 9). Tale diritto include la libertà di cambiare
religione o pensiero, così come la libertà di manifestare la propria religione o
il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato,
mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
La libertà di religione può essere oggetto di restrizioni soltanto con misure
stabilite per legge e necessarie alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle
libertà altrui.
La Convenzione, inoltre, istituisce la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, che può essere adita da un altro Stato membro, da una persona fisica o
da un’associazione per chiedere la condanna di uno Stato al pagamento di un
adeguato indennizzo.
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Capitolo Primo
Nell’ambito della libertà religiosa, la Corte europea dei diritti dell’uomo, fra l’altro, è intervenuta:
— in una vicenda relativa ad alcuni Testimoni di Geova che, in Grecia, erano stati condannati
per il reato di proselitismo: la Corte ha distinto fra proselitismo lecito e proselitismo abusivo,
che supera il limite della semplice volontà di testimoniare la personale adesione a un credo;
— per quanto riguarda la sentenza di scioglimento della Corte costituzionale turca nei confronti
del partito Refah Partisi, di ispirazione religiosa, che intendeva instaurare un sistema teocratico
basato sull’applicazione della legge religiosa islamica e degli statuti personali agli appartenenti
alle altre confessioni: la Corte ha ritenuto legittima tale sentenza in quanto i comportamenti
e le dichiarazioni degli esponenti di tale partito minacciavano la laicità dello Stato turco,
sancita dalla Costituzione, e la sua unità politica e legislativa;
— in merito al divieto di indossare il velo islamico durante le attività universitarie, imposto per
assicurare la pacifica convivenza fra studenti di fedi diverse: la Corte non ha rilevato in questo
caso una violazione della libertà religiosa.
D)Le fonti costituzionali
La Costituzione italiana manifesta un interesse di ampio respiro per la
coscienza del singolo e per il sentimento religioso, a prescindere dal culto di
appartenenza.
Il fenomeno religioso è trattato dal punto di vista:
a) organizzativo esterno, riconoscendo una posizione di particolare favore
verso la Chiesa cattolica bilanciata dalla pari rilevanza giuridica di tutte le
formazioni sociali con finalità religiose;
b) individuale, riconoscendo un diritto soggettivo di libertà religiosa.
In particolare, gli articoli della Carta repubblicana in cui sono consacrati
i principi ispiratori dello Stato in materia religiosa sono:
— artt. 2-3 che tutelano i diritti fondamentali, nei quali rientra la libertà
confessionale, e sanciscono il principio personalista e il principio di
eguaglianza, senza discriminazioni in materia di religione;
— artt. 7-8 che tracciano il regime dei rapporti tra lo Stato con la Chiesa cattolica e tutte le altre confessioni acattoliche che ricevono tutte uguale tutela;
— artt. 19-20 che riconoscono e tutelano la libertà religiosa e vietano trattamenti discriminatori fondati sul fine di culto o sul carattere ecclesiastico
degli enti;
— artt. 17, 18 e 21 che riconoscono alle confessioni religiose l’esercizio delle
libertà connesse a quella religiosa quali la libertà di riunione, di associazione
e di manifestazione del pensiero;
— art. 33 che sancisce la libertà di insegnamento, anche religioso.
Per l’analisi delle singole disposizioni della Costituzione si rinvia al Cap. 2.
E)Le fonti di provenienza unilaterale
Le fonti unilaterali sono quelle provenienti unicamente dal legislatore
nazionale italiano che possono distinguersi in:
a) generali, ossia quelle norme contenute nei codici o in altre leggi che, pur
non essendo proprie della materia ecclesiastica, si riferiscono comunque a
Il diritto ecclesiastico: definizione e fonti
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quest’ultima (ad es. l’art. 629 c.c. relativo alle disposizioni a favore dell’anima; il D.Lgs. 22-1-2004, n. 42 recante il Codice dei beni culturali e del
paesaggio; la L. 14-4-1982, n. 164 relativa al cambiamento di sesso etc.);
b) settoriali, ossia tutte le norme emanate per disciplinare esplicitamente
la materia ecclesiastica. Va anzitutto menzionata la L. 25-6-1929, n. 1159
(e successivo R.D. 28-2-1930, n. 289) regolatrice della vita e dell’attività di
tutte le confessioni acattoliche esistenti in Italia, nonché tutte le intese con
queste stipulate. Inoltre, è possibile ricordare il D.M. 11 giugno 1980, relativo alla macellazione degli animali secondo il rito ebraico e islamico; la
L. 4 marzo 1982, n. 68 relativo al trattamento giuridico ed economico dei
cappellani degli istituti di prevenzione e di pena; etc.
Le fonti regionali
I rapporti fra Stato e confessioni religiose sono di esclusiva competenza statale (art. 117,
comma 2, lett. c, Cost.), per cui un’eventuale legislazione regionale in materia religiosa non può
che riguardare aspetti specifici, direttamente connessi con gli interessi delle comunità territoriali come, ad esempio, le norme in materia di istruzione, tutela della salute, valorizzazione e
promozione dei beni culturali etc.
F)Le fonti di provenienza unilaterale confessionale
Sono norme, come quelle di diritto canonico, promananti da ordinamenti
giuridici religiosi che attengono a rapporti lasciati all’esclusiva regolamentazione dell’autorità religiosa, cui lo Stato riconosce efficacia nel proprio ordinamento mediante rinvio (che può essere formale se la norma richiamata resta
esterna all’ordinamento statale italiano e assoggettata nel suo essere, divenire
ed efficacia al sistema esterno cui apartiene; oppure materiale, quando la stessa
norma entri a far parte dell’ordinamento statale e come tale resti assoggettata
ai principi di quest’ultimo), ovvero considerandole presupposti o elementi
di fatto della fattispecie regolata da norme statali.
G)Le fonti di provenienza bilaterale
Sono quelle norme di fonte pattizia, le quali rivestono esteriormente il carattere di atti unilaterali, poiché sono recepite in leggi dello Stato, ma trovano
la loro fonte in accordi bilaterali; tra le più importanti possiamo citare la L.
27-5-1929 n. 810, con la quale è stata data esecuzione ai Patti Lateranensi; la L.
25-9-1985 n. 121, con la quale è stata data esecuzione al Nuovo Concordato; la
L. 20-5-1985, n. 222, sulla disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici;
varie leggi di attuazione delle intese stipulate con le confessioni acattoliche.
Rientrano in tale categoria anche le intese stipulate fra organi dello Stato e la
Conferenza Episcopale Italiana e fra Regioni e Conferenze Episcopali regionali.
H)Le sentenze della Corte costituzionale
Il diritto ecclesiastico italiano si è sviluppato nel corso del tempo non solo
attraverso le tipiche fonti di produzione del diritto, ma anche tramite l’atti-
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Capitolo Primo
vità della Corte costituzionale che con le proprie decisioni (sentenze, ma
anche ordinanze) ha inciso in modo rilevante sulla materia religiosa, a tutela
soprattutto della libertà di coscienza e di culto, di eguaglianza e di non discriminazione per motivi religiosi.
In particolare, le modifiche apportate al diritto ecclesiastico sono avvenute
anzitutto mediante sentenze di accoglimento con cui sono state dichiarate l’incostituzionalità delle norme sia unilaterali che di derivazione pattizia (Casuscelli).
In altre occasioni la Consulta è intervenuta mediante sentenze addittive, ossia
dichiarando l’illegittimità di un testo nella parte in cui «omette» una norma
che doveva necessariamente esserci. In base a quanto sostenuto dalla stessa
Corte costituzionale (ord. 13-15 gennaio 2003, n. 7), tali sentenze, in ragione
dei mutamenti normativi, «sono assimilabili a vere e proprie fonti del diritto»,
anche se non sono da considerare «fonti in senso stretto».
Capitolo Secondo..................................
I principi costituzionali
del diritto ecclesiastico
1. Introduzione
La Costituzione italiana ha scelto di valorizzare il fenomeno religioso considerandolo un aspetto della libertà dell’individuo indipendente dalla scelta di
appartenenza ad una specifica fede religiosa.
L’atteggiamento della Repubblica nei confronti della fede deve, pertanto,
considerarsi non «neutrale», ma interventista, per l’aspirazione del Costituente a rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano
la libertà e l’eguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona umana
(art. 3, comma 2 Cost.).
I principi costituzionali, per la loro ampiezza e generalità, influenzano la
natura e l’interpretazione delle norme di diritto ecclesiastico costituendo i
limiti invalicabili e insindacabili dell’ordinamento italiano.
2. Il principio personalista e il principio di eguaglianza
Il principio personalista e quello di eguaglianza rappresentano un «microsistema» e danno luogo ad una configurazione unitaria che offre un quadro
normativo complessivo di riferimento che trova il suo principio guida in quello
di laicità, mai citato espressamente dal Costituente.
In relazione al principio personalista, l’art. 2 Cost. stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo
sia nell’ambito delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
In base a tale disposizione, in particolare:
— la persona rappresenta un fine rispetto allo Stato, che costituisce, invece,
un mezzo per perseguire i diritti inviolabili;
— lo sviluppo della personalità comporta la piena realizzazione dei valori
e dei bisogni, tanto materiali quanto spirituali, di ciascun individuo;
— si afferma che le credenze religiose contribuiscono al progresso spirituale
della società;
— la persona è oggetto di attenzione non solo nella sua individualità, ma anche
nell’insieme di relazioni, aggregazioni e organizzazioni in cui realizza i
suoi interessi e bisogni, anche spirituali;
— le formazioni sociali, fra cui sono comprese anche le confessioni religiose, costituiscono uno strumento indispensabile per lo sviluppo della
personalità umana e a tal fine l’ordinamento riconosce ad esse diritti e
garanzie uguali rispetto a quelli riservati ai singoli (principio pluralista).
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Capitolo Secondo
In relazione al principio di eguaglianza, l’art. 3 Cost. stabilisce che tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali (eguaglianza formale) e attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che,
limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana (eguaglianza sostanziale).
Il primo comma dell’art. 3 evidenzia il nucleo concettuale del principio
di forte eguaglianza, in quanto vieta discriminazioni fondate su: sesso, razza,
lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali.
Tuttavia, tali distinzioni non sono vietate in assoluto, dal momento che
la Repubblica ha il compito di intervenire per rimuovere gli ostacoli che di
fatto limitano l’eguaglianza.
Pertanto i trattamenti differenziati sono vietati quando incidono sul godimento dei diritti e delle libertà; ciò, però, non vale se gli stessi rappresentano
il contenuto di una legislazione premiale a favore di quelle persone che, proprio
a causa di una delle cinque condizioni sopra enunciate, si trovano, di fatto, in
una condizione di discriminazione.
3. Il principio di laicità
A differenza dello Statuto albertino, che all’art. 1 definiva la religione cattolica, apostolica e romana come religione di Stato, nella Costituzione repubblicana, al contrario, non ci sono norme che indicano una religione ufficiale.
Peraltro, il Trattato fra la Santa Sede e l’Italia, sottoscritto nel 1929 e facente parte integrante dei Patti Lateranensi, riaffermava e riconosceva il principio della religione cattolica come
religione di Stato.
Tuttavia, solo con la sottoscrizione, nel 1984, del Protocollo addizionale
all’accordo recante modifiche al Concordato del 1929 viene affermato, al
numero 1, che nel nostro ordinamento «si considera non più in vigore il
principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano» (v. anche cap. 3).
Questa dichiarazione congiunta dello Stato italiano e della Chiesa cattolica
sancisce ufficialmente la scomparsa dall’ordinamento giuridico italiano del
confessionismo statale che aveva continuato ad informare, tra numerose
polemiche, il diritto ecclesiastico anche dopo la promulgazione della Costituzione del 1948.
Pertanto, dopo la firma del Concordato del 1984, la Corte costituzionale
ha potuto affermare che il principio di laicità rappresenta un principio supremo del nostro ordinamento, che caratterizza, cioè, la stessa forma di
Stato repubblicana (sent. 203/1989). Il suo contenuto si evince dalla lettura
dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione che impongono allo Stato non
un atteggiamento di indifferenza dinanzi alle religioni e al fenomeno religioso,
o addirittura di estraneità o di ostilità, bensì la garanzia della salvaguardia
della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale.
I principi costituzionali del diritto ecclesiastico
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La Corte costituzionale nelle pronunce successive ha sancito i corollari
del principio di laicità:
— il pluralismo confessionale (sent. 440/95 e 117/97 per i diritti dei non credenti);
— l’eguaglianza sulla libertà religiosa (sent. 440/95 e 329/97);
— il dovere nei confronti dei culti di equitanza e imparzialità dello Stato (sent.
508/2000);
— l’incompetenza dello Stato in specifiche materie religiose (sent. 195/99, 334/96)
salvo i limiti del buon costume e dell’ordine pubblico etc.
Sulla scia del Costituente anche il legislatore ordinario è intervenuto, ad
esempio con la L. 85/2006, apportando opportune modifiche al codice penale in
materia di reati di opinione, mentre già con il D.Lgs. 507/99 la bestemmia è stata
derubricata da reato a «illecito amministrativo» (Dalla Torre, Pistan).
Anche la magistratura è spesso intervenuta in materia religiosa (esposizione
del crocefisso nelle scuole e nei seggi elettorali, nelle aule di giustizia etc.).
Tutti questi interventi a favore del pluralismo e della libertà religiosa
ha portato a definire un concetto di laicità positiva «a servizio di concrete
istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini» più che limitarsi ad una
mera equidistanza o indifferenza verso il credo dei sudditi da parte dello Stato.
4. La distinzione degli ordini Stato-Chiesa
A)L’autonomia della Chiesa
I rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano sono disciplinati dall’art.
7, che afferma testualmente: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel
proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti
Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono
procedimento di revisione costituzionale».
In particolare, il comma 1 dell’art. 7 puntualizza il principio della co-vigenza
di due istituzioni indipendenti e sovrane che esercitano autonomamente («ciascuno nel proprio ordine») le loro potestà (cd. ordinamenti giuridici primari).
Più specificamente, secondo parte della dottrina (Casuscelli), per «ordine»
deve intendersi «un complesso di materie o contenuti sui quali ognuno dei
due soggetti esercita, secondo le specifiche caratteristiche, il potere sovrano
di costruire un proprio ed esclusivo sistema di valori e di principi, di produrre una regolamentazione giuridica e di apprestare la garanzia dei correlati
interessi umani».
Affermato, al comma 1, il principio della esistenza di un ordine riservato
alla sovranità della Chiesa e della necessità di delimitarne in concreto i confini,
l’art. 7, al comma 2 (superando la tesi di una regolamentazione concordataria
futura), sancisce che la regolamentazione delle materie mixtae vada fatta in
base ai Patti Lateranensi in vigore al momento della formulazione della Carta
costituzionale. In tal modo, i Patti sono divenuti la «misura costituzionale»
della competenza che lo Stato ha attribuito all’ordine suo e della Chiesa (Petroncelli).
16
Capitolo Secondo
Emerge, dunque, il principio della bilateralità (o cooperazione) desumibile dalla lettura congiunta degli articoli 7 (comma 2) e 8 (comma 3) della
Costituzione.
Tale regola, nel prevedere preventivi accordi Stato-confessioni religiose,
impegna lo Stato a non legiferare in via unilaterale, sulle materie che riguardano la libertà religiosa, ma richiede la formazione di un «diritto speciale
pattizio» (Pasquali Cerioli).
La bilateralità, così, informa il complesso dei rapporti Stato-confessioni
religiose e richiede la stipulazione di specifici concordati o intese tra le parti
per il rispetto della loro specificità e libertà (Pistan) con la differenza che
il Concordato Stato-Chiesa, implicando l’intervento di due soggetti di diritto
internazionale, assume, un rango interstatuale e internazionale.
B)I conflitti tra le norme pattizie e le altre norme
Esiste la possibilità che sorgano conflitti tra le norme pattizie e le altre
norme dell’ordinamento giuridico.
In particolare, il contrasto può sorgere con una norma:
a) statale ordinaria: quanto innanzi precisato circa il cd. «riconoscimento
costituzionale del diritto concordatario» (Gismondi), porta alla conclusione
della prevalenza della norma pattizia nei confronti di quella interna (conclusione che ha trovato il conforto di alcune decisioni della giurisprudenza
sia ordinaria che costituzionale);
b) costituzionale (1): parte della dottrina (Jemolo) è stata dell’avviso che debba
prevalere, in ogni caso, la norma costituzionale; altra parte (Del Giudice V.,
Petroncelli) ritiene invece che prevalga la norma pattizia avendo questa
carattere «speciale» («lex posterior generalis non derogat priori speciali»). Tale
seconda soluzione troverebbe conferma anche nel dettato dell’art. 7, comma
2, che evidenzierebbe la volontà del Costituente di far prevalere le pattuizioni
degli accordi anche sulle altre norme della stessa Costituzione.
Il problema è stato preso in esame dalla Corte costituzionale la quale, con
sentt. 30/1971 e 175/1973, ha affermato la giuridica rilevanza delle norme
pattizie anche quando contrastino con altre disposizioni della Costituzione, a
meno che non si tratti (ed è questo un criterio innovativo) dei principi supremi
dell’ordinamento costituzionale dello Stato.
c) di attuazione dei Patti. Prima dell’entrata in vigore della Costituzione
il conflitto era tra due norme interne di pari valenza: l’una di esecuzione
generale riproducente il testo dei Patti (L. 27-5-29, n. 810, cit.) e l’altra
(o le altre) di attuazione di singole norme degli stessi Patti (si veda, ad
esempio, la legge matrimoniale); in quel caso la norma di attuazione, in
(1) Va sottolineato che alcuni contrasti manifesti tra norme pattizie e norme costituzionali sono stati
eliminati dal nuovo Concordato.
Si pensi, ad esempio, ad alcune norme del vecchio Concordato, ora abrogate:
— l’art. 5, che, comportando una limitata incapacità giuridica per il chierico apostata, contrastava con il
disposto degli artt. 3, 21 e 51 della Costituzione;
— l’art. 39, relativo all’insegnamento religioso cattolico, che appariva in contrasto con l’art. 33 Cost.
I principi costituzionali del diritto ecclesiastico
17
quanto posteriore, e quindi, interpretativa, della norma pattizia prevaleva
su quest’ultima (Ciprotti). Con l’entrata in vigore dell’art. 7, comma 2,
Cost., essendo stata riconosciuta alle norme pattizie una efficacia pari a
quelle costituzionali, esse prevalgono sulle altre norme che, per quanto
successive, sono di minor forza vincolante perché norme di legge ordinarie.
C)Modifiche dei Patti Lateranensi
Per modificare le norme contenute nei Patti Lateranensi si possono seguire
due vie, ambedue sancite dalla Costituzione:
1) mediante nuovo accordo con la Santa Sede: il comma 2 dell’art. 7 parla
di «modificazioni accettate dalle due parti»: si tratta quindi di un nuovo
accordo (totale o parziale) tra Stato e Chiesa che, poi, dopo l’approvazione
delle Camere, verrebbe ratificato dal Capo dello Stato ed avrebbe piena e
intera esecuzione con legge ordinaria (non costituzionale) dello Stato; è
ciò che si è verificato, in pratica, con l’accordo di revisione del Concordato
Lateranense (cd. nuovo Concordato) firmato il 18 febbraio 1984.
2) mediante revisione costituzionale ex art. 138 Cost.: alcuni Autori (Del
Giudice V.), ritenendo che l’art. 7 abbia costituzionalizzato solo il principio della regolamentazione, tramite i Patti, dei rapporti tra Stato e
Chiesa, sono dell’avviso che lo Stato, unilateralmente, senza concorso della
Santa Sede, possa eliminare, con procedimento di revisione costituzionale,
lo stesso art. 7, restando poi libero di dare un diverso autonomo assetto alla
materia ecclesiastica.
Altri invece (Olivero, Petroncelli) ritengono che, qualora manchi
l’accordo con la controparte, lo Stato possa procedere alla modifica di singole norme pattizie (ad es. quelle in materia matrimoniale), ricorrendo, al
procedimento di revisione costituzionale.
È indubbio che la modificazione unilaterale, tramite il procedimento di
revisione ex art. 138 Cost., anche di una sola norma pattizia, altererebbe
profondamente il sistema dei rapporti tra Stato e Chiesa, la quale potrebbe ricorrere addirittura alla denuncia degli accordi; ma ciò, a parere dei
sostenitori di questa tesi, non inficia il potere (formalmente illimitato) che
lo Stato ha di alterare o sostituire il vecchio sistema con uno nuovo.
5. Il pluralismo confessionale
A)Il riconoscimento dell’identità religiosa
Tale principio si ricava dal riconoscimento dell’eguaglianza religiosa sancita dall’art. 8, comma 1 Cost. («Tutte le confessioni religiose sono egualmente
libere davanti alla legge») e dal divieto di discriminazioni basate sulla religione
contenuto nell’art. 3 Cost.
L’art. 8, comma 1 sancisce il principio del pluralismo confessionale ed
esclude ogni forma confessionismo di Stato.
18
Capitolo Secondo
Non sono, quindi, ammesse discriminazioni tra i culti che si basino sulla
loro più ampia diffusione rispetto alle altre confessioni.
La protezione del sentimento religioso, inteso come aspetto della libertà religiosa, non è, infatti, graduabile e ogni violazione colpisce la coscienza
religiosa del fedele allo stesso modo, indipendentemente dalla confessione di
appartenenza (v. anche cap. 11).
Giurisprudenza
Con sent. 13-3-2014, n. 641 la Corte di Appello di Venezia, ha ribadito che la Costituzione
italiana, tutelando la libertà religiosa e i diritti della personalità, tutela anche il sentimento
religioso. La carta costituzionale, tuttavia, afferma il principio della laicità dello Stato, il che
esclude il diritto di un singolo cittadino di pretendere che lo Stato impedisca manifestazioni
di pensiero contrarie ai principi della propria religione (ovviamente purché non si pongano
problemi di ordine pubblico o fatti di rilevanza penale).
Non può costituire fattore discriminante neppure l’esistenza di un’intesa
con lo Stato.
Le intese non possono, cioè, costituire una condizione imposta dai
pubblici poteri alle confessioni per poter godere della libertà di organizzazione e di azione garantita dal comma 1 e dal comma 2 dell’art. 8, né per
usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose (Corte
cost., sent. 346/2002).
La «pari libertà» riconosciuta alle confessioni religiose non esclude, però,
che attraverso lo strumento delle intese, non possa introdursi un regime
giuridico differenziato volto alla valorizzazione dell’identità della singola
confessione mediante una regolazione concordata dei reciproci rapporti con
lo Stato calibrata rispetto alle proprie specificità.
B)I limiti all’esercizio del culto acattolico
L’art. 8, comma 2, Cost., ricollegandosi al principio generale dell’art. 2, ha
riconosciuto alle confessioni non cattoliche un ambito di autonomia e di libertà
maggiore rispetto alla passata legislazione a tutela dei principi di eguaglianza
dei cittadini oltre a quello di libertà religiosa. È stato, infatti, sancito il potere
di autodeterminazione, cioè di porre norme efficaci anche nei confronti dello
Stato, attraverso statuti interni alle singole confessioni.
Alla capacità delle confessioni acattoliche di dotarsi di propri statuti corrisponde il conseguente abbandono da parte dello Stato della pretesa di fissarne
direttamente per legge i contenuti degli stessi.
Il riconoscimento di tale autonomia istituzionale, dunque, esclude ogni
possibilità di ingerenza dello Stato nell’emanazione delle disposizioni statutarie
delle confessioni religiose, purché gli statuti di tali culti non contrastino con
l’ordinamento giuridico italiano.
Tale espressione può essere intesa solo in riferimento ai principi fondamentali dell’ordinamento stesso e non anche a specifiche limitazioni derivanti
da particolari disposizioni normative (Corte cost. sent. 43/1998).
I principi costituzionali del diritto ecclesiastico
19
La dottrina prevalente è, comunque, del parere che tale formula comprenda,
quanto meno, l’ordine pubblico e il buon costume.
Per quanto concerne l’esercizio in pratica dei culti acattolici, la Costituzione
repubblicana prevede, tra i diritti fondamentali, la libertà di culto; unici limiti
a questa libertà sono quelli derivanti tassativamente dal combinato disposto
degli artt. 19 e 17 Cost.
L’art. 19 stabilisce la libertà d’esercizio del culto in pubblico e in privato,
sempreché si tratti di riti non contrari al buon costume.
L’art. 17 sancisce il diritto dei cittadini di riunirsi pacificamente e senz’armi,
anche in luogo aperto al pubblico, senza preavviso alle autorità, ed in luogo pubblico con preavviso alle autorità, le quali possono vietare la riunione soltanto
per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.
C)Le «intese» con i culti acattolici
Il comma 3 dell’art. 8 Cost. stabilisce che i rapporti fra Stato e confessioni
religiose diverse dalla cattolica per il principio della bilateralità «sono regolati
per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze».
Le intese costituiscono un accordo tra la confessione religiosa e lo Stato su
questioni concernenti sia l’una che l’altra parte.
Dottrina
Alcuni autori (Bianconi, Casuscelli, Finocchiaro) hanno operato un parallelismo con
l’art. 7, 2° comma, Cost., configurando le intese come dei veri e propri concordati.
Questa tesi non è accolta dalla dottrina prevalente (Jemolo, Del Giudice V., Petroncelli, Lariccia) in base alle seguenti considerazioni:
— le intese ex art. 8 Cost. esauriscono la loro funzione sul piano del diritto nazionale e costituiscono convenzioni di diritto pubblico interno;
— gli accordi o concordati ex art. 7 Cost. intervengono tra due ordinamenti giuridici primari
(ciascuno nel suo ordine «indipendente e sovrano») con rilevanza internazionale.
Infine, secondo Crisafulli ambedue le norme fanno riferimento a un principio comune
più generale, che prescrive che la legislazione statale in materia ecclesiastica non debba essere
unilaterale, ma preventivamente concordata fra Stato e confessione religiosa.
Per quanto concerne il valore delle intese c’è da rilevare che una parte della
dottrina ha attribuito, alle intese stesse, la natura di semplici presupposti
politici, negando sostanzialmente qualunque valore giuridico, con la conseguenza che all’art. 8 Cost. deriverebbe non un obbligo, ma solo una facoltà per
lo Stato (Corte cost. sent. 59/1958); l’obbligo per lo Stato è solo di emanare
una legge conforme all’intesa preventivamente raggiunta.
In ogni caso, una volta che le intese siano recepite in legge, le stesse godono
di una forza passiva rinforzata in quanto possono essere modificate soltanto
da successive leggi che recepiscono una nuova intesa fra le parti. Si noti, però,
che le leggi di recepimento delle intese conservano il rango di leggi ordinarie
e le norme in esse contenute sono sindacabili dalla Corte costituzionale non
solo quando violano i principi supremi, ma anche qualunque altra norma di
rango costituzionale.
20
Capitolo Secondo
La particolarità del disegno di legge di intesa, è che può essere accettato o respinto dal
Parlamento, ma non emendato, al fine di evitare che lo Stato approvi un accordo difforme dai
contenuti concordati con la confessione religiosa. Nel caso di mancata approvazione da parte delle
Camere, totale o parziale, il testo torna al Governo che è tenuto di nuovo a riaprire le trattative
con la confessione per eventuali e ulteriori modifiche.
Per quanto concerne la condizione giuridica delle confessioni che dovessero (o
volessero) rimanere prive di intesa, si ritiene in dottrina che lo Stato sia libero di
legiferare unilateralmente, sempre in armonia con i principi fondamentali stabiliti
dalla Costituzione, non solo nei primi due commi dell’art. 8, ma anche nel comma
2 dell’art. 3 il cui disposto fa obbligo alla Repubblica di «rimuovere gli ostacoli
di ordine sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana tra l’altro nel campo religioso».
Per l’esame dei principi fondamentali cui si ispirano le intese di rinvia al
cap. 10.
6. La libertà di coscienza
La libertà di coscienza, costituisce una vera e propria libertà autonoma
che abbraccia tutti gli atteggiamenti dell’individuo direttamente imputabili
alla sua coscienza.
Pur non essendo espressamente prevista dalla Costituzione, la libertà di
coscienza trova comunque tutela a partire anzitutto dall’art. 2 della Costituzione: riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo significa anche
assicurare protezione costituzionale a quella relazione intima e privilegiata
dell’uomo con sé stesso che di quelli costituisce la base spirituale di qualsiasi
culto (Corte cost. sent. 467/1991).
La Corte costituzionale, nella sentenza 117/1979, ha chiarito, poi, che
la libertà di coscienza dei non credenti va fatta rientrare nella più ampia
libertà religiosa assicurata dall’art. 19 Cost., il quale garantirebbe anche una
corrispondente libertà negativa di non credere (cd. ateismo).
Un esplicito riconoscimento della libertà di coscienza in materia religiosa è arrivato dal
legislatore che ha recepito le intese con le confessioni acattoliche. La L. 449/1984 (che recepisce
l’intesa con la Tavola valdese) dichiara che la Repubblica, nell’assicurare l’insegnamento della
religione cattolica nelle scuole pubbliche, materne, elementari, medie e secondarie superiori,
riconosce agli alunni di dette scuole, al fine di garantire la libertà di coscienza di tutti, il diritto di
non avvalersi dell’insegnamento religioso. Formulazione analoghe sono contenute anche nelle
altre leggi ricettive delle intese.
Ciò spiega perché l’insegnamento della religione cattolica non è stato considerato dalla Corte
costituzionale causa di discriminazione, né tanto meno in contrasto con il principio di laicità, in
quanto lo stato di non obbligo degli studenti che scelgono di non avvalersi di tale insegnamento
esclude che si operino dei condizionamenti dall’esterno della coscienza sulla libertà di religione.
La libertà di coscienza ha ricevuto riconoscimento e tutela anche a livello sovranazionale tanto dall’art. 9 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, quanto dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
I principi costituzionali del diritto ecclesiastico
21
7. La libertà religiosa
A)Nozione e natura giuridica
La libertà religiosa può definirsi la libertà, garantita dallo Stato a ogni
cittadino, di scegliere la propria credenza in fatto di religione (D’Avack).
Come tutti i diritti di libertà, esso si differenzia dai cd. «diritti sociali» (es.
diritto all’assistenza) perché, mentre tali diritti comportano la pretesa verso
lo Stato ad una prestazione positiva (esempio: costruzione di ospedali etc.), la
libertà religiosa postula, invece, la pretesa di una prestazione negativa da parte
dello Stato che è tenuto ad astenersi da tutti quegli atti che possano impedirne
il libero esercizio.
B)La previsione costituzionale
Nella Costituzione repubblicana il principio della libertà religiosa è sancito in tutta la sua completezza, sia sotto il profilo individuale che collettivo:
a) all’art. 19 che afferma: «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria
fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti
contrari al buon costume».
L’art. 19 usa la parola «tutti» per indicare i destinatari e, quindi, chiunque si
trova nel territorio italiano, anche i non cittadini (stranieri, apolidi, rifugiati
etc.). In tal senso, tale norma si deve considerare intimamente connessa
sia all’art. 2, che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo» sia
all’art. 3, che sancisce «l’eguaglianza dei cittadini davanti la legge senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali»;
b) all’art. 20 che prevede: «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di
culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali
limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione,
capacità giuridica e ogni forma di attività».
Attraverso tale disposizione viene garantita la facoltà dei singoli e delle
confessioni religiose di creare associazioni o istituzioni aventi carattere
ecclesiastico o finalità religiosa senza che la legge possa introdurre trattamenti sfavorevoli o discriminatori a carico degli enti religiosi rispetto ad
altre associazioni che perseguano scopi diversi, né utilizzare lo strumento
fiscale per rendere più difficoltosi la costituzione ed il funzionamento degli
stessi.
In base a quanto previsto dalla Costituzione si può, dunque, sostenere che
la libertà religiosa costituisce un diritto personalissimo, inalienabile, indisponibile, inviolabile ed intangibile riconosciuto a ciascun individuo e a
tutte le comunità religiose.
22
Capitolo Secondo
C)Gli aspetti della libertà religiosa
Il diritto di libertà religiosa include diversi aspetti:
1) libertà di fede, ossia libertà di professare qualunque fede, di mutare convincimento, di non professare alcuna fede, di manifestare nei confronti del
fenomeno religioso un atteggiamento di indifferenza e di scetticismo, senza
che ciò comporti alcuna conseguenza o discriminazione.
Anche la libertà religiosa negativa (la cd. libertà di ateismo), quindi, va ricompresa nella
libertà religiosa e godere della stessa tutela riconosciuta a quest’ultima dall’art. 19 Cost.
L’ordinamento, infatti, attribuisce pari tutela anche al rifiuto di ogni credo religioso così come
confermato anche dalla sentenza n. 117/79 della Corte costituzionale, che ha modificato la
formula del giuramento dei testimoni, nei processi, nella parte in cui imponeva di assumere
la responsabilità delle proprie dichiarazioni «davanti a Dio» (v. anche cap. 11, par. 1);
2) libertà di propaganda, ossia libertà riconosciuta a tutti di fare proseliti sia
all’interno dei luoghi di culto che al di fuori, mediante la parola, gli scritti, i
libri e gli altri mezzi di esternazione del pensiero. Anche con l’esaltazione della
propria fede o attraverso la contestazione o la negazione del fondamento
dogmatico degli altri culti sia con argomentazioni motivate che perfino con
asserzioni immotivate, purché non rappresentino ingiurie al credente;
La libertà di propaganda dipende molto dalla capacità, anche economica, di ciascuna confessione religiosa di dar vita e saper gestire mezzi di comunicazione di massa adeguati a
diffondere il proprio messaggio religioso. L’art. 3 del D.Lgs. 31 luglio 2005, n. 177 (modificato
dall’art. 17, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 44), annovera fra i principi fondamentali del sistema
radiotelevisivo il pluralismo dei mezzi e l’apertura alle diverse tendenze anche religiose;
3) libertà di culto, ossia la libertà di compiere atti di culto sia in privato che in
luogo pubblico. La previsione dell’art. 19 va coordinata con quanto prevede
l’art. 17 Cost., che impone il preavviso per le riunioni in luogo pubblico alle
autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza
o incolumità pubblica.
Sono stati pertanto dichiarati incostituzionali l’art. 1 del R.D. 289/1930, nella parte in cui
imponeva l’autorizzazione ministeriale per l’apertura del tempio di un culto ammesso, e l’art.
2 dello stesso regio decreto, che consentiva le riunioni dei fedeli senza preventiva autorizzazione governativa soltanto in un edificio la cui apertura fosse stata autorizzata e a condizione
che la riunione fosse presieduta o autorizzata da un ministro di culto. In tutti gli altri casi la
disposizione dell’art. 2 applicava le norme comuni per le riunioni pubbliche.
Da ultimo, la Corte costituzionale, il 23 febbraio 2016, ha dichiarato incostituzionale la
legge Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12.
In particolare la legge richiede, per la realizzazione di luoghi di culto acattolici, che la confessione abbia una «presenza diffusa, organizzata e stabile sul territorio» e che abbia stipulato
un’apposita convenzione con il Comune interessato. Tali condizioni non sono richieste, invece,
per la costruzione di Chiese cattoliche. La legge prevede, inoltre, che i finanziamenti destinati
alle comunità religiose e le aree individuate dal Comune ad accogliere edifici di culto siano
suddivise fra gli enti che ne abbiano fatto richiesta «in base alla consistenza ed incidenza sociale
delle rispettive confessioni».
Pertanto, la Consulta ha stabilito che tale legge regionale viola il principio della libertà di
culto sancito dalla Costituzione, prevedendo misure più restrittive per le religioni diverse
dalla cattolica.
I principi costituzionali del diritto ecclesiastico
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D)Il problema dei limiti
L’unico limite che espressamente l’art. 19 Cost. pone all’esercizio della libertà religiosa è rappresentato dal divieto di riti contrari al buon costume.
Questa espressione è stata intesa dalla dottrina in maniera restrittiva, come
esclusione della legittimità dei riti che offendono il pudore sessuale, la libertà
sessuale ed il sentimento morale dei giovani.
Si tratta di concetto elastico e caratterizzato dal principio di relatività storica, dal
quale deve essere escluso ogni riferimento al concetto generico di «ordine pubblico»,
come, invece, previsto dall’art. 1 della legge n. 1159 del 1930 per i culti acattolici.
Oltre al limite esplicito della contrarietà dei riti al buon costume, sussiste
un limite implicito connaturato alla necessità di tutelare altri diritti o interessi
aventi rilevanza costituzionale.
L’ordinamento statale può limitare la libertà di una confessione religiosa
solo quando mette in pericolo altri diritti fondamentali.
Nello svolgimento dei riti del culto, pertanto, non è mai consentita la limitazione dei diritti di libertà (sono perciò vietate la segregazione, la sottoposizione
a sofferenze, anche di carattere psicologico, o lo svolgimento di riti macabri e/o
sacrificali satanici) per motivi religiosi. Ciò spiega il contenuto della L. 7/2006, che
introduce gravi sanzioni per il nuovo reato di mutilazione degli organi genitali
femminili (che trova in fini religiosi il suo fondamento) (v. Cap. 11, par. 13).