Silvana Borutti Università di Pavia Antropologia e umanesimo Antropo-logia: il nome della disciplina significa studio dell’anthropos, studio dell’uomo in generale, ma in realtà l’antropologia è nata e si è affermata come etno-grafia, cioè come descrizione e studio dei caratteri e dei costumi dei popoli altri – tanto che il vasto continente del sapere antropologico può essere inteso come un insieme di racconti occidentali dell’altro. Racconti “occidentali”: nella qualifica “occidentale” emerge l’ambiguità del sapere antropologico. L’antropologia è irrimediabilmente legata alla volontà di conoscenza di noi occidentali, una pulsione di conoscenza che, come ha mostrato Tzvetan Todorov in Noi e gli altri, è anche volontà di autocomprensione. È stata di fatto un modo di autocomprensione nella forma dell’esotismo e dell’orientalismo, che erano già modi di straniamento e di elaborazione critica dell’identità occidentale sotto lo sguardo dell’altro; lo è diventata più radicalmente quando, nella seconda metà del Novecento, l’antropologia ha cominciato a interrogarsi sul senso dello sguardo portato dall’Occidente sull’altro. Gli stereotipi e gli effetti negativi della volontà di sapere occidentale sono stati criticati radicalmente dall’anglista di origine palestinese Edward Said, nel famoso saggio Orientalismo (1978), e dalla cosiddetta “antropologia post-coloniale”, fatta dagli stessi nativi. Questi antropologi hanno avuto il merito di richiamare l’attenzione sul perturbamento e lo scotimento reciproco causato dall’incontro, dallo sconfinamento, dall’ibridazione tra le culture – contro la retorica della tolleranza multiculturalista e del “politically correct”. Essi insegnano che l’antropologia si trova oggi drammaticamente al centro di un problema etico-politico: è possibile tener separata la volontà di sapere occidentale dal rapporto di potere che è l’Occidente? Oggi, in un momento storico di massima difficoltà nella comprensione del diverso, l’attenzione dell’etnografia per le differenze e lo sforzo antropologico di conoscere le diverse forme di vita può essere un baluardo contro un pensiero unico, contro il pensiero dei forti, contro cioè il pensiero dell’Occidente che domina e marginalizza il diverso attraverso l’economia e la politica? In che senso l’antropologia può essere una forma di umanesimo, che possa aprirci e accompagnarci nell’attraversamento culturale, e insegnarci il senso dell’alterità? Silvana Borutti insegna Filosofia teoretica ed è Direttore del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Pavia. È condirettore della rivista “Paradigmi”. È Visiting Professor all’Università di Lausanne. I suoi interessi di ricerca riguardano le categorie delle scienze umane, in particolare antropologia, psicoanalisi e storiografia; le teorie dell’immagine; le teorie della traduzione. Tra le pubblicazioni più recenti: Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’antropologia e della sociologia, Bruno Mondadori, Milano 1999; Théorie et interprétation, Payot, Lausanne 2001; F. Affergan, S. Borutti, C. Calame, U. Fabietti, M. Kilani e F. Remotti di Figures de l’humain: les représentations de l’anthropologie Editions de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris 2003 (trad. it. Meltemi, Roma 2005); Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero, tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina, Milano 2006; Leggere il «Tractatus logico-philosophicus» di Wittgenstein, Ibis, Como-Pavia 2010; S. Borutti, U. Heidmann, La Babele in cui viviamo. Traduzione e rienunciazione come dialogo tra le culture, Bollati Boringhieri, Torino 2012.