R. Puddu, I tercios e gli scenari di guerra della Spagna nel XVI secolo

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Storiografia
Raffaele Puddu (1946) insegna Storia moderna all’Università di Cagliari.
Oggetto privilegiato dei suoi studi è il mondo militare, in particolare quello spagnolo del Secolo d’Oro, di cui indaga tecniche e armamenti nonché
i legami con la politica e l’economia. Nel brano che proponiamo, Puddu
guarda ai punti di forza e di debolezza del sistema bellico spagnolo negli
anni di Filippo II. Incontriamo così i formidabili tercios, i corsari, gli abili
comandanti e i molteplici fronti di battaglia dove le armi castigliane sono
impegnate per oltre un secolo, sfiancando le pur ricche finanze di un regno
che sembrava imbattibile.
I tercios e gli scenari di guerra della Spagna nel XVI secolo
R. Puddu
Eserciti, guerre, diplomazia
in La Storia. L’età moderna. I quadri generali, UTET, Torino, pp. 388-392.
G
li uomini del medioevo esitavano a sfidare la sorte d’una battaglia campale. La
persuasione che fosse Dio a decretare in modo inappellabile il buon diritto del vincitore e l’estrema difficoltà di radunare gli osts, di tenerli a lungo sul piede di guerra, di
rimpiazzarli una volta distrutti, accrescevano il timore di eventi realmente decisivi: a
Poitiers, a Hastings, a Legnano, a Benevento e a Sempach [tutte località dove tra il 732
e il 1386 si erano combattute battaglie decisive, n.d.r.] s’erano giocati infatti in poche
ore i destini di regni e province.
Nei primi decenni dell’età moderna, al contrario, grandi eserciti si scontrarono a Fornovo, a Cerignola, a Ravenna, a Novara, a Marignano, alla Bicocca, a Pavia e a Ceresole.
Migliaia di soldati persero la vita, si spesero fiumi d’oro, Napoli e Milano cambiarono
più volte padrone, il re di Francia cadde nelle mani dell’avversario, senza che mai venisse meno la capacità di lotta dei due irriducibili leviatani che si contendevano l’egemonia europea. Le struttu­re del governo e dell’amministrazione erano così solide ed il
gettito fiscale così cospicuo e regolare da consentire a una monarchia apparentemente
prostrata di ricostruire il proprio potenziale militare e di tornare a combattere. Tramontò così l’illusione di poter decidere in una giornata le sorti d’un conflitto e la difesa
tornò a prevalere sull’attacco. […] Dopo San Quintino (1557), il volto della guerra appariva profon­damente mutato: la protezione di confini fattisi più stabili, la conservazione
del patrimonio dinastico, la disciplina e l’unità dei sudditi sotto una sola corona e una
sola fede furono anteposte al tentativo di nuove conquiste, ormai possibili solo al di là
degli oceani. Piuttosto che per armare eserciti, i cui successi non equilibravano i costi
e la cui dissoluzione era pericolosamente frequente, i governi preferivano spendere in
opere stabili di difesa o in flotte che aprivano loro l’accesso ai tesori del nuovo mondo.
I canoni della moderna arte fortificatoria rispondevano all’accresciuta effica­cia delle
artiglierie e delle tecniche ossidionali e rispecchiavano i nuovi indirizzi politici e strategici. Contro le mine e i proiettili di ferro si costruivano terrapieni bassi e profondi il cui
perimetro, armoniosamente rotto da contrafforti e baluardi, non proponesse angoli
morti al tiro dei cannoni piazzati sugli spalti. […] Nel corso di quella che è stata definita «età degli ingegneri», i porti e le città di frontiera assumevano l’aspetto di munite
piazze­forti, i castelli feudali e le mura urbane, già strumenti del particolarismo e della
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ribellione, erano abbattuti o cadevano in rovina e dai loro presidi le truppe reali vigilavano sulla fedeltà dei sudditi.
L’impero spagnolo poteva esser colpito sul mare o minacciato in un qualche punto del
suo sterminato periplo costiero, ma godeva sulla terraferma d’una superio­rità schiacciante nei confronti di ciascuno dei suoi molti nemici. Il tercio, unità base degli eserciti
di Filippo II, rappresentava il massimo prodotto dell’evoluzione militare cinquecentesca. A partire dalle guerre d’Italia, teorici e condottieri s’erano misurati col problema
d’una formazione ideale di fanteria che potesse sviluppare la potenza di fuoco degli
archibugi e proteggersi con un’impenetrabile cintura di picche, schierarsi a pieni organici ed agire per compagnie e per squadre, passare rapidamente e discipli­natamente
dalla difesa all’attacco. Un tercio era appunto in grado di far fronte a ciascuna di queste
necessità tattiche. Oltre a un distaccamento di cavalleria leggera e ad alcuni pezzi d’artiglieria, comprendeva all’incirca tremila fanti, ripartiti in una decina di compagnie.
In origine, metà erano archibugieri e metà picchieri, ma la percentuale dei primi sarebbe cresciuta sino a raggiungere i due terzi degli effettivi. Il reclutamen­to, affidato
mediante patente reale agli stessi capitani che avrebbero guidato gli uomini in battaglia, avveniva su base territoriale e per compagnie, ognuna delle quali, potenzialmente
autonoma, era armata ed addestrata sul modello del tercio onde potervisi facilmente
integrare allorché questo si disponeva in campo presentando il formidabile aspetto di
una fortezza di carne e d’acciaio. Un solido bastione di picche guarnito da archibugi,
torrioni e contrafforti laterali di moschettieri pronti a ripiegare al riparo delle armi
bianche dopo una serie di salve: la geometria regolava l’arte di schierare eserciti come
quella di costruire fortificazioni.
I soldati spagnoli trascorrevano la loro lunghissima ferma fuori dal territorio metropolitano, giacché era opinione comune che la fedeltà e la combattività delle reclute
crescessero con la distanza che le separava dai paesi d’origine. Acquartierati nei presidios sparsi per l’impero, essi garantivano l’obbedienza dei popoli al remoto sovrano dell’Escorial [residenza di Filippo II, non lontana da Madrid n.d.r.], rafforzavano
il proprio spirito di corpo ed il proprio orgoglioso isolamento nei confronti dei civili
inermi e venivano addestrati in attesa d’essere avviati verso uno dei fronti di guerra.
Nel 1567, al comando del duca d’Alba, poco più di diecimila veterani dei tercios viejos di
Napoli, Lombardia, Sicilia e Sardegna marciarono in soli quattordici giorni dall’Italia
alle Fiandre e parvero poter soffocare sul nascere la rivolta dei Paesi Bassi. Fu solo il
primo atto d’una guerra che, per più di ottant’anni, avrebbe dissanguato la «Monarquì
a Hispánica» contribuendo in misura determinante al suo tracollo.
Dopo il trattato di Cateau Cambrésis (1559), che poneva fine a mezzo secolo di guerre
con la Francia, la Spagna non ebbe che pochi anni di pace. La secessione delle Province
Unite e la sollevazione dei moriscos in Andalusia, l’offensiva dei turchi e le incursioni dei corsari barbareschi nel Mediterraneo, la minaccia al cattolicesimo in Francia e
l’intollerabile eventualità che un protestante sedesse sul trono di san Luigi [il trono di
Francia, n.d.r.], i continui attacchi della pirateria inglese e olandese ai convogli dell’oro
e gli aiuti che, dall’Inghilterra elisabettiana, venivano alla causa dell’eresia e della sovversione: per far fronte a questa impressionante serie d’impegni, ben al di sopra delle
possibilità finanziarie, tecniche e organizzative di uno stato d’antico regime, Filippo II
disponeva di un tesoro all’apparenza inesauribile, in realtà divorato dai crediti degli
asientistas e perennemente esposto al rischio della bancarotta, di galere mediterranee
e vascelli oceanici quantitativamente e qualitativamente inferiori all’insieme delle
flotte nemi­che e del più grande esercito d’Europa. Servivano sotto le sue bandiere centomila uomini, di cui ottantamila in Fiandra ed i rimanenti disseminati nei presidios.
Le unità scelte castigliane costituivano poco più di un decimo dell’intera forza; al loro
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fianco si battevano italiani, tedeschi, valloni, borgognoni e perfino inglesi, reclutati da
appalta­tori privati della guerra. Li guidavano i migliori condottieri del tempo: Fernando Alvarez de Toledo duca d’Alba, Alessandro Farnese duca di Parma, e uno stuolo di
ufficiali subalterni di grande capacità provenienti dalla piccola aristocrazia o dal popolo minuto, quali Julian Romero, Sancho de Londoño, Francisco de Valdés, Cristòbal
de Mondragon, Francisco Verdugo. Essi avevano il difficile compito di mantenere la
disciplina e la coesione in seno a un così eterogeneo organismo militare, di sedare i
contrasti tra le diverse componenti nazionali e di evitare che le truppe non pagate si
ammutinassero e disertassero nel bel mezzo d’una campagna. Sui campi d’Olanda, di
Francia o del Nordafrica risultavano solitamente vincitori, ma nessuno dei loro successi era mai decisivo, né valeva a toglier di scena uno degli avversari, rompendo l’accerchiamento cui l’impero era sottoposto. Parte dei consiglieri del Re Prudente [così
era detto Filippo II, n.d.r.], e con essi, ancor oggi, alcuni storici, si domandavano se non
sarebbe stato opportuno concludere ad ogni costo la pace su uno degli scacchieri onde
gettarsi in forze contro un solo nemico. […] La Spagna, colpita ai fianchi dai turchi e
dagli inglesi, vedeva la propria macchina militare affondare gloriosamente nei pantani
d’Olanda senza che alcuno, dal sovrano all’anonimo arbitrista [gli arbitristas furono dei
“riformatori economici” che proposero interventi di varia natura per risolvere la crisi
finanziaria ed economica che attanagliò la Spagna del XVI-XVII secolo, n.d.r.], osasse proporre l’ab­bandono delle province ribelli alloro destino. Ci si rendeva conto degli
effetti disgre­gatori che l’ammissione dell’impossibilità di domare la rivolta avrebbe
avuto sul maestoso e delicato edificio della monarchia: la crociata contro il nemico del
re e della fede comuni rafforzava l’unità dei domini, mentre una sola dimostrazione di
debolez­za da parte del governo centrale poteva risvegliare particolarismi mai sopiti e
perico­lose tendenze centrifughe.
Filippo II, insomma, non fu mai in condizione di poter scegliere tra l’Atlantico e il Mediterraneo, tra la lotta contro il Turco, lo schiacciamento delle Province Unite o la difesa
delle rotte oceaniche, né va dimenticato che la Castiglia, spada e guida dell’im­pero, se
ne godeva i maggiori vantaggi, doveva in larga misura sopportarne i costi, in uomini
e in denaro, e che le Americhe, i cui metalli preziosi pure contribuivano al finanziamento delle guerre nel vecchio continente, rappresentavano in pari tempo un gravoso
secondo fronte che sottoponeva le risorse demografiche castigliane a un continuo salasso. Per quanto formidabile in assoluto, l’apparato bellico spagnolo era simile a una
coperta troppo corta. Piazzeforti conquistate a caro prezzo ricadevano troppo spesso
nelle mani degli olandesi, [...]. Le brillanti campagne condotte in Francia dal Farnese
avevano il risultato di allentare la pressione sui combattenti delle Province Unite, ma
non decidevano le sorti delle guerre di religione in favore della Lega cattolica. L’Islam,
battuto nella splendida giornata di Lepanto, tornava ben presto all’offensiva. I nemici di Filippo II, per contro, avevano la possibilità di vibrare colpi durissimi attraverso
iniziative locali di dimensioni e di costi assai ridotti. Le imprese delle navi corsare e gli
imprevedibili attacchi da parte di piccole spedizioni inglesi e olandesi sottoponevano
il traffico atlantico a un pesante tributo e rendevano precari i collegamenti col Nuovo
mondo. Nel 1587, mentre i tercios di Fiandra prendevano una città dopo l’altra e dall’Escorial si faceva appello a tutte le risorse dell’impero per armare la più grande flotta
che si fosse mai vista, Francis Drake [corsaro al soldo dell’Inghilterra, n.d.r.], con una
squadra di una ventina di vascelli, poteva incrociare indisturbato lungo le coste della
penisola iberica, penetrare nel porto di Cadice, prender terra in Portogallo con poche
centinaia di uomini, danneggiare gravemente il concentramento e l’approvvigionamento dell’Armada, turbare la sicu­rezza delle popolazioni spagnole e offuscare il prestigio della potenza imperiale pro­prio mentre essa s’apprestava a punire l’Inghilterra.
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Caratteristica ineliminabile della strategia e dell’intero sistema militare spagnolo fu
dunque la sua estrema dispendiosi­tà: la monarchia dovette sempre pagare un prezzo
ben più alto rispetto a quelli sostenuti da ciascuno dei suoi avversari e, sebbene non
si possa affermare che la crisi del Seicento sia stata causata unicamente dalle spese di
guerra, ci si deve chiedere se una mobilitazione protrattasi per quasi due secoli senza
soluzione di continuità abbia maggiormente contribuito al consolidamento dello stato
castigliano o all’esplosione delle sue contraddizioni interne.
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