Andrea Danielli Introduzione de Le Forme della Mente Questa introduzione ha il ruolo di presentare il percorso seguito dalla nostra ricerca, tentare di chiarire il legame tra i diversi capitoli ed offrire una spiegazione di alcune scelte preliminari che non figurano nella trattazione. Nasce dall’esigenza di ridurre un problema pratico, la stesura del testo ad opera di molti autori, ed uno teorico, la giustificazione delle modalità di analisi e di organizzazione. Per quanto l’elaborazione delle idee sia stata il più possibile compartecipata e siano state inserite in ogni capitolo delle brevi introduzioni, il cui fine era di riassumere i passaggi precedenti ed anticipare gli sviluppi, abbiamo sentito l’esigenza di dare una presentazione organica ed il più possibile coerente. Perché partiamo dal modularismo L’elaborazione della conoscenza all’interno di un gruppo multidisciplinare è un fenomeno altamente complesso e, forse, imprevedibile. Ogni costituente porta con sé un lessico specifico, una propria modalità di approccio e risoluzione problemi, insomma, una tradizione. Occorrerà tenere sempre presenti queste considerazioni per poter seguire e comprendere lo sviluppo del tema principale all’interno di questo testo. In effetti il progetto è partito con un altro obiettivo: l’analisi dell’apprendimento cognitivo. Un simile tema avrebbe però necessariamente coinvolto diversi concetti, il più spinoso dei quali, la coscienza, ha immediatamente mostrato gli ostacoli in cui un’attività multidisciplinare può incorrere: l’incomprensione reciproca, dovuta a significative differenze terminologiche e concettuali. La vasta letteratura presente, e l’enorme varietà di approcci, ha reso la semplice partenza quasi impossibile, e portato a discussioni raramente conclusive. Siamo arrivati al modularismo in seguito alla lettura di diversi articoli che lo offrivano come assunto per l’analisi del mentale, e abbiamo deciso di riflettere sul successo di un simile approccio, dato praticamente per assodato e allo stesso tempo teorizzato in maniera spesso diversa. Il tema modulare, ed un approccio basato più su funzioni e processi, ha permesso un notevole calo della «conflittualità semantica»; la nozione di modulo è sufficientemente intuitiva e, allo stesso tempo, basata su considerazioni tecniche che vantano un’autorevole tradizione di studi. Non dimentichiamo, infine, che la stessa costituzione del gruppo, in cui buona parte dei componenti ha una cultura ed una preparazione scientifica, ha senz’altro favorito l’affermazione di un ambito di ricerca sostanzialmente neuroscientifico. E’ forse più semplice per noi comprendere dei processi, e lavorare secondo una logica di bisogni e soluzioni, piuttosto che dover ragionare in astratto: è più agevole, per esempio, intendersi su un concetto come «comunicazione tra moduli», piuttosto che «coscienza fenomenica»; considerando poi l’imprescindibile legame con il linguaggio richiesto da una teorizzazione più astratta. Se è vero che un profilo per certi versi riduzionistico si è imposto nello sviluppo della ricerca, tale scelta è giustificata da motivazioni eminentemente pratiche, dal desiderio di non disperdere tempo ed energie in problematizzazioni o giustificazioni forse eccessive per un lavoro di questo tipo. 1 Il modularismo, il connessionismo Il modularismo è nato in una favorevole situazione nel panorama degli studi sulla mente, durante gli anni ruggenti del funzionalismo e delle scienze cognitive, tra gli anni ’70 e ’80. Il funzionalismo, detto brevemente, vedeva la mente come un software che girava sul cervello (hardware), ed era ovviamente influenzato dal grande ottimismo che circolava intorno alla nascente Intelligenza Artificiale. Il comportamentismo poi era stato definitivamente sconfitto dalle rivoluzioni che avrebbero dato vita alle scienze cognitive. In questo quadro il modularismo si è proposto come la migliore piattaforma hardware possibile: i teorici modularisti hanno ideato una concezione capace di gettare un ponte tra ambiti molto distanti: informatica, psicologia e neurologia. In effetti gli studi anatomici e quelli sulle lesioni cerebrali avevano da tempo evidenziato differenze nelle aree cerebrali per quanto riguardava le funzioni svolte. Ora era possibile comprendere il senso di queste differenze. Il definitivo trionfo del modularismo sembrò arrivare con l’invenzione della risonanza magnetica funzionale (fMRI in inglese). Con la sua comparsa, la fMRI ha permesso di collegare il piano funzionale e teorico a quello fisiologico, localizzando le aree specifiche secondo il principio del «sono attive, quindi stanno funzionando» e misurando l’attività in ogni tipo di compito cognitivo (ed emotivo) possibile. Si è arrivati ad avere un discreta mappatura delle funzioni cerebrali: l’area delle emozioni, l’area per il linguaggio, l’area per i volti, arrivando poi ad aree più esotiche, quale l’area degli scacchi o quella per le automobili… [cfr. Peissig, Tarr 2007, 89]. Molti studi hanno cercato i neuroni di Dio, altri hanno analizzato i dilemmi etici, altri ancora hanno indagato i profondi motivi che spingono un consumatore ad acquistare la Coca Cola piuttosto che la Pepsi [cfr. Dobbs 2005]. Le moderne neuroscienze hanno ripreso l’antico progetto frenologico di Franz Joseph Gall. Il titolo di uno studio è indicativo del tipo di indagini che ha iniziato a proliferare: «Sistemi di gratifica, motivazione ed emotività associati con i primi stadi di intenso amore romantico1». Probabilmente ha pesato molto un certo tipo di riduzionismo, o anche le stesse modalità di ricerca, così interessate al «risultato»: una localizzazione sembra sempre un ottimo risultato. Ma questo modo di procedere ha lasciato fuori tutto ciò per cui non si è trovata una valida localizzazione. La coscienza, ad esempio, rimane una grande esclusa. Partendo da ciò che è stato escluso, alcuni autori hanno cominciato a criticare le modalità di indagine, e gli stessi strumenti di brain imaging o i metodi di inferenza statistica. Inoltre sono entrate in crisi molte delle basi teoriche del funzionalismo: l’Intelligenza Artificiale forte ha perso la sua sfida di creare robot pensanti, visti i risultati ancora insoddisfacenti nel simulare capacità umane; mentre dall’altro lato le neuroscienze sembrano attirare maggiormente l’attenzione, si prestano ad analisi filosofiche (ad esempio i neuroni specchio), si allargano ad interessanti contaminazioni (economia e studi sulla presa di decisione), e vengono continuamente diffuse sui mass media le continue scoperte. Partendo dalla concezione classica di modularismo ne abbiamo criticato alcuni degli aspetti fondanti: la specificità di dominio e l’impenetrabilità; detto rapidamente, il fatto che un modulo si identifichi in base alla funzione (unica) che svolge, e l’impossibilità per altri moduli di influenzare l’elaborazione che avviene 1 [Aron et al. 2005]; altri articoli si possono trovare su: http://www.jsmf.org/badneuro/. 2 al suo interno. Ciò che cercavamo era un concetto di modulo molto più elastico, in grado di adattarsi alla particolarità dei compiti richiesti. Un modulo cioè che nasce di volta in volta per rispondere a problemi mediante delle funzioni, autoorganizzandosi, e non un modulo strutturalmente predisposto e specializzato, ereditato geneticamente. In secondo luogo, l’idea di modularità richiede che un compito sia scomposto tra diversi moduli: ci interessava capire come possa avvenire simile scomposizione e come i moduli comunichino tra loro. Dal nostro punto di vista, cercavamo un’architettura capace di combinare specializzazione e flessibilità. La specializzazione risiede nell’area cerebrale (localizzazione) mentre la flessibilità viene data dalla quantità e dalla distribuzione dell’attività neurale all’interno dell’area2. La sincronizzazione Riteniamo una soluzione combinatoria il miglior approccio in grado di spiegare l’adattabilità e l’enorme capacità di risposta del cervello alle variazioni ambientali. Ma la combinazione richiede l’analisi di meccanismi di integrazione. In questa prospettiva ci siamo avvicinati alla sincronizzazione. I primi studi incontrati, quelli di Lehmann, sembravano fare al caso nostro: i suoi microstates appaiono legati alla funzione svolta, e quindi sembrano essere il prodotto di un’attività che risponde agli stimoli e si plasma in base ad essi. I microstates sono il frutto di moduli dai confini più elastici? Potrebbero essere moduli che si organizzano sincronizzandosi in un certo modo, potendo così rispondere con una sufficiente variabilità. Il problema di una simile concezione a nostro avviso sta nel metodo che serve per rilevare i microstates: l’inferenza statistica e l’assunto di base che aree funzionanti ad una stessa frequenza siano implicate nelle medesime funzioni. Ragionamenti simili a quelli di Lehmann, ma ad un livello più globale, si trovano nei lavori dei Fingelkurtz: il concetto di connettività funzionale, nei loro studi, sembrava utile, a noi che provenivamo dal modularismo, per teorizzare la sincronizzazione come un potente linguaggio del pensiero. Pensare che la sincronizzazione sia così determinante ci ha spinto ad interrogarci sulle sue origini. Ci siamo domandati se nel cervello esista un sistema di comunicazione come quello costituito dalla rete telefonica: prima di comunicare due o più aree devono sincronizzarsi, per permettere un’interpretazione corretta dei patterns di scarica? Fortunatamente abbiamo incontrato alcuni autori critici verso un simile modo di procedere. Abbiamo riservato una particolare attenzione all’origine della sincronizzazione proprio per tentare di capire se sia una condizione necessaria allo scambio di informazione nel cervello, o se piuttosto non sia una «conseguenza virtuosa» dell’attività di elaborazione. La simulazione ci è servita per cominciare ad esplorare questo campo sterminato. E’ stata rivolta soprattutto ad indagare il fenomeno secondo una prospettiva eminentemente sistemica: costruendo un sistema formato da neuroni inibitori ed eccitatori, in che modo si organizza e trova un suo equilibrio dinamico? La risposta è stata: sincronizzandosi. Se la sincronizzazione è un prodotto di elaborazione di un sistema dinamico è necessario indagare nuove forme di relazione tra aggregati neurali. Seguendo questo percorso non si deve dimenticare il ruolo e l’importanza della Per comprendere meglio questa ipotesi rimandiamo agli studi sulle aree visive deputate al riconoscimento di oggetti: per esempio Tanaka [1996]. 2 3 gerarchizzazione di molte aree3, l’effetto dell’eredità e dei percorsi neurali priviliegiati. Non significa certo tornare al modularismo, ma evitare una eccessiva dispersione nell’elaborazione dell’informazione. Occorre quindi trovare una via che permetta di combinare le diverse caratteristiche del cervello, la gerarchizzazione e l’elasticità, la velocità di elaborazione e la grande varietà di funzioni. Le rappresentazioni distribuite A nostro avviso si deve combinare un’aggregazione locale ad una comunicazione globale. Nel capitolo 5 attribuiamo alla rappresentazione il ruolo di aggregatore locale (per le popolazioni neurali), mentre la comunicazione tra rappresentazioni è resa possibile dall’astrattezza del codice neurale, costituito dall’insieme dei patterns di scarica (una sorta di codice morse, si capirà meglio in seguito). Per intraprendere questa strada abbiamo seguito un esempio concreto e specifico: le relazioni tra rappresentazioni audio e video. Questo sia per la letteratura disponibile (psicologica e neuroscientifica) sia per l’interesse filosofico, dato che vengono sfiorati temi quali la coscienza e la concettualità. Le rappresentazioni si costituiscono per rispondere allo stimolo nella sua specificità, la comunicazione tra rappresentazioni è invece l’elaborazione vera e propria. I principi guida, nella stesura del capitolo, sono stati i seguenti: una parte del cervello può organizzare un’altra parte, i principi gerarchici servono per astrarre i codici di comunicazione, le relazioni tra popolazioni neurali avvengono secondo principi dinamici (gli attrattori caotici possono essere un utile strumento per trattarne la dinamica). Naturalmente molto lavoro deve essere fatto, stiamo preparando ora una simulazione del modello proposto per conferire maggiore sostegno a quella che è soprattutto una speculazione teorica. Le riflessioni estese Pur costituendo il risultato di un lavoro di approfondimento condiviso da tutti gli appartenenti al Gruppo Mente, questo libro si divide, nella sostanza, in tre parti. Ai primi quattro capitoli, che affrontano, delineandone gli aspetti maggiormente problematici, l’argomento principale della nostra indagine – il modularismo –, seguono due capitoli di approfondimento specifico su tematiche di estrema attualità, strettamente legate all’analisi funzionale della fisiologia cerebrale, nonché un ultimo capitolo di riflessione – non solo metodologica – sul lavoro svolto e sui risultati concreti raggiunti. Una simile strutturazione del lavoro nasce da motivazioni differenti, interne ed esterne alla costituzione del Gruppo. Da un punto di vista strettamente interno, innanzitutto, – nell’ottica della diversa formazione degli appartenenti al Gruppo – è sembrato giusto favorire non solo l’approfondimento di tematiche (forse) di più ampio respiro, ma anche l’espressione di idee per alcuni aspetti eterogenee, nel rispetto dell’autonomia, della cultura e della libertà intellettuale di tutti i costituenti. D’altro canto, riteniamo che una simile soluzione risponda perfettamente alle due concezioni del multidisciplinare: un tema sviluppato da prospettive diverse, e, al contempo, 3 Cfr. per quanto riguarda il sistema visivo Hubel e Wiesel [1962]. 4 diversi argomenti trattati secondo uno sfondo teorico simile, nel nostro caso il paradigma modulare. Come spesso, del resto, la forma delle cose non rappresenta soltanto il risultato applicativo della fase di progettazione del lavoro, ma è il frutto di una serie di eventi di natura forse anche casuale, così il nostro libro ha assunto la propria struttura con il tempo, in conseguenza di ulteriori discussioni, critiche, revisioni incrociate ed altri eventi di diversa natura. Una parola mancante: conclusioni A nostro avviso i motivi principali per cui questo libro merita di essere letto stanno nel tentativo di criticare e comprendere delle concezioni estremamente influenti, quali quella modulare e quella connessionista, e nella proposta di strade alternative che possano portare al superamento di una dicotomia forse estremizzata. Riteniamo importante poi il lavoro di sistemazione tentato su un tema come la sincronizzazione, lavoro che cerca di rendere noti i frutti di ricerche praticamente contemporanee, in questo facendo un’opera che è rara in filosofia della mente: parlare delle novità davvero recenti. Infatti solitamente i filosofi trattano argomenti superati (studiano la macchina di Turing ma non conoscono bene le reti neurali) oppure si concentrano solo su alcuni fenomeni, ne è a nostro avviso un esempio il blindsight per quanto riguarda gli studi sulla coscienza. Tema molto discusso, se non abusato, a danno di una gran mole di interessanti dati neurologi e psicologici ampiamente sottovalutati e sconosciuti. Non possiamo assolutamente considerare il capitolo 5 un tentativo di conclusioni: il suo ruolo è essenzialmente propositivo, vogliamo offrire degli spunti. Le ricerche sul modello proposto stanno infatti proseguendo. I capitoli dedicati al modularismo e al suo contributo nell’estetica e nel diritto hanno a nostro avviso il notevole pregio di introdurre in Italia un insieme di studi ancora nascenti e dalle considerevoli prospettive di sviluppo. 5 Riferimenti bibliografici Aron A., Fisher H., Mashek D.J., Strong G., Li H., Brown L.L. 2005 «Reward, motivation, and emotion systems associated with early-stage intense romantic love», J. Neurophysiol., vol. 94, pp. 327-337. Dobbs, D. 2005 «Frenologia o realtà», Mente e Cervello, n. 16, pp. 80-85. Hubel D.H., Wiesel, T.N. 1962 «Receptive fields, binocular interaction and functional architecture in the cat's visual cortex», J. Physiol., vol. 160, pp. 106-54. Peissig, J. J., Tarr, M.J. 2007 «Visual object recognition: do we know more now than we did 20 years ago?», Annu. Rev. Psychol., vol. 58, pp. 75-96. Tanaka, K. 1996 «Inferotemporal cortex and object vision», Annual Review Neuroscience, vol. 19, pp. 109-139. 6