DIRITTO PENALE DELL`ECONOMIA

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ANNO XXVIII - N. 1-2 GENNAIO-GIUGNO 2015
ISSN 1121-1725
RIVISTA TRIMESTRALE DI
DIRITTO PENALE DELL’ECONOMIA
diretta da
GIUSEPPE ZUCCALÀ
ALBERTO ALESSANDRI, PAOLO BERNASCONI Lugano, CHRISTIAN BERTEL Innsbruck,
GUIDO CASAROLI, IVO CARACCIOLI, PHILIPPE CONTE Bordeaux,
MIREILLE DELMAS-MARTY Parigi, ANTONIO FIORELLA, GIOVANNI MARIA FLICK,
GIOVANNI FLORA, FRANK HÖPFEL Vienna, ALESSIO LANZI, VINCENZO MILITELLO,
CARLO ENRICO PALIERO, ANTONIO PAGLIARO, PAOLO PATRONO,
SALVATORE PROSDOCIMI, GIOVANNI SCHIAVANO, KLAUS TIEDEMANN Friburgo i. Br.
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COMITATO DI REDAZIONE
Alberto Cadoppi, Renato Calderone, Luigi Domenico Cerqua, Antonio D’Avirro,
Ennio Fortuna, Pasquale Giampietro, Elisabetta Palermo Fabris, Luca Pistorelli,
Silvio Riondato, Andreas Scheil, Klaus Schwaighofer, Giovanni Scudier, Silvana
Strano Ligato, Leonarda Vergine.
REDAZIONE: E-mail: [email protected] - Paola Iottini
Dal primo numero del 2012 la Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia si adegua,
anche formalmente, al sistema della revisione peer review.
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In caso di pareri contrastanti tra i due revisori, la decisione sulla pubblicazione è assunta dalla
Direzione della Rivista.
La documentazione relativa alle procedure di revisione viene conservata presso la redazione
della Rivista.
REVISORI
David Brunelli, Stefano Canestrari, Angelo Carmona, Andrea Castaldo, Mauro
Catenacci, Gerhard Dannecker, Emilio Dolcini, Fausto Giunta, Giovanni Grasso,
Roberto Guerrini, Silvia Larizza, Adelmo Manna, Nicola Mazzacuva, Sergio
Moccia, Manfredi Parodi Giusino, Roberto Rampioni, Sergio Seminara,
Wolfgang Wohlers.
Editore: Wolters Kluwer Italia Srl
Centro Direzionale Milanofiori - Strada 1, Pal. F6 - 20090 Assago (MI)
Autorizzazione del Tribunale di Padova del 7/1/88 N° 1045
Fondatore e direttore responsabile: Giuseppe Zuccalà
Stampa: GECA s.r.l. - Via Monferrato, 54 - 20098 San Giuliano Milanese (MI)
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INDICE SOMMARIO - FASCICOLO 1-2/2015
DOTTRINA
Articoli:
Marco Casellato, Sul criterio oggettivo dell’interesse o vantaggio ai fini dell’imputazione dell’illecito colposo alla persona
giuridica. In particolare, la responsabilità da reato ambientale
dell’ente ex art. 25 undecies d. lgs. 231/2001, tra criticità attuali ed incertezze future . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1
Federico Consulich, La norma penale doppia. Ne bis in idem
sostanziale e politiche di prevenzione generale: il banco di
prova dell’autoriciclaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
55
Roberto Flor, Prospettive attuative della Convenzione del Consiglio d’Europa contro il traffico di organi umani e tutela penale della salute e della dignità umana . . . . . . . . . . . . . . . .
89
Giuseppe Losappio, La tutela penale delle funzioni di vigilanza.
Il «nuovo» avamposto del microcredito . . . . . . . . . . . . . . .
125
Adelmo Manna, Controversie interpretative e prospettiva di riforma circa la responsabilità da reato degli enti . . . . . . . . . .
155
Massimiliano Masucci, Ratio e sistema dell’illecito (para-)penale dell’ente modificato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
177
Licia Siracusa, I delitti di inquinamento ambientale e di disastro
ambientale in una recente proposta di riforma del legislatore
italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
207
Commenti a sentenza:
Antonella Ciraulo, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: verso una progressiva assimilazione tra sanzioni penali e
sanzioni amministrative? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
243
Federico Donelli, L’abuso del diritto in una recente vicenda di
diritto penale doganale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
277
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VI
INDICE SOMMARIO - FASCICOLO 1-2/2015
ATTUALITÀ
Gherardo Minicucci, Profili penalistici dei pagamenti «preferenziali» all’amministratore di società . . . . . . . . . . . . . . . .
305
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Presidente presso la Corte Suprema di
Cassazione, dott. Giorgio Santacroce . . . . . . . . . . . . . . . . .
326
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Procuratore generale presso la Corte
Suprema di Cassazione, dott. Gianfranco Giani . . . . . . . . . .
335
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Presidente della Corte d’Appello di Milano, dott. Giovanni Canzio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
336
I reati economici nell’Intervento del Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Reggio Calabria, dott. Federico Cafiero
De Raho . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
341
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Presidente della Corte d’Appello di
L’Aquila, dott. Stefano Schirò . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
350
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dott.ssa Grazia Corradini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
356
LEGISLAZIONE
— Leggi e decreti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
359
— Disegni e proposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
370
GIURISPRUDENZA
— Corte di Cassazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
371
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INDICE PER MATERIA
Diritto penale dell’economia (problematiche generali)
Codice penale - parte speciale . . . . . . . . . . . . . .
Diritto penale dell’ambiente . . . . . . . . . . . . . .
Diritto penale bancario . . . . . . . . . . . . . . . . .
Diritto penale fallimentare . . . . . . . . . . . . . . .
Diritto penale del lavoro . . . . . . . . . . . . . . . .
Diritto penale societario . . . . . . . . . . . . . . . . .
Diritto penale tributario . . . . . . . . . . . . . . . .
Reati contro il patrimonio . . . . . . . . . . . . . . .
Reati contro la pubblica amministrazione . . . . . . .
Responsabilità da reato degli enti . . . . . . . . . . . .
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VII
VIII
VIII
VIII
IX
X
XII
XII
XIV
XIV
XIV
Flor R., Prospettive attuative della Convenzione del Consiglio d’Europa
contro il traffico di organi umani e tutela penale della salute e della dignità umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
89
Diritto penale dell’economia (problematiche generali)
Articoli:
Commenti a sentenza:
Ciraulo A., Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: verso una progressiva assimilazione tra sanzioni penali e sanzioni amministrative? . . .
243
Attualità:
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Presidente presso la Corte Suprema di Cassazione, dott.
Giorgio Santacroce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Procuratore generale presso la Corte Suprema di Cassazione,
dott. Gianfranco Giani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Presidente della Corte d’Appello di Milano, dott. Giovanni
Canzio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I reati economici nell’Intervento del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Reggio Calabria, dott. Federico Cafiero De Raho . . . . . .
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335
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VIII
INDICE PER MATERIA
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Presidente della Corte d’Appello di L’Aquila, dott. Stefano
Schirò . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
I reati economici nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014 del Presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dott.ssa Grazia
Corradini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
350
356
Legislazione:
Leggi e decreti
D. lgs. 16.3.2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della
legge 28 aprile 2014, n. 67) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
359
Giurisprudenza:
Corte di Cassazione
— Reati tributari - omesso versamento - ritenute certificate - sanzioni amministrative - ne bis in idem (Trib. Torino 27.10.2014) con commento di A.
Ciraulo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
243
Codice penale - parte speciale
Legislazione:
Leggi e decreti
L. 27.5.2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio) . . . .
366
Diritto penale dell’ambiente
Articoli:
Siracusa L., I delitti di inquinamento ambientale e di disastro ambientale in
una recente proposta di riforma del legislatore italiano . . . . . . . . . . .
207
Legislazione:
Leggi e decreti
L. 22.5.2015, n. 68 (Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente) . . .
361
Diritto penale bancario
Articoli:
Losappio G., La tutela penale delle funzioni di vigilanza. Il «nuovo» avamposto del microcredito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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INDICE PER MATERIA
IX
Legislazione:
Leggi e decreti
D. lgs. 12.5.2015, n. 69 (Attuazione della direttiva 2013/36/ue, che modifica
la direttiva 2002/87/ce e abroga le direttive 2006/48/ce e 2006/49/ce,
per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza
prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche
al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
366
Diritto penale fallimentare
Giurisprudenza:
Corte di cassazione
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta patrimoniale - beni del fallito nozione - beni ricevuti in comodato - esclusione (Cass., sez. V, 27.2.2015,
n. 13556, A.) con nota di M. Casellato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta - circostanza attenuante di cui
all’art. 219, comma 3, l. fall. - ambito di applicazione e diminuzione di
pena prevista (Cass., sez. V, 23.2.2015, n. 15976, D.) con nota di M. Casellato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta - sequestro preventivo di beni
di proprietà di terzi - condizioni - restituzione al formale intestatario disposta dal giudice delegato al fallimento - preclusione al sequestro - esclusione - ragioni (Cass., sez. V, 22.1.2015, n. 19078, G.A.) con nota di M. Casellato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Reati fallimentari - bancarotta in genere - omessa tenuta della contabilità bancarotta fraudolenta documentale - configurabilità - condizioni (Cass.,
sez. V, 22.1.2015, n. 11115, D.C.A.) con nota di G. Conforti . . . . . . . .
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta in genere - scissione mediante
costituzione di nuove società - trasferimento di ingenti risorse a quest’ultima - distrazione - configurabilità - presupposti (Cass., sez. V, 21.1.2015,
n. 13522, D.C.) con nota di M. Bolzonaro . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta in genere - bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare - condotta - forma - concorso di persone - possibilità - ragioni - fattispecie (Cass., sez. V, 16.1.2015, B. e al.)
con nota di L. Facchini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta in genere - amministratore di
diritto - semplice prestanome - responsabilità per l’operato dell’amministratore di fatto - sussistenza - condizioni
Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta in genere - reato commesso
dall’amministratore di fatto - concorso ai sensi dell’art. 40, comma 2,
c.p. dell’amministratore di diritto - dolo - consapevolezza generica delle
condotte dell’amministratore di fatto - dolo eventuale - sufficienza
(Cass., sez. V, 7.1.2015, F.), (Cass., sez. V, 22.10.2014, S. e al.) con nota
di L. Facchini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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X
INDICE PER MATERIA
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta in genere - bancarotta fraudolenta documentale - omessa consegna delle scritture contabili per non
compromettere la propria difesa in altro processo penale - reato - configurabilità - ragioni (Cass., sez. V, 12.12.2014, n. 9746, F.M.P.) con nota di G.
Conforti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta - in genere - bancarotta fraudolenta documentale post-fallimentare - condotta di falsificazione - oggetto
materiale - documento finalizzato a giustificare una falsa annotazione già
compiuta - possibilità
Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta - in genere - distrazione dei beni - restituzione a seguito di richiesta del curatore - irrilevanza ai fini dell’esclusione del reato
Reati fallimentari - in genere - bancarotta preferenziale pre-fallimentare consumazione - data della sentenza di fallimento
Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta - fatti commessi su libri e scritture - bancarotta documentale - sottrazione, distruzione o falsificazione di
libri e scritture contabili - elemento soggettivo - dolo specifico - necessità
- tenuta dei libri e delle scritture in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari - dolo generico
(Cass., sez. V, 9.12.2014, C. e al.) con nota di C. Castaldello . . . . . . . . .
— Reati fallimentari - reati commessi da persone diverse dal fallito - bancarotta semplice - mancata convocazione dell’assemblea dei soci nel caso
previsto dall’art. 2447 c.c. - configurabilità del reato - sussistenza (Cass.,
sez. V, 9.10.2014, n. 8863, V. e al.) con nota di M. Cesellato . . . . . . . . .
— Reati fallimentari - bancarotta fraudolenta in genere - prelievo di somme
dalle casse sociali a titolo di competenze per gli amministratori - misura
dei compensi non deliberata dall’assemblea dei soci - bancarotta fraudolenta per distrazione - sussistenza - ragioni - fattispecie (Cass., sez. V,
12.6.2014, n. 11405, C.E ed F.C.) con nota di M. Bolzonaro . . . . . . . . .
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Diritto penale del lavoro
Giurisprudenza:
Corte di Cassazione
— Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - cantiere temporaneo o mobile
interno ad un’impresa - datore di lavoro committente - obblighi in tema
di valutazione dei rischi - indicazione (Cass., sez. IV, 12.3.2015, n. 14167,
M.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - lavori affidati in appalto - responsabilità del committente - esonero - possibilità - limiti - fattispecie
(Cass., sez. III, 25.2.2015, n. 12228, C.) con nota di M. Zalin . . . . . . . .
— Lavoro - prevenzione degli infortuni - destinatari delle norme - prassi lavorative pericolose - infortunio del lavoratore - responsabilità del direttore di stabilimento - configurabilità - condizioni (Cass., sez. IV, 24.2.2015,
n. 13858, R. ed al.) con nota di M. Zalin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Lavoro - prevenzione degli infortuni - destinatari delle norme - strutture
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INDICE PER MATERIA
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aziendali complesse - responsabilità penale - individuazione - riferimento
al concreto apparato organizzativo - necessità - fattispecie (Cass., sez. IV,
24.2.2015, n. 13858, R. ed al.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - destinatari delle norme - committente e responsabile dei lavori - obbligo di vigilare sull’adempimento
degli obblighi gravanti sui coordinatori mediante controlli sostanziali sussistenza - omissione - responsabilità per omicidio colposo (Cass., sez.
IV, 12.2.2015, n. 14012, Z.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - reato di omessa elaborazione
del documento di valutazione dei rischi - soggetto attivo - individuazione
(Cass., sez. III, 20.1.2015, n. 17119, M.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - opere in regime di subappalto
- piano operativo di sicurezza delle imprese subappaltatrici - trasmissione
al coordinatore per l’esecuzione dei lavori - obbligo - violazione - reato di
cui agli artt. 97 e 159 d. lgs. n. 81 del 2008 - configurabilità - esclusione illecito amministrativo di cui agli artt. 101 e 159 d. lgs. n. 81 del 2008 sussistenza (Cass., sez. III, 8.1.2015, n. 5172, M.) . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - cantiere temporaneo o mobile
- coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori - posizione
di garanzia - cessazione per completamento delle opere edili in senso
stretto - possibilità - esclusione (Cass., sez. IV, 7.1.2015, n. 3809, C.) con
nota di M. Zalin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - scavo profondo oltre un metro
e mezzo - evento infortunistico verificatosi per cause occulte o lesioni interne del terreno - esenzione da responsabilità dei soggetti obbligati all’apprestamento delle misure antinfortunistiche - condizioni (Cass., sez.
IV, 19.12.2014, n. 11132, S.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - datore di lavoro - pluricommittente - valutazione del rischio - contenuto - indicazione (Cass., sez. IV,
11.11.2014, n. 5857, B. ed al.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - obblighi del datore di lavoro predisposizione e adozione delle misure antinfortunistiche - posizione di
garanzia - configurabilità (Cass., sez. IV, 21.10.2014, n. 4361, O.) con nota
di M. Zalin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - obbligo del datore di lavoro di
garantire la sicurezza nel lavoro - comportamento imprudente del lavoratore - rilevanza - condizioni - fattispecie (Cass., sez. IV, 17.10.2014, n.
3787, B.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni sul lavoro - datore di lavoro - sicurezza
dell’ambiente di lavoro - misure atte ad evitare il verificarsi di infortuni adozione - obbligo - individuazione delle misure - criteri - fattispecie
(Cass., sez. IV, 9.10.2014, n. 3774, C.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro - prevenzione infortuni - destinatari delle norme - preposto - titolarità di una posizione di garanzia a tutela dei lavoratori - responsabilità
per infortunio occorso al lavoratore - configurabilità - limiti - fattispecie
(Cass., sez. IV, 19.6.2014, n. 12251, D.V. e al.) con nota di M. Zalin . . . .
XI
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392
393
393
394
395
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396
396
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XII
INDICE PER MATERIA
Diritto penale societario
Attualità:
Minicucci G., Profili penalistici dei pagamenti «preferenziali» all’amministratore di società . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
305
Legislazione:
Leggi e decreti
L. 27.5.2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio) . . . .
366
Diritto penale tributario
Commenti a sentenza:
Donelli F., L’abuso del diritto in una recente vicenda di diritto penale doganale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
277
Giurisprudenza:
Corte di Cassazione
— Tributi - reati tributari - sequestro preventivo finalizzato alla confisca per
equivalente - accordo tra contribuente e amministrazione finanziaria per
la rateizzazione del debito - riduzione del vincolo in misura corrispondente ai ratei versati in esecuzione dell’accordo - necessità - fondamento
(Cass., sez. III, 15.4.2015 Cc., n. 20877, A.) con nota di P. Aldrovandi . . .
— Tributi - reati tributari - sequestro preventivo finalizzato alla confisca per
equivalente - omesso versamento dell’IVA - ammissione al concordato
preventivo in epoca precedente alla scadenza del debito fiscale - reato di
cui all’art. 10 d. lgs. n. 74 del 2000 - «fumus commissi delicti» - configurabilità - esclusione (Cass., sez. III, 12.3.2015, n. 15853, F.) con nota di P.
Aldrovandi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - oli - minerali - reati finanziari - sottrazione al pagamento dell’accisa sui carburanti - trasporto di oli minerali con modalità
atipiche o in quantità superiori ai limiti di legge - reato - sussistenza - mancata conoscenza della legge italiana da parte di un operatore in Stato
membro dell’Unione europea - incidenza - esclusione - fattispecie (Cass.,
sez. III, 12.3.2015, n. 15845, R.V.) con nota di Federico Mazzacuva . . . . .
— Tributi - reati tributari - in genere - attenuante del pagamento del debito
tributario - adesione all’accertamento - sufficienza - esclusione - integrale
estinzione dell’obbligazione tributaria - necessità (Cass., sez. III,
10.2.2015, n. 11352, M.) con nota di G. Carbone . . . . . . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - in genere - sottrazione fraudolenta al pagamento
delle imposte - profitto del reato confiscabile per equivalente - individuazione (Cass., sez. III, 22.1.2015, n. 10214, C. ed al.) con nota di G. Carbone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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INDICE PER MATERIA
— Tributi - reati tributari - dichiarazione dei redditi - omessa dichiarazione termine di prescrizione - decorrenza - indicazione - ragioni (Cass., sez. III,
20.1.2015, n. 17120, N.) con nota di Federico Mazzacuva . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - art. 10 d. lgs. n. 74 del 2000 - occultamento o distruzione di fatture cd. «passive» - reato - configurabilità - ragioni
Tributi - reati tributari - reato di indebita compensazione di cui all’art. 10
quater del d. lgs. n. 74 del 2000 - elemento oggettivo - indicazione - fattispecie (Cass., sez. III, 16.1.2015, n. 15236, C.) con nota di G. Salamone . .
— Tributi - reati tributari - oli - minerali - reato ex art. 40 lett. f) d. lgs. n. 504
del 1995 - consumazione - momento - individuazione (Cass., sez. III,
26.11.2014, n. 15826, G.) con nota di Federico Mazzacuva . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - reato ex art. 10 ter del d. lgs. n. 74 del 2000 omesso versamento iva - fatti commessi sino al 17 settembre 2011 - imposta evasa in misura inferiore alla soglia determinata per effetto della dichiarazione di incostituzionalità pronunciata con sentenza n. 80 del 2014
della Corte Costituzionale - formula assolutoria - individuazione (Cass.,
sez. III, 25.11.2014, R.) con nota di M. Grassi . . . . . . . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - in genere - l. 7 gennaio 1929, n. 4 - particolare facoltà di perquisizione locale in materia tributaria - presenza e collaborazione di personale dell’Agenzia delle Entrate - legittimità - possibilità di
costituzione come parte civile dell’Agenzia - irrilevanza (Cass., sez. III,
11.11.2014, n. 5923, C.) con nota di G. Carbone . . . . . . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - omesso versamento Iva - liquidatore di società elemento soggettivo - situazione prefallimentare - pagamento in favore
dell’Erario - erronea configurazione come ipotesi di bancarotta preferenziale per violazione della regola della «par condicio creditorum» - scriminante putativa - sussistenza (Cass., sez. III, 29.10.2014, n. 5921, G.) con
nota di P. Aldrovandi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - reato di omesso versamento di ritenute certificate
- prova del rilascio ai sostituti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate - mod. 770 - sufficienza - esclusioni - ragioni (Cass.,
sez. III, 9.10.2014, n. 10475, C.) con nota di G. Salamone . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - in genere - reato di omesso versamento dell’IVA natura istantanea - momento consumativo - conseguenze (Cass., sez. III,
24.6.2014, n. 8352, S.) con nota di Federico Mazzacuva . . . . . . . . . . .
— Tributi - reati tributari - reato ex art. 10 ter del d. lgs. n. 74 del 2000 omesso versamento iva - forza maggiore - rilevanza - fattispecie - condizioni
Tributi - reati tributari - reato ex art. 10 ter del d. lgs. n. 74 del 2000 omesso versamento iva - elemento psicologico - dolo generico - motivi del
mancato versamento del tributo - dolo generico - esclusione (Cass., sez.
III, 24.6.2014, n. 8352, S.) con nota di M. Grassi . . . . . . . . . . . . . . .
— Reati doganali - altri casi di contrabbando ex art. 292 d.P.R. n. 43/1973 ed
evasione dell’IVA all’importazione - rilevanza penale dell’abuso del diritto - importazione di velivoli esteri (Cass., sez. III, 9.1.2014, n. 11976;
Cass., sez. III, 17.1.2014, n. 13039; Cass., sez. III, 20.3.2014, n. 15186)
con commento di F. Donelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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XIV
INDICE PER MATERIA
Reati contro il patrimonio
Articoli:
Consulich F., La norma penale doppia. Ne bis in idem sostanziale e politiche di prevenzione generale: il banco di prova dell’autoriciclaggio . . . .
55
Reati contro la pubblica amministrazione
Legislazione:
Leggi e decreti
L. 27.5.2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio) . . . .
366
Responsabilità da reato degli enti
Articoli:
Casellato M., Sul criterio oggettivo dell’interesse o vantaggio ai fini dell’imputazione dell’illecito colposo alla persona giuridica. In particolare, la responsabilità da reato ambientale dell’ente ex art. 25 undecies d. lgs. 231/
2001, tra criticità attuali ed incertezze future . . . . . . . . . . . . . . . .
Manna A., Controversie interpretative e prospettiva di riforma circa la responsabilità da reato degli enti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Masucci M., Ratio e sistema dell’illecito (para-)penale dell’ente modificato
1
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177
Legislazione:
Disegni e proposte
Senato, disegno di legge n. 1735 (Introduzione, trai reati che comportano la
responsabilità amministrativa ai sensi del decreto legislativo n. 231 del
2001, dell’usura bancaria e dell’estorsione) . . . . . . . . . . . . . . . . .
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D O T T R
I N
A
ARTICOLI
Marco Casellato
dottore di ricerca in diritto penale nell’Università di Ferrara
SUL CRITERIO OGGETTIVO DELL’INTERESSE O VANTAGGIO
AI FINI DELL’IMPUTAZIONE DELL’ILLECITO COLPOSO
ALLA PERSONA GIURIDICA. IN PARTICOLARE,
LA RESPONSABILITÀ DA REATO AMBIENTALE DELL’ENTE
EX ART. 25 UNDECIES D. LGS. 231/2001,
TRA CRITICITÀ ATTUALI ED INCERTEZZE FUTURE
Sommario: 1. Alcune premesse di fondo. - 2. «Interesse o vantaggio»: lo stato dell’arte in
dottrina e giurisprudenza. - 2.1. La concezione soggettiva dell’interesse. - 3. L’autonoma
rilevanza del criterio del vantaggio. - 3.1. L’applicazione del requisito del «vantaggio»
agli illeciti presupposto colposi. Compatibilità con gli attuali reati ambientali presupposto della responsabilità dell’ente ai sensi dell’art. 25 undecies d. lgs. 231/2001. - 3.2. Segue: la difficile, ma necessaria convivenza con l’art. 25 septies d. lgs. 231/2001. - 4. Riflessioni conclusive. Imminente riforma dei reati ambientali e responsabilità dell’ente: i possibili risvolti teorici e pratici sul criterio dell’art. 5 d. lgs. 231/2001.
1. – L’art. 5 d. lgs. n. 231/2001, com’è noto, individua i cd. requisiti oggettivi che determinano l’insorgenza della responsabilità «amministrativa
da reato» della persona giuridica. Condizione prima ed essenziale è la realizzazione di uno degli illeciti presupposto (ex art. 24 ss.) da parte dell’organo-persona fisica, sia esso un «soggetto apicale» (ex art. 5, comma 1, lett. a)
oppure un «sottoposto» (ex art. 5, comma 1, lett. b), «nell’interesse o a vantaggio» dell’ente.
Come opportunamente evidenziato nella relazione ministeriale al «decreto 231» (1), con tale locuzione il legislatore intendeva esprimere – ed, al
contempo, rafforzare – l’idea dell’immedesimazione organica. La ben nota
teoria dell’imputazione organicistica, in effetti, funge da architrave portante dell’intero impianto normativo congeniato nel 2001.
A tal riguardo, volendo effettuare un parallelismo con gli schemi propri
dell’illecito penale, il requisito dell’interesse o vantaggio assolve ad una funzione analoga a quella che la categoria dogmatica della suitas esercita rispetto alla responsabilità penale delle persone fisiche (2). In altre parole, così
( 1 ) Cfr. Relazione al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in Dir. & Giust., 2001, n. 20, 27.
( 2 ) Esprime bene quest’idea Selvaggi, L’interesse dell’ente collettivo quale criterio di
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ARTICOLI
come la suitas rappresenta il presupposto primo ed irrinunciabile affinché
possa entrare in gioco qualsivoglia valutazione giuridico-penale del comportamento umano (3), parimenti la commissione del reato da parte dell’organo-persona fisica nell’interesse o a vantaggio dell’ente è in grado di escludere la responsabilità dell’ente medesimo rispetto a tutti quei fatti che siano
estranei all’organizzazione; fatti, cioè, che non «appartengono» alla compagine sociale o non sono alla stessa in alcun modo riconducibili.
Preliminarmente, una tale similitudine suggerisce – ed, anzi, impone –
una chiara presa di posizione in ordine al paradigma di responsabilità delineato dal legislatore del 2001. Ci riferiamo alla arcinota questione, sorta all’indomani dell’emanazione del «decreto 231» e tutt’oggi oggetto delle riflessioni di dottrina e giurisprudenza, sulla natura penale, piuttosto che amministrativa o, addirittura, «ibrida» (il cd. tertium genus) della responsabilità «da reato» della persona giuridica (4).
Orbene, non è nostra intenzione in questa sede ripercorrere tutte le articolate argomentazioni che i più illustri studiosi adducono a sostengo delle
rispettive posizioni, né ci preme dar conto dell’altrettanto variegato panorama giurisprudenziale. Ed infatti, l’atteggiamento ondivago del legislatore
e la conseguente oscurità del quadro normativo, che a fronte della sbiadita
«etichetta amministrativa» della rubrica si colora poi nel contenuto con le
tonalità forti del diritto penale, non consente di addivenire, a priori, ad una
ascrizione della responsabilità da reato, Napoli, 2006, 167, il quale afferma che «ad esso (al criterio dell’interesse o vantaggio, ndr) – come una sorta di suitas – l’ordinamento attribuisce una
primaria funzione di delimitazione tra i reati – si potrebbe dire – dell’ente e reati (soltanto) nell’ente».
( 3 ) In argomento, v. per tutti, Ferrante, La «suitas» nel sistema penale italiano, Napoli,
2010; Mantovani, Diritto penale, Padova, 2009, 295 ss.; Romano, Commentario sistematico
del codice penale, Milano, 2004, 418 ss.
( 4 ) La letteratura sul punto è pressoché sterminata. Per tutti, senza pretese di esaustività,
si vedano: Pistorelli, La responsabilità aministrativa delle società e degli enti. d. lgs. 8 giugno
2001, n. 231, (a cura di) Levis-Perini, Bologna, 2014, 3 ss.; De Simone, La responsabilità da
reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) di imputazione, in www.penalecontemporaneo.it; Agnese, La natura della responsabilità da reato degli enti, in C. pen., 2011, 1876 ss.; De
Simone, Persone giuridiche, responsabilità penale e principi costituzionali, in Criminalia,
2010, 605 ss.; Salomone, Trattato di diritto penale dell’impresa. La responsabilità da reato degli enti, Vol. X, (a cura di) D’Avirro e Di Amato, Padova, 2009, 35 ss.; De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008, 305 ss.; Marinucci, La responsabilità
penale delle persone giuridiche. Uno schizzo storico-dogmatico, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007,
456; Guerrini, La responsabilità da reato degli enti. Sanzioni e loro natura, Milano, 2006, 30
ss.; Maiello, La natura (formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale) della responsabilità degli enti nel d. lgs. n. 231/2001. Una «truffa delle etichette» davvero innocua?, in
questa Rivista, 2002, 879 ss.; Pulitanò, La responsabilità da reato degli enti: i criteri di imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 2, 415; De Maglie, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano, 2002, 327 ss.; Piergallini, Societas delinquere et puniri non
potest: la fine tardiva di un dogma, in questa Rivista, 2002, 598 ss.
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qualificazione sicura circa la predetta natura giuridica. Riteniamo, pertanto, che la soluzione al quesito de quo non possa che dipendere dal «peso» e
dal numero degli indici a favore dell’una o dell’altra interpretazione.
A tal proposito, ci sembra innegabile che, a dispetto del nomen juris
della responsabilità, il contenuto del «decreto 231» tradisca una preponderante «componente penalistica» (trattasi della cd. «truffa delle etichette»).
Si allude, anzitutto, al nesso fondamentale che intercorre tra la sussistenza
della responsabilità in parola ed il fatto di reato commesso dalla persona fisica organo dell’ente: logica vuole che, se la condicio sine qua non della responsabilità ex decreto 231 è costituita da un illecito penale, lo stesso carattere di illiceità debba trasmettersi giocoforza anche alla persona giuridica
nel cui interesse o vantaggio l’organo-persona fisica ha agito (5). In altri termini, sarebbe assai singolare qualificare come amministrativo un illecito il
cui cuore è costituito da un reato completo di tutti i suoi elementi costitutivi (6).
Altrettanto dirimente ci sembra l’attribuzione della competenza per
l’accertamento della medesima responsabilità all’autorità giudiziaria penale. A conferire rilievo – a nostro avviso quasi decisivo – a tale indicatore, però, non è tanto il dato del simultaneus processus, e cioè il fatto che la persona giuridica «salga sul banco degli imputati» assieme alla persona fisica che
ha commesso il reato presupposto e davanti al medesimo giudice (7), anche
se già questa circostanza, in realtà, si mostra particolarmente significativa
(8). Assume rilievo pregnante, piuttosto, il fatto che nel «sistema 231», qualora il reato presupposto si estingua rispetto all’autore individuale per una
causa diversa dall’amnistia, l’accertamento dell’eventuale responsabilità
( 5 ) Ad ulteriore conforto di questo assunto, inoltre, si è detto che «a decidere della qualificazione giuridica di un comportamento illecito sta la natura dell’interesse violato, non la natura del soggetto che ha commesso la violazione», cfr. Falzea, La responsabilità penale delle
persone giuridiche, in AA.VV., La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario, Milano, 1981, 141.
( 6 ) De Simone, La responsabilità da reato, cit., 16.
( 7 ) Un caso analogo, invero, è rappresentato dall’istituto della connessione nell’ambito
dell’illecito amministrativo di cui all’art. 24 l. n. 689/1981. La norma, infatti, affida alla medesima sedes processuale la definizione dell’illecito amministrativo «qualora l’esistenza di un
reato dipenda dall’accertamento di una violazione non costituente reato, e per questa non sia
stato effettuato il pagamento in misura ridotta». Altro esempio di simultaneus processus, poi,
potrebbe essere la stessa costituzione di parte civile nel processo penale, costituzione che non
vale certo ad attribuire carattere penale alla responsabilità ex art. 2043 c.c.
( 8 ) In proposito, si è giustamente rilevato che «diritto penale e processo penale rappresentano poli di una relazione dialettica necessaria, fondata su nessi di reciprocità, sia strutturale che funzionale: se, infatti, il primo ha bisogno del secondo per la implementazione di
parte significativa delle proprie funzioni di tutela [...], il secondo presuppone logicamente la
vigenza del primo»: cfr. in particolare, Maiello, La natura, cit., 901.
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ARTICOLI
dell’ente, ai sensi dell’art. 8 del medesimo decreto, prosegue autonomamente sempre nell’ambito dello stesso processo penale (9). Insomma, pare
assai chiaro che il legislatore, per l’accertamento della responsabilità dell’ente, non abbia concepito sede diversa da quella strettamente processualpenalistica proprio in ragione della vicenda autenticamente penale che ne
costituisce il presupposto indefettibile (10). La previsione del suddetto art.
8, peraltro, lungi dal rimanere lettera morta, potrebbe trovare ampio spazio
applicativo proprio rispetto ai reati ambientali che, costituiti nella maggior
parte da contravvenzioni (11), sono sottoposti al più breve regime di prescrizione previsto dall’art. 157 e seguenti c.p., a differenza dell’illecito dell’ente
che si prescrive nel termine più rigido posto dall’art. 22 del d. lgs. 231/
2001. Ciò significa che, con riguardo a detti illeciti presupposto, saranno
piuttosto frequenti i casi nei quali ad «un’uscita anticipata» della persona
fisica dal processo, per il decorso del suaccennato termine di prescrizione
oppure per l’intervento dell’oblazione o di altre cause di estinzione del reato diverse dall’amnistia (12), non corrisponderà analoga dipartita dell’ente
che, invece, continuerà a «rimanere seduto al banco degli imputati» in attesa di giudizio penale (13).
Proseguendo il ragionamento, poi, si potrebbe sostenere che proprio la
decisione di affidare solo e soltanto alle cure (rectius: alle garanzie) del processo penale l’accertamento dell’illecito dell’ente (14) testimonierebbe, in
( 9 ) In ciò differenziandosi dalla disciplina amministrativa precedentemente citata, ovvero dell’art. 24 l. n. 689/1981 che, al comma 6, così recita: «La competenza del giudice penale in
ordine alla violazione non costituente reato cessa se il procedimento penale si chiude per estinzione del reato o per difetto di una condizione di procedibilità».
( 10 ) In questo senso, v. per tutti, De Vero, La responsabilità penale, cit., 305 ss.; Guerrini, La responsabilità da reato, cit., 229.
( 11 ) Per un’approfondita disamina delle caratteristiche della normativa di settore si rinvia
a Pellissero, Reati contro l’ambiente e il territorio, Torino, 2013; Ruga Riva, Diritto penale
dell’ambiente, Torino, 2013; De Santis, Diritto penale dell’ambiente. Un’ipotesi sistematica,
Milano, 2012; Grillo, La politica criminale in Italia nel quadro della lotta contro la criminalità ambientale, in Amb. & Sviluppo, 7, 8, 9, 2011, 39 e 736; Ramacci, Diritto penale dell’ambiente, Padova, 2009; Bernasconi, Il reato ambientale. Tipicità, offensività, antigiuridicità,
colpevolezza, Pisa, 2008; Siracusa, La tutela penale dell’ambiente: bene giuridico e tecniche di
incriminazione, Milano, 2007; Casaroli, Il sistema sanzionatorio dei reati ambientali: lineamenti, in Annali Univ. Ferrara, vol. XI, 1997, 316 ss.; Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, Padova, 1996.
( 12 ) Cfr. De Vero, La responsabilità penale, cit., 305 ss.
( 13 ) A tal proposito, la Corte di Cassazione, con una recente pronuncia, ha stabilito che
«in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice deve procedere
all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui
interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato». Cfr. Cass. pen., sez. VI, del
25.1.2013, n. 21192, in CED rv. 255369.
( 14 ) Ciò, come visto, anche nel caso in cui la «posizione processuale» delle persona fisica
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via indiretta, la natura penale delle sanzioni da infliggere all’ente medesimo.
In altri termini, la premura del legislatore nel premunire l’accertamento
della responsabilità dell’ente con le guarentigie proprie del processo penale, si giustificherebbe proprio per il fatto che la reazione statale si manifesta
nella forma più repressiva e stigmatizzante tra quelle previste dall’ordinamento (15). Senza pretesa di esaustività, infine, si potrebbero menzionare
anche altri indicatori della natura penale della responsabilità ex «decreto
231». Ne costituiscono valido esempio la disciplina della successione di leggi nel tempo (art. 3 del decreto), che ricalca pedissequamente quella dell’art. 2 c.p. improntata al principio del favor rei, e la punzione delle fattispecie tentate (art. 26 d. lgs. 231/2001), del tutto estranea agli schemi dell’illecito amministrativo, oltre al criterio di commisurazione delle sanzioni pecuniarie di chiara ispirazione penalistica.
Pertanto, essendo plurimi e dirimenti, si diceva, gli indizi di matrice penalistica, ci sembra difficile discostarci dalla posizione dottrinale prevalente che
identifica nel «decreto 231» un’autentica forma di responsabilità penale (16).
A questo punto, dunque, ricondotta la predetta responsabilità nell’alveo del diritto penale (17), è possibile precisare meglio la premessa soltanto
abbozzata all’inizio del presente paragrafo. Riconoscere natura penale ad
un regime sanzionatorio significa renderlo suscettibile di giudizi di conformità rispetto ai parametri costituzionali (18). Sennonché, la compatibilità
venga definita anticipatamente, magari con una pronuncia ex art. 129 c.p.p. per l’intervento
di una delle suddette cause di estinzione del reato diverse dall’amnistia.
( 15 ) Costituisce ulteriore riprova dello stigma penale e della squalifica sociale connessa alla sanzione dell’ente la presenza di un istituto di pubblicità legale della condanna (cd. anagrafe nazionale delle persone giuridiche) in tutto e per tutto simile all’istituto del casellario giudiziale previsto per le persone fisiche.
( 16 ) Ne affermano la natura penalistica, tra gli altri: S. Riondato, Tipo criminologico e tipo normativo d’autore al cospetto della responsabilità penale dell’ente (d. lgs. n. 231/2001). Il
caso dell’«ente pubblico», in AA.VV., Il soggetto autore del reato: aspetti criminologici, dogmatici e di politica criminale, Padova, 2013, 112 ss.; Amarelli, I criteri oggettivi di ascrizione del
reato all’ente collettivo ed i reati in materia di sicurezza sul lavoro. Dalla teorica incompatibilità
alla forzata convivenza, in www.penalecontemporaneo.it, 16; De Vero, La responsabilità penale, cit., 305 ss.; Epidendio, I principi costituzionali e internazionali e la disciplina punitiva degli enti, in Bassi-Epidendio, Enti e responsabilità da reato, Milano, 2006, 454 ss.; Guerrini,
La responsabilità da reato, cit., 6; Manna, La cd. responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche: il punto di vista del penalista, in C. pen., 2003, 3, 1101 ss.; Maiello, La natura, cit.,
879 ss. Cfr. anche Marinucci, Diritto penale dell’impresa: il futuro è già cominciato?, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2008, 1481, secondo il quale «solo i piccolo borghesi hanno paura di etichettarla come responsabilità penale». Per la giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sez. II, del
20.12.2005, n. 3615, in C. pen., 2007, 1, 74.
( 17 ) Per lo meno quale suo terzo binario o tertium genus, come proposto da acuta dottrina: cfr. De Vero, La responsabilità penale, cit., 322.
( 18 ) A tal proposito, si rinvia alla lucida disamina di De Simone, Persone giuridiche, op.
cit., 605 ss.
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con i principi ai quali è informato il diritto penale costituzionalmente orientato, si riscontra, più che nella disposizione così come positivizzata dal legislatore, anche – e soprattutto – nell’interpretazione che l’operatore del diritto è tenuto a dare alla disposizione medesima. Ne discende, pertanto,
che, prima di porci un eventuale problema di compatibilità del testo legislativo rispetto ai canoni della Carta fondamentale (19), dobbiamo individuare,
tra tutte le opzioni esegetiche possibili, quella che meglio «faccia sistema»,
che più rispetti i dettami costituzionali.
Siffatta considerazione troverebbe terreno fertile proprio con riferimento all’interpretazione dell’art. 5 d. lgs. 231/2001 e, più nello specifico,
del «famigerato» criterio dell’interesse o vantaggio in rapporto a reati presupposto di natura colposa. Come si vedrà in appresso, infatti, la lettura più
accreditata di tale criterio in queste fattispecie, tanto in dottrina che in giurisprudenza, porta ad inestricabili torsioni interpretative, che soltanto apparentemente sembrano risolvere il problema della difficile compatibilità
del requisito de quo rispetto ai reati colposi. A nostro avviso, in realtà, si
tratta di esegesi che non possono condividersi, proprio per via dell’inaccettabile sacrificio dei suddetti principi costituzionali.
In definitiva, la premessa da cui partiamo impone la ricerca di una ermeneusi del criterio ascrittivo dell’interesse o vantaggio in grado di coniugare, al tempo stesso, le istanze di tutela sottese agli illeciti ambientali (e agli
altri reati presupposto colposi inclusi nel decreto 231) con il rispetto dei
principi penalistici tratteggiati dalla Carta fondamentale.
2. – È certamente innegabile, si diceva, l’imprinting della cd. teoria della
immedesimazione organica nella stesura dell’art. 5 del d. lgs. n. 231/2001
(20). Al fine di superare le obiezioni derivanti dal principio cristallizzato nel-
( 19 ) Più volte, nel corso di un giudizio avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità dell’ente ex d. lgs. 231/2001, sono state avanzate questioni di legittimità costituzionale rispetto soprattutto ai principi degli artt. 25 e 27 Cost. Il giudice a quo, però, ha sempre dichiarato finora la manifesta infondatezza della questione sollevata. Cfr. per tutte, Ord. G.i.p. Milano del 8.3.2012, in www.penalecontemporaneo.it. Per un commento in merito a tale ordinanza, v. Ascione, La responsabilità amministrativa dell’ente correlata a delitti colposi commessi in ambito professionale, in Giur. mer., 2012, 9, 1907 ss.
( 20 ) Parla di «copertura dogmatica» offerta dall’immedesimazione organica Pasculli,
La responsabilità da reato degli enti collettivi nell’ordinamento italiano, Bari, 2005, 131 ss. Secondo Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in Lattanzi, (a cura
di), Reati e responsabilità degli enti, Milano, 2010, 22 ss. alla suddetta teoria dell’immedesimazione andrebbe riconosciuto il merito di aver permesso il superamento dei dubbi di compatibilità costituzionale, avendo fornito «copertura teorica alla soluzione della responsabilità
sanzionatoria degli enti». Ne esalta la «permanente capacità di prestazione» De Vero, La responsabilità penale, cit., 40 ss. Anche Cass. pen., sez. VI, del 18.2.2010, n. 27735, cit., nel di-
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l’art. 27 Cost. (21), il legislatore delegato si è premurato innanzitutto di agganciare la responsabilità dell’ente a dati obiettivi; dati, cioè, che permettessero di collegare l’attività dei singoli individui alla sfera giuridica dell’ente medesimo, in modo tale che gli atti posti in essere dai primi potessero intendersi come realizzati direttamente dal secondo, quali fatti suoi propri.
È, quindi, da interpretare in quest’ottica l’espressa previsione del requisito dell’interesse o vantaggio (22). Affinché sorga la responsabilità dell’ente,
non è sufficiente che un fatto di reato venga commesso da una delle persone indicate alle lettere a) e b) del più volte menzionato art. 5, ossia da un
soggetto in posizione apicale oppure dal cd. sottoposto (23). È altresì necessario che questo soggetto abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente
(24).
chiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del
d. lgs. 231/2001 rispetto al parametro dell’art. 27 Cost., ne afferma la piena compatibilità con
il principio ivi sancito. Ricordiamo che la teoria organicistica delle società è fatta risalire a
Von Gierke, Die Genossenschafttheorie und die deutsche Rechtssprescung, Berlino, 1887.
( 21 ) Per una approfondita disamina delle implicazioni del principio rispetto alla responsabilità degli enti, v., per tutti, De Simone, Persone giuridiche, cit., 614 ss.
( 22 ) Cfr. negli stessi termini, De Simone, La responsabilità da reato, cit., 32, ove afferma
che «il criterio oggettivo d’imputazione, che [...] dovrebbe consentire di tradurre in termini
normativi l’idea dell’immedesimazione organica sulla quale si fonda l’asserita responsabilità
per fatto proprio della societas, è stato tipizzato attraverso il riferimento all’agire nel suo interesse o a suo vantaggio».
( 23 ) L’art. 5 d. lgs. 231/2001, così recita: «1. L’ente è responsabile per i reati commessi nel
suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione
dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché
da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
2. L’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi».
( 24 ) È la medesima Relazione ministeriale al decreto legislativo n. 231, cit., 27 ss., a sottolineare bene questo aspetto: «Ribadito ancora una volta che anche la materia dell’illecito penaleamministrativo è assoggettata al dettato costituzionale dell’art. 27, già la teoria della c.d. immedesimazione organica consente di superare le critiche che un tempo ruotavano attorno alla violazione del principio di personalità della responsabilità penale, ancora nella sua accezione “minima” di divieto di responsabilità per fatto altrui. Vale a dire: se gli effetti civili degli atti compiuti
dall’organo si imputano direttamente alla società, non si vede perché altrettanto non possa accadere per le conseguenze del reato, siano esse penali o – come nel caso del decreto legislativo –
amministrative. Anzi, a rigore, questa soluzione si profila quasi necessitata sul piano logico (dal
momento che assicura la corrispondenza tra chi commette l’illecito e chi ne paga le conseguenze
giuridiche), oltre che auspicabilmente idonea, su quello pratico, a contenere le distorsioni di una
giurisprudenza che, come noto, tendeva – in nome della prevenzione generale – a dilatare oltre il
consentito l’ambito delle responsabilità individuali degli amministratori. Quanto ai dipendenti,
non v’è ragione per escludere la responsabilità dell’ente dipendente da reati compiuti da tali soggetti, quante volte essi agiscano appunto per conto dell’ente, e cioè nell’ambito dei compiti ad es-
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Sebbene già la stessa Relazione ministeriale al decreto avesse tentato di
esplicare l’inciso, precisando come l’interesse caratterizzi «in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica», e debba
perciò valutarsi ex ante, mentre il vantaggio rappresenti per lo più un’utilità
tratta dall’ente in conseguenza del reato, «anche quando la persona fisica
non abbia agito nel suo interesse», da verificarsi, quindi, ex post (25), dottrina e giurisprudenza continuano tuttora ad interrogarsi sul reale significato
di tale locuzione.
In particolare, ci si chiede anzitutto se «interesse o vantaggio», diano vita ad un criterio unitario oppure rappresentino due «anelli di congiunzione» tra loro alternativi. Esistono, peraltro, differenti interpretazioni dello
stesso concetto di «interesse»: vi è chi ne offre una lettura cd. «soggettivizzata», volgendo l’attenzione all’intento di favorire l’ente, che anima l’agire
dell’organo-persona fisica, e chi, invece, propone una esegesi «oggettiva»,
rapportando il requisito de quo alla proiezione finalistica della condotta,
anziché all’animus del soggetto agente. Non manca, poi, chi suggerisce una
soluzione per così dire intermedia, valorizzando, in una sorta di sintesi, sia
il dato oggettivo che quello soggettivo del solo criterio dell’interesse (26). Infine, come sopra accennato, la tematica si intreccia con la difficile compatibilità del suddetto binomio rispetto ai reati presupposto colposi (27), con
specifico riferimento ai delitti ex artt. 589 e 590 c.p., richiamati tra gli illeciti
in materia di salute e sicurezza sul lavoro dall’art. 25 septies del d. lgs. 231/
2001, nonché, per quanto qui interessa, riguardo ai reati ambientali descritti dall’art. 25 undecies del medesimo decreto.
Iniziando dal primo dei quesiti proposti, si contendono il campo essenzialmente due teorie, quella monistica-riduttiva e quella dualistica-disgiuntiva (28). La maggioranza della dottrina, com’è noto, sposa la prima tesi e
cioè ritiene che «interesse o vantaggio» siano un’endiadi (29): il legislatore, in
si devoluti. In altre parole, con riguardo al rapporto di dipendenza, quel che sembra contare è che
l’ente risulti impegnato dal compimento, da parte del sottoposto, di un’attività destinata a riversarsi nella sua sfera giuridica. Fatte queste precisazioni, quanto agli aspetti di conformità con la
legge delega, si osserva, innanzitutto che la lettera e) dell’art. 11, comma 1, richiama i soli reati
commessi (dalle persone fisiche) a vantaggio o nell’interesse dell’ente. La formula è stata testualmente riprodotta, e costituisce appunto l’espressione normativa del citato rapporto di immedesimazione organica».
( 25 ) Relazione ministeriale, cit., ivi.
( 26 ) Offre questa particolare chiave di lettura, Selvaggi, L’interesse, cit., 110 ss.
( 27 ) Cfr. infra.
( 28 ) Cfr. in questo senso, Amarelli, I criteri oggettivi, cit., 1 ss.
( 29 ) Accolgono questa interpretazione, tra gli altri, De Simone, La responsabilità da reato, cit., 33 ss.; Vitarelli, Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti: un difficile equilibrio
normativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 703 ss.; Riverditi, La responsabilità degli enti: un
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sostanza, avrebbe attribuito rilievo ad un unico criterio, quello dell’interesse, essendo invece il pleonasmo del «vantaggio» privo di un’autonoma valenza ascrittiva della responsabilità. Quest’ultimo, piuttosto, costituirebbe
«una sorta di variabile causale, che potrà anche darsi concretamente, senza
che, per ciò solo, si debba ipotizzare una responsabilità da reato della societas» (30). Per contro, gli Autori che aderiscono alla visione dualistica, ravvisano due requisiti tra loro distinti ed alternativi: non soltanto l’interesse, ma
anche il vantaggio avrebbe dignità di autonomo collegamento del fatto di
reato alla persona giuridica (31).
La medesima incertezza interpretativa, peraltro, si registra anche in
giurisprudenza ove, accanto ad un indirizzo maggioritario (32), teso a riconoscere valenza disgiuntiva ai due criteri, si rinvengono altrettante significative pronunce, tanto di legittimità quanto di merito, nel senso di
escludere qualsivoglia autonomia descrittiva al criterio del vantaggio (33).
Orbene, a fronte di un dato normativo alquanto equivoco, riteniamo
che l’operatore del diritto debba individuare, tra tutte, quell’interpretazione del criterio ascrittivo che consenta di ricondurre il reato ad un «atteggia-
crocevia tra repressione e specialprevenzione. Circolarità ed innovazione dei modelli sanzionatori, Napoli, 2009, 182; Casaroli, Sui criteri di imputazione della responsabilità da reato alla
persona giuridica, in questa Rivista, 2008, 3, 572 ss.; De Vero, La responsabilità penale, cit.,
156 ss.; Guerrini, La responsabilità da reato, cit., 205 ss.; Mereu, La responsabilità «da reato» degli enti collettivi e i criteri di attribuzione della responsabilità tra teoria e prassi, in Ind.
Pen., 2006, 56 ss.; Selvaggi, L’interesse, cit., 28 ss.; Cocco, L’illecito degli enti dipendente da
reato ed il ruolo dei modelli di prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 95 ss.; De Maglie,
L’etica, cit., 332; Pulitanò, La responsabilità, cit., 425 ss.
( 30 ) In questi termini, De Simone, La responsabilità da reato, cit., 34.
( 31 ) Si attestano su questo indirizzo interpretativo, Presutti-Bernasconi, Manuale della responsabilità degli enti, Milano, 2013, p. 62 ss.; Amarelli, I criteri oggettivi, cit., 1 ss.; Dovere, La responsabilità da reato dell’ente collettivo e la sicurezza sul lavoro: un’innovazione a
rischio di ineffettività, in Resp. Amm. Soc. enti., 2008, 97 ss.; Id., Osservazioni in tema di attribuzione all’ente collettivo dei reati previsti dall’art. 25 septies del d. lgs. n. 231/2001, in questa
Rivista, 2008, 322 ss.; Bassi-Epidendio, Enti e responsabilità da reato, Milano, 2006, 161 ss.;
Astrologo, Brevi note sull’interesse e il vantaggio nel d. lgs. 231/2001, in La resp. Amm. Soc.,
2006, 192 ss.; Id., Interesse e vantaggio quali criteri di attribuzione della responsabilità dell’ente nel d. lgs. n. 231/2001, in Ind. Pen., 2003, 656 ss.
( 32 ) In questo senso si annovera anzitutto la nota sentenza Cass. pen., sez. II, del
20.12.2005, n. 3615, cit., secondo la quale «i due vocaboli esprimo concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse “a monte” della società ad una locupletazione – prefigurata, pur se di fatto, eventualmente, non più realizzata – in conseguenza dell’illecito, rispetto ad
un vantaggio obbiettivamente conseguito all’esito del reato, perfino se non espressamente divisato ex ante dall’agente». Negli stessi termini anche altre recenti pronunce di legittimità, come Cass. pen., sez. VI, del 25.5.2013, n. 24557, in Dir. e giust., 2013, 6 giugno, con Nota di
Piras. Per il merito, v. Trib. Milano, del 28.4.2008, in Foro Ambr., 2008, 3, 329 ss.; Trib. Milano, del 14.12.2004, in Foro it., 2005, 10, 527.
( 33 ) Nega autonomia al criterio del vantaggio, Cass. pen., sez. V, del 26.4.2012, n. 40380,
in G. dir., 2012, 46, 94; Trib. Camerino, del 9.4.2013, in Riv. pen., 2013, 6, 695.
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mento complessivo dell’ente». Del resto, è lo stesso decreto legislativo a richiedere, attraverso la predisposizione dei requisiti oggettivi e soggettivi,
che la «responsabilità amministrativa da reato» dipenda da un comportamento attribuibile nel complesso alla politica dell’ente o ad una sua colpevolezza di organizzazione. In questo senso, merita apprezzamento anzitutto
lo sforzo compiuto dal legislatore nella trasposizione legislativa della teoria
dell’immedesimazione organica. Riteniamo, infatti, – come già accennato –
che tale teoria permei tutto l’impianto normativo del decreto e faccia da
sfondo agli istituti dallo stesso disciplinati, primi fra tutti i suddetti criteri,
oggettivi e soggettivi, di ascrizione del fatto alla societas.
A nostro modo di vedere, però, l’immedesimazione organica, prima ancora di soddisfare le esigenze connesse al principio di colpevolezza ex art.
27 Cost. (34), assolverebbe anzitutto alla funzione cui è proteso un altro
grande principio del diritto penale costituzionalizzato: il principio di materialità. Quest’ultimo, com’è noto, circoscrive la punibilità ai soli fatti umani
manifestatisi esteriormente e quindi percepibili dai sensi. Ebbene, anche rispetto alla responsabilità degli enti dobbiamo ritenere che la base imprescindibile per formulare qualsivoglia giudizio di responsabilità sia per forza
di cose la condotta umana; non qualunque condotta umana, ma soltanto la
condotta, attiva od omissiva, realizzata da una persona fisica-organo dell’ente, «in nome e per conto» di quest’ultimo, come prescritto dal suddetto
paradigma dell’immedesimazione organica. Tale rilievo non deriva tanto da
un retaggio culturale del penalista, abituato a ragionare secondo gli schemi
antropomorfici del diritto penale classico, ma è, semmai, la prima conseguenza interpretativa della precisa scelta di campo fatta in precedenza, ovvero sussumere il modello di responsabilità descritto dal Decreto 231 nell’insieme del diritto criminale e dei principi allo stesso afferenti.
Ed è proprio a questo proposito che abbiamo aperto il presente contributo ravvisando una forte analogia tra il requisito dell’interesse o vantaggio
e la categoria dogmatica della suitas prevista all’art. 42, comma 1, c.p. Naturalmente, i principi che governano il diritto penale tradizionale, calibrati
esclusivamente sulla persona fisica, necessitano degli opportuni adattamenti, per essere egualmente validi ed applicabili rispetto ad entità artificiali come le persone giuridiche.
A nostro avviso, proprio il requisito dell’interesse o vantaggio sarebbe
l’adattamento più confacente alla fattezza degli enti per esprimere l’esigenza collegata alla suitas. Come la condotta umana, a mente del citato art. 42,
( 34 ) Cfr. Cass. pen., sez. VI, del 18.2.2010, n. 27735, in Cass. pen., 2011, 5, 1876, con nota
di Agnese.
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comma 1, c.p., deve essere «cosciente e volontaria», allo stesso modo il reato
presupposto realizzato dall’organo-individuo deve essere commesso «nell’interesse o a vantaggio» della persona giuridica. In altre parole, il legislatore, nel disciplinare un sistema di responsabilità, peraltro presidiato da sanzioni fortemente afflittive, non si è accontentato di un mero «rapporto institorio» tra la persona fisica e l’entità collettiva (35), come previsto in altri ordinamenti (36), ma ha preteso altresì che l’intero reato venga commesso, appunto, nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo. La differenza principale che si registra rispetto allo schema dell’art. 42 c.p., oltre all’ovvia
considerazione che «coscienza e volontà» non sono certo concetti riferibili
ad un’entità artificiale, è che, mentre secondo la disposizione codicistica è
la condotta a dover essere cosciente e volontaria, nel sistema 231 tali connotati, espressi dall’inciso dell’interesse o vantaggio, appartengono al reato
nel suo complesso. Quest’ultimo, infatti, è soltanto uno degli elementi costitutivi dell’illecito dell’ente, alla stregua della condotta che incardina soltanto il primo dei requisiti oggettivi del fatto tipico delle persone fisiche.
In definitiva, nell’economia della disciplina predisposta dal decreto
231, «interesse o vantaggio» assicurano la medesima funzione che la categoria della suitas, propria del diritto penale classico, svolge rispetto agli individui. Ed infatti, quest’ultima non sussiste soltanto rispetto agli atti derivanti da un impulso reale del volere e quindi compatibili unicamente con le
fattispecie dolose, ma è da ravvisarsi altresì in tutti gli atti impedibili dal
soggetto agente con uno sforzo della volontà, e perciò riferibili anche alle
ipotesi colpose. Allo stesso modo, pertanto, riteniamo che l’interesse concerna i reati realizzati dall’organo-persona fisica con la coscienza e volontà
di favorire l’ente, mentre il vantaggio attenga a quegli illeciti che, pur non
rispondendo ad una finalità particolare, potrebbero comunque essere impediti dall’ente medesimo con uno sforzo della sua «volontà», e cioè dotandosi di quei presidi e accorgimenti organizzativi idonei a scongiurare il rischio reato.
Naturalmente, questa ardita ipotesi ricostruttiva, al momento soltanto
abbozzata, presuppone necessariamente la netta distinzione tra il requisito
( 35 ) Rapporto institorio che deriverebbe dallo stesso principio di immedesimazione organica permeante l’intero impianto normativo.
( 36 ) Un esempio in questo senso potrebbe essere il modello francese cd. par ricochet. Cfr.
in proposito, De Simone, Il «fatto di connessione» tra responsabilità individuale e responsabilità corporativa, in questa Rivista, 2011, 48, al quale rinviamo anche per la ricca bibliografia
ivi contenuta. Per una panoramica complessiva della responsabilità degli enti e delle persone
giuridiche negli Stati del G8, v., per tutti, Fruscione-Luca-Maccani-Santacroce-Tosello, Responsabilità da reato di enti e società, Milano, 2011, 1 ss. V. anche, Alessandri, Diritto
penale e attività economiche, Bologna, 2010, 190 ss.
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dell’interesse e quello del vantaggio, con l’espressa attribuzione anche a
quest’ultimo di un’autonoma valenza ascrittiva. Si rende, quindi, indispensabile dar conto delle ragioni che ci inducono a credere che il legislatore
non abbia inserito tale requisito in via del tutto casuale o pleonastica, ma
abbia voluto esprimere un’esigenza ben precisa.
La dottrina maggioritaria, alla quale si è fatto cenno poco sopra, argomenta l’endiadi sulla base di un’interpretazione sistematica del decreto
231. In particolare, si sostiene che la clausola contenuta nell’art. 5, comma
2, del predetto decreto, ove si esclude la responsabilità dell’ente nel caso in
cui uno dei soggetti indicati al comma 1 (37) abbia agito «nell’interesse
esclusivo proprio o di terzi», consentirebbe di affermare la rilevanza del solo interesse, giacché in tale fattispecie, anche qualora l’ente ne ricavasse un
vantaggio, non risponderebbe comunque dell’illecito. In altri termini,
quando il reo abbia agito soggettivamente nell’interesse esclusivo proprio o
di terzi, il fatto, pur tornando fortuitamente ed oggettivamente a vantaggio
della societas, non sarebbe alla stessa imputabile a causa della rottura del
rapporto di immedesimazione organica (38).
In secondo luogo, ad ulteriore conferma dell’irrilevanza del «vantaggio», si adduce l’art. 12, comma 1, lett. a) d. lgs. 231/2001, il quale subordina la riduzione della metà della pena alla circostanza che l’autore del reato
abbia commesso il fatto «nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente
non ne abbia tratto vantaggio o ne abbia ricavato un vantaggio minimo».
Anche questa norma, in sostanza, parrebbe attribuire rilievo al solo interesse, nel senso di considerare sufficiente una parziale sussistenza del medesimo per imputare comunque l’illecito all’ente.
Siffatte argomentazioni si mostrano senz’altro suggestive, ma riteniamo
non possano essere accolte per i motivi in appresso.
Innanzitutto, una loro smentita sembrerebbe provenire proprio dalla
citata Relazione ministeriale al decreto, che espressamente distingue i due
criteri, affidando agli stessi una differente funzione. Se è pur vero che le relazioni di accompagnamento non sono in alcun modo vincolanti per l’interprete (39), è altrettanto vero che le stesse vengono redatte proprio allo scopo
di diradare eventuali dubbi esegetici che possano porsi rispetto al dato normativo e, in ogni caso, le predette relazioni sono pur sempre espressione
della volontà del legislatore, della quale, ovviamente, occorre tener conto.
Insomma, un’interpretatio abrogans del requisito del vantaggio porrebbe
( 37 ) Vale a dire uno dei soggetti descritti alle lettere a) e b) dell’art. 5 e cioè soggetti in posizione apicale o sottoposti.
( 38 ) In questi termini, De Simone, La responsabilità da reato, cit., 35.
( 39 ) Cfr. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1971, 262 ss.
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nel nulla la volontà del legislatore stesso (40), oltre a porsi in totale contrapposizione con il principio di conservazione dei dati normativi. Non solo,
ma anche la stessa lettera dell’art. 5 ne uscirebbe definitivamente frustrata:
se i due criteri fossero veramente un’endiadi, infatti, dovrebbero essere separati dalla congiunzione copulativa «e», non dalla disgiunzione «o» che,
invece, pone i due requisiti su di un piano paritetico ed alternativo (41).
La medesima lettura sistemica degli artt. 5 e 12 sopra proposta, inoltre,
non ci pare decisiva nel senso della rilevanza del solo criterio dell’interesse.
Anzi, a ben vedere, le due norme potrebbero avvalorare la tesi opposta, e
cioè quella dualistica che riconosce l’autonomia del vantaggio.
La clausola di esclusione prevista dall’art. 5, comma 2, che menziona il
solo interesse, non consente, per ciò solo, di esautorare da qualunque funzione l’alternativo criterio del vantaggio. Tale norma, infatti, disciplina
semplicemente l’ipotesi eccezionale che vede l’organo-persona fisica commettere il reato perseguendo un interesse esclusivamente personale (o di
terzi), con la conseguente rottura del rapporto di immedesimazione organica (42). Soltanto in questo particolare frangente, insomma, il vantaggio sarebbe privo di qualsivoglia rilevanza; in tutte le altre ipotesi, ovvero nei casi
in cui il predetto rapporto di immedesimazione sussista, agendo l’organo
nel contesto delle funzioni attribuitegli e «per conto dell’ente», il vantaggio
avrebbe invece dignità di autonomo criterio ascrittivo. In altri termini, si
tratta della classica eccezione assertiva della regola (43).
A questo proposito, una conferma della medesima regola potrebbe ravvisarsi proprio nel citato art. 12, comma 1, lett. a), il quale richiede, ai fini
dell’operatività dell’attenuante, la contestuale presenza di entrambi i requisiti. In altre parole, affinché l’ente possa beneficiare della riduzione di metà
della sanzione pecuniaria, è necessario che l’organo-persona fisica abbia
commesso il fatto nel prevalente interesse proprio (o di terzi) «e» che l’ente
( 40 ) In questo senso, tra gli altri, v. Amarelli, I criteri oggettivi, cit., 8.
( 41 ) V. Cass. pen., sez. II, del 20.12.2005, n. 3615, cit. A tal proposito, però, v’è anche chi
ritiene che la «o», in questo caso, avrebbe valenza «specificativa», esplicativa: cfr., per tutti,
De Vero, La responsabilità penale, cit., 160.
( 42 ) Ibidem. Peraltro, laddove si valorizzasse il solo criterio dell’interesse, la disposizione
del comma 2 dell’art. 5 sarebbe inutiliter data, potendosi pervenire alle medesime conclusioni
già per effetto di una corretta interpretazione del comma 1 dello stesso articolo, con particolare riferimento all’espressione «suo (dell’ente, ndr) interesse» che, da sola, vale ad escludere
le ipotesi di realizzazione del reato nell’interesse esclusivo di altri. Cfr. sul punto, G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito dell’ente collettivo dipendente da reato. Luci ed ombre nell’attuazione della delega legislativa, in R. it. dir. proc. pen., 2001, 1131.
( 43 ) Esaminando la fattispecie dal punto di vista del vantaggio, infatti, si tratterebbe di un
vantaggio del tutto fortuito e, in quanto tale, non attribuibile alla «volontà» dell’ente. Cfr.
Cass. pen., sez. VI, del 23.6.2006, n. 32627, in G. dir., 2006, 42, 61, con Nota di Amato.
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medesimo non abbia tratto alcun vantaggio o, al più, abbia conseguito un
vantaggio minimo in conseguenza del reato.
L’argomentazione veramente dirimente ai nostri fini, però, riposa nel
dettato dell’art. 8 del d. lgs. 231/2001. La disposizione, nota più che altro
per aver cristallizzato il principio dell’autonomia della responsabilità della
persona giuridica, sancisce che la responsabilità di quest’ultima sussiste anche laddove «non sia stato identificato» l’autore del fatto. Orbene, se ammettessimo la tesi qui criticata, e cioè che «interesse o vantaggio» costituiscano un’endiadi e sottintendano un unico criterio ascrittivo, che fine farebbe l’accertamento del requisito oggettivo della predetta responsabilità?
È evidente che, concedendo rilevanza solamente all’interesse, sia che lo si
intenda in senso soggettivo che oggettivo (44), il giudice si troverebbe costretto a soprassedere alla verifica del criterio in parola in tutte le ipotesi –
invero, abbastanza frequenti nella prassi – descritte alla lett. a) del citato
art. 8. Con ciò, quindi, violando palesemente il disposto normativo che, invece, potrebbe essere rispettato se si riconoscesse dignità di collegamento
funzionale anche al dato del «vantaggio».
Insomma, il complesso delle argomentazioni appena esposte, di tipo
storico, letterale e sistemico, ci porta a concludere in favore della chiara ed
autonoma valenza ascrittiva del criterio del vantaggio. Tale requisito, in definitiva, si porrebbe sullo stesso piano dell’interesse, quanto a capacità di
imputazione dell’illecito alla persona giuridica, e sarebbe al medesimo alternativo.
La sua sfera di operatività, però, attiene pur sempre al profilo sostanziale-oggettivo della responsabilità. A tal proposito, non può condividersi
quella ricostruzione esegetica che, pur riconoscendo autonoma rilevanza al
vantaggio, affida allo stesso una funzione di tipo processualistico (45). Si afferma, cioè, che «l’accertato conseguimento di un vantaggio per la persona
giuridica dovrebbe determinare un’inversione dell’onere della prova, nel
senso che dovrebbe comportare una presunzione juris tantum circa la sussistenza di un interesse della stessa persona giuridica, alla quale spetterà, pertanto, il dover dimostrare che l’autore ha commesso il reato presupposto
nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, così da rompere il nesso di immedesimazione organica che altrimenti lo avrebbe legato alla societas» (46).
Orbene, un’ermeneusi di tal fatta, a nostro avviso, è inaccettabile, quantomeno per due ordini di ragioni. In primo luogo, non pare avere alcun ri-
( 44 ) A questo riguardo, v. infra.
( 45 ) De Simone, La responsabilità da reato, cit., 38.
( 46 ) Ibidem. Cfr. anche Foffani, Responsabilità delle persone giuridiche e riforma dei reati
societari, in AA.VV., Societas puniri non potest, Padova, 2003, 253 ss.
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scontro di diritto positivo. Non si capisce, infatti, come possa ravvisarsi un
requisito processual-penalistico, sotto forma di inversione dell’onere della
prova, all’interno di una norma che è chiaramente tesa a disciplinare i requisiti sostanziali-oggettivi per l’attribuzione del fatto all’ente e che pone i
medesimi requisiti su di un piano paritetico ed alternativo. È pur vero che
analoga inversione dell’onere della prova sembrerebbe porla lo stesso art. 6
d. lgs. 231/2001, che disciplina l’ulteriore elemento soggettivo della predetta responsabilità, ma, se non altro, il testo di quella norma è più esplicito
(47).
In secondo luogo, una soluzione interpretativa di questo tipo si esporrebbe ai medesimi rilievi di incostituzionalità sollevati proprio con riguardo
all’art. 6. Del resto, è ben difficile immaginare che la commissione di un
reato presupposto non comporti un vantaggio, benché indiretto, a favore
dell’ente. Se quindi si interpretasse tale criterio nel significato «presuntivo»
sopra proposto, la responsabilità dell’ente diverrebbe pressoché automatica.
Breve: il requisito dell’interesse o vantaggio è espressione inequivocabile della teoria dell’imputazione organica, la quale funge da presupposto
teorico-dogmatico del d. lgs. 231 e degli istituti dallo stesso previsti, in particolare del criterio ascrittivo dell’art. 5. La teoria dell’immedesimazione organica, infatti, rende proprio dell’ente qualsiasi atto che un organo-persona
fisica abbia realizzato nello svolgimento delle sue mansioni per conto dell’ente medesimo. Il legislatore del «decreto 231», però, ha preteso qualcosa
in più che un semplice rapporto institorio e, a tale scopo, ha coniato il collegamento dell’interesse o vantaggio. Quest’ultimo, quindi, assolverebbe alla
medesima funzione che la suitas esercita rispetto alla responsabilità degli
individui, limitando la rilevanza penale alle sole condotte umane, coscienti
e volontarie. Analogamente, i requisiti dell’interesse o del vantaggio circoscrivono la responsabilità degli enti – anziché alle mere condotte – ai reati
commessi dai predetti organi, operando diversamente a seconda che si tratti di reati presupposto dolosi oppure colposi. Nel primo caso, entra in gioco il requisito dell’interesse, che consiste nella coscienza e volontà dell’organo-persona fisica di perseguire un’utilità per l’ente mediante la commissione dell’illecito; nella seconda ipotesi (48), invece, assume rilevanza il dato
del vantaggio, ovvero del beneficio economico derivante alla societas in
conseguenza del reato. Fermo restando, comunque, che non ogni ricaduta
( 47 ) L’art. 6, infatti, afferma espressamente che l’ente non risponde «se prova che».
( 48 ) Oltre che nei casi residuali ove un interesse nel senso anzidetto non è ravvisabile perché, per esempio, non è stato individuato l’esecutore materiale dell’illecito.
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vantaggiosa determina la responsabilità dell’ente, ma solo quel beneficio
patrimoniale che sia ricollegabile ad un atteggiamento complessivo della
persona giuridica, atteggiamento espresso dalla colpevolezza di organizzazione ai sensi degli artt. 6 e 7 d. lgs. 231/2001.
Siffatta ricostruzione, dunque, presuppone necessariamente il riconoscimento di un’autonoma valenza ascrittiva anche al criterio del vantaggio,
diversamente da quanto sostenuto dalla dottrina maggioritaria e da buona
parte della giurisprudenza. In conclusione, le argomentazioni sopra svolte
depongono nel senso di individuare due criteri fra loro distinti ed alternativi: l’interesse, da riferirsi ai reati presupposto dolosi, e il vantaggio, la cui
dignità di collegamento del fatto all’ente potrebbe trovare riconoscimento
proprio rispetto ai reati colposi, la cui interazione con l’interesse, soprattutto se inteso nella sua insopprimibile componente soggettiva, genera non
pochi problemi interpretativi ed applicativi.
2.1. – Le interpretazioni del criterio in parola, dal momento dell’entrata
in vigore del d. lgs. 231/2001 ad oggi, hanno indubbiamente risentito della
genetica delimitazione di tale disciplina ai soli illeciti presupposto di natura
dolosa (49). È in questo contesto, infatti, che è inizialmente emersa l’interpretazione del requisito in chiave soggettiva. In sintesi, l’interesse andrebbe
identificato nel substrato psicologico della persona fisica autrice materiale
del reato e si staglierebbe nella finalità che anima e sostiene il suo comportamento illecito (50). La finalità, naturalmente, consiste nell’avvantaggiare
l’ente per effetto della realizzazione del reato (51). Così, nel fatto dell’amministratore della società che corrompe il pubblico funzionario responsabile
del procedimento amministrativo per l’assegnazione dell’appalto, il requisito dell’interesse potrà agevolmente ravvisarsi nell’intento di favorire l’ente
di appartenenza, che si vedrà quindi aggiudicare l’appalto medesimo. L’in-
( 49 ) Cfr. Paliero, Dieci anni di «Corporate liability» nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, in AA.VV., D. lgs.: dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, in Soc., 2011, 5; Paliero, La società punita: del come del
perché e del per cosa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1534; Epidendio-Piffer, Criteri di imputazione del reato all’ente: nuove prospettive interpretative, in Resp. Amm. Soc., 2008, 3, 12. Ad
onor del vero, il legislatore, con il d.lgs. n. 61/2002, inserì nel corpus del decreto 231 anche
l’art. 25 ter, contenente sanzioni per i reati societari, alcuni dei quali tipizzati come contravvenzioni e, pertanto, imputabili sia a titolo doloso che colposo. È altrettanto vero, però, che
buona parte di questi reati è ontologicamente dolosa. Potrebbe leggersi in questo senso,
quindi, la decisione del legislatore di individuare, quale unico collegamento oggettivo di tali
fatti di reato all’ente, il solo criterio dell’interesse.
( 50 ) Negli stessi termini, v., per tutti Amarelli, I criteri oggettivi, cit., 6.
( 51 ) In tal senso anche Pistorelli, Brevi osservazioni sull’interesse di gruppo quale criterio oggettivo di imputazione della responsabilità da reato, in La Resp. Amm. Soc., 2006, 1, 13 ss.
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teresse, insomma, è il «fattore-molla» che spinge l’organo-persona fisica alla commissione del reato (52).
Orbene, siffatta interpretazione, che fino a poco tempo fa non era messa in discussione dalla dottrina e giurisprudenza maggioritaria (53), ha ben
presto dovuto fare i conti con l’introduzione di delitti presupposto aventi
natura colposa. Ci riferiamo anzitutto alla citata l. 3.8.2007, n. 123 (e successive modifiche), che ha introdotto nel decreto 231 l’art. 25 septies, disposizione con la quale, come è noto, il legislatore ha allargato la responsabilità dell’ente anche ai delitti di omicidio e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme prevenzionistiche. All’indomani
di tale «riforma», pertanto, non v’era chi non vedesse come un’interpretazione nei termini sopra prospettati del criterio dell’interesse avrebbe potuto comportare, di fatto, la disapplicazione del regime di responsabilità degli
enti in relazione alle suddette ipotesi colpose.
In effetti, affermare che il «movente» di un comportamento privo di
( 52 ) Sembrerebbe offrire un’interpretazione del requisito de quo in chiave soggettiva anche la nota sentenza Thyssen, tanto in primo che in secondo grado, ove si afferma, rispettivamente, che «Per l’accertamento della responsabilità dell’ente il primo presupposto consiste nell’accertamento dell’interesse o vantaggio che ha spinto la persona fisica ad agire [...] La Corte
ritiene che le gravissime violazioni della normativa antinfortunistica e antincendio e le colpevoli
omissioni siano caratterizzate da un contenuto economico rispetto al quale l’azienda non solo
aveva interesse, ma se ne è anche sicuramente avvantaggiata, sotto il profilo del considerevole risparmio economico che ha tratto omettendo qualsiasi intervento nello stabilimento di Torino;
oltre che dell’utile contemporaneamente ritratto dalla continuità della produzione», Corte Ass.
Torino, sez. II, del 15.4.2011, in www.penalecontemporaneo.it, 375 ss. In appello si avvalora
la decisione di primo grado affermando che la Corte aveva correttamente «ritenuto provato
che i due imputati non avessero commesso i fatti nell’interesse proprio», ritenendo che «a base
del loro operare l’obiettivo [fosse, ndr] di favorire economicamente la società che amministravano, che infatti non sopportò gli oneri relativi ai costi di installazione del sistema antincendio e
raccolse pure gli utili della prosecuzione della produzione», Corte Ass. App. Torino, sez. I, del
28.2.2013, in www.penalecontemporaneo.it, 325 ss. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la recentissima pronuncia delle sezioni unite della Cassazione, Cass., sez. un., del 24.4.2014, n.
38343, in www.penalecontemporaneo.it. V. anche, Trib. Pordenone, del 23.7.2010, n. 308, in
Giur. Mer., 2011, 2, 482, con nota di Ascione. Secondo i giudici friulani «costituisce interesse
rilevante e sufficiente ai fini della responsabilità degli enti ai sensi dell’art. 5 d. lgs. 231 del
2001, lo scopo di incremento o quantomeno di consolidamento della posizione della società, che
ha costituito la motivazione del reato di truffa ai danni dello Stato».
( 53 ) Ad onor del vero, già immediatamente dopo l’entrata in vigore del decreto 231 vi era
chi preconizzava incongruenze applicative qualora il legislatore avesse esteso al campo dei
reati colposi la responsabilità degli enti: cfr. in proposito, Pulitanò, La responsabilità, cit.,
426 il quale sin da subito proponeva, nell’eventualità, di riferire il criterio dell’interesse alla
condotta, e non anche all’evento del reato. Inoltre, sempre prima della l. n. 123/2007, esprimeva perplessità in ordine alla compatibilità del suddetto binomio rispetto ai reati presupposto colposi anche, tra gli altri, Mereu, La responsabilità «da reato», cit., 60. Rivendicava un
adeguamento dei suddetti criteri, Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche e delle associazioni. Sistema sanzionatorio e reati previsti dal codice penale, in Dir.
pen. proc., 2001, 1352.
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qualsiasi intenzionalità criminosa (che viene sanzionato solo perché il singolo ha inconsapevolmente violato una norma cautelare) sia da rinvenire
nell’intenzione di favorire la persona giuridica – proprio mediante l’inosservanza della disciplina prudenziale che magari il soggetto agente non sa di
aver contravvenuto – è una contraddizione in termini (54).
Per far fronte a tale (apparente?) incongruenza normativa, peraltro tuttora insoluta (55), la dottrina che ravvisa nel solo interesse l’unico, valido
collegamento oggettivo del fatto all’ente, propone diverse esegesi. Tralasciando le (inaccettabili) soluzioni più drastiche, che ritengono in questi casi si debba soprassedere alla verifica del criterio oggettivo dell’interesse,
surrogandone l’assenza con un accertamento più rigoroso di quello soggettivo di cui agli artt. 6 e 7 del decreto 231 (56), l’interpretazione che attualmente gode di maggior credito, anche nelle aule di giustizia (57), consiste nel
riferire il medesimo interesse, inteso per lo più in senso oggettivo, alla sola
condotta violativa della norma cautelare, e non anche all’evento (ove previsto) del reato presupposto.
Rinviando oltre per il vaglio di tale soluzione esegetica con particolare
riguardo ai delitti colposi d’evento, pare ora opportuno soffermarsi sulla
suddetta, alternativa concezione oggettiva dell’interesse. Esistono, invero,
diverse sfumature di detta interpretazione.
Una delle letture senz’altro più suggestive di tale requisito (58) consiste
nel «parametrare» l’interesse, anziché alla volontà di favorire l’ente da parte
del soggetto agente, alla condotta da quest’ultimo tenuta. Il requisito in parola, dunque, si esprimerebbe nei termini di una direzione finalistica della
stessa condotta, con la conseguente espunzione dal giudizio oggettivo di responsabilità dell’ente di ogni contaminazione soggettiva, riconducibile cioè
( 54 ) Così, più o meno testualmente, Santoriello, I requisiti dell’interesse e del vantaggio
della società nell’ambito della responsabilità da reato dell’ente collettivo, in La Resp. Amm.
Soc., 2008, 3, 51; Id., Violazioni delle norme antinfortunistiche e reati commessi nell’interesse o
a vantaggio della società, in La Resp. Amm. Soc., 2008, 1, 170; Bricchetti-Pistorelli, Responsabili anche gli enti collettivi, in Guida dir., 2007, 35, 41.
( 55 ) Nel senso che non si è ancora trovato un criterio sufficientemente appagante delle
varie istanze in gioco.
( 56 ) Senza dar conto di altre letture del dettato normativo, ancora più «apocalittiche»,
che negano addirittura l’applicabilità del decreto 231 rispetto ai reati colposi. Per un resoconto delle diverse opzioni esegetiche, v. Gentile, Incidenti sul lavoro e interesse dell’ente, in
Corr. mer., 2012, 2, 169 ss.; Epidendio-Piffer, Criteri, cit., 13 ss.
( 57 ) In questo senso, si rinvia per tutte alle decisioni «pioneristiche» dei Trib. Novara del
26.10.2010, in www.penalecontemporaneo.it e Trib. Pinerolo, del 23.9.2010, ivi.
( 58 ) Si allude a De Simone, La responsabilità da reato, cit., 36 ss. Per una interpretazione
in chiave oggettiva dell’interesse, v. De Vero, La responsabilità penale, cit., 160 ss.; Cocco,
L’illecito, cit., 95; Manna, La cd. responsabilità, cit., 1114; Pelissero, La responsabilità degli
enti, in Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Milano, 2007, 867.
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alle intenzioni dell’autore materiale del reato. L’accertamento del requisito
dell’interesse così inteso, quindi, andrebbe effettuato alla stregua di quell’idoneità e non equivocità degli atti, previste dall’art. 56 c.p. quali elementi
oggettivi della fattispecie tentata (59). E così, come nel tentativo gli atti devono essere idonei ed univocamente diretti alla commissione di un delitto,
la condotta dell’organo-persona fisica potrà dirsi realizzata nell’interesse
dell’ente quando si mostrerà idonea, oggettivamente, ad arrecare un vantaggio (avente contenuto per lo più economico) all’ente medesimo (60).
La soluzione esegetica testé avanzata, se dal punto di vista teorico si rivela assai persuasiva e convincente, all’atto pratico non appare poi così performante. Gli autori che intendono l’interesse nell’anzidetto significato oggettivo, invero, muovono essenzialmente dalla preoccupazione (61) che
l’opposta concezione soggettiva possa produrre una sorta di diritto penale
dell’atteggiamento interiore, subordinando di fatto la responsabilità dell’ente alla rappresentazione ideale del soggetto agente nel momento stesso
in cui commette il reato presupposto (62). Con ciò, inoltre, potendosi addirittura pervenire ad un’affermazione della responsabilità della persona giuridica anche laddove la rappresentazione iniziale dell’organo-persona fisica
si sia successivamente rivelata erronea ed abbia in concreto arrecato un
danno, anziché un vantaggio, alla societas. In tale ultima ipotesi, peraltro,
l’ente verrebbe doppiamente «sanzionato»: alle conseguenze dannose per il
suo patrimonio e la sua immagine derivanti dal comportamento del singolo,
infatti, si aggiungerebbe anche una condanna con i relativi effetti penali.
Questa condivisibile preoccupazione, tuttavia, non ci pare cogliere nel
segno. Se infatti, come riteniamo, si vuole permettere al requisito dell’art. 5
del decreto 231 di svolgere la funzione selettiva alla quale è preposto, non vi
è motivo per escludere che la stessa possa prodursi anche sul versante soggettivo del fatto commesso dalla persona fisica. Del resto, istituti similari,
dotati cioè della medesima efficacia selettiva della punibilità, ancorata – di
fatto – alla rappresentazione e volontà del soggetto agente, sono conosciuti
anche dal diritto penale tradizionale (63). Né vale ad attribuire pregio alla
( 59 ) De Simone, ult. op. cit., 37.
( 60 ) De Simone, ivi.
( 61 ) In aggiunta alla rilevata incompatibilità dell’interesse, se interpretato in chiave soggettiva, rispetto alle ipotesi colpose, quantomeno a quelle di colpa incosciente.
( 62 ) Paventano questo rischio, tra gli altri, Manna, La cd. responsabilità amministrativa,
cit., 1114; Riverditi, «Interesse o vantaggio» dell’ente e reati (colposi) in materia di sicurezza
sul lavoro: cronistoria e prospettive di una difficile convivenza, in Arch. Pen., 2011, 63, 395.
( 63 ) Ci riferiamo alla figura del dolo specifico ed, in particolare, con riguardo alla tripartizione in tema di offensività, al dolo specifico di ulteriore offesa. Ed infatti, rispetto a questo
istituto sono sorte analoghe preoccupazioni da parte della dottrina che si sono estrinsecate in
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concezione de qua, a nostro avviso, il rilievo secondo il quale non sarebbe
corretto accertare un requisito di tipo oggettivo, quale è quello posto dall’art. 5 del decreto 231, facendo ricorso ad un dato prettamente soggettivo,
come quello che riposa nell’intenzione e nella volontà del reo. Ora, a prescindere dalla natura prettamente convenzionale della distinzione tra requisito oggettivo e soggettivo, non bisogna scordare che l’illecito dell’ente sottende una fattispecie ben più complessa di quella ascrivibile all’autore persona-fisica. L’illecito della persona giuridica, infatti, da una parte, quale
elemento oggettivo, ingloba un reato completo di tutti i suoi elementi costitutivi (comprensivo, quindi, anche della colpevolezza del reo) commesso
dall’organo nell’interesse o a vantaggio dell’ente di appartenenza; dall’altra,
presenta un elemento soggettivo del tutto peculiare, estrinsecantesi nella
cd. colpevolezza di organizzazione (64).
Al di là di siffatte argomentazioni eminentemente tecnico-dogmatiche,
comunque, è proprio sul piano della dimensione applicativa che la concezione oggettiva dell’interesse poc’anzi riportata rivela, a nostro modo di vedere, la sua scarsa performance selettiva. Ed invero, l’accertamento in termini oggettivi della proiezione finalistica della condotta non pare presentare
meno incognite e insidie interpretative di quante non ne abbia l’interesse
inteso in chiave soggettiva. A fronte di alcuni reati per i quali tale verifica
pare agevole (65), infatti, ve ne sarebbero altri – non pochi, a dire il vero –
che potrebbero invece riservare all’interprete difficoltà di non poco momento. Il pensiero corre, innanzitutto, proprio ad alcuni dei reati ambientali introdotti dall’art. 25 undecies come illeciti presupposto della responsabilità dell’ente.
Orbene, come valutare l’idoneità ed univocità della condotta, nella sua
tensione finalistica verso il conseguimento di un vantaggio per l’ente, rispetto, per esempio, ad una condotta omissiva, quale quella descritta dal legislatore nella fattispecie di omessa bonifica dei siti ex art. 257 TUA?
Quando potremmo ritenere che la mancata comunicazione di cui all’art.
242 TUA da parte del contravventore sia finalisticamente orientata al perseguimento di un vantaggio per la societas? A nostro avviso, il rischio è che
altrettanto simili percorsi interpretativi, volti ad esaltare l’aspetto oggettivo del dolo specifico, nei termini di una obiettiva idoneità della condotta a realizzare tale intenzione. Cfr. sul
punto, Mantovani, Diritto penale, Padova, 2009, 213.
( 64 ) Circa la struttura dell’illecito dell’ente, v. Paliero, La società punita: del come, del
perché, e del per corsa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1517 ss.
( 65 ) È il classico caso di scuola dell’amministratore che corrompe il pubblico ufficiale per
far ottenere l’appalto alla società di appartenenza. In questo caso, la proiezione finalistica della condotta sarebbe ravvisabile ictu oculi nella dazione di denaro o altra utilità al suddetto
pubblico ufficiale.
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in questi casi si riproducano le medesime incertezze che la dottrina incontra
nella configurabilità del tentativo rispetto ai delitti omissivi (66), posto che,
come visto, si propone, ai fini dell’accertamento dell’interesse, l’utilizzo dei
medesimi criteri previsti dall’art. 56 c.p.
A riprova di ciò, v’è la circostanza che coloro i quali propendono per la
suddetta concezione oggettiva dell’interesse, ammettono poi che dinanzi a
fattispecie poco pregnanti, ove cioè è difficile cogliere detta direzione finalistica della condotta, l’accertamento del criterio in parola andrebbe integrato valutando anche l’aspetto soggettivo, ossia indagando l’intenzione
dell’agente nel momento in cui ha commesso il fatto (67).
Analoghe perplessità, infine, suscitano altre posizioni, più sfumate, della medesima concezione oggettiva del requisito de quo. Concepire l’interesse nel senso che «l’illecito compiuto dall’autore individuale deve collocarsi
in una prospettiva funzionale, di gestione degli interessi e di promozione
delle attività che definiscono e circoscrivono il profilo di soggettività dell’ente» (68), potrebbe aprire le porte ad una ascrizione pressoché «automatica» dell’illecito medesimo all’ente. Così ragionando, infatti, il reato non potrà mai essere realizzato nell’interesse esclusivo dell’organo-persona fisica,
in quanto risulterà sempre compiuto nel contesto dell’attività propria dell’ente e, quindi, indirettamente nel suo interesse (69). Detta interpretazione,
in definitiva, evoca gli scenari di quella responsabilità oggettiva che i principi del diritto penale, applicabili alla materia de qua in virtù delle premesse
di cui sopra, tendono a scongiurare.
Esiste, infine, tra le altre, un’ulteriore apprezzabile lettura del criterio
dell’interesse, volta sempre a renderlo compatibile con i suddetti reati presupposto di natura colposa. Secondo questa prospettiva, infatti, l’interesse
dell’ente sarebbe configurabile «ogniqualvolta possa ritenersi che il soggetto in posizione qualificata sia destinatario della norma violata, ma proprio
in virtù della posizione ricoperta nell’ente medesimo». «Nel caso dunque di
reati colposi caratterizzati dalla violazione di una norma cautelare diretta
all’attività d’impresa e riconducibili ad attività svolte in veste qualificata all’interno dell’ente, l’agente non viola la norma cautelare a titolo personale,
ma nella sua veste qualificata: in questi casi risulta dunque configurabile
( 66 ) Sul punto, cfr. per tutti, Mantovani, ult. op. cit., 439 ss.
( 67 ) V. per tutti, De Simone, La responsabilità da reato, cit., 37 ss. Anche Selvaggi, L’interesse, cit., 110 ss. ammette una certa rilevanza alla componente soggettiva che concorre, assieme a quella oggettiva, all’integrazione del requisito in parola.
( 68 ) De Vero, La responsabilità penale, cit., 160 ss. Parla, invece, di «destinazione genetica» Selvaggi, ult. op. cit., 110 ss.
( 69 ) In questi termini, v. Amarelli, I criteri oggettivi, cit., 6 ss.
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l’interesse, e il reato intero, non la sola condotta, può ritenersi commesso
nell’interesse dell’ente» (70).
A ben vedere, però, se, da un lato, tale ricostruzione possiede l’indiscutibile pregio di ricollegare il requisito dell’interesse al reato nel suo complesso, come richiesto peraltro dalla lettera dell’art. 5, dall’altro, detta esegesi pare soffrire degli stessi limiti propri delle teorie sopra criticate. A nostro parere, infatti, sarà ben difficile che il reo, destinatario della normativa
cautelare in virtù della posizione ricoperta in seno all’ente, la violi nell’esclusivo interesse personale (o di terzi) (71). Insomma, ancora una volta vi
è il rischio di un’automatica ascrizione dell’illecito all’ente, con la riapparizione degli inquietanti scenari della responsabilità oggettiva.
L’impressione, in definitiva, è che tutte le interpretazioni prospettate
rechino il difetto genetico di voler per forza di cose rendere compatibile
con reati presupposto colposi un criterio che, in realtà, è stato dal legislatore coniato e predisposto unicamente per gli illeciti dolosi. All’interesse, infatti, andrebbe riconosciuta unicamente una valenza soggettiva: il requisito
si identificherebbe nell’atteggiamento psicologico dell’autore materiale del
reato, teso, in una sorta di dolo specifico (72), a favorire la societas. Ciò, senza dimenticare la teoria dell’imputazione organica che permea la disciplina
de qua (73) e presuppone, per la riferibilità dell’illecito all’ente, prima ancora di qualsivoglia interesse o vantaggio, che il soggetto agente abbia agito
«per conto» della persona giuridica, ossia nel contesto delle attività e delle
funzioni attribuitegli in seno alla medesima. Qualche autore esprime questa
esigenza attraverso la valorizzazione di una supposta dimensione oggettiva
del criterio dell’interesse e parla, a tal proposito, di «destinazione genetica»
della condotta al soddisfacimento degli interessi collettivi (74). A nostro modo di vedere, però, quest’esigenza sarebbe già assolta dal citato principio
dell’immedesimazione organica che caratterizza l’agire dei soggetti metaindividuali. Peraltro, come sopra rilevato, l’interesse richiede, quale termine di riferimento, l’intero reato, e non la sola condotta.
( 70 ) Epidendio-Piffer, Criteri, cit., 19 ss.
( 71 ) Si pensi, ad esempio, ad un RSPP che non individui un fattore di rischio macroscopico: egli sarà senza dubbio destinatario della norma cautelare che viola con grave negligenza,
ma quando si potrà sostenere che detta violazione è avvenuta nell’esclusivo interesse personale o di terzi?
( 72 ) Dolo specifico che magari non è richiesto per la perfezione della fattispecie codicistica, ma che risulta, in virtù dell’art. 5, necessario ad integrare la fattispecie complessa dell’illecito dell’ente.
( 73 ) Cfr. supra.
( 74 ) Selvaggi, L’interesse, cit., 124 ss. che reputa insufficiente la sola dimensione psicologica dell’interesse.
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Concludendo, quindi, nel caso di reati presupposto aventi natura dolosa, il criterio di collegamento oggettivo del fatto all’ente è espresso tramite il
requisito dell’interesse. Quest’ultimo rileva esclusivamente nei termini psicologici sopra descritti e va riferito all’intero reato commesso dalla persona
fisica ed integrato in tutti i suoi elementi costitutivi.
Militano a favore di questa esegesi cd. «soggettivistica» dell’interesse il
dato della volontà storica del legislatore, la stessa lettera dell’art. 5 ed una interpretazione sistematica della disciplina in esame. Quanto alla voluntas legis, inequivocabile, come visto, ci pare il linguaggio con il quale la Relazione
governativa al decreto 231 assegna all’interesse tale connotato psicologico,
da accertarsi ex ante, a dispetto del vantaggio la cui natura oggettiva, invece,
richiede una verifica ex post. Altrettanto univoco ci sembra, poi, il dettato
dell’art. 5 quando richiede espressamente che l’intero reato venga commesso
dall’organo qualificato nell’interesse dell’ente. Ricollegare il requisito de quo
alla sola condotta, pertanto, comporta un’acrobazia ermeneutica che rischia
di cadere nel vuoto senza «l’imbracatura del dato legislativo» e soprattutto,
come si avrà modo di vedere, senza la protezione della Carta costituzionale.
Infine, una lettura «oggettivisitica» dell’interesse riteniamo non sia conforme nemmeno al significato autentico che tale espressione presenta anche nel
linguaggio comune, ove una predominante componente psicologica ci pare
ineliminabile (75). Non solo, ma l’attribuzione di un significato esclusivamente obiettivo al criterio in parola, da un punto di vista sistematico, non consentirebbe neppure la sua distinzione dall’altro e autonomo criterio del vantaggio il quale, come si vedrà appresso, è stato previsto dal legislatore quale requisito alternativo e sussidiario, destinato ad operare in tutte le ipotesi in cui
non sia dato riscontrare un interesse nel senso soggettivo anzidetto.
3. – Nei paragrafi precedenti abbiamo rilevato come l’esistenza di una
serie di argomentazioni piuttosto rilevanti ci porti a ritenere «interesse o
vantaggio» due criteri ascrittivi dell’illecito all’ente fra loro distinti ed alternativi. Più in particolare, siamo venuti delineando la tesi secondo la quale
l’interesse, la cui natura è prettamente soggettiva, sia il requisito destinato a
valere essenzialmente per reati presupposto di natura dolosa, stante l’evidenziata incompatibilità ontologica con le ipotesi colpose.
Avanziamo ora l’idea che rispetto a queste ultime (76), che non sono sussumibili nella suddetta concezione soggettivistica dell’interesse, tocchi pro-
( 75 ) L’espressione comune di «agire nell’interesse di qualcuno», infatti, reca con sé, innegabilmente, una tensione soggettiva finalizzata a soddisfare, appunto, l’interesse altrui.
( 76 ) A prescindere che le stesse si manifestino nella forma delle colpa cosciente o incosciente, oppure diano origine ad una colpa generica piuttosto che specifica.
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prio al criterio del vantaggio esprimere l’esigenza di un collegamento oggettivo della fattispecie colposa all’ente. In questo modo, tale criterio si ritaglierebbe un ben preciso spazio applicativo: mentre l’interesse, infatti, troverebbe applicazione rispetto alla stragrande maggioranza dei reati presupposto aventi natura dolosa, il vantaggio fungerebbe da alternativo collegamento obiettivo per gli omologhi reati colposi, oltre ad assolvere ad una
funzione sussidiaria in tutte quelle residuali ipotesi, descritte dall’art. 8 del
decreto 231, nelle quali non sia possibile rinvenire un interesse in senso
soggettivo per la mancata identificazione della persona fisica autrice dello
stesso reato presupposto. In quest’ottica, infine, il vantaggio andrebbe inteso in una accezione prettamente economica, quale utile avente un apprezzabile «valore monetario», mediato o immediato. Nella realtà imprenditoriale, animata dalla logica del profitto, infatti, ci sembra difficile attribuire
al criterio de quo un significato più ampio, differente da quello meramente
patrimoniale (77).
L’idea del vantaggio quale autonomo requisito oggettivo, però, si scontra con una serie di obiezioni avanzate dalla dottrina maggioritaria contraria a tale riconoscimento. Talune di queste osservazioni meritano certamente rilievo e, pertanto, prima di verificare la «tenuta applicativa» della tesi
sopra abbozzata, è bene passarle in rassegna.
L’«accusa» principale che viene mossa al criterio in parola è quella di
essere poco «selettivo» e, per converso, di estendere troppo il campo di applicazione della disciplina in esame. A tal fine, invero, potrebbe rilevare
qualsiasi «fruizione» o ricaduta vantaggiosa del reato sul patrimonio dell’ente, senza che vi sia alcuna connessione significativa dell’illecito con quest’ultimo (78). L’appunto, in effetti, si mostra ben fondato e paventa il rischio che qualsivoglia locupletazione, anche del tutto fortuita, della quale la
persona giuridica benefici in conseguenza del reato, ne determini automaticamente la responsabilità. Si pensi al caso di Tizio, amministratore della società Alfa, che commetta un reato agendo addirittura in contrapposizione
( 77 ) Negli stessi termini, v. per tutti, Picillo, La responsabilità da ecoreato degli enti: il
criterio dell’imputazione oggettiva, in Arch. pen., 2013, 3, 13; Amarelli, I criteri oggettivi, cit.,
10.
( 78 ) La critica viene formulata con particolare vigore e convinzione da Selvaggi, L’interesse, cit., 23 ss., il quale rileva come sia «evidente che il vantaggio potrebbe autonomamente
operare nel caso in cui si sia prodotto un beneficio per l’ente anche se, ricostruendo la situazione esistente al momento della condotta, ci si avveda che l’azione in concreto tenuta dall’agente non era in sintonia con gli interessi collettivi. In breve, oltre alla destinazione rileverebbe anche la (mera) ricaduta vantaggiosa a favore della compagine organizzata. Naturalmente, anche questo illecito può intendersi nell’interesse dell’ente, ma in un’accezione molto
diversa e, comunque, meno significativa di quella espressa dal concetto di destinazione».
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agli interessi societari, magari per favorire l’azienda concorrente Beta con la
quale si è accordato. Ebbene, se aderissimo all’interpretazione sopra proposta, che assegna valenza ascrittiva anche al dato del vantaggio, la predetta
Alfa dovrebbe essere chiamata a rispondere ai sensi del decreto 231 qualora
consegua, anche per circostanze del tutto casuali, un beneficio dall’illecito
commesso dal proprio amministratore (che, in realtà, voleva danneggiarla).
Evidentemente, detta soluzione esegetica è inaccettabile. Sennonché,
per quanto questa critica possa apparire convincente e fondata, a nostro avviso dimentica alcune, fondamentali premesse di partenza, premesse la cui
attenta considerazione e verifica permetterebbe di scongiurare gli scenari
appena prospettati.
Il primo dato dal quale partire attiene alla più volte ricordata teoria dell’imputazione organica, presupposto ineludibile per chiamare qualunque
ente a rispondere di un fatto di reato. Come abbiamo già sottolineato, infatti, prima ancora della verifica di un interesse o vantaggio nel significato sopra delineato, occorre che l’illecito sia stato commesso da un organo-persona fisica nell’esercizio delle sue mansioni «per conto» dell’ente. Tale rilievo,
però, non deve essere inteso riduttivamente, considerando ad esempio sufficiente, ai fini del giudizio di responsabilità, che l’ente medesimo si ponga
unicamente quale contesto occasionale in cui si realizza l’illecito. È necessario valutare, invece, che la condotta tenuta dal soggetto agente si inscriva e
si inserisca nell’ambito di competenze e attività al quale lo stesso è preposto. Pertanto, laddove la condotta sia del tutto estranea alle attribuzioni
della persona fisica, il rapporto di immedesimazione organica dovrebbe venir meno, con la conseguenza di escludere, a monte, la rilevanza di qualsivoglia vantaggio per l’ente e, conseguentemente, l’incardinazione di un giudizio di responsabilità nei confronti del medesimo.
Siffatta valorizzazione della teoria dell’imputazione organica, pertanto,
consentirebbe di individuare sin da subito un primo, seppur flebile, livello
di connessione del fatto con l’ente. La responsabilità di quest’ultimo, invero, non deriverebbe da qualunque vantaggio che si sia riversato, magari in
via del tutto fortuita, nelle casse dell’ente, ma soltanto da quel vantaggio
che si ricolleghi eziologicamente ad una specifica condotta criminosa, oggettivamente tenuta dall’organo-persona fisica nell’espletamento delle proprie mansioni. Pertanto, laddove il soggetto agente tenga una condotta
estranea o, addirittura, in contraddizione alle proprie funzioni e competenze, il rapporto di immedesimazione organica si infrange prima ancora di
imbattersi nello scoglio dell’accertamento dell’interesse o vantaggio. Se, invece, l’azione o l’omissione dell’autore sono conformi alle sue attribuzioni,
ma si accerti che l’autore medesimo ha agito perseguendo un interesse
esclusivamente personale o di terzi, opera la clausola dell’art. 5, comma 2,
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che egualmente esclude la responsabilità dell’ente per mancanza del requisito dell’interesse. Così, nell’esempio sopra riportato dell’amministratore di
Alfa che commette un reato per avvantaggiare la società concorrente, Beta,
nella quale andrà successivamente a lavorare, il vantaggio fortuito eventualmente ricavato da Alfa non sarà, da solo, in grado di far sorgere la correlativa responsabilità. Si dovrà, infatti, accertare innanzitutto se la condotta tenuta dall’amministratore Tizio si inscriva nella sua sfera di competenze e
non sia oggettivamente in contrapposizione con il fine collettivo, e poi occorrerà verificare che lo stesso Tizio non abbia agito per un interesse esclusivamente personale o di terzi. Soltanto all’esito di queste valutazioni, l’ente
eventualmente potrà essere chiamato a rispondere.
A queste considerazioni potrebbe agevolmente ribattersi che il problema rimane comunque insoluto: un ente, invero, si troverebbe pur sempre
esposto ad un giudizio (penale) di responsabilità per il semplice fatto che
un suo organo, nell’espletamento delle proprie mansioni, ha commesso un
reato e da quel reato è derivato all’ente medesimo, in via diretta o indiretta,
un vantaggio di natura economica.
Tale critica, però, proverebbe troppo e, soprattutto, trascurerebbe
un’ulteriore, dirimente considerazione: affinché un ente possa essere chiamato a rispondere di un reato presupposto commesso da un suo organo, infatti, non è sufficiente il solo criterio oggettivo – l’interesse oppure la ricaduta vantaggiosa dell’illecito sul patrimonio dell’ente – ma occorre anche
che quel reato dipenda da una disfunzione organizzativa dell’ente stesso.
Infatti, l’articolazione del sistema di ascrizione in una pluralità di criteri (e
principalmente negli artt. 6 e 7 del decreto 231) indica come la fattispecie di
responsabilità si perfezioni solo al compimento di un percorso di imputazione dall’andatura progressivamente personalizzante. Ne deriva, da un lato, che la relazione tra l’agente e l’ente, come anche la funzionalizzazione
dell’attività agli interessi collettivi, costituisce un coefficiente minimo, ma
non sufficiente di personalizzazione dell’imputazione; dall’altro, la possibilità di isolare un altro punto vitale della disciplina che individua nella mancata adozione di adeguati modelli di prevenzione del reato un ulteriore criterio di ascrizione della responsabilità (79). Soltanto all’esito di questo complesso percorso ascrittivo, che raggiunge il suo culmine con l’accertamento
della cd. colpa di organizzazione, l’ente potrà eventualmente essere chiamato a rispondere. Non sarebbe decisiva in questo senso, quindi, la mera
«fruizione» del reato commesso dalla persona fisica «per conto» della societas.
( 79 ) Selvaggi, L’interesse, cit., 96 ss.
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L’assegnazione al vantaggio di un’autonoma valenza ascrittiva, inoltre,
incontra altre obiezioni, il cui rilievo si intreccia con la questione sopra esaminata della natura unitaria od alternativa del criterio dell’art. 5. Si afferma,
così, che l’irrilevanza di una mera ricaduta vantaggiosa in favore dell’ente
deriverebbe dalla stessa punizione legislativa anche delle ipotesi tentate, ex
art. 26 del decreto 231, a conferma cioè di «come il legislatore abbia posto
l’interesse, e non il vantaggio, quale base stabile e decisiva dell’imputazione» (80). Questa argomentazione, a nostro avviso priva di particolare pregio, sarebbe smentita dalla suddetta riferibilità del requisito del vantaggio
essenzialmente ai reati presupposto colposi, ove un interesse, nel significato
soggettivo più volte sottolineato, non potrebbe ontologicamente riscontrarsi. Pertanto, negare rilievo al dato del vantaggio in virtù del fatto che il legislatore punisce anche il tentativo dei delitti presupposto nella forma dell’«interesse» (81), sarebbe come inferire l’inesistenza del titolo di imputazione colposo del reato dalla sola previsione dell’art. 56 c.p. il cui ambito di
applicazione, com’è noto, è ontologicamente circoscritto ai delitti dolosi.
Ugualmente poco pregnanti, infine, appaiono altre argomentazioni, come il riferimento dell’art. 25 ter, disciplinante i reati societari, al solo criterio dell’interesse. Il fatto che il legislatore abbia derogato alla disposizione
di parte generale nella disciplina di una particolare categoria di reati presupposto non consente di dedurre l’irrilevanza del vantaggio anche per tutti gli altri illeciti ove difetta detta specificazione: per questi ultimi, infatti,
non avendo il legislatore disposto diversamente, andrà ravvisato il comune
collegamento oggettivo descritto dall’art. 5.
Si è anche sostenuto, sempre per escludere rilevanza al vantaggio, che
sarebbe senz’altro contrario ai principi di diritto penale, primo fra tutti
quello di materialità, imputare un reato in concorso a chi, «a valle» della
realizzazione del medesimo, si trovi soltanto nella posizione, meramente
passiva, di avvantaggiarsi degli esiti dell’illecito, senza aver offerto alcun
contributo (82). Anche a questo rilievo ci sentiamo di controbattere mediante la valorizzazione del principio dell’immedesimazione organica. La «fattispecie complessa» coniata dal d.lgs. 231, infatti, benché presupponga per
ovvie ragioni il contributo materiale di un individuo, riferisce la condotta
dallo stesso tenuta direttamente all’ente, come se fosse quest’ultimo, in sostanza, il vero autore dell’illecito (83). Inoltre, anche a voler ignorare detta
( 80 ) Selvaggi, ult. op. cit., 111 ss.
( 81 ) La disposizione dell’art. 26, peraltro, non è applicabile ai reati presupposto di natura
contravvenzionale, come buona parte dei reati ambientali descritti all’art. 25 undecies.
( 82 ) Selvaggi, ivi.
( 83 ) Cfr. De Simone, Il «fatto di connessione», cit., 59 ss., il quale, in particolare, rileva
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circostanza, si deve ritenere che la persona giuridica offra comunque un
contributo significativo alla commissione del reato da parte dell’agente: costui, invero, sarà agevolato nella sua attività criminosa proprio per la incuria
ed il lassismo della prima, la quale, anziché dotarsi di tutte le misure e gli accorgimenti atti a prevenire ed evitare il rischio reato, ne consente (talvolta,
addirittura, incoraggia) la realizzazione (84).
Peraltro, in una recentissima pronuncia la Corte Costituzionale, relativamente ad una questione di legittimità sollevata con riferimento all’art. 83
c.p.p. e all’art. 35 d. lgs. n. 231/2001 rispetto al parametro dell’art. 3 Cost.,
ha sancito che l’illecito ascrivibile all’ente costituisce una fattispecie complessa e non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica. Ne consegue, sempre secondo il giudice delle leggi, che l’ente e l’autore del reato
non possono qualificarsi coimputati, essendo ad essi ascritti due illeciti
strutturalmente diversi (85).
Concludendo, riteniamo non ci siano particolari ostacoli nel riconoscere al dato del vantaggio un ruolo alternativo e sussidiario rispetto al criterio
dell’interesse. Ed infatti, laddove un organo-persona fisica, nell’ambito delle sue competenze ed attribuzioni in seno all’ente, tenga un comportamento integrante un illecito, e tale illecito non derivi da un interesse esclusivo
proprio o di terzi (86), non v’è motivo per escludere la responsabilità dell’ente che abbia tratto un significativo vantaggio dal reato in tal modo commesso, quando proprio lo stesso ente, per il suo deficit organizzativo, ne ha
permesso la realizzazione. Il fatto di reato posto in essere dalla persona fisica, quindi, verrebbe imputato alla persona giuridica per un suo «complessivo atteggiamento colpevole».
«benché la terminologia legislativa possa trarre in inganno [...] il baricentro della fattispecie a
struttura complessa configurata dal combinato disposto degli artt. 5, 6 e 7 d. lgs. 231 sembrerebbe doversi ravvisare in un unico fatto storico, che forma oggetto di una duplice qualificazione giuridica ed è all’origine, nel contempo, della responsabilità della persona fisica e di
quella dell’ente». Una conferma in questo senso, peraltro, si riscontra anche nella nota pronuncia («Impregilo») delle Sezioni Unite, Cass. pen., sez. un., del 27.3.2008, n. 26654, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2008, 1738 ss., con note di Mongillo e Lorenzetto, in base alla quale «il
fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato fatto di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole».
( 84 ) Ci si riferisce a certe pratiche industriali che puntano alla riduzione sistematica dei
costi e degli investimenti, premiando gli amministratori più virtuosi in materia di politiche di
risparmio, anche qualora le stesse vadano a discapito della sicurezza dei lavoratori o della
protezione dell’ambiente.
( 85 ) Si tratta di Corte Cost. n. 218 del 8.7.2014 (dep. il 9.7.2014), in G.U. del 23.7.2014.
Per un commento, v. Marino, La persona giuridica e l’autore del reato non sono coimputati, in
D. & G. del 21.7.2014.
( 86 ) Pena, altrimenti, la rottura del rapporto di immedesimazione organica ex art. 5, comma 2, d. lgs. 231/2001.
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3.1. – La funzionalità del criterio del vantaggio, come anticipato poco
sopra, potrebbe apprezzarsi soprattutto rispetto ai reati presupposto punibili a titolo di colpa, sia che si tratti di colpa cosciente o incosciente. Quest’ultima distinzione, invero, ha un senso solamente laddove sia richiesta
una componente psicologica nel requisito dell’art. 5 del decreto 231. Abbiamo rilevato, tuttavia, che tale componente è propria del solo criterio dell’interesse il quale, pertanto, deve considerarsi riferito per lo più ai reati
presupposto dolosi (87).
Secondo la nostra prospettiva, infatti, ai fini della «responsabilità amministrativa da reato» colposo dell’ente, è sufficiente la violazione di una
norma cautelare da parte di un soggetto qualificato nell’espletamento delle
proprie mansioni (88), sia esso un cd. «apicale» ovvero un «sottoposto», e
che da questa violazione, integrante parte di un illecito penale, sia derivato,
ex post, un vantaggio di natura economica all’ente medesimo. Ciò, naturalmente, sempre che la violazione della disciplina prudenziale da cui scaturisce il reato sia stata possibile a causa di una lacuna organizzativa dell’impresa o corrisponda al suo modus operandi (ex artt. 6 e 7 d. lgs. 231/2001).
Un criterio di questo tipo potrebbe ridurre le difficoltà che inevitabilmente si sono presentate in punto di accertamento del requisito de quo rispetto ai reati presupposto colposi, sin dalla loro introduzione nel corpus
del predetto decreto legislativo. Come sopra accennato, infatti, la suddetta
dottrina e giurisprudenza che riconosce valenza ascrittiva al solo interesse si
è trovata nell’impasse interpretativo di non riuscire a calibrare detto criterio, soprattutto se concepito nel significato soggettivo anzidetto, a fattispecie che, in quanto colpose, presuppongono necessariamente la mancanza di
volontà nella commissione del reato o quantomeno mancanza di volontà rispetto all’evento.
Orbene, tra tutte le soluzioni esegetiche proposte con riferimento all’art. 25 septies del d. lgs. 231/2001 (89), quelle più «realistiche» e conformi
( 87 ) Ed infatti, se lo riferissimo anche alle fattispecie colpose, esso sarebbe inapplicabile
alle ipotesi di colpa incosciente.
( 88 ) Valorizzando, quindi, la teoria dell’immedesimazione organica.
( 89 ) Per una panoramica delle differenti interpretazioni, v., per tutti, Picillo, L’infortunio sul lavoro nell’ambito della responsabilità degli enti: il criterio d’imputazione oggettiva, in
Arch. Pen., 2013, 4, 9 ss.; Della Ragione, Responsabilità da reato degli enti e sicurezza sul lavoro: profili problematici in tema di delitti colposi d’evento, in Giust. Pen., 2011, 300 ss.; Selvaggi, Infortuni sul lavoro e interesse dell’ente. Tra «rottura» e «conservazione», l’unità del sistema di responsabilità dell’ente alla prova dei reati colposi, in questa Rivista, 2010, 509 ss.; Pelazza, Sicurezza sul lavoro e responsabilità da reato degli enti, in Corr. mer., 2010, 653 ss.; Vitarelli, Infortuni sul lavoro e responsabilità degli enti: un difficile equilibrio normativo, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2009, 701 ss.; Santoriello, Responsabilità da reato dell’ente collettivo: interesse o vantaggio, in Giust. Pen., 2008, 533 ss.; Ielo, Lesioni gravi, omicidi colposi aggravati dal-
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al principio di conservazione dei valori normativi hanno riferito l’interesse,
a volte inteso in senso soggettivo, altre in quello oggettivo (90), alla sola condotta violativa della regola cautelare, anziché all’intero reato nel suo complesso, ivi compreso, quindi, l’evento. L’argomento utilizzato dalla citata
dottrina e giurisprudenza per avallare siffatta scelta interpretativa è stato
sostanzialmente quello «apagogico» o ab absurdo: un’esegesi diversa, infatti, che fosse cioè aderente al dettato letterale della disposizione dell’art. 5, e
che quindi agganciasse l’interesse agli eventi morte e lesioni anziché soltanto alle prodromiche condotte imprudenti, non sarebbe sostenibile, in quanto finirebbe con il decretare l’irragionevole abrogazione tacita del suddetto
art. 25 septies, svilendo così una delle principali novità della riforma della
disciplina penale in materia di sicurezza sul lavoro (91).
Si attesta su questa linea interpretativa la prima sentenza di condanna
emessa nei confronti di una società alla quale fu contestato l’illecito di cui
al predetto art. 25 septies. Alludiamo al noto caso «Truck center» (92), relativoad un incidente sul lavoro ove persero la vita cinque operai a causa
delle esalazioni di acido solfidrico promanate da un container che essi stavano bonificando. I giudici pugliesi in quell’occasione riconobbero, anzitutto, l’autonomia funzionale alternativa dell’interesse e del vantaggio, attribuendo però a quest’ultimo unicamente un valore probatorio – processuale dell’interesse medesimo. Ad avviso del Tribunale, infatti, «si deve ritenere che il vantaggio possa essere valorizzato nella formazione della pro-
la violazione della normativa antinfortunistica e responsabilità degli enti, in La Resp. Amm.
Soc., 2008, 2, 57. V. anche Forti, Uno sguardo ai «piani nobili» del d. lgs. n. 231/2001, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2012, 1261, il quale propone in questi casi di «riferire la responsabilità dell’ente al mancato apprestamento di modelli organizzativi e di gestione idonei a rendere l’organizzazione d’impresa concretamente in grado di dare attuazione ai precetti cautelari. In questo senso, il criterio oggettivo di cui all’art. 5 andrebbe letto e interpretato in stretta correlazione con i criteri soggettivi di cui all’art. 6, sicché l’interesse o il vantaggio previsti dal primo
comma possano essere configurati in relazione alla mancata attuazione, prima della commissione del fatto, di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie
di quello verificatosi. Ciò che può essere «nell’interesse o a vantaggio» dell’ente è, in sostanza,
l’inosservanza di quelli che sono stati detti i precetti cautelari accessori e prodromici [...]».
( 90 ) Per le rispettive concezioni, v. supra.
( 91 ) Si esprime più o meno in questi termini, Amarelli, I criteri oggettivi, cit., 25 ss. Cfr.
anche, Di Geronimo, Il criterio di imputazione oggettiva del reato colposo all’ente: prime applicazioni giurisprudenziali e valorizzazione della teoria organica, in La Resp. Amm. Soc., 2010,
3, 165.
( 92 ) Trib. Trani, sez. Molfetta, del 11.1.2010, in Dir. pen. proc., 2010, 840 ss. Per un commento alla sentenza, v., per tutti, Catellani, Responsabilità da reato delle aziende e sicurezza
del lavoro, Milano, 2012, 18 ss.; Scoletta, Responsabilità ex crimine dell’ente e delitti colposi
d’evento: la prima sentenza di condanna, in Soc., 2010, 1116 ss.; Checcacci, Responsabilità da
reato degli enti per infortuni sul lavoro: la sentenza del Tribunale di Trani, in questa Rivista,
2010, 539 ss.
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va della responsabilità dell’ente, quale elemento apprezzabile ex post, ma
dimostrativo del suo interesse ex ante, e che esso sia destinato a perdere
vigore probatorio in presenza della prova positiva di un interesse esclusivo
proprio o di terzi». A ben vedere però, tale ricostruzione interpretativa,
che abbiamo già avuto modo di criticare, oscura quasi interamente l’autonomia del dato del vantaggio, riducendolo a mero indice della sussistenza
dell’interesse e quindi privandolo di un’autentica ed alternativa funzione
selettiva (93). Sulla base di una concezione oggettiva (94) del criterio dell’art. 5, poi, il Tribunale stabilì che l’interesse andasse riferito alla condotta causativa dell’evento morte o lesioni, «dovendosi soltanto accertare di
volta in volta se questa sia stata o meno determinata da scelte rientranti
oggettivamente nella sfera di interesse dell’ente oppure se la condotta medesima abbia comportato almeno un beneficio a quest’ultimo senza apparenti interessi esclusivi di altri». A ragionar diversamente, infatti, secondo
il giudice pugliese, si dovrebbe pervenire ad un giudizio circa la responsabilità dell’ente sempre di segno negativo, giacché risulterebbe impossibile
dimostrare in positivo l’esistenza di un (anche minimo) interesse o vantaggio della società per la morte o il ferimento di un suo lavoratore (95). Anzi,
eventi di questo genere, sottolinea ancora il giudice di Molfetta, produrrebbero sempre conseguenze negative in capo alla persona giuridica: basti
pensare «agli obblighi di risarcimento dei danni; ai danni di immagine per
l’azienda; ai costi della sostituzione del lavoratore e della sua formazione
professionale; alla riduzione della produttività a causa dell’attività di ricerca della prova, di acquisizione di informazioni a fini investigativi o di formazione della prova medesima».
Il panorama giurisprudenziale successivo a tale pronuncia si mostra assai eterogeneo, presentando, accanto ad alcune sentenze che proseguono
nell’indirizzo appena proposto, altre decisioni che si segnalano, invece, per
interessanti percorsi argomentativi.
Così, nella sentenza del Tribunale di Pinerolo (96) il Collegio piemonte-
( 93 ) Nello stesso senso, v. Scoletta, Responsabilità, cit., 1120 ss.
( 94 ) Secondo l’organo giudicante, infatti, l’interesse «deve essere concreto e non va agganciato alle mere intenzioni dell’autore del reato ed in generale al movente che lo ha spinto a porre
in essere la condotta [...] L’indagine sull’atteggiamento interiore dell’agente non è infatti imposta in alcun modo dal legislatore, il quale ha fissato il principio di autonomia della responsabilità
dell’ente nell’art. 8, consentendo di procedere nei confronti di quest’ultimo anche in caso di
omessa identificazione dell’autore del reato». A queste argomentazioni, tuttavia, riteniamo di
aver già ampiamente ribattuto nei paragrafi precedenti.
( 95 ) In questi termini, v. Amarelli, I criteri oggettivi, cit., 25.
( 96 ) Trib. Pinerolo, del 23.9.2010, in Riv. dott. Comm., 2012, 4, 918, con nota di Ingrassia.
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se, valorizzando al massimo la clausola dell’art. 5, comma 2, d. lgs. 231, ha
sancito che, «al fine di accertare il compimento del reato nell’interesse dell’ente, è sufficiente escludere che la condotta sia stata compiuta nell’interesse esclusivo dell’agente o di terzi». Pur continuando a riferire il requisito
oggettivo alla sola condotta e non anche all’evento del reato, detta pronuncia mostra di preferire una concezione soggettivistica dell’interesse. In tal
modo, però, si finirebbe, nei reati colposi, con l’affermare quasi sempre la
responsabilità della persona giuridica, essendo assai difficile che la condotta imprudente o negligente venga tenuta dall’organo-persona fisica perseguendo un interesse esclusivamente personale o di terzi.
Ad obiezioni analoghe, poi, si presta la decisione del Tribunale di Novara (97), la quale, seppur muovendo dalla opposta concezione oggettiva del
medesimo criterio, ha stabilito che per la sussistenza di quest’ultimo occorra «verificare in concreto che la condotta colposa sia stata determinata da
scelte afferenti alla sfera di interessi dell’ente, ovvero ispirata a strategie finalizzate ad ottenere benefici e vantaggi, anche solo mediati, per l’ente medesimo».
Merita particolare menzione, invece, l’inedito percorso motivazionale
che sostiene la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Cagliari (98), la quale, peraltro, rappresenta anche il primo caso di assoluzione di una società alla
quale veniva contestato l’art. 25 septies. A differenza delle altre pronunce,
infatti, il giudice sardo parte dal presupposto del carattere alternativo dei
due criteri, interesse e vantaggio, dovendosi il primo accertare ex ante,
mentre il secondo ex post. Rispetto ai reati colposi, però, il Tribunale afferma che l’unico criterio ascrittivo applicabile è quello dell’interesse, essendo
il vantaggio incompatibile con la morte e la lesione grave o gravissima del
lavoratore. Il dato dell’interesse, a sua volta, dovrebbe porsi in relazione solamente alla condotta che ha prodotto l’evento del reato e non anche all’evento stesso. In quest’ottica, dunque, l’interesse dell’ente sarebbe inte-
( 97 ) Trib. Novara, del 1.10.2010, in Riv. dott. Comm., 2012, 4, 917, con nota di Troyer.
Per un esauriente commento, v. anche Lunghini-Paris, D. lgs. n. 231 e responsabilità dell’ente per i reati colposi, in Corr. mer., 2011, 7, 403 ss.; Pelazza, Responsabilità amministrativa dell’ente per omicidio colposo del lavoratore commesso con violazione della normativa antinfortunistica, in www.penalecontemporaneo.it.
( 98 ) G..i.p. Tribunale di Cagliari, del 4.7.2011, in www.rivista231.it. Per un commento, v.
Catalano-Giuntelli, Interesse e/o vantaggio dell’ente: nuovi percorsi giurisprudenziali (in
particolare nei reati colposi), in La resp. Amm. Soc., 2012, 104 ss. La vicenda oggetto di tale
sentenza riguarda un tragico incidente sul lavoro avvenuto a Sarroch (CA), in una raffineria
gestita dalla società SARAS: tre dipendenti di un’impresa appaltatrice, entrati in un serbatoio
(cd. accumulatore) che in quel momento era in atmosfera di azoto, morirono all’istante per
mancanza di ossigeno. La società imputata in quel caso fu assolta per difetto del nesso causale, non costituendo il fatto contestato un significativo antecedente lesivo.
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grato da una tensione finalistica verso un risparmio d’impresa, a prescindere dal fatto che tale risultato sia stato poi effettivamente conseguito. Nella
motivazione di questa sentenza, tuttavia, non è difficile scorgere una certa
confusione in ordine agli stessi concetti di «interesse» e «vantaggio» che,
talvolta, parrebbero sovrapporsi (99). In alcuni passi della decisione, in effetti, sembrerebbe che l’organo giudicante muova da una concezione oggettiva dell’interesse; in altri punti della sentenza, però, trasparirebbero
tracce di «contaminazioni soggettivistiche», in particolare laddove si richiede che l’azione o l’omissione del soggetto agente sia consapevole e volontaria, e cioè sia protesa ad ottenere un risparmio di costi per la societas (100).
Si distingue, poi, più per il clamore mediatico suscitato dalla vicenda
che ne costituisce oggetto, che non per la «profondità» della motivazione,
la nota «sentenza Thyssenkrupp» (101). L’iter motivazionale seguito dalla
Corte d’Assise di Torino parte dal presupposto della natura amministrativistica della responsabilità descritta dal decreto 231, in virtù della quale sono
state respinte alcune questioni di legittimità costituzionale della disciplina
legislativa rispetto ai principi sanciti dagli artt. 25 e 27 Cost. Una volta
escluso qualunque profilo di illegittimità della normativa ed affermata
l’astratta compatibilità dei reati presupposto colposi con l’impianto originario del 2001, i giudici torinesi hanno quindi affrontato – in modo abbastanza sbrigativo, a dire il vero – il nodo cruciale del criterio di imputazione
oggettiva, cercando di individuare nei fatti contestati all’azienda tedesca
quell’interesse o vantaggio richiesto dall’art. 5 del «decreto 231». A tal proposito, il collegio giudicante si è limitato a stabilire che «le gravissime violazioni della normativa antinfortunistica ed antincendio, le colpevoli omissioni
sono caratterizzate da un contenuto economico rispetto al quale l’azienda non
solo aveva interesse, ma se ne è anche sicuramente avvantaggiata, sotto il pro-
( 99 ) Cfr. Gentile, Incidenti sul lavoro, cit., 172, secondo il quale «la tesi esposta sembra
reggersi su di un fraintendimento, e cioè che l’interesse, a differenza del vantaggio, possa prescindere dalla realizzazione dell’evento. Invece, la dimensione ex ante dell’interesse consente di
tralasciare l’accertamento di un effettivo beneficio per l’ente, ma ciò non toglie che, stando all’art. 5, è l’intero reato a dover essere funzionale ad un obiettivo conforme agli interessi istituzionali dell’ente».
( 100 ) Evidenziano bene questo aspetto, Epidendio-Piffer, La responsabilità degli enti
per reati colposi, in d. lgs. n. 231 del 2001: dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, in Gli Speciali de Le società, 2011, 38. Secondo altri, invece, la sentenza farebbe propria
una concezione mista del criterio dell’interesse, cfr. in proposito G. Gentile, Incidenti sul lavoro, cit., p. 173.
( 101 ) Corte Assise Torino, 15.4.2011, cit. Per un ampio commento, v., per tutti, Guerini,
L’interesse o vantaggio come criterio di imputazione dei reati colposi di evento agli enti collettivi. Riflessione a margine del caso Thyssenkrupp, in La resp. Amm. Soc., 2012, 83 ss. Zirulia,
Thyssenkrupp, fu omicidio volontario: le motivazioni della Corte d’Assise, in www.penalecontemporaneo.it.
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filo del considerevole risparmio economico che ha tratto omettendo qualsiasi
intervento nello stabilimento di Torino; oltre che dell’utile contemporaneamente ritratto dalla continuità della produzione». In base a queste argomentazioni, dunque, la Corte ha pianamente concluso che «quanto sopra esposto, consistente nel collegare il criterio [...] dell’interesse o del vantaggio dell’ente non all’evento, bensì alla condotta penalmente rilevante della persona
fisica, corrisponde ad una corretta applicazione della norma (dell’art. 5 d. lgs.
231/2001, ndr) ai reati colposi».
Le aspettative che la comunità scientifica riponeva in questa decisione
dalla quale ci si attendeva un’ampia ed esauriente motivazione che desse finalmente conto della compatibilità del requisito dell’art. 5 con i reati presupposto colposi, sono state così irrimediabilmente disattese. L’organo giudicante, infatti, si è limitato a riferire il criterio dell’interesse alla sola condotta inosservante, senza preoccuparsi di argomentare compiutamente tale
passaggio ermeneutico. La Corte d’assise piemontese, inoltre, pur offrendo
una lettura disgiuntiva dei due criteri, finisce poi per utilizzarli indistintamente, facendo leva sul comune denominatore del connotato patrimoniale
che caratterizzerebbe tanto l’interesse quanto il vantaggio. Non è dato comprendere chiaramente, però, sulla base di quali considerazioni l’interesse o
il vantaggio siano stati ritenuti sussistenti riguardo alla fattispecie oggetto di
giudizio, né pare offrire ulteriori indicazioni in proposito la decisione di secondo grado emessa dalla Corte d’Assise d’Appello (102). Pare invece affrontare la questione in misura più dettagliata e specifica la recentissima
pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite la quale, però, ribadisce l’orientamento appena illustrato, ovvero riferisce il requisito dell’interesse o vantaggio alla condotta violativa della regolare cautelare (103).
Su questa stessa linea esegetica, peraltro, si collocano anche le sentenze
successive al «caso Thyssen». A parte la fungibilità dei due alternativi criteri dell’interesse e del vantaggio, che la giurisprudenza citata, come visto,
utilizza indifferentemente con una certa disinvoltura, magari partendo anche dal presupposto della loro alternanza, il leitmotiv che ricorre nelle aule
( 102 ) Cfr. Corte Assise Appello Torino, del 28.2.2013, cit.
( 103 ) Cfr. punto 63 della motivazione di Cass., sez. un., del 24.4.2014, cit., secondo la quale «il problema prospettato deve essere risolto nella sede propria, che è quella interpretativa. I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe l’interpretazione letterale della norma accredita senza difficoltà l’unica alternativa, possibile lettura: i
concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e
quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio».
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di giustizia continua ad essere la riconducibilità dell’interesse alla condotta
inosservante della disciplina prudenziale, anziché all’intero reato colposo.
Si continua ad affermare, in sostanza, che in tema di «compatibilità della natura colposa dei delitti ex artt. 589 e 590 c.p. con i criteri di cui all’art. 5
dello stesso d. lgs., esclusa in detti delitti la volontà dell’evento, non resta
che prendere atto che il legislatore ha riferito i criteri dell’interesse e del
vantaggio solo alla condotta del reo» (104).
Ed è proprio questo, ad onor del vero, il passaggio che meno ci persuade della esegesi offerta dalla giurisprudenza e dottrina citate. Non ci convince, perché un’interpretazione siffatta finisce per collidere irrimediabilmente con le premesse dalle quali siamo partiti e, più precisamente, con la
natura sostanzialmente penale della responsabilità delle persone giuridiche
e la sua conseguente assoggettabilità ai parametri costituzionali valevoli in
materia.
Abbiamo già rilevato, infatti, come tale premessa rechi con sé importanti ricadute pratiche, prime fra tutte la giustiziabilità della disciplina legislativa rispetto ai principi costituzionali rilevanti per il diritto criminale (artt. 25
e 27 Cost., in primis). Ora, considerato che una declaratoria di illegittimità
dell’art. 5 d. lgs. 231/2001 appare quanto mai improbabile, anche alla luce
dello stesso d. lgs. 121/2011 che ha esteso la responsabilità degli enti ai reati
ambientali senza apportare modifiche di sorta ai meccanismi generali di imputazione (105), è senz’altro l’interpretazione del dettato normativo a divenire diretta referente dei suddetti principi costituzionali. A tal proposito,
quindi, una lettura quale quella sopra proposta, consistente nel correlare il
criterio dell’art. 5 – a prescindere dalla concezione oggettiva o soggettiva
dell’interesse – alla sola condotta del reo, non ci pare conforme al principio
di legalità di cui all’art. 25 Cost. nelle sue diverse declinazioni.
Tale contrasto, in particolare, si rifletterebbe tanto rispetto al canone
della riserva di legge quanto rispetto a quello di tassatività e determinatezza. La suddetta esegesi, infatti, attribuendo al disposto letterale un signifi-
( 104 ) Trib. Camerino, del 9.4.2013, in Riv. pen., 2013, 6, 695. Negli stessi termini, v. anche Trib. Torino, sez. I, del 10.1.2013, in www.penalecontemporaneo.it.
( 105 ) Sottolineano bene questo aspetto Epidendio-Piffer, La responsabilità degli enti,
cit., 41 ss., ad avviso dei quali «l’introduzione dell’art. 25 undecies sembra portare l’ennesima
smentita della tesi dell’incompatibilità dei reati colposi con la responsabilità dell’ente, facendo apparire tale tesi addirittura paradossale, se motivata con l’asserita violazione del principio di legalità. Ad essere contraria alla volontà del legislatore sembra essere proprio, a questo
punto, l’affermata incompatibilità dei reati colposi con la responsabilità degli enti, sicché appare quanto meno improprio parlare, a proposito delle interpretazioni dell’art. 5 d. lgs. 231/
2001 in chiave di compatibilità con i reati colposi, di forzatura ermeneutica, di interpretazione ortopedica, di escamotage giuridico o addirittura di interpretazione analogica in malam
partem contraria al principio di legalità».
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cato diverso da quello chiaramente assegnatogli dal legislatore, darebbe vita ad una nuova norma. Tale ermeneusi, inoltre, spingendosi oltre i consentiti confini dell’interpretazione estensiva, si tradurrebbe anche in un’applicazione analogica, in malam partem, della disposizione dell’art. 5 (106). Ed
infatti, collegare i requisiti dell’interesse o del vantaggio alla condotta imprudente anziché all’intero reato, comporta uno stravolgimento della struttura della fattispecie descritta dall’art. 25 septies, trasformandola da reato di
evento a reato di mera condotta, connotato da una condizione obiettiva di
punibilità estrinseca (la morte o la lesione del lavoratore) (107). L’ente, in sostanza, si troverebbe a dover rispondere, pressoché in via automatica ed oggettiva, «tutte le volte in cui si accerti un suo interesse o vantaggio in relazione alla condotta imprudente della persona fisica». «Si arriva, cioè, nel
caso degli omicidi e delle lesioni colpose aggravate richiamati dall’art. 25
septies, all’esito paradossale di leggere l’art. 5 in maniera decisamente contraria al suo tenore letterale, ritenendo imputabile all’ente non solo i reati
commessi nel suo interesse o vantaggio, così come da esso testualmente
previsto, bensì anche i reati commessi nello svolgimento delle sue attività
lecite» (108).
Lo scenario appena descritto, poi, si aggraverebbe ulteriormente se rapportato alla differente situazione processuale che scaturisce dall’interpretazione qui criticata. Il thema probandum, in effetti, divergerebbe inevitabilmente – ed inaccettabilmente – a seconda che si guardi all’imputato persona fisica oppure all’imputato persona giuridica. Rispetto alla prima, infatti,
occorrerebbe accertare, con la dovizia ed il rigore imposti dalla sentenza
Franzese (109) e dalla giurisprudenza alla stessa susseguente, il nesso causale
tra la condotta inosservante della regola cautelare e l’evento morte o lesioni
del lavoratore, e solamente nel caso in cui questo accertamento si concluda
positivamente sarebbe possibile imputare il fatto di reato all’individuo. Rispetto all’ente, invece, sarebbe sufficiente la verifica della sussistenza dell’interesse o vantaggio in relazione alla sola omissione della cautela doverosa, degradando così il predetto evento a mera condizione obiettiva di imputabilità da attribuire all’ente a prescindere dal nesso causale.
In altri termini, vi sarebbe un forte squilibrio di garanzie tra le posizioni
( 106 ) Più o meno negli stessi termini, v. Dovere, La responsabilità da reato dell’ente collettivo, cit., 112 ss.
( 107 ) Cfr. Scordamaglia, Il diritto penale della sicurezza del lavoro tra i principi di prevenzione e di precauzione, in www.penalecontemporaneo.it; Amarelli, I criteri oggettivi, cit., 17
ss.; Della Ragione, Responsabilità da reato, cit., 310.
( 108 ) Amarelli, ult. op. cit., ivi; negli stessi termini, v. anche Dovere, La responsabilità da
reato dell’ente collettivo, cit., 112 ss.
( 109 ) Cass. pen., sez. un. del 10.7.2002, n. 30328, in R. pen., 2002, 885.
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processuali dei due imputati ai quali, peraltro, verrebbe contestato il medesimo reato. Ed infatti, mentre l’accertamento della responsabilità dell’individuo sarebbe presidiato da un arsenale di garanzie piuttosto forte, tale per
cui risulterebbe abbastanza difficile pervenire ad un’affermazione di colpevolezza nei suoi confronti oltre ogni ragionevole dubbio (110), all’opposto, la
correlata responsabilità dell’ente deriverebbe in maniera pressoché automatica dal perseguimento di qualsivoglia interesse o vantaggio in relazione
alla sola violazione della regola cautelare.
Orbene, per chi, come noi, crede ancora nei principi costituzionali e nel
loro valore fondante e, allo stesso tempo, limitante il diritto penale, l’ermeneusi sopra illustrata non può condividersi. Essa ci pare figlia di quella logica volta a coinvolgere l’ente, costi quel che costi, nella responsabilità per il
fatto commesso dall’organo-persona fisica che ha agito per suo conto. A
nostro modo di vedere, invece, anche l’accertamento della responsabilità
(penale) della persona giuridica merita di essere presidiato dalle stesse guarentigie con le quali i padri costituenti hanno circondato l’accertamento
dell’omologa responsabilità individuale.
A questo punto, pertanto, non rimane che valorizzare, nei termini sopra
indicati, l’alternativo criterio del vantaggio, che proprio rispetto ai reati
presupposto colposi potrebbe trovare il campo ideale di applicazione (111).
In effetti, il legislatore del 2001, aderendo all’iniziale «scelta minimalista»
di contenimento della parte speciale del decreto 231 soltanto ad alcune fattispecie dolose, aveva già «messo in cantiere» l’allargamento futuro della
responsabilità dell’ente collettivo anche ai reati colposi, senza ritenere all’uopo necessario un adeguamento o una correzione del predetto criterio di
imputazione. Si potrebbe sostenere, allora, che l’impianto originario della
normativa fosse già predisposto ad accogliere al proprio interno illeciti presupposto di natura colposa e che, quindi, il criterio dell’interesse e del vantaggio sia con gli stessi compatibile (112). Ad ulteriore suffragio di questa
considerazione vi è anche la circostanza che tutte le volte in cui ne ha avuto
occasione – da ultimo, proprio con l’introduzione dei reati ambientali in seno al «decreto 231» – il legislatore non ha (quasi) mai provveduto (113) ad
( 110 ) Se non altro per le difficoltà insite nell’accertamento del nesso causale. In proposito,
per una approfondita disamina della questione, si segnala il recente contributo di Zirulia,
Amianto e responsabilità penale: causalità ed evitabilità dell’evento in relazione alle morti derivate da mesotelioma pleurico, in www.penalecontemporaneo.it.
( 111 ) Nello stesso senso, v., per tutti, Bricchetti-Pistorelli, Responsabili anche gli enti, cit., 41.
( 112 ) Negli stessi termini, v., per tutti, Epidendio-Piffer, Criteri, cit., 17 ss.
( 113 ) Il «quasi» si riferisce all’introduzione nel medesimo decreto dei reati societari pre-
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introdurre correttivi di sorta in punto di requisito oggettivo della responsabilità.
Orbene, se, come visto, l’interesse inteso in senso soggettivo inibisce
l’ascrizione del fatto colposo all’ente (114) e, se inteso invece nel significato
oggettivo, può, tra gli altri inconvenienti, portare ad un’ascrizione automatica della responsabilità tutte le volte in cui si accerti che un soggetto qualificato abbia tenuto la condotta inosservante nell’espletamento delle proprie
mansioni, non rimane altro che accordare rilevanza all’alternativo criterio
del vantaggio (115). Quest’ultimo, da apprezzarsi nella sua dimensione prettamente economica, come sembrerebbero confermare anche le Sezioni
Unite della Cassazione in una recente pronuncia (116), andrebbe però riferito all’intera fattispecie di reato, e non, invece, alla sola condotta inosservante della regola cautelare.
Il requisito del vantaggio così configurato, peraltro, ci sembra particolarmente funzionale proprio rispetto ai reati descritti dall’art. 25 undecies.
Non sarebbe un caso, dunque, che il legislatore del 2011 non abbia inserito
alcun «adeguamento normativo» al criterio oggettivo per attribuire questo
tipo di illeciti all’ente.
Nella materia ambientale, caratterizzata essenzialmente dalla violazione
negligente di precetti aventi natura amministrativa, la verifica della sussistenza del requisito dell’art. 5 potrà trarre senz’altro giovamento dall’assenza di una richiesta di accertamento in chiave soggettiva o finalistica del suddetto criterio. Laddove venga appurato che la disciplina di settore è stata
violata e tale violazione è da imputarsi ad una condotta tenuta da un organo
dell’ente nell’esercizio delle sue mansioni, l’ente risponderà se dal reato in
tal modo configuratosi avrà tratto un apprezzabile vantaggio, sempre che
quel reato sia dipeso da una carenza organizzativa dell’ente medesimo.
L’interprete, quindi, sarebbe esentato da qualsivoglia indagine inerente all’intenzione del soggetto agente di avvantaggiare la societas oppure da
un’indagine volta a rintracciare una qualche «proiezione oggettivo-finalisti-
supposto, per i quali il legislatore, all’art. 25 ter d. lgs. 231/2001, ha previsto quale unico collegamento oggettivo il solo «interesse».
( 114 ) Quantomeno le ipotesi di colpa incosciente.
( 115 ) Si esprimono più o meno in questi termini, Bricchetti-Pistorelli, Responsabili
anche gli enti, cit., 41.
( 116 ) Cass. pen., sez. un., del 2.7.2008, n. 26654, in Guida dir., 2013, 22, 73 ss. Pronunciandosi in materia di misure cautelari, la Sezioni Unite hanno stabilito che «nel procedimento per l’accertamento dell’illecito amministrativo ai sensi del d. lgs. n. 231/2001, il sequestro
preventivo funzionale alla confisca disposto nei confronti dell’ente collettivo è costituito dal
vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato
nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente».
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ca» della condotta al conseguimento di un utile economico per l’ente. Una
verifica di tal fatta, nella materia de qua, potrebbe infatti rivelarsi una vera e
propria probatio diabolica. Si tratterebbe, invero, da un lato, di rintracciare
una volontà in un illecito che ne presuppone l’assenza; dall’altro, di valutare la tensione finalistica di una condotta che spesso si manifesta in una indecifrabile forma omissiva ad esecuzione frazionata.
I reati ambientali, inoltre, sono reati prevalentemente di mera condotta
e, anche laddove è previsto un evento (117), la sua eventuale configurabilità
non è certo incompatibile con gli interessi (latu sensu intesi) della persona
giuridica; anzi, proprio dalla compromissione del bene ambiente, spesso (e
purtroppo), conseguono alla medesima essenzialmente vantaggi di tipo patrimoniale. Un esempio emblematico in tal senso potrebbe essere il reato di
cui all’art. 257 TUA. Qualora l’autore dell’inquinamento non ponga rimedio all’inquinamento del terreno con la bonifica, l’ente trae senza dubbio
un vantaggio, consistente nel risparmio delle spese (a volte ingenti) necessarie alla messa in pristino del luogo contaminato. Altri esempi di vantaggi
conseguibili dall’ente a seguito della realizzazione di reati ambientali presupposto, possono essere il risparmio di spesa derivante dal mancato adeguamento degli impianti industriali alle BAT (acronimo di Best Available
Technologies), oppure l’aumento della produttività conseguente alla sua
mancata interruzione nell’attesa del completamento dell’iter burocratico
necessario ad ottenere l’autorizzazione per uno scarico di acque reflue o
per la gestione di una discarica. Nella materia ambientale, insomma, a differenza del diritto penale del lavoro, non si registra alcuna incompatibilità
concettuale del requisito del vantaggio rispetto alla eventuale configurazione dell’evento del reato; anzi, lo stesso evento, molte volte, costituisce proprio la concretizzazione di quel vantaggio rilevante ai fini dell’art. 5 del «decreto 231».
Al momento in cui si scrive, l’unica pronuncia sull’art. 25 undecies degna di nota è la sentenza (118) con la quale la Corte di Cassazione, intervenendo sul noto «caso Ilva», si è pronunciata sulla legittimità del sequestro
preventivo disposto dal G.i.p. di Taranto, affrontando incidenter tantum la
questione dell’interesse o vantaggio ex art. 5. Anche questa pronuncia, tuttavia, sembrerebbe seguire la stessa traiettoria motivazionale percorsa dalla
giurisprudenza sopra citata in materia di infortuni sul lavoro, con il conse-
( 117 ) Come ad esempio nel reato di omessa bonifica.
( 118 ) Cass. pen., sez. VI, del 20.12.2013, n. 3635, in Dir. & Giust., 2014, 27 gennaio. Per
un commento, v. Trinchera, Caso Ilva: la Cassazione esclude la confisca per equivalente del
profitto dei reati ambientali, in www. penalecontemporaneo.it.
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guente «allacciamento» del criterio de quo, ancora una volta, alla condotta
piuttosto che all’intera fattispecie di reato (119).
Orbene, per quanto siffatta esegesi nel settore ambientale non si esponga – proprio in ragione della natura formale degli illeciti ambientali – agli
stessi rilievi critici evidenziati, invece, per i delitti colposi d’evento di cui
agli artt. 589 e 590 c.p., rimane comunque, a nostro avviso, un’interpretazione non condivisibile.
L’unico criterio di imputazione per i reati colposi può essere soltanto il
vantaggio il quale, secondo quanto disposto dal più volte richiamato art. 5,
deve relazionarsi al reato, ovvero alla vicenda criminosa complessivamente
considerata. Ciò, anche qualora la stessa consista in un evento che, prima facie, non appaia apportare alcun utile economico all’ente.
3.2 – La tesi qui proposta, che rivendica l’autonomia ascrittiva del criterio del vantaggio rispetto ai reati presupposto colposi, incontra ora l’ultimo
ostacolo. Come abbiamo cercato di evidenziare nel paragrafo precedente, il
meccanismo del vantaggio sembrerebbe abbastanza «performante» se calibrato sui reati ambientali. Questa tipologia di illeciti, in effetti, è costituita
per lo più da reati di mera condotta. Rispetto agli stessi, quindi, è improbabile che si ripropongano i medesimi problemi interpretativi sorti con riferimento ai delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p., così come richiamati dall’art.
25 septies del d. lgs. 231/2001. Inoltre, anche per quei reati ambientali
strutturati come reati di evento, la configurabilità dello stesso non si pone
in assoluta contraddizione con un ipotetico interesse o vantaggio per l’ente.
Anzi, l’evento del reato, che si estrinseca solitamente nell’inquinamento di
una componente ecologica, difficilmente potrà andare a discapito della persona giuridica; sarà l’intera collettività, piuttosto, a rimetterci vivendo in un
ambiente meno salubre. L’ente, invece, ne trae quasi sempre un beneficio
di natura economica (120), che si manifesta – come appena esemplificato –
essenzialmente sotto forma di un risparmio di spesa. Insomma, un’esegesi
letterale dell’art. 5, che agganci cioè il dato del vantaggio all’intero reato,
non pare andare incontro ad insormontabili difficoltà interpretative ed applicative se rapportata all’illecito ambientale.
Lo stesso discorso, però, non vale per i delitti colposi di evento, quali
l’omicidio e le lesioni gravi o gravissime di cui al predetto art. 25 septies. Sin
dalla loro introduzione nel «decreto 231», infatti, la dottrina maggioritaria
( 119 ) Cfr. in particolare, punto 10 della motivazione.
( 120 ) V. a tal riguardo di rapporto annuale dell’Osservatorio di Legambiente, Ecomafia
2014. Le storie e i numeri della criminalità ambientale, Edizioni ambiente, 2014.
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ne aveva denunciato l’incompatibilità con il citato art. 5 (121): la morte o la
lesione grave del lavoratore non avrebbe mai potuto generare un utile, un
vantaggio per la persona giuridica, semmai l’avrebbe danneggiata. Da qui,
il consolidamento dell’indirizzo interpretativo sopra illustrato (e criticato),
volto a ricondurre il dato dell’interesse o vantaggio alla sola condotta del
reo, e non anche all’evento, come invece richiede espressamente il medesimo art. 5.
Orbene, se un’interpretazione siffatta si pone, a nostro avviso, in insanabile contrasto con i principi costituzionali – in particolare con quello di
stretta legalità – e se, allo stesso tempo, riteniamo inaccettabili le «esegesi
catastrofistiche» che propugnano l’inapplicabilità dell’art. 25 septies o propongono di soprassedere all’accertamento del criterio in parola rispetto a
questo tipo di illeciti, come coniugare, dunque, i reati colposi d’evento con
il requisito oggettivo del vantaggio? Come si può sostenere che la realizzazione di un omicidio o di una lesione colposa di un lavoratore possa arrecare un beneficio all’ente?
È certamente indubbio che l’evento morte o lesioni del dipendente si
risolva in un grave danno per la societas e che ciò possa, quantomeno prima facie, portare alla conclusione di escludere la responsabilità dell’ente
per carenza proprio del requisito del vantaggio. A nostro modo di vedere,
però, tale valutazione andrebbe fatta in un’ottica più ampia, valutando,
come si diceva, l’atteggiamento complessivo dell’ente. Lo stesso art. 5, infatti, ricollega il dato dell’interesse o vantaggio all’intero reato, come se
volesse suggerire un’indagine che prenda in considerazione tutta la vicenda criminosa, e non soltanto l’esito fatale, ove questo – ovviamente – sia
previsto.
A tal proposito, quindi, sarà sufficiente, ai fini della sola ascrizione oggettiva del fatto all’ente, che quest’ultimo abbia tratto un apprezzabile vantaggio, sempre di natura economica, anche da un unico segmento del reato
complessivamente considerato. Il vantaggio, insomma, non deve per forza
di cose promanare dall’evento, ma può anche derivare da un altro elemento
costitutivo dell’illecito, quale nel nostro caso la condotta.
In definitiva, riteniamo il dato del vantaggio compatibile anche con
quei reati colposi il cui evento costitutivo all’apparenza si mostri nefasto
per l’ente. Siffatta compatibilità sarebbe assicurata proprio dal riferimento
che la lettera dell’art. 5 fa al «reato» commesso nell’interesse o a vantaggio
dell’ente medesimo. E poiché il reato presenta altri elementi costitutivi ol-
( 121 ) Al riguardo, v. per tutti, Vitali-Burdese, La legge 3 agosto 2007, n. 123: prime riflessioni in tema di responsabilità degli enti, in La Resp. Amm. Soc., 2007, 4, 125.
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tre all’evento, qualora da uno di questi, presumibilmente dalla condotta
criminosa, derivi un considerevole vantaggio per la persona giuridica, ebbene quest’ultima deve risponderne ai sensi del decreto 231, sempre che,
ovviamente, anche l’altro imprescindibile requisito soggettivo di cui agli
artt. 6 e 7 del decreto 231 risulti integrato.
Non varrebbe a confutare tale assunto la constatazione che, a fronte di
un esiguo vantaggio conseguito a causa di una condotta negligente, l’ente
subisca comunque, in una sorta di bilancio in termini di utili/perdite, un
danno patrimoniale, con la conseguenza che un’eventuale sanzione amministrativa allo stesso inflitta si traduca, alla fine, in un duplice ed eccessivo
carico sanzionatorio. A dar credito alla nostra tesi, in altre parole, potrebbe
accadere che la persona giuridica, per il semplice fatto di aver risparmiato
una somma esigua dalla condotta inosservante della disciplina prudenziale,
si veda infliggere un’ingente pena pecuniaria la quale, tra l’altro, andrebbe
ad aggiungersi alla morte o alla lesione del lavoratore. Il tutto, senza contare
le ulteriori conseguenze negative derivanti dall’illecito in parola, quali l’obbligo di risarcire il danno alle vittime, l’interruzione del ciclo produttivo, il
danno d’immagine etc. Come si suole dire, insomma, oltre al danno, anche
la beffa!
A questi rilievi, tuttavia, riteniamo di aver già risposto, escludendo che
qualsivoglia ricaduta vantaggiosa sul patrimonio dell’ente possa determinarne automaticamente la responsabilità. Quest’ultima, infatti, deve (o,
quantomeno, dovrebbe) essere subordinata anche al positivo riscontro dell’altro requisito strutturale, di natura soggettiva, e cioè la presenza di una
lacuna organizzativa che abbia reso possibile il verificarsi del reato. E allora, se anche questo criterio, estrinsecantesi in una colpa sui generis dell’ente, viene a configurarsi, non si vede per quale motivo l’ente medesimo non
debba essere coinvolto nella responsabilità per il fatto di reato commesso
da un suo organo; responsabilità, peraltro, che la persona giuridica avrebbe
potuto (e dovuto) evitare dotandosi di adeguati ed efficaci modelli di organizzazione e gestione (122).
Infine, non bisogna dimenticare l’operatività dell’attenuante dell’art.
12, comma 1, lett. a) d. lgs. 231/2001, la quale, come visto, ammette una
consistente riduzione di pena laddove la persona fisica abbia agito per un
prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne abbia ricavato vantaggio o ne abbia ricavato un vantaggio minimo. Pertanto, in presenza di
( 122 ) Insomma, ad un «piccolo vantaggio» si sommerebbe una «grande colpa», motivo
per il quale riteniamo che, in ipotesi siffatte, l’ente debba comunque rispondere; ferma restando, naturalmente, l’applicazione a suo favore dell’attenuante dell’art. 12 d. lgs. 231/2001.
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un’esigua utilità economica tratta dalla persona giuridica in conseguenza
del reato, la stessa vedrà sensibilmente ridursi la reazione sanzionatoria dell’ordinamento (123).
Analogamente, poi, ci pare vada ridimensionato il «catalogo delle conseguenze negative» che inesorabilmente ricadrebbero sull’ente a seguito
della commissione dell’illecito e che, come tali, sconsiglierebbero di affidare al solo dato del vantaggio la funzione selettiva indubbiamente riconnessa
all’art. 5 del decreto 231. La dottrina e la giurisprudenza che sposano questa tesi, infatti, «snocciolano» tutta una serie di situazioni deteriori che capiterebbero «tra capo e collo» alla persona giuridica in conseguenza del
reato dell’art. 25 septies, di tal che sarebbe impossibile ipotizzare il conseguimento di alcun beneficio da parte della stessa. Vengono così menzionati,
a titolo esemplificativo, come già sopra segnalato: l’obbligo di risarcimento
dei danni ai sensi dell’art. 185 c.p., il danno d’immagine per la societas, l’interruzione dell’attività produttiva per consentire l’espletamento delle attività d’indagine da parte dell’autorità inquirente, i costi per la sostituzione del
lavoratore deceduto o gravemente ferito etc.
Orbene, se così fosse, il dato del vantaggio non sarebbe praticamente
mai riscontrabile in nessuno dei reati presupposto contenuti nella parte
speciale del predetto decreto 231; nemmeno rispetto a quei reati dolosi che
mai hanno destato nella medesima dottrina e giurisprudenza perplessità e
dubbi di sorta in ordine alla loro compatibilità con il criterio oggettivo dell’art. 5. Ragionando in questo modo, infatti, è evidente che anche la realizzazione, ad esempio, di una truffa non potrebbe mai arrecare un vantaggio
all’ente, perché ove il reato venisse scoperto, e poi perseguito e punito, all’ente medesimo deriverebbero le stesse conseguenze negative in termini di
danno d’immagine e perdita di credibilità, di interruzioni dell’attività produttiva per consentire l’attività istruttoria, di risarcimento del danno e via
dicendo. Queste conseguenze, alcune delle quali peraltro del tutto eventuali, non possono, a nostro modo di vedere, concorrere alla formazione del
dato del vantaggio. Quest’ultimo, lo ribadiamo, ci pare debba essere agganciato solamente al reato, interpretato estensivamente ed inteso come complesso di elementi costitutivi, tra i quali figura senz’altro l’evento, ma anche
la condotta.
Ai fini di una corretta interpretazione ed applicazione del criterio dell’art. 5 nei reati colposi d’evento, dunque, sarà sufficiente accertare che
( 123 ) Ciò, anche in virtù del principio di offensività che, stante la natura sostanzialmente
penale della responsabilità degli enti collettivi, dovrebbe ritenersi egualmente valido ed operante in subiecta materia.
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l’ente abbia ritratto un’utilità economica e che questa sia eziologicamente
riconducibile anche ad uno soltanto dei suddetti elementi costitutivi del
reato, sia esso l’evento oppure la condotta od entrambi.
La nostra ricostruzione, a prima vista, potrebbe assomigliare alla tesi
che abbiamo criticato poco sopra, perché, al pari di questa, finisce inevitabilmente per fare leva, ancora una volta, sulla condotta, incentrando di fatto il requisito oggettivo dell’art. 5 sull’azione o sull’omissione tenuta dall’organo-persona fisica. In realtà, la prospettiva di valutazione dalla quale
muoviamo è sensibilmente differente.
A parte il momento del giudizio, ex ante in un caso, ex post secondo la
nostra prospettiva, non viene qui richiesta alcuna tensione finalistica della
condotta, né ci si premura di accertare che la stessa sia sorretta dalla consapevolezza di violare la regola cautelare in vista del contenimento dei costi.
Si richiede soltanto, mediante una verifica ex post, di accertare se l’ente, dal
reato inteso come insieme di elementi costitutivi, abbia conseguito da almeno uno di questi un vantaggio di natura economica e che questo vantaggio
derivi eziologicamente dalla condotta o dall’evento oppure, laddove possibile, come nei reati ambientali, da entrambi.
In questo modo, si eviterebbero i paradossi conseguenti alla suesposta
concezione soggettiva dell’interesse, agganciata, nei reati colposi, alla sola
condotta inosservante, tenuta proprio al fine di generare un risparmio per
la societas. Detta ermeneusi, oltre ad esporsi ai più volte rilevati profili di incostituzionalità, escluderebbe dal proprio campo di applicazione le inosservanze dovute a mere distrazioni o disattenzioni, e quindi ascrivibili ad una
colpa incosciente; colpa incosciente, peraltro, che negli illeciti in materia di
salute e sicurezza sul lavoro costituisce la regola, essendo piuttosto rari, o
comunque difficilmente accertabili, i casi nei quali la violazione avviene con
colpa cosciente (124). Dall’altra parte, la concezione che interpreta l’interesse nella sua dimensione oggettiva, ricollegandolo pur sempre alla condotta,
presenterebbe l’inconveniente di portare ad un’automatica affermazione
della responsabilità dell’ente, quantomeno sotto il profilo oggettivo, essendo pressoché impossibile che la persona fisica violi la norma cautelare nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Non è un caso, infatti, che, tranne
qualche eccezione (125), tutte le decisioni giurisprudenziali in materia siano
( 124 ) Su questo aspetto, v., per tutti, Santoriello, Riflessioni sulla possibile responsabilità degli enti collettivi in presenza di reati colposi, in La Resp. Amm. Ent., 2011, 73 ss. Aldrovandi, La responsabilità amministrativa degli enti per i reati in materia di salute e sicurezza sui
luoghi di lavoro alla luce del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in Ind. Pen., 2009, 504.
( 125 ) Cfr. supra, sentenza del G.i.p. del Tribunale di Cagliari del 4.7.2011.
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a senso unico, e cioè riconoscano sempre la responsabilità della societas per
il reato commesso dal proprio organo.
4. – Le argomentazioni sopra sviluppate, ovviamente, non muovono
certo dall’ambizione (e tantomeno dalla presunzione) di fornire una soluzione definitiva all’intricata questione dell’operatività del criterio dell’interesse o vantaggio rispetto ai reati presupposto colposi. L’intenzione che
anima il presente lavoro, infatti, è soltanto quella di arricchire con qualche
spunto in più di riflessione il costante dibattito che ruota attorno a tale problematica, nella convinzione che la recente introduzione dei reati ambientali nella parte speciale del «decreto 231» contribuirà ad alimentarlo ulteriormente.
Allo stesso tempo siamo perfettamente consapevoli che pure la tesi qui
proposta presenta taluni inconvenienti e presta il fianco a lacune di tutela
poco convincenti. Si pensi, ad esempio, alle lesioni gravi del dipendente dovute ad una semplice distrazione o ad un comportamento negligente del datore di lavoro dalle quali, pertanto, non derivi alcun vantaggio economico,
in termini di risparmio di costi, a favore dell’ente; oppure, allo scarico di acque reflue industriali con occasionale violazione dei limiti tabellari in conseguenza del quale la persona giuridica effettivamente non consegua alcun
utile. Ragionando secondo la nostra prospettiva, diverrebbe difficile chiamare a rispondere la societas per un fatto di reato improduttivo per la stessa
di qualsivoglia utilità economica. La responsabilità dell’ente, in effetti, non
potrebbe sorgere già «a monte», sotto il profilo oggettivo, per difetto del
requisito dell’art. 5 così come sopra interpretato.
È pur vero, però, che una situazione di tal fatta – ovvero che l’ente non
ritragga alcun vantaggio economico da un illecito colposo realizzato dal
proprio organo – non appare così frequente, essendo possibile nella maggioranza dei casi riscontrare un apprezzabile beneficio patrimoniale derivante quale conseguenza della condotta e/o dell’evento del reato presupposto. Peraltro, l’eventuale mancato coinvolgimento della persona giuridica in
queste problematiche fattispecie non comporta un’assoluta assenza di tutela per le vittime del reato: queste ultime, infatti, potranno sempre contare
sulle responsabilità penali individuali e sul correlativo obbligo civilistico di
risarcire il danno da parte del/i soggetto/i condannato/i.
Per converso, abbiamo cercato di puntualizzare che non basta una semplice locupletazione od un risibile «arricchimento» per l’imputazione del
fatto all’ente (126). Oltre al principio di offensività, che in virtù delle premes-
( 126 ) Ciò tanto più nelle fattispecie richiamate dall’art. 25 septies d. lgs. 231/2001 per le
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se di cui sopra dovrebbe ritenersi operante anche in subiecta materia, permettendo così al giudice un miglior apprezzamento dell’entità del vantaggio rispetto al caso concreto, non bisogna dimenticare che il «decreto 231»
non prevede solo il criterio di ascrizione oggettivo e, quindi, un automatico
coinvolgimento dell’ente nel fatto di reato commesso dall’organo-persona
fisica ogniqualvolta il primo ottenga un beneficio patrimoniale in conseguenza dell’illecito commesso dal secondo. Il legislatore, invero, richiede
per la responsabilità della societas anche il requisito soggettivo di cui agli
artt. 6 e 7 d. lgs. 231/2001 con il quale «calibra» la riprovevolezza della persona giuridica sulla base dell’atteggiamento da questa complessivamente
tenuto sia prima, che durante e dopo la commissione dell’illecito (127). Insomma, l’ente che si presenti unicamente quale contesto occasionale per la
realizzazione di un reato non è (e non deve) essere punito, anche qualora da
tale reato ritragga fortuitamente un utile economico. Laddove, invece, da
un illecito colposo, valutato in tutti i suoi elementi costitutivi, derivi ex post
un significativo vantaggio alla persona giuridica e si accerti che quest’ultima, colpevolmente, non si è organizzata in modo tale da prevenire la commissione dell’illecito medesimo attraverso la predisposizione di un idoneo
ed efficace modello di organizzazione, gestione e controllo, ebbene la stessa
persona giuridica potrà (e dovrà) essere chiamata a rispondere anche in sede penale.
Ad ogni buon conto, la parola fine a questa «querelle interpretativa» la
può porre soltanto il legislatore riformulando il criterio ascrittivo dell’art. 5
e differenziandolo a seconda che l’illecito presupposto abbia natura dolosa
o colposa (128). L’interprete o l’operatore del diritto, dal canto suo, potrà
solamente avanzare delle soluzioni esegetiche in grado di salvare la disciplina de qua da un’inammissibile inefficacia o, addirittura da evitare un insanabile conflitto con i principi costituzionali. A questo riguardo, tra un’interpretazione che presenta seri dubbi di incostituzionalità, quale quella sopra criticata, e un’interpretazione, la nostra, forse meno convincente ma rispettosa del dettato costituzionale, ci sia consentito scegliere la seconda.
quali, come visto, l’evento tipico del reato si risolve in un fatto che, in sé considerato, per l’impresa è tutto fuorché vantaggioso.
( 127 ) Si pensi alla diversa efficacia dei modelli di organizzazione, gestione e controllo a seconda del «momento» in cui vengono adottati dall’ente: efficacia esimente, se attuati prima
della commissione dell’illecito, attenuante ex art. 12, comma 2, lett. b), se lo stesso modello
viene adottato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.
( 128 ) Si è mossa in questa direzione la Commissione Greco che, all’art. 1 del proprio progetto, aveva proposto la riformulazione dell’art. 5 nei termini seguenti: «l’ente è responsabile
per i reati dolosi commessi nel suo interesse o a suo vantaggio ovvero per i reati colposi quando le condotte costitutive sono state realizzate nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso».
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Il quadro appena tratteggiato, tuttavia, potrebbe essere nuovamente ridisegnato dall’eterna incompiuta (e, a quanto pare, imminente) riforma dei
reati ambientali che vede, tra i punti più qualificanti, la loro introduzione
nel codice penale sotto un autonomo titolo (il VI bis, rubricato «Dei delitti
contro l’ambiente») ed un’implementazione dell’attuale (ed alquanto discutibile) catalogo dell’art. 25 undecies d. lgs. 231/2001 (129). Nonostante il
legislatore dichiari da anni di voler mettere mano al sistema sanzionatorio
ambientale – se ne fece menzione per la prima volta nel progetto Pagliaro di
riforma del codice penale (130) – pare che questa sia veramente la volta buona. Ciò, non solo e non tanto perché l’attuale Ministro della Giustizia, On.
Orlando, nel discorso di investitura ha espressamente elencato tale riforma
tra le priorità dell’azione di governo (131), ma soprattutto perché le ben note
direttive europee, la 2008/99/ce sulla tutela penale dell’ambiente e la 2009/
123/ce sull’inquinamento provocato dalle navi, sono rimaste sostanzialmente inattuate da parte del nostro ordinamento (132).
Come è noto, il recepimento dei suddetti atti comunitari, formalmente
( 129 ) Ci si riferisce al testo unificato delle proposte di legge A.C. 957 (Micillo), A.C. 342
(Realacci) e A.C. 1814 (Pellegrino) elaborato dalla Commissione Giustizia della Camera e già
approvato dallo stesso ramo del Parlamento. Recentissimamente (e cioè il 4.3.2015), la proposta ha ottenuto anche il «via libera» del Senato con alcune modifiche ed è quindi tornata
alla Camera dei deputati per la terza lettura. Il documento, comunque, è rinvenibile all’indirizzo internet www.camera.it. Per un commento, v. Vergine, I nuovi delitti ambientali: a proposito del d.d.l. n. 1345/2014, in Amb. & Sviluppo, 6, 2014, 443; Manna, Dalla legge sulla
«Terra dei fuochi» agli ultimi d.d.l. in tema di «ecoreati»: un diritto penale «spot»?, in Dir. pen.
proc., 4, 2014, 469 ss.; Ruga Riva, Commento al testo base sui delitti ambientali adottato dalla
Commissione Giustizia della Camera, in www.penalecontemporaneo.it; Santoloci, Dietro
l’introduzione dei nuovi delitti ambientali (molto scenografici, ma scarsamente applicabili e di
poco effetto pratico) si nasconde l’azzeramento di fatto di tutti gli illeciti ambientali oggi esistenti, in www.dirittoambiente.com.
( 130 ) V. Manna, Dalla legge, cit., 473.
( 131 ) Cfr. www.ansa.it del 27.2.2014.
( 132 ) In argomento v. per tutti, Catellani, Responsabilità da reato delle aziende e ambiente, Milano, 2013, 32 ss.; Casartelli, La responsabilità degli enti per i reati ambientali, in
www.penalecontemporaneo.it; De Santis, La tutela penale dell’ambiente dopo il d. lgs. n. 121/
2011 di attuazione della direttiva 2008/99/CE, in Resp. Civ. e prev., 2012, 2, 668; ParodiGebbia-Bortolotto, La 231 ambientale. La nuova responsabilità delle imprese per i reati
ambientali, Gruppo 24ore, 2012; Scoletta, Obblighi europei di criminalizzazione e responsabilità degli enti per i reati ambientali (note a margine del d. lgs. n. 121/2011 attuativo delle direttive comunitarie sulla tutela dell’ambiente), in Riv. giur. amb., 2012, 17; Bricchetti-Pistorelli, Imprese responsabili: scattano sanzioni pecuniarie, in Guida dir., 2011, 38, 48 ss.;
Plantamura, Responsabilità individuali e degli enti nel d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121 di attuazione delle direttive europee sulla tutela penale dell’ambiente, in questa Rivista, 2011, 477; Ruga
Riva, Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela penale dell’ambiente: nuovi reati, nuova responsabilità degli enti da reato ambientale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; Scarcella, Nuovi «ecoreati» ed estensione ai reati ambientali del d. lgs.
n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, in Ambiente & Sviluppo, 2011, 10, 854 ss.
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avvenuto con il d. lgs. n. 121/2011, è stato nei fatti assai insoddisfacente. Il
legislatore nazionale ha lasciato inalterato il precedente sistema sanzionatorio, imperniato sul paradigma del reato contravvenzionale di pericolo
astratto o presunto (133), e non ha formulato le fattispecie ambientali in termini di pericolo concreto o di danno (come invece chiedeva espressamente
il legislatore europeo) (134). Inoltre, all’art. 25 undecies d. lgs. 231/2001 sono
stati inseriti quali reati presupposto della responsabilità degli enti illeciti
prevalentemente formali, mentre sono stati inspiegabilmente esclusi i più
gravi delitti contro l’ambiente (135).
Il disegno di legge recentissimamente approvato anche dal Senato – con
modifiche, e quindi tornato alla Camera per l’approvazione definitiva –
prevede l’introduzione nel corpus codicistico e nell’impianto del «decreto
231» di alcune nuove fattispecie di reato di danno o di pericolo concreto,
pensate proprio per arginare quelle macrolesioni all’ecosistema che attualmente la giurisprudenza sanziona attraverso la (controversa) interpretazione ed applicazione di fattispecie codicistiche orginariamente poste a protezione di (ben) altri beni giuridici. I delitti che verrebbero così introdotti nel
codice penale sono l’inquinamento ambientale (art. 452 bis c.p.) (136), il disastro ambientale (art. 452 ter c.p.) (137), ed il traffico e abbandono di mate-
( 133 ) La disciplina principale della materia, come è noto, riposa nel d. lgs. n. 152/2006.
( 134 ) Ad eccezione delle due fattispecie codicistiche, art. 727 bis e art. 733 bis c.p., aventi
ad oggetto, rispettivamente, la «Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette» e la «Distruzione o deterioramento di
habitat all’interno di un sito protetto» introdotte dal legislatore del decreto 121/2011 all’interno del codice penale. Dette contravvenzioni, infatti, sono incentrate sul pericolo concreto
e/o sul danno del bene protetto dalla norma incriminatrice.
( 135 ) Un esempio per tutti sono gli artt. 434 e 449 c.p. che puniscono, rispettivamente nella forma dolosa e colposa, il cd. disastro innominato, fattispecie sempre applicata alle macrolesioni del bene ambiente. Un’altra esclusione eccellente dall’elenco dei reati presupposto
della persona giuridica è il delitto di avvelenamento di acque o di sostanze destinate all’alimentazione, egualmente punito sia a titolo doloso che colposo dagli artt. 439 e 452 c.p.
( 136 ) Art. 452 bis che punisce con la pena della reclusione da due a sei anni e con la
multa da euro 10.000 a 100.000, «chiunque, in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza
costituisce di per sé illecito amministrativo o penale, cagiona una compromissione o un deterioramento rilevante: 1) dello stato del suolo, del sottosuolo, delle acque o dell’aria; 2)
dell’ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna selvatica». Il secondo comma, infine, prevede una circostanza aggravante ad effetto comune «quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico,
ambientale, storico, artistico architettonico, archeologico, ovvero in danno di specie animali
o vegetali protette».
( 137 ) Art. 452 ter: «Chiunque, in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o
amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce
di per sé illecito amministrativo o penale, o comunque abusivamente, cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni». È altresì prevista una circo-
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riale ad alta radioattività (art. 452 quinquies c.p.) (138). Detti reati, inoltre,
verrebbero aggiunti al suddetto catalogo dell’art. 25 undecies d. lgs. 231/
2001 da quello che sarà il nuovo art. 452 decies, comma 7, del codice penale.
Orbene, non essendo questa la sede per esprimere un giudizio od un
commento sulla riforma in itinere, merita una chiosa finale l’impatto che tale legge avrebbe – laddove venisse finalmente approvata – sul criterio di imputazione oggettiva del fatto all’ente. Ed infatti, i suddetti delitti di «inquinamento ambientale» e di «disastro ambientale», così come attualmente
formulati, possono essere ascritti alla societas anche qualora siano commessi con colpa da parte dell’esecutore materiale. Pertanto, è molto verosimile
che rispetto alla futura applicazione di tali fattispecie ambientali alle persone giuridiche si riproporrà la medesima questione qui affrontata, ovvero la
loro compatibilità con il controverso requisito dell’interesse o del vantaggio.
Sennonché, i delitti di nuovo conio, a differenza dei reati ambientali attualmente previsti dalla normativa di settore, sono tutti delitti di evento e,
poiché l’oggetto giuridico a tutela del quale sono posti è per definizione
inafferrabile e difficilmente circoscrivibile, il legislatore, nella descrizione
dell’evento di danno o di pericolo concreto, non ha potuto far altro che utilizzare espressioni e sintagmi ai limiti della determinatezza, oltre che di ardua dimostrazione processuale (139). Peraltro, i primi commentatori del
suddetto disegno di legge non hanno mancato di sottolineare come le nor-
stanza aggravante ad effetto comune al terzo comma, laddove si prescrive che la pena è aumentata «quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo
paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno a
specie animali o vegetali protette».
( 138 ) Art. 452 quinquies: «1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la
reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a 50.000 chiunque, abusivamente o
comunque in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene o trasferisce materiale ad
alta radioattività. Alla stessa pena soggiace il detentore che abbandona materiale ad alta radioattività o che se ne disfa illegittimamente. 2. La pena di cui al primo comma è aumentata
se dal fatto deriva il pericolo di compromissione o deterioramento: 1) della qualità del suolo,
del sottosuolo, delle acque o dell’aria; 2) dell’ecosistema, della biodiversità, della flora o della
fauna selvatica. 3. Se dal fatto deriva pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone, la
pena è aumentata fino alla metà».
( 139 ) Si veda, per tutte, l’articolata definizione che lo stesso legislatore offre del cd. disastro ambientale di cui al citato art. 452 ter: «Costituisce disastro ambientale l’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema o l’alterazione la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, ovvero l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza oggettiva del fatto per l’estensione della compromissione ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo».
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me incriminatrici de quibus siano affette da «gigantismo» quanto alla descrizione dell’evento del reato (140).
Sta di fatto, tuttavia, che, gigantismo o meno, tutto ciò potrebbe tradursi in una inevitabile probatio diabolica, con conseguente mancato perfezionamento della fattispecie di reato qualora la prova del nesso causale tra la
condotta e l’evento medesimo non venga offerta all’organo giudicante.
Inoltre, i nuovi delitti ambientali, a differenza dei precedenti reati presupposto colposi contenuti nel d. lgs. 231/2001, presentano alcune clausole
di illiceità speciale che rendono ancor più difficoltosa la loro compatibilità
con il «solito» requisito dell’art. 5 (141). Il predetto art. 452 quater, infatti,
nell’estendere la punibilità a titolo di colpa delle fattispecie sopra menzionate, si limita semplicemente a richiamare «i fatti» degli art. 452 bis e ter
(142), comprese quindi le clausole di illiceità speciale ivi contenute (143).
In definitiva, e concludendo dunque, l’impressione è che, a meno di
emendamenti e correttivi in extremis durante l’ultimo esame alla Camera di
tale disegno di legge, il coinvolgimento dell’ente nella responsabilità per il
fatto colposo commesso dall’organo-persona fisica sarà ancora più arduo di
quanto già non sia, con buona pace dei proclami e dei trionfalismi oramai
costantemente disattesi.
Zusammenfassung
Der vorliegende Beitrag setzt sich mit der vexata questio des Kriteriums
der objektiven Zurechnung des Tatbestandes an eine juristische Person im
Sinne des Art. 5 des GVD 231/2001 auseinander, wobei in Lehre und
Rechtsprechung extrem viele Stimmen vertreten sind und einem beständigen
Wandel unterliegen. Der Beitrag möchte einen alternativen Interpretationsansatz zum traditionellen Schuldmerkmal des Interesses oder Vorteils liefern,
der eine korrekte Anwendbarkeit des obgenannten Art.5 auch auf schuldhafte Anknüpfungsverbrechen ermöglicht.
Seit das Gesetz Nr. 123/2007 die Verantwortung der juristischen Perso-
( 140 ) Cfr. A. Manna, Dalla legge, cit., 476.
( 141 ) Sollevata tale problematica questione Vergine, I nuovi delitti, cit., 450.
( 142 ) L’art. 452 quater, infatti, afferma semplicemente che «se taluno dei fatti di cui agli
artt. 452 bis e 452 ter è commesso per colpa, le pene previste dai medesimi articoli sono diminuite da un terzo alla metà».
( 143 ) L’inquinamento ambientale ed il disastro ambientale, infatti, devono essere commessi «in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative [...]» o comunque «abusivamente».
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nen auch auf Fälle von Tötung und von schuldhafter Körperverletzung wegen
Verletzung von Vorsichtsregeln auf dem Gebiet der Arbeitssicherheit ausgedehnt hat, und schließlich das GVD 121/2011 eine Mitverantwortung der juristischen Person auch bei Umweltdelikten vorsieht, die ja dem Charakter
nach vorherrschend Vergehen sind und durch einfache Schuld angerechnet
werden, ist bekanntlich die Verbindung zwischen dem vorliegenden Zuschreibungskriterium und der genannten Art von Straftaten nicht unbedeutenden Unsicherheiten in Auslegung und Anwendung begegnet.
Der Beitrag, in dem von einer klar strafrechtlichen Natur der vom GVD
231/2001 eingeführten Form von Verantwortlichkeit ausgegangen wird,
vertritt eine s.g. dualitische Auffassungsweise, indem er in dem Interesse
und dem Vorteil zwei unterschiedliche und autonome Zurechnungskriterien
des Tatbestandes an die juristische Person erkennt. Diese Schuldmerkmale,
die eine Verbindung zwischen dem vom Organ/natürliche Person begangenen Delikt in seiner Gesamtheit und der Korporation herstellen sollen, erledigen die selbe Aufgabe, die der dogmatische Tat-Begriff der suitas bezüglich
denjenigen Straftaten hat, die von den natürlichen Personen begangen werden.
Von diesen Grundsätzen ausgehend schlägt der Autor vor, den Begriff
«Interesse» mit seinem nicht zu beseitigenden und vorherrschenden subjektiven Gehalt, für die vorsätzlichen Anknüpfungsverbrechen zu verwenden,
während der „Vorteil“, der sich in einem grundsätzlich wirtschaftlichen Vorteil zugunsten der juristischen Person äußert, die Rolle eines alternativen
Restmerkmales einnehmen könnte, um der juristischen Person die verbleibenden, schuldhaften Straftatbestände zuzurechnen.
Die vorgeschlagene Auslegungsart scheint betreffend die Umweltdelikte
gut zu funktionieren, da diese ja reine Verhaltensdelikte sind, die jedenfalls
fast immer zu einem Vermögensvorteil der juristische Person gereichen, auch
wenn sie als erfolgsqualifizierte Delikte definiert werden.
Die selbe Auslegung erscheint jedoch unpratkikabel, sobald sie die Tötung und die schuldhafte Körperverletzung in Folge der Mißachtung von Arbeitssicherheitsnormen betreffen, da ja der Erfolg Tod oder Körperverletzung
des Arbeiters der juristischen Person keinerlei Nutzen bringt.
Der Autor versucht daher an der Theorie einige Korrekturen anzubringen, wobei er eine Interpretation vorschlägt, die immer auch die verfassungsrechtlichen Strafrechtsgrundsätze respektiert, die ja, wie aus den Prämissen
ersichtlich, auf die vorliegende Materie anwendbar sind.
Der Beitrag endet mit einer kurzen Überlegung zu den möglichen Auswirkungen der anstehenden Reform der Umweltverbrechen auf das Kriterium nach Art. 5 des GVD 231/2001.
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ARTICOLI
Abstract
This work aims at dealing with the vexata quaestio of the criterion of objective attribution of the fact to the entity, according to art. 5 of legislative decree n. 231/2001, in the context of a debate between scholars and courts
which is continuously evolving. More specifically, the paper aims at offering
an alternative interpretation of the criterion of the interest or advantage compared with the traditional one, that is, an interpretation that allows a correct
application of the aforementioned art. 5 also to presupposed negliglent
crimes.
Indeed, it is known that since the emanation of law n. 123/2007, which
extended the liability of legal persons also to the offences of involuntary manslaughter and negligent injuries committed in violation of precautionary
norms on work safety, up to the legislative decree 121/2011, which provided
for an involvement of the entity also with regard to environmental crimes,
which are mainly minor crimes («contravvenzioni») and thus capable of being
attributed also for negligence, the connection between the above-mentioned
criterion and such offences has gone through quite relevant interpretative and
applicative uncertainties.
The article, starting from the premise of the autentically penal nature of
the form of responsibility coined by legislative decree 231/2001, adheres to
the so-called dual conception of such criterion, thus individuating in the interest and the advantage two different and autonomous criterion of attribution
of the fact to the entity. Such criteria, which should consent the connection between the whole criminal offence, materially commited by the body-physical
person, and the entity, would have the same function that the dogmatic category of the suitas of the behaviour has with regard to criminal offences typical of physical persons.
Moving from these assumptions, the paper suggests to refer the “interest”,
to be intended in its insuppressible and eminently subjective component, to
intentional crimes, while the “advantage”, represented by the substantially financial benefit deriving from the offence to the legal person, could serve as an
alternative and residual criterion to objectively attribute to the entity the remaining negligent offences. Such an interpretative solution seems to work for
environmental crimes, as offences of mere behaviour («reati di mera condotta») and however almost always producing a “profit” for the legal person
even if described as crimes of event («reati di evento»). The same interpretation is not workable, though, if related to negligent manslaughter or injuries
committed in violation of accident prevention regulations, as the deadly event
or the injury of the worker does not entail any benefit for the entity. Therefore, the Author, in constant search for an interpretation compliant with the
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constitutional principles of criminal law, which are to be considered applicable in the interested matter due to the above premises, tries to offer some
“correctives”.
Finally, the work ends with a short reflection on the impact that an imminent reform of environmental crimes could have on the criterion established
by art. 5 legisl. decree 231/2001.
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Federico Consulich
prof. associato di diritto penale nell’Università di Genova
LA NORMA PENALE DOPPIA
NE BIS IN IDEM SOSTANZIALE E POLITICHE DI PREVENZIONE
GENERALE: IL BANCO DI PROVA DELL’AUTORICICLAGGIO
Sommario: 0. Premessa. L’autoriciclaggio tra prevenzione generale e ne bis in idem. - 1. Le
storiche debolezze del sistema dell’antiriciclaggio italiano. - 1.1. Il riciclaggio come umprosecutable crime per un difetto normativo dell’incriminazione: i rimedi pretori. - 2.
L’esperienza comparata in tema di autoriciclaggio. - 2.1. L’an ed il quomodo della punibilità dell’autoriciclaggio nello scenario europeo. - 2.2. Il quantum della pena: la politica
sanzionatoria in tema di autoriciclaggio. - 3. Bilancio intermedio: efficienza vs garanzia in
tema di autoriciclaggio, tra esiti auspicati e risultati prevedibili. - 3.1. Capacità preventiva
della fattispecie di autoriciclaggio e vincoli di realtà. - 4. Il principio del ne bis in idem ed
il ruolo del criterio di consunzione. - 4.1. Il principio del ne bis in idem ed il criterio di
consunzione al cospetto dei reati accessori. - 5. Osservazioni «prognostiche»: illegittimità costituzionale della fattispecie di autoriciclaggio? - 6. Conclusione: un’interpretazione
convenzionalmente orientata della nuova fattispecie di autoriciclaggio.
0. – Si sono susseguite negli ultimi anni varie proposte di incriminazione dell’autoriciclaggio (1) accomunate tutte dall’abbandono del cd. privilegio di autoriciclaggio, vale a dire la causa personale di non punibilità che assiste l’autore del delitto presupposto dell’art. 648 bis c.p. (2).
Finalmente, il 4.12.2014, l’obbiettivo è stato raggiunto: il Senato ha va-
( 1 ) Si pensi ai lavori della cd. Commissione presieduta dal dr. Greco, istituita per lo studio dell’autoriciclaggio nell’aprile del 2013 (la relazione è reperibile sul sito del Ministero
della Giustizia), nonché alla relazione contenente una serie di proposte di intervento in materia di criminalità organizzata, elaborato dalla commissione ministeriale presieduta dal
prof. Fiandaca (reperibile in www.penalecontemporaneo.it, 12.2.2014) che ha proposto la riformulazione dell’art. 648 bis c.p. con l’introduzione al comma 3 di una sottofattispecie
«degradata» di riciclaggio specificamente diretta all’autore del delitto presupposto. Si consideri inoltre il disegno di legge S-19, il cui primo firmatario è il sen. Grasso; il testo prevedeva, tra l’altro, l’introduzione di un nuovo delitto di impiego e riciclaggio di denaro, beni ed
altre utilità all’art. 518 bis c.p., formulato in modo da colpire anche le condotte di autoriciclaggio.
( 2 ) Sulla qualifica della clausola come causa di non punibilità di recente Bricchetti, Riciclaggio e autoriciclaggio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 686; cfr. Seminara, I soggetti attivi
del reato di riciclaggio tra diritto vivente e proposte di riforma, in Dir. pen. proc., 2005, 236; per
un’analisi delle diverse interpretazioni in ordine alla natura di clausola di esclusione della responsabilità per l’autore del delitto presupposto cfr. Dell’Osso, Riciclaggio e concorso nel
reato presupposto: difficoltà di inquadramento dogmatico ed esigenze di intervento legislativo,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 1281 ss. e ancor più di recente, D’Arcangelo, Fondamento e
limiti della non punibilità dell’autoriciclaggio, in Ind. pen., 2014, 302 ss., che conclude nel senso che la clausola configuri una causa personale di esclusione della pena (305).
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ARTICOLI
rato una nuova incriminazione, collocata all’art. 648 ter.1 c.p., che quindi
ora consacra questa nuova figura delittuosa (3).
La riforma sottende un mutamento di paradigma rispetto alla lotta alla
criminalità economica e impone di comprendere se la punibilità per il delitto di cui all’art. 648 ter.1 c.p. del soggetto che previamente abbia commesso
il reato generatore dell’utilità economica riciclata possa costituire un’indebita moltiplicazione delle responsabilità per un fatto sostanzialmente unitario, in pratica un bis in idem (4).
La valutazione della novità normativa deve prendere le mosse dalla storia del contrasto al riciclaggio nel nostro sistema penale, per poi muovere alla comparazione con altri ordinamenti. In questo quadro il confronto con
l’esperienza di quei Paesi che sono già avvezzi alla presenza di una incriminazione di autoriciclaggio può essere utile per la formulazione di una prognosi sulla capacità preventiva della nuova fattispecie e, al contempo, per la
( 3 ) L’art. 3 comma 3 della l. 186/2014 così recita: «Art. 648-ter.1. – (Autoriciclaggio). – Si
applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a
chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. 2. Si applica la pena della reclusione da
uno a quattro anni e della multa da euro 2.500 a euro 12.500 se il denaro, i beni o le altre utilità
provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito con la reclusione inferiore nel
massimo a cinque anni. 3. Si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro,
i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui
all’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge
12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni. 4. Fuori dei casi di cui ai commi precedenti,
non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale. 5. La pena è aumentata quando i fatti sono commessi
nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale. 6. La pena è
diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano
portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del
denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto. 7. Si applica l’ultimo comma dell’articolo
648». Per un primo commento, in senso critico, alla novità normativa Sgubbi, Il nuovo delitto
di «autoriciclaggio»: una fonte inesauribile di «effetti perversi» dell’azione legislativa, in
www.penalecontemporaneo.it (10.12.2014); Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in www.penalecontemporaneo.it (24.12.2014). Sui profili intertemporali della novellazione legislativa, Brunelli, Autoriciclaggio e divieto di retroattività: brevi note a mergine del
dibattito sulla nuova incriminazione, in www.penalecontemporaneo.it (10.1.2015), che sostiene come l’art. 648 ter. 1 c.p. non sia applicabili a condotte di autoriciclaggio di proventi generati da reati commessi prima dell’introduzione del nuovo delitto. Per un’analisi della condotta descritta dalla nuova incriminazione si vedano anche D’Avirro-Giglioli, Autoriciclaggio
e reati tributari, in Dir. pen. proc., 2015, 139 s. e, ancor più di recente, Dell’Osso, Il reato di
autoriciclaggio: la politica criminale cede il passo a esigenze mediatiche e investigative, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2015, 796 ss.
( 4 ) Sugli effetti collaterali derivanti dall’eliminazione del privilegio di autoriciclaggio, cfr.
Naddeo-Montemurro, Antiriciclaggio e teoria degli insiemi: un «privilegio» matematicamente sostenibile, in questa Rivista, 2011, 339.
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previsione dei possibili effetti collaterali che la novellazione è in grado di
determinare. Tra questi vi è senz’altro il rischio di una sovversione del giusto
equilibrio tra ne bis in idem e prevenzione generale, al quale, anche nel contesto del delitto di cui all’art. 648 ter.1 c.p., non si dovrebbe rinunciare (5).
Per affrontare compiutamente il tema occorrerà cursoriamente comprendere quale sia il valore precettivo del divieto di bis in idem sostanziale,
quale il suo statuto giuridico, quali i meccanismi operativi attraverso cui esso
si invera nell’ordinamento penale; solo così potremo ponderare adeguatamente quali potrebbero essere le conseguenze di un errato bilanciamento
tra garanzia ed effettività del controllo penale del sistema economico.
1. – Scarsamente contestato nell’ambito elettivo di applicazione, quello
finanziario, il riciclaggio è noto per la sua selettività anarchica e irragionevole, paradigmaticamente orientato a colpire i «frequentatori» di officine
dedite al cd. «taroccamento» di veicoli (6).
Le cause di questa situazione erano molteplici. Vi erano evidenti difficoltà di indagine, poiché il fatto di riciclaggio è spesso anonimo, neutro dal
punto di vista del disvalore del fatto (7), effettuato in attività a contesto lecito di base e per lo più non lascia tracce tangibili (8). Era altresì ardua la prova in ordine:
( 5 ) Del tutto condivisibili, in questo senso, le considerazioni formulate in dottrina sull’inconferenza del criterio di consunzione con la causa personale di non punibilità di cui all’art.
648 bis c.p., tra cui, di recente, Bricchetti, Riciclaggio e autoriciclaggio, cit., 685; D’Arcangelo, Fondamento e limiti della non punibilità dell’autoriciclaggio, cit., 304; Macchia, Spunti
sul delitto di riciclaggio, in Cass. pen., 2014, 1459: l’estraneità della clausola alla consunzione
non dipende tanto dalla diversità dei beni giuridici protetti dal reato presupposto rispetto al
riciclaggio (come sostengono gli AA. ora citati), quanto dalla sistematica prevalenza del reato
meno gravemente sanzionato, il che è palesemente antitetico alla logica sottesa al criterio di
consunzione, come meglio vedremo al par. 5.
( 6 ) Sulla dimensione simbolica dell’incriminazione del riciclaggio, Seminara, I soggetti
attivi del reato, cit., 242; Manes, Il riciclaggio dei proventi illeciti: teoria e prassi dell’intervento
penale, in questa Rivista, 2004, 61; Moccia, Impiego di capitali illeciti e riciclaggio: la risposta
del sistema penale italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 728. Un osservatore assai qualificato e pratico della repressione del riciclaggio segnala, a conferma, come le denunce di riciclaggio abbiano riguardato specialmente il taroccamento dei veicoli, mentre nessuna segnalazione per operazioni sospette risulta avere originato un processo giunto in Cassazione, cfr. Orsi,
Le indagini penali in materia di riciclaggio. Principali problematiche, in Arnone-Giavazzi (a
cura di), Riciclaggio e imprese. Il contrasto alla circolazione dei proventi illeciti, Milano, 2011,
72. Per un bilancio, letteralmente definito desolante, dell’applicazione della normativa cfr.
Manes, Il contrasto al riciclaggio, tra repressione e prevenzione: alcuni nodi problematici, in
Crit. dir., 2008, 265 ss.
( 7 ) Sul punto già Paliero, Il riciclaggio nel contesto societario, in Arnone-Giavazzi (a
cura di), Riciclaggio e imprese, cit., 93.
( 8 ) Esemplare le pronuncia secondo cui integrerebbe la tipicità dell’art. 648 bis c.p. anche il deposito in banca di denaro di provenienza illecita stante la natura fungibile della moneta, che quindi verrebbe automaticamente sostituito alla cassa; sul tema Giunta, Elementi
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ARTICOLI
a) al paper trail che dovrebbe legare ininterrottamente reato presupposto ad attività riciclatoria
e
b) alla consapevolezza, secondo gli stilemi del dolo penalistico, dell’attività delittuosa «a monte» in capo al riciclatore.
Non è però revocabile in dubbio che la causa primigenia di questa penuria applicativa della fattispecie fosse da ricercare nella sua clausola
d’esordio (9), che formalizzava quello che da molti è chiamato un privilegio
di autoriciclaggio (che ha tutti i caratteri della causa di non punibilità soggettiva) (10).
Il formante giurisprudenziale non è rimasto passivo di fronte a questo
scenario, tentando di bilanciare i deleteri effetti della clausola di non punibilità prevista dall’art. 648 bis c.p. con una serie di rimedi esegetici che conviene analizzare più da vicino.
1.1. – Il «privilegio di autoriciclaggio», che ha storicamente costretto il
controllo penale a scegliere tra reato presupposto e 648 bis c.p., è stato,
dunque, la causa dell’ineffettività di quest’ultima incriminazione (11).
costitutivi del reato di riciclaggio. I rapporti con il d. lgs. 231/2007. Le prospettive di riforma, in
Arnone-Giavazzi (a cura di), Riciclaggio e imprese, cit., 89, che conseguentemente, considerata la già slabbrata tipicità del fatto e il riferimento della norma ad una condotta esplicitamente attiva (il «compimento»), esclude la configurabilità di una condotta di riciclaggio per
omissionem commissam fondata sulla violazione degli obblighi di collaborazione attiva di cui
al d. lgs. 231/2007. Evidenzia la neutralità del fatto di riciclaggio dal punto di vista del disvalore Paliero, Il riciclaggio nel contesto societario, cit., 93.
( 9 ) Per questa diagnosi, di recente, Veneziani, La responsabilità del professionista in relazione alle normative sul riciclaggio: profili penali e deontologici, in Ind. pen., 2014, 293.
( 10 ) Sono esistite varie spiegazioni in merito all’assenza dell’autore del delitto presupposto tra i soggetti punibili ex art. 648 bis c.p.: i) elemento della tipicità quale presupposto negativo della condotta tipica; ii) elemento della tipicità quale qualifica soggettiva che rende l’art.
648 bis c.p. un reato proprio non esclusivo; iii) clausola di sussidiarietà espressa volta a risolvere un concorso apparente di norme (tesi maggioritaria in giurisprudenza); iv) causa di non
punibilità soggettiva. Per un’analisi critica delle opzioni disponibili si vedano gli AA. citati in
nota 2.
( 11 ) Disegnano l’art. 648 bis come una norma sagomata a mo’ di clessidra Troyer-Cavallini, La «clessidra» del riciclaggio ed il privilegio di self-laundering: note sparse a margine
di ricorrenti, astratti furori del legislatore, in www.penalecontemporaneo.it, 4.4.2014, 5. La potenzialità espansiva, ipereffettiva, del riciclaggio è stata segnalata già da Paliero, Il riciclaggio
nel contesto societario, cit., 91 e da Giunta, Elementi costitutivi del reato di riciclaggio, cit.,
85, secondo cui l’eliminazione della clausola di riserva avrebbe amplificato l’applicazione del
delitto in concorso con un ventaglio illimitato di reati, con il rischio di «ricarichi punitivi irragionevoli, incontrollabili e rimessi di fatto all’amplissima discrezionalità del giudice». Si noti
peraltro come il privilegio di autoriciclaggio fosse già caduto senza particolari benefici in termini di effettività della disciplina, nell’ambito del d. lgs. 231/2007, il cui art. 2 definisce il riciclaggio in modo che comprenda anche le condotte dell’autore della pregressa attività crimi-
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Prima della introduzione del delitto di autoriciclaggio, per far fronte a
questa situazione la giurisprudenza ha tentato in vari modi di rivitalizzare la
fattispecie di cui all’art. 648 bis c.p. Si sono registrate a questo proposito varie «tecniche»:
i) la sterilizzazione della prova del delitto presupposto e la contemporanea generalizzazione dei tipi di delitto suscettibili di generare un’utilità riciclabile (12);
ii) la riconversione della fattispecie di evento in fattispecie di mera condotta. Il concetto di ostacolo, elemento differenziale rispetto alla ricettazione, è passato da evento a connotato o qualità dell’azione. Conseguentemente non era necessaria la prova dell’impedimento definitivo dell’identificazione, ma della semplice maggiore difficoltà di accertamento per l’autorità
ed inoltre non si doveva dare la prova del nesso causale con la condotta (13);
iii) la neutralizzazione della componente rappresentativa del dolo di riciclaggio rispetto al delitto presupposto: affermava la giurisprudenza che era
nosa. Sul punto si veda Dell’Osso, Segnalazione di operazioni sospette tra ineffettività della
disciplina e spunti di riforma, in questa Rivista, 2012, 765. La riconduzione della condotta del
riciclatore al delitto presupposto escludeva la responsabilità ai sensi dell’art. 648 bis c.p., anche qualora sia realizzato per interposta persona, ai sensi dell’art. 48 c.p, cfr. Cass., II, n. 9226
del 27.2.2013, in Dir. pen. proc., 2013, 826 ss. con nota di Magnini, La punibilità dell’«autoriciclaggio» realizzato per interposta persona, che ripercorre brevemente le quattro fondamentali «famiglie» di classificazioni dogmatiche della clausola di non punibilità dell’autoriciclaggio,
escludendo che nel caso del riciclatore che fosse al contempo autore del reato presupposto
possa porsi un problema di ne bis in idem sostanziale trattandosi, infatti, di ipotesi in cui il riciclaggio integra una condotta diversa sia nella sua materialità che nei profili offensivi rispetto
al reato presupposto (832 ss.).
( 12 ) È pacifico in giurisprudenza che non risultasse necessario che il delitto presupposto
fosse accertato giudizialmente, né che fosse esattamente individuato il tipo di reato ed il suo
autore. Bastava la prova logica (ex multis: Cass., VI, n. 28715 del 15.2.2013, (dep. 4.7.2013),
Rv. 257206, in Cass. pen., 2014, 2517; Cass., II, n. 546 del 7.1.2011 (dep. 11.1.2011), Rv.
249444; Cass., V, n. 36940 del 21.5.2008 (dep. 26.9.2008), Rv. 241581). La Cassazione, inoltre, affermava che, ai fini della configurazione dell’art. 648 bis c.p., non occorresse la prova
positiva che il soggetto attivo non fosse concorrente nel delitto presupposto, essendo sufficiente che non emergesse la prova del contrario (Cass., II, n. 47375 del 6.11.2009 (dep.
14.12.2009), Rv. 246434). Era inoltre invalsa la tesi secondo cui non sarebbe stato possibile
effettuare nessuna distinzione concettuale in ordine ai delitti presupposto; sia quelli che producevano utilità, sia quelli che determinavano il mantenimento nel patrimonio delle utilità
prodotte lecitamente in precedenza, erano in grado di determinare la responsabilità ex art.
648 bis c.p. (tra le tante, con riferimento ai reati tributari, Cass., II, n. 42120 del 9.10.2012
(dep. 29.10.2012) Rv. 253831).
( 13 ) Cfr., ex multis, Cass., II, 12.1.2006, Caione, in Cass. pen., 2006, 4057. Sul defedamento della tipicità del riciclaggio si veda anche Ronco, Dolo, colpa, responsabilità oggettiva
per il delitto di riciclaggio, in Ind. pen., 2013, 20 ss., che segnalava come il concetto ormai fosse
atto a comprendere l’immotivato coinvolgimento, nel trasferimento di un bene, di più soggetti, fisici o giuridici; in dottrina si veda anche Manes, Il contrasto al riciclaggio, tra repressione e
prevenzione: alcuni nodi problematici, cit., 27 ss.
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sufficiente avere la percezione di un delitto indeterminato a monte dell’attività riciclatoria. Era dunque bastevole una generica ed astratta consapevolezza di una provenienza illecita, anche sotto le spoglie del dolo eventuale
(14).
Quanto a quest’ultimo aspetto, che merita forse maggiore attenzione, si
può cogliere una singolare coincidenza rispetto al sistema statunitense: la
via dell’allargamento a dismisura dell’oggetto del dolo, nonché la diluizione
della sua intensità, costituiscono tratti inaspettatamente comuni con l’evoluzione del sistema penale americano di lotta al money laundering.
Sottolineano gli autori americani che, benché i reati di cui alla section 1956 U.S. Code richiedano la cd. actual knowledge, la giurisprudenza si accontenti sempre più della
willful blindness. Si evidenzia in particolare come le Corti stiano fornendo un’interpretazione degli statutes rilevanti (§§ 1956 e 1957) secondo un trend sempre più favorevole
ai prosecutors e di questo fenomeno è parte integrante, per non dire fondante, la progressiva diluizione dell’actual knowledge in deliberate ignorance (15).
Il supporto per la costruzione del dolo eventuale di riciclaggio è stato
costituito da indici normativi (costituiti oggi principalmente dal d. lgs. 231/
2007) che, date certe anomalie fattuali, facevano conseguire un obbligo giuridico di segnalazione di operazioni sospette. La violazione dell’obbligo di
collaborazione attiva dell’intermediario o del professionista o degli altri
soggetti indicati dal d. lgs. 231/2007, fondava a sua volta il sostrato del dolo
di riciclaggio: il dolo si ricavava dunque dalle norme della disciplina antirici( 14 ) Critico sull’impiego del dolo eventuale rispetto alla fattispecie di riciclaggio Ronco,
Dolo, colpa, responsabilità oggettiva per il delitto di riciclaggio, cit., 17 ss., che evidenziava come la figura giurisprudenziale del dolo eventuale nascesse come strumento per affrontare
problemi probatori inerenti al profilo volitivo del dolo, non quello rappresentativo, quindi
non potesse essere impiegato con riferimento alla consapevolezza del delitto presupposto da
parte del soggetto attivo del delitto di riciclaggio. Sicché l’elemento soggettivo è divenuto
vieppiù una mancata percezione della configurabilità di un reato a monte della propria condotta, per quanto invece il delitto presupposto fosse percepibile in base agli elementi obiettivi
del fatto (19). In dottrina si veda anche Veneziani, La responsabilità del professionista in relazione alle normative sul riciclaggio, cit., 297; Barbieri, I difficili rapporti tra dolo e presupposti
della condotta: l’accertamento del dolo nel delitto di riciclaggio, in Cass. pen., 2014, 2520 s.
( 15 ) Cfr. Cuellar, The Tenous Relationship between the Fight against Money Laundering
and the Disruption of Criminal Finance, in 93 Journal of Criminal Law and Criminology
(2003), 343 s. che afferma: «Beyond this, courts seem to accept the premise that the legislature
created the statutes in large measure to target third parties who facilitate money laundering
without necessarily being involved in the underlying crime. This seems to lead courts to the conclusion that, although the statutes require “actual knowledge”, willful blindness can amount to
such knowledge, at least (1) when the defendant claims to lack such knowledge, (2) the facts
suggest deliberate ignorance, and (3) jurors would not misunderstand the instruction as mandating an inference of willful blindness». Si veda anche United States vs Gamez, 1 F. Supp. 2d
176, 181 (E.D.N.Y 1998). In precedenza cfr. United States vs St. Michael’s Credit Union, 880
F.2d 579, 584 (1st Cir. 1989) che spiega in particolare il test tripartito cui si accenna nel testo
per l’applicazione del riciclaggio della teoria della teoria della willful blindness.
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claggio (16). Le violazioni delle procedure antiriciclaggio non rilevavano più
solo ex se, ma anche in funzione applicativa della fattispecie principale di
cui all’art. 648 bis c.p. (17).
Non si può fare a meno di notare che costruire il dolo, che dovrebbe essere elemento empirico-psicologico, in chiave normativa, quale derivazione
della violazione di una disciplina preventiva dell’antiriciclaggio, trasformava di fatto l’elemento soggettivo doloso in un’entità giuridica assai simile alla colpa (18).
2. – Di fronte ad un bilancio estremamente negativo in termini di applicazione della fattispecie di riciclaggio è d’obbligo il riferimento a quel che
accade in altri ordinamenti, in cui è assente invece il privilegio di autoriciclaggio.
A dispetto delle ripetute affermazioni, anche di carattere politico, secondo cui l’autoriciclaggio sarebbe una costante della repressione penale
nei Paesi più democratici ed avanzati, pare doveroso precisare che l’affermazione presenta dei risvolti apodittici e può nascondere un confondimento.
È, infatti, possibile affermare come la repressione dell’autoriciclaggio
costituisca anche in altri ordinamenti più un tema di discussione che un dato normativo consolidato; bisogna armarsi di questa consapevolezza quan-
( 16 ) Il risultato, in termini di compatibilità tra reato accessorio e dolo eventuale, è analogo a quello raggiunto a livello giurisprudenziale in tema di ricettazione, con la nota sentenza
della Cass., sez. un., n. 12433 del 26.11.2009, dep. 30.3.2010, in Cass. pen., 2010, 2555, con
nota di Donini, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione. Le Sezioni Unite riscoprono l’elemento psicologico, e in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 300, con nota di De Muro, Il
dolo eventuale: alla prova del delitto di ricettazione.
( 17 ) La disciplina di cui al d. lgs. 231/2007 non va esente da critiche, a livello penalistico,
anche in sé considerata, in particolare per l’approccio repressivo della mancata collaborazione del professionista rispetto alla detection del fenomeno riciclativo, che manifesta l’incapacità del sistema pubblico di reprimere con i propri strumenti di investigazione questa tipologia
di illeciti. Sul punto si veda Amodio, Prevenzione del riciclaggio e obblighi di collaborazione
dei professionisti, in Dir. pen. proc., 2008, in particolare 1055.
( 18 ) Un’applicazione di tale impostazione è in Corte App. Milano, II, 17.2.2012, relativamente al cd. procedimento Ortomercato. La Corte d’Appello milanese ha impiegato, per l’individuazione del dolo, il dato dell’inadempimento degli obblighi di antiriciclaggio che una
degli imputati, una funzionaria di banca, non ha posto in essere pur in presenza di segnali di
anomalia tipizzate da tempo da Banca d’Italia nella propria circolare recante istruzioni operative per l’individuazione delle operazioni sospette (reperibile sul sito www.bancaditalia.it).
L’iter motivazionale in ordine alla prova del dolo è stato ritenuto immune da censure dalla
Cass., II, n. 29452 del 17.5.2013 (dep. 10.7.2013), Rv. 256468 (23 della motivazione). Il modello interpretativo viene avvallato da Barbaini-Mainieri, La responsabilità per riciclaggio
del funzionario di banca ex art. 648 bis c.p., in Giur. merito, 2012, 2406 e successivamente da
D’Arcangelo, Fondamento e limiti della non punibilità dell’autoriciclaggio, cit., 310 ss.
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do, in chiave comparatistica, ci si rifà al diritto di altri Paesi per propugnare
l’ammodernamento del nostro sistema penale di repressione della criminalità economica.
L’analisi dei modelli in cui è prevista la punibilità dell’autoriciclaggio
evidenzia infatti, da una parte, una dialettica tra dottrina e giurisprudenza
in ordine al significato e ai limiti della doppia punibilità del reo e, dall’altra
parte, come la sanzione applicabile sia generalmente alquanto più mite negli altri ordinamenti di quella irrogabile nel nostro processo penale.
L’impressione che si ricava, come vedremo subito, è che la punibilità a
titolo di autoriciclaggio consegua non ad una semplice estensione soggettiva della fattispecie già esistente, ma ad un articolato «lavoro di cesello» del
legislatore e degli altri formanti del diritto, volto a distinguere i casi in cui la
doppia punibilità sia ammissibile rispetto a quelli in cui sarebbe iniqua o
eccessiva. Si precisa sin d’ora che deve rimanere al di fuori della successiva
trattazione l’ordinamento tedesco, che è sovrapponibile a come era il nostro sistema normativo precedentemente all’entrata in vigore dell’autoriciclaggio (19).
2.1. – Il Regno Unito (20) e gli Stati Uniti (21) sono gli unici ordinamenti
( 19 ) Il § 261 dello StGB non distingue in prima battuta tra autoriciclaggio e riciclaggio
commesso da un terzo rispetto al reato presupposto, tuttavia, la sottosezione 9 del § 261 prevede che la persona che sia stata punita per il reato presupposto, in qualità di autore monosoggettivo o concorrente, non può altresì rispondere di riciclaggio. Non è punibile l’autore
del reato presupposto qualora sia già stato punito per il reato presupposto, ai sensi della sottosezione 9 del § 261 StGB. L’assetto normativo in tema di riciclaggio esprime il Selbstbegünstigungsprinzip, ben riconoscibile anche ai §§ 257 e 258 StGB, ed in base al quale il responsabile del reato presupposto non può ulteriormente rispondere per un comportamento successivo che si riferisca al profitto del precedente reato. Per un’utile comparazione tra i sistemi
antiriciclaggio di Regno Unito, Svizzera e Germania, cfr. Preller, Comparing AML Legislation of the UK, Switzerland and Germany, in 11 J. M. L. C. (2008), 234 ss.
( 20 ) Il regime repressivo del riciclaggio nel Regno Unito si ricava dal combinato disposto
degli artt. 327 e 334 del Proceeds of crime act.
( 21 ) Section 1956 U.S. Code prevede, tra l’altro: «(a) (1) Whoever, knowing that the property involved in a financial transaction represents the proceeds of some form of unlawful activity, conducts or attempts to conduct such a financial transaction which in fact involves the proceeds of specified unlawful activity
(A)(i) with the intent to promote the carrying on of specified unlawful activity; or
(ii) with intent to engage in conduct constituting a violation of section 7201 or 7206 of the
Internal Revenue Code of 1986; or
(B) knowing that the transaction is designed in whole or in part
(i) to conceal or disguise the nature, the location, the source, the ownership, or the control of
the proceeds of specified unlawful activity; or
(ii) to avoid a transaction reporting requirement under State or Federal law,
shall be sentenced to a fine of not more than $500,000 or twice the value of the property involved in the transaction, whichever is greater, or imprisonment for not more than twenty years,
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in cui è pacifica la punibilità dell’autoriciclaggio; ad eccezione di questi due
sistemi appare spesso discussa la configurabilità di una responsabilità per il
reato accessorio in capo all’autore del reato principale.
La rilevanza penale dell’autoriciclaggio pone, in effetti, problemi di
equità sostanziale, che per il giurista si traducono in valutazioni di uguaglianza e ragionevolezza: urta la coscienza del penalista la punizione di un
primo reato nonché di quello che ne costituisce lo sviluppo logico, sicché,
l’ammissibilità e i connotati di questo secondo titolo di responsabilità non
sono affatto pacifici anche nei sistemi penali che sanciscano la punibilità del
self laundering (22).
Nell’ordinamento francese, ad esempio, la giurisprudenza ne ammette
la punibilità, ma la correttezza dell’impostazione non è affatto incontroversa in dottrina (23). Se la Corte di Cassazione ha chiarito che l’essere autore
dell’infrazione principale non esclude la responsabilità per riciclaggio (24),
vi sono Autori che hanno espresso alcune perplessità.
or both. For purposes of this paragraph, a financial transaction shall be considered to be one involving the proceeds of specified unlawful activity if it is part of a set of parallel or dependent
transactions, any one of which involves the proceeds of specified unlawful activity, and all of
which are part of a single plan or arrangement [...]».
( 22 ) Evidenzia come la ragionevolezza sia legata al principio di uguaglianza e che quest’ultimo abbia a che vedere con l’equità Pulitanò, Ragionevolezza e diritto penale, Napoli,
2012, 35 s. Sul rapporto tra uguaglianza ed equità si veda anche Silvestri, Uguaglianza, ragionevolezza e giustizia costituzionale, in AA.VV., Le ragioni dell’uguaglianza, Milano, 2009,
7.
( 23 ) L’art. 324 – 1 c.p. francese prevede: «Le blanchiment est le fait de faciliter, par tout
moyen, la justification mensongère de l’origine des biens ou des revenus de l’auteur d’un crime
ou d’un délit ayant procuré à celui-ci un profit direct ou indirect. Constitue également un blanchiment le fait d’apporter un concours à une opération de placement, de dissimulation ou de
conversion du produit direct ou indirect d’un crime ou d’un délit. Le blanchiment est puni de
cinq ans d’emprisonnement et de 375000 euros d’amende».
( 24 ) Cour de Cassation, inedita, n. 02-86.182; confermata, tra le altre, da una nota sentenza in tema di riciclaggio e reati fiscali del 2008, precisamente Cass. crim., 20.2.2008, n.
07-82977. Fino a quest’ultima decisione, la condanna per riciclaggio di coloro che avevano
compiuto il reato presupposto generatore dell’utilità economica erano state rese ai sensi del
secondo comma dell’articolo 324-1 Code pénal, che reprime la giustificazione fraudolenta
dell’origine dei beni e utilità delittuosi (Cass. crim., 25.6.2003, in Gaz. Pal., 2004, 790; Cass.
crim., 14.1.2004, in Bull. crim., 2004, n. 12; Cass. crim., 10.5.2005, inedita, citata da Ducouloux Favard-Lamy, Droit pénal des affaires, Paris 2008, 456). La decisione del 20.2.2008
giunge alla condanna per «autoblanchiment» sulla base del comma 1 dell’art. 324-1 c.p. Sulla sentenza si veda Robert, Réflexions sur la nature de l’infraction de blanchiment d’argent,
in La Sem. Jur. ed. gen., 2008, I, 146. Evidenzia come la punibilità dell’autoriciclaggio in
Francia è possibile anche perché quest’ultimo Paese non ha esercitato la facoltà di vietare il
cumulo del delitto di riciclaggio con quello presupposto, ai sensi dell’art. 6 comma 2, lett.
b) della Convenzione di Strasburgo dell’8.11.1990, Binet Grosclaude-Tricot (sous la
supervision de Giudicelli Délage), La lutte contre le blanchiment en France, in Cesoni (ed.),
La lutte contre le blanchiment en droit belge, suisse, français, italien et international, Bruxelles, 2013, 355.
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In primo luogo, è stata segnalata una discrasia tra blanchiment e ricettazione (recel), punita ai sensi dell’art. 321-1 c.p. I due reati sono assai simili
per struttura, ma la ricettazione non prevede affatto la punibilità del delitto
presupposto, testimoniando quindi che l’autoriciclaggio non è una necessità logica posto che una sorta di «privilegio di autoricettazione» continua a
sussistere in relazione all’art. 321-1 c.p.
In secondo luogo, si è posto l’accento sulla tipicità del reato di blanchiment, che descrive condotte (la «giustificazione fraudolenta dell’origine di
un’utilità patrimoniale» e «il concorso nell’operazione di investimento, nascondimento o trasformazione del provento di un crimine o di un delitto» (25))
che implicano la terzietà dell’autore rispetto al reato presupposto e quindi
l’impossibilità di una contestazione cumulativa con il riciclaggio (26).
Anche il caso svizzero è emblematico di un’incertezza sull’ammissibilità
dell’autoriciclaggio in seno alla stessa giurisprudenza, nonostante la legge
(art. 305 bis c.p.) non esenti da responsabilità l’autore del reato presupposto (27). La disposizione è stata oggetto di due pronunciamenti della Suprema Corte Federale prima di giungere ad un’interpretazione definitiva sul
punto (28). Nonostante ciò la dottrina, ancora oggi, pur a fronte di uno scenario giudiziario ormai consolidato, esprime dubbi sulla rilevanza penale
della condotta, sulla base del principio, assai simile a quello tedesco, per cui
( 25 ) Per una lettura critica della fattispecie si vedano Segonds, La généralité, la distinction et l’autonomie du délit de blanchiment, in Rev. pen. et de droit pén., 2010, 447 ss.; Ducouloux-Favard, Les delits de blanchiment de l’àrgent illicite, in Lamy droit des affaires,
2011, reperibile in www.lamyline.com.
( 26 ) Per un riassunto degli argomenti contrari alla punibilità de lege lata dell’autoriciclaggio cfr. Lucas de Leyssac-Mihman, Droit pénel des affairs, Paris, 2009, 166 ss.
( 27 ) L’art. 305 bis c.p. svizzero, rubricato Riciclaggio di denaro punisce «1. Chiunque compie un atto suscettibile di vanificare l’accertamento dell’origine, il ritrovamento o la confisca di
valori patrimoniali sapendo o dovendo presumere che provengono da un crimine, è punito con
una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria. 2. Nei casi gravi, la pena è una pena detentiva sino a cinque anni o una pena pecuniaria. Con la pena detentiva è cumulata una pena pecuniaria sino a 500 aliquote giornaliere. Vi è caso grave segnatamente se l’autore: A) agisce
come membro di un’organizzazione criminale; B) agisce come membro di una banda costituitasi
per esercitare sistematicamente il riciclaggio; C) realizza una grossa cifra d’affari o un guadagno
considerevole facendo mestiere del riciclaggio. 3 [...]».
( 28 ) Decisiva, infatti, la giurisprudenza della Cassazione, cfr. Cass., 26.6.1996, che ha
affermato «l’autore del traffico di stupefacenti può riciclarne il prodotto»; conforme la precedente Cassazione, 21.9.1994, che sancì «l’art. 305 bis c.p. può entrare in considerazione
anche nei confronti di chi ricicla valori patrimoniali provenienti da un crimine da lui stesso
commesso». Da notare come invece la giurisprudenza cantonale, ad es. il Tribunale di Ginevra aveva invece ritenuto che non fosse ammissibile la figura dell’autoriciclaggio penalmente rilevante. Si veda in oltre la giurisprudenza richiamata da Cassani-Pavlidis, La lutte contre le blanchiment en suisse, in Cesoni (ed.), La lutte contre le blanchiment, cit., 292,
nt. 38.
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gli atti di autofavoreggiamento non sono punibili nel diritto penale svizzero
(29).
È interessante notare, altresì, come, nei Paesi che prevedono la rilevanza penale dell’autoriciclaggio, la disciplina spesso non implichi una pedissequa estensione della responsabilità all’autore del reato presupposto, ovvero
la semplice estromissione di ogni clausola di favore per quest’ultimo, ma attraversi una serie di distinzioni tipologiche, di modo che solo alcune condotte di ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa dell’utilità
siano attribuibili al reo del delitto generatore di profitto.
Può essere utile apprezzare il caso spagnolo, in cui la punibilità dell’autoriciclaggio è esplicitamente prevista (30), ma non ha carattere generale,
quindi valida per ogni condotta che ostacoli l’identificazione della provenienza del bene. La dottrina ha evidenziato nel tempo, infatti, che l’autoblanqueo sia possibile solo con riferimento ad alcune condotte, (acquisto,
possesso, trasmissione, conversione di beni di provenienza delittuosa), ma
non ad altre, quelle di cui alla seconda parte dell’art. 301 c.p. (commissione
di qualsiasi atto volto a occultare o impedire l’identificazione della provenienza illecita o ad aiutare l’autore del reato presupposto ad eludere le conseguenze legali della propria condotta) (31).
Anche nel caso del Belgio (32) (peraltro il modello normativo è assai si-
( 29 ) Critici sulla punibilità dell’autoriciclaggio in Svizzera, Ackermann, Geldwäscherei
(StGb Art. 305 bis), in Schmid (ed.), Kommentar Einziehung Organisiertes Verbrechen Geldwäscherei, I, Zurigh, 1998, 355 ss.; Arzt, Das schweizerische Geldwäschereiverbot im Lichte
amerikanischer Erfahrungen, in Rev. Pen. Suisse, 1989, 190; Bernasconi, Le blanchissage
d’argent en droit pénale suisse. Rapport Explicatif, Lugano, 1986, 43; Cassani, Commentaire
au droit penal suisse, IX, Crime et délits contre l’administration de la justice, art. 303-311, Berne, 1986, n. 46-49. In generale, sul sistema elvetico di lotta al riciclaggio di denaro si vedano
Cassani-Pavlidis, La lutte contre le blanchiment en suisse, cit., 283 ss., che effettua una specifica ricognizione della dottrina dominante contraria alla configurabilità dell’autoriciclaggio
(291), e Rowe, The Swiss Anti-Money Laundering Regime, reperibile in www.academia.edu
(26.3.2012).
( 30 ) L’articolo 301 del codice penale spagnolo prevede: «El que adquiera, posea, utilice,
convierta, o transmita bienes, sabiendo que éstos tienen su origen en una actividad delictiva, cometida por él o por cualquiera tercera persona, o realice cualquier otro acto para ocultar o encubrir su origen ilícito, o para ayudar a la persona que haya participado en la infracción o infracciones a eludir las consecuencias legales de sus actos, será castigado con la pena de prisión de seis
meses a seis años y multa del tanto al triplo del valor de los bienes [...]».
( 31 ) Peraltro si noti che solo la riforma dell’art. 301 c.p., avvenuta con al Ley organica
5/2010, ha posto fine al dibattito dottrinale sull’esistenza del privilegio del cd. autoencubrimento. Sul dibattito in ordine alla punibilità dell’autoblanqueo prima e dopo la riforma cfr.
Bermejo-Agustina Sanllehì, El delito de blanqueo de capitales, in Silva Sanchez (dir.),
El nuevo codigo penal. Comentarios a la reforma, Madrid, 2011, 458.
( 32 ) L’art. 505 c.p. belga recita espressamente che: «[...] Les infractions visées à l’alinéa
1er, 3o et 4o, existent même si leur auteur est également auteur, coauteur ou complice de l’infraction d’où proviennent les choses visées à l’article 42, 3o. Les infractions visées à l’alinéa 1er, 1o et
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mile in Lussemburgo (33)) l’ordinamento non estende a tutte le condotte
punibili a titolo di riciclaggio la responsabilità dell’autore del reato presupposto, ma ne seleziona solo alcune.
Rispetto all’art. 505 alinea 1 n. 2 c.p., infatti, che punisce l’acquisto, la ricezione, il possesso, la custodia o la gestione di utilità provenienti da delitto, la
dottrina ritiene che il reato non possa essere commesso dall’autore o complice dell’illecito penale presupposto (34) ed anche la giurisprudenza si è determinata nello stesso senso (35).
E solo con riferimento alle condotte di cui ai nn. 3 e 4 dell’alinea 1 che
viene ammessa l’ipotesi dell’autoriciclaggio, in ciò supportata dall’espressa
previsione della responsabilità dell’autore e complice del reato presupposto di cui all’alinea 2 dell’art. 505 (36). In base a questa constatazione, è dunque possibile contestare l’autoriciclaggio solo in capo a chi trasformi o trasferisca beni provenienti da reato (infraction) allo scopo di ostacolare la loro origine illecita o di aiutare coloro che sono coinvolti nella realizzazione
dell’illecito presupposto.
2.2. – Vi è un aspetto non secondario che emerge evidente dall’analisi,
pur superficiale, dei sistemi che contemplano il riciclaggio di proventi generati da un proprio precedente reato: al di là dei sistemi di common law, la
responsabilità per autoriciclaggio si coniuga con un trattamento sanzionatorio che, per lo più, è molto più mite di quello previsto nel nostro codice
penale.
La repressione dell’autoriciclaggio pone quindi al legislatore italiano un
problema di ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, forse ancora più
che di selettività del tipo legale.
2o. existent même si leur auteur est également auteur, coauteur ou complice de l’infraction d’où
proviennent les choses visées à l’article 42, 3o, lorsque cette infraction a été commise à l’étranger
et ne peut pas être poursuivie en Belgique. Sulla disposizione belga si veda Jonckheere, Le
blanchiment du produit des infractions, in Les dossiers du journal des tribunaux», Bruxelles,
1995, 9.
( 33 ) Il codice penale del Lussemburgo dopo aver previsto, all’art. 506-1, la fattispecie di
riciclaggio recita infatti: «Les infractions visées à l’article 506-1 sont également punissables, lorsque l’auteur est aussi l’auteur ou le complice de l’infraction primaire».
( 34 ) Vandermeersch-Cesoni, La lutte contre le blanchiment en Belgique, in Cesoni
(dir.), La lutte contre le blanchiment, cit., 160 ss.; Spreutels-Roggen-Roger France, Droit
pénal des affaires, Bruxelles, 2005, 473.
( 35 ) Cass., 8.5.2002, Pas., 2002, n. 282; si veda sul punto anche la giurisprudenza citata da Vandermeersch-Cesoni, La lutte contre le blanchiment en Belgique, cit., 161, nt.
112.
( 36 ) Sul punto si veda Spreutels-de Mûelanaere, La Cellule de traitement des informations financièeres et la prévention du blanchiment des capitaux en Belgique, Bruxelles, 2003,
31.
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Molti dei sistemi penali che abbiamo sommariamente considerato prevedono pene mediamente miti, molto inferiori ai massimi edittali dei nostri
artt. 648 bis e 648 ter.1 c.p. Si pensi alla Spagna, che commina una pena detentiva da sei mesi a sei anni e la multa dall’equivalente al valore dell’utilità
riciclata fino al triplo; ancor più emblematica la disciplina commisurativa
belga il cui art. 505 c.p. prevede la pena detentiva (emprisonnement) da
quindici giorni a cinque anni e una pena pecuniaria (amende) anche in via
alternativa.
Sulla stessa linea il codice penale svizzero, all’art. 305 bis: è punito con
una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria; in alcuni casi
particolarmente gravi la pena può salire sino a cinque anni o una pena pecuniaria. Quanto alla Francia è previsto dall’art. 324-1 c.p. la detenzione sino a cinque anni e una cospicua pena pecuniaria. Solo gli Stati Uniti e il Regno Unito paiono avere un approccio simile al nostro (37); ma si tratta di sistemi di common law in cui la contestazione dell’autoriciclaggio si accompagna alla contrattazione non solo sulla pena, ma anche sulle imputazioni,
il che rende del tutto teorico il problema della severità in astratto della disciplina di contrasto alla circolazione dei capitali illeciti (38).
La punibilità dell’autoriciclaggio impone, quindi, di affrontare il tema
della corretta dosimetria della sanzione. Non può essere privo di conseguenze il fatto che il nostro sistema punisca il riciclaggio con una pena anche doppia rispetto a quella degli altri ordinamenti continentali. Da questo
punto di vista, con l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 648 ter.1
c.p., il legislatore non ha di certo colto l’occasione per armonizzare le cornici sanzionatorie previste dalle norme in tema di riciclaggio e impiego di denaro di provenienza illecita con i principi di proporzionalità della pena e di
ragionevolezza. L’art. 648 ter.1 c.p. replica i difetti delle due disposizioni
che lo precedono: una pena da due a otto anni di reclusione per la forma di
autoriciclaggio più grave, ovvero successivo alla commissione di un delitto
punito con una pena non inferiore nel massimo a cinque anni, non pare
davvero una sanzione contenuta (39).
( 37 ) Pare assai severo il trattamento sanzionatorio di cui all’art. 334 del Proceeds of crime
act: «(1) A person guilty of an offence under section 327, 328 or 329 is liable: (a) on summary
conviction, to imprisonment for a term not exceeding six months or to a fine not exceeding the
statutory maximum or to both, or (b) on conviction on indictment, to imprisonment for a term
not exceeding 14 years or to a fine or to both».
( 38 ) Va notato comunque che la dottrina americana censura la tremenda severità delle federal sentencing guidelines in questa materia, tanto che recentemente si è tentato di porre dei
vincoli di proporzione. Cfr. Cuellar, The Tenous Relationship between the Fight against Money Laundering and the Disruption of Criminal Finance, cit., 348.
( 39 ) La ragionevolezza come principio costituzionale può fungere, da una parte da crite-
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Peraltro è assai discutibile anche la distinzione operata dal legislatore
tra autoriciclaggio «maggiore» punito dal comma 1 dell’art. 648 ter.1, e autoriciclaggio «minore», di cui al comma 2 della medesima disposizione e
per il quale la pena prevista scende a quattro anni nel massimo. Il disvalore
del fatto non pare dipendere esclusivamente dalla gravità del reato presupposto, quanto dalla capacità intrinseca della condotta di reimpiego economico ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dell’utilità
investita.
Fatta questa precisazione, occorre ammettere che è vero che esistono
casi di «micro-autoriciclaggio» (ad esempio il versamento su un conto corrente, intestato formalmente ad un terzo, di poche centinaia di euro conseguiti con una truffa) ed altri di «macro-autoriciclaggio» (l’investimento in
una società off shore, attraverso lo schermo di fittizie polizze assicurative,
dei proventi di un’evasione fiscale milionaria) e che solo nel primo caso la
punizione per reato presupposto e accessorio urterebbe violentemente il
senso di proporzione del penalista. A ben vedere, però, ciò che rendeva insoddisfacente lo stato della legislazione penale italiana, prima dell’introduzione del nuovo delitto, non era che in entrambi i casi si punisse solo uno
dei due reati, ma che si punisse esclusivamente il delitto presupposto anche
quando questo fosse molto meno grave del riciclaggio, quando cioè quest’ultimo veniva commesso con modalità particolarmente insidiose o era carico di un elevato disvalore, anche in termini di distorsione della concorrenza e del mercato.
3. – La nuova fattispecie di cui all’art. 648 ter.1 c.p. riproduce con termini leggermente diversi la tipicità, del tutto insufficiente, dell’art. 648 bis e
dell’art. 648 ter, di cui rappresenta una «crasi», depurata della causa di non
punibilità soggettiva che in tali due norme assisteva (ed assiste tuttora) l’autore del reato presupposto ed il suo concorrente.
Non pare davvero idonea ad evitare la replicazione dei difetti in termini
di determinatezza già conosciuti dalla fattispecie di riciclaggio, l’inserzione
nell’art. 648 ter.1 c.p. di un requisito di concretezza all’idoneità mistificatoria della condotta.
Nemmeno impeditivo di una sistematica contestazione cumulativa del
reato presupposto e del delitto di autoriciclaggio è il disposto del quarto
comma dell’art. 648 ter.1 c.p. Troppo vaghe, infatti, le espressioni mera uti-
rio di interpretazione costituzionalmente orientata e dall’altra parte da criterio di invalidazione di leggi irriducibilmente e manifestamente irragionevoli, sul punto Pulitanò, Ragionevolezza e diritto penale, cit., 31 ss.
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lizzazione e godimento personale: esse alludono più che descrivere e non
paiono riferirsi a condotte tipologicamente afferrabili, ma a qualificazioni
giuridiche civilistiche non qualitativamente diverse dall’impiego in attività
economiche delle risorse illecite, forma di comportamento che è, invece, penalmente repressa (40).
Ammettere il concreto rischio di una sistematica contestazione congiunta di delitto presupposto e autoriciclaggio attualizza allora, in questo
specifico settore, la generale contrapposizione tra ne bis in idem e gli impulsi
generalpreventivi innati in ogni ordinamento penale.
Il contrasto si può bene percepire considerando l’approccio efficientista che nutriva già le proposte di introduzione dell’autoriciclaggio (41). Basti
pensare a quello che si può leggere nella relazione al disegno di legge n. 19
presentato al Senato nel 2013; a p. 6 si legge, infatti, che «[l’] introduzione
nel nostro ordinamento di una fattispecie unificata di riciclaggio e autoriciclaggio [doterebbe], finalmente, magistratura e forze di polizia di uno strumento necessario ed efficace per il contrasto al crimine organizzato, secondo le
indicazioni contenute nelle direttive comunitarie in materia».
Sembra possibile ricondurre il discorso fin qui svolto alla dicotomia tra
policy (prevenzione generale e sicurezza) e principle (il ne bis in idem). Se la
prevenzione si pone nell’ambito di una prospettiva di funzionalizzazione del
diritto penale (42), in cui la singola norma di parte speciale è uno strumento
di realizzazione di un’opzione politica, il principio garantistico del ne bis in
idem, presuppone un approccio non consequenzialista e propugna l’implementazione della garanzia assumendone la giustizia intrinseca, al di là degli
effetti prodotti in termini di utilità sociale (43).
( 40 ) Si noti peraltro che il difficile inquadramento dogmatico, nonché la dubbia «valenza
delle modalità comportamentali della clausola» sono notate anche da Rossi, Note in prima
lettura su responsabilità diretta degli enti ai sensi del d. lgs. 231 del 2001 ed autoriciclaggio: criticità, incertezze, illazioni ed azzardi esegetici, in www.penalecontemporaneo.it, (20.2.2015), 7.
Sulla vaghezza della disposizione di cui al comma 4 dell’art. 648 ter.1 c.p. si vedano anche
Corso, Il declino di un «privilegio»: l’autoriciclaggio (anche da reato tributario) ha rilievo penale autonomo, in Corr. trib., 2015, 161 e D’Avirro-Giglioli, Autoriciclaggio e reati tributari, cit., 144 s.
( 41 ) Parlare di introduzione del delitto di autoriciclaggio è improprio, in considerazione
dell’esistenza del delitto di trasferimento fraudolento di valori, di cui all’art. 12 quinquies
comma 1, d.l. 306/1992, che in qualche modo ne costituisce un paradigma. Sul punto Bricchetti, Riciclaggio e autoriciclaggio, cit., 692. Si noti inoltre il cd. autoriciclaggio rientra inoltre nella nozione di riciclaggio accolta all’art. 2 d. lgs. 231/2007, cfr. Veneziani, La responsabilità del professionista in relazione alle normative sul riciclaggio, cit., 291.
( 42 ) In questo ambito sono assai utili le considerazioni di Gardner, Criminal Law and
the Uses of Theory: a Reply to Laing, in 14 Oxford Journal of Legal Studies (1994), 217 ss.
( 43 ) Non a caso nella dottrina anglosassone vi è chi identifica la ragione ultima della distinzione tra parte generale e speciale nel fatto che la prima esprima principi non strumentali,
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Di fronte ad una contrapposizione valoriale tra prevenzione e proporzione l’unico approccio utile è quello pragmatico: i dati empirici, sempre piuttosto riottosi ad ogni visione ideologica dei sistemi penali, sono forse l’unico rimedio all’ipertrofica irrazionalità delle politiche sanzionatorie (44).
Occorre, dunque, comprendere quali vantaggi in termini di prevenzione generale può apportare l’introduzione di una fattispecie di autoriciclaggio.
3.1. – Gli effetti di una tale modifica possono forse essere previsti alla
luce di quanto è avvenuto nell’ordinamento statunitense, che per molti
aspetti, dai problemi di effettività, alla severità della risposta sanzionatoria,
alla ricostruzione giurisprudenziale dell’elemento soggettivo, presenta, come si è visto, più punti di tangenza degli altri con quello italiano.
Un dato su tutti: le analisi empiriche condotte negli Stati Uniti dimostrano che la severità delle sanzioni previste per il riciclaggio (si ricordi che
è prevista una pena fino a 20 anni di reclusione per la violazione della section 1956) ne incentiva l’«impiego» da parte del prosecutor, in aggiunta ai
reati che ne stanno a monte (quasi sempre di minore gravità) (45), poiché
l’accusa cumulativa assicura un maggiore potere contrattuale al prosecutor
nel perenne bargaining del processo penale americano. La contestazione
del reato più grave (e «praticabile» dal punto di vista processuale) facilita la
«discesa a patti» dell’accusato.
I risultati in termini di prevenzione non sembrano però ottimali. Come
colto dalla dottrina americana, la stragrande maggioranza dei casi non è
rappresentata dalla contestazione del riciclaggio ad un soggetto terzo ed
estraneo al reato presupposto, a dispetto di questa logica punitiva che si
vorrebbe sottesa alla legislazione antiriciclaggio (46). Il Bureau of Justice Sta-
ma validi in sé, mentre la seconda sia costituita da norme che si limitano a concretizzare politiche strumentali, cfr. Gardner, On the General Part of the Criminal Law, in Duff (ed.),
Philosophy and the Criminal Law: Principle and Critique, Cambridge, 1998, 209.
( 44 ) In questo senso ammonisce Pulitanò, Ragionevolezza e diritto penale, cit., 30; «il
principio formale di legalità implica un vincolo di realtà, a tutto campo, nell’individuazione
della materia da regolare» e ancora «la legittimità del precetto penale dipende (anche, non
soltanto) dal superamento di un test di realtà» (corsivi originali).
( 45 ) Per descrizione dei «federal antimoney laundering statutes» cfr. Cuellar, The Tenous Relationship Between the Fight Against Money Laundering and the Disruption of Criminal Finance, cit., 336 ss.; sulle modifiche apportate alla legislazione antiriciclaggio negli Stati
Uniti dopo il Patriot Act, che ha emendato il Bank Secrecy Act, la principale legge statunitense
in tema di obblighi antiriciclaggio per le istituzioni finanziarie v. Sorcher, Lost In Implementation: Financial Institutions Face Challenges Complying With Anti-Money Laundering Laws,
18 Transnat’l Law. (2005), 397.
( 46 ) Cuellar, The Tenous Relationship Between the Fight Against Money Laundering
and the Disruption of Criminal Finance, cit., 406 ss.
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tistics Criminal Charges Database segnala ad esempio che, nel 2000, nel
93,6% dei casi l’accusa di riciclaggio si accompagna al reato presupposto,
solo il 6,4% rappresenta una contestazione isolata.
La dottrina di oltre oceano, pertanto, stigmatizza le capacità preventive
della disciplina antiriciclaggio statunitense, poiché queste si rivelano, all’atto pratico, assai scarse. Cuellar afferma (47) come il sistema americano presenti elementi di crisi a tutte le componenti, sia a livello normativo primario
(statutes), che amministrativo (rules administered by regulators), che, infine,
a livello investigativo (detection systems run by investigators), concludendo
con considerazioni di assoluto buon senso: inutile punire a dismisura il riciclaggio o annacquarne i confini normativi se esiste una limitata capacità di
scoprire episodi delittuosi da parte delle autorità preposte all’enforcement
(48).
L’analisi empirica aiuta a comprendere come l’autoriciclaggio statunitense non garantisca una maggiore tutela, soprattutto rispetto alle forme di
riciclaggio più sofisticate, in particolare nei confronti dei riciclatori professionali, non coinvolti nella perpetrazione del delitto presupposto: il sistema
preventivo non scopre o previene nuove forme di riciclaggio o il riciclaggio
professionale e sistematico, ma intensifica la punizione di coloro che sono
già rimasti imbrigliati nella rete della giustizia per aver commesso un reato
presupposto.
Vi è il rischio di un analogo esito nel nostro ordinamento: potrebbe generarsi la sistematica contestazione dell’art. 648 ter.1 c.p., in continuazione
rispetto al delitto non colposo che in concreto sia produttivo di un’utilità
economica (49). Tra i delitti-presupposto, va da sé, figura lo stesso delitto di
( 47 ) Cuellar, The Tenous Relationship between the Fight against Money Laundering and
the Disruption of Criminal Finance, cit., 311 ss.
( 48 ) Gordon, Losing the war against dirty money: rethinking global standards on preventing money laundering and terrorism financing, in Duke Journal of Comparative & international law (2011), in particolare 548, laddove l’A. evidenza la difficoltà, soprattutto per gli elevati costi economici e organizzativi che i privati sono costretti ad affrontare per la raccolta e la
registrazione dei dati richiesti dalla disciplina antiriciclaggio; l’A. conclude (552) con un auspicio alla «ri-statualizzazione» dei controlli in tema di antiriciclaggio: «Preventive measures
for money laundering and terrorism financing have not worked well [...] one theoretical possibility could be to de-privatize the system». Nello stesso si veda Sorcher, Lost In Implementation: Financial Institutions Face Challenges Complying With Anti-Money Laundering Laws,
cit., 395, 408, 414.
( 49 ) La considerazione da tempo è stata formulata da Seminara, I soggetti attivi del delitto di riciclaggio, cit., 241. Più di recente, considerazioni di analogo tenore in Castaldo-Naddeo, Il denaro sporco. Prevenzione e repressione nella lotta al riciclaggio, Padova, 2010, 87 ss.;
92 ss. vale la pena riprendere l’avvertimento di Arzt, Geldwäscherei – Eine neue Masche
zwischen Helerei, Strafverteidigung und Begünstigung, in NStZ, 1990, 1 ss., secondo cui le norme penali contro il riciclaggio del denaro sporco non si riveleranno quelle armi miracolose
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autoriciclaggio, peraltro molto probabilmente suscettibile di essere integrato più volte, tante quante siano le operazioni produttive di plusvalenze che
il soggetto compia in successione, operando sulla medesima utilità di provenienza illecita (50). In considerazione della natura periodica di molte forme di investimento (produttive di interessi a scadenze prefissate), la permanenza e l’attualità del reato potrebbero dunque, per inciso, essere i caratteri
più frequenti del nuovo delitto nelle contestazioni delle Procure della Repubblica.
L’introduzione della fattispecie di autoriciclaggio potrebbe rappresentare, dunque, un esito tutt’altro che appagante, tenuto conto che spesso il
delitto più grave, in considerazione della cornice edittale, potrebbe essere
quasi sempre proprio quello di cui all’art. 648 ter.1 c.p.; il delitto presupposto rischierebbe di divenire così «un’appendice» dell’autoriciclaggio sia dal
punto di vista della prova del fatto (se perdurasse la giurisprudenza sul
punto invalsa da tempo), che del trattamento sanzionatorio nell’ambito della continuazione tra reati.
All’atto pratico alla novella non conseguirebbe l’allargamento dello
spettro preventivo della complessiva disciplina antiriciclaggio, ma l’approfondimento della reazione penale nei confronti di soggetti già noti all’autorità.
Un diritto penale che in campo economico, e non solo, venga riassunto
e ricompreso interamente nell’art. 648 ter.1 c.p. non sembra l’epilogo più
confacente per una materia che dovrebbe fare della frammentarietà e della
determinatezza del precetto, nonché della proporzione tra fatto e sanzione,
i propri canoni applicativi al fine di evitare l’innesco, nel sistema economico, di una crisi da «rischio penale ubiquitario» (51).
che al momento vengono considerate. Anche per questa ragione non dovrebbero sacrificarsi,
in favore di queste nuove norme, quei principi del diritto penale nei quali, indipendentemente dalle attuali esigenze politiche, hanno trovato finora espressione le concezioni penalistiche
della nostra comunità giuridica.
( 50 ) Si vedano le osservazioni di Sgubbi, Il nuovo delitto di «autoriciclaggio», cit., 4 s., sulla possibilità di moltiplicare tendenzialmente all’infinito le contestazioni del reato di autoriciclaggio. Analogamente Corso, Il declino di un «privilegio», cit., 162. In senso contrario, ritiene che la contestazione cumulativa dei delitti di autoriciclaggio non sia automatica, ma dipenda dalle scelte operative dell’agente concreto Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, cit., 7 ss., secondo cui, se il reinvestimento ha ad oggetto il provento di un solo reato presupposto, il nuovo delitto deve considerarsi integrato una volta sola; ci si trova, invece,
in presenza di più delitti di autoriciclaggio in caso di plurime condotte di reimpiego, anche
nel caso venga frazionato nel tempo il reinvestimento di un medesimo provento delittuoso.
( 51 ) Riflessione in questo senso anche in Mangione, Mercati finanziari e criminalità organizzata: spunti problematici sui recenti interventi normativi di contrasto al riciclaggio, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2000, 1106.
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4. – Se vale quanto ora detto, la nuova fattispecie di autoriciclaggio impone di verificare la conformità della norma al principio di ne bis in idem,
in quanto selettivamente orientata nei confronti di chi è già entrato nel perimetro del penalmente rilevante in forza dell’integrazione del reato presupposto.
Occorre però comprendere quale sia lo statuto normativo del divieto di
bis in idem sostanziale.
Esso risponde ad un bisogno di tutela nei confronti di una pena sproporzionata ed esprime una generalissima esigenza equitativa, che risale al
brocardo ulpianeo del suum cuique tribuere (52).
A ben guardare, il ne bis in idem sostanziale condivide con quello processuale una comune matrice; si tratta di due facce della medesima medaglia, quella dell’abuso del diritto, processuale da una parte, sostanziale dall’altra (53): non può infatti che essere abusiva (termine da intendere in senso
etimologico, come «uso eccessivo») la moltiplicazione di qualificazioni sostanziali e processuali di fronte ad una fattispecie concreta suscettibile di un
inquadramento giuridico unitario (54).
Il principio processuale è, però, l’unico ad aver trovato riconoscimento
normativo e accentua particolarmente il rispetto del giudicato, presupponendo il vincolo res iudicata pro veritate habitur (55); il ne bis in idem sostan-
( 52 ) Sul principio del suum cuique tribuere come criterio, tra altri criteri, per risolvere le
antinomie normative Bobbio, Sui criteri per risolvere le antinomie, in Studi in onore di Segni,
Milano, 1967, 304 ss. Assai diffusa, anche nelle riflessioni condotte dalla dottrina straniera in
ordine al diritto dell’Unione, è la percezione della correlazione tra ne bis idem e proporzionalità, intesa come sinonimo, per quanto impreciso, di equità, cfr. van Bockel, The Ne Bis in
Idem Principle in EU Law, cit., 27. L’esigenza di equità come presupposto di valore del concorso apparente di norme è percepita dalla stessa dottrina italiana, quando emerge chiaramente che la moltiplicazione delle pene sarebbe eccessivo, cfr. Ronco, La legge penale, Bologna, 2006, 335. Sul fondamento, di natura sostanziale, del ne bis in idem processuale v. Gallo, Appunti di diritto penale, I, La legge penale, Torino, 1999, 227.
( 53 ) Un’impostazione del problema di questo tipo è sottesa alla già citata sentenza della
Cassazione a sez. un., n. 34655 del 28.6.2005 (dep. 28.9.2005), Rv. 231799, allorquando la
Corte afferma che «è evidente, inoltre, che un sistema che non riconoscesse al divieto di ne bis
in idem il carattere di principio generale dell’ordinamento potrebbe dischiudere la via a prassi
anomale ed a condotte qualificabili come vero e proprio “abuso del processo” [...] rendendo possibile un uso strumentale del potere di azione per finalità inconciliabili con la legalità e l’ordine
processuali».
( 54 ) Sul tema dell’abuso del diritto, tema particolarmente indagato di recente in campo
penale tributario, ma suscettibile di implicazioni di carattere generale, sia consentito il rinvio
a Consulich, La scriminante sfigurata, in questa Rivista, 2014, 1 ss.
( 55 ) Nel nostro ordinamento, l’unico riconoscimento esplicito del ne bis in idem è contenuto nel codice di rito e si riscontra all’art. 649 c.p.p. Sul tema del ne bis in idem processuale
si vedano, tra gli altri, De Luca, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, 1963,
144; Rivello, Ancora in tema di ne bis in idem, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 476. Il divieto
processuale trova in questi anni una progressiva espansione a livello internazionale, in una
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ziale è rimasto, invece, allo stato di canone esegetico ed assume oggi le vesti
del nemo debet bis puniri pro uno delicto, operativo principalmente nel
campo del concorso apparente di norme sotto forma di criterio di consunzione.
Per il penalista, dunque, il principio del ne bis in idem implica un confronto con i criteri della specialità e della consunzione.
Il divieto di doppia punizione è, infatti, suscettibile di essere declinato
in due criteri ermeneutici che ne consentono l’inveramento e l’implementazione nell’ordinamento. Il primo ha una componente logica e strutturale, la
specialità; il secondo, la consunzione, è incentrato su valutazioni assiologiche
(56).
La specialità trova il proprio campo di validità nei rapporti tra disposizioni convergenti verso il medesimo fatto storico; la consunzione invece
opera sia (più raramente) nei rapporti tra disposizioni riferibili alla medesima condotta, quando le fattispecie convergenti non siano tra loro in relazione di specialità, sia (più frequentemente) rispetto a disposizioni che sono
applicabili a condotte differenti, ma collegate da particolari relazioni che ne
rendono inevitabile il compimento congiunto.
Il rapporto logicamente intercorrente tra reato produttore di utilità
economiche, presupposto dell’attività riciclatoria, e delitto di autoriciclaggio esclude però in radice l’operatività della specialità quale criterio ermeneutico-applicativo: le fattispecie non sono concentriche, ma poste in successione tra loro, da un punto di vista logico e cronologico.
Se la specialità è posta «fuori gioco» in un simile contesto normativo,
non è però inibita l’operatività del criterio della consunzione, che, come
detto, è un canone interpretativo ispirato da ragioni equitative (57) e si muo-
temperie culturale caratterizzata dalla proliferazione dei diritti fondamentali. Esso è stato formalizzato, dopo un iniziale diniego nel contesto dell’art. 6 Convenzione edu, all’art. 4 del
Protocollo 7, che impone che uno stesso Stato possa perseguire o condannare per un reato
per il quale un soggetto sia già stato assolto o condannato nell’osservanza delle leggi dell’ordinamento. Non solo la Convenzione edu però; anche a livello comunitario è altrettanto esplicito l’art. 54 della Convenzione intergovernativa di applicazione dell’accordo di Shengen del
1985, rispetto a procedimenti per il medesimo fatto svolti in diversi Paesi membri dell’allora
comunità europea. Infine va ricordato che il divieto di multipli procedimenti per lo stesso fatto è divenuto un principio generale valido in tutta l’Unione europea nel campo della giustizia
e degli affari interni e, da ultimo, un diritto fondamentale e vincolante di rilevanza europea in
quanto previsto all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che è divenuta vincolante dopo il trattato di Lisbona.
( 56 ) Così definita la consunzione che, così definita, lascia ben poco spazio alla sussidiarietà che tradizionalmente viene invece identificata come criterio autonomo di soluzione del
concorso apparente di norme. Medesima la considerazione in Pelissero, in Grosso-Pelissero-Petrini-Pisa, Manuale di diritto penale, Milano, 2013, 565.
( 57 ) Del principio di consunzione come criterio interpretativo sostanziale cfr. Morgan-
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ve esclusivamente sul piano assiologico, sull’apprezzamento del disvalore
giuridico di un fatto e del grado di offesa insita in esso (58).
Mentre il criterio di specialità guarda alla sintassi e alla semantica dei
termini di fattispecie e si basa, in pratica, sulla struttura del linguaggio normativo, quello di consunzione considera, invece, gli interessi protetti, gli
scopi di tutela e le opzioni politico-criminali sottese alle norme convergenti e,
infine, il trattamento sanzionatorio che consegue alle scelte di valore del legislatore.
È bene, però, chiarire che la consunzione si ispira certamente al divieto
del ne bis in idem sostanziale, ma non si esaurisce in esso: mentre il principio
impone l’applicazione di una sola norma incriminatrice per un fatto unitario dal punto di vista del disvalore, il criterio si spinge più oltre, identificando quale di esse debba trovare applicazione in quella espressiva del maggior
disvalore e, quindi, la cui violazione sia più severamente punita.
La consunzione non è, certamente, immune da profili di incertezza:
i) con riferimento alla definizione del campo di operatività, poiché
non è affatto delimitato il campo di applicazione del principio, vale a dire
quali tipi di rapporti tra fattispecie possano rientrarvi ed essere qualificati
come unità normativa ai fini della qualificazione (59);
ii) in ordine alle conseguenze giuridiche della sua applicazione, dato
che non è chiaro quale sia l’effetto normativo della prevalenza della norma
consumante; se la norma assorbita venisse privata di efficacia, come parrebbe, non sarebbe però comprensibile che, come si sostiene in dottrina, i danneggiati dai reati assorbiti possano comunque conservare il diritto al risarcimento del danno (60), poiché questo effetto postula ovviamente la perdurante efficacia della norma consunta.
Si pongono insomma seri deficit di accessibilità e prevedibilità del
campo di responsabilità penale (61) ed il rischio è che la consunzione si
presti ad essere una razionalizzazione ex post di istanze equitative, incapace di reggere a esigenze estemporanee e contingenti di prevenzione gene-
te, Il reato come elemento del reato, Torino, 2013, 74; Vassalli, Antefatto non punibile, postfatto non punibile (voce), in Enc. dir., II, Milano, 1958, 510.
( 58 ) Sul principio di consunzione, nei termini di cui sopra si esprime Frosali, Concorso
di norme e concorso di reati, Milano, 1971, 537; si veda, inoltre, Moro, Unità e pluralità di
reati, Padova, 1951, 98.
( 59 ) Pagliaro, Concorso apparente di norme incriminatrici, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013,
1393, parla di identità normativa del fatto come identità «ai fini dell’ordinamento giuridico»,
ovvero come «unitarietà del quadro di vita».
( 60 ) Pagliaro, Concorso apparente di norme incriminatrici, cit., 1393.
( 61 ) Si veda, in dottrina, Padovani, Diritto penale, Milano, 2012, 387 ritiene che sussidiarietà e consunzione siano sostanzialmente criteri preterlegali.
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rale e, più in generale, di garantire soluzioni uniformi al di là del caso concreto (62).
Vi è, però, un gruppo di relazioni tra fattispecie in cui si può essere certi
dell’operatività della consunzione: quello costituito dai reati accessori. In
questi casi, infatti, il rapporto logico tra le tipicità pone un argine insuperabile ai giudizi di valore dell’interprete e, in quest’ambito almeno, ogni rischio di relativismo ermeneutico a danno della legalità penale può dirsi
scongiurato.
Il principale pregio del criterio è quello di poter prescindere dal rapporto tra fattispecie astratte per aprirsi alla valutazione del fatto come unità
di contesto e di valore, potendo quindi trovare esplicazione anche al di là
dell’unità naturalistica della condotta e regolare ipotesi di azioni tipiche legate l’una all’altra da nessi teleologici o strumentali: le figure dell’ante factum e del post factum non punibile, del reato progressivo, della progressione criminosa e dei reati accessori, estranei per definizione ad ogni considerazione in chiave di specialità, possono trovare adeguata razionalizzazione
alla luce di tale criterio.
Una relazione di accessorietà intercorre sicuramente anche tra delitto
presupposto e reato di autoriciclaggio; occorre allora valutare quale valore
abbia il criterio di consunzione di fronte a tale nuovo scenario normativo.
4.1. – I reati accessori sono caratterizzati dalla presenza indefettibile di
un reato presupposto quale elemento del tipo legale (63). Ad essi l’art. 170
( 62 ) Da questo punto di vista sembrano adattabili alla consunzione le stesse critiche rivolte alla soluzione processualistica americana della double jeopardy clause da Pagliaro, Concorso apparente di norme incriminatrici, cit., 1391, nt. 7, che la descrive come una dottrina
«poco sofisticata». Il criterio della consunzione, per quanto non estraneo alla giurisprudenza
di legittimità (sul punto cfr. Fiandaca, Sub art. 15, cit., 57 è spesso censurato come un modello esegetico estraneo alla legalità formale, come è possibile notare nella trama motivazionale della sentenza Cass., sez. un., n. 1235 del 28.10.2010 (dep. 19.1.2011), Rv. 248865, in tema di rapporti tra frode fiscale e truffa aggravata, laddove afferma: «Si comprende, pertanto,
la necessità del rigoroso rispetto del principio di legalità e dei conseguenti principi di determinatezza e tassatività, anche con riferimento alla materia del concorso apparente di norme incriminatrici. Certamente, non può trascurarsi l’esigenza sottesa alla giurisprudenza che fa ricorso al
criterio della consunzione, cioè il rispetto del principio del ne bis in idem sostanziale, ma tale rispetto è assicurato da una applicazione del principio di specialità, secondo un approccio strutturale, che non trascuri l’utilizzo dei normali criteri di interpretazione concernenti la ratio delle
norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità, come intesa dalla giurisprudenza della
Corte edu. D’altro canto, anche quella giurisprudenza che fa riferimento al criterio di consunzione (Cass., S.U., n. 23427 e n. 22902 del 2001, cit.) lo utilizza ad integrazione o a conferma delle
conseguenze applicative del principio di specialità e in funzione garantistica rispetto al destinatario della norma penale».
( 63 ) I reati accessori sono da tempo studiati in dottrina, in particolare tra Ottocento e pri-
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c.p. accenna implicitamente allorché si riferisce a quelle ipotesi in cui una
causa estintiva di un reato può avere effetto su un diverso reato (reato complesso, reato connesso e, appunto, reato accessorio). Fenomeno normativo
molto diffuso, quello dei reati accessori, che riguarda fattispecie note, come
ad esempio quelle protese alla repressione della criminalità organizzata (assistenza a partecipi di cospirazione e banda armata o agli associati per delinquere: artt. 307 e 418 c.p.) o anche solo episodica (vengono in rilievo i delitti di favoreggiamento: artt. 378 e 379 c.p.). Si pensi ancora ai delitti di
consolidamento del danno patrimoniale (artt. 648, 648 bis, 648 ter c.p.) o
dell’offesa alla fede pubblica (artt. 470, 473, 474, 489 c.p.).
Un reato è accessorio quando legato da un oggettivo nesso di presupposizione-dipendenza ad un altro, precedente in senso logico e cronologico,
definito reato principale, che ne costituisce una condicio sine qua non (64); da
questo punto di vista, non si può certo dubitare della natura accessoria del
nuovo delitto di autoriciclaggio.
La relazione di accessorietà deve essere distinta da altre due tipologie di
collegamenti tra reati, entrambe dotate di una strutturale componente psicologica:
i) il nesso occasionale di cui all’aggravante comune contemplata dall’art. 61 n. 2 c.p., che presuppone un rapporto puramente accidentale tra i
due reati compiuti dal medesimo soggetto;
ii) il nesso progettuale di cui all’istituto della continuazione di reati.
La medesimezza del disegno criminoso di cui all’art. 81 cpv. c.p. correla tra
loro reati di differente disvalore, ma i reati meno gravi hanno una propria
autonomia accanto a quelli più gravi, potendo trovare una ratio essendi anche a prescindere dagli altri illeciti avvinti dalla continuazione. I reati compresi nel vincolo della continuazione sono ricondotti ad unità solo contingentemente, alla luce del progetto finalisticamente orientato dall’agente
concreto.
mi anni del secolo scorso. Parla per primo di «delitti accessori» Carrara, Delitti accessori. Reminiscenze di cattedra e di foro, Lucca, 1883, 379; ai «delitti famulativi» si riferisce invece Puglia, Dei delitti contro la proprietà, in Pessina (dir.), Enciclopedia del diritto penale, X, Milano, 1908, 419; si esprime invece in termini di «delitti adesi o aderenti», Alimena, Favoreggiamento e ricettazione. Giustizia penale, 1895, 1241.
( 64 ) Delogu, Contributo alla teoria dei reati accessori, in Giust. Pen., 1947, 265. Successivamente Lanni, Il reato accessorio, in Riv. it. dir. pen., 1957, 531; di recente si veda ora Morgante, Il reato come elemento del reato, cit., 65 ss. Per un’analisi delle fattispecie accessorie
nell’ambito del concorso di persone nel reato, a partire da un’analisi storica del fenomeno,
Bianchi, Concorso di persone e reati accessori, Torino, 2013, 5 ss. Accentuano il ruolo dell’intenzione come collegamento tra i due reati, successivo e presupposto Manzini, Trattato di
diritto penale italiano, Torino, 1963, IX, 922; Muscatiello, Pluralità e unità di reati, Padova, 2002, 407.
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Il legislatore può indicare tassativamente il reato principale (ad es. 648
bis c.p. nella versione originale, di cui alla l. 191/1978) anche se più spesso,
e più di recente, si esprime in termini generali, indicandolo come qualsivoglia delitto (art. 648 c.p.) o delitto non colposo (art. 648 bis c.p. nella versione attuale). L’evoluzione normativa del riciclaggio testimonia una progressiva autonomizzazione della fattispecie dal reato presupposto, sia per la
struttura che per gli orizzonti di tutela.
Recente dottrina distingue tra reati accessori di «prima generazione» (il favoreggiamento e la ricettazione) e di «seconda generazione» (il riciclaggio e il delitto di cui all’art. 648 ter c.p.). Questo secondo gruppo si distinguerebbe dal primo per l’elevato ed
autonomo disvalore, spesso ben superiore a quello del reato principale (65), che stride
con una non punibilità collegata alla commissione di un reato pregresso, e per l’allentamento di quel nesso funzionale e logico con il reato principale che invece è nitidamente
percepibile in relazione alla ricettazione o al favoreggiamento (66). Nei reati accessori di
«seconda generazione», insomma, il collegamento tra reato accessorio e principale non
si pone più sul piano dell’offesa e del disvalore, ma su quello puramente formale della tipicità, poiché conferisce la qualifica di «provenienza delittuosa» all’utilità economica su
cui vengono compiute le operazioni riciclatorie (67).
Proprio per l’interdipendenza dei due reati, la contestazione, e la conseguente punizione di entrambi, costituiscono un’evidente lesione del principio del ne bis in idem. Lo stesso Carrara aveva parlato di un vero e proprio
dovere per la Giustizia di evitare il cumulo dei reati a costo di incorrere in
una disciplina immorale e crudele (68).
I reati accessori (dai delitti di favoreggiamento a quelli di consolidamento e perpetrazione del danno patrimoniale) si aprono con la nota formula di esclusione della responsabilità per il concorrente nel reato presupposto, che storicamente la dottrina considera espressiva di un post fatto non
punibile in ossequio ad una logica di consunzione e, quindi, una manifestazione di un concorso apparente di norme (69).
( 65 ) Segnala la dottrina come già nel codice Zanardelli ad esempio la pena prevista per il
reato accessorio di ricettazione (art. 421) non poteva essere punito con una pena superiore alla metà di quella prevista per il reato da cui provenivano le cose, ciò al fine di consentire l’assorbimento della ricettazione nel reato principale, cfr. Morgante, Il reato come elemento del
reato, cit., 96.
( 66 ) Con riferimento ad esempio al riciclaggio connesso all’operatività economica delle
associazioni criminali si vedano le riflessioni di Muscatiello, Associazione per delinquere e
riciclaggio: funzioni e limiti della clausola di riserva, in questa Rivista, 1995, 148.
( 67 ) Così Morgante, Il reato come elemento del reato, cit., 82.
( 68 ) Le parole di Carrara sono riportate in Delogu, Contributo alla teoria dei reati accessori, cit., 266; in senso ammissivo rispetto alla punizione per entrambi i reati Ranieri, Il reato
complesso, Milano, 1940, 12.
( 69 ) Secondo Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, Milano, 2012, 464, le ipotesi normative caratterizzate dall’esclusione della responsabilità per il concorrente del reato
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È dubbia la ragione della sistematica non punibilità del reato accessorio,
in luogo della non punizione del reato meno grave tra i due illeciti strumentalmente legati tra loro. La spiegazione tradizionale in termini di consunzione o sussidiarietà del reato accessorio, fornita soprattutto dalla giurisprudenza, contrasta però con la disciplina positiva: il reato presupposto spesso
non può assorbire il disvalore del reato accessorio perché è quest’ultimo
(ad esempio: il riciclaggio) ad essere più severamente punito (70).
Non sembrano percorribili, però, nemmeno quelle opzioni interpretative che ritengono atipica, ai sensi della fattispecie accessoria, la condotta di
sfruttamento dei vantaggi ottenuti con il reato principale. Da una parte si
tratta, infatti, proprio del tipo di comportamenti senza dubbio descritti dal
reato accessorio (a meno di non voler considerare la mancata partecipazione alla commissione del reato presupposto un elemento negativo del tipo),
dall’altra si determinerebbero effetti indebitamente favorevoli ai concorrenti nel reato accessorio: in forza dell’atipicità della condotta dell’autore
del reato accessorio, verrebbe a mancare il riferimento cui commisurare il
contributo concorsuale, che diverrebbe a cascata anch’esso atipico (71).
È perfettamente ammissibile, dal punto di vista logico, la doppia punizione del reato principale e di quello accessorio, in quanto non intercorre
tra loro alcun rapporto di specialità. La ragione che ha sempre indotto alla
punizione del solo reato presupposto è esclusivamente assiologica. Le considerazioni che spingono il legislatore in questo campo paiono del tutto
equitative (72), volte ad evitare la punizione per due reati quando il fatto sto-
presupposto esprimono un postfatto non punibile. Sul postfatto non punibile, in generale, si
vedano Vassalli, Antefatto non punibile, postfatto non punibile (voce), cit., 513; Prosdocimi, Profili penali del postfatto, Milano, 1982, 133. Riconduce tanto il postfatto che l’antefatto
non punibile alla logica della consunzione; Pagliaro, Concorso apparente di norme, cit., 551.
Sulla negazione di un generale riconoscimento della categoria del postfatto non punibile a
prescindere dalle ipotesi normative in cui esso è espressamente codificato dal legislatore
Morgante, Il reato come elemento del reato, cit., 76.
( 70 ) D’altra parte, già da tempo in dottrina si evidenzia, in riferimento alla fattispecie di
ricettazione, l’incompatibilità tra reato presupposto e quello di consolidamento del danno,
cfr. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966, 326; in relazione al riciclaggio, di recente, Dell’Osso, Riciclaggio e concorso nel reato presupposto, cit.,
1287.
( 71 ) Sulla tesi dell’atipicità della condotta dell’autore del reato principale rispetto alla fattispecie accessoria, e sulle relative critiche De Francesco, Concorso apparente di norme (voce), in Dig. disc. pen., II, Torino, 1988, 422.
( 72 ) Sulla ratio di ne bis in idem sottesa alla non punibilità del postfatto, Mantovani,
Concorso e conflitti di norme in diritto penale, cit., 320 ss.; Romano, Il rapporto tra norme penali, Milano, 1996, 16. Sostiene come anche per quelle fattispecie accessorie che non identificano il reato presupposto (favoreggiamento, ricettazione, riciclaggio), la ratio della non punibilità per il secondo reato stia nella consequenzialità logica che lo lega al reato principale
Morgante, Il reato come elemento del reato, cit., 75.
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rico rivela caratteri di unitarietà. Si tratta di motivazioni riconducibili al ne
bis in idem come principio, ma non certamente alla logica della consunzione, che vorrebbe invece la punizione del reato più grave, non necessariamente di quello presupposto.
Certo, il tema della non punibilità nel contesto del rapporto di accessorietà impone un coerente contesto sanzionatorio complessivo: non ha infatti alcun senso prevedere una pena più grave per il reato che, ponendosi come post fatto, non sia punibile. Altrettanto irragionevole però è la previsione della punibilità di entrambi i reati legati da un nesso di accessorietà: si
tratta di una soluzione che acuisce, anziché stemperarla, la frizione tra responsabilità penale e ne bis in idem sostanziale.
Tornando al tema che ci occupa, il nuovo delitto di autoriciclaggio è sicuramente un reato accessorio, per la dipendenza contenutistica e funzionale rispetto alla fattispecie presupposta; ciò non di meno, tra i reati accessori, l’art. 648 ter.1 c.p. rappresenta un unicum, poiché, per la prima volta,
il legislatore ha preteso di punire l’autore del delitto presupposto anche per
quello accessorio.
Orbene, il dilemma da affrontare è, dunque, se il principio di garanzia
del ne bis in idem sostanziale, apparentemente sacrificato dal legislatore del
2014, sia meramente argomentativo o dotato di forza dimostrativa (73), in
breve: giustiziabile.
5. – Se vale quanto ora detto, la scelta di introdurre l’art. 648 ter.1 c.p.
parrebbe costituire, a prima vista almeno, un vulnus al principio del ne bis
in idem.
Alla luce della riforma non dovrebbe esservi spazio per considerazioni
ispirate alla consunzione; ciò implicherebbe, però, un fondato dubbio in
merito alla legittimità costituzionale della novellazione, sotto un duplice
profilo.
Quello più tradizionale, e tutto interno al nostro sistema penale nazionale, ha natura relazionale e si basa sull’art. 3 Cost.: una piana estensione della
responsabilità potrebbe essere difficilmente giustificabile di fronte alla permanente non punibilità dell’autore del reato presupposto rispetto a tutti gli
altri casi di delitti accessori diversi dall’autoriciclaggio (ricettazione, favoreggiamento reale e personale, distribuzione o commercio di sostanze adulterate o contraffatte da parte dell’autore della contraffazione, uso di valori
( 73 ) Sulla distinzione tra principi dotati di efficacia dimostrativa e argomentativa cfr.
Vassalli, I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1991, 704 ss.; Donini, Teoria del reato (voce), in Dig. disc. pen., 1999, XIV, 234 s.
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di bollo contraffatti o alterati da parte del falsario; introduzione nello Stato,
commercio e vendita di prodotti con segni falsi da parte del falsificatore dei
marchi o dei segni ecc.).
Quello più innovativo e denso di profili stimolanti, ancora tutti da
esplorare, si pone all’intersezione tra Convenzione edu e Costituzione. Potrebbe nascere dal contrasto tra l’eventuale disciplina dell’autoriciclaggio e
il principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 del VII protocollo della Convenzione europea, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo e quindi
costituzionalmente giustiziabili alla luce della «valvola di comunicazione»
rappresentata dall’art. 117 Cost. (74): se l’implementazione di questa garanzia dovesse essere portata alle naturali conseguenze, essa potrebbe ostare
non solo, come ora alla luce della «sentenza Grande Stevens», alla proliferazione di responsabilità penali ed amministrative in relazione al medesimo
fatto, ma anche al cumulo di più fattispecie penali per il medesimo fatto o
per fatti intimamente e strutturalmente connessi, quando una fattispecie incriminatrice sia idonea a compensare il disvalore della condotta concreta
(75).
È vero, infatti, che reato presupposto e delitto di autoriciclaggio costituiscono due diverse condotte, ma ciò solo in un’ottica normativa. Se si ragiona, parafrasando la Corte Edu, dal punto di vista dell’idem storico (act,
hystorical fact) e non sul piano dell’idem legale (offences), le due condotte
tornando ad assumere una dimensione unitaria, espressione di un continuum fattuale in cui non è semplicemente probabile, secondo la logica dell’id quod plerumque accidit, la commissione dei due reati, ma necessaria ed
inevitabile. Ciò è tanto più evidente se si guarda la vicenda illecita à rebour,
ovvero riavvolgendo il «nastro del tempo» dall’autoriciclaggio al reato presupposto: non c’è responsabilità per autoriciclaggio senza responsabilità
per il delitto presupposto, salve ovviamente le ipotesi di estinzione di quest’ultimo.
Sia detto per inciso: in questa prospettiva, il riconoscimento del vincolo della conti-
( 74 ) Così Viganò, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e resistenze nazionalistiche:
Corte costituzionale italiana e Corte di Strasburgo tra «guerra» e «dialogo», in www.penalecontemporaneo.it (14.7.2014), 6. Sui rapporti tra diritto penale nazionale, Costituzione e sistema
della Cedu cfr. Id., L’adeguamento del sistema penale italiano al «diritto europeo» tra giurisdizione ordinaria e costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it (14.2.2014), 5 ss. Sul volto
più direttamente e contingentemente politico della parte speciale rispetto a quello di parte
generale e al contempo sul volto oscuro, non razionale e meno razionalizzabile del sistema
sanzionatorio Pulitanò, Ragionevolezza e diritto penale, cit., 21, 24 ss.
( 75 ) In relazione alla nuova fattispecie di autoriciclaggio, ritiene che la stessa non ponga
problemi di violazione di ne bis in idem in considerazione dell’autonomo disvalore espresso
dal tipo criminoso di cui all’art. 648 ter.1 c.p. rispetto a quello dei delitti produttivi dell’utilità
reinvestita Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, cit., 6.
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nuazione tra i due reati, ai sensi dell’art. 81 cpv. c.p., sconterebbe tutti i difetti delle soluzioni pretorie, esposta dunque alla disparità di trattamento del caso concreto. Inoltre,
e forse soprattutto, tale escamotage potrebbe non rappresentare per la Corte Edu una
precauzione contro il rischio di violazione del ne bis in idem: anche nel caso in cui fosse
inflitto al reo il minimo aumento possibile per il reato meno grave tra i due collegati dal
medesimo disegno criminoso (un giorno di reclusione, in caso di pena detentiva), si tratterebbe comunque di un giorno ingiustificato, in quanto integrante una forma di duplicazione di una pena già inflitta per il medesimo fatto.
Certo, il primo profilo, quello nazionale, di possibile incostituzionalità
non pare destinato ad avere successo scontato: implica, infatti, considerazioni attinenti alla politica dei beni giuridici e alla ragionevolezza sanzionatoria, che sono più il terreno di confronto tra argomenti che di giustizia costituzionale, nonostante, seppure non recentemente, discrasie di trattamento sanzionatorio abbiano portato a censure di legittimità costituzionale (76).
Il secondo, quello convenzionale, è, invece, uno scenario denso di possibilità applicative, se in futuro verrà adeguatamente sviluppato, nel segno di
un fecondo dialogo tra giurisdizioni superiori. L’impressione è che il debole statuto nazionale del ne bis in idem sostanziale, possa subire un’implementazione ad opera della Corte di Strasburgo. La Corte sembra andare al
di là di ragioni attinenti all’economia processuale, per tutelare l’imputato
dal cumulo delle sanzioni che possono essere irrogate al termine di procedimenti successivi.
Finora, nel nostro sistema penale il divieto è stato facilmente aggirato
attraverso un’accorta ricostruzione del bene giuridico protetto, la cui capacità estensiva della responsabilità penale si è manifestata anche in questa sede, favorendo quindi l’applicazione congiunta di incriminazioni differenti
(77). La giurisprudenza nazionale ha, infatti, spesso privilegiato l’esigenza di
( 76 ) Ci si riferisce alle sentenze Corte cost. nn. 126/1968 e 149/1969 che hanno dichiarato
illegittime le norme incriminatrici di adulterio e concubinato e alla sentenza Corte cost. n.
508/2000 che ha dichiarato illegittimo l’art. 402 c.p. in quanto puniva solo il vilipendio della
religione cattolica e non delle altre confessioni religiose.
( 77 ) È chiaro che la molteplicità di reati pur in presenza di una condotta unitaria può essere fomentata dall’enucleazione di una pluralità di interessi offesi: in questo senso il bene
giuridico finisce per fungere da razionalizzazione di esigenze di tutela sociali e corrispettivi
bisogni di pena. In questo senso è corretto quanto notato, in un contesto del tutto diverso da
quello continentale, da Moore, Act and Crime: The Theory of action and Its Implications for
Criminal Law, Oxford, 1993, 361, che evidenzia come il profilo del disvalore percepito del
fatto spinga interpreti e giudici ad analizzare un terzo livello di valutazione, essenzialmente di
carattere morale (384). Ci si può attendere poco dal bene giuridico, eroso nella propria portata critica e sempre più piegato a giustificare o rivestire degli scopi di tutela più che degli interessi preesistenti all’incriminazione; sul punto, con riferimento al bene giuridico e alla fenomenologia dell’offesa in contesti finanziari, sia consentito il rinvio a Consulich, La giustizia
e il mercato, Milano, 2010, 297 ss. e dottrina ivi citata. Sulla sostanziale insufficienza del bene
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tenuta generalpreventiva del sistema penale in molti settori di intervento e,
ove ha avuto modo di occuparsi del tema, ha approfittato di ogni minimo
appiglio normativo, per quanto assolutamente secondario, per mantenere
in essere la convergenza di plurime sanzioni in ordine al medesimo fatto
storico (78).
È però chiaro che la strada imboccata dalla giurisprudenza di Strasburgo è deflagrante per il nostro ordinamento, che, spesso in modo sotterraneo, fa del parallelismo
tra sanzione amministrativa e penale, la chiave di volta del controllo sociale, in particolare nel caso della devianza economica. Non si tratta solo degli abusi di mercato o dell’evasione fiscale, come evidenziato dai primi commentatori intervenuti dopo la pubblicazione della sentenza Grande Stevens, ma a mero titolo di esempio anche del diritto urbanistico, della disciplina del d. lgs. 231/2007, del diritto d’autore e gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
A nostro parere però, l’epilogo non è scontato: il rischio dell’illegittimità convenzionale e, a cascata, costituzionale, dell’art. 648 ter.1 c.p. può forse
essere neutralizzato già in sede esegetica; la nuova disciplina in vigore dal
1o.1.2015 potrebbe essere interpretata in modo da non confliggere con i
principi di garanzia ora esposti.
6. – Il ne bis in idem sostanziale osta non solo alla doppia punizione per
lo stesso fatto storico, ma, a determinate condizioni, anche di fatti storici di-
giuridico e del correlato giudizio di offensività come strumenti di controllo garantista in sede
costituzionale delle scelte del legislatore ordinario Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel
controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 383.
( 78 ) Si pensi alla posizione adottata dalla Cassazione penale che pacificamente continua
ad ammettere la concorrenza di sanzioni penali ed amministrative in ambito fiscale, ad esempio con riferimento all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000 rispetto all’illecito penale di cui all’art. 13
comma 1 d. lgs. 471/1997. Si veda Cass., sez. un., n. 37425 del 28.3.2013 (dep. 12.9.2013),
Rv. 255759. Nello stesso senso sez. un., n. 37424 del 28.3.2013 Ud. (dep. 12.9.2013) Rv.
255757. Parla di progressione illecita tra art. 13 d. lgs. 471/1997 e art. 10 bis d.lgs. 74/2000,
con conseguente applicazione del principio del ne bis in idem Dova, Ne bis in idem in materia tributaria, cit., 5. Quelli della Cassazione a Sezioni Unite e delle pronunce che vi si sono
conformati sono argomenti (necessità della certificazione delle ritenute, soglia minima richiesta solo in sede penale e differente termine di riferimento per la rilevanza dell’omissione) che
non paiono in grado di resistere ad una valutazione approfondita inerente la medesimezza del
fatto storico in chiave eurounitario o convenzionale e che alcune decisioni della stessa Cassazione, prima delle sezioni unite del 2013, avevano ritenuto non convincenti, come Cass., III,
n. 18757 del 8.2.2012 (dep. 16.5.2012), in www.penalecontemporaneo.it (23.5.2012), con nota di Valsecchi, Sull’inapplicabilità del delitto di omesso versamento delle ritenute d’acconto
(art. 10 bis d. lgs. 74/2000) all’omesso versamento delle ritenute relative al 2004 e sulle possibili ripercussioni di tale principio sul delitto di cui all’art. 10 ter. Sulle tensioni tra giurisprudenza
della Corte di Strasburgo e giurisprudenza nazionale, in particolare costituzionale, in ordine
al grado di tutela di un diritto fondamentale e alla necessità di contemperarne la protezione
con il sistema di interessi in cui si inscrive il diritto nazionale si veda di recente Viganò, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 8 ss.
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versi, se legati da particolari nessi. Uno di questi legami è, come detto, quello di accessorietà: trattasi forse dell’unica ipotesi in cui il criterio della consunzione può essere impiegato in modo incontroverso, in quanto il reato
accessorio presuppone logicamente e normativamente, quale suo elemento
strutturale, quello precedente. Nel caso dell’autoriciclaggio, fuori dagli indeterminati casi di mero utilizzo e godimento personale dei proventi illeciti,
la commissione del reato successivo è inesorabile per chi voglia mettere a
frutto il risultato economico del proprio impegno criminale.
Tradizionalmente, la clausola di esordio dell’art. 648 bis c.p., ma anche
le analoghe forme di esclusione della punibilità presenti nelle fattispecie di
ricettazione, favoreggiamento reale e personale e altre fattispecie codicistiche, sono state intese dalla giurisprudenza come l’espressione di un’esigenza di tutela del ne bis in idem ed inquadrate come strumenti di assorbimento della fattispecie accessoria (79) o, ancora, di manifestazione della sussidiarietà di quest’ultima rispetto al reato generatore dell’utilità (80).
In realtà, a nostro parere, queste clausole di non punibilità non attualizzano, ma semmai limitano e distorcono l’operatività del criterio di consunzione, stabilendo che sia il reato accessorio a soccombere sistematicamente
a quello presupposto, quando invece il criterio di consunzione imporrebbe
( 79 ) Cass., II, n. 9226 del 27.2.2013, in Guida dir., 2013, 14, 71 ss.; Cass., II, n. 4800 del
11.11.2009, in Guida dir., 2010, 14, 65; Cass., II, n. 14005 del 5.4.2006, in Giur.it., 2007, 6,
1491. In dottrina, esprimeva preoccupazioni di violazione del principio in relazione alla contestazione cumulativa di riciclaggio e associazione per delinquere allorché la partecipazione a
quest’ultima si sostanziasse nella effettuazione di operazioni riciclatorie Manes, Il contrasto
al riciclaggio, tra repressione e prevenzione: alcuni nodi problematici, cit., 264. Parlare di consunzione significa rifarsi al concetto di post factum non punibile. La posizione secondo cui la
clausola di esordio sarebbe inquadrabile in questo orizzonte è rinvenibile in Giunta, Elementi costitutivi del reato di riciclaggio, e Paliero, Il riciclaggio nel contesto societario, entrambi in Arnone-Giavazzi (a cura di), Riciclaggio e imprese, cit., 85 e 92 (il secondo dei
due Autori evidenzia esplicitamente come la punizione del riciclaggio per l’autore del delitto
presupposto violerebbe il principio di ne bis in idem sostanziale e il principio di proporzionalità); Mangione, Mercati finanziari e criminalità organizzata, cit., 1138; Zanchetti, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, 352. La giurisprudenza maggioritaria
colloca la clausola di esordio dell’art. 648 bis c.p. nell’ambito del principio del ne bis in idem
sostanziale a prescindere dai rapporti logico strutturali tra la fattispecie in tema di riciclaggio
e quella che punisce il delitto presupposto, mentre invece la dottrina collega il principio del
ne bis in idem alle ipotesi in cui tra le norme intercorra comunque un rapporto di specialità
reciproca; cfr. Mantovani, Diritto penale. P.te Generale, 2013, 476 s.; Id., Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, cit., 480 ss.
( 80 ) Cass. V, n. 8432 del 10.1.2007 (dep. 28.2.2007), Rv. 236254: «Non può essere chiamato a rispondere di riciclaggio il concorrente nel reato presupposto, costituendo un post factum
non punibile. Al fine di distinguere il concorrente dal riciclatore non basta il ricorso al criterio
temporale giacché occorre in più che si proceda a verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di “lavare” il denaro abbia realmente influenzato o rafforzato, nell’autore del reato principale, la decisione di delinquere, così da qualificarsi come “contributo causale”».
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l’applicazione esclusiva della fattispecie più grave, che ben potrebbe essere,
a seconda dei casi, quella presupposta o quella accessoria.
Nel caso del riciclaggio, è stata, dunque, la conformazione della clausola
normativa a costringere, in modo innaturale, l’assorbimento a funzionare
«a senso unico», sempre a vantaggio del reato presupposto, anche quando
questo fosse molto meno grave del reato accessorio e quindi inidoneo ad assorbirne il valore (81) (si pensi all’appropriazione indebita rispetto a condotte di ostacolo all’identificazione delle risorse indebitamente appropriate
dall’amministratore rispetto alla società) (82).
Ciò che nullifica il criterio di consunzione, ed il principio del ne bis in
idem che lo ispira, è insomma, pare ovvio dirlo, non solo la doppia punibilità
dei due reati avvinti da un nesso di accessorietà, in luogo della punizione
del solo reato più grave, ma altresì l’adozione di clausole di favore che «convogliano» sistematicamente la punibilità verso il reato presupposto, neutralizzando quella del reato accessorio.
Se vale quanto detto finora, è da ritenere allora che, per quanto attiene
alla fattispecie di autoriciclaggio, la rinuncia formale alla clausola di favore
per autori e concorrenti del reato presupposto non neutralizzi il divieto del
ne bis in idem, ma ne consenta anzi una più ampia applicazione.
Se la causa personale di non punibilità, lungi dall’esprimere il criterio di
consunzione, lo tradisce, solo la sua eliminazione può avere allora l’effetto
di implementarne il valore e restaurarne il significato autentico; in altro modo, la resezione del privilegio di autoriciclaggio potrebbe avere avuto come
effetto la «liberazione» dei contenuti precettivi del criterio di consunzione,
con la conseguenza che, a seconda dei casi, potrebbe prevalere il reato presupposto (con consunzione del delitto di autoriciclaggio quale post factum
non punibile) o, più frequentemente, quello accessorio (con consunzione
del delitto presupposto come ante factum non punibile), sulla base dell’esclusiva valutazione comparativa della gravità delle sanzioni previste dalla fattispecie presupposta e da quella accessoria.
( 81 ) La considerazione è già in Troyer-Cavallini, La «clessidra» del riciclaggio ed il privilegio di self-laundering, cit., 8; nonché, in precedenza in Dell’Osso, Riciclaggio e concorso
nel reato presupposto, cit., 2011, 1284.
( 82 ) Gli effetti distorsivi discendenti da siffatte formulazioni normative non finiscono peraltro qui: prima dell’introduzione dell’art. 648 ter.1 c.p. contrastava, infatti, con la ratio essendi del criterio di consunzione la non punibilità dell’autore del reato presupposto per il delitto di cui all’art. 648 o 648 bis anche nelle ipotesi in cui il primo illecito penale non fosse punibile (magari perché prescritto o nel caso dell’art. 649 c.p.): il risultato in questi casi era la
completa impunità dell’agente. Il punto è colto da Pagliaro, Relazioni logiche ed apprezzamenti di valore nel concorso di norme penali, in Ind. pen., 1976, 381, allorché evidenzia come
ponendosi al di fuori di un discorso di relazioni logiche tra norme, ogni rapporto di valore tra
norme implica che entrambe siano concretamente applicabili.
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Il legislatore, d’altra parte, ha ritenuto di rimuovere dal sistema penale
la causa di non punibilità personale per l’autoriciclatore, ma non ha certamente imposto espressamente la doppia punibilità dell’agente, tanto per il
delitto presupposto oltre che per il delitto accessorio.
L’interpretazione convenzionalmente (e quindi costituzionalmente)
orientata del nuovo art. 648 ter.1 c.p. che abbiamo appena abbozzato potrebbe evitare di incorrere nella violazione del principio del ne bis in idem e
garantire una tenuta di lungo periodo della rinnovata disciplina penale in
tema di contrasto al riciclaggio.
Tale interpretazione potrebbe rendersi in futuro obbligata. Non si deve
sottovalutare, infatti, la portata del divieto del ne bis in idem sostanziale a livello internazionale, per quanto esso sia alquanto negletto nel nostro ordinamento.
La nostra analisi non può arrestarsi all’oggi. Se il ne bis in idem rappresenta attualmente uno strumento esegetico, germinato da un’interpretazione sistematica delle norme penali (83), non è detto che, in futuro, nel dialogo
interpretativo tra le Corti europee e quelle nazionali, esso assurga al rango
di principio di diritto costituzionale, posto a presidio di una giustizia penale
scevra da eccessi di prevenzione generale. È dunque prudente adeguarsi fin
d’ora.
Zusammenfassung
In unserem herkömmlichen Strafrechtssystem konnte ein Vortäter nicht
auch für die nachfolgende Wiederverwendung und Verschleierung der illegal
erworbenen Vermögenswerte strafrechtlich belangt werden. Der von Art.
648 ter.1 StGB neu eingeführte Tatbestand kehrt diese Perspektive um, indem er die Selbstgeldwäsche unter Strafe stellt.
Selbst eine rein sommarische Vergleichsanalyse läßt jedoch Zweifel daran
entstehen, dass der neue Straftatbestand die Vorbeugemittel des italienischen
Antigeldwäschereisystems nach Möglichkeit verbessert.
Außerdem könnte die Unterstrafestellung des Täters der Vortat auch für
das Delikt der Selbstgeldwäsche einem vulnus des Ne bis in idem – Grundsatzes gleichkommen, der ja im EU-Recht und in der Rechtsprechung des Straßburger Gerichtshofes, die sich in Bezug auf Art. 4 des VII. Protokolls der Eu-
( 83 ) Valgono a proposito del principio del ne bis in idem, nonché del criterio di consunzione, le stesse considerazioni fatte a proposito dei concetti di antefatto e postfatto non punibile da Vassalli, Antefatto non punibile, postfatto non punibile, cit., 517.
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FEDERICO CONSULICH
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ropäischen Menschenrechtskonvention gebildet hat, eine ständige Aufwertung erfährt.
Die Folge könnte die Verfassungswidrigkeit der neuen Bestimmung im
Sinne des Art. 117 der Verfassung sein.
Es ist aber auch eine Interpretation des Tatbestandes der Selbstgeldwäsche möglich, die mit der Rechtsprechung der europäischen Gerichtshöfe konformgeht, also zugleich verfassungsgemäß orientiert ist: man könnte unter
Berufung auf das Kriterium der Konsumtion annehmen, dass der Art. 648
ter.1 StGB nicht die gleichzeitige Bestrafung beider Delikte vorsieht, sondern
nur die Bestrafung des zwischen der Vortat und der Selbstgeldwäsche strenger
geahndeten Tatbestandes, bei nachfolgender Absorption des anderen.
Abstract
Historically, in our criminal law system, the offender could not be held responsible also for the subsequent reuse and concealing of the utilities of crime.
The new offence established by art. 648-ter.1 c.p. reverses the perspective, by
providing for the punishment of self-laundering behaviours. Also in the light
of a short comparative analysis, one could doubt that the new offence entails
an improvement of the preventive capabilities of the Italian anti-moneylaundering system. Moreover, the punishment of the author of the presupposed
crime also for the self-laundering crime could determine a vulnus to the principle of ne bis in idem, ever more valued by the European Union law and by
the decisions of the Court of Strasbourg with regard to art. 4 of the VII Protocol of the ECHR. The consequence might be the inconstitutionality of the
new disposition according to art. 117 Const. It is possible, though, to offer an
interpretation of the self-laundering offence compliant with the case law of
the European courts and thus at the same time constitutionally orientated:
one could maintain, by valuing the criterion of consumption, that art. 648
ter.1 c.p. does not necessarily entail the simultaneous punishment of both offences, but only for that between the presupposed crime and the self-laundering which is most seriously punished, with the following absorption of the
other.
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Roberto Flor
prof. aggregato di diritto penale nell’Università di Verona
PROSPETTIVE ATTUATIVE DELLA CONVENZIONE
DEL CONSIGLIO D’EUROPA CONTRO IL TRAFFICO
DI ORGANI UMANI E TUTELA PENALE DELLA SALUTE
E DELLA DIGNITÀ UMANA
Sommario: 1. E se fosse una storia vera? - 2. Dal «turismo dei trapianti»... - 3. ...alla nuova
Convenzione del Consiglio d’Europa contro il traffico di organi umani (rinvio). - 4. Verso un «diritto penale del traffico di organi»: breve background storico. - 5. Prima lettura
della Convenzione: quale approccio sistematico? - 5.1. Ambito applicativo e terminologia. - 5.2. La struttura delle incriminazioni, fra elementi «obbligatori», elementi «facoltativi» e possibilità di riserva. - 5.3. Beni giuridici ed interessi meritevoli di tutela nella
Convenzione del Consiglio d’Europa. - 6. Il sistema italiano alla prova: elementi critici e
prospettive di riforma alla luce della Convenzione del Consiglio d’Europa. - 6.1. Diritto
penale e trapianto di organi in Italia. - 6.2. Convenzione del Consiglio d’Europa ed ordinamento italiano a confronto: elementi critici e proposte condivisibili. - 6.2.1. I caratteri
del sistema italiano anche alla luce del nuovo d.d.l. sul traffico di organi destinati al trapianto. - 6.2.2. La responsabilità degli enti e la centralità del modello organizzativo. - 7.
Conclusioni e prospettive de jure condendo.
1. – Ho una malattia renale policistica bilaterale. Mi serve un rene nuovo.
Inizio a navigare in Internet e scopro che esiste la possibilità di averlo senza rispettare lunghe liste di attesa. Devo solo pagare.
Dopo alcune ricerche decido di partire per il «Regno degli Dei», dove si
trova il National Cloud Center, la più nota struttura privata locale per la cura
dei reni. È sufficiente rivolgersi a qualsiasi para-medico, infermiere, barelliere
o guardiano per avere numeri di telefono e contatti.
Trovo il mio intermediario. È «Piccolo Dio», abitante del Regno degli
Dei, che mi spiega la procedura da seguire. Prima di tutto devo dichiarare di
essere arrivato nel Regno vent’anni fa, che ho avuto una breve relazione con
una Dea dalla quale è nato un figlio, che non ho purtroppo potuto portare con
me nel «Mondo Terreno». È sufficiente dichiarare che lo ho sempre aiutato da
lontano. Ora lui è diventato adulto e per ringraziarmi, sapendo che sono in
condizioni di salute critiche, decide di donarmi un rene. Basta «solo» falsificare un documento di paternità con il timbro del ministero, che attesta la relazione di consanguineità. Unica condizione, nel Regno degli Dei, per ammettere la donazione. Ma mi sorge un dubbio. Sua madre? Chi è? Nessun problema. Nel Regno degli Dei è possibile trovare una donna, più o meno mia coetanea, che conferma relazione, maternità e paternità. A quale prezzo? Mille euro per il donatore, mille euro per l’intermediario, duecento euro per gli esami,
ricovero, operazione e medicine a carico mio. Serve solo un c.d. «watchman».
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«Watchman»? Non so neppure cosa significhi. Nessun problema. Me lo procura «Piccolo Dio». A cosa serve? Nel caso in cui il donatore cambiasse idea
lui ha il compito di impedirlo.
Ma chi sono i donatori? Sono gli abitanti più poveri del Regno degli Dei.
Farebbero di tutto per poter sfamare i loro figli o per poter aprire un piccolo
negozio e sopravvivere. Fatti loro. L’importante è che io riesca ad avere il mio
rene. Un paio di giorni dopo andiamo a fare le analisi. Passa un altro giorno e
finalmente incontro il chirurgo, già informato dal mio mediatore.
È giunto il momento. Arrivo all’ospedale «Apollo». Entro e mi dirigo al
reparto di nefrologia presso lo studio del chirurgo a cui spiego brevemente la
mia situazione, fingendo di non sapere che ha già parlato con il mediatore.
«La nostra media di successo, nel trapianto dei reni, sfiora il 99 per cento. Abbiamo i migliori farmaci antirigetto, stanze private con aria condizionata e un
secondo letto per l’accompagnatore [...]. Naturalmente dobbiamo ripetere gli
esami, a lei e al donatore, ma in tre o quattro giorni si conclude tutto. Poi è
previsto un periodo di dialisi, qui da noi, ed è pronto per il trapianto. Trenta
giorni circa di convalescenza e può tornare a casa con il suo rene nuovo». I costi? Cinquemila euro, medicinali esclusi. Ho una malattia renale policistica
bilaterale. Sono andato nel «Regno degli Dei», ho trovato un «Piccolo Dio»,
ho pagato qualche (pochissime, rispetto al valore di una vita) migliaia di euro
per ottenere il rene da un giovane abitante del Regno che si finge mio figlio.
Come sarà la sua vita d’ora in poi? Non lo so. Forse non mi interessa realmente. Forse la mia coscienza sarà appagata inviando un po’ di euro una volta all’anno. Voglio solo tornare a casa dalla mia famiglia, con un rene nuovo che
mi permetterà di sopravvivere (1).
( 1 ) La storia riportata, pur semplificata e riadattata, è basata su fatti reali ed è tratta da
un’inchiesta dell’Espresso, a firma di Alessandro Gilioli, dal titolo «Ho comprato un rene in
Nepal» (Fonte: l’Espresso, 24.5.2007, reperibile anche in http://www.personaedanno.it/,
7.6.2007). Vedi anche Gilioli, Premiata macelleria delle Indie, Milano, 2008, in cui l’Autore
ha attraversato India, Nepal, Birmania e Buthan descrivendo la tragica realtà sociale, caratterizzata da traffico d’organi e di esseri umani, da campi profughi e di guerriglieri maoisti, di
schiavi e di soldati bambini, di narcotraffico e di sfruttamento della prostituzione. Cfr. altresì
Porciani, Traffico di organi. Nuovi cannibali, vecchie miserie, Milano, 2012. L’Autrice riporta
i dati ricavati sia da inchieste giornalistiche, sia da rapporti ufficiali, denunciando una sorta di
«inganno sensazionalistico», ossia quello di considerare il traffico di organi come una «leggenda
metropolitana». Per ulteriori e drammatiche testimonianze vedi i casi «Jane Doe» – riportato da
Goodwin, Black Markets. The Supply and Demand of Body Parts, Cambridge, 2006, 187 ss. –
e «Medicus», in cui alcuni medici della clinica privata Medicus, in Kosovo, avrebbero «reclutato, trasportato, trasferito, dato rifugio a, ricevuto» persone di varie nazionalità al fine di
espiantarne gli organi, abusando della loro posizione di vulnerabilità, in relazione alle condizioni finanziarie particolarmente precarie e, in taluni casi, per mezzo di frode o violenza (cfr.
Buatier De Mongeot, Traffico di esseri umani finalizzato all’espianto di organi: il caso Medicus, in Questione e Giust., 23.1.2014; Florit, Medicus, Marty e minima moralia. Un processo
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2. – Dalla fine degli anni ’80 la World Healt Organization ha lanciato gli
alerts dovuti all’esponenziale diffusione del mercato degli organi umani, soprattutto a causa della crescita della domanda, pur ammettendo la difficoltà
nel reperire dati certi sul traffico a fini di lucro o sul trapianto illegale (2).
Tali difficoltà sono confermate dalle più importanti istituzioni a livello
mondiale (Nazioni Unite, Consiglio d’Europa ed Unione europea), che
hanno denunciato come il traffico di organi umani sia un fenomeno drammatico che non solo costituisce un grave pericolo per la salute pubblica ed
individuale, ma viola altresì i diritti fondamentali e, in particolare, la dignità
dell’uomo (3).
Per affrontare i crescenti problemi legati al commercio degli organi, nel
maggio 2008 si è tenuto a Istanbul un vertice con oltre 150 rappresentanti
di organizzazioni provenienti da tutto il mondo che ha formulato la Dichiarazione di Istanbul sul traffico di organi e sul turismo del trapianto, allo
scopo di fornire delle linee guida per un più preciso inquadramento giuridico e professionale, nonché per garantire la sicurezza e la salute del donatore e del ricevente (4).
La Dichiarazione afferma solennemente che il traffico di organi e il turismo del trapianto violano i principi di equità, di giustizia e di rispetto per la
penale a Pristina (Kosovo) nelle acque tormentate della diplomazia internazionale, ivi,
23.1.2014).
( 2 ) Cfr. Who, «Human Organ Transplantation, A Report on Developments under the auspices of WHO (1987-1991)», in International Digest of Health Legislation, vol. 42, Geneva,
1991, 389 ss., nonché http://www.who.int/bulletin/volumes/82/9/feature0904/en/. Si vedano, in particolare: Risoluzione 44.25/1991; Risoluzione 57.18/2004 e Risoluzione 63.22/2010
. Più di recente vedi anche il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica, Traffico illegale di organi umani tra viventi, del 23.5.2013 (in http://www.governo.it/bioetica/pdf/
14_Traffico_illegale_organi_umani_tra_viventi.pdf). A conferma della drammaticità e della
diffusione del fenomeno, anche con riferimento a condannati a morte, cfr. Palmer Jr, Organ
Transplants from Executed Prisoners, Jefferson (North Carolina), 1999.
( 3 ) Basti il rinvio, per tutti, a Joint Council of Europe/United Nations study, Trafficking in
organs, tissues and cells and trafficking in human beings for the purpose of the removal of organs, 2009, in http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/trafficking/Docs/News/OrganTrafficking_study.pdf. Sul traffico di organi in Europa vedi anche Parliamentary Assembly Recommendation 1611 (2003), Trafficking in organs in Europe, in http://assembly.coe.int/Main.asp?link=/Documents/AdoptedText/ta03/EREC1611.htm.
( 4 ) Dichiarazione di Istanbul su Traffico di Organi e Turismo del Trapianto. I partecipanti
al Summit Internazionale sono stati riuniti dalla «The Transplantation Society» e dalla «International Society of Nephrology» a Istanbul in Turchia dal 30 aprile al 2 maggio 2008. Nella Dichiarazione vengono proposte alcune definizioni quali quelle di «traffico di organi», «commercio di trapianto» e «viaggio a fini di trapianto». Vedi Delmonico, The implications of
Istanbul Declaration on organ trafficking and transplant tourism, in Curr. Opin. Organ Transplant., 2009, 14(2):116-9; Ambagtsheer-Weimar, A criminological perspective: Why prohibition of organ trade is not effective and how the declaration of Istanbul can move forward, in
Am J Transplant., 2012, 12(3):571-5.
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dignità umana e dovrebbero essere vietati. Dovrebbe essere previsto, in
particolare, un divieto di tutti i tipi di pubblicità (anche via web), che sollecitino o spingano all’intermediazione ai fini del commercio di trapianti, del
traffico di organi o del turismo del trapianto. Tali divieti dovrebbero comprendere anche sanzioni per gli atti – quali lo screening medico dei donatori
o degli organi, o il trapianto di organi – che aiutino, incoraggino o usino
prodotti frutto del traffico di organi o del turismo del trapianto.
Il c.d. «healthtourism» esiste, in verità, da centinaia di anni (5). Il termine, oggi, viene però frequentemente utilizzato includendo il c.d. «transplanttourism» (6) e per descrivere lo spostamento da uno Stato ad un altro,
da una giurisdizione ad un’altra, al fine di accedere a servizi medici, scegliendo un sistema sanitario maggiormente permissivo sul piano giuridicolegale.
Dal punto di vista criminologico la definizione di questo fenomeno,
nella maggior parte dei casi non regolato nelle singole legislazioni statali,
può essere sia limitata alla sola compravendita di organi, sia estesa al c.d.
«turismo dei trapianti» in senso stretto, ossia alla pratica di pazienti provenienti tendenzialmente da Paesi ricchi che si recano all’estero, spesso in
( 5 ) Vedi Rechel-Mladovsky-Devillé-Rijks-Petrova-Benedict-McKee, Migration
and health in the European Union, New York, 2011; Meyer, Trafficking in Human Organs in
Europe: A Myth or an Actual Threat?, in European Journal of Crime, Criminal Law & Criminal
Justice, 2006, 14(2):208-29.
( 6 ) Ainley, Organ Transploitation: A Model Law Approach to Combat Human Trafficking and Transplant Tourism, in Oregon Review Of International Law, 13, 2011, 427 ss.; Shimazono, «The state of the international organ trade: a provisional picture based on integration
of available information», in Bulletin of the World Health Organization, vol. 85, n. 12, Dec.
2007, 955-962; Budiani-Saberi-Delmonico, «Organ Trafficking and Transplant Tourism:
A Commentary on the Global Realities», in American Journal of Transplantation, vol. 8 n. 5,
May 2008, 925 ss.; Bagheri, «Global health regulations should distinguish between medical
tourism and transplant tourism», in Global Social Policy vol. 10, n. 3, 2010, 295 ss.; GeisBrown, The Transnational Traffic in Human Body Parts, in Journal of Contemporary Criminal Justice, Vol. 24, n. 3, 2008, 212-224. Cfr. altresì Ambagtsheer-Zaitch-Weimar, The
battle for human organs: Organ trafficking and transplant tourism in a global context, in Global
Crime, 2013, 14(1):1-26; Cohen IG., Transplant tourism: the ethics and regulation of international markets for organs, in J Law Med Ethics, 2013, 41(1):269-85; Bagheri-Delmonico,
Global initiatives to tackle organ trafficking and transplant tourism, in Medicine, Health Care
and Philosophy, 2013, 16(4):887-95. Con riferimento alla situazione di alcuni Stati vedi Lundin, Organ economy: Organtrafficking in Moldova and Israel, in Public Underst. Sci., 2012,
21(2):226-41; Mendoza, Colombia’s organ trade: Evidence from Bogota and Medellin, in J.
Public Health (Germany), 2010, 18(4):375-84; Efrat, The rise and decline of Israel’s participation in the global organ trade: causes and lessons, in Crime, Law and Social Change, 2013, 1-25;
Padilla-Danovitch-Lavee, Impact of legal measures prevent transplant tourism: the interrelated experience of The Philippines and Israel, in Medicine, Health Care and Philosophy, 2013,
1-5; Higgins, Kidney transplantation in patients travelling from the UK to India or Pakistan,
in Nephrol. Dial. Transplant., 2003, 18:851.
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Paesi poveri, per l’acquisto di organi da persone in gravi difficoltà economiche, ed alla attività di organizzazioni di intermediazione dedite alla vendita
clandestina ed alla tratta di persone a scopo di rimozione di organi (7).
Allo stato attuale, in linea generale, è possibile proporre almeno una macro-distinzione sufficientemente precisa fra ordinamenti giuridici: da un lato, vi sono quelli che consentono di considerare il corpo umano quale oggetto di libero scambio; dall’altro lato, si trovano gli ordinamenti che, al contrario, negano la possibilità di commercializzazione del corpo o di sue parti (8).
La tendenza prevalente, sia sul piano nazionale che su quello internazionale, è orientata a considerare il corpo umano al di fuori dall’area delle
relazioni di mercato (9).
In secondo luogo è opportuno delimitare ulteriormente il campo di indagine, distinguendo il traffico di organi umani a scopo di trapianto dalla
tratta di persone con il proposito del prelievo di organi. Il primo fenomeno,
pur potendo rientrare nell’ambito delle finalità del secondo, se ne differenzia per specifiche peculiarità e, in particolare, per l’oggetto del traffico o del
commercio, ossia gli «organi» (organi, tessuti e cellule), da tenere distinti
dalla «persona» (10).
( 7 ) Cfr. Comitato Nazionale per la Bioetica, Traffico illegale di organi umani tra viventi,
del 23.5.2013, cit. Per ulteriori riferimenti vedi McGuinness-McHale, Transnational
crimes related to health: How should the law respond to the illicit organ tourism?, in Legal Studies, vol. 34, 4, 2014, 682 ss. Per comprendere, sul piano sociale e criminologico, i legami fra
tratta di persone e traffico di organi, tra mito e realtà, attraverso le testimonianze dirette dei
trafficanti di uomini, è consigliabile la lettura di Di Nicola-Musumeci, Confessioni di un
trafficante di uomini, Chiarelettere, 2014. Sul piano sociologico vedi Dragiewicz (Ed.), Global Human Trafficking: Critical Issues and Contexts, London, 2015.
( 8 ) Attualmente fra i Paesi che hanno disciplinato normativamente la compravendita degli organi umani vi sono l’Iran (1988), limitatamente al rene e ai soli cittadini iraniani, e Singapore (2009) che consente l’acquisto anche ai cittadini stranieri. Fonte: Comitato Nazionale
per la Bioetica, Traffico illegale di organi umani tra viventi, cit. Con riferimento al sistema iraniano vedi Ghods-Mahdavi, Organ Transplantation in Iran, in Saudi J Kidney Dis Transpl.,
2007, 18(4):648-55.
( 9 ) Vedi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948); la Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e la biomedicina (1997, artt. 19, 21 e 22); il Protocollo addizionale a questa Convenzione relativo al trapianto di organi e di tessuti di origine umana (2002,
artt. 21, 22); la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000, art. 3). Preme evidenziare che l’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione di Oviedo del 1997 (Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e la biomedicina), che prevede le regole generali
sul trapianto di organi, in particolare da donatori viventi, ed il divieto espresso di utilizzare il
corpo umano o sue parti a fini di profitto (art. 21).
( 10 ) Cfr. Territo-Matteson, The International Trafficking of Human Organs. A Multidisciplinary Perspective, Boca Raton, 2012; Borg Jansson, Modern Slavery. A comparative
Study of the definition of Trafficking in Persons, Leiden, Boston, 2015. Sul piano internazionale basti il rinvio a OSCE Office of the Special Representative and Co-ordinator for Combating
Trafficking in Human Beings, Trafficking in Human Beings for the Purpose of Organ Removal
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Il presente lavoro, pur tenendole presenti, non avrà ad oggettol’analisi
delle questioni etiche, religiose, filosofiche, criminologiche ed extragiuridiche del traffico – commercio di organi (11).
L’obiettivo, invece, partendo dall’analisi della Convenzione del Consiglio d’Europa, è quello di fornire un quadro sistematico dei recenti strumenti e delle politiche criminali a livello sovranazionale nella lotta ad un fenomeno transnazionale, evidenziando le possibili criticità nella definizione
degli elementi tipici delle fattispecie legali al fine di assicurare un’efficace
tutela di beni giuridici fondamentali, nel rispetto della salute individuale e
pubblica, nonché della dignità umana.
3. – Il 9.7.2014 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha
adottato il testo definitivo della Convenzione contro il traffico di organi
umani, che è stata aperta alla firma il 25.3.2015 a Santiago de Compostela
(12).
I lavori preparatori della Convezione ed il rapporto esplicativo hanno
confermato l’esistenza di un mercato globale in organi umani per fini di trapianto, che deve essere considerato di per sé un fenomeno criminoso grave
contro la salute privata e pubblica, nonché contro la libertà personale e la
dignità umana.
Sia il protocollo della Convenzione delle Nazioni Unite del 2000 contro
in the OSCE Region: Analysis and Findings, Occasional Paper Series n. 6 (July 2013), che considera l’UN Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children (2000); l’OSCE Action Plan to Combat Trafficking in Human Beings (2003),
la Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings (2005) e la
EU Directive 2011/36, on preventing and combating trafficking in human beings and protecting
its victims. Con riferimento alla letteratura italiana vedi già Picotti, Nuove forme di schiavitù
e nuove incriminazioni penali fra normativa interna ed internazionale, in Indice pen., 1, 2007,
15-35; Picotti, La lutte contre le trafic de personnes dans un monde globalisé, in Revue Internationale de Droit Penal, 2008, 1-10. Per altri riferimenti bibliografici in questa sede si rinvia
a Cadoppi-Canestrari-Papa-Manna, Trattato di diritto penale - Parte speciale Vol. VII: I
delitti contro la vita e l’incolumità personale, Torino, 2011, 105-106.
( 11 ) Sui rapporti fra diritto penale e questioni etiche e religiose basti il rinvio a Canestrari, Bioetica e diritto penale. Materiali per una discussione, Torino, 2014, che affronta, fre
le altre, le importanti tematiche legate alla procreazione medicalmente assistita, al fine vita ed
alle «scelte tragiche nell’attività sanitaria». Sulle questioni legate al fine vita si rinvia anche,
senza pretesa di esaustività, a Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia, in AA.VV., Il valore della vita. L’uomo di fronte al problema del dolore, della vecchiaia, dell’eutanasia, Milano,
1985, 162 ss.; Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen.,
1995, 670 ss.; Giunta, Diritto di morire e diritto penale, ivi, 1997, 74 ss.; Mantovani, Biodiritto e problematiche di fine della vita, in Criminalia, 2006, 57 ss.; Ramacci, Statuto giuridico
del medico e garanzie del malato, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, 1707
ss.; Risicato, Dal diritto di vivere al diritto di morire, Torino, 2008. Cfr. altresì Stortoni
(cur.), Vivere: diritto o dovere? Riflessioni sull’eutanasia, Trento, 1992.
( 12 ) Cfr. http://www.coe.int/t/dghl/standardsetting/cdpc/pc_to_en.asp.
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il crimine organizzato transnazionale – per prevenire, reprimere e punire il
traffico di persone, in particolar modo di donne e bambini – che la Convenzione del Consiglio d’Europa del 2005 contro la tratta di essere umani contengono disposizioni dirette a criminalizzare il traffico di persone finalizzato alla «rimozione» di organi. Inoltre l’art. 21 della Convenzione del Consiglio d’Europa di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1997 vieta che il corpo umano o le sue parti possano essere utilizzati per fini di profitto e trova una più concreta applicazione nel protocollo aggiuntivo del
2002, riguardante il trapianto di organi e di tessuti di origine umana, che
proibisce espressamente il traffico di organi e di tessuti (art. 22), invitando
le parti a prevedere sanzioni appropriate per i casi di violazione delle sue disposizioni.
4. – A fronte dell’emergenza determinata dall’espansione del fenomeno del traffico di organi il 10.11.2010 il Comitato dei Ministri decise di invitare il Comitato europeo sui problemi della criminalità (EuropeanCommittee on Crime Problems - CDPC), il Comitato di bioetica ed il Comitato
europeo sul trapianto di organi ad indentificare gli elementi essenziali e le
questioni principali che potessero costituire le fondamenta per la costruzione di uno strumento legale internazionale per il contrasto al traffico di
organi.
Dal loro rapporto del 20.4.2011 (13) è emersa la complessità e la gravità
di un fenomeno di proporzioni globali che, da un lato, viola i diritti umani e
le libertà fondamentali e, dall’altro lato, minaccia concretamente la salute
pubblica ed individuale.
Purtroppo le misure introdotte dai precedenti trattati internazionali (14)
si sono rilevate inefficaci, in particolare perché fanno riferimento a scenari
in cui la rimozione di organi avviene in un contesto di coercizione o di inganno e non, invece, nei casi in cui il donatore ha acconsentito al trapianto
o non può essere identificato in qualità di «vittima» del traffico nei termini
descritti e discplinati da tali fonti internazionali.
Il rapporto contiene una proposta contenente strumenti penalistici di
tutela e, con le decisioni del 6 luglio del 2011 e del 22-23 febbraio del 2012
il Comitato dei Ministri istituì il Comitato di esperti sul traffico di organi
umani, tessuti e cellule con il compito di elaborare il draft della convenzione e, se necessario, i suoi protocolli addizionali.
L’approvazione definitiva della proposta da parte del CDPC è avvenuta
durante il plenary meeting del 4-7.12.2012.
( 13 ) Vedi CDPC/CDBI/CD-P-TO report, Strasbourg, 20.4.2011.
( 14 ) Vedi supra, 3.
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La Convenzione è nata, dunque, con il principale fine di contrastare e
prevenire il traffico di organi umani in un contesto diverso da quello «coperto» dai precedenti trattati internazionali, colmando una lacuna di tutela
che progressivamente si è ampliata.
Essa si propone, inoltre, di tutelare i diritti delle «vittime» e di promuovere la cooperazione internazionale.
5.1. – Trattandosi di una «criminal law convention» (15) e considerando
le implicazioni e gli effetti sui sistemi penali nazionali che potrebbero derivare dalla sua attuazione ed applicazione, nonché dall’interpretazione delle
sue disposizioni, è opportuno chiarire l’ambito applicativo ed il contenuto
delle frequenti formule generali, con il fine di fornire un quadro sistematico
delle nuove norme previste dalla Convenzione evidenziandone, ad una prima lettura, le criticità.
L’intepretazione degli elementi tipici delle singole incriminazioni non è
sempre agevolata dai termini in lingua inglese adottati dai redattori. Per
questo motivo pare opportuna la scelta di utilizzare, in specifici casi, una
terminologia neutra, maggiormente conforme alla ratio della disposizione e
di ausilio per la successiva applicazione della norma.
La condotta «removal», ad esempio, verrà tradotta con il termine «rimozione» di organi e non, invece, con quelli di «prelievo» od «espianto».
In fase di ratifica ciascuno Stato si troverà a dover scegliere se utilizzare o
meno una terminologia maggiormente tecnica e/o affine alla propria «sensibilità» o «etica» medica, eventualmente tradotta in linee guida, disciplinari o best practices, la quale può assumere significati diversi sui piani sia tecnico-giuridico che medico e deontologico (16).
( 15 ) Come affermano gli stessi redattori (punto 38 del rapporto esplicativo).
( 16 ) In Italia, ad esempio, viene considerato trapianto, sul piano strettamente medico, un
intervento chirurgico che comporta la sostituzione di un organo o di un tessuto con un altro
(organo o tessuto) prelevato dallo stesso individuo (omotrapianto o autotrapianto), da un altro individuo (allotrapianto) o da un individuo di specie diversa (xenotrapianto). La rimozione di un organo o di un tessuto viene definita «prelievo», mentre con il termine espianto vi è,
da un lato, chi lo intende sinonimo di «prelievo» (come spesso viene utilizzato dall’opinione
pubblica) e, dall’altro lato, chi fa riferimento alla rimozione chirurgica di un organo precedentemente trapiantato e rimosso per diversi motivi. Cfr. Dizionario di Medicina, Treccani,
2010; per una spiegazione che tiene conto degli aspetti sociologici http://it.wikipedia.org/
wiki/Trapianto. Vedi, sulle questioni etiche, Picozzi (cur.), Il trapianto di organi. Realtà clinica e questioni etico deontologiche, Milano, 2010; Fagiuoli, La questione dei trapianti tra etica, diritto, economia, Milano, 1997. Queste distinzioni, sia sul piano etico che su quelli più
strettamente medico e giuridico, sono emerse anche al Convegno nazionale «Donazione d’organi. La gratuità di un gesto quale strategia europea ed internazionale per fermare la vendita e il
traffico di organi», che si è tenuto il 23.1.2015 a Riva del Garda ed ha visto la partecipazione
di molteplici esperti (giuristi, criminologi, antropologi, medici e giornalisti).
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In questa fase, invece, è fondamentale individuare e delimitare i fatti da
sanzionare penalmente, in conformità alla ratio della Convenzione e delle
singole incriminazioni, in modo da poter fornire anche ad un lettore meno
specializzato in terminologia medica il nucleo essenziale del precetto.
Il testo definitivo del trattato, infatti, è il risultato di un difficile e complesso compromesso, che ha coinvolto sia le scelte politico criminali, sia la
definizione degli elementi tipici delle disposizioni incriminatrici.
Da un lato, l’ambito applicativo è circoscritto al traffico di organi effettuato per il trapianto o per altri fini o altre forme di rimozione o di impianto
illecite. La volontà di delimitare il campo di applicazione si evince sia dal
rinvio agli artt. 4.4 (17) e 6 (18) della Convenzione per la definizione della locuzione «altre forme di illecita rimozione o illecito impianto» (19), sia dall’esclusione di fatti legati al commercio di prodotti medici realizzati con (o
provenienti da) organi umani o parti di organi umani (20).
Dall’altro lato, la definizione di «traffico» è volutamente ampia, in
quanto copre, ex art. 2, tutte le condotte illecite di rimozione, descritte dall’art. 4.1, e impianto o uso di organi illecitamente rimossi, previste dal successivo art. 5, nonché quelle criminalizzate dagli artt. 7 (istigazione, reclutamento, offerta e richiesta di indebiti vantaggi), 8 (preparazione, conservazione, stoccaggio, trasporto, trasferimento, ricezione, importazione e
esportazione di organi umani prelevati illecitamente) e 9 (favoreggiamento,
complicità e tentativo).
Risulta maggiormente difficoltoso, invece, individuare i contenuti di
formule quali «altri propositi rispetto all’impianto», che sono state inserite
per ricomprendere, ad esempio, la ricerca scientifica e l’uso di organi per
l’estrazione di tessuti o cellule (si pensi all’uso di valvole cardiache di un
cuore rimosso illecitamente) (21). La possibile apertura ad un elenco non
certo tassativo trova comunque un preciso limite nella citata esclusione
dall’ambito applicativo del trattato del commercio di medicinali prodotti
( 17 ) L’art. 4.4 prevede che «Ogni stato deve considerare di adottare le misure legislative o
altre misure per prevedere come reato la rimozione di organi umani da donatori viventi o deceduti quando la rimozione viene eseguita al di fuori del suo sistema di trapianto interno o quando
viene effettuata in violazione dei principi fondamentali leggi o delle regole nazionali di trapianto. La parte che effettua questa scelta si deve impegnare ad applicare anche le disposizioni di cui
agli artt. 9-22».
( 18 ) L’art. 6 contiene una disposizione simile a quella di cui all’art. 4.4 e intende criminalizzare l’impianto di organi al di fuori del sistema interno di trapianto o in violazione dei principi fondamentali previsti dal diritto interno in materia di trapianti.
( 19 ) Vedi punto 20 del rapporto esplicativo.
( 20 ) Ibidem.
( 21 ) Vedi punto 21 del rapporto esplicativo.
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o derivati da organi umani o parte di essi e del traffico di tessuti e cellule (22).
5.2. – Sul piano sistematico, è possibile delineare due macro-aree di criminalizzazione: il traffico illecito di organi per il trapianto o per altri fini e le
illecite forme di rimozione, uso e impianto di organi.
Con riferimento alla struttura delle incriminazioni e, in particolare, ai
soggetti attivi, la Convenzione lascia uno «spazio aperto» alla discrezionalità dei Paesi, non prendendo posizione, coerentemente con la sua ratio, sulla
possibile punibilità dei donatori e dei beneficiari di organi.
Sia dal testo del trattato che dalla lettura sistematica del rapporto esplicativo questa scelta appare consapevole e determinata, proprio perché
l’obiettivo primario consiste nel contrastare e prevenire il meccanismo-sistema del commercio/traffico di organi e non nel colpire le parti che, per
ovvie ragioni, sono da considerare «deboli» e «vulnerabili». Fra i possibili
soggetti coinvolti nel «sistema traffico», infatti, devono essere inclusi non
solo gli intermediari o brockers, ma anche lo staff medico-specialistico e
l’ente che «ospita» le attività illecite (23).
Ciò comunque non esclude che i singoli Stati, al momento della ratifica,
ritengano opportuno intervenire attraverso strumenti penalistici di tutela,
sanzionando, nell’ambito del traffico di organi tra vivi ed in determinate
condizioni, anche la condotta del donatore e/o del beneficiario.
L’obiettivo di contrastare e prevenire il meccanismo-sistema del commercio di organi è dimostrato altresì dalle previsioni di cui all’art. 4.1, lett.
b) e c), che impongono agli Stati di punire la rimozione illecita di organi da
un donatore vivo o deceduto quando è stato offerto al donatore vivo o ad
una terza parte, o essi hanno ricevuto, un vantaggio economico o un vantaggio a questo equiparabile in cambio del prelievo dell’organo.
L’art. 4.3 specifica l’espressione «vantaggio economico o vantaggio analogo», escludendo le compensazioni per perdite di guadagno e ogni altra
spesa giustificabile cagionati dalla rimozione di un organo, o connessi ai relativi esami medici o, ancora, le compensazioni dovute in caso di danni che
non sono inerenti alla rimozione o agli organi. Questa disposizione è stata
introdotta al fine di distinguere le compensazioni legali in alcuni casi dovu-
( 22 ) Ibidem.
( 23 ) Sul piano sociologico, antropologico e criminologico vedi le critiche, in merito al
«mercato di organi», di Scheper-Hughes, The last Commodity – Post-Human Ethics, Global
(In) Justice and the Traffic in Organs, Penang, 2008. Contra cfr. Taylor, A «Queen of Hearts»
trial of organ markets: why Scheper-Hughes’s objections to markets in human organs fail, in J
Med Ethics, 2007 Apr; 33(4): 201-204. Vedi anche Ambagtsheer, The Black Market in Human Organs, in Gilman-Goldhammer-Weber (Eds), Deviant Globalization: Black Market
Economy in the 21st Century, New York, 2011, 72 ss.
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te ai donatori da quelle derivanti da pratiche o attività illegali di commercializzazione del corpo umano o parti di esso.
Ad ogni modo la nozione di «vantaggio» è stata intesa in senso ampio e
fa riferimento anche alle attività che coinvolgono intermediari.
Questo elemento, infine, è da ricondurre all’elemento soggettivo e, in
particolare, al dolo specifico, nel caso di cui all’art. 7.1, che impone agli Stati
di punire l’istigazione e il reclutamento di un donatore o di un beneficiario, se
vengono realizzati al fine di ottenere un vantaggio economico (o un vantaggio
analogo) per la persona che ha posto in essere tali condotte o a favore di terzi.
Ulteriori disposizioni dirette espressamente a combattere il «sistema»
del commercio di organi sono quelle previste dagli artt. 7.2 e 7.3 (c.d. corruzione attiva e corruzione passiva). La prima incriminazione intende punire, se commesse intenzionalmente, la promessa, l’offerta o la dazione da
ogni persona, direttamente o indirettamente, di un indebito vantaggio ad
operatori sanitari, a suoi funzionari pubblici o persone che lavorano o dirigono enti privati, di qualsiasi tipo, con il fine eseguire o facilitare una rimozione o un impianto di organi umani, se impianto e rimozione si realizzano
in presenza dei requisiti previsti dagli artt. 4. o 5 (e art. 4.4 o 6).
La seconda incriminazione, invece, obbliga le Parti a prevedere come
reato, se commessi intenzionalmente, la richiesta o l’ottenimento da parte
di operatori sanitari, suoi funzionari pubblici o persone che lavorano o dirigono enti privati, di qualsiasi tipo, di un indebito vantaggio al fine di effettuare o facilitare la rimozione o l’impianto di organi umani, sempre se la rimozione e l’impianto si realizzano in presenza dei requisiti previsti dai citati
artt. 4. o 5 (e art. 4.4 o 6).
Con riferimento alle condotte penalmente rilevanti, tutte di natura almeno dolosa, la Convenzione obbliga gli Stati a punire non solo gli atti esecutivi – ossia, ex art. 4, 5 e 6, la rimozione, l’uso e l’impianto – ma anche una
serie di atti preparatori all’impianto stesso – in particolare, ai sensi dell’art.
8, la preparazione, la conservazione, lo stoccaggio, il trasporto, il trasferimento, la ricezione, l’importazione e l’esportazione di organi umani prelevati illecitamente – oltre che le condotte di illecita istigazione, reclutamento, offerta e richiesta di indebiti vantaggi previste dal citato art. 7 e quelle di
favoreggiamento, complicità e tentativo disciplinate dal successivo art. 9.
Con riferimento all’elemento soggettivo non si rinvengono, nella Convenzione, specifici limiti. L’obbligo di criminalizzazione si incentra sull’«intention» (ossia il nostro dolo intenzionale), ma gli Stati possono scegliere di
ampliare la punibilità sia a forme meno intense di dolo, sia a fatti colposi (24).
( 24 ) Vedi punto 28 del rapporto esplicativo.
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La necessità di raggiungere un’ampia condivisione sui caratteri essenziali dei fatti da incriminare ha portato a molteplici compromessi che, in taluni casi, hanno lasciato diverse porte aperte alla discrezionalità degli Stati,
dimostrate non solo dalle parti «facoltative» o «opzionali», ma anche dalle
numerose possibilità di riserva.
Si pensi, per ipotesi, agli artt. 4.4 e 6. Ai sensi di queste ultime disposizioni ogni Stato deve solamente considerare la possibilità di prevedere come reato la rimozione di organi umani da donatori viventi o deceduti quando la rimozione venga eseguita al di fuori del suo sistema di trapianto interno, o quando venga effettuata in violazione dei principi fondamentali, delle
leggi o delle regole nazionali di trapianto.
In altri termini potrebbero crearsi «sistemi di trapianto» di classe A e di
classe B. La criminalizzazione di questi comportamenti, infatti, sul piano
della prevenzione generale positiva, può svolgere una rilevante funzione
morale-pedagogica o di orientamento culturale, la quale potrebbe tradursi
nell’adozione di una regolamentazione tecnica interna in grado di osservare
i più alti standard di sicurezza medica, oltre che fungere da propulsore per
l’adozione di adeguati codici o protocolli etici. Tale argomentazione appare
determinante proprio perché gli Stati sono dotati di «sistemi di trapianto»
molto diversi fra loro, mentre l’obiettivo della Convenzione non consiste
nella loro armonizzazione. Da una parte, l’obbligo di criminalizzazione
avrebbe potuto sortire almeno l’effetto di una «armonizzazione spontanea»
verso l’alto. Dall’altra parte, però, è possibile presumere che ogni organo rimosso e trapiantato «al di fuori del sistema di trapianto» o in violazione della legge nazionale potrebbe già integrare i reati previsti dall’art. 4.1 (25).
Questi margini di apprezzamento lasciati ai singoli Stati non sono di secondo piano, se si considera che la mera violazione di regole organizzative,
disciplinari o comunque riferite al «sistema di trapianto» già costituisce, in
alcuni Paesi, un mero illecito amministrativo (26).
Fra le possibilità di riserva (27) vi è quella prevista dall’art. 4.2, tramite la
quale lo Stato può riservarsi il diritto di non applicare l’art. 4.1 in casi eccezionali di rimozione di organi da donatori vivi, se sono previste appropriate
misure di tutela o specifiche disposizioni nazionali in materia di consenso.
5.3. – L’interpretazione sistematica delle incriminazioni previste dalla
( 25 ) Cfr. punti 43-45 del rapporto esplicativo.
( 26 ) Si pensi, ad esempio, al nostro sistema disciplinato dalla l. n. 91 del 1999 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti) che, all’art. 22 prevede proprio un
illecito amministrativo per la violazione delle regole relative alle strutture sanitarie per il prelievo di organi, per la conservazione dei tessuti e per i trapianti. Vedi infra, 6.
( 27 ) Si veda anche la possibilità di riserva prevista dall’art. 9.3 della Convenzione.
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Convenzione, comprese quelle «facoltative», in quanto orientate a reprimere e prevenire il sistema del traffico o del commercio di organi, sembrano
tutelare, da un lato, la salute pubblica e individuale, compresa l’integrità fisica e, dall’altro lato, la libertà personale e la dignità umana.
A beni di natura individuale, dunque, si aggiungono interessi collettivi
che si fondano sul comun denominatore del rifiuto della commercializzazione del corpo umano.
La donazione degli organi, infatti, è intesa alla stregua di un importante
gesto civico e di solidarietà sociale, per cui dovrebbe essere basata su principi etici comuni ed essere attuata confidando nella sicurezza nell’eccellenza della rete trapiantologica.
Allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, inoltre, possono essere
donati per il trapianto organi e tessuti anche vitali quali, ovviamente se provenienti da donatore deceduto, il cuore, le cornee, le valvole cardiache,
nonché organi e tessuti che, in caso di donatore vivente, non comportino
una menomazione o un deficit irreversibile o che pregiudicherebbero in
modo insanabile ed irreversibile il diritto all’integrità fisica ed al godimento
del proprio organismo nella sua interezza e nella sua sanità naturale.
Da un lato, la Convenzione si fonda su tale diritto, attorno al quale ruota il suo impianto normativo, che è inteso in senso assoluto, irrinunciabile
ed indisponibile, salve le deroghe previste dai singoli ordinamenti basate
sui principi della gratuità del gesto e del consenso, fermi i limiti poc’anzi
descritti.
Dall’altro lato, si sta assistendo alla progressiva sostituzione del concetto statico di integrità fisica, con quello dinamico di salute riconducendo
poi, utilizzando gli schemi logici più affini al giurista italiano, la definizione
ed il limite dell’ordine pubblico ai principi generali dell’ordinamento, «come tali non superabili dal singolo, così come enucleati dalla stessa Carta
fondamentale» (28). Con l’entrata in vigore della nostra Costituzione, ad
esempio, e con l’affermarsi del principio personalista, la quaestio relativa alla portata dell’art. 5 c.c. andrebbe più impostata in termini di «libertà» di
disporre del proprio corpo anziché di «potere di disporre» ossia, in altre
parole, di libertà di decidere e di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che in vario modo coinvolgono e interessano il proprio corpo (29).
( 28 ) Per un immediato riscontro in questo senso, sul piano nazionale, si veda Cass. pen.,
sez. un., 21.1.2009, n. 2437.
( 29 ) In questa sede sulle problematiche di carattere generale relative alla disponibilità del
corpo umano in materia di trapianti vedi già Mantovani, I trapianti e la sperimentazione
umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974; l’opera affronta anche la delicata questione etico-filosofica dei limiti imposti dall’art. 5 c.c. rispetto all’attività di trapianto, ma deve es-
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Il bene della «salute», dunque, come diritto fondamentale dell’individuo (art. 32 Cost. italiana), può essere leso direttamente dall’asportazione
di un organo effettuata in violazione delle regole interne in materia di trapianti, nonché dall’uso di organi illecitamente rimossi, sia quando la rimozione è effettuata senza la presenza di un libero, informato e specifico consenso del donatore, sia in caso di persona deceduta, senza che la rimozione
sia autorizzata sulla base del diritto interno. La «salute individuale» compromessa potrebbe essere non solo quella del donatore vivente, che potrebbe non essere compiutamente informato sugli effetti dannosi legati alla rimozione, ma anche quella del beneficiario, che potrebbe ricevere un organo non compatibile o affetto da patologie, in quanto rimosso in violazione,
ad esempio, delle più elementari regole di sicurezza in materia di analisi degli organi e dei tessuti.
sere contestualizzata, sul piano strettamente giuridico, nel periodo storico di riferimento, in
cui il limite alla menomazione permanente non aveva subito particolari eccezioni (erano ammissibili, ad esempio, il prelievo da vivente di tessuti e di sangue). Più di recente vedi le riflessioni di Resta, La disposizione del corpo. Regole di appartenenza e di circolazione, in Trattato
di biodiritto (diretto da Rodotà, Zatti), IV, Milano, 2011, 805 ss.; Seminara, La dimensione
del corpo nel diritto penale, ivi, I, 189 ss., in particolare 212 ss., a cui si rinvia per gli ulteriori
riferimenti bibliografici. Sul consenso dell’avente diritto in generale, fra i molteplici contributi dottrinali, cfr. Albeggiani, Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Milano,
1995. Più specificatamente sul consenso nell’attività medico chirurgica, vedi già Giunta, Il
consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in
Ann. Univ. Ferrara - Sc. giur. Nuova serie, Vol. XIII, 1999, 1-34; Eusebi, Note sui disegni di
legge concernenti il consenso informato e la dichiarazione di volontà anticipate nei trattamenti
sanitari, in Criminalia, 2006, 251 ss.; cfr. altresì, sull’omessa acquisizione del consenso, Viganò, Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio?) delle sezioni unite, in Cass. pen., 2009, 1811 ss.; Viganò, Profili
penali del trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2004, 141 ss. Con riferimento ad alcune riflessioni sulla disponibilità dell’essere umano,
più in particolare in merito alla concezione utilitaristica dell’uomo-oggetto e quella personalistica dell’uomo-valore, uomo-persona, uomo-fine, punto di incontro dell’antropologia e dell’umanesimo sia delle concezioni religiose monoteistiche, sia delle concezioni laiche, vedi
Mantovani, Biodiritto e problematiche di fine della vita, in Criminalia, 2006, 57 ss. Diverso è
il piano relativo alla manifestazione del consenso rispetto ad attività di coercizione o di controllo incompatibili con qualsiasi forma di valida accettazione da parte della vittima. Vedi, ad
esempio con riferimento alle pratiche di mutilazione genitale femminile, Basile, La nuova incriminazione delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, in Dir. pen. proc.,
2006, 678 ss. nonché, dello stesso Autore, Il reato di «pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili» alla prova della giurisprudenza: un commento alla prima (e finora unica) applicazione giurisprudenziale dell’art. 583 bis c.p., in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, n. 24/2013, 1-23. Sul rapporto fra mutilazione, consenso e contesto culturale
vedi, fra gli altri contributi, quelli di Fornasari, Mutilazioni genitali femminili e multiculturalismo. Premesse per un discorso giuspenalistico, in Bernardi-Pastore-Puggiotto (cur.),
Legalità penale e crisi del diritto oggi. Un percorso interdisciplinare, Milano, 2008, 179 ss.; Sella, Le mutilazioni genitali femminili come cultural oriented crime. Note di diritto italiano e
comparato, in Dir. pen. XXI sec., 2007, 285 ss.
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La Convenzione sembra abbracciare il concetto dinamico di salute,
quale «libertà» di disporre di parti del proprio corpo e di autodeterminarsi,
quando ritiene non penalmente rilevante la donazione – ossia la rimozione
quale atto prodromico all’uso ed all’impianto – in presenza di un libero, informato e specifico consenso del donatore, purché essa sia sempre basata
sul principio di gratuità e solidarietà sociale, salvo i casi eccezionali che gli
Stati possono riservarsi di motivare adeguatamente e compiutamente al
momento della firma o del deposito dello strumento di ratifica, specificando la legge interna applicabile e rispettando le precise garanzie o le previsioni relative al conenso vigenti nel loro diritto nazionale.
Il bene «salute» è tutelato altresì nella sua connotazione «pubblica» afferente alla collettività, in particolare nell’ottica di prevenire o eventualmente limitare possibili danni dovuti alla diffusione delle malattie infettive
nella popolazione o di altri fattori di rischio che potrebbero contagiare gli
ambienti di vita.
In questo caso l’anticipazione di tutela del bene finale è, da un lato, congenitamente legata alla lesione delle condizioni di salute individuali dei soggetti coinvolti e/o possibilmente contagiati, rimanendo dunque, quale bene
collettivo riferito a un numero indeterminato di soggetti, offeso in maniera
necessariamente potenziale. Dall’altro lato, l’interpretazione sistematica
delle disposizioni penali previste dalla Convenzione, «avvicina» la lesione
rispetto a beni che si possono porre come strumenti indiretti per la tutela
della salute individuale e pubblica come, ad esempio, gli standard di sicurezza previsti dal sistema nazionale dei trapianti, che sono il presupposto
per evitare pericoli per l’individuo e la collettività.
In questo senso si giustificano le incriminazioni «facoltative» di cui agli
art. 4.4 e 6, dirette a punire l’impianto di organi al di fuori del sistema interno di trapianto o in violazione dei principi fondamentali previsti dal diritto
interno in materia di trapianti.
L’interesse ad evitare che il corpo umano sia oggetto di commercializzazione trova tutela non solo nella incriminazione della rimozione abusiva
quando, come corrispettivo per il prelievo di organi, è stato offerto al donatore vivente, o a terze parti, o loro hanno ricevuto un vantaggio patrimoniale o un vantaggio analogo, ma anche nelle disposizioni che incriminano l’illecita istigazione, il reclutamento, l’offerta e la richiesta di indebiti vantaggi,
che coinvolge le attività di intermediari e quelle di esercenti le professioni
mediche.
Il riferimento alla «dignità umana», che più volte si rinviene nella Convenzione e nel suo rapporto esplicativo, deriva necessariamente da obblighi
di criminalizzazione di situazioni davvero estreme in cui il bene giuridico è
di altissimo rango e la lesione è prossima, quanto a gravità e intensità, a
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quella causata dalla tortura, dalla tratta o dalla schiavitù, ove è noto che l’intervento sanzionatorio è richiesto da altre convenzioni internazionali e dalle
fonti europee (30).
La dignità, dunque, non viene circoscritta in un contesto dichiarativo,
ma costituisce un macro bene supremo, offeso da fatti che non incidono solo sul diritto alla vita ed all’integrità della persona, ma sulla stessa libera autodeterminazione dell’individuo.
Non è certo questa la sede per poter riportare l’ampia e stimolante discussione sugli aspetti della «dignità umana» nell’intero orizzonte del diritto penale (31).
Ai fini del presente lavoro pare più opportuno seguire determinate direttive argomentative. La dignità, infatti, non pone problemi particolari se
riferita a una vittima determinata e se è connessa ad alcune particolari modalità della condotta. Si pensi, facendo proprie le parole di autorevole dottrina, «alle nuove forme di riduzione in schiavitù non più basate su una vera
e propria limitazione assoluta della libertà personale ma sulla creazione di
uno stato di soggezione che, pur lasciando margini di libertà, impedisce comunque alla vittima asservita e strumentalizzata la piena e libera esplicazione della propria personalità» (32). L’individuazione del «bene» dignità porrebbe viceversa problemi se venisse valorizzato a prescindere da un contatto diretto e significativo con la persona, quando cioè risulterebbe essere un
( 30 ) Per molteplici spunti anche con riferimento alla moltiplicazione della costellazione
dei valori che non fa più riferimento ad una concezione monistica dell’etica, bensì ad un pluralismo etico, vedi i contributi raccolti in Meccarelli-Palchetti-Sotis (cur.), Il lato oscuro
dei diritti umani: esigenze emancipatorie e logiche di dominio nella tutela giuridica dell’individuo, Madrid, 2014. Sul concetto di «dignità umana» vedi, in particolare il contributo di Pulitanò, Diritti umani e diritto penale, ivi, 81 ss., in specie 87, che richiama il seguente passo di
Ch. Taylor, La politica del riconoscimento, in Habermas-Ch. Taylor, Multiculturalismo,
Milano, 2006, 44: «sia il Cristianesimo che la filosofia politica dell’Illuminismo, ognuno su di
un fondamento diverso, hanno profondamente fondato e assicurato la dignità umana come
pilastro di una società civilizzata e di uno stato di diritto. Ha qui radice una visione del liberalismo per la quale la dignità umana consiste in larga misura nell’autonomia, cioè nella capacità di ogni persona di farsi da sé un’idea della vita buona». Cfr. altresì Fiandaca, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra laicità e postsecolarismo, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2007, 557 ss.; Hassemer, Argomentazione con concetti fondamentali. L’esempio della dignità
umana, in Ars interpretandi, 2005, 125 ss.
( 31 ) Per una visione cauta della dignità, al fine di evitare un ricorso ad essa puramente retorico ed opportunistico ma, al contempo, per difendere quello che è ritenuto uno dei pochi
valori comuni nell’attuale mondo di pluralismo filosofico, si rinvia, senza pretesa di esaustività, a: Birnbacher, Ambiguities in the Concept of Menschenwürde, in Bayertz (ed.), Sanctity
of Life and Human Dignity, Dordrecht, Boston, 1996, 107 ss.; Hassemer, Argomentazione,
cit., 125 ss. Fiandaca, Considerazioni, cit., 546 ss. Stimolanti anche gli spunti relativi al mancato rispetto della dignità da parte delle teorie retribuzionistiche. Per una ricostruzione vedi
Merle, Strafenaus Respektvorder Menschenwürde, Berlin, 2007.
( 32 ) Pulitanò, Diritti umani e diritto penale, cit.
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valore astratto determinando «una idealizzazione dell’offesa con conseguenti rischi di manipolazione» (33).
L’assunto per cui la dignità non viene circoscritta in un contesto dichiarativo è facilmente rinvenibile, a livello europeo, anche nella direttiva 98/44
sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, che esclude
dalla brevettabilità «il corpo umano, in ogni stadio della sua costituzione e
del suo sviluppo, comprese le cellule germinali, la semplice scoperta di uno
dei suoi elementi o di uno dei suoi prodotti, nonché la sequenza o sequenza
parziale di un gene umano», nonché la clonazione ed «i procedimenti la cui
applicazione reca pregiudizio alla dignità umana» (34).
Il titolo I della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (35),
inoltre, è dedicato alla tutela della dignità umana, quale diritto inviolabile e
nella cui sfera possono essere attratti il diritto alla vita ed il diritto all’integrità fisica e psichica della persona, offesi gravemente da fenomeni quali la
schiavitù e la tratta di essere umani.
Lo stesso Trattato di Lisbona, all’art. 1, enuncia i valori fondativi dell’Unione partendo proprio dal rispetto per la dignità umana, cui si aggiungono libertà, democrazia, uguaglianza e diritti umani quali tratti caratterizzanti comuni in una società pluralista, che promuove i valori della non discriminazione, della tolleranza, della giustizia, della solidarietà e della parità
tra uomini e donne.
La mancata menzione espressa della dignità nella Convenzione europea
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), invece, non deve
trarre in errore, in quanto la dignità umana rimane sempre sullo sfondo e
viene richiamata nel protocollo n. 13 relativo all’abolizione della pena di
morte, in cui si legge: «Convinti che il diritto di ogni persona alla vita sia un
valore fondamentale in una società democratica, e che l’abolizione della pena di morte sia essenziale per la protezione di tale diritto e per il pieno riconoscimento della dignità inerente a tutti gli esseri umani».
La dignità dunque – nella sua accezione più ampia – costituisce il fondamento dei diritti umani e gode di una funzione di valore e di principio
che, nel contesto oggetto di studio, assume rilevanza sul piano della sua
operatività nel «diritto penale del traffico di organi», ossia non quale «bene» intangibile non suscettibile di bilanciamento, bensì come punto di rife-
( 33 ) Ibidem.
( 34 ) Cfr., anche con riferimento all’individuazione del nuovo bene «genoma umano», Vesto, I beni. Dall’appartenenza egoistica alla fruizione sociale, Torino, 2014, 421 ss.
( 35 ) L’art. 1 della Carta sancisce solennemente che «la dignità umana è inviolabile. Essa
deve essere rispettata e tutelata».
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rimento dal quale partire per portare l’attenzione al modo con cui viene
operato un bilanciamento.
Il compromesso raggiunto nell’elaborazione del testo definitivo della
Convenzione contro il traffico di organi colpisce le pratiche di commercializzazione del corpo e tutela indirettamente le parti deboli di tale sistema,
assumendo il ruolo di propulsore per la protezione del nucleo essenziale e
inviolabile di ogni essere umano, da rispettare sia come individuo che nella
sua appartenenza alla specie umana e alla società (36).
È vero che il pathos della dignità potrebbe aiutare meglio a giustificare
la proibizione di talune pratiche, rifiutate dalla componente sociale anche
su base emotiva o religiosa (37).
Ma, in questo caso, se la dignità vien in gioco nella sua concezione laico
razionalistica, si tratta di affrontare non tanto la questione sul «dominio del
proprio corpo» rispetto allo schema logico-giuridico che domina tematiche, anch’esse sensibili, quali quelle del fine vita o della mutilazione genitale femminile (38), bensì quella della strumentalizzazione a fine di lucro e
commercializzazione di parti del corpo umano che sono oggetto di scambio
al di fuori dei limiti determinati del consenso e in violazione dei principi di
altruità, generosità e solidarietà che ispirano la Convenzione.
Ma è proprio la «disponibilità del corpo», basata sul consenso, che costituisce un elemento critico della incriminazione fulcro che regge l’impianto della Convenzione.
6. – Uno degli elementi caratterizzanti l’incriminazione dell’illecita rimozione di organi umani è costituito proprio dall’assenza di un consenso libero, informato e specifico del donatore (vivo o deceduto) o, in caso di donatore deceduto, in violazione della legge dei singoli Stati, oppure nell’offerta o ricezione di un corrispettivo economico per il donatore o una terza
parte.
La mancanza di un consenso libero, informato e specifico, che determina la rilevanza penale della rimozione dell’organo umano, richiama il principio generale della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina e del protocollo addizionale sui trapianti di organi e tessuti di origine
( 36 ) Principi espressi dalla stessa Convenzione di Oviedo del 1997, per la protezione dei
diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina.
( 37 ) Cfr. Fiandaca, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra laicità e ‘post-secolarismo’, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 546 ss.
( 38 ) Cfr. Seminara, La dimensione del corpo nel diritto penale, cit., 189 ss. Per alcuni riferimenti alle pratiche di mutilazione genitale femminile vedi retro, nota 29.
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umana (39). In particolare, l’art. 13 del protocollo dispone che un organo o
tessuto può essere prelevato da un donatore vivente soltanto se è stato informato in modo esauriente e specifico e ha fornito il proprio consenso liberamente, per scritto o dinanzi a un organismo ufficiale. La persona interessata è libera di revocare il proprio consenso in qualsiasi momento, fermi
restando i limiti posti dalle disposizioni sulla protezione delle persone incapaci di dare il proprio consenso (art. 14) e sul prelievo di cellule da un donatore vivente (art. 15). Con riferimento alle persone decedute, invece,
l’art. 17 ammette il prelievo se il consenso o le autorizzazioni richieste dalla
legge sono state ottenute. In ogni caso il prelievo non deve essere effettuato
se la persona deceduta vi si era opposta (40).
Il consenso, dunque, nelle intenzioni dei redattori deve essere chiaro e
riguardare uno specifico ed identificato organo. In caso di persona deceduta esso può essere anche di carattere più generale. In assenza di una qualsiasi forma di manifestazione del consenso devono però necessariamente essere applicate le disposizioni nazionali, che possono variare da Stato a Stato
(41).
Il rischio di corto circuito non è di secondo piano. La Convenzione sul
traffico di organi, infatti, si limita ad indicare alcuni elementi minimi del
consenso, la cui disciplina statale può variare notevolmente da Paese a Paese e alla quale viene lasciata la determinazione sulla stessa capacità di esprimere un valido consenso previa, è lecito presumere, una dettagliata informazione al donatore sui rischi e sulle conseguenze cui potrebbe andare incontro, in conformità al diritto del paziente all’autodeterminazione nella
scelta delle procedure sanitarie finalizzate alla salvaguardia della sua salute
(42).
In Italia le deroghe all’art. 5 c.c. effettuate con leggi ordinarie e il superamento delle questioni, pur complesse, del rapporto con la manifestazione
( 39 ) Vedi punto 32 del rapporto esplicativo, nonché il protocollo aggiuntivo sui trapianti
di orgnai e tessuti di origine umana concluso a Strasburgo il 24.1.2002.
( 40 ) Sulla Convenzione di Oviedo ed i suoi protocolli vedi Bompiani, I protocolli alla
Convenzione. Evoluzione dell’attività redigente del Comitato Direttivo per la bioetica del Consiglio d’Europa, in Bioetica, 4, 1998, 553 ss.; Piciocchi, La Convenzione di Oviedo sui diritti
dell’uomo e la biomedicina: verso una bioetica europea?, in Dir. pub. comp. europeo, 2001, III,
1301 ss.
( 41 ) Sui requisiti e le caratteristiche che deve avere il consenso informato in Italia, tenendo conto anche dell’entrata in vigore della c.d. legge Balduzzi, vedi Pezzano (cur.), La responsabilità civile medica dopo la Legge Balduzzi, Torino, 2014, in particolare il contributo di
Cecconi, Il consenso informato alle cure mediche, ivi, 67 ss.
( 42 ) Con riferimento al nostro ordinamento basti il rinvio, in questa sede, a Montanari
Vergallo, Il rapporto medico paziente. Consenso e informazione tra libertà e responsabilità,
Milano, 2008, in particolare, per quanto riguarda i trapianti, 375 ss.
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del consenso ed il depotenziamento dell’art. 50 c.p. (43) confermano che la
prima disposizione non costituisce un limite invalicabile precludente il riconoscimento dei principi costituzionali di autodeterminazione e solidarietà, ispiratori della stessa incriminazione di cui all’art. 4 della Convenzione.
La sostituzione del concetto di «integrità fisica» con quello di «salute»
44
( ), quale stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non ridotto
quindi alla semplice assenza di malattia o infermità (45) e tutelato dall’art. 32
Cost., ammette che l’individuo, ancor prima dell’entrata in vigore delle leggi in materia di trapianti, possa, tramite la manifestazione del consenso, che
ha efficacia scriminante, disporre di parti del proprio corpo, purché rimanga fisicamente e socialmente capace di estrinsecare la sua attività ovvero
quando la sua funzione nell’economia della vita non è impedita. Il vantaggio alla salute di un altro individuo realizza quella solidarietà sociale, che
costituisce il punto di partenza della Convenzione, e rappresenta al contempo espressione della libertà dell’individuo.
Ulteriori elementi critici possono riguardare poi, da un lato, la c.d. corruzione attiva e passiva nel traffico di organi, che potrebbe coinvolgere staff
medici ed organismi sanitari e, dall’altro lato, il rapporto fra il traffico d’organi e le disposizioni in materia di tratta (46).
6.1. – La fonte maggiormente importante in materia di trapianto di organi è rappresentata dalla l. n. 91 del 1999, che ha istituito il Centro Nazionale Trapianti, con il compito di coordinare l’attività di donazione, prelievo
e trapianto di organi, tessuti e cellule.
Vi sono ulteriori fonti normative, anche più risalenti, che disciplinano il
trapianto da persona vivente e da cadavere, fra cui la l. n. 235 del 1957 (sui
prelievi di parti di cadavere a scopo di trapianto terapeutico); la l. n. 458 del
1967 (sul trapianto del rene tra persone viventi); la l. n. 644 del 1975 (sui
prelievi di parte del cadavere a scopo di trapianto terapeutico); la l. n. 301
del 1993 (sui prelievi ed innesti di cornea); la l. n. 483 del 1999 (sul trapianto parziale di fegato) e la più recente l. n. 167 del 2012 (sul trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino tra persone viventi).
Tutti questi testi legislativi sono caratterizzati dalla comune tendenza
( 43 ) Cfr. Seminara, cit., 208 ss.
( 44 ) Cfr. Seminara, cit., 215 ss.
( 45 ) Cfr. già Santosuosso, Dalla salute pubblica all’autodeterminazione: il percorso del
diritto alla salute, in Barni-Santosuosso, Medicina e Diritto. Prospettive e responsabilità della professione medica oggi, Milano, 1995, 75 ss. Vedi ampiamente Palermo Fabbris, Diritto
alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale: profili problematici del diritto all’autodeterminazione, Padova, 2000.
( 46 ) Vedi infra, 6 e 7.
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ad ampliare l’ambito di liceità del trapianto, prevedendo una rigida regolamentazione con riferimento sia alle strutture e agli aspetti organizzativi, sia
alle norme di sicurezza dei trapianti e alle modalità della formulazione del
consenso.
Sul piano penalistico l’apparato sanzionatorio è davvero ridotto.
La citata legge del 1967 dopo aver sancito, all’art. 6, che qualsiasi pattuizione privata che preveda un compenso in denaro o altra utilità in favore
del donatore, per indurlo all’atto di disposizione e destinazione è nulla e
non produce effetti, prevede un delitto all’art. 7, che punisce – con la sanzione cumulativa della reclusione da tre mesi ad un anno e della multa da 154
a 3.098 euro – chiunque a scopo di lucro svolge opera di mediazione nella
donazione di un rene.
Risulta essere maggiormente articolato l’apparato sanzionatorio previsto dalla disposizione fondamentale in materia di trapianti, ossia la l. n. 91
del 1999, la quale prevede tre delitti, oltre a specifiche sanzioni amministrative.
Il primo delitto, previsto dall’art. 22, comma 3, punisce chi si procuri, a
scopo di lucro, un organo o un tessuto prelevato da una persona deceduta,
ovvero chi ne fa commercio.
Il secondo delitto, invece, di cui al comma 4 dello stesso articolo, punisce chi procura, senza scopo di lucro, un organo o un tessuto prelevato abusivamente da un soggetto deceduto.
Entrambe le fattispecie prevedono che, se il fatto è commesso da un
esercente una professione sanitaria, venga applicata la sanzione accessoria
dell’interdizione, rispettivamente perpetua e temporanea (47).
Il nuovo art. 22 bis, invece, introdotto con la l. n. 228 del 2012 (48), sanziona «chiunque a scopo di lucro svolge opera di mediazione nella donazione di organi da vivente è punito con la reclusione da tre a sei anni e con la
multa da euro 50.000 a euro 300.000. Se il fatto è commesso da persona che
esercita. una professione sanitaria alla condanna consegue l’interdizione
perpetua dall’esercizio della professione».
( 47 ) Sul piano sanzionatorio, la prima fattispecie prevede la pena cumulativa della reclusione (da 1 a 5 anni) e della multa, mentre la seconda la reclusione fino a 2 anni.
( 48 ) La l. n. 228 del 2012 («Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato») recepisce la direttiva 2010/53/UE del 7.7.2010, relativa alle norme di qualità e sicurezza degli organi umani destinati ai trapianti. Gli Stati membri dovrebbero provvedere affinché le donazioni di organi di donatori deceduti e viventi siano volontarie e non remunerate (art. 13, comma 1) ed affinché il reperimento degli organi sia effettuato senza fini di
lucro (comma 4 dello stesso articolo). Vedi Tigano, Il Senato approva il disegno di legge sulla
riforma dei delitti di traffico di organi prelevati da vivente, in Diritto penale contemporaneo,
23.3.2015.
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Quest’ultima disposizione colma, in effetti, una lacuna del nostro ordinamento, che non conosceva, sino al 2012, un delitto di mediazione lucrativa nella donazione di organi ex vivo diversi dal rene.
Con l’introduzione di questa fattispecie di carattere «generale» che punisce la mediazione nella donazione di organi da vivente il legislatore italiano non ha contemporaneamente provveduto ad abrogare la preesistente figura delittuosa speciale prevista dall’art. 7 della citata l. n. 458, aprendo in
tal modo, di fatto, la questione inerente al concorso apparente tra le due incriminazioni (49).
L’art. 22 bis prevede altresì una sanzione amministrativo-pecuniaria per
la pubblicizzazione, per fini di profitto finanziario, della richiesta o dell’offerta di organi umani (comma 2), e per la condotta di accesso abusivo a sistemi che rendano conoscibile l’identità dei donatori e dei ricettori o ne utilizzi i dati (comma 3).
L’apparato sanzionatorio viene completato dal comma 1 dell’art. 22
della l. n. 91 del 1999, che prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, nel caso di violazioni di discipline organizzative relative alle strutture per i prelievi (art. 13),
alle strutture per la conservazione dei tessuti prelevati (art. 15) ed alle strutture per i trapianti (art. 16).
Recentemente è stato presentato il d.d.l. S-922 («Modifiche al codice penale e alla l. 1o.4.1999, n. 91, in materia di traffico di organi destinati al trapianto, nonché alla l. 26.6.1967, n. 458 in materia di trapianto del
rene tra persone viventi») che prevede l’introduzione nel codice penale
del nuovo art. 601 bis («Traffico di organi prelevati da persona vivente»)
(50).
( 49 ) Per un accenno a tali questioni vedi Tigano, Il Senato approva, cit.
( 50 ) Il titolo originario del disegno di legge era «Modifiche al codice penale e alla l.
o
1 .4.1999, n. 91, in materia di traffico di organi destinati al trapianto», d’iniziativa dei senatori Maurizio Romani, Giarrusso, Simeoni, Fattori, Fucksia, Buccarella, Taverna, Airola, Santangelo, Cioffi, De Pietro, Casaletto, Orellana, Bignami, Mussini, Gambaro, Bencini, Molinari, Gaetti, Cappelletti, Moronese, Mangili, Campanella, Mastrangeli, Vacciano, Bertorotta,
Serra, Morra, Bulgarelli, Battista e Bocchino, comunicato alla Presidenza il 4.7.2013. Cfr. in
merito la breve introduzione al testo del d.d.l. di Tigano, Il Senato approva, cit., che riporta
anche l’originaria stesura dei primi due commi dell’art. 601 bis, i quali avrebbero dovuto prevedere l’incriminazione della partecipazione alle associazioni finalizzate al traffico, alla vendita o alla donazione illecita di organi destinati al trapianto (reclusione da sette a sedici anni e
multa da 50.000 a 500.000 euro) e della costituzione, della promozione, della dirigenza, dell’organizzazione, del finanziamento di tali associazioni (reclusione da otto a venti anni e multa da 100.000 a 500.000 euro). I commi successivi, invece, avrebbero dovuto punire con la reclusione da otto a venti anni e la multa da 50.000 a 300.000 euro per chiunque organizzasse o
propagandasse viaggi finalizzati alle attività illecite descritte dal primo comma e per chi pubblicizzasse o diffondesse annunci finalizzati alla commercializzazione di organi. L’art. 2 del
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Il testo del d.d.l. è stato oggetto di diversi emendamenti retti, in particolare, dall’obiettivo di reprimere la circolazione clandestina degli organi, in
particolare se prelevati da persona vivente.
Il testo proposto dalla Commissione e trasmesso al Senato è stato approvato il 4.3.2015 con una nuova formulazione dell’art. 601 bis c.p., diretta ad ampliare l’area di punibilità a tutte le fasi di commercializzazione degli organi fra viventi (51) chiudendo, in tal modo, il cerchio aperto dalle previsioni di cui agli artt. 22 e 22 bis della l. n. 91 del 1999. Il comma 2 del nuovo art. 601 bis, inoltre, punisce le attività di propaganda/pubblicizzazione
del traffico di organi, nonché di organizzazione e propaganda del cd. «turismo dei trapianti» (52).
Il d.d.l. attende ora di passare all’esame della Camera dei Deputati.
Vi è subito da rilevare che la formulazione della nuova fattispecie incriminatrice non è esente da critiche, soprattutto con riferimento alla scelta
delle condotte penalmente rilevanti e alla loro descrizione.
Tali critiche possono essere meglio comprese rileggendo le disposizioni
e le proposte interne alla luce della Convenzione del Consiglio d’Europa.
6.2. – Rispetto all’articolato quadro sanzionatorio previsto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa il nostro ordinamento dispone, de jure
condito, di uno scarno apparato penalistico diretto a punire principalmente
chi si procura, fa commercio e svolge opera di mediazione di organi.
Si tratta di fattispecie tutt’altro che vitali (53), soprattutto grazie al com-
d.d.l., sempre nella sua originaria formulazione, mirava ad inasprire le sanzioni previste dagli
artt. 22, comma 3 e 4, e 22 bis della l. n. 91 del 1999.
( 51 ) La fattispecie, infatti, punisce con la reclusione da tre a dodici anni e con la multa da
50.000 a 300.000 euro, nonché con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dall’esercizio della professione qualora soggetto attivo sia l’esercente una professione sanitaria, «chiunque, illecitamente, commercia, vende, acquista ovvero, in qualsiasi modo e a qualsiasi titolo,
procura o tratta organi o parti di organi prelevati da persona vivente».
( 52 ) La disposizione sanziona con la reclusione da tre a sette anni e con la multa da 50.000
a 300.000 euro «chiunque organizza o propaganda viaggi ovvero pubblicizza o diffonde, con
qualsiasi mezzo, anche per via informatica o telematica, annunci finalizzati al traffico di organi o parti di organi di cui al primo comma». È prevista altresì l’abrogazione dell’illecito amministrativo di cui al comma 2 dell’art. 22 bis, che attualmente sanziona la pubblicizzazione della richiesta o dell’offerta di organi.
( 53 ) In giurisprudenza si annoverano pochi precedenti. Per uno di questi vedi Cass. pen.,
sez. II, 25.2.1999, n. 993, in Foro it., 2000, II, 281 ss. (con nota di La Spina). Un medico italiano denunciò un cittadino americano, il quale a mezzo della posta elettronica aveva inviato a
vari indirizzi sparsi nel mondo un messaggio in cui promuoveva un vero e proprio servizio di
traffico di organi tramite cui era possibile organizzare un trapianto immediato e cure postoperatorie fuori dagli Stati Uniti, in ospedali moderni con medici ed infermiere di provata
esperienza. A seguito di tale denuncia, il Procuratore della Repubblica di Roma dispose indagini, nominando alcuni consulenti che riuscirono a prendere contatti con il cittadino ameri-
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plesso sistema di controlli ed alle puntuali discipline extrapenali in materia
di trapianto di organi (54).
In prospettiva de jure condendo, il nuovo d.d.l. approvato dal Senato
tenta di ampliare la puniblità ad attività connesse o legate alla commercializzazione e/o intermediazione, compresa la pubblicizzazione, oltre che la
propaganda ed organizzazione del c.d. «turismo dei trapianti».
Anzitutto la Convenzione mira a colpire il «sistema traffico di organi»,
chiedendo agli Stati di prevedere come reato condotte maggiormente determinate, quali: l’illecita rimozione di organi, l’uso illecito di organi ed il
loro impianto in violazione delle regole interne o dei principi fondamentali
in materia di trapianti. Ad esse si aggiunge la criminalizzazione di attività
prodromiche e di natura «commerciale» o di «intermediazione», oltre che
la previsione della responsabilità (da reato) degli enti.
L’ordinamento italiano, invece, anche considerando la concreta prospettiva de jure condendo che prevede l’introduzione del nuovo art. 601 bis
c.p., focalizza l’incriminazione sul commercio, la vendita, l’acquisto, il procurare o la tratta di organi prelevati da persona vivente, intendendo sanzionare
altresì le forme di pubblicizzazione di soggetti disposti a donare e/o ricevere, nonché la propaganda e l’organizzazione del «turismo dei trapianti».
Se la punibilità delle condotte di intermediazione è condivisibile ed in
linea con le previsioni della Convenzione, maggiormente critica è l’incriminazione della vendita e dell’acquisto di organi, che potrebbe colpire direttamente anche i «soggetti deboli» del sistema, ossia il donatore ed il beneficiario che, seppur spinti da motivi diversi, hanno in comune l’alto coefficiente di vulnerabilità dovuto, rispettivamente, alle condizioni di povertà o
di disagio sociale ed economico ed alla necessità di trovare un organo «sal-
cano. Nel corso di tali contatti, furono chieste a quest’ultimo istruzioni concrete per l’effettuazione di un trapianto di reni; e l’indagato chiarì che avrebbe mandato la documentazione
informativa e alcuni moduli da compilare e che, con la restituzione di detta documentazione, il paziente avrebbe dovuto inviare la somma di 10.000 dollari statunitensi; mentre per
l’intervento – da eseguire in un centro clinico fuori dagli Stati Uniti d’America – sarebbe
stato necessario pagare l’ulteriore somma di 115.000 dollari. La decisione della Cassazione
ha avuto ad oggetto principalmente le questioni inerenti alla competenza territoriale ed alla
consumazione del reato, in questo ultimo caso ritenendo che il reato di cui all’art. 7 l. n. 458
del 1967 si consumi nel momento in cui l’agente prende contatto con il donatore, a meno
che non si versi in ipotesi di reato impossibile, per l’inesistenza del soggetto sul quale effettuare il trapianto.
( 54 ) Cfr. per un approfondimento Picozzi, Il trapianto di organi. Realtà clinica e questioni etico-deontologiche, Milano, 2010; Armanini-Di Nauta, Etica dei trapianti di organi. Per
una cultura della donazione, Milano, 1998. Le linee guida ed i protocolli attualmente esistenti
in Italia sono reperibili alle seguenti url: http://www.trapianti.salute.gov.it/;
http://www.trapianti.salute.gov.it/cnt/cntLineeGuida.jsp?id=35&area=cnt-generale&menu=
menuPrincipale&sotmenu=normativa&label=norm.
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va vita» (55). È opportuno osservare, d’altro canto, che tali fattori di vulnerabilità non possono essere posti sul medesimo piano. Il contesto sociale ed
economico del donatore, infatti, è un elemento contingente da lui non dominabile e voluto, mentre il beneficiario potrebbe sfruttare proprio tale
condizione per ottenere l’organo. Pertanto sarebbe eventualmente (maggiormente) coerente con lo spirito della Convenzione punire solo quest’ultimo, se consapevolmente «sfrutta» la situazione di povertà o di disagio in
cui si trova il donatore, ovvero è a conoscenza della provenienza dell’organo.
In secondo luogo, il riferimento alla «tratta» si inserisce in un contesto
in cui il codice penale ha subito recenti modifiche tramite il d. lgs. 4.3.2014,
n. 24, di attuazione della direttiva 2011/36/ue, relativa alla prevenzione e
alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime,
che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI, con l’obiettivo di rafforzare la protezione assicurata dal nostro ordinamento alle c.d. persone vulnerabili.
La novella ha, da un lato, modificato l’art. 600 c.p. («Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù»), il quale oggi punisce con la reclusione da
otto a venti anni chiunque eserciti su una persona poteri corrispondenti a
quelli del diritto di proprietà, ovvero riduca o mantenga una persona in uno
stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o
sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di
organi (56).
Dall’altro lato, sono state apportate modifiche anche all’art. 601 c.p.
(«Tratta di persone») che, nella sua attuale formulazione, sanziona con la reclusione da otto a venti anni chiunque recluta, introduce nel territorio dello
Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l’autorità sulla
persona, ospita una o più persone che si trovino nelle condizioni di cui all’art. 600, ovvero, realizzi le stesse condotte su una o più persone, mediante
inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica o di necessità, o me-
( 55 ) In verità vi sono ulteriori complicazioni sul piano applicativo, soprattutto se si considera l’intenzione, da parte del beneficiario o dei suoi famigliari, di disattendere le liste di attesa predisposte presso il Centro Nazionale Trapianti e/o di sfruttare proprio le vulnerabilità
del donatore, da cui possono derivare elevati rischi per la salute dei soggetti coinvolti.
( 56 ) Ex art. 600 c.p. la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo
quando la «condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazionedi vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di
necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona».
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diante promessa o dazione di denaro o di altri vantaggi alla persona che su
di essa ha autorità, al fine di indurle o costringerle a prestazioni lavorative,
sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportano lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi
(57).
Queste ultime incriminazioni, lette sistematicamente con quelle dirette
a contrastare il traffico di organi e la commercializzazione di parti del corpo
umano (eventualmente integrate dal nuovo art. 601 bis c.p., se il d.d.l. verrà
approvato dalla Camera dei Deputati), da un lato rafforzano il sistema di
tutela penale della libertà e della dignità umana. Dall’altro lato, si assiste,
purtroppo, alla creazione di un nuovo labirinto normativo che potrebbe
impegnare l’interprete in funambolici esercizi esegetici per individuare i limiti applicativi delle fattispecie, nonché i loro rapporti, soggetti ad interferenze reciproche.
Una prima distinzione riguarda comunque l’oggetto del reato, ossia la
«persona» nel caso degli artt. 600 e 601 c.p. e non, invece, l’organo o parte
di esso. Il «sottoporsi al prelievo di organi», infatti, integra l’oggetto della
costrizione o la finalità delle condotte previste dall’art. 601 c.p. («al fine di
indurle o costringerle [...] a sottoporsi al prelievo di organi»). Ne risulta una
stratificazione di norme, fra loro collegate, la cui ratio è diversa e in cui la
nozione di tratta è stata ampliata tanto da comprendere nella finalità di
sfruttamento, che accomuna le diverse modalità della condotta delineate all’art. 2 par. 1 della direttiva 2011/36/ue, anche il prelievo di organi, che
non era previsto nella decisione-quadro 2002/629/GAI, mentre è stato introdotto come aggravante dalla l. 228/2003 (58).
L’art. 2 par. 3 della citata direttiva, inoltre, ha specificato che lo sfruttamento comprende, come minimo, non solo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati,
compreso l’accattonaggio, ma anche la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù, lo sfruttamento di attività illecite o il prelievo di organi.
( 57 ) Su queste disposizioni vedi la nota illustrativa di Montanari, L’attuazione italiana
della direttiva 2011/36/UE: una nuova mini-riforma dei delitti di riduzione in schiavitù e di
tratta di persone, in Diritto penale contemporaneo, 20.3.2014. Per una prospettiva anche storica vedi Picotti, Nuove forme di schiavitù e nuove incriminazioni penali, cit., 15-35; Picotti,
La lutte contre le trafic de personnes, cit. 1-10; Picotti, I delitti di tratta e schiavitù. Novità e
limiti della legislazione italiano, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2007, 1-21. Più di recente, per una sintesi, sul piano storico-sociologico oltre che normativo, vedi Garreffa, Accoglienza, assistenza e protezione delle persone migranti. Criticità e potenzialità emerse dagli
studi e dalla normativa vigente, Milano, 2015.
( 58 ) Cfr. Sicurella, Prosegue l’azione dell’Unione europea nella lotta alla tratta di esseri
umani. Prima lettura della direttiva 2011/36/UE del 5 aprile 2011, in Diritto penale contemporaneo, 25.7.2011.
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In questi casi, ex par. 4 del medesimo articolo, il consenso della vittima
della tratta allo sfruttamento, programmato o effettivo, è irrilevante in presenza della minaccia dell’uso o dell’uso stesso della forza o di altre forme di
coercizione, del rapimento, della frode, dell’inganno, dell’abuso di potere o
della posizione di vulnerabilità o dell’offerta o l’accettazione di somme di
denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità
su un’altra, a fini di sfruttamento.
In questo senso il traffico di organi viene considerato una «componente» di un fenomeno molto più ampio, nonché un elemento nella struttura
delle fattispecie penali di tratta e di riduzione o mantenimento in schiavitù
o in servitù.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sul traffico di organi, invece, è
incentrata sul fenomeno – sistema del traffico e del commercio di organi,
comprese le attività di intermediazione o di reclutamento a scopo di lucro,
in cui lo «sfruttamento» può avere ad oggetto l’approfittamento dello stato
di necessità in cui versano donatori e beneficiari, dovendosi comunque evidenziare, come è già stato anticipato, che i secondi possono trovarsi su un
piano diverso rispetto ai primi.
Pertanto la tutela penale della persona e dei suoi diritti fondamentali,
nei rapporti tratta – traffico di organi, risulta essere a struttura piramidale
nell’ambito di cerchi concentrici, se si considera il traffico di organi quale
componente del più ampio fenomeno «tratta». Viceversa essa risulta assiomatica se il primo è indipendente, pur potendo essere oggetto della costrizione o della finalità dello sfruttamento. In un sistema assiomatico indipendente, quindi, il traffico di organi non può essere dedotto dagli altri assiomi
e non ne costituisce una premessa necessaria. Questa seconda costruzione
teorica pare essere maggiormente adattabile al complesso sistema fenomenico e giuridico e può essere utilizzata, quale «strumento di traduzione»,
per interpretare la Convenzione.
In questo quadro una scelta del nostro legislatore, contenuta nel d.d.l.
S-922, pienamente condivisibile è quella di punire attività prodromiche
non solo alle fasi di trapianto, ma anche alle attività di mediazione, quali
l’organizzazione o la propaganda di viaggi ovvero la diffusione o la pubblicità, con qualsiasi mezzo (anche tramite siti web o, in generale, Internet), di annunci finalizzati al traffico di organi o parti di organi, oggi sanzionata dal
comma 2 dell’art. 22 bis l. n. 91 del 1999 come mero illecito amministrativo.
Nel caso di propaganda, diffusione e pubblicità, l’utilizzo della rete, che
costituisce una canale globale di comunicazione anche anonima o di difficile tracciabilità, accentua le potenzialità diffusive di informazioni ed annunci finalizzati all’organizzazione di viaggi o a mettere in contatto donatori,
intermediari e beneficiari.
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ARTICOLI
Nella stessa direzione si è già orientata la direttiva 2010/53/ue, in materia di trapianto di organi, che ha previsto il divieto di pubblicità riguardante la necessità o la disponibilità di organi nei casi in cui essa abbia come fine
l’offerta o la ricerca di un profitto finanziario o di un vantaggio analogo
(art. 13, comma 3) (59).
L’art. 11 della Convenzione prevede la responsabilità degli enti e impone agli Stati di adottare le misure necessarie affinché la persona giuridica possa rispondere per i reati da essa previsti, se commessi a suo beneficio da una persona fisica che agisce individualmente o quale parte di
un suo organo, purché abbia una posizione di leadership basata sul potere di rappresentanza, sull’autorità di adottare decisioni per conto della
persona giuridica o di esercitare su di essa un controllo. La persona giuridica deve essere altresì considerata responsabile quando il difetto di controllo ha reso possibile la commissione di uno dei reati previsti dalla Convenzione.
La disposizione, però, lascia liberi gli Stati di scegliere la natura della responsabilità (civile, penale o amministrativa), ferma restando la responsabilità penale della persona fisica autore del reato.
Il legislatore italiano si trova di fronte, quindi, ad alcune scelte cruciali.
Se decidesse di inserire i delitti di traffico di organi – oggi previsti dagli artt.
22, comma 3 e 4, 22 bis, comma 1, l. n. 91/1999, e in prospettiva futura, 601
bis c.p. – tra i reati-presupposto della responsabilità delle persone giuridiche
ex d. lgs n. 231 del 2001 si troverebbe a dover affrontare la questione relativa al campo applicativo del decreto che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, prevede che le sue disposizioni si applichino agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. La responsabilità è invece esclusa (comma 3) per lo Stato, per gli enti pubblici
territoriali, per gli altri enti pubblici non economici e per quelli che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (60).
( 59 ) Sul quadro futuribile che comprende le questioni relative all’inquadramento dell’attività pubblicitaria, quando essa assume la forma di una vera e propria istigazione al compimento del delitto di mediazione nella donazione di organi prelevati da vivente, vedi i rilievi di
Tigano, Il senato approva, cit.
( 60 ) Sulla responsabilità degli enti si rinvia in questa sede, senza pretesa di esaustività e
fra i contributi più recenti, a Paliero, Dieci anni di «corporate liability» nel sistema italiano: il
paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, in AA.VV., D.lgs. 231:
dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, in Le Soc., 2011, n. spec., in particolare
5 ss.; fra le opere monografiche cfr. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato.
Profili storici, dogmatici e comparatistici, Pisa, 2012; de Vero, La responsabilità penale delle
persone giuridiche, Milano, 2008; Guerrini, La responsabilità da reato degli enti, Milano,
2006; De Maglie, L’etica e il mercato, Milano, 2002. Cfr. anche, fra i volumi collettanei e le
curatele, Bassi-Epidendio, Enti e responsabilità da reato, Milano, 2006; Lattanzi (cur.),
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Da un lato il sistema del «traffico-commercio» di organi è retto anche
dai forti interessi economici perseguiti non solo da enti che gestiscono o organizzano attività sanitarie, ma anche da società o studi professionali che
ruotano attorno ad attività o prodotti sanitari, nonché da agenzie di viaggio
o associazioni dedite all’organizzazione di viaggi.
Dall’altro lato, alcuni illeciti non possono che qualificarsi come «propri», potendo essere compiuti solamente da personale specializzato, che
abbia una formazione medico-chirurgica oltre ad ulteriori altre specializzazioni. Si pensi alla rimozione illecita di un organo, al suo utilizzo, al suo impianto in violazione delle disposizioni normative statali o, ancora, ad alcune
procedure di conservazione o di preparazione dell’organo, che necessitano
di conoscenze mediche e/o infermieristiche oltre che di strutture fisiche ed
organizzative adeguate.
Si tratta, in sostanza, di figure che operano, almeno in Italia, all’interno
sia di strutture private accreditate presso il Servizio Sanitario Nazionale che
di enti ospedalieri pubblici. La disciplina prevista dal d. lgs. n. 231 può trovare applicazione per le strutture sanitarie private e gli enti ospedalieri a capitale misto, pubblico e privato, non per gli enti pubblici (61).
Questi ultimi, però, erogano servizi e dispongono di soggettività giuridica. Sulla loro natura si è anche pronunciata la giurisprudenza amministrativa, facendo leva sulla loro autonomia imprenditoriale, «che dovrebbe accomunarle ad organizzazioni private tipiche di attività a scopo di lucro, con
il fine istituzionale di perseguimento dei livelli essenziali di assistenza che,
invece, la legge assegna alle aziende sanitarie, in quanto enti organizzativi
sub regionali». Malgrado tali dubbi esse sono esonerate dall’applicazione
del d. lgs. n. 231, in quanto tecnicamente non qualificabili come enti pubblici economici (62).
Reati e responsabilità degli enti, Milano, 2010; Mongillo-Stile-Stile (cur.), La responsabilità da reato degli enti collettivi: a dieci anni dal d.lgs n. 231/2001. Problemi applicativi e prospettive di riforma, Napoli, 2013.
( 61 ) Vedi Cass. pen., II sez., 21.7.2010, n. 28699. La Corte ha ritenuto che «la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non sufficiente, all’esonero dalla disciplina in
discorso, dovendo altresì concorrere la condizione che l’ente medesimo non svolga attività economica». Ne deriva che non soltanto le strutture sanitarie private ma anche gli enti ospedalieri a capitale «misto», pubblico e privato, possono essere responsabili in base al d. lgs. 231/
2001. In dottrina basti il rinvio, in questa sede, a Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in Lattanzi (cur.), Reati e responsabilità, cit., 3 ss., in specie 34 ss. Cfr.,
anche per una prospettiva comparata con gli ordinamenti olandese, francese, belga, inglese e
statunitense Pavanello, La responsabilità penale delle persone giuridiche di diritto pubblico.
Societas publica delinquere potest, Padova, 2011.
( 62 ) Vedi T.a.r. Friuli Venezia Giulia, 22.4.2003, n. 159. Cfr. Pavanello, La responsabilità penale, cit., 290 ss.
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Vi è da rilevare che una parte della dottrina (63), proprio con riferimento alle aziende sanitarie locali o ospedaliere, ha affermato che la limitazione
di responsabilità si dovrebbe giustificare per almeno tre motivi principali:
1. per il tipo di attività che svolgono (non prettamente economica); 2. perché l’applicazione di sanzioni pecuniarie priverebbe l’ente di fondi vincolati al raggiungimento dei più alti livelli di assistenza; 3. per l’impossibilità di
ipotizzare un reato commesso nell’interesse o vantaggio dell’ente.
Al di là di questo dibattito, de jure condito l’oggetto del rimprovero che
si muove alla persona giuridica sta nel fatto di non aver adottato e implementato modelli di organizzazione idonei a prevenire efficacemente la commissione di certi reati. La responsabilità non è subordinata ad alcuna condizione sospensiva e non è sussidiaria o alternativa rispetto a quella della persona fisica; è altresì autonoma, in quanto non presuppone l’accertamento
della responsabilità (e dunque la condanna) della persona fisica che ha
commesso il reato presupposto.
Il modello di organizzazione, dunque, assume un ruolo fondamentale
64
( ). Per evitare un diverso trattamento fra gli enti pubblici economici e di
natura privata rispetto a quelli pubblici, in questo settore, il legislatore dovrebbe considerare l’opportunità di disciplinare in modo specifico i contenuti e le linee guida da seguire per obbligare, anche all’interno di organismi
sanitari pubblici, l’adozione di specifici modelli preventivi (65), di strumenti
di controllo e di procedure interne, che tengano soprattutto conto delle linee guida del Centro Nazionale Trapianti (66).
Deve trattarsi di un modello organizzativo non solo idoneo in concreto,
ma anche formalizzato, reso pubblico agli utenti e, allo stesso tempo, da in-
( 63 ) Così Rossi, Responsabilità «penale-amministrativa» delle persone giuridiche (profili
sostanziali), in Rossi (cur.), Reati societari, Torino, 2005, 520 ss. Cfr. anche Pavanello, La
responsabilità penale, cit., 291 ss., a cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti bibliografici.
( 64 ) Sul ruolo centrale del modello organizzativo vedi Piergallini, La struttura del modello di organizzazione, gestione e controllo del rischio-reato, in Lattanzi (cur.), Reati e responsabilità, cit., 153 ss.
( 65 ) La Regione Lombardia aveva previsto l’applicazione del modello organizzativo ex d.
lgs. 231 del 2001 ad alcune Asl e ad un’azienda ospedaliera, ritenendo opportuno, pur in difetto di applicazione di detto decreto, di mutuare il contenuto dei modelli per garantire una
migliore organizzazione e trasparenza dell’operato delle aziende. Vedi Previtali, L’applicazione del d.lgs. 231/2001 in sanità. Il caso delle aziende sanitarie e ospedaliere lombarde, in La
responsabilità amministrativa delle società e degli enti, Interventi, 2007 (http://
www.rivista231.it/).
( 66 ) Il Centro Nazionale Trapianti ha adottato molteplici linee guida per specifici ambiti
(ad esempio per la sala criobiologica, per il prelievo, la processazione e la distribuzione di tessuti a scopo di trapianto, per l’idoneità ed il funzionamento dei centri individuati dalle Regioni come strutture idonee ad effettuare trapianti di organi e di tessuti, per l’accertamento della
sicurezza del donatore di organi). Vedi http://www.trapianti.salute.gov.it/.
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tendersi quale pre-requisito indispensabile per poter svolgere le attività di
trapianto e tutte le altre attività ad esso connesse (comprese quelle preparatorie e/o conservative).
In altri termini, la volontà dell’ente dovrebbe trovare una forma di manifestazione sostanziale e formale, prevedendo e disciplinando organi di
controllo, protocolli di decisione, sistemi disciplinari, procedure che regolino flussi informativi verso l’Organismo di Vigilanza, obblighi di informazione, precisa individuazione delle aree di rischio, nonché linee guida in
materia di trapianti previste dal CNT (67). Purché non si confonda il principio di effettività con un rigido formalismo e ferma restando la possibilità di
prevedere una diversa forma di responsabilità per l’ente pubblico, di natura
civile o amministrativa, che si possa però combinare con forme di responsabilità degli organi dirigenti o preposti per l’omessa predisposizione, o il
mancato aggiornamento e controllo, di un modello di organizzazione idoneo a prevenire i reati di traffico di organi.
7. – «Ho una malattia renale policistica bilaterale. Mi serve un rene nuovo». Devo poter far affidamento su un efficiente sistema di trapianto di organi che possa garantire sicurezza e tutela della salute e della dignità umana.
In Italia l’attuale tutela penale in subiecta materia è gravemente lacunosa. Neppure le concrete prospettive de jure condendo, che vedono la luce
con il d.d.l. S-922, possono ritenersi soddisfacenti ed in linea con le previsioni della nuova Convenzione del Consiglio d’Europa contro il traffico di
organi.
Salvi i rilievi critici sulla formulazione del trattato, risultato di un lungo
e complesso compromesso, la Convenzione ha il merito di aver previsto
specifiche disposizioni penali, non solo per prevenire pregiudizi alla salute
individuale e pubblica, ma anche per tutelare la libertà e la dignità della
persona umana.
Il legislatore italiano dovrebbe ratificare la Convenzione ed attuare in
tempi rapidi le sue previsioni, in particolare gli artt. da 4 a 8, oltre all’art. 11
(in materia di responsabilità degli enti), per colpire il «sistema del traffico e
del commercio di organi», evitando di sanzionare donatori e beneficiari, ve-
( 67 ) Per uno sguardo alla situazione delle strutture sanitarie private accreditate ed ai rapporti con altre aziende ospedalierie vedi il contributo di Tosi, La Regione Sicilia »premia« le
strutture sanitarie private accreditate che adottano modelli di organizzazione ex D.lgs. 231/
2001, in Diritto penale contemporaneo, 27.7.2011, che richiama anche le esperienze di altre
regioni.
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ri e propri soggetti deboli della catena, la cui vulnerabilità è accentuata dallo stato di necessità in cui versano.
In primo luogo, nell’attuare l’art. 4 (illecita rimozione di organi) sarebbe opportuno disciplinare in modo specifico i requisiti e le modalità di manifestazione del «consenso», facendo tesoro dell’esperienza già maturata
nell’ambito delle attività medico chirurgiche.
In secondo luogo appare necessario attuare l’art. 6, quando l’impianto
di organi avviene in violazione della normativa interna sui trapianti e dei
principi fondamentali che la reggono.
In questo caso il naturale inserimento dei nuovi reatifra i «Delitti contro
la personalità individuale» consentirebbe di applicare l’art. 604 c.p., derogando così agli artt. 9 e 10 c.p., dando però al contempo attuazione all’art.
10 della Convenzione («Giurisdizione») (68).
Oltre alla incriminazione delle attività di intermediazione nella commercializzazione di organi, pare opportuna altresì la punibilità delle condotte di pubblicizzazione, diffusione ed organizzazione delle pratiche legate al turismo di organi. In quest’ultimo caso è condivisibile la formulazione
prevista dal d.d.l. (art. 601 bis, comma 2). Per quanto riguarda le attività
che possono trovare nel web l’ambito ideale di realizzazione (si pensi a siti
Internet costruiti per mettere in contatto donatori, intermediari e beneficiari), sarebbe auspicabile che il legislatore adotti uno strumento simile a quello previsto dall’art. 25 della direttiva europea del 13.12.2011 relativa alla
lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia
minorile (69), il quale prevede che gli Stati adottino le misure necessarie per
assicurare la tempestiva rimozione delle pagine web contenenti immagini
pedopornografiche, che abbiano host nel proprio territorio, ma con la possibilità di richiedere la stessa misura anche al di fuori dei limiti territoriali.
La direttiva, inoltre, consente agli Stati di adottare misure di blocco di accesso degli utenti alle pagine web contenenti materiali illeciti.
Il legislatore dovrebbe dare attuazione anche all’art. 8 della Convenzione, sanzionando, seppur con pene meno severe, le attività prodromiche al
trapianto di organi illecitamente rimossi, spesso di natura commerciale.
La formulazione di queste disposizioni è preferibile rispetto a quella
( 68 ) In particolare consentirebbe la punibilità anche quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano ovvero in danno di cittadino italiano, ovvero da cittadino straniero in
concorso con cittadino italiano. In quest’ultima ipotesi il cittadino straniero è punibile quando si tratta di delitto per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo
a cinque anni e quando vi è stata richiesta del Ministro di Giustizia.
( 69 ) Cfr. Flor, Lotta alla «criminalità informatica» e tutela di «tradizionali» e «nuovi» diritti fondamentali nell’era di Internet, in Diritto penale contemporaneo, 20.9.2012.
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contenuta nel d.d.l., che pone sul medesimo piano le condotte di natura
commerciale («commercia», «vende», «acquista»), quelle neutre («procura
in qualsiasi modo e a qualsiasi titolo») e quelle caratterizzate da forme di
sfruttamento di soggetti vulnerabili posti in stato di soggezione, anche tramite violenza o minaccia («tratta»). L’elemento di illiceità speciale («illecitamente») risulta indeterminato, in quanto pare rinviare implicitamente a
una normativa extrapenale non facilmente identificabile.
Il commercio, la vendita o l’acquisto, infatti, costituiscono di per sé,
nello spirito della Convenzione, condotte riprovevoli, in quanto non basate
sullo spirito di generosità e altruità che dovrebbe caratterizzare il gesto della donazione. Esse si possono giustificare solo se fra i soggetti attivi vengono inclusi anche donatore e beneficiario (70). Tale scelta politico criminale,
se è ammessa dalla stessa Convenzione, la quale – coerentemente con la sua
ratio – non prende posizione sul punto, a maggior ragione deve tradursi
nella previsione di una disposizione ad hoc, che deve essere, da un lato, distinta da quelle dirette a colpire il «sistema traffico», ossia l’intermediazione nella commercializzazione di parti del corpo umano, nonché l’espianto,
l’uso e l’impianto di organi illecitamente rimossi, oltre alla corruzione attiva
e passiva del personale sanitario. Dall’altro lato, essa deve considerare, anche sul piano sanzionatorio, i diversi «gradi» di vulnerabilità che caratterizzano, rispettivamente, i donatori ed i beneficiari. Questi ultimi, infatti, potrebbero sfruttare consapevolmente i primi, conoscendo la loro condizione
di disagio sociale e di estrema povertà.
Una clausola di illiceità speciale potrebbe essere collegata solo alla condotta del «procurarsi», in quanto realizzata in difetto di un valido consenso
da parte del donatore vivente o in violazione delle leggi e dei regolamenti
che disciplinano il prelievo di organi da persone decedute (71).
Nella sua versione originaria il d.d.l. doveva inasprire la risposta punitiva nei confronti del traffico di organi sia da vivente, che da persona deceduta, anche se era concentrato particolarmente sulla punibilità dei fenomeni
associativi finalizzati al traffico di organi. Nella sua versione definitiva, invece, la nuova fattispecie incriminatrice, se confermata dalla Camera dei
Deputati, è volta a contrastare soltanto il traffico di organi ex vivo.
Ne consegue che dovrebbero rimanere in vigore le disposizioni sanzionatorie che hanno per oggetto gli organi provenienti da donatori deceduti,
( 70 ) L’incriminazione della condotta di commercio di organi è simmetrica a quella prevista dall’art. 22, comma 3 l. 91 del 1999 che punisce il commercio di organi prelevati da soggetto deceduto.
( 71 ) Anche la condotta del «procurarsi» è omologa a quella di cui ai comma 3 e 4 dell’art.
22 l. n. 91 del 1999, con riferimento agli organi prelevati da persona deceduta.
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ex art. 22 l. n. 91 del 1999, anche se questo nuovo assetto dovrebbe essere
semplificato dall’abrogazione dell’art. 7 l. n. 458 del 1967. Pertanto troverebbe applicazione l’art. 22 bis l. n. 91 del 1999 ai casi di mediazione per fini
di lucro nella donazione di organi prelevati da persone viventi (72).
Il d.d.l., pur tentando un raccordo fra quest’ultima disposizione e quelle di cui al nuovo art. 601 bis c.p., non risolve alcuni problemi di possibile
interferenza fra la condotta di «commercio» e quella di «mediazione», ex
art. 22 bis. L’interpretazione sistematica di queste disposizioni dovrebbe
portare a ritenere «commercio» la compravendita di organi, ossia l’acquisto
presso il donatore e la rivendita presso un mediatore o un beneficiario. Viceversa, si dovrebbe configurare una «mediazione» in caso di mera messa
in contatto fra venditore ed acquirente dietro un corrispettivo per l’attività
prestata.
L’auspicio è che il legislatore ritorni sui suoi passi e, prima di introdurre
modifiche al codice penale con il citato d.d.l., ratifichi la Convenzione del
Consiglio d’Europa e non solo mediti sugli elementi facoltativi delle fattispecie e sulle possibilità di riserva ammessi dal trattato, ma ripensi anche, in
modo sistematico, ad una più ampia riforma per contrastare efficacemente
il traffico di organi attuando la Convenzione e sanzionando la pubblicità relativa alla compravendita di organi, nonché la propaganda e l’organizzazione di attività dedite al turismo del traffico di organi.
Si dovrebbe far propria la ratio della Convenzione medesima, evitando
formulazioni indeterminate ed imprecise, riflettendo sul linguaggio tecnico
da utilizzare ed evitando di far cadere la scure della sanzione penale sulle
«vittime» del sistema «traffico». I benefici di questa impostazione derivebbero anche dalla natura compromissoria della Convenzione, che ha già portato ad una mediazione sulla struttura dei reati e sulla terminologia utilizzata, che possono consentire un più facile «dialogo» con gli altri Stati, necessario soprattutto in situazioni in cui gli obiettivi di politica criminale consistono nel contrasto e nella prevenzione di un fenomeno di natura transnazionale.
Infine, dovrebbero essere introdotte specifiche disposizioni di natura
preventiva, che impongano alle strutture coinvolte nel trapianto di organi o
che svolgono attività connesse, preparatorie o di conservazione, l’adozione
di modelli organizzativi e di controllo, che tengano conto delle linee guida e
dei disciplinari tecnici elaborati dal CNT, nonché dell’esperienza degli enti
locali (Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano) e dei centri coinvolti.
( 72 ) Sui rapporti fra i citati artt. 7 e 22 bis vedi le condivisibili osservazioni Tigano, Il Senato approva, cit.
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La ratifica della Convenzione e la necessità di una più profonda riflessione su natura, obiettivi e metodo della riforma sono indispensabili affinché non si verifichino episodi simili a quello con cui è stato aperto questo
lavoro: «Ho una malattia renale policistica bilaterale. Sono andato nel Regno
degli Dei, ho trovato un Piccolo Dio, ho pagato poche migliaia di euro per ottenere il rene da un giovane abitante del Regno che si finge mio figlio. Come
sarà la sua vita da ora in poi? Non lo so. Forse non mi interessa realmente».
Zusammenfassung
Am 9. Juli 2014 hat das Ministerkomitee des Europarates den definitiven
Text der Konvention gegen den Handel mit menschlichen Organen angenommen, die am 25. März 2015 in Santiago de Compostela zur Unterschrift
frei gegeben wurde.
Es handelt sich um eine „criminal law convention“ und ist das Ergebnis
eines komplexen Kompromisses, der sowohl auf die Wahl des Anwendungsbereiches, als auch auf die der „obligatorischen“ und der „fakultativen“ Elemente der Tatbestände, sowie schließlich auf die Vorbehaltsmöglichkeiten
der einzelnen Staaten eingewirkt hat.
Das Ziel dieser Arbeit ist es, ausgehend von einer vertieften Analyse der
Konvention, eine systematische Darstellung der neuesten Mittel und der staatenübergreifenden kriminalpolitischen Strömungen im Kampf gegen dieses
transnationale Phänomen zu liefern, wobei, unter besonderer Berücksichtigung unserer Rechtsordnung, die möglichen Kritikpunkte in der Definition
der typischen Elemente der Rechtstatbestände hervorgehoben werden, um
dann de jure condendo einen wirksamen Schutz fundamentaler Rechtsgüter
zu garantieren, der in einem die individuelle und die öffentliche Gesundheit
sowie die menschliche Würde respektiere.
Abstract
On 9th July 2014 the Committee of Ministers of the Council of Europe
adopted the final text of the Convention against the trafficking in human organs, which has been opened for signature on 25th March 2015 in Santiago de
Compostela. It is a “criminal law convention”, which represents the result of a
complex compromise, which influenced both the choice of the application
scope and the choices on the “mandatory” and “optional” elements of criminalisation, as well as possibility of reservations by States. The objective of this
paper is to offer a systematic framework of the recent instruments and crimiRiv. trim. dir. pen. econ. 1-2/2015
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nal policies at a supranational level in the fight against a transnational phoenomenon, starting from an in-depth analysis of the Convention and highlighting, with a particular focus on the Italian jurisdiction, the possible criticalities
in the definition of the typical elements of the legal types of offences, with the
aim of granting, in a de jure condendo perspective, an effective protection to
fundamental legal interests, within the respect of individual and public health
and of human dignity.
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Giuseppe Losappio
prof. associato di diritto penale nell’Università di Bari
LA TUTELA PENALE
DELLE FUNZIONI DI VIGILANZA.
IL «NUOVO» AVAMPOSTO DEL MICROCREDITO
Sommario: 1. Le origini del microcredito. - 2. Il microcredito secondo il Parlamento europeo e le ragioni della regolamentazione. Cenni. - 3. La nuova disciplina dei d.lg. nn. 141/
2010, 218/2011 e 169/2012. - 4. Il delitto di esercizio abusivo del microcredito. Costanti
e variabili. - 5. Le necessarie verifiche. - 6. La tutela penale delle funzioni di vigilanza nel
reato di esercizio abusivo dell’attività finanziaria. Cenni. - 7. Il disvalore dell’esercizio
abusivo delle attività di intermediazione non bancaria e il disvalore del microcredito
abusivo. - 8. Verifica «teorica». Impostazione del problema. - 9. Microcredito e tutela
penale delle funzioni di vigilanza. - 10. I dati positivi. - 11. Diritto penale e rapporti tra
microcredito, organismo e Banca d’Italia.
1. – Qual è il possibile spirito del capitalismo? Che il denaro ha «una natura feconda e fruttuosa»; ovvero il denaro produce denaro. «Cinque scellini trafficati sono sei, nuovamente impiegati diventano sette scellini e tre pence e così via, fino alla somma di cento sterline. Quanto più denaro è presente, tanto più ne produce se impiegato, di modo che l’utile sia sempre di più»
(1); per converso, l’assenza di danaro, è sterile, oppure, peggio, è feconda solo di sé stessa (perché si auto-alimenta). È – detto in termini (molto) più
semplificati – la legge del «piove sul bagnato» (2): la ricchezza garantisce il
prestito; senza la ricchezza non si ottengono né credito, né prezzi equi (3).
La realtà che circondava Muhammad Yunus, quando nel 1974 intraprese il percorso che l’avrebbe condotto a fondare la Grameen Bank (o banca del villaggio) (4), era perfettamente rappresentata del celebre enunciato
di Benjamin Franklin, appena citato (5).
( 1 ) Franklin, Necessary hints to those that would be rich, 1736. La citazione è tratta da
Weber, Die Protenstantische Ehik und deir Gest des Kapitalismus (1905-1920), trad. it., 14a
ed., Milano, 2006, 72-73.
( 2 ) «Direttore! Lei non mi vuole dare 100 milioni? Ma lei va contrario al suo nome, dottor Diotaiuti. Lei si contraddice. Allora io [...] allora [...] non ho niente. Certo che non ho
niente, perché, se avessi un miliardo, me li darebbe 100 milioni? Allora se io ho bisogno di
una melanzana [...] una melanzana! Devo andare dall’ortolano e devo avere un miliardo di
melanzane a casa? A me non me l’ha mai chiesto l’ortolano “ce l’hai lei un miliardo di melanzane?” Mai! Né di pesche»: Benigni, Tu mi turbi, 1983.
( 3 ) I «poveri ottengono prezzi miseri per i prodotti del loro lavoro proprio perché sono
poveri e quindi il loro potere contrattuale è scarso»: Strange, Mad Money (1998), trad. it.,
Torino, 1999, 190 (ivi riferimenti all’opera di Emmanuel, Unequal Exchange. A Study of imperialism of Trade, New York, 1972).
( 4 ) Yunus, Microcredito e business sociale per la riduzione della povertà, (intervento alla
conferenza di fondazione Cariplo, 2.3.2009), in www.fondazionefeltrinelli.it.
( 5 ) A prescindere dalla sua intrinseca, molto discutibile, validità.
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Il progetto di Yunus nasce nei paraggi di Chittagong, dove i poveri non
riuscivano a disporre nemmeno delle somme più modeste per procurarsi il
cibo reso scarso dalla grave carestia che aveva fatto seguito ad una devastante inondazione. In questo contesto, la storia di una donna, che per un
prestito inferiore ad un dollaro era pressoché diventata schiava dell’usuraio, fu l’episodio che indusse il Nobel Prize bengalese ad intraprendere
un’indagine nel villaggio vicino all’università. La ricerca fece scoprire che
42 «residenti» della zona avevano subito un destino analogo per un importo non superiore nel complesso ai 27 dollari; Yunus riscatta i debiti e incomincia a pensare di organizzare meglio l’azione (6), nella quale coinvolgerà
la banca del campus ma solo dopo avere rilasciato garanzie personali per i
pur modestissimi finanziamenti erogati. I risultati dell’iniziativa sono sorprendenti. «I poveri ripagavano i loro prestiti», ma questo non basta a convincere gli altri istituti di credito locali, che non intesero contribuire agli
sforzi del professore. È, allora, che nasce l’idea di fondare la Banca del villaggio. Nel 2009 – narra Yunus – la «Grameen Bank eroga prestiti ad oltre
7,6 milioni di persone, il 97 per cento delle quali sono donne, in 83.566 villaggi del Bangladesh». Dalla data della sua costituzione, «la banca ha erogato prestiti per un totale di 7,59 miliardi di dollari. Il tasso di restituzione è
del 98,32 per cento. La Grameen Bank normalmente realizza un utile. Dal
punto di vista finanziario è indipendente e non accetta donazioni in denaro
dal 1995. [...]. Secondo gli studi interni [...] il 65 per cento dei beneficiari di
prestiti ha superato la soglia della povertà». In questo modo i figli delle
donne finanziate con il microcredito hanno potuto frequentare la scuola.
Molti di loro hanno avuto accesso all’istruzione superiore; alcuni hanno
persino conseguito un dottorato (7).
2. – In poco tempo il microcredito si è diffuso a livello mondiale radicandosi non solo nei paesi in via di sviluppo, ma anche, seppur in misura
notevolmente inferiore e con sensibili differenze, in quelli sviluppati.
Con la risoluzione 53/197, del 15.12.1998, le Nazioni Unite hanno deciso che il 2005 sarebbe stato l’anno internazionale del microcredito. In seguito l’ONU ha più volte sottolineato «the role of microcredit as an impor-
( 6 ) Cfr. ancora Yunus, Microcredito e business sociale, cit.
( 7 ) Cfr. ancora Yunus, o.c. Amplius Id., Verse un monde sans pauvreté, (1997), trad. it.,
a
5 ed., Milano, 2003. Bisogna sottolineare che non mancano valutazioni più articolate sull’impatto del microcredito (anche) nella realtà locale da cui ha preso le mosse Yunus. Cfr. da ultimo Aktaruzzaman-Haaparanta e Toivanen, Microcredit and Crime, in HECER Discussion Paper, 315, anche in www.papers.ssrn.com, 33; Morduch-Roodman, The Impact of Microcredit on the Poor in Bangladesh: Revisiting the Evidence, in http://papers.ssrn.com/sol3/
papers.cfm?abstract_id=1872033, 39.
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tant anti-poverty tool that promotes the generation of productive self-employment and empowers people living in poverty, especially women, and therefore
encourages Governments to adopt policies that support the development of
microcredit» (8), sia nei paesi in via di sviluppo, ma anche nei paesi del c.d.
primo mondo (9).
3. – L’UE, oltre a promuovere alcuni programmi di sostegno del microcredito (10), è più volte intervenuta sui profili normativi del settore, senza
tuttavia assumere provvedimenti prescrittivi per gli stati membri, né delineare un chiaro indirizzo a favore di un modello di intervento corrispondente a quello degli altri intermediari finanziari oppure differente.
Con la risoluzione del 24.3.2009 (2008/2122) (11), il Parlamento Europeo ha sollecitato gli Stati membri perché assicurassero forme proporzionate di disciplina e vigilanza prudenziale sulle attività di microcredito e la
Commissione perché elaborasse le proposte legislative più idonee anche
nella prospettiva di armonizzare le discipline locali e di affermare standard
comuni, non mancando tuttavia di raccomandare «il massimo sforzo al fine
di ridurre al minimo necessario gli oneri normativi che gravano sulle microimprese» (12).
Allo stesso tempo la direttiva 2009/111, introducendo l’art. 156 nella
direttiva 2006/48, invitava la Commissione a riesaminare entro il
31.12.2011 l’applicazione al microcredito di alcune disposizioni relative in
particolare alla vigilanza prudenziale (artt. 68, 73, 80, §§ 7 e 8). La relazione, con la quale questo compito è stato espletato, (torna a) riconosce(re) la
( 8 ) Assemblea generale delle Nazioni Unite, 53/198, 25.2.1999, Implementation of the
first United Nations Decade for the Eradication of Poverty.
( 9 ) Cfr. Report, A/58/488, 17.12.2003, Implementation of the first United Nations Decade
for the Eradication of Poverty (1997-2006); Resolution, A/58/488, 19.2.2004, Programme of
Action for the International Year of Microcredit, 2005.
( 10 ) Cfr. in part. Jeremie (Joint European Resources for micro to medium Enterprises), iniziativa congiunta della Commissione Europea, della Banca Europea degli Investimenti (BEI)
e del Fondo Europeo degli Investimenti (FEI) volta a facilitare e migliorare l’accesso delle
PMI ai finanziamenti; Jasmine (Joint Action to Support Micro-finance Institutions in Europe),
che prevede di fornire un’assistenza tecnica alle istituzioni di micro-finanziamento (IMF) per
aiutarle ad essere intermediari finanziari credibili e ad ottenere più facilmente capitali.
( 11 ) Il documento non manca, peraltro, di evidenziare le ambiguità che comporta la definizione corrente di microcredito e la difficoltà di tracciare una chiara distinzione tra microcrediti e microprestiti alle microimprese, microcredito per i mutuatari non finanziabili dalle
banche e microcredito per le microimprese finanziabili dalle banche. Cfr. altresì, più specificamente, la Raccomandazione 2003/361/ce, Definizione delle microimprese, piccole e medie
imprese; la Relazione della Commissione 2012/769, Applicazione della direttiva 2006/48/CE
al microcredito, § 2.2. (in particolare). Per ulteriori riferimenti cfr. http://europa.eu/legislation_summaries/enterprise/business_environment/n26115_it.htm.
( 12 ) Cfr. il considerando m della Risoluzione 2008/2122, cit.
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necessità di promuovere la concessione di microcredito e lo sviluppo dei relativi fornitori. In tale prospettiva, secondo la Commissione, si dovrebbe
agire per creare un contesto generale più favorevole per gli istituti specializzati in microcredito e incrementare il loro livello di trasparenza, sviluppando «codici di condotta applicabili su base volontaria» e semplificando «i regimi giuridici e amministrativi» (13).
Per contro, secondo una parte consistente della dottrina lo spontaneismo (14) non giustifica affatto un atteggiamento lassista.
Mentre appare «naively», «optimistic and will not work» confidare che
«microcredit organizations» si determinino al self-restraint e alla self-regulation, la «regulation» mostra di essere necessaria «to protect the microcredit
clients» (15) dalla combinazione di svariati fattori – la poca concorrenza, la
vulnerabilità degli stessi debitori, spesso poco informati e/o poco acculturati – fonte a loro volta di insidie, anche di natura penale: si pensi all’usura.
Si osserva inoltre che l’assenza di controlli adeguati minaccia di polarizzare l’attenzione dei capitali illeciti, catalizzando il rischio del riciclaggio. È
un fatto di cui si deve tenere conto che l’elevato cashflow pulviscolare, generato da queste attività e la stessa struttura finanziaria del microcredito sono particolarmente congeniali alla realizzazione di alcune fasi del money
laundering, il placement e lo smurfing, in particolare (16).
4. – Il legislatore italiano con il d.lg. 10.8.2010, n. 141 (successivamente
modificato dai d.lgs. 14.12.2011, n. 218 e 19.9.2012, n. 169) ha introdotto
una disciplina organica e dettagliata del microcredito problematicamente in
bilico tra il modello dei paesi in via di sviluppo e quello nordamericano (17),
( 13 ) Cfr. Relazione della Commissione 2012/769, Applicazione della direttiva 2006/48/
CE al microcredito, § 12.
( 14 ) All’epoca in cui l’assemblea di Bruxelles interveniva erano pochissimi i soggetti che
avevano assunto la veste di regulated microfinance institutions. Cfr. www.microfinancegateway.org.
( 15 ) Karnani, Regulate Microcredit to Protect Borrowers, in Ross School Bus. Paper, 1133,
anche in www.ssrn.com/abstract=1476957, 1.
( 16 ) Cfr. il considerando h della Risoluzione 2008/2122, cit.
( 17 ) Nelle economie dei paesi sviluppati lo stesso modello incontra svariate difficoltà: le
risorse necessarie per l’avviamento di un’impresa sono tendenzialmente superiori; il tasso di
interesse (che sarebbe) necessario a compensare il maggior rischio generato dall’assenza di
garanzie tende a superare le prospettive di guadagno del debitore (rendendo, pertanto, troppo rischioso l’investimento); i micro-finanziamenti, ciononostante, sono troppo poco remunerativi.
Per questa ragione, secondo alcuni osservatori, il format dei devoloping countries nei paesi
sviluppati conduce alla formazione di tassi «inadeguati alle esigenze del mercato», troppo
bassi ovvero troppo alti. In U.S. e Canada, inoltre, la percentuale del repayment è bassa e non
sono mancati high delinquency rates. Così Canale, Microcredit in advanced economies a third
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decisamente orientata (diversamente dalle indicazioni dell’UE) nel senso
dell’hard law.
Gli elementi cardine della nuova regolamentazione sono quattro: la definizione dell’attività; l’iscrizione nell’apposito elenco dei soggetti esercenti
il microcredito; l’istituzione di un organismo di controllo; il reato di abusivismo.
L’art. 111 sancisce che sono microcredito i prestiti di ammontare non
superiore ai 25.000 euro che soddisfano i seguenti quattro requisiti:
– la condizione soggettiva che il beneficiario sia una persona fisica,
una società di persone, una società cooperativa, una società a responsabilità
limitata semplificata di cui all’articolo 2463-bis c.c. o un’associazione;
– la condizione negativa dell’assenza di garanzie reali;
– la condizione positiva della prestazione di servizi ausiliari di assistenza e monitoraggio dei soggetti finanziati;
– la condizione positivo-teleologica che il finanziamento sia diretto
all’avvio o allo sviluppo di iniziative imprenditoriali o all’inserimento nel
mercato del lavoro.
Rientrano nella stessa definizione anche i finanziamenti a favore di persone fisiche in condizioni di particolare vulnerabilità economica o sociale,
purché siano di importo massimo di euro 10.000, abbiano lo scopo di consentire l’inclusione sociale e finanziaria del beneficiario e siano prestati
a condizioni più favorevoli di quelle prevalenti sul mercato e comunque a
tassi che consentano soltanto il recupero delle spese sostenute dal creditore (18).
way: a theoretical reflection, in www.papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1558975,
5. Cfr. altresì Aktaruzzaman-Haaparanta-Toivanen, Microcredit and Crime, in HECER
Discussion Paper, 315 (anche in www.papers.ssrn.com, 33).
Sono in parte queste le ragioni per cui, alla rapida crescita dei primi anni novanta ha fatto
seguito, nonostante la crisi scoppiata dopo l’11 settembre, un vistoso rintracciamento, durante il quale il microcredito sembra avere cambiato pelle ibridandosi con il sempre più diffuso
fenomeno del credito al consumo («Many intermediaries have redirected their resources to promote microenterprise development generally – rather than lending specifically – and diversified
their services to include training, business development and technical assistance services, and asset-building products. Some microcredit organizations have abandoned peer lending, others have shifted their focus to target less poor and more established microenterprises»: Williams, Requiem for microcredit? The decline of a romantic ideal, in www.ssrn.com/abstract=976211,
197-198).
Se è vero – si è osservato – che in Canada, in U.S. e in Europa le banche non operano nel
settore dei crediti di breve termine a sostegno delle più piccole startup, i micro-imprenditori,
anche in quanto consumatori, hanno accesso a numerose fonti di credito «alternative», come
ad esempio le carte di credito. Cfr. ancora Williams, op. cit., 197.
( 18 ) Quest’ultima attività e quella descritta in precedenza devono essere esercitate congiuntamente e non deve essere prevalente (art. 111, comma 3 bis).
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Sia pure in «deroga al’art. 106, comma 1», queste due forme di microcredito possono essere esercitate solo dai soggetti iscritti in un apposito
elenco tenuto dall’organismo disciplinato dall’art. 113.
Il combinato disposto degli artt. 111, comma 1, 113 (comma 1 e 4) regola l’iscrizione nell’elenco dei soggetti autorizzati ad esercitare il microcredito.
4. – L’art. 132 sottopone alla stessa sanzione prevista per l’esercizio
abusivo dell’attività di concessione di finanziamenti ex art. 106 (la reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa da 2.065 a 10.329 euro) chi esercita
il microcredito senza l’iscrizione nell’elenco previsto dall’art. 111, comma
2.
Il nuovo reato appartiene alla categoria degli illeciti imperniati sull’assenza dell’autorizzazione (19); la sua struttura ha molti elementi in comune
con quella delle altre figure di abusivismo previste dal Titolo VIII, capo I,
negli artt. 130 (Abusiva attività di raccolta del risparmio), 131 (Abusiva attività bancaria), 131 bis (Abusiva emissione di moneta elettronica), 131 ter
(Abusiva attività di prestazione di servizi di pagamento) (20); 140 bis (abusi-
( 19 ) Cfr. per tutti Mazzacuva, Le autorizzazioni amministrative e la loro rilevanza in sede penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 776; Contento, Giudice penale e pubblica amministrazione, Roma-Bari, 1979; Cadoppi, La natura giuridica della mancanza dell’autorizzazione nella fattispecie penale: riflessi in tema di errore, in questa Rivista, 1990, 363; Marinucci, Gestione d’impresa e pubblica amministrazione: nuovi e vecchi profili, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1988, 424; Mantovani, L’esercizio di un’attività non autorizzata. Profili penali, Torino, 2003.
( 20 ) Per riferimenti ai reati abusivismo nel contesto della letteratura sul «diritto penale
bancario» relativa al TUB cfr. Cerase, I nuovi reati bancari, in Cass. pen., 1993, 1864; Rossi,
Banca (reati in materia bancaria), in Dig. disc., Sez. pen., IX, 1995, 782; Ellero-Nordio, I
reati societari e bancari, Padova, 1998; Foffani, Reati bancari, in Pedrazzi-AlessandriFoffani-Seminara-Spagnolo, Manuale di diritto penale dell’impresa, 2a ed., Bologna, 1999,
445; Losappio, Lineamenti del diritto penale bancario, Bari, 2000, 67 e 73; Di Amato, Banca
(reati ed illeciti non penali), in Enc. dir., Agg., V, Milano, 2001, 119; Marini, Reati Bancari, in
Tratt. dir. civ. comm. Galgano, Padova, 2001, 383-384; Patalano, Reati ed illeciti del diritto
bancario. Profili sistematici della tutela del credito, Torino, 2003, 134; D’Agostino, I reati
bancari, in D’Agostino-Salomone-Santoriello (a cura di), I reati bancari, in Tratt. dir.
pen. impr. Di Amato, III, Padova, 2004, 1; Pellarini, Illeciti bancari, finanziari, assicurativi.
Reati e sanzioni amministrative, Milano, 2005; Arena, Le sanzioni, in Razzante-Laicata (a
cura di), Il governo delle banche in Italia: commento al T.U. bancario ed alla normativa collegata, Torino, 2006, 603; Pisani, Reati bancari, in Cassese (a cura di), Diz. dir. pubbl. econ., Milano, 2006, 480; Antolisei-Conti, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, I, Reati
societari, bancari, di lavoro e previdenza, a cura di Grosso, Milano, 2007; Pelissero, Banca –
Reati Bancari, in Comm. breve l. pen. compl. Palazzo e Paliero, 2a ed., Padova, 2007, 519; Scaroina, Leggi in materia bancaria, in Padovani (a cura di), Leggi penali complementari, Milano, 2007, 946; Cianci, I reati e gli illeciti amministrativi della legge bancaria, in Santoriello
(a cura di), La disciplina penale dell’economia. Fisco, banche, responsabilità penale delle socie-
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vo esercizio dell’attività di agenti in attività finanziaria e di mediatore creditizio) (21).
Le costanti riguardano l’estensione e la conformazione dell’attività abusiva (a prescindere dalle variazioni dell’oggetto, ad es. l’attività bancaria
piuttosto che il microcredito), l’aspetto soggettivo e i relativi corollari (ad
es. la forma del dolo e, ad es., il rapporto tra errore, autorizzazione/iscrizione illegittima) (22). La variabile di maggiore rilievo riguarda l’oggetto della
tà, II, Torino, 2008, 187-219; Donato-Fabbri, La tutela penale dell’attività bancaria, in Galanti (a cura di), Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, Padova, 2008, 1323; Pisani, Reati bancari, in Catenacci-Marconi (a cura di), Temi di diritto penale dell’economia
e dell’ambiente, Torino, 2009, 129.
( 21 ) Come per il microcredito, l’autorizzazione, la cui assenza costituisce il fulcro dei due
reati previsti dall’art. 140 bis, ex artt. 112 bis e 128 undecies, compete ad un organismo «avente personalità giuridica di diritto privato», «ordinato in forma di associazione, con autonomia
organizzativa, statutaria e finanziaria».
( 22 ) Cfr. con riferimento all’art. 132 (ivi compresa la letteratura concernente l’abusivismo
ove è trattato anche l’esercizio abusivo dell’attività di concessione di finanziamenti): Castaldo, Tecniche di tutela e di intervento nel nuovo diritto penale bancario, in questa Rivista, 1994,
401, Di Maio, Le attività riservate ai soggetti che operano nel settore finanziario, in Società,
1994; La Cute, Limiti dell’attività bancaria e recenti disposizioni in materia di riciclaggio e delinquenza organizzata, in Marini (a cura di), Diritto penale e attività bancaria, Padova, 1994,
243; Ulissi, Commento art. 132. Abusiva attività finanziaria, in Capriglione (a cura di),
Commentario al t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia, Padova, 1994, 652; Cantone,
L’abusivismo finanziario: esperienze da un’indagine giudiziaria, in Cass. pen., 1996, 3122; Castaldo, Accesso all’attività bancaria e strategie penalistiche di controllo, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1996, 75; Colavolpe, Attività finanziaria abusiva: le nozioni di attività finanziaria e di
pubblico nella prospettiva della disciplina sanzionatoria dell’art. 132 t.u. bancario, in Temi,
1996, 524; Criscuolo, L’esercizio abusivo di attività finanziaria: profili giuridici e strumenti di
contrasto, in Cass. pen., 1996, 1334; Donato-Ialungo, Abusivismo bancario e finanziario, in
Ferro-Luzzi-Castaldi (a cura di), La nuova legge bancaria. Il t.u. delle leggi sulla intermediazione bancaria e creditizia e le disposizioni di attuazione, III, Milano, 1996, 1976; Manna,
L’abusivismo bancario e finanziario nel sistema penale, in Banca borsa tit. cred., 1996, I, 375;
Pica, I nuovi illeciti in materia di attività finanziarie introdotti dalla legge sull’usura, in Riv.
pen. ec., 1996, 33; Masi, Le condotte illecite degli intermediari finanziari, Torino, 1998, 53;
Brunelli, Cumuli normativi e carenza di determinatezza in tema di abusivismo bancario, in
Rass. giur. umbra, 1999, 242; Bortone, L’attività bancaria, l’attività finanziaria e la raccolta
del risparmio: disciplina normativa e sanzionatoria, in Manna (a cura di), Riciclaggio e reati
connessi all’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, 211; Collesi, L’evoluzione legislativa in
materia di abusivismo bancario e finanziario: difficoltà interpretative e orientamenti giurisprudenziali, in Cass. pen., 2000, 2398; Zanchetti, Commento art. 28 (Abusiva attività finanziaria), in Dolmetta (a cura di), Le nuove modifiche al testo unico bancario. Commentario al
d.lg. 4 agosto 1999, n. 342, Milano, 2000, 108; Ruga Riva, L’abusivismo finanziario: questioni
giurisprudenziali e profili di illegittimità costituzionale, in questa Rivista, 2001, 537; De Carolis, L’abusivismo finanziario nella giurisprudenza della Suprema Corte: un reato imperseguibile?, in Giust. pen., 2002, II, 110; Meyer, La tutela penale dell’accesso, in Meyer-Stortoni (a
cura di), Diritto penale della banca, del mercato mobiliare e finanziario, Torino, 2002, 61; Losappio, I reati di abusivismo e gli illeciti amministrativi imperniati sulla mancanza del consenso
dell’autorità, in Belli-Contento-Patroni Griffi-Porzio-Santoro (a cura di), Commentario del Testo unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, Bologna, 2003, 2156; Caper-
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tutela: saranno le funzioni della Banca d’Italia in fase di prima attuazione,
ma quando «il numero di iscritti nell’elenco» diventerà «sufficiente» saranno quelle di «un Organismo».
La natura di questo nuovo soggetto risulta al momento del tutto indefinita.
Non è chiaro se verrà seguito il modello dell’Ente Nazionale per il Microcredito, organismo fornito di personalità di diritto pubblico, oppure saranno preferite la «personalità giuridica di diritto privato» e la forma associativa, come per gli organismi competenti alla tenuta dell’elenco dei confidi (ex art. 112 bis, comma 1), degli agenti in attività finanziaria (128 undecies, comma 1) e dei mediatori creditizi (idem).
In entrambi i casi, la disciplina del microcredito concorrerebbe all’avanzamento della frontiera della tutela penale delle funzioni di vigilanza,
disancorandola dall’aggancio con le funzioni della Banca d’Italia nel primo
caso, ovvero, più radicalmente, dalle funzioni delle pubbliche autorità di vigilanza (art. 2638 c.c.), nell’altro.
5. – Il «nuovo» avamposto del diritto penale richiede innanzitutto una
duplice verifica:
– occorre accertare se l’esercizio abusivo del microcredito giustifica
il ricorso alla sanzione penale;
na, I reati di abusivo esercizio dell’attività finanziaria (art. 132 d.lg. 1o.9.1993, n. 385), in Giur.
mer., 2005, 167; Chiaraviglio, Osservazioni in materia di abusivismo finanziario, in Riv.
dott. com., 2004, II, 631; Salomone, I reati di abusivismo, in D’Agostino-Salomone-Santoriello (a cura di), I reati bancari, cit., 207; Sorci, Esercizio abusivo di attività finanziaria,
invalidità dei contratti e riequilibrio patrimoniale nei rapporti tra le parti, in Banca borsa tit.
cred., 2004, II, 311; Pellegrini, Il controllo sugli intermediari finanziari non bancari. Aspetti
problematici ed orientamenti giurisprudenziali, ivi, 2006, 57; Donato-Fabbri, La tutela penale dell’attività bancaria e finanziaria, in Galanti (a cura di), Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, Padova, 2008, 1305; Nisco, Le attività finanziarie abusive, in GalganoRoversi Monaco (a cura di), Le nuove regole del mercato finanziario, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, dir. da Galgano, vol. LII, Padova, 2009, 715; Sorbello, Risparmio, intermediari e vigilanza: considerazioni sulla tutela nell’abusivismo bancario
e finanziario, in Ind. pen., 2009, 606; Zambusi, Commento artt. 130-132, in Gaito-Ronco (a
cura di), Leggi penali complementari commentate, Torino, 2009, 2637; Pastrengo, L’ambito
di applicazione del reato di abusiva attività finanziaria, www.diritto.it/materiali/bancario/
pastrengo4.pdf; Losappio, Commento art. 132, in Porzio-Belli-Losappio-Rispoli FarinaSantoro (a cura di), Commentario del Testo unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia,
Milano, 2010, 1202; Id., Abusivismo bancario e finanziario, in Costa (a cura di), Commento
al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. D. lgs. 1o settembre 1993, n. 385 e successive modificazioni, t. 2o, Torino, 2013, 1598; Compagna, Illeciti e responsabilità in materia
bancaria, finanziaria ed assicurativa, in Il mercato del risparmio. Strutture, autorità, illeciti e tecniche di tutela, a cura di Colavolpe-Prosperetti, Milano, 2012, 169; Id., La tutela penale del risparmio e dei mercati finanziari, ivi, 179.
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– bisogna vagliare se l’intensità dell’offesa (o, forse meglio, del disvalore), espressa da questa forma di abusivismo, è prossima o comunque simile a quella degli altri reati di abusivismo del TUB (anche tenendo conto della circostanza che il combinato disposto degli artt. 132-111 pone problematicamente sullo stesso piano l’elusione delle funzioni di vigilanza della Banca d’Italia e quella delle funzioni dell’organismo).
6. – Una risposta esauriente ai due quesiti postula lo svolgimento di due
passaggi:
– una considerazione relativa al significato dell’intervento penalistico nell’ambito dei controlli sull’accesso alle attività di intermediazione finanziaria (in generale, quelle di concessione di finanziamento ex art. 106, in
particolare):
– l’accertamento che il microcredito – quale species del genus «intermediazione finanziaria», definita dall’art. 106, pone le medesime istanze di
tutela della altre forme di intermediazione finanziaria.
L’attività bancaria (id est la raccolta del risparmio presso il pubblico e
l’erogazione del credito), l’emissione di moneta elettronica, la gestione di
servizi di pagamento, l’esercizio delle attività di concessione di finanziamenti ex art. 106, di agente in attività finanziaria e di mediatore creditizio
sono tutte attività di impresa «riservate» perché il loro svolgimento è subordinato al «consenso» della Banca d’Italia (23), in conformità ad un indirizzo
costantemente espresso (anche) dalle principali direttive europee del settore (2000/46, 2006/48, 2009/110, in particolare).
L’autorizzazione dell’istituto di Via Nazionale è un check up nevralgico
nell’ordine giuridico del mercato bancario e degli altri settori dell’intermediazione finanziaria perché non esaurisce la sua funzione nella selezione
una tantum degli operatori economici che forniscono garanzie di onorabilità, professionalità e stabilità ma costituisce il varco mediante il quale le banche e le altre società autorizzate vengono imbrigliate nelle safety net variamente orientate alla protezione del risparmio, alla stabilità del sistema finanziario oppure alla difesa dell’economia dalle infiltrazioni del danaro
sporco (24).
( 23 ) Cfr. l’eccezione del combinato disposto degli artt. 140 bis-112 bis-128 undecies per
l’attività di agente in attività finanziaria e di mediatore creditizio.
( 24 ) Sul tema ex multis Romano, Introduzione allo studio del diritto penale bancario, in
Id. (a cura di), La responsabilità penale dell’operatore bancario, Bologna, 1980, 17; Nuvolone, Relazione introduttiva, in AA.VV., Problemi penali della legislazione bancaria, Atti del
Convegno di Spoleto, 9-10 maggio 1980, Milano, 1981, 17; Fiorella, Intermediazione del
credito e reati bancari. Primi riflessi in prospettiva di riforma, in AA.VV., Materiali per una ri-
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Nel contesto appena descritto, l’enforcement penalistico opera in chiave
prevalentemente sanzionatoria secondo un modello di intervento, tanto
diffuso quanto problematico, molto distante dagli stilemi del «mitico» «diritto penale classico».
Come altri settori del diritto penale dell’economia, il diritto penale bancario non si protende, se non indirettamente, alla salvaguardia di beni giuridici «tradizionali» (il patrimonio, in particolare ecc.) ma, dipanandosi in
parallelo con la disciplina del TUB, serve i programmi di tutela contenuti
nello stesso d.lg. 385/1993, presidiandone gli snodi nevralgici, ovvero, l’accesso e i flussi di informazione tra soggetto vigilato e autorità di vigilanza,
soggetto vigilato e mercato (artt. 2638 c.c., 139-140).
Suole parlarsi, in questi casi, di «anticipazione della tutela» per indicare
una declinazione del diritto penale che, superando il confine del pericolo
concreto, giunge a «colpire» comportamenti solo in astratto pericolosi (25).
forma del sistema penale, Milano, 1984, 233; Bricola, Profili penali della disciplina del mercato finanziario, in Banca borsa tit. cred., 1990, I, 16; Azzali, L’intermediazione finanziaria.
Aspetti generali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 30; Alessandri, Offerta di investimenti finanziari e tutela penale del risparmiatore, in Mercato finanziario e disciplina penale, Atti del Convegno di Courmayeur 12-15.12.1992, Milano, 1993, 205; Pedrazzi, La riforma dei reati contro il patrimonio e contro l’economia, in Verso un nuovo codice penale Itinerari. Problemi. Prospettive, Atti del Convegno, Palermo, 7-10.11.1992, Milano, 1993, 350; Patalano, Tutela
dell’ordine economico e sistema penale bancario. La nuova disciplina tra effettività e simbolicità, in Studi Urbinati, 1995, 75; Pedrazzi, Uno sguardo panoramico al nuovo diritto penale
bancario, in Granata-Maimeri (a cura di), Il Testo Unico bancario: esperienze e prospettive,
Roma, 1996, 336; Flick, Dalla legge bancaria del 1936 al testo unico: la lunga marcia del diritto
penale del credito, ivi, 321; Padovani, Diritto penale della prevenzione e mercato finanziario,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 76; Alessandri, Parte generale, in Pedrazzi-AlessandriFoffani-Seminara-Spagnolo, op. cit., 1; Gialanella, Su un diritto penale dei patrimoni tra
«classicità» e «modernità», in Pol. dir., 2000, 123 ss.; Losappio, Offensività ed oggetto di tutela nel sotto-sistema del diritto penale bancario. II parte, in questa Rivista, 2001, 42; Zannotti,
La tutela dell’accesso al mercato nella prospettiva della lotta contro il riciclaggio: il caso dell’abusivismo, in Ind. pen., 2003, 925; Losappio, Risparmio, funzioni di vigilanza e diritto penale. Lineamenti di un sottosistema, Bari, 2004, 129, 136; 142 e 150; Zannotti, La tutela penale
del mercato finanziario, Torino, 2005.
( 25 ) Sul tema limitatamente alla letteratura italiana ex multis Bricola, Tecniche di tutela
penale e tecniche alternative di tutela, in De Acutis-Palombarini (a cura di), Funzioni e limiti del diritto penale, Padova, 1984, 3; Padovani, La problematica del bene giuridico e la
scelta delle sanzioni. La scelta delle sanzioni in rapporto alla natura degli interessi tutelati, in
AA.VV., Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma del codice, Milano, 1987,
117; Palazzo, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in
Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 474-475; Eusebi, Brevi note sul rapporto fra anticipazione della
tutela in materia economica, extrema ratio ed opzioni sanzionatorie, in questa Rivista, 1995,
741; Padovani, Diritto penale, cit., 640; Pulitanò, L’anticipazione dell’intervento penale in
materia economica, in Stile (a cura di), Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario, Atti del IV Congresso nazionale di diritto penale,
Torino, 1996, 5; Parodi Giusino, La condotta nei reati a tutela anticipata, in Ind. pen.,
1999, 689; Donini, Il vólto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenzia-
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La classificazione, però, non è affatto ineccepibile. Le funzioni di vigilanza, che il diritto penale bancario (in senso stretto) tutela e che costituiscono il fulcro delle safety net allestite dal d.lg. n. 385/1993, si spiegano, sono regolate e si esprimono senz’altro come l’epicentro di una disciplina volta a prevenire i rischi per il risparmio e più in generale per l’economia «legale» riferibili ai fattori già accennati in precedenza (dall’instabilità dell’intermediario e del sistema alle infiltrazioni del danaro sporco).
Il diritto penale bancario tutela le funzioni di vigilanza per impedire che
gli effetti – voluti o non voluti, previsti, non previsti o addirittura imprevedibili e/o non conoscibili di condotte irregolari o illecite – possano causare
la perdita del risparmio ovvero l’inquinamento dell’economia legale; non è
decisivo e non è necessario, dunque, che queste condotte si iscrivano nell’ambito di un iter criminis più vasto (26). L’ottica del reato di abusivo esercizio dell’attività finanziaria non è quella di contrastare gli esordi di un disegno criminoso quanto piuttosto di sanzionare comportamenti che possono
influenzare negativamente, ancorché in misura difficile da decifrare, il rapporto tra la dimensione (per lo più) micro-economica dei rischi che riguardano un singolo intermediario e quella macro-economica del sistema; prospettive, che, in ogni caso, restano sullo sfondo dell’offesa e soprattutto della tipicità. I reati di abusivismo, infatti, sono reati-funzione che tutelano le
funzioni e non i beni che le funzioni tutelano. Lesione e gradi del pericolo
– nei limiti in cui queste distinzioni sono validamente applicabili alla materia in esame – riguardano, quindi, la funzione e non le finalità cui le funzioni sono preordinate. Il concetto di anticipazione della tutela, dunque, con
riferimento ai reati-funzione resta estraneo al codice pericolo/tentativo/
consumazione.
Sgomberato il campo da riferimenti dogmatici rischiosamente misleanding – comunque inadatti ad esprimere l’essenza di reati che non sono il prodotto della «gemmazione di tipi delittuosi “moderni” (o modernizzati) dalle più classiche figure di “reato di azione” (...), principalmente
zione e sussidiarietà, Milano, 2004, 106-123; Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino,
2005; Cocco, Beni giuridici funzionali versus bene giuridico personalistico, in Dolcini-Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano, 2006, 192; De Francesco,
Interessi collettivi e tutela penale. «Funzioni» e programmi di disciplina dell’attuale complessità sociale, ivi, 929.
( 26 ) Non accade sempre, non è necessario e nemmeno essenziale che le condotte punite
dai reati abusivismo del TUB corrispondano alle attività preliminari di un programma criminoso più vasto. L’elemento coessenziale e specializzante del diritto penale bancario in senso
stretto, ivi compresi gli artt. 130-132 (e l’art. 140 bis), piuttosto, deve essere cercato esplorando la stessa disciplina extrapenale nella quale i reati di abusivismo si innestano.
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contro il patrimonio» (27) – viene allo scoperto il collegamento, sempre
più attuale, tra il diritto penale, le funzioni di vigilanza, il tema dei whistleblower.
L’argomento che negli US ha riscosso enorme successo nel nostro paese
ha mobilitato un numero inferiore di «autori», anche se i non molti interventi sono stati tutti molto autorevoli. Nelle sue linee essenziali, peraltro, il
dibattitto locale ha riproposto i contenuti della discussione «stars & stripes». Non è questa la sede per l’esame della complessa questione ma solo
per segnalare che le scelte relative all’ente che riceverà dalla Banca d’Italia il
testimone della «vigilanza», quando entrerà in vigore la disciplina «a regime» del microcredito, avranno in ogni caso un impatto su questo aspetto
della materia. Come si è accennato, la Banca d’Italia agisce sia come gatekeeper sia come whistleblower perché la vigilanza (e la relativa tutela penale) opera sia all’ingresso dell’intermediario sul mercato finanziario, sia
durante la vita della società di intermediazione autorizzata. Questo secondo
aspetto per gli intermediari e per i soggetti sottoposti al controllo di una
pubblica autorità di vigilanza è «coperto» dall’art. 2638 c.c. Per il microcredito, invece, la vigilanza on going potrebbe sfuggire all’ambito di applicazione di questo delitto, soprattutto (ma non solo), se il soggetto preposto ad
esercitarla non fosse «pubblico».
7. – Ricostruito seppur sommariamente il quadro «teorico» entro il
quale la verifica deve essere svolta, per approssimare maggiormente la riflessione al tema del microcredito, sulla base di questa piattaforma concettuale, comune a tutti i reati di abusivismo del TUB (come degli altri settori
dell’intermediazione finanziaria), occorre introdurre la distinzione tra reati
di abusivismo necessariamente bancario (artt. 130, 131, id est quindi i reati
che puniscono l’esercizio non autorizzato di attività che competono esclusivamente alle banche) e reati di abusivismo non necessariamente bancario
(l’art. 132, insieme con gli artt. 131 bis, 131 ter, 132 e 140 bis, id est quindi i
reati che puniscono l’esercizio di attività che possono essere svolte dalle
banche ovvero da altri intermediari finanziari) (28).
( 27 ) Paliero, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione dei codici?, in Riv.
it. dir. proc. pen., 1994, 1233-1234.
( 28 ) Sui problemi di classificazione e definizione dei reati bancari e del diritto penale bancario ex multis cfr. Nuvolone, Problemi di diritto penale bancario, in Banca borsa tit. cred.,
1976, I, 176; Fiorella, Problemi attuali del diritto penale bancario (Reati bancari in senso
stretto), in questa Rivista, 1988, 489; Dolcini-Paliero, Problèmes de droit pènal bancaire:
une analyse de droit comparè, in Rev. sc. crim., 1988, 653-654; Idd., Il diritto penale bancario:
itinerari di diritto comparato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 940; Losappio, Offensività, cit.,
42; Patalano, Reati ed illeciti del diritto bancario, cit., 134.
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Non si tratta, beninteso, di alimentare letture a compartimenti stagni
ma soltanto di porre le premesse per distinguere costanti e variabili.
Le prime sono che i reati previsti dagli artt. 131 bis, 131 ter, 132 e 140
bis (reati di abusivismo non necessariamente bancario) concorrono seppur
indirettamente alla tutela del risparmio, offrendo, innanzitutto, un contributo alla stabilità del mercato dell’intermediazione finanziaria; una condizione che il riciclaggio e l’usura minacciano ma è posta in pericolo anche (e
forse in misura persino maggiore) da una gestione delle operazioni attive
non adeguata (29), come gli scandali finanziari al cavaliere dei due millenni
hanno ampiamente dimostrato.
Breve. «È illusoria ogni tutela del risparmio se non c’è controllo nell’esercizio del credito» (30).
Per converso, i reati degli artt. 130-131 (reati di abusivismo necessariamente bancario) partecipano alla «lotta» contro il danaro sporco, sotto un
triplice profilo:
– il check point che assistono serve a preservare il sistema bancario
dagli inquinamenti personali o patrimoniali della criminalità economica; è
un potenziale antidoto contro il sogno di ogni riciclatore (the best method of
both stealing and laundering money is to own a bank) (31) e concorre ad evitare le «nefaste influenze che derivano al mercato ed al regolare svolgersi
dell’ordine economico allorché l’economia criminale si fa economia legale» (32);
– la safety net, cui dà accesso l’autorizzazione bancaria, è intessuta degli stessi obblighi di informazione previsti per gli intermediari non
bancari (33) e funge al medesimo scopo di assicurare un costante e capillare monitoraggio sugli elementi personali, patrimoniali e finanziari delle
imprese autorizzate ad agire sul mercato (anche al fine di prevenire che le
infiltrazioni, scongiurate in occasione del accesso, si verifichino in seguito);
– alle banche (oltre a chi esercita l’attività di intermediazione finanziaria e di mediazione creditizia) si applica l’art. 16, comma 9, della l. 108/
1996, che vieta ai dipendenti e agli esponenti di indirizzare un potenziale
( 29 ) Insolera, La responsabilità penale della banca per concessione abusiva di credito alla
impresa in crisi, in Giur. comm., 2008, 841. In precedenza, per tutti, Marinucci, Tendenze
del diritto penale bancario e bancarotta preferenziale, in La responsabilità penale degli operatori
bancari, a cura di Romano, Bologna, 1980.
( 30 ) Ferri, Intervento, in AA.VV., Problemi penali della legislazione bancaria, cit., 133.
( 31 ) Gold-Levi, Money-Laundering in the UK: an appraisal of suspicion-base reporting, in
www.cardiff.ac.uk, 3.
( 32 ) Vigna-Dell’Osso-Laudati, Sistema criminale ed economia, Padova, 1998, 32.
( 33 ) Dopo la novella dell’art. 110 ad opera dell’art. 7 del d.lg. 141/2010 soprattutto.
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cliente ad un soggetto non abilitato all’esercizio dell’attività bancaria o finanziaria (34).
La differenza più significativa è sicuramente legata al dato che nell’intermediazione (necessariamente) bancaria (quella – si insiste – che compete esclusivamente alle banche) un requisito costitutivo è la raccolta del
risparmio, mentre le società che esercitano l’attività di emissione di moneta elettronica, le società che gestiscono un servizio di pagamento, le società che esercitano l’attività disciplinata dall’art. 106 (e ancor più gli
agenti in attività finanziaria e i mediatori creditizi) non operano collette
nel senso indicato dall’art. 11 (id est raccolta di risparmio tra il pubblico
con obbligo di rimborso a vista). Manca soprattutto lo strumento del deposito (senza il quale l’attività bancaria non sarebbe nemmeno concepibile). È una differenza che attenua l’esigenza di tutela espressa dal valore-risparmio (35), ma incrementa i rischi legati al versante «attivo» dell’intermediazione.
Bisogna considerare al riguardo che il core-business di questi intermediari, la concessione di finanziamenti, si esplica mediante risorse esterne allo stesso perimetro operativo. Per tale ragione le minacce di infiltrazione
dei capitali di provenienza illecita sono più gravi (e maggiori, di conseguenza, sono le istanze di prevenzione).
Ciò nonpertanto, non è affatto scontato che, in assenza del solido e diretto collegamento con la tutela del risparmio che caratterizza gli artt. 130131, questo «surplus» basti a giustificare l’intervento penale.
In tale prospettiva, il problema della «pari offensività» richiede un duplice controllo:
– individuare il «valore» cui le funzioni e i controlli «protetti» dagli
artt. 131 bis, 131 ter, 132 sono orientati;
( 34 ) È una disposizione censurabile sotto diversi profili, che, in ogni caso, segnala la voluntas legis di sanzionare il pericolo (del pericolo) che gli intermediari (autorizzati) facciano
da sponda agli (intermediari) abusivi, catalizzando il rischio dell’usura e del riciclaggio. Cfr.
Pica, I nuovi illeciti, cit., 34; Bertolino, Le opzioni penali in tema di usura: dal codice Rocco
alla riforma del 1996, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 805; Manna, La nuova legge sull’usura.
Un modello di tecniche incrociate di tutela, Torino, 1997, 144-145; Mucciarelli, Disposizioni
in materia di usura, in Legisl. pen., 1997, 591; Manzione, Usura e mediazione creditizia.
Aspetti sostanziali e processuali, Milano, 1998, 124; Morera, Varietà sulla figura del mediatore creditizio, in Banca borsa tit. cred., 2003, I, 344; Veneziani, voce Usura, in Commentario
breve alle leggi penali complementari, 2a ed., a cura di Palazzo-Paliero, Padova, 2007, 2998;
Lombardo, voce Usura commento l. 7.3.1996, n. 108, in Leggi penali complementari, a cura
di Gaito-Ronco, Torino, 2009, 3659.
( 35 ) Valore che ha un solenne riconoscimento costituzionale in ragione della quale la «tutelabilità penale delle attività di intermediazione finanziaria non potrebbe mai essere posta
seriamente in discussione»: Romano, Introduzione, cit., 17 (corsivi dell’A.).
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– valutare, quindi, se le relative esigenze di tutela abbiano una «dignità» identica o perlomeno prossima a quella del risparmio (36).
( 36 ) Ostacolano l’indagine, per un verso, la tendenza ad attrarre la criminalità economica
nella sfera della criminalità organizzata (a.), per l’altro, la compenetrazione della «lotta» al riciclaggio con il tema della «lotta» alla criminalità organizzata (b.); due condizioni che possono costituire un comodo avallo di qualsivoglia scelta punitiva e, allo stesso tempo, rischiano
di offuscare la comprensione dei valori in gioco, posto che, troppo spesso, quando un reato è
attratto nella filiera degli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata ogni riserva critica viene persino considerata sospetta.
a. La corrispondenza, più o meno occasionale, tra l’organizzazione, quale requisito indefettibile di ogni azienda, e l’organizzazione, quale requisito indefettibile dei reati associativi,
non può, né sul piano criminologico né sul terreno del diritto positivo, giustificare conclusioni sillogistiche. In ogni caso, le premesse che la criminalità economica è tendenzialmente criminalità di impresa e che l’impresa è organizzazione non reggono la conclusione che la criminalità economica è criminalità organizzata.
Dal punto di vista del diritto positivo bisogna distinguere:
– chi delinque tramite l’impresa;
– l’impresa che, per dirla con le parole dell’art. 16, comma 3, del d.lg. 8.6.2001, n. 231,
è stabilmente utilizzata allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati;
– l’impresa responsabile ex 231 del delitto associativo che tuttavia non è stata permeata dall’attività delittuosa fino al punto che l’organizzazione del crimine e l’organizzazione
aziendale tendono a confondersi ed a identificarsi, tanto che «quello (apparentemente) lecito
diventa una sorta di articolazione di quello criminale, o comunque un mezzo – efficacissimo –
su cui quest’ultimo può contare» (Corvi, Nuove risposte al crimine organizzato tra diritto penale e sanzioni amministrative, in Il «pacchetto sicurezza» 2009 (Commento al d. l. 23 febbraio
2009, n. 11 conv. in legge 23 aprile 2009, n. 38 e alla legge 15 luglio 2009, n. 94), a cura di Mazza-Viganò, Torino, 2009, 373. In termini Cerqua, L’ente intrinsecamente illecito nel sistema
delineato dal d.lgs. 231/2001, in Resp. am. soc. enti, 2012 (2), 12).
Nulla, infatti, consente di affermare che l’ente condannato ex d. lgs. 231 con riferimento
ad uno dei delitti associativi previsti dall’art. 24 ter (art. 416 c.p., art. 416 bis c.p., art. 74
d.P.R. 9.10.1990, n. 309) ovvero dall’art. 10 della l. 16.3.2006, n. 146 (art. 291 quater, d.P.R.
23.1.1973, n. 43, oltre ai tre delitti indicati nella nota precedente sia pure per tutti con riferimento alla definizione del reato transnazionale di cui all’art. 3 della l. 16.3.2006, n. 146),
sempre e comunque, sia un’organizzazione «criminale». È una possibilità non remota, che
la legge prende in considerazione (e sottolinea) mediante un esplicito richiamo all’art. 16,
comma 3 del d. lgs. 231/2001, definendo una «situazione» circostanziale che (per quanto
frequente possa essere) non definisce gli elementi essenziali di questa ipotesi di responsabilità.
b. La realtà dei paradisi fiscali chiarisce che il money laundering dei proventi realizzati
dalle mafie e dai cartelli del narcotraffico è il braccio più robusto del problema ma non è
l’unico «arto». Si riciclano anche i proventi delle frodi private e dei crimini finanziari, dell’elusione e della frode fiscali, della malversazione da parte di politici e funzionari corrotti
(Strange, Mad Money (1998), trad. it., Torino, 1999, 199).
Il riciclaggio, oltre a catalizzare le minacce per l’ordine pubblico della grande criminalità
mafiosa, è, di per sé (a prescindere, dunque, dal collegamento con la criminalità riferibile al
paradigma dell’art. 416 bis c.p.), un fenomeno in antitesi con il fascio di valori condensati nell’art. 41 cost., la «chiave di volta», il «faro» del diritto penale dell’economia (Pedrazzi,
L’evoluzione del diritto penale economico, in Bassiouni-Latagliata-Stile (a cura di), Studi
in onore di G. Vassalli. Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale, I, Milano,
1991, 612). Il riciclaggio minaccia l’ordine economico sui cui si fonda il mercato causando
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5. – Incide sulla «dosimetria» della «pari offensività» l’intreccio tra i
«comuni» rischi di esposizione del cliente all’usura e le istanze di regolamentazione che manifestano le complesse tecnicalità dell’intermediazione
finanziaria non bancaria, che, alla stessa stregua dell’attività bancaria, postulano, seppur sotto un’ottica differente, stabilità e professionalità dell’intermediario (intreccio emblematicamente rappresentato dalla c.d. «usura
bancaria»):
– la concessione di finanziamenti richiede valutazioni professionali
sia in ordine al «merito creditizio» sia in ordine ai molti aspetti del «rischio
di credito» che presuppongono la proiezione delle analisi relative alla singola operazione sullo sfondo costituito dai fattori di rischio del cliente, dell’intermediario e del mercato (37);
– la complessità dei calcoli relativi al costo di una qualsiasi operazione di finanziamento per un verso implica il rischio di frodi «silenziose» ai
danni del consumatore e dell’impresa, per l’altro ribadisce l’esigenza della
verifica sulla professionalità e sollecita l’adozione di controlli e presidi sulla
onorabilità degli esponenti dell’intermediario;
«danni» sia in dimensione micro che macro-economica. Si pensi, sotto il primo aspetto, al gap
competitivo della vittima-imprenditore-soccombente rispetto ai «colleghi» ricchi di danaro a
costo molto (più) basso; i «danni» della seconda dimensione tendono ad essere «adespoti»,
incombono funesti, anche se poco percettibili (come un gas letale, incolore e insapore), determinando una sequenza di conseguenze negative che spaziano dalla inefficienza nell’allocazione delle risorse alle disfunzioni della concorrenza, dalla menomazione della libertà di iniziativa economica all’alterazione nella dinamica dei prezzi (Zanchetti, Il riciclaggio di danaro
proveniente da reato, Milano, 1997, 47 ss.). Del resto il mercato non è un locus naturalis: è,
piuttosto, un ordine, un «luogo giuridico» che ha bisogno di regole, regole che appunto «lo
fondano e costituiscono» (Irti, Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Riv. dir.
civ., 1999, I, 18. Per dirla con una metafora non originale ma sempre efficace, un mercato è
come una scacchiera, «senza regole...non sarebbero concepibili né pedine né mosse» (Id.,
ivi) Cfr., ex multis: Ross, On Law and Justice, 1958, trad. it., Torino, 1965, 29).Tra diritto e
mercato non «c’è un prima e un dopo, ma simultaneità logica». «Il diritto non è né cornice né
quadro, ma struttura conformatrice, insieme di norme che conferisce ad un mercato (e non al
mercato, in senso naturale e universale) la sua propria e storica fisionomia» (Irti, L’ordine
giuridico del mercato, Bari, 2004, 5, 9, 38). Breve. È molto riduttivo e fuorviante ridurre il problema del riciclaggio nella sfera dell’ordine pubblico; anche quando resta estraneo a questa
(assai generica e sfuggente) prospettiva di disvalore, il riciclaggio è disfunzionale all’ordine
economico.
( 37 ) Si consideri, per esempio, che «la verifica preventiva in ordine alla solvibilità ed affidabilità economica del soggetto finanziato s’impone non solo nell’interesse dell’Istituto di
credito alla restituzione della somma mutuata, ma anche a tutela del terzo garante» e, persino, dei creditori del soggetto finanziato. Così Insolera, La responsabilità penale della banca
per concessione abusiva di credito alla impresa in Crisi, in Giur. comm., 2008, 841. Sul tema cfr.
in part. Marinucci, Tendenze del diritto penale bancario e bancarotta preferenziale, in La responsabilità penale degli operatori bancari, a cura di Romano, Bologna, 1980. Vedi anche Romagnoli, La protezione dei consumatori tra novella e disciplina speciale dei contratti bancari e
finanziari, in Giur. Comm., 1998, 396.
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– una gestione professionalmente inadeguata o comunque del tutto
insensibile agli standard che la moral suasion della Banca d’Italia esercita sugli intermediari abilitati è – più che mai in periodi di crisi come quella in atto da circa dieci anni – un fattore che catalizza il rischio dell’usura e, quindi,
la spirale perversa dell’economia illegale (38).
Le attività sottratte alla vigilanza della Banca d’Italia, le smagliature
della safety net che la banca centrale presidia, esplicherebbero un’irresistibile forza di attrazione non solo nei confronti dei capitali illeciti ma anche
dei soggetti meno attrezzati sotto il profilo professionale o più squalificati
sotto il profilo morale con una cascata di effetti capace di compromettere
l’intero sistema e persino di scuotere le fondamenta dell’ordine democratico.
È come se in un aeroporto accanto a varchi di sicurezza dotati di metal
detector, scanner e rilevatori termici (ecc.) vi fosse un accesso presidiato
solo da un tornello; sarebbe compromessa tutta la sicurezza dello scalo,
dei voli in partenza, di altri terminal e quindi di tutta l’aviazione passeggeri mondiale.
Superate le pregiudiziali di un approccio liberistico-estremo al problema dell’ordine giuridico del mercato (á la Chicago) (39), una volta che sia
stata riconosciuta la necessità di regolare il mercato del danaro anche mediante disposizioni di carattere sanzionatorio, la sana professione di realismo sui numerosi e gravi limiti dell’azione globale di contrasto al money
( 38 ) Cfr. Commissione bicamerale di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata
mafiosa o similare, XV legislatura, Relazione finale, approvata il 19.2.2008, in www.camera.it,
20-21.
( 39 ) Le premesse (e la promessa) della self-deregulation comunque non sono valide sotto
ogni punto di vista.
È falso che il mercato si autoregola razionalmente (tutt’al contrario i mercati negli ultimi
venti anni hanno espresso «un comportamento incostante, imprevedibile e irrazionalmente
[...] gravemente dannoso»: Strange, Mad Money, cit., 4).
È falso che il mercato è auto-normativo e non è meno falso che il mercato è etero-poieticamente normativo e anche per tale ragione non dovrebbe essere etero-regolato («è cattiva
sociologia, sostenere che tutto quello che succede nell’ambito del mercato sia libero scambio e che la coercizione non entri mai in gioco. Il successo del mercato travalica i limiti del
(libero) mercato in tre maniere, strettamente legate fra di loro. Primo, le radicali disuguaglianze di ricchezza generano di per sé coercizione, cosicché molti scambi sono liberi solo
formalmente. Secondo, certi poteri di mercato, organizzati, ad esempio, in strutture aziendali, generano modelli di autorità e sottomissione in cui le modalità dello scambio lasciano
il posto a qualcosa che ricorda molto da vicino un governo. Terzo, le grandi ricchezze e
proprietà, o il controllo delle forze produttive, si convertono facilmente in governo in senso
stretto: il capitale fa regolarmente ed efficacemente ricorso al potere coercitivo dello Stato»:
Walzer, Thinking Politically, (1984), trad. it., Roma-Bari, 2009, 45). La citazione è tratta
da Forti, Democrazia economica e regolazione penale dell’impresa, in Dir. pen. proc., 2010,
777-778.
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laundering (40) non è un valido argomento per rinunciare ad un sistema di
regole che – per quanto possibile – sia, almeno sulla carta, immune dal gravissimo difetto di inglobare aree di opacità funzionalmente simili ai c.d. paradisi fiscali (di cui, non a caso, si invoca coralmente la chiusura).
Questa considerazione di ordine generale è di per sé risolutiva del problema della «pari offensitivà». Tutte le attività di intermediazione finanziaria (siano esse o meno necessariamente bancarie), ivi compreso il microcredito (che per le sue caratteristiche potrebbe – come si è già accennato – risultare molto appetibile per i riciclatori), coinvolgono valori fondamentali
della convivenza civile e quindi richiedono una regolamentazione uniforme
nell’ambito della quale, nei limiti in cui la pena sia davvero necessaria, è legittima la partecipazione del diritto penale.
7. – Ciononostante l’estensione ai soggetti che eserciteranno il microcredito del dispositivo di controlli e sanzioni che presidia l’attività disciplinata dall’art. 106 non cessa di suscitare perplessità perché il già problematico intreccio tra tutela penale e «beni» funzionali, nel caso dell’attività in
esame, appare ancora più controverso per due ragioni: la diversa (e inedita)
natura dell’organismo i cui controlli sono presidiati dalla sanzione penale; i
peculiari rapporti tra intermediario, organismo e Banca d’Italia.
È noto la diffidenza che ampli settori della dottrina penalistica considerano la tutela penale delle funzioni di vigilanza il «nadir» del diritto penale.
La tutela delle funzioni sarebbe, invero, una forma di intervento penale
«sottosviluppata», più povera di offesa del pericolo astratto, certamente
inadeguata rispetto agli standard di offensività che la Costituzione impone
(con riverberi negativi anche sotto il profilo della colpevolezza e del principio di legalità, la riserva di legge, in particolare).
Una disamina anche solo cursoria del tema non è possibile. Il dibattito
relativo alla tutela delle funzioni (41) – è appena il caso di avvertire – presenta complessità e ampiezza non comuni, posto com’è al crocevia della discussione che indaga l’impatto della contemporaneità (la post-modernità,
secondo molti) sul diritto penale sia sotto il profilo dell’accettabilità o meno
( 40 ) Nonostante i dodici anni trascorsi, nulla sembra essere cambiato in misura tale da
falsificare l’amara considerazione che il sistema finanziario globale fornisce molte più opportunità di riciclaggio di quanto la legge possa sperare di prevenire e bloccare: Strange, o.c.,
186.
( 41 ) Ex multis limitatamente alla letteratura italiana: Angioni, Contenuto e funzioni del
concetto di bene giuridico, Milano, 1984; Padovani, Tutela di beni e tutela di funzioni nella
scelta fra delitti, contravvenzioni e illecito amministrativo, in Cass. pen., 1987, 670; Palazzo, I
confini della tutela penale, cit., 457; Manes, Il principio di offensività, cit., 95; Cocco, Beni
giuridici funzionali, cit., 192; De Francesco, Interessi collettivi e tutela penale, cit., 929.
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di nuove forme di tipicità (c.d. cambio di paradigma), sia sotto il profilo
della sussistenza o meno di una crisi di legittimazione (corrispondente approssimativamente alla difficoltà di conciliare le nuove istanze di tutela che
società ed economia propongono alla politica criminale con il rispetto dei
principi fondamentali/costituzionali della materia, sotto l’incalzante pressione dell’interrogativo plumbeo e corrosivo, cui hanno dato grande vigore
e visibilità la piccola crisi economica del 2001 e la grande crisi finanziaria
del 2008-2009, sull’utilità stessa del diritto penale, necessaria o meno che
sia, per ragioni simboliche o di giustizia, la sua espansione).
Il percorso della critica alle posizioni c.d. «rimozionali» (42) – nei limiti
prossimi all’ipse dixit in cui può essere ricostruito in questa sede – muove
dall’affermazione che la tutela delle funzioni non è in contrasto con i riferimenti costituzionali del diritto penale e, quindi, giunge alla conclusione che
non esistono obiezioni di principio al riconoscimento della tutela penale
delle funzioni di vigilanza, negli ambiti di disciplina in cui questo modello
di tutela risulti indispensabile per la protezione del risparmio ovvero della
libertà economica.
Le funzioni di vigilanza sono pubbliche funzioni; le funzioni di vigilanza, in quanto – appunto – pubbliche funzioni, non sono affatto un oggetto
di tutela inedito o parveneu, come dimostra inequivocabilmente la stessa
storia plurisecolare dei reati contro la pubblica amministrazione, in relazione ai quali si è scritto – con perentoria assertività – che «la tutela anche penale della libertà e della legalità dell’esercizio di funzioni pubbliche» sono
«ovviamente, fuori discussione» (43). Questo elementare ma probante riferimento chiarisce che le difficoltà di principio rispetto alla tutela delle funzioni di vigilanza non possono essere efficacemente proposte rispetto alla
coerenza con la categoria del bene giuridico (per quel poco, peraltro, di valenza selettiva che la stessa conserva).
Le critiche sembrano più consistenti se il fuoco delle censure si sposta
sul modello della tutela – l’ostacolo – delineato nei reati del TUB, tanto
quelli di esercizio abusivo dell’attività finanziarie, tanto le false comunicazioni e il reato di ostacolo in senso stretto; anche sotto questo aspetto, tuttavia, non può essere accolta la diffusa opinione che la tutela penale delle funzioni di vigilanza si manifesterebbe – sempre e comunque – nelle sembianze
del «tentativo assolutamente inidoneo», del «pericolo apodittico» e, quindi, della «consumazione incostituzionalmente anticipata» (44).
( 42 ) Cfr. per il concetto Losappio, La riforma del diritto penale. Codice e leggi penali speciali. «Critica rimozionale» «Codificazione» «Policentrismo», in Ind. pen., 2003, 116.
( 43 ) Pulitanò, Diritto penale, 4a ed., Torino, 2011, p. 121.
( 44 ) Citazioni nell’ordine di Moccia, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusio-
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L’evento di ostacolo – per quello che vale la distinzione tra danno e
pericolo rispetto a «beni» istituzionali (che possono essere «menomati»
ma non distrutti o annientati) – è un evento di danno. Premessa maggiore: i reati di danno sono (ovviamente) i reati che ledono un bene. Premessa minore: le funzioni delle autorità di vigilanza sono ostacolate, anzi eluse, e quindi lese, dalle condotte di abusivismo (in misura molto più grave
di quanto la corruzione impropria lede l’espressione del «potere» oggetto
del mercinomio). Conclusione: i reati di ostacolo alle funzioni di vigilanza sono reati di evento di danno. Il problema, semmai, è di arricchire il
contenuto dell’evento in modo da selezionare i risultati davvero disfunzionali all’attività delle autorità di vigilanza (e, per converso, escludere le
situazioni che non hanno deviato l’esercizio dei poteri della banca centrale) (45).
8. – La declinazione di queste conclusioni con riferimento al giudizio
sulla tutela (dell’attività) dell’organismo in materia di microcredito (art.
113) richiede, a sua volta, due passaggi argomentativi:
– prima, un approfondimento sulle differenze rispetto alle funzioni
esercitate dalle autorità pubbliche di vigilanza;
– poi, una valutazione relativa alla possibilità di proporre anche in
relazione alla tutela del microcredito le stesse considerazioni sulla legittimazione della tutela penale delle funzioni di vigilanza illustrate nel paragrafo
precedente.
In questa prospettiva le variazioni più significative sono due.
a) Se l’organismo avrà natura associativa e personalità giuridica di diritto privato di sicuro non si applicherà l’art. 2638 c.c. che non tutela le funzioni pubbliche di vigilanza ma – secondo un taglio piuttosto anacronistico
(che il divieto di analogia impone comunque di rispettare) – le funzioni
ni postmoderne e riflussi illiberali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 369; De Vita, I reati a soggetto passivo indeterminato. Oggetto dell’offesa e tutela processuale, Napoli, 1999, 9; Bricola,
Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., 1973, XIX, 86.
( 45 ) Citazioni nell’ordine di Moccia, o.l.c.; De Vita, o.l.c.; Bricola, o.l.u.c. Fanno altresì
gioco alla replica, le precisazioni – già accennate – sul significato che l’anticipazione della tutela assume nel diritto penale bancario. Il riferimento al concetto di «tentativo inidoneo» dimostra che la stessa obiezione risente di un discorso imbrigliato nella tradizionale configurazione del rapporto tra intervento penale e fasi dell’iter criminis dipanato in un’ottica cripto o
para-causale fuorviante; viceversa, per cogliere il senso della tutela delle funzioni di vigilanza,
per un verso, bisogna abbandonare il paradigma causale, per l’altro occorre prendere atto
che i reati di abusivo esercizio delle attività finanziarie non sono nati per «gemmazione» dalle
tradizionali forme di tutela, non sono, quindi, lo sviluppo, in funzione preventiva, di altre più
tradizionali tipologie criminose. Cfr. Paliero, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1234.
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esercitate dalle autorità pubbliche di vigilanza. L’eventuale natura privatistica, per il resto, non è risolutiva in ordine alla classificazione delle attività
svolte dall’organismo. È noto che l’evoluzione del diritto pubblico ha dissolto le relazioni di corrispondenza biunivoca tra natura dell’ente, qualifica
del soggetto e qualificazione dell’attività svolta.
Certo è che, nonostante la fluidità concettuale delle formule e le fluttuazioni interpretative, le disposizioni degli artt. 357-358 c.p. descrivono pubblica funzione e pubblico servizio combinando il criterio sostanziale della
intrinseca finalità pubblicistica dell’attività con il criterio formale della disciplina cui l’attività è sottoposta, desumibile dalla locuzione «norme di diritto pubblico e da atti autoritativi». «La qualità di pubblico ufficiale non
deriva dunque dalla qualifica e dall’assetto formale degli enti, per i quali le
persone fisiche prestano la propria attività, ma dalla disciplina, cui detta attività è volta a volta sottoposta» (46). L’attività diretta al raggiungimento di
pubbliche finalità – ha sancito la Corte di Cassazione – non è di per sé pubblica funzione amministrativa o pubblico servizio, se non ricorre anche la
condizione della regolamentazione dell’attività in forma pubblicistica (47);
né, per converso, è corretto escludere l’applicazione delle norme sui delitti
contro la pubblica amministrazione solo «per via del regime privatistico del
singolo atto» (48).
Così, non tutti i dipendenti di un ente sono pubblici ufficiali e non tutte
le attività svolte da un pubblico ufficiale hanno i crismi della pubblica funzione (49) (né per vero la natura degli atti – es. il contratto – è decisiva in un
( 46 ) Cass. pen., 13.1.1999, n. 1943, in www.dejure.giuffre.it; Cass. pen., 16.4.1996, n.
6026, ivi.
In dottrina, ex multis, cfr. Mangione, Pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio
nelle particolari operazioni di credito del testo unico bancario: il nuovo credito agrario innanzi
agli artt. 357 e 358 c.p., in Banca borsa tit. cred., 1999, II, 483; Manes, Le qualifiche penali del
settore del credito e dell’intermediazione finanziaria, ivi, 2001, I, 599. Vedi anche, a prescindere dai riferimenti al dir. pen. bancario, Sessa, Infedeltà e oggetto della tutela nei reati contro la
pubblica amministrazione. Prospettive di riforma, Napoli, 2006, 103-104.
( 47 ) Cass., 7.5.1996, n. 793, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 1015.
( 48 ) Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. Commentario Sistematico, Milano, 1999, 246.
( 49 ) La Corte cost., 1.4.1993, n. 135 (in www.dejure.giuffre.it), ricorda che dev’essere
esclusa «l’applicabilità, nei confronti dei dipendenti delle aziende di credito di diritto pubblico, “delle norme penali previste dal Capo I del Titolo Secondo del codice penale, perché gli
impiegati degli enti creditizi pubblici, quando esercitano detta attività, non esercitano una
pubblica funzione amministrativa” (v. sentenza n. 309 del 1988)».
Cfr. ad esempio gli artt. 7, comma 2, e 71, comma 1: la prima disposizione sancisce che i
dipendenti della Banca d’Italia nell’esercizio delle loro funzioni sono dipendenti pubblici; il
secondo articolo dispone negli stessi termini con riferimento ai commissari straordinari che
non «fanno parte dell’organizzazione amministrativa» della Banca d’Italia. Così Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 2001, 721.
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senso o nell’altro); per converso, pubbliche funzioni possono essere svolte
anche da un ente privato ovvero da un soggetto che non è un pubblico dipendente (si pensi all’avvocato che «autentica» la firma del cliente). Esemplificando (con riferimento al diritto penale bancario), così come (nonostante il tenore letterale degli artt. 7, comma 2, e 71 comma 1), dipendenti
della Banca d’Italia e commissari straordinari sono pubblici ufficiali solo
nell’esercizio di pubbliche funzioni (senza che le diversità del rapporto
con l’ente siano decisive in un senso piuttosto che nell’altro), è ben possibile, nonostante il riconoscimento della natura privatistica, che le attività
degli organismi assumano, sotto taluni profili, i caratteri della pubblica
funzione.
Gli atti autoritativi assumono, in ogni caso, i tratti della pubblica funzione (50). È di «esperienza comune», del resto, che «a soggetti totalmente ed indiscutibilmente privati sia affidato l’esercizio di pubbliche funzioni, che si concretano nella emanazione di atti pubblicistici ed autoritativi» (51).
Il giudizio trova conferma confrontando la definizione di «pubblica
funzione amministrativa», dell’art. 357 c.p. con la disciplina e i caratteri
dell’attività che gli organismi svolgeranno in occasione dell’iscrizione. L’attività bancaria e le attività di intermediazione finanziaria non sono «attività
pubbliche» solo perché l’accesso è sottoposto al controllo della Banca
d’Italia (in questo frangente si realizza il parametro di c.d. «delimitazione
esterna» della pubblica funzione, non quello di c.d. «delimitazione interna»); l’attività di controllo sull’accesso, che nella prospettiva del «motore
logico» dei reati di abusivismo assolve una funzione perfettamente equivalente a quella delle autorizzazioni rilasciate dalla Banca d’Italia, viceversa, è
l’espressione di un potere autoritativo (52) e quindi di una funzione pubbli-
( 50 ) Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 256.
( 51 ) Goisis, Gli amministratori e funzionari di società in mano pubblica come pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio, in Dir. proc. amm., 2002, 774 [«Il fenomeno – prosegue
l’A. – ha del resto trovato pieno riconoscimento nella più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (poi confermata dalle Sez. un. della Cassazione) che ha ritenuto che il regime di
questi atti e della loro ricorribilità sia, sotto tutti i profili, quello del provvedimento amministrativo»].
Cfr. nella giurisprudenza di legittimità: Cass. pen., 24.1.2007, n. 5224, www.dejure.giuffre.it; Cass. pen., 7.2.2003, n. 20953, ivi; Cass. pen., 2.7.1998, n. 2440, ivi; Cass. pen.,
24.4.1998, n. 8161, ivi; Cass. pen., 10.7.1995, n. 9927, ivi.
( 52 ) Manes, Le qualifiche penali del settore del credito e dell’intermediazione finanziaria,
cit., 599. La valenza selettiva delle alternative formulate in precedenza, l’affermazione che «la
forma organizzativa (improntata a regole di efficienza) resta privata anche se il fine è pubblico – così come una fondazione privata resta tale anche se il suo patrimonio è finalizzato a scopi di pubblica utilità – e che può “riprendere” natura pubblica solo quando nell’ambito del-
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ca (sussistono, in questo caso, entrambi i parametri di «delimitazione interna» ed «esterna»).
b) Sotto il secondo aspetto occorre concentrarsi sull’art. 113, commi 6
e 7, secondo cui «La Banca d’Italia vigila sull’Organismo» informa il Ministro dell’economia e delle finanze circa le «eventuali carenze riscontrate
nell’attività dell’Organismo» fino a poter proporre lo scioglimento «in caso
di grave inerzia o malfunzionamento». Questa disposizione, per un verso,
evidenzia che l’attività degli organismi è, almeno in parte, «disciplinata da
norme di diritto pubblico», per l’altro, che la «vigilanza» dell’organismo è
una vigilanza di secondo grado; è la vigilanza di un vigilato. Gli organismi
sono vigilanti e vigilati allo stesso tempo. Per tale ragione, allo schema duale
della vigilanza bancaria (Banca d’Italia-intermediario) subentra un modello
di relazioni tripolare: Banca d’Italia (vigilante), organismo (vigilato «intermedio»-vigilante), intermediario (vigilato «finale»).
9. – L’esame dei profili dogmatici e politico-criminali ha condotto ad
una conclusione articolata: l’attività di controllo che l’organismo svolge sull’accesso al mercato degli operatori del microcredito ha i crismi della pubblica funzione; le ragioni che legittimano la tutela penale delle funzioni di
vigilanza della Banca d’Italia valgono anche per il controllo in ingresso
espletato dall’organismo. Le coincidenze tra funzioni della Banca d’Italia e
attività dell’organismo, tuttavia, cessano dopo l’accesso al mercato dell’intermediario, posto che la safety net del microcredito ha una struttura diversa rispetto a quella delle banche e degli altri soggetti che esercitano attività
di intermediazione finanziaria.
Le soluzioni introdotte nel TUB, alla luce di questa premessa, risultano
solo in parte condivisibili.
È solo in parte apprezzabile la scelta di sottoporre l’abusivismo nel microcredito alla stessa sanzione prevista per l’esercizio non autorizzato dell’attività di concessione di finanziamenti ex art. 106.
L’impressione di un ricorso sproporzionato al magistero penale trova
conferma mediante il confronto con le scelte operate dallo stesso legislatore
delegato in altri ambiti della «nuova» disciplina dell’intermediazione finanziaria.
L’equiparazione delle cornici edittali tra tutela dell’intermediazione finanziaria (in senso stretto, ex art. 106) e tutela degli altri soggetti operanti
l’attività esercitata un segmento della stessa risulta organizzato da direttive di politica economica (es. credito agevolato) ovvero addirittura munito di poteri autoritativi o certificativi
(funzioni di tesoreria, ovvero di polizia valutaria, o di vedette nella prevenzione di determinati reati)».
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nel settore finanziario (secondo l’omonima dizione del titolo V), tra cui il
microcredito, è un’eccezione rispetto alle soluzioni introdotte dallo stesso
d.lg. n. 141/2010, ispirate alla divaricazione dei due ambiti di disciplina.
Negli altri profili della nuova regolamentazione, infatti, il legislatore ha differenziato la risposta sanzionatoria, riservando alla tutela del microcredito
e dei consorzi di garanzia collettiva dei fidi un regime meno incisivo.
L’art. 133, comma 1 quater, (abuso di denominazione) (53) propone una
soluzione asimmetrica. L’illecito, infatti, è applicabile agli altri soggetti operanti nel settore finanziario che si fregino «della parola “finanziaria” ovvero
di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività finanziaria» riservata agli «intermediari finanziari di cui all’art. 106». Depone in tal senso anche l’art. 133, ult. comma, nella parte in cui sanziona chi induce in terzi il
falso convincimento di essere sottoposto alla vigilanza che la Banca d’Italia
esercita nei confronti delle società di intermediazione finanziaria ex art.
106, senza prevedere nulla di simile con riferimento al microcredito (sottoposto al controllo dell’organismo ex art. 113).
( 53 ) Articolo 133. (Abuso di denominazione).
«1. L’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta
al pubblico, delle parole “banca”, “banco”, “credito”, “risparmio” ovvero di altre parole o
locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività bancaria è vietato a soggetti diversi dalle banche.
1 bis. L’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, dell’espressione “moneta elettronica” ovvero di altre parole o locuzioni,
anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività di emissione di moneta elettronica è vietato a soggetti diversi dagli istituti di moneta
elettronica e dalle banche.
1 ter. L’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, dell’espressione “istituto di pagamento” ovvero di altre parole o locuzioni,
anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività di prestazione di servizi di pagamento è vietato a soggetti diversi dagli istituti di pagamento.
1 quater. L’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, della parola “finanziaria” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua
straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività finanziaria loro riservata è vietato ai soggetti diversi dagli intermediari finanziari di cui all’art. 106.
2. La Banca d’Italia determina in via generale le ipotesi in cui, per l’esistenza di controlli
amministrativi o in base a elementi di fatto, le parole o le locuzioni indicate nei commi 1, 1
bis, 1 ter e 1 quater possono essere utilizzate da soggetti diversi dalle banche, dagli istituti di
moneta elettronica, dagli istituti di pagamento e dagli intermediari finanziari (comma novellato dall’art. 5, comma 1 del d.lg. correttivo).
3. Chiunque contravviene al disposto dei commi 1, 1 bis, 1 ter e 1 quater è punito con la
sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.160 a euro 51.645. La stessa sanzione si applica
a chi, attraverso informazioni e comunicazioni in qualsiasi forma, induce in altri il falso convincimento di essere sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia ai sensi dell’art. 108 del presente decreto o di essere abilitato all’esercizio delle attività di cui all’art. 111».
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Bisogna considerare, inoltre, che l’art. 137, comma 1 bis, secondo periodo, ha sì introdotto il reato di mendacio nei confronti di un intermediario finanziario, ma la nuova contravvenzione (punita comunque in modo
meno grave rispetto al mendacio bancario) non è, ancora una volta, applicabile al microcredito.
Vale lo stesso infine per la disciplina relativa alla partecipazione rilevante (artt. 139-140) che non opera nei confronti degli intermediari «minori»
(microcredito e consorzi di garanzia collettiva fidi).
10. – Qualche considerazione, infine, in ordine al patchwork di ipotesi
applicative (e non) dell’art. 2638 c.c. (54), parallelo al reticolo di relazioni
( 54 ) Art. 2638 (Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza).
«1. Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti
contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società o enti e gli altri soggetti sottoposti per
legge alle autorità pubbliche di vigilanza, o tenuti ad obblighi nei loro confronti, i quali nelle
comunicazioni alle predette autorità previste in base alla legge, al fine di ostacolare l’esercizio
delle funzioni di vigilanza, espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza ovvero, allo stesso fine, occultano con altri mezzi fraudolenti, in tutto o in parte fatti
che avrebbero dovuto comunicare, concernenti la situazione medesima, sono puniti con la
reclusione da uno a quattro anni. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.
2. Sono puniti con la stessa pena gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società, o enti e
gli altri soggetti sottoposti per legge alle autorità pubbliche di vigilanza o tenuti ad obblighi
nei loro confronti, i quali, in qualsiasi forma, anche omettendo le comunicazioni dovute alle
predette autorità, consapevolmente ne ostacolano le funzioni.
3. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati
italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi
dell’articolo 116 del testo unico di cui al d. lgs. 24.2.1998, n. 58».
Cfr. ex multis i commenti e le riflessioni di La Villa, Vigilanza bancaria, moral suasion,
sanzioni penali, in Giur. com., 1987, I, 127; Crespi, La comunicazione sociale con unico destinatario, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, a cura di Pisani, t. II, Milano, 1988, 497;
Corrias Lucente, Il delitto di false comunicazioni e le informazioni all’organo di vigilanza, in
Cass. pen., 1991, 1627; Donato, Commento art. 134. Tutela dell’attività di vigilanza, in Capriglione (a cura di), Commentario, cit., 664; Meyer-Stortoni, La tutela penale dell’attività di vigilanza della Banca d’Italia, in questa Rivista, 1994, 823; Crespi, La tutela dell’attività
di vigilanza bancaria e creditizia, in Ferro Luzzi-Castaldi (a cura di), La nuova legge bancaria, cit., 1976; Perini, Il delitto di false comunicazioni sociali, Padova, 1999; Zanotti, La tutela penale della vigilanza bancaria, in questa Rivista, 1999, 612; Gallisai Pilo, Tutela dell’attività di vigilanza bancaria e finanziaria (art. 134 d.lg. 385/93), in Marini-Paterniti (a cura
di), Dizionario dei reati contro l’economia, Milano, 2000, 554; Albertini, Commento art.
2638. Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in Lanzi-Cadoppi (a cura di), I nuovi reati societari. Commentario al decreto legislativo 11 aprile 2002, n.
61, Padova, 2002, 184; Alessandri, Ostacolo all’esercizio delle funzioni della autorità pubbliche di vigilanza, in Id. (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società d. lg. 11 aprile 2002, n.
61, Milano, 2002, 250; Bonini, La violazione degli obblighi di collaborazione con le autorità di
settore: inottemperanza a obblighi di comunicazione e tutela della trasparenza del mercato, in
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che caratterizza la ricostruita struttura tri-polare della safety net del microcredito, nell’ambito della quale distinguiamo i rapporti tra soggetto vigilato
e organismo (a.), gli eventuali rapporti tra soggetto vigilato e Banca d’Italia
(b.), i rapporti tra organismo e Banca d’Italia (c.).
a) L’art. 2638 c.c. non tutela le funzioni di vigilanza (tout court) ma le
funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. È appena il caso di osservare
che il divieto di analogia impone comunque di rispettare il dato testuale,
Meyer-Stortoni (a cura di), in Diritto penale della banca, del mercato mobiliare e finanziario, Torino, 2002, 128; Foffani, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali (artt.
2621 e 2622), in Giarda-Seminara (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002, 265; Meyer-Zanotti, Le false comunicazioni sociali di cui all’art. 134 T.U.L.B., in
Meyer-Stortoni (a cura di), o.c., 20; Orsi, Passa per il codice la vigilanza di Consob e Bankitalia, in Guida dir., 2002, 16, 77; Palladino, Commento art. 2638. Ostacolo all’esercizio delle
funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in Giunta (a cura di), I nuovi illeciti penali ed
amministrativi riguardanti le società commerciali (Commentario del d.lg. 11 aprile 2002, n. 61),
Padova, 2002, 206; Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione
contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in Dir. pen. proc., 2002, 677; Losappio, La tutela penale e amministrativa delle comunicazioni alla Banca d’Italia, in BelliContento-Patroni Griffi-Porzio-Santoro (a cura di), Commentario, cit., 2150; Riondato-Zancani, Le Autorità amministrative indipendenti nelle reti penali e punitivo-amministrative, in Cavalieri-Dalle Vedove-Duret (a cura di), Autorità indipendenti e agenzie,
Padova, 2003, 129; Giunta, La vicenda delle false comunicazioni sociali. Dalla selezione degli
obiettivi di tutela alla cornice degli interessi in gioco, in questa Rivista, 2004, 608; Fanelli,
Profili penalistici dell’informazione nell’attività bancaria (I parte), ivi, 1094 ss.; Id., Profili penalistici dell’informazione nell’attività bancaria (II parte), ivi, 2005, 273; Salomone, L’esigenza di trasparenza e di controllo dell’attività bancaria, in D’Agostino-Salomone-Santoriello (a cura di), I reati bancari, cit., 390; Donato, Mercati finanziari e sistema dei controlli di
vigilanza. L’ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità di vigilanza, in Il rapporto fra giudici e autorità indipendenti nella regolazione dei mercati, Atti dell’incontro di studio presso il
C.S.M., Roma, 9-11.5.2005, appinter.csm.it/incontri/vis_relaz_inc.php?&ri=MTE2MjA%3D;
Foffani, La tutela delle funzioni delle autorità amministrative indipendenti: il ruolo attuale
dello strumento penale, ivi; Lovecchio-Musti, L’ostacolo all’esercizio delle funzioni della autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638 c.c.), in Rossi (a cura di), Reati societari, Torino, 2005,
242; Arena, Le sanzioni, cit., 609; Loreto, Commento Art. 2638, in Galgano (a cura di),
Commentario breve al codice civile, Roma, 2006, 2285; Losappio, Falsità delle valutazioni, false comunicazioni sociali e false comunicazioni alle «pubbliche autorità di vigilanza», in questa
Rivista, 2006, 687; Lunghini, Commento art. 2638, in Marinucci-Dolcini (a cura di), Codice penale commentato, II, 2a ed., Milano, 2006, 5206; D’Ambrosio, L’ostacolo alle funzioni
della autorità di vigilanza, in Di Amato (a cura di), I reati del mercato finanziario, in Tratt. dir.
pen. impr. Di Amato, IX, Padova, 2007, 611; Pellissero, Banca – Reati Bancari, cit., 54; Santoriello, La tutela penale delle funzioni di vigilanza, in Id., (a cura di), La disciplina penale
dell’economia. Società, fallimento, finanza, I, Torino, 2008, 247; Capolina-D’Ambrosio,
La tutela penale delle funzioni di vigilanza, in Quad. ric. giur. banca it., 2009, 3; Massaro,
Commento art. 2638, in Gaito-Ronco (a cura di), Leggi penali, cit., 3018; Messina, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in Cerqua (a cura di), Diritto penale delle società. Profili sostanziali e processuali, I, Padova, 2009, 677; Maruotti,
Reati societari, in Manna (a cura di), Diritto penale societario, Padova, 2009, 297; Notaro,
Autorità indipendenti e norma penale. La crisi del principio di legalità nello Stato policentrico,
Torino, 2010.
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impedendo di estendere il reato alle funzioni (anche pubbliche) di enti privati. L’art. 2638 c.c., quindi, non sarà applicabile alle comunicazioni del vigilato dirette all’organismo che, pur esercitando sotto taluni profili pubbliche funzioni, non è comunque un’autorità pubblica di vigilanza.
b) Sulla base di tali considerazioni, viceversa, le comunicazioni del vigilato alla Banca d’Italia potrebbero ricadere nell’ambito di applicazione dell’art. 2638 c.c. se non fosse (e per questo l’uso del condizionale) che il TUB
non disciplina questo flusso informativo. La dottrina prevalente è orientata
nel senso che non tutte le comunicazioni all’autorità di vigilanza rientrano
nella formula dell’art. 2638 c.c. ma solo quelle «previste in base alla legge»
mentre è dibattuto se l’art. 2638, comma 1, c.c., sia applicabile anche alle
comunicazioni regolate dal potere normativo che la legge conferisce alla
Banca d’Italia. Contro l’ipotesi gioca il principio della riserva di legge; a favore opera il dato testuale e più precisamente il confronto tra la formula
adottata dalla disposizione in esame e quella assai più perentoria e selettiva
che ricorre nell’art. 2621, comma 1, c.c., «imposta dalla legge». In tal senso,
si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità: «l’ampia formulazione»
dell’art. 2638 c.c. non consente di individuare categorie di comunicazioni
tipiche e comunicazioni di natura diversa, ma solo comunicazioni rilevanti
al fine dell’esercizio della funzione di vigilanza in base a un criterio oggettivo di pertinenza. La stessa Corte, peraltro, osserva che le comunicazioni false non previste dalla legge possono comunque dar luogo all’evento di ostacolo, in particolare in sede ispettiva (55).
c) L’art. 2638 c.c. potrebbe trovare applicazione anche nei rapporti tra
Banca d’Italia ed organismo, se non altro con riferimento alle comunicazioni espressamente disciplinate dal TUB. La difficoltà in questo caso è legata
all’estensione della nozione di vigilanza. Non è scontato, infatti, che tale
concetto comprenda la relazione tra organismo e Banca d’Italia. Le articolazioni della vigilanza bancaria (informativa, ispettiva, regolamentare) sono
incentrate sul rapporto tra autorità di vigilanza e vigilato, rapporto cui sembra essere estranea la logica della relazione vigilato finale-vigilato intermedio, cui la disciplina del microcredito ha dato vita. Per contro occorre considerare che l’art. 2638 c.c. (che non riguarda solo la vigilanza della Banca
d’Italia!), utilizzando una formula molto generica, non sembra imporre
un’interpretazione del concetto di vigilanza restrittivo, legato, cioè alla modalità di esplicitazione della vigilanza nei confronti delle banche e degli altri
intermediari finanziari; eppure di vigilanza si deve trattare ragion per cui,
nonostante la vaghezza della disposizione, è da escludere che l’art. 2638 c.c.
( 55 ) Cfr. Cass. pen., 13.1.2006, in Foro it., 2008, II, 49.
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possa applicarsi a qualsiasi relazione con la Banca d’Italia (e con le altre autorità di vigilanza), a partire dai rapporti tra organismo e Banca d’Italia che
– si insiste – sono rapporti tra «enti-vigilanti» e appaiono, pertanto, del tutto eccentrici rispetto alla relazione tra vigilato e vigilante cui è elettivamente
orientata la disposizione in esame.
Zusammenfassung
Art. 132 des Einheitstextes der Bankengesetze (TULB GVD 385/1993)
unterstellt den, der in Ermangelung einer Eintragung in das eigene Verzeichnis dieser Finanzierungsvermittler, „Mikrokredite“ vergibt, derselben Sanktion, die für die unerlaubte Ausübung der Finanzierungsvergabe vorgesehen
ist.
Die neue Straftat angehört der Kategorie derjenigen unerlaubten Handlungen, die sich durch das Fehlen einer vorgeschriebenen Ermächtigung
kennzeichnet; ihre Struktur weist viele Elemente auf, die auch den anderen,
im selben TULB vorgesehenen Figuren von Missbrauch gemein sind (z.B.
missbräuchliche Tätigkeit der Ersparnissammlung; unerlaubte Bankentätigkeit; unerlaubte Ausgabe von digitalem Geld, usw.).
Der bedeutendste Unterschied dazu betrifft das Schutzobjekt. Die neue
Straftat der unerlaubten Vergabe von Mikrokrediten hebt sich nämlich dadurch hervor, dass sie in einer ersten Phase die Funktionen der Banca d’Italia,
in der weiteren Folge aber diejenigen eines anderen Organismus schützen
wird. Die strafrechtliche Regulierung des Mikrokredites, losgelöst von den
Funktionen der Banca d’Italia, trägt somit zu einer Erweiterung des strafrechtlichen Schutzes der Überwachungsfunktionen bei.
Dieser „neue“ Vorposten des Strafrechtes bedarf jedoch einer doppelten
Überprüfung: einerseits gilt es festzustellen, ob die unerlaubte Vergabe von
Mikrokrediten die strafrechtliche Sanktionierung rechtfertigt; anderseits ist
zu prüfen, ob es notwendig ist, dass die Funktionen des neuen Organismus
den selben Schutz erfahren wie die Überwachungsfunktion der Banca
d’Italia.
Abstract
Art. 132 of the Consolidation act of banking law (TULB d. lgs. 385/1993)
punishes the exercise of “microcredit” without being registered into the dedicated list of the operators of this specific sector of financial intermediation
with the same sanction established for the abusive exercise of financing.
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The new offence belongs to the category of the offences based on the absence of authorisation; its structure has many elements in common with that
of other abuses envisaged by the same TULB (e.g., abusive collecting of savings; abusive banking; abusive emission of electronic currency etc.). The most
relevant difference concerns the object of protection. Indeed, the new crime of
abusive exercise of microcredit is characterised by the fact that the functions of
the Banca d’Italia will be protected in the phase of first implementation, and
those of another body in a second moment. Thus, the penal regulation of microcredit contributes to the advancement of the frontier of the penal protection of monitoring functions, by detaching it from the functions of the Banca
d’Italia. Such a “new” outpost of criminal law requires a double check: on the
one hand, establishing whether the abusive exercise of microcredit justifies
the resort to a criminal sanction; on the other hand, establishing whether the
functions of this new organism deserve the same protection afforded to the
monitoring functions of the Banca d’Italia.
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Adelmo Manna
prof. ordinario di diritto penale nell’Università di Foggia
CONTROVERSIE INTERPRETATIVE E PROSPETTIVA DI
RIFORMA CIRCA LA RESPONSABILITÀ DA REATO DEGLI ENTI (1)
Sommario: 1. Introduzione. - 2. L’imputazione soggettiva all’ente nel caso del reato commesso dall’organo apicale, eludendo fraudolentemente il comitato di controllo: la «dominabilità del fatto». - 3. L’autonomia e la responsabilità dell’ente nel caso in cui risulti ignoto l’autore del reato: verso la responsabilità «esclusiva» della persona giuridica?
- 4. La responsabilità penale dei membri del comitato di controllo: applicabilità o
no del paradigma di cui all’art. 40, cpv, c.p. - 5. Alcuni interrogativi di fondo sul comitato di controllo: da chi viene nominato? A chi risponde? Da chi viene remunerato?
- 6. Cenni sul c.d. whistleblower in ambito societario. - 7. La necessità di combattere, in particolare la corruzione e la prospettiva di rendere più «elastici» i c.d. compliance programs: un’antinomia risolvibile? - 8. La natura giuridica della responsabilità da reato dell’ente e l’inversione dell’onus probandi nel caso di responsabilità penale degli organi apicali: contrasto con la presunzione di innocenza? - 9. Circa le sanzioni: la «ragionevolezza» o meno della limitazione alle sole sanzioni pecuniarie nel
caso dei reati societari e l’eventuale estensione dei nuovi istituti, come la sospensione con la messa alla prova, anche all’ente. - 10. I reati-presupposto: la mancata differenziazione, da parte del legislatore, tra «illeciti delle associazioni» ed «associazioni illecite» e conseguenze a livello di (mancata) scelta del sottosistema più idoneo. 11. Da un punto di vista processuale, gli aspetti controversi sono in particolare costituiti dall’unicità del difensore consentito per la persona giuridica e la conseguente,
mancata parificazione con l’imputato, nonché il potere diretto di archiviazione del
p.m. - 12. Conclusioni.
1. – Queste considerazioni si possono idealmente dividere in tre parti,
la prima riguarda questioni di carattere essenzialmente interpretativo, che
sorgono dal d. lgs. n. 231 del 2001 in tema di responsabilità da reato degli
enti; le seconde invece riguardano più propriamente questioni di legittimità
costituzionale che possono anch’esse profilarsi nell’ambito della legislazione de quo agitur; ed infine le terze riguardano più precisamente le prospettive di riforma circa la responsabilità da reato degli enti ma, come potremo
qui di seguito constatare, tali tre gruppi di questioni non sono nettamente
divisi fra loro bensì strettamente interconnessi e talvolta anche interdipendenti.
( 1 ) Testo riveduto e ampliato, con l’aggiunta delle note, dell’Intervento alla Tavola Rotonda su: Prospettive di riforma della disciplina della responsabilità degli enti da reato, al Convegno su: Prospettive di riforma del sistema italiano della responsabilità dell’ente da reato anche alla luce della comparazione tra ordinamenti, Roma, Facoltà di Giurisprudenza, Università
«La Sapienza», 12-13.12.2014; ed ora anche in Fiorella-Borgogno-Valenzano (a cura
di), Prospettive di riforma del sistema italiano della responsabilità dell’ente da reato anche alla
luce della comparazione tra ordinamenti, Napoli, 2015, 239 ss.
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2. – La prima questione di carattere interpretativo riguarda una norma
assai discussa del d. lgs. 231 del 2001, cioè l’art. 6 che riguarda la responsabilità dell’ente laddove il reato sia stato commesso da un soggetto in posizione apicale. Il problema che essenzialmente si pone è quello relativo alla
ratio di una norma così complessa, che è stato frutto di notevoli discussioni
nell’ambito della Commissione ministeriale incaricata di redigere il testo
del decreto legislativo, giacché si fronteggiavano due posizioni: una, di
stampo civilistico, che rimarcava come il soggetto apicale agisca in nome e
per conto dell’ente e, quindi, la responsabilità da reato di quest’ultimo sia
sostanzialmente «automatica», o, per dirla secondo il modello francese, par
ricochet (2). In seno alla Commissione si è tuttavia obiettato, da altra parte
della stessa, che in tal modo si sarebbe creata un’ipotesi di responsabilità
oggettiva, come tale in possibile contrasto con l’art. 27, comma 1, della Costituzione, soprattutto laddove si fosse intesa la responsabilità da reato dell’ente come una responsabilità penale o, quanto meno, para-penale.
Si osservò, inoltre, come l’ottica civilistica comporti che l’impresa diventa sempre responsabile, nel caso in cui autore del reato sia un soggetto in
posizione apicale, senza tener conto, per l’appunto, che quest’ultimo può
aver eluso fraudolentemente i controlli e può, quindi, aver agito in perfetta
solitudine, facendo sì che il reato venga commesso nell’ambito, però, di una
società in genere sana. Siccome il soggetto in posizione apicale non ha sopra di sé alcun organo di controllo, ecco la ragione per cui altra parte della
Commissione, che poi ha prevalso, ha costruito l’art. 6 nel senso che l’ente
non risponde: a) se l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato,
prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione
idonei; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli è stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri d’iniziativa e di controllo; c) le persone che hanno commesso il reato hanno, per
l’appunto, eluso fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata comunque omessa o insufficiente vigilanza dell’organismo di controllo. Orbene, a parte i profili di legittimità costituzionale della
norma in oggetto, che verranno trattati in prosieguo, si pone qui un delicato
problema di carattere dogmatico, cioè la ratio di questa sorta di «scusante»
per la persona giuridica che, in effetti, non è di facile interpretazione.
Bisogna riconoscere che è merito soprattutto del Fiorella aver intuito la
( 2 ) Sia consentito, sul punto, il rinvio a Manna, La responsabilità da reato degli enti, in
Id. (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, Padova, 2010, spec. 56 ss. e la bibliografia ivi citata; nonché, specificamente, De Simone, Il nuovo codice francese e la responsabilità
penale delle personnes morales, in RIDPP, 1995, 223 ss.; nonché, più ampiamente, Id., Persone giuridiche e responsabilità da reato. Profili storici, dogmatici e comparatistici, Pisa, 2012.
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vera ragione giuridica sottostante al meccanismo creato dal legislatore con
l’art. 6, nel senso che, se la mancata responsabilità dell’ente si realizza anche
in quanto il soggetto apicale, che ha commesso il reato, ha però «eluso fraudolentemente» i poteri di controllo posti in essere dall’ente medesimo, giustamente ne consegue come non possa affermarsi alcuna «colpevolezza dell’organizzazione», proprio perché il fatto di reato non è, evidentemente,
«dominabile» da parte dell’ente stesso (3).
Questa tesi ci sembra decisamente fondata, proprio perché l’elusione
fraudolenta fa infatti comprendere come l’ente non riesca a dominare e,
quindi, a controllare il fatto di reato ed è per questa ragione che non può essere ad esso addebitato, proprio perché nulla può essere rimproverato allo
stesso sotto il profilo della «colpa dell’organizzazione». Si tratta, in altri termini, di un’interessante e condivisibile applicazione alla responsabilità delle persone giuridiche della ben nota tesi della «dominabilità del fatto», sviluppata a suo tempo nella dottrina tedesca da Roxin in materia di concorso
di persone nel reato (4).
3. – Altro problema, questa volta non solo di ordine dogmatico ma che
apre un’interessante prospettiva di riforma, è quello relativo al successivo
art. 8, che, com’è noto, attiene all’autonomia delle responsabilità dell’ente.
Ciò che qui, in particolare, rileva è la lettera a) del comma 1 della norma in
oggetto ed in particolare l’ipotesi in cui l’ente è responsabile anche laddove
l’autore del reato non sia stato identificato. Orbene, la ratio della norma va
fatta risalire all’ipotesi originaria, successivamente non confermata al varo
definitivo del decreto legislativo, ma solo successivamente introdotta, in cui
la responsabilità dell’ente era estesa anche ai reati ambientali nell’ambito
dei quali sovente può avvenire che non sia possibile individuare l’autore
materiale del reato medesimo. Ciò, però, ha suscitato un’interessante prospettiva di riforma da parte della dottrina, in particolare con riguardo ai
processi relativi ai c.d. mass disasters, ove il ricorso a reati di danno rende,
in effetti, una probatio diabolica quella relativa al nesso di causalità, per cui
un’autorevole esponente della dottrina, purtroppo di recente scomparso,
aveva prospettato in tali ipotesi la rinuncia al diritto penale, con il ricorso,
( 3 ) Fiorella, From “Macro-Antropos” to “Multi-Person Organisation”. Logic and structure of compliance programs in the corporate criminal liability, in Id. (edited by), Corporate
criminal liability and compliance programs, II, Towards a common model in the European
Union, Napoli, 2012, 373 ss. e, quivi, 398 ss.; dello stesso v. già, in tema di dominabilità del
fatto, Id., voce Reato in generale, in Enc. Dir., XXXVIII, 1987, 770 ss.
( 4 ) Roxin, Täterschaft und Tatherschaft, (Participation and Perpetration of an Offense), 8
Aufl., Berlin-New-York, 2011.
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invece, all’illecito amministrativo, oppure, anche, alla responsabilità aquiliana (5). Tale tesi, tuttavia, non ci ha mai convinto, perché proprio in tali
processi, che spesso si elevano agli onori della cronaca, anche per il numero
considerevole di vittime, v’è da replicare come l’illecito amministrativo notoriamente soffra di deficit di effettività, mentre l’illecito civile comporta, in
genere, che il giudice irroga sanzioni risarcitorie non di particolare levatura,
proprio perché da noi non ha granché attecchito l’esperienza nord americana dei c.d. punitive or exemplary damages (6). Ecco quindi che in altro settore della dottrina va avanzandosi la tesi in primo luogo del ricorso a reati di
pericolo, bypassando così la prova del nesso causale, ma, soprattutto, di
una chiara tendenza verso una responsabilità «esclusiva» dell’ente, con importanti modelli cui ispirarsi, come, in particolare, il corporate killing Act
inglese che, per l’appunto, nel caso di morte o lesioni a causa di infortuni
sul lavoro, prevede una responsabilità esclusiva dell’ente, prescindendo
cioè totalmente dalla responsabilità delle persone fisiche (7).
Si tratta, quindi, di verificare se il legislatore intenderà seguire o no questa prospettiva di riforma, perché, se da un lato concentra tutto il peso della
responsabilità da reato sull’ente, con evidenti vantaggi soprattutto a livello
probatorio, per altro verso l’esonero dalla responsabilità penale delle persone fisiche potrebbe comportare una sorta di loro «deresponsabilizzazione» anche a livello aziendale.
4. – Altro profilo in particolare di carattere dogmatico riguarda una problematica che anche di recente si è affacciata in talune Procure della Repubblica, in particolare del Nord Italia, e cioè se possa o no sussistere una responsabilità penale dei membri del comitato di controllo per omesso impedimento dell’evento, ex art. 40, cpv., c.p., laddove, ben inteso, il comitato di
controllo non abbia svolto fino in fondo la sua funzione e quindi abbia in un
certo senso facilitato l’elusione fraudolenta dell’organo apicale che ha successivamente commesso il reato (8). Il problema non è affatto di poco mo-
( 5 ) Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, 3a
ed., Milano, 2003.
( 6 ) Sia consentito, sul punto, il rinvio a Manna, Corso di diritto penale, Parte generale, 2o,
Padova, 2012, 209 ss.
( 7 ) Cfr. Torre, Riflessioni sul diritto britannico in tema di responsabilità penale degli enti:
il corporate killing, in RTDPE, 2009, 255 ss. e spec. 261 ss.; della stessa v. anche Id., La «privatizzazione» delle fonti di diritto penale. Un’analisi comparata dei modelli di responsabilità penale nell’esercizio dell’attività di impresa, Bologna, 2014; nonché Plantamura, Diritto penale
e tutela dell’ambiente, Bari, 2007, 105 ss.
( 8 ) Pongono, in dottrina, tali problemi, Assumma, Principi generali della nuova disciplina. Modelli organizzativi dell’impresa e responsabilità dell’organo di controllo, Relazione al Se-
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mento ed anzi coinvolge una delle questioni più delicate in materia di reati
omissivi impropri, ovverosia il senso ed i limiti dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, della c.d. posizione di garanzia, in particolare della posizione di controllo, dalle fonti di pericolo (9). Più in particolare, siamo dell’avviso che non sia configurabile una responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento e ciò per le seguenti ragioni. In primo luogo pensiamo
che la funzione del comitato di controllo si esaurisca in un obbligo di sorveglianza, che non equivale affatto alla ipostatizzazione, nei confronti dello
stesso, di una posizione di controllo, in quanto, come bene ha dimostrato la
Leoncini, trattasi di due obblighi giuridici profondamente diversi (10).
La dimostrazione di quanto stiamo assumendo si ricava dal fatto che, se
davvero i membri del comitato di controllo fossero titolari di una posizione
di garanzia nel senso precedentemente sostenuto, ne conseguirebbe inevitabilmente che sugli stessi graverebbe un obbligo giuridico di impedire
l’evento, che però, nel caso di specie, non può che consistere nel reato commesso dall’organo apicale. Stando così la questione non v’è chi non veda
come un’estensione della responsabilità penale per omissionem ai membri
del comitato di controllo integrerebbe, a ben considerare, una sorta di analogia in malam partem, in quanto tali soggetti verrebbero sostanzialmente
equiparati agli ufficiali ed agli agenti di polizia giudiziaria, che invece costituiscono gli unici soggetti, ex art. 55 c.p.p., deputati ad impedire la commissione di reati.
Anche in questo caso bisogna quindi stare molto attenti ad individuare
troppo semplicisticamente quelle che sono state giustamente definite «fantomatiche» posizioni di garanzia (11), in quanto, ragionando diversamente,
si rischia fondamentalmente di mettersi in rapporto di tensione con lo stesso principio di stretta legalità.
5. – Dobbiamo in questa sede sciogliere altresì alcuni ulteriori interrogativi di non poco momento, che sono stati posti da attenta dottrina (12),
minario di Studio su: «La responsabilità in sede penale delle imprese e degli enti pubblici economici. La riforma dei reati societari», Roma, 11.12.2001; nonché, successivamente, Carmona, Premesse a un corso di diritto penale dell’economia; mercato, regole e controllo penale nella
postmodernità, Padova, 2002, 217-218.
( 9 ) In argomento, per tutti, nella manualistica, cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale,
Parte generale, 7o, Bologna, 2014, 626 ss. e la bibliografia ivi citata.
( 10 ) Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino,
1999.
( 11 ) In tal senso, Pisani, Controlli sindacali e responsabilità penale nelle società per azioni,
Milano, 2003.
( 12 ) Cfr. in particolare De Maglie, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle so-
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circa il ruolo e le funzioni esercitate dal comitato di controllo. Tali interrogativi, infatti, si sono giustamente posti nel silenzio del legislatore, per cui la
relativa soluzione potrebbe essere attualmente presa in considerazione anche dal legislatore medesimo per un’eventuale integrazione del dato normativo, affinché lo stesso non generi pericolosi equivoci.
Il primo problema che si è posto è quello relativo alla stessa nomina del
comitato di controllo, in quanto crediamo di essere nel giusto laddove riteniamo che lo stesso non possa essere nominato dal consiglio di amministrazione, giacché altrimenti sussiste il fondato rischio di creare una c.d. struttura interna che sia «alle dipendenze» del consiglio di amministrazione medesimo, con conseguente rischio non solo di conflitto di interessi, ma anche
e, conseguentemente, di ineffettività. Ecco la ragione per la quale riteniamo
preferibile che il comitato medesimo venga invece nominato dall’assemblea
dei soci, ove infatti la nomina stessa risulta il frutto di una sintesi tra l’opinione della maggioranza e quella della minoranza assembleare.
Un secondo interrogativo riguarda a chi debba rispondere il comitato
in questione giacché è stato giustamente rilevato dalla stessa De Maglie come, laddove i referenti fossero l’assemblea dei soci o l’autorità giudiziaria,
ciò recherebbe pregiudizio alle esigenze di segretezza su cui si fonda l’efficacia dei c.d. compliance programs. Ecco la ragione per cui riteniamo in primo luogo che le esigenze di segretezza debbano comunque essere bilanciate
con l’obiettivo del perseguimento dei reati e, conseguentemente, che la funzione precipua del comitato di controllo debba pertanto integrare una posizione di «filtro» nell’ambito societario, nel senso, in particolare, di avvertire
gli organi sociali che, seguendo determinate direttive, sussiste il fondato rischio della commissione di fatti penalmente rilevanti e quindi riteniamo che
questa sia l’essenziale funzione di sorveglianza che debba esercitare il comitato di controllo medesimo (13).
Da ultimo, per quanto riguarda la questione relativa al soggetto che
debba remunerare il comitato di controllo, crediamo sia opportuno che ciò
avvenga da parte delle società nel suo complesso, e quindi non già da parte
di un singolo organo della stessa, come spese imputabili al medesimo, giacché, altrimenti, si rischierebbe di nuovo di produrre una situazione di «conflitto di interessi» che nuocerebbe non solo al funzionamento, ma anche alla necessaria indipendenza ed autonomia del comitato di controllo.
cietà, Milano, 2002, spec. 333-338; nonché già Id., La disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle associazioni. Principi generali e criteri di attribuzione
della responsabilità, in DPP, 2001, 1348 ss. e, spec. 1351-1352.
( 13 ) Sia, in argomento, consentito il rinvio a Manna, La responsabilità da reato degli enti,
etc. cit., 59-60.
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6. – Analizziamo ora un recente fenomeno di origine nord-americana, il
whistleblowing, che letteralmente significa «soffiare il fischietto» e consiste
nella denuncia di pratiche aziendali che violino leggi, regolamenti interni o
altre disposizioni legali, oppure standards etici (14).
Il soggetto, o i soggetti, in questione potrebbero quindi costituire un ulteriore, rilevante, ausilio, oltre il già analizzato organo di controllo, allo scopo di evitare che nell’ambito dell’impresa vengano commessi fatti penalmente rilevanti. Orbene, l’art. 1, comma 51, della l. 6.11.2012, n. 190, recante: «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità della pubblica amministrazione» ha già introdotto nell’ordinamento italiano la figura in oggetto, in quanto l’anzidetta disposizione si riferisce al «dipendente pubblico che segnala illeciti», offrendo ad esso una
parziale forma di tutela.
Inserendo, infatti, un nuovo art. 54 bis nel d. lgs. 30.3.2001, n. 165, si è
stabilito che il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o
alla Corte dei Conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico, condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può esser sanzionato, licenziato, né sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per
motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell’ambito del procedimento disciplinare relativo alle condotte suindicate,
l’identità del segnalante non può essere rivelata senza il suo assenso sempre
che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti
distinti ed ulteriori rispetto alla segnalazione. Nel diverso caso, invece, in
cui la contestazione sia fondata in tutto o in parte sulla segnalazione, la predetta identità potrà essere rivelata, laddove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato. Da ultimo, l’eventuale
adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata, per i provvedimenti di competenza, al Dipartimento della funzione pubblica, dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione ove tali provvedimenti sono stati posti in essere. Si è, infine, stabilito che la denuncia è sottratta all’accesso ai documenti amministrativi, di cui alla l. n. 241/1990.
Come può, dunque, arguirsi sussiste già una disciplina dell’istituto, ma
nell’ambito della pubblica amministrazione, per cui bisogna ora verificare
se l’istituto in oggetto possa essere utilmente esteso anche alla responsabili-
( 14 ) In argomento, da ultimo, Di Bitonto, Sulla ricostruzione giudiziaria della corruzione
internazionale, in Del Vecchio-Severino (a cura di), Il contrasto alla corruzione nel diritto
interno e nel diritto internazionale, Padova, 2014, 181 ss. e, quivi, 189 ss.
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tà da reato degli enti, soprattutto in ambito societario (15). Sotto questo profilo, se da un lato la disciplina italiana tende chiaramente a proteggere il
soggetto che denuncia, da ritorsioni o da attività di mobbing, bisogna, però,
per altro verso, anche nell’ambito di un eventuale procedimento disciplinare intraziendale, accertarsi effettivamente se il denunciante si riferisca a fatti
veri, oppure utilizzi il suo ruolo per vendette o ritorsioni di carattere personale. Ecco quindi la ragione per cui riteniamo che anche nel procedimento
disciplinare intraziendale sia utile che venga svelata l’identità del denunciante, in modo tale che l’incolpato possa adeguatamente difendersi conoscendo non solo il capo d’incolpazione che gli viene mosso ma anche la fonte dell’incolpazione medesima, sempre, ben inteso, che ciò non danneggi le
esigenze di protezione del whitstleblower.
Ciò, a maggiore ragione, non può non valere nell’ambito del processo
penale, per la fondamentale ragione che addirittura nell’ambito di tale processo è dal codice di rito bandita ogni forma di anonimo (16), per cui, anche
se sussiste una discutibile tendenza giurisprudenziale per cui la notitia criminis anonima serve comunque ad iniziare le indagini, va però in ogni caso
assicurato che già in sede di interrogatorio dell’indagato, come peraltro
prescrive il codice di rito, siano contestate a quest’ultimo le accuse che gli
vengono mosse ed anche le fonti di prova, a meno che ciò non nuocia al segreto delle indagini, che viene comunque a cadere con l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. In sintesi, il nuovo istituto, laddove lo si voglia
introdurre anche in ambito societario, va disciplinato con grande accuratezza, perché bisogna, da un lato, tutelare il denunciante da possibili ritorsioni ma, dall’altro, consentire all’incolpato e, in seguito, eventualmente ed
a maggior ragione, anche se indagato, la più ampia facoltà di difesa nei confronti delle accuse che gli vengono mosse.
7. – Un altro profilo che si collega idealmente a quanto sinora osservato,
cioè alla individuazione degli strumenti più idonei a combattere la corruzione, pure mediante la responsabilità da reato degli enti, è quello relativo
al «costo» del sistema ideato dal legislatore con la 231 del 2001. Di recente,
infatti, si è sostenuto come il sistema di responsabilità da reato degli enti,
( 15 ) Cfr. in argomento in particolare Nieto Martin, Internal Investigation, WhistleBlowing, and Cooperation: The Struggle for Information in the Criminal Process, in Manacorda-Centonze-Forti (ed. by), Preventing Corporate Corruption – The Anti-Bribery Compliance Model, Heidelberg, 2014, 69 ss. e, quivi, 74.
( 16 ) Cfr., per quanto riguarda le denuncie anonime quanto disposto dall’art. 333, comma
3, c.p.p.; più in generale, in argomento, Miraglia, Spunti per un dibattito sulla testimonianza
anonima. Le coordinate del dibattito sovranazionale e le novità introdotte nel nostro ordinamento dalla l. 136/2010, in www.penalecontemporaneo.it, 30.12.2011.
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che indubbiamente costituisce una delle normative più rigorose per le imprese, comporta però notevoli costi di gestione, sia per quanto riguarda la
nomina del comitato di controllo, sia per quanto attiene all’adozione dei
compliance programs. In questa prospettiva si avverte il rischio, ritenuto
niente affatto remoto, da un lato di penalizzare le imprese italiane sul piano
della concorrenza e, dall’altro, di scoraggiare i già recalcitranti investitori
stranieri dall’operare nel nostro Paese, a causa del fatto che essi possono valutare «ingiustificato ed eccessivamente oneroso prevedere una struttura
organizzativa ad hoc solo sulla base di un ingresso nel mercato giuridico italiano» (17).
Sembra tuttavia di poter ravvisare una certa quale dose di antinomia tra
la prospettiva di combattere la corruzione con strumenti sempre maggiormente efficaci, proprio sul presupposto che la corruzione non incide soltanto sull’imparzialità ed il buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., ma anche profondamente sulla concorrenza e quindi, in
definitiva, sulla situazione economica di un determinato Paese, da un lato,
e, dall’altro, rendere più «elastici» i presupposti della responsabilità dell’ente non solo con riferimento ai compliance programs, ma soprattutto con
riguardo alla istituzione dei comitati di controllo. Non va infatti sottovalutata la circostanza per cui la creazione del comitato di controllo, circa la responsabilità penale degli organi apicali, non solo consente, inter alios, di
escludere la responsabilità da reato dell’ente, ma è funzionale altresì ad una
gestione in bonis dell’impresa, che è pertanto funzionale proprio ad evitare
la commissione di reati così gravi e con effetti così pesanti sull’economia come, per l’appunto, la corruzione. Stesso discorso, naturalmente, va fatto
per l’adozione dei compliance programs, in quanto sicuramente anch’essi
costituiscono un costo non indifferente per l’impresa ma mentre nell’ordinamento nord-americano servono soltanto a diminuire la pena, nel sistema
italiano, se adottati prima della commissione del reato, sono addirittura
funzionali ad escludere la responsabilità da reato dell’ente, mentre, se sono
adottati dopo, servono comunque ad evitare l’applicazione delle sanzioni
interdittive, per consentire soltanto l’irrogazione di sanzioni pecuniarie. In
altri termini, la rigorosità del sistema prefigurato con la 231 del 2001 possiede una precisa ratio e, soprattutto, un «messaggio» che con il decreto le-
( 17 ) Così, testualmente, Alessandri, Attività di impresa e responsabilità penali, in RIDPP, 2005, 564; nonché, su analoga falsariga, più di recente, Severino, «Omogeneizzazione»
delle regole e prevenzione dei reati: un cammino auspicato e possibile, in AA.VV., First Colloquium. Corporate criminal liability and compliance programs, Napoli, 2012, 427 ss.; nonché,
da ultimo, Scaroina, Corruzione e responsabilità del gruppo di imprese, in Del Vecchio-Severino, op. cit., 71 ss. e, quivi, 77-78.
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gislativo si è inteso trasmettere al mondo delle imprese, cioè che «il reato
non paga».
Per analoghe ragioni confermiamo le perplessità circa una proposta di
modifica del decreto legislativo 231/2001, elaborata con il contributo dell’AREL e della Price Waterhouse Coopers e, successivamente, diventato un
Progetto di legge governativo che, in particolare, aveva l’obiettivo di trasferire il giudizio sull’idoneità dei modelli di organizzazione e, quindi, in definitiva, quello sulla sussistenza della colpa di organizzazione, dal giudice penale a società private, che avrebbero dovuto certificare l’idoneità dei modelli organizzativi loro sottoposti, per prevenire il rischio della commissione dei reati (18).
Orbene, anche se, onde evitare pericolosi «conflitti d’interesse» si potrebbe ricorrere ad un elenco di società «di controllo», dal quale sorteggiare quella incaricata di verificare l’idoneità del modello organizzativo ad essa
sottoposto, riteniamo comunque preferibile che della questione si occupi
ancora il giudice penale proprio perché, essendo il modello organizzativo
funzionale all’intero meccanismo relativo alla responsabilità da reato dell’ente, che si coniuga, nell’ambito del simultaneus processus, con la responsabilità penale del dipendente o del dirigente dell’impresa, il giudice penale
medesimo fornisce, almeno a nostro avviso, maggiori vantaggi in tema sia di
efficienza che, soprattutto, di garanzia (19).
8. – Una delle tematiche in genere ricorrenti quando ci si accinge ad
analizzare la responsabilità da reato dell’ente è quella di interrogarsi sulla
natura giuridica di tale responsabilità: ciò, si badi, almeno a nostro avviso,
non significa affatto porsi un problema di indole squisitamente classificatoria, giacché dalla risoluzione di tale questione discendono, ovviamente,
conseguenze di non poco momento, soprattutto in ordine all’applicabilità o
no dei principi costituzionali in materia penale anche in subiecta materia.
In argomento va rilevato come la rubrica si riferisca ad una responsabilità «amministrativa», ma, com’è noto, la rubrica stessa non vincola l’interprete, tanto è vero che nella Relazione di accompagnamento al decreto legislativo in oggetto ci si riferisce ad una sorta di tertium genus, ovverosia una
( 18 ) In argomento Fiorella, La colpa dell’ente per la difettosa organizzazione generale, in
Compagna (a cura di), Responsabilità individuale e responsabilità degli enti negli infortuni
sul lavoro, Napoli, 2012, 267 ss. e, quivi, 274 ss.
( 19 ) Analogamente ed autorevolmente, Flick, Le prospettive di modifica del D.Lgs. n.
231/2001 in materia di responsabilità amministrativa degli enti: un rimedio peggiore del male?,
in Cass. Pen., 2010, 4033 ss., ove è riportato in appendice anche il testo dello Schema di disegno di legge trattato.
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forma ibrida di responsabilità, che assume in sé alcune caratteristiche della
responsabilità amministrativa ed altre, viceversa, della responsabilità penale.
Pur tuttavia, in linea generale, ci sia consentito un garbato rilievo critico
agli estensori della Relazione, giacché è risaputo a livello ermeneutico come
l’utilizzazione della categoria del tertium genus nasconda, il più delle volte,
l’incapacità o la non volontà del legislatore di propendere per una strada,
piuttosto che per un’altra.
I più recenti contributi dottrinari sul tema, però, sono tutti nel senso
che la responsabilità da reato dell’ente costituisca una vera e propria responsabilità penale o, al limite, para-penale (20). Se, dunque, a dispetto delle «etichette», siamo di fronte ad una vera e propria responsabilità penale,
ne consegue che in materia bisogna anche applicare le disposizioni penalistiche contenute nella Carta costituzionale, con particolare riguardo, per
quel che qui rileva, alla presunzione di innocenza. Ci si deve infatti a questo
punto interrogare proprio sull’art. 6 del d. lgs. 231/2001, cioè sull’inversione dell’onus probandi, nel senso che spetta alla società e non già al pubblico
ministero dimostrare la mancanza della c.d. colpa dell’organizzazione, per
aver adempiuto a tutti i requisiti previsti dalla norma in oggetto.
Parrebbe, dunque, almeno prima facie, sussistente un vulnus all’art. 27,
comma 2, della Costituzione (21), che, tuttavia, almeno a nostro avviso, non
si rivela tale per due fondamentali ragioni.
La prima riguarda l’iter legislativo e, soprattutto, la ratio dell’art. 6 che,
come abbiamo in precedenza ricordato, era proprio quella di evitare
un’ipotesi di responsabilità oggettiva, come tale in contrasto con l’art. 27,
comma 1, della Costituzione, se si fosse adottata sul modello civilistico, o su
quello francese, la responsabilità «automatica» dell’impresa nel caso del
reato commesso dall’organo apicale, che, com’è noto, agisce «in nome e per
conto» dell’impresa medesima. Per evitare ciò, si è, dunque, costruito quel
complesso, e, per certi versi, anche «macchinoso», sistema, delineato dal-
( 20 ) Così, ad es., Moscarini, Il procedimento penale contro le società, in Del VecchioSeverino, op. cit., 152 ss.; Fanuele, Archiviazione e riapertura delle indagini nel procedimento de societate, in ibid, 208 ss.; e soprattutto, nella manualistica, Fiandaca-Musco, op. cit.,
174 ss., cui si rinvia anche per la numerosa bibliografia ivi citata.
( 21 ) In argomento, da ultimo, Di Bitonto, Sulla ricostruzione giudiziaria, op. cit., 190 ss.,
con riferimenti anche alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; nonché già FiorellaValenzano, Linee comuni e prospettive di sviluppo della disciplina degli Stati membri dell’U.E., in Fiorella-Valenzano (a cura di), La responsabilità dell’ente da reato nella prospettiva del diritto penale «globalizzato», Roma, 4-5.4.2014, Napoli, 2015, 3 ss. su cui sia consentito, «in replica», il rinvio a Manna, «Costanti» e «variabili» della responsabilità da reato degli
enti nell’era della globalizzazione, in www.archiviopenale.it, fasc. 2, Maggio-Agosto 2014, ed
ora anche in Fiorella-Valenzano (a cura di), op. cit., 41 ss.
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l’art. 6, che tuttavia, ad un più approfondito esame, a nostro giudizio non
dà luogo ad un’inversione dell’onere della prova in senso proprio, perché
non si tratta della prova di un elemento costitutivo di un reato, bensì, al
contrario, della dimostrazione di una sorta di «scusante» a favore della persona giuridica, per cui, in ciò seguendo il noto insegnamento della giurisprudenza costante della Suprema Corte di Cassazione, non trattasi di
un’inversione dell’onus probandi, bensì, soltanto, dell’adempimento da parte dell’ente, di un «onere di allegazione». Ciò nel senso che, se l’ente ha interesse ad escludere la sua responsabilità da reato, che in genere è dimostrata per il sol fatto che trattasi di un organo apicale – che, lo si ribadisce, di regola agisce «in nome e per conto» dell’ente medesimo – può «evadere» dai
rigori della norma se riesce a dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti di
quella «scusante», di cui all’art. 6, che, come tale, ha la capacità di escludere
la c.d. colpa dell’organizzazione.
Se dunque si accede a quest’ultimo tipo di interpretazione, siamo persuasi che non sussista alcun vulnus sia all’art. 27, comma 2, della Costituzione, che anche alla similare normativa applicata dalla Corte Europea di Strasburgo, perché è ciò che sostanzialmente avviene anche in materia di scriminanti, ove anche nella concreta prassi giudiziaria è nell’interesse dell’imputato dimostrare la sussistenza della scriminante medesima, che, infatti, di
regola verrà provato dallo stesso imputato e ben più raramente dal pubblico ministero.
Ciò, naturalmente, non significa affatto negare la valenza delle norma
processuale che stabilisce l’assoluzione per insufficienza della prova anche
nel caso delle scriminanti o delle scusanti, giacché una cosa è il mancato
raggiungimento della piena prova della sussistenza della causa di esclusione
del reato, altra e ben diversa è a chi spetti l’onere della dimostrazione della
sussistenza della causa di esclusione del reato, che non può che essere trattato, come problema ermeneutico, diversamente rispetto a quello relativo
all’onere della prova degli elementi costitutivi del reato per la semplice, ma
decisive ragione che si tratta di norme giuridiche di natura tutt’affatto diversa, in quanto queste ultime appartengono al genus delle norme incriminatrici e le prime costituiscono, invece, secondo un’opinione ormai largamente condivisa, norme generali dell’intiero ordinamento giuridico (22). La
dimostrazione della bontà del nostro assunto la ricaviamo anche dall’atteggiamento della Corte costituzionale, che, laddove ha dichiarato illegittima
( 22 ) In tal senso, per tutti, autorevolmente Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in RIDPP, 1983, 1190 ss.; nonché già nello stesso senso Vassalli G.,
Limiti al divieto di analogia in materia penale. Norme penali e norme eccezionali, Milano,
1942.
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una norma penale, per contrasto con la presunzione d’innocenza, lo ha
sempre effettuato con riguardo alle norme incriminatrici (23), come, ad es.,
dimostra il caso dei c.d. reati di mero sospetto e giammai con riguardo a
norma scriminanti o scusanti.
9. – Per quanto riguarda più in particolare la questione relativa all’apparato sanzionatorio previsto dalla 231/2001 per i reati-presupposto, va
evidenziata una questione particolare, che potrebbe però risultare di legittimità costituzionale, per contrasto con il principio di uguaglianza-ragionevolezza (24). Intendiamo riferirci al fatto che, mentre per tutti gli altri reatipresupposto, il sistema sanzionatorio prevede per l’ente l’applicazione sia
di sanzioni interdittive che di sanzioni pecuniarie, oltre, ben inteso, la pubblicazione della sentenza di condanna e l’amministrazione giudiziaria, per
quanto riguarda i reati societari il legislatore invece di prospettare anche
per questi ultimi sia le sanzioni interdittiva che quelle pecuniarie, si è limitato, davvero inspiegabilmente, a prevedere l’irrogazione all’ente soltanto di
sanzioni di carattere pecuniario. Né può valere, come razionale giustificazione, il fatto che con la assai discussa «controriforma» del 2002 (25) il legislatore abbia notevolmente depotenziato i reati societari medesimi, a partire dalle false comunicazioni sociali, perché già questa non sarebbe una ragione sufficiente a limitare in pratica alle sole sanzioni pecuniarie l’apparato sanzionatorio previsto per le persone giuridiche, ma, di contro, va aggiunto che comunque sono rimasti reati anche di un certo rilievo, soprattutto perché perseguibili d’ufficio, come ad esempio l’«Ostacolo all’esercizio
delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza», ex art. 2638 c.c., che
prevede anche un apparato sanzionatorio di tutto rispetto. La limitazione,
quindi, alle sole sanzioni pecuniarie applicabili alle persone giuridiche nel
caso di reati societari costituisce un unicum nel panorama dei reati presupposto, che tuttavia, per le motivazioni dianzi accennate, risulta del tutto irragionevole e, quindi, crea una disparità di trattamento, rilevante ex art. 3
( 23 ) Cfr., ad es., per quanto riguarda i c.d. reati di «mero sospetto», Corte cost., sent. n.
14 del 2.2.1971, con riferimento all’art. 707 c.p. e Corte cost., sent. n. 110 del 19.7.1968 e, infine, Corte cost., sent. n. 370 del 2.11.1996, che ha definitivamente dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 708 c.p., per contrasto proprio con la presunzione d’innocenza. In
dottrina, risulta sempre attuale il saggio di Coppi, Osservazioni sui «reati di sospetto» e, in
particolare, sul «possesso ingiustificato di valori», in Giur. cost., 1968, I, 330 ss.
( 24 ) In argomento, da ultimo, Dodaro, Uguaglianza e diritto penale – Uno studio sulla
giurisprudenza costituzionale, Milano, 2012.
( 25 ) Sui «nuovi» reati societari, cfr., nella manualistica, Maruotti, I reati societari, in
Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, etc., cit., 89 ss. con ivi la numerosa bibliografia citata, cui pertanto, per eventuali maggiori approfondimenti, anche si rinvia.
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Cost., con l’apparato sanzionatorio più completo previsto, invece, per tutti
gli altri reati presupposto (26).
Una seconda questione che intendiamo affrontare con riguardo all’apparato sanzionatorio, attiene, invece, alle prospettive di riforma, giacché in
effetti appare assai convincente l’intervento in questa sede del collega Masucci (27). Quest’ultimo infatti ha proposto l’estensione alla responsabilità
da reato degli enti di istituti già da tempo esistenti nel codice penale, quale
la sospensione condizionale della pena, oppure, in particolare, istituti di
nuovo conio, coma la recente introduzione della sospensione con la messa
alla prova (28). La proposta, ad una prima, ma superficiale analisi, potrebbe
apparire addirittura eterodossa, in quanto sia la sospensione condizionale
della pena, che la sospensione con messa alla prova, sembrano riguardare
essenzialmente persone fisiche e non già persone giuridiche. Se, tuttavia, ci
si libera da una visione eccessivamente «antropomorfica» degli istituti in
questione, ci si può rendere conto come gli stessi ben possono risultare utili, a livello sanzionatorio, anche per le persone giuridiche, in quanto, circa
la sospensione con messa alla prova, ben può la persona giuridica, attraverso i suoi dipendenti, svolgere lavori a favore della comunità e, attraverso i
suoi organi, decidere anche forme risarcitorie per la vittima. Altrettanto,
sotto quest’ultimo profilo, è a dirsi anche per la sospensione condizionale
della pena, se, però, aggiungiamo noi, la stessa si trasformi finalmente da
«grazia giudiziale» in «probation giudiziale», nel senso che la stessa sospensione condizionale della pena debba essere, anche con riguardo a reati
commessi per la prima volta, subordinata obbligatoriamente ad attività lato
sensu risarcitorie a favore della vittima, che per la persona giuridica potrebbe estendersi, ad esempio, utilmente, al ripristino della falda acquifera inquinata, nel caso di reati ambientali, aut similia (29).
D’altro canto, anche i riferimenti costituzionali, come l’art. 27, comma
1 e 3, Cost., necessariamente si sono dovuti interpretativamente «adattare»
al nuovo principio «societas delinquere et puniri potest», dato che, altrimen-
( 26 ) Condivide tale rilievo anche Zannotti, Intervento alla Tavola Rotonda su: «Prospettive di riforma della disciplina della responsabilità degli enti da reato», etc., cit.
( 27 ) Masucci, Intervento alla Tavola Rotonda su: «Prospettive, etc.», loc. cit.
( 28 ) In generale sulla riforma relativa al c.d. sovraffollamento delle carceri cfr. Palazzo,
Le deleghe sostanziali: qualcosa si è mosso, tra timidezze e imperfezioni, in Conti-Marandola-Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014, 145 ss.; nonché,
più specificatamente, Scarcella, Sospensione del procedimento con messa alla prova, in ibid,
339 ss.
( 29 ) Sulla sospensione condizionale della pena, e le relative prospettive di riforma, sia
consentito, nella manualistica, il rinvio a Manna, Corso di diritto penale, etc., cit., 511 ss., e la
bibliografia ivi citata.
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ti, non solo il contrasto con tali norme, se fossero state ancora intese secondo il loro significato originario, sarebbe stato inevitabile, ma soprattutto
l’interprete avrebbe perso un’importante occasione per una necessaria interpretazione «evolutiva», in primo luogo proprio delle norme costituzionali (30).
10. – La questione, tuttavia, a nostro avviso, più spinosa, che riguarda in
particolare gli «aggiornamenti» al d. lgs. 231 del 2001, con riguardo ai reatipresupposto, riguarda proprio l’elencazione di questi ultimi, giacché il legislatore, nei successivi interventi, non ha affatto mostrato una linea di politica criminale unitaria e coerente, soprattutto con la funzione originaria della
responsabilità dell’ente, che non poteva che essere chiaramente quella di rivolgersi alla c.d. criminalità del profitto. Il legislatore, al contrario, ha inserito nell’ambito dei reati-presupposto, fattispecie le più diverse, che sovente nulla hanno a che vedere con la criminalità d’impresa e, quindi, con la
criminalità del profitto. Se infatti sicuramente rientrano nell’alveo originario l’art. 24, riguardante l’indebita percezione di erogazioni e la truffa in
danno dello Stato o di un ente pubblico, etc., oppure l’art. 24 bis, ovverosia
i delitti informatici ed il trattamento illecito di dati, nonché, ex art. 25, la
concussione e l’induzione indebita a dare o promettere e la corruzione, a
cui si possono senz’altro aggiungere i delitti contro l’industria e il commercio (art. 25 bis1) nonché, ovviamente, i reati societari (art. 25 ter) e gli abusi
di mercato (art. 25 sexies) e, da ultimo, l’omicidio e le lesioni colpose commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (art. 25 septies), la ricettazione, il riciclaggio e il reimpiego (art. 25 octies), i delitti in materia di violazione del diritto d’autore (art. 25 novies) ed i
reati ambientali (art. 25 undecies), suscitano invece non poche perplessità
altre fattispecie criminose, che anch’esse fungono come reati presupposto.
Intendiamo riferirci, in primo luogo, ai delitti di criminalità organizzata
(art. 24 ter) ed, in secondo luogo, alle falsità in monete ed in carte di pubblico credito (art. 25 bis), etc., nonché i delitti con finalità di terrorismo o di
eversione dell’ordine democratico (art. 25 quater), le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 25 quater1), i delitti contro la personalità individuale (art. 25 quinquies) e, infine, qualche dubbio resta sull’impiego di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (art. 25 duodecies) perché, in effetti, re melius perpensa, potrebbe correttamente riguarda-
( 30 ) In argomento cfr., ad esempio, Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito
punitivo, in Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti, Milano, 2005, 3 ss.; nonché
già De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato, in
RIDPP, 2001, 1126 ss.
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re la responsabilità d’impresa, laddove, ben inteso, quest’ultima li abbia assunti.
Si ha, in altri termini, la fondata impressione che il legislatore abbia confuso, circa quest’ultima categoria di reati-presupposto, tra «associazioni illecite» e «illeciti delle associazioni» (31), nel senso che la responsabilità da reato
degli enti non può che riguardare questa seconda categoria, giacché l’impresa non può certo essere parificata o considerata un’associazione illecita, bensì, al contrario, è ovviamente del tutto lecita, solo che, nel suo ambito, sono
stati commessi reati da parte o del dipendente, oppure dell’organo apicale e
per questo scatta la responsabilità da reato dell’ente, di cui alla 231 del 2001.
Unica eccezione potrebbe profilarsi nel caso di una società costituita al solo
fine di commettere reati, come nel caso del riciclaggio, ma allora è adeguata
la sanzione più grave, cioè a dire lo scioglimento della società medesima.
Nell’altra categoria di reati, cioè quella qui in discussione, non siamo invece in presenza di associazioni lecite, bensì, di associazioni ab origine illecite, cioè quella che nei codici penali ottocenteschi venivano definite «le associazioni dei malfattori» e che, attualmente, hanno assunto diverse configurazioni, a partire da quella, paradigmatica, di cui all’art. 416 c.p.
Fra l’altro, diventa estremamente problematico applicare la normativa
di cui qui trattasi, a livello processuale, nel caso del secondo tipo dei reatipresupposto perché, se si fà l’esempio del falso nummario, è evidente che
non sarà commesso da un’impresa, bensì da persone fisiche, c.d. falsari, che
possono concorrere nella commissione di tale tipo di reato o addirittura costituire all’uopo un’associazione per delinquere, che però certamente non
possiederà né atto costitutivo, né statuto e, quindi, non avrà nemmeno un
rappresentante legale che possa stare in giudizio per l’associazione stessa.
Altrettanto, ovviamente, è a dirsi per quanto riguarda i delitti di criminalità
organizzata, e, si potrebbe anche aggiungere, quello relativo alle pratiche di
mutilazione di organi genitali femminili, che costituiscono più un delitto
«culturalmente orientato» (32), nel senso di una pratica che cittadini stranieri hanno, per ragioni, in particolare, di carattere religioso, importato nel nostro Paese e che coinvolge, quindi, problematiche del tutto diverse (33).
( 31 ) In argomento, autorevolmente ed esaustivamente, Palazzo F.C., Associazioni illecite ed illeciti delle associazioni, in RIDPP, 1976, 422 ss.
( 32 ) In argomento cfr. in particolare De Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie
e modelli penali, Pisa, 2010.
( 33 ) Nella manualistica, di recente, mostrano analogamente talune perplessità circa qualche figura di reato inserita fra i c.d. reati-presupposto «che può apparire incongrua o poco
compatibile con la logica della responsabilità degli enti (come ad esempio nel caso macroscopico, già accennato, delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili)», Fiandaca-Musco, op. cit., 179.
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È pur vero, come è stato anche in questa sede rilevato (34), che l’inserimento fra i reati-presupposto sovente è avvenuto a causa dell’adempimento, da parte dello Stato italiano, di precisi obblighi di carattere comunitario,
ma ciò non toglie che, almeno a nostro avviso, è errato il collocamento nel
«sottosistema» relativo alla responsabilità da reato dell’ente, perché, ad
esempio, il riferimento ai delitti di criminalità organizzata, non può che attenere, più propriamente, al correlativo sottosistema e non già a quello di
cui alla 231 del 2001 (35).
È pur vero che proprio la proliferazione del modello dei cd. sottosistemi penali presenta comunque un serio inconveniente, che è quello del rischio del mancato rispetto dei principi generali in materia penale, ma l’ormai accertata e, forse definitiva, crisi del modello tradizionale di codice penale, non può che provocare la proliferazione di tali sottosistemi, di cui, fra
l’altro, la stessa 231/2001 costituisce uno dei più chiari esempi, ma, in questo caso, il problema non è quello di discutere o no della validità o dell’opportunità dei sottosistemi, che comunque già esistono, a dispetto delle critiche (36), ma quello più specifico di utilizzare, quali reati-presupposto, della
responsabilità da reato dell’impresa, solo quelli che attengono alla criminalità del profitto, mentre è d’uopo collocare gli altri nei sottosistemi a loro
più consoni.
Ragionando diversamente, si rischia quello che è avvenuto anche con riguardo al recente codice antimafia, ove le misure di prevenzione sono state
estese a reati che nulla hanno a che vedere con la criminalità mafiosa, come,
ad esempio, la criminalità degli stadi, creando così un contenitore polimorfo, con scarsa coerenza infrasistematica (37).
11. – Anche da un punto di vista della disciplina processuale emergono,
almeno a nostro avviso, alcuni aspetti controversi, che richiederebbero, in
particolare, una riforma legislativa.
Il primo di detti profili riguarda l’art. 39 del d. lgs. 231/2001, cioè la
rappresentanza dell’ente, ove il punto che francamente lascia dubbi di carattere non solo interpretativo, ma, soprattutto, di indole costituzionale è il
( 34 ) Da Zannotti, op. loc. ult. cit.
( 35 ) Sui sottosistemi penali cfr., per tutti, Fiandaca, In tema di rapporti tra codice e legislazione penale complementare, in DPP, 2001, 137 ss.; nonché Id., Relazione introduttiva, in
Donini (a cura di), Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, Milano,
2003, 1 ss.
( 36 ) Per taluni accenni critici cfr., ad es., Losappio, Il sottosistema nel diritto penale. Definizione e ridefinizione, in IP, 2005, 7 ss. e, spec., 28 ss.
( 37 ) Sia consentito, sul punto, il rinvio a Manna, Il diritto delle misure di prevenzione, in
Fùrfaro (a cura di), Misure di prevenzione, Torino, 2013, 3 ss.
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fatto che nell’ambito della dichiarazione di costituzione in giudizio dell’ente, è prevista, fra i requisiti, la sottoscrizione «del difensore», da cui facilmente si arguisce che l’ente può nominare un unico difensore, come del resto è ribadito anche dall’art. 40, ove si fa riferimento all’assistenza di un difensore d’ufficio, laddove l’ente medesimo non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo. Ciò costituisce un’irragionevole disparità di trattamento rispetto all’indagato e/o all’imputato persona fisica che invece, secondo il codice di rito, ha notoriamente diritto alla nomina di due
difensori, che a loro volta possono nominare anche i rispettivi sostituti processuali. È pur vero che siamo di fronte, da un lato, ad una persona fisica e,
dall’altro, ad una persona giuridica, ma la regola generale adottata in materia di responsabilità da reato dell’ente, ovverosia che vige il principio del simultaneus processus ed inoltre che i poteri riservati all’indagato/imputato
sono estesi anche al rappresentante legale dell’ente, sta a dimostrare una sostanziale parificazione, a livello processuale, tra persona fisica e persona
giuridica, anche indipendentemente dal fatto che possono scegliere, ovviamente, strategie processuali diverse.
In questa situazione il fatto che l’ente possa nominare un unico difensore, a differenza dell’indagato/imputato, ci sembra pertanto che costituisca
un’illogica disparità di trattamento, rilevante ex art. 3 Cost., che quindi potrebbe o essere risolta dalla Corte costituzionale, laddove, ben inteso, un
giudice a quo ritenesse la relativa questione non manifestamente infondata
e rilevante per il processo in corso, oppure risolta direttamente dal legislatore con una modifica – che in fondo necessita di una correzione minima –
agli artt. 39 e 40 del d. lgs. 231/2001.
Altro profilo che suscita talune riserve nell’interprete è quello relativo al
successivo art. 58, in quanto nell’ambito della responsabilità da reato dell’ente, il pubblico ministero può emettere direttamente un decreto motivato di archiviazione degli atti, seppur dovendolo comunicare al Procuratore
generale presso la Corte d’Appello, che può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ne ricorrano le condizioni, può contestare all’ente le
violazioni amministrative conseguenti al reato. Evidentemente qui il legislatore si è un po’, come suol dirsi, fatto «prendere la mano» dalla considerazione che la persona giuridica sarebbe responsabile di un illecito amministrativo anziché del reato commesso dal dipendente e/o dal dirigente, per
cui ha previsto un, invero anomalo, potere di archiviazione del pubblico
ministero. Siccome, però, siamo persuasi che non si è di fronte a due distinti illeciti, uno di carattere penale, commesso dalla persona fisica e l’altro di
carattere amministrativo, eventualmente commesso dalla persona giuridica,
bensì soltanto ad un illecito di carattere penale, commesso dal dipendente
e/o dal dirigente, nell’ambito del quale la 231 del 2001 estende la responsaRiv. trim. dir. pen. econ. 1-2/2015
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bilità anche alla persona giuridica attraverso diversi criteri d’imputazione
del fatto di reato, rispetto a quelli valevoli per la persona fisica (38), ne consegue che il potere diretto di archiviazione del pubblico ministero costituisce, invero, un’anomalia processuale. Ciò in quanto si attribuisce al pubblico ministero, che pur sempre resta una parte, seppur pubblica, nell’attuale
processo penale, di stampo tendenzialmente accusatorio e, quindi, adversary, un potere riservato di per sé ad un organo terzo ed imparziale, quale
non può che essere il giudice, a nulla valendo, sotto questo profilo, il potere
attribuito in seconda istanza al Procuratore Generale. Riteniamo, pertanto,
che anche sotto questo profilo sarebbe decisamente opportuno quanto meno un intervento del legislatore che, come nel processo penale a carico delle
persone fisiche, prevedesse che il potere di archiviazione spetti al Gip e
giammai al pubblico ministero.
12. – Come può, quindi, agevolmente arguirsi non solo da quanto sinora osservato, ma anche da una lettura, seppur superficiale, dell’intiero testo
del d. lgs. 231/2001, siamo davvero in presenza di una sorta di «mini-codice», e, quindi, di un vero e proprio «sottosistema» penale, o para-penale,
perché dà luogo ad un sistema giuridico autonomo, con una parte di diritto
sostanziale, un’altra di diritto processuale ed una terza, infine, addirittura
di carattere societario. Resta, quindi, ulteriormente dimostrata la «profezia» a suo tempo avanzata, seppure nel settore civilistico, ma con rilievi
estendibili, ovviamente anche in campo penale, di quel grande giurista che
corrisponde al nome di Natalino Irti (39).
Con «l’età della codificazione» il chiaro Autore ha, infatti, voluto dimostrare come il modello del codice contenga ormai solo una ristretta parte
della normativa di settore, che si è invece estesa a macchia d’olio al di fuori
dei confini codicistici, sopravanzando, anche a livello quantitativo, la normativa del codice stesso. Da ciò lo svilupparsi di queste sorti di «mini-codice», o, per dir meglio, di «sottosistemi giuridici», á la Luhmann, che tuttavia, come abbiamo potuto rilevare nel corso di queste considerazioni, talvolta perdono inevitabilmente di vista il coordinamento con i principi generali, creando quindi aporie, che solo l’interpretazione, oppure la Corte costituzionale, oppure ancora il legislatore, sono abilitati a correggere.
( 38 ) Ritiene, analogamente, che unico sia l’illecito di carattere penale, di cui può rispondere sia la persona fisica, che la persona giuridica, Musco, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e interdizioni, in Dir. giust., 2001, 8 ss.; Id., Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, in Giusto proc., 2002, 117 ss.
( 39 ) Irti, L’età della codificazione, Milano, 1969, spec. 65-66.
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Zusammenfassung
Der Autor stellt die wichtigsten unterschiedlichen Interpretationsansätze
und Reformvorschläge auf dem Gebiet der strafrechtlichen Verantwortlichkeit der juristischen Personen vor. Zunächst beschäftigt er sich mit der vielbesprochenen Norm des Art. 6 GVD 231/2001, nach der bei einer betrügerischen Verletzung ihrer Organisations- und Führungsregeln keine Verantwortung der juristischen Person stattfindet, gerade weil sie diesbezüglich keine
“Tat-Herrschaft” ausüben kann. Danach hinterfragt der Autor, ausgehend
vom nachfolgenden Art.8, die Möglichkeit einer exklusiven Verantwortung
der juristischen Person, wobei er auch wichtige Erfahrungswerte aus der angelsächsischen Welt berücksichtigt. Eine weitere bedeutende Frage ist, ob das
Paradigma ex Art. 40, 2. Abs., StGB, auf die Mitglieder des Überwachungsorgans anwendbar ist, und es wird auch auf weitere Zweifelsfragen Bezug genommen, mit denen dieses Organ die Lehre beschäftigt. Eine kurze Anmerkung verdient auch das moderne Problem der whistleblower. Ein weiteres
Thema befaßt sich mit der Möglichkeit, die s.g. Compliance programs elastischer zu gestalten, wobei zu diesem Zweck ein Gesetzesvorschlag diskutiert
wird, der darauf abzielt, die Kontrolle über die selben, anstatt dem Strafrichter, Gesellschaften des Privatrechts zu überlassen. Schließlich durfte auch
eine Vertiefung der Frage nach der Natur der strafrechtlichen Verantwortung
der juristischen Personen nicht fehlen, die hier allerdings unter einem besonderen Gesichtspunkt behandelt wird, und zwar demjenigen der Umkehrung
der Beweislast im Bereich der Verantwortung der juristischen Person, u.z. immer dann, wenn als Autor des Verbrechens eine leitende Person des Unternehmens fungiert. Was die Strafmaßnahmen betrifft, so wird darüber diskutiert, ob es sinnvoll ist, die Sanktionen der strafrechtlicher Verantwortung der
juristischen Personen auf die Geldstrafen einzuschränken, und weiters die
Möglichkeit der Anwendung auf die juristischen Personen von neueingeführten Rechtsinstituten wie etwa die Aussetzung unter Bewährungsprobe. Die
größten Zweifel betreffen allerdings den Katalog der Vortaten, weil der Gesetzgeber hier augenscheinlich die verbotenen Vereinigungen mit den Verboten für Vereinigungen verwechselt hat. Abschließend beschäftigt sich der Autor mit einigen prozessrechtlichen Fragen, so zur Möglichkeit der Körperschaft, nur einen einzigen Verteidiger zu ernennen, während die den Ermittlungen unterstellte Person und der Angeklagte zwei Verteidiger ernennen
können, sowie mit der ungewöhnlichen Archivierungsbefugnis des Staatsanwaltes anstelle des Voruntersuchungsrichters. Es folgen einige abschließende und zusammenfassenden Anmerkungen zu den Vor- und Nachteilen sog. Strafrechtlicher Untersysteme, denen sicher auch dasjenige des
Ges.D. 231/2001 zuzuschreiben ist.
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Abstract
The author reviews the main interpretative disputes and the prospects for
reform of the criminal responsibility of entities. In the first place, he focuses
on the debated norm of art. 6 of Legislative Decree 231/2001, according to
which fraudulent avoidance excludes the organisational negligence of the entity precisely because it had no “possibility of control over the fact” («dominabilità del fatto»). Secondly, the author considers the perspective of a sole responsibility of the institution, by borrowing it from art. 8, taking into account
relevant experiences in the Anglo-Saxon world. Another issue worthy of note
is whether the paradigm of art. 40, para., C.P. is applicable to the members of
the Audit Committee and the author makes reference and tries to solve more
questions raised by the committee within the legal scholarship. Also the recent issue of whistleblower deserves some hints. Also the perspective of making the so-called compliance programs more flexible is discussed, by considering a draft Bill aimed to favor the control by private companies instead of
criminal courts over them. An in-depth look to the question on the legal nature of the criminal liability of the entity is also necessary, but in a particular
perspective, namely that of the inversion of the onus probandi within the responsibility of the institution when the offender is a manager. As for sanctions, the author discusses about the reasonableness of the choice of limiting
the liability of the entity for corporate crimes to mere economic sanctions, as
well as the prospect of applying the newly-introduced institutions, such as the
suspension of trial with probation, also to legal persons. The most puzzling
question, however, concerns the list of predicate offenses because the legislator clearly shows that he had confused illegal associations with the illegal acts
of associations. Finally some procedural remarks on both the possibility of appointing one single lawyer as counsel for the institution, while the person under investigation or the defendant may appoint two and the anomalous power
of pre-trial dismissal entrusted to the prosecutor rather than to the judge of
preliminary hearings. Finally, some summing up conclusions about the
strengths and weaknesses of the so-called penal sub-systems to which that outlined by Legislative Decree 231/2001 certainly belongs.
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Massimiliano Masucci
prof. associato di diritto penale nell’Università di Roma Tre
RATIO E SISTEMA DELL’ILLECITO (PARA-)PENALE
DELL’ENTE MODIFICATO
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Preliminari sul «metodo»: autonomia o accessorietà del diritto (para)penale al diritto extrapenale regolatore delle vicende richiamate. Il problema
del raccordo: dall’identità dell’oggetto alla divaricazione degli effetti di disciplina. - 3.
Dai princìpi alle regole: «soggettivo» e «oggettivo» nell’identità dell’ente responsabile. 4. Segue: conferme all’identificazione dell’ente subiettivamente inteso quale potenziale
responsabile. - 5. La disciplina positiva. «Identità» e «trasformazione» dell’ente responsabile. - 6. La fusione. - 7. La scissione. - 8. Il trasferimento del ramo di «attività» come
indice legislativo di continuità del difetto organizzativo nell’ente. - 9. L’ordinamento della trasformazione e della fusione al criterio logico della «continuità d’azione» dell’ente. 10. La «colpevolezza» dell’ente come limite della vicenda di responsabilità.
1. – Il presente scritto riprende l’analisi della responsabilità da reato
dell’ente nella prospettiva delle vicende modificative e del rinnovamento,
che esse comportino, della veste o dell’organizzazione dell’ente medesimo.
La predetta analisi è stata svolta in un precedente contributo (1), del quale
l’attuale costituisce sviluppo. Sarà qui specificamente considerata la disciplina delle modifiche dell’ente nell’odierno sistema legislativo, a partire dal
d. lgs. 8.6.2001, n. 231.
2. – Interrogativo pregiudiziale, con il quale occorre misurarsi, è se la
disciplina (para)penale delle vicende modificatrici richiamate negli artt. 28
ss. del d. lgs. 231/2001 possa discostarsi o addirittura divergere da quella
impressa a tali fenomeni in altri settori dell’ordinamento.
Come riflesso del problema ci si è chiesti, ad esempio, parlando della
«trasformazione», se l’art. 28 del d. lgs. 231/2001 si riferisca all’istituto civilistico delineato negli artt. 2498 ss. c.c., recependone alla lettera i confini,
oppure se esso, in ragione dell’autonomia normativa ed esegetica postulate
a suo favore, comprenda ipotesi, come la conversione da ente pubblico a
società per azioni, estranee alla nozione tecnico-civilistica della trasformazione propriamente détta (2). Al quesito si è data da più parti risposta positiva, nonostante si giunga così a confermare, nei confronti dell’ente «trasformato» (nell’accezione più ampia), una responsabilità che potrebbe, al-
( 1 ) «Identità giuridica» e «continuità economica» nelle vicende della responsabilità «da
reato» dell’ente. Evoluzione e circolazione dei modelli, in questa Rivista, 2014, 735 ss.
( 2 ) Cfr. Napoleoni, Le vicende modificative dell’ente, in Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti, Milano, 2010, 318 ss.
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trimenti, apparire dubbia. Il riferimento all’«ente» generalmente considerato e non solo alla società, quale soggetto della vicenda prevista dall’art.
28, è stato valorizzato a riprova della soluzione (3). Ma potrebbe anche ricordarsi, a sostegno dell’argomento, che il d. lgs. 231/2001 riunisca i fenomeni della trasformazione, fusione, scissione e cessione o conferimento
d’azienda sotto un’unica rubrica – quella della sez. II del capo II – intitolata
alle «vicende modificative»: per ciò stesso mostrando indipendenza da altri
campi dell’ordinamento, dato che – come è noto e certo non ignorava il legislatore delegato – in alcuni di quei fenomeni taluni propendono a ravvisare, almeno nella prospettiva del diritto societario, vicende non solo «modificative», ma schiettamente «estintive» delle società coinvolte.
Ora, si può senz’altro premettere che la necessità di definire con rigore
l’autonomia del diritto penale (inteso come diritto «materialmente» penale
(4)) non venga in rilievo quando, a séguito di una vicenda successoria perfezionata in sede extrapenale, la responsabilità «da reato» si trasferisca, sì, da
un ente all’altro, ma in virtù di uno specifico disposto della norma penale.
In altrettanti casi, la conservazione della responsabilità sarebbe – utilizzando le categorie del de Saussure (5) – il portato di una compiuta «sincronia»
tra la fattispecie successoria e quella da cui promani la responsabilità «da
reato»: questa seguirebbe quella, in virtù di un automatismo deputato a governare – «in sincronia», appunto – gli effetti penali ed extrapenali di un
dato fenomeno (6).
È però possibile che la norma «penale» diverga, in tutto o in parte, da
quella extrapenale: sorgendo allora l’esigenza di comprendere se, ed in qua-
( 3 ) In questa chiave si è parlato, prima della riforma organica del diritto societario, di una
«disciplina comune delle vicende modificative», introdotta dagli artt. 28 ss. del d. lgs. 231/
2001 e indipendente «dalla forma giuridica e dalla struttura organizzativa degli enti coinvolti»: cfr. Scognamiglio, Trasformazione, fusione, scissione e responsabilità «penale» degli enti, in Rass. giur. en. el., 2002, 333.
( 4 ) Si fa rinvio, sul punto, al contributo cit. alla nota 1, 737 s.
( 5 ) Su «diacronico» (avvenimento statico) e «sincronico» (come rapporto) nel sistema
linguistico, indagato come struttura, de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, 2009,
104, 106 ss., 123 ss.
( 6 ) Si tratterebbe di una manifestazione del fenomeno della «sincronia» tra norma penale
ed extrapenale, che la dottrina ha studiato sia nell’ottica della fattispecie materiale (cfr., trattando del delitto di usura, Fiorella, Appunti sulla struttura del delitto di usura, in Mercato
del credito e usura, a cura di Macario e Manna, Milano, 2002, 238 ss.), sia, soprattutto in
Germania, dal punto di vista dell’elemento psicologico, per comprendere i limiti dell’efficacia liberatoria dell’errore ricadente su tale ultima norma: si veda, al riguardo, l’ampia monografia di Kuhlen, Die Unterscheidung von vorsatzausschließendem und nichtvorsatzausschließendem Irrtum, Frankfurt a.M., 1987, 385 ss., ove si traccia una bipartizione della Zeitgeltung – statica o dinamica – riconoscibile al rinvio della fattispecie penale a qualifiche extrapenali.
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MASSIMILIANO MASUCCI
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li limiti, l’autonomia dei singoli rami dell’ordinamento possa giocare nel
senso di bipartire gli effetti di una particolare vicenda.
Per entrare nel vivo del problema, si pensi alla fusione di società commerciali. La riforma societaria (d. lgs. n. 6/2003) ha soppresso, nel vigente
art. 2504 bis c.c., il riferimento all’effetto «estintivo», chiarendo che la società incorporante o risultante dalla fusione prosegua nei rapporti delle società partecipanti, delle quali assume diritti e obblighi.
Dinanzi a tali modifiche si è fatta strada l’interpretazione, avallata dalle
sezioni unite della Cassazione (7), che ricostruisce la fusione – vuoi per incorporazione, vuoi paritaria – non come una vicenda estintivo-costitutiva,
ma modificativo-evolutiva delle società partecipanti, le quali, nel darsi un
nuovo assetto organizzativo, conserverebbero intatta la propria «identità»
(ricostruzione – occorre specificare – che alcune pronunce avevano accolto
anche in rapporto a fusioni realizzate prima della modifica del diritto societario (8)).
Ciò premesso, tornando al profilo dell’autonomia del sistema punitivo,
occorre allora domandarsi se le conclusioni maturate sul piano civilistico, là
dove riconoscano l’identità della società che partecipi alla fusione, debbano
estendersi alla sfera penale, al momento di verificare se la responsabilità da
reato dell’ente scaturito dalla fusione rispetti il principio di personalità.
Detto altrimenti: sarebbe logicamente corretto respingere i dubbi sull’osservanza del predetto principio, limitandosi a rilevare che agli effetti del diritto extrapenale, secondo un’esegesi avvalorata dai riscontri della giurisprudenza, la fusione lasci integra l’identità degli enti coinvolti?
La risposta positiva apparirebbe indiscutibile a chi ritenesse che l’ordinamento penale «dipenda» da quello extrapenale nella regolazione delle
( 7 ) Cass. civ., sez. un., 12.1.2006, dep. 8.2.2006, n. 2637, in Giust. civ., 2007, I, 2499, con
la ferma nota critica di Fl. D’Alessandro, Fusioni di società, giudici e dottori (anche in riferimento a Cass., sez. III, 9.5.2006, dep. 23.6.2006, n. 14526, ibidem); in Giur. comm., 2007, II,
787, con nota di Milanesi, stando alla quale: «Ai sensi del nuovo art. 250(4) bis c.c., conseguente alla riforma del diritto societario (d.lg. n. 6 del 2003), la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, né
crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo».
Un successivo arresto delle sezioni unite, pur confermando il principio, lo ha ricondotto
alla nuova formulazione dell’art. 2504 bis c.c., che, avendo portata innovativa, non si estenderebbe al passato (Cass. civ., sez. un., 17.9.2010, n. 19698, in Giust. civ., 2010, 12, I, 2749).
( 8 ) Risultano anche sentenze che ammettono la conclusione nel solo caso di fusione paritaria, escludendola nell’ipotesi di incorporazione (cfr. Cass. civ., sez. lav., 2.9.2010, n. 19000,
in Riv. crit. dir. lav., 2010, 1145). A favore dello schema estintivo-costitutivo si pronuncia invece, ad esempio, Cass. civ., sez. I, 19.5.2011, n. 11059, in Giust. civ., 2011, 771.
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proprie fattispecie. Nell’esempio della fusione, per intendersi, la conservazione, all’esito di un procedimento riorganizzativo, dell’identità della società fusa condurrebbe giocoforza a ritenere, per il corollario della supremazia
del settore civilistico, che le responsabilità (anche) penali, maturate prima
della vicenda modificativa, non possano non serbarsi in capo alla società incorporante, ovvero a quella risultante dalla fusione paritaria: pena, altrimenti, la lesione del principio di giustizia sostanziale, che vieterebbe immotivate rinunce alla pena.
L’operazione interpretativa da compiere apparirebbe per contro notevolmente diversa se si muovesse dal presupposto dell’autonomia dell’ordinamento penale. Ogni pregiudiziale legata alla tesi «invariantiva» – la fusione non innova né crea, ma modifica, solo, le società partecipanti – cadrebbe
con la presa d’atto che la diversità degli effetti prodotti in sede penale possa
discendere dal diverso punto di riferimento della sanzione.
Per ipotesi: se dovesse accertarsi che quest’ultima colpisce, più che l’ente formalmente identificato, un certo assetto organizzativo, in quanto si riveli inidoneo a prevenire la commissione di reati, si scorgerebbe immediatamente la piena indipendenza della responsabilità «da reato» dalla disciplina civilistica della fusione, posto che la giurisprudenza, anche quella favorevole a riconoscere l’identità delle società partecipanti, non dubita del
carattere innovativo dell’organizzazione societaria risultante dalla sinergia
dei soggetti coinvolti. Con la conseguenza che al mutare dell’assetto organizzativo non potrebbe non corrispondere un’immediata ricaduta sulla sanzione, nella misura in cui essa si diriga – si ripete: in ipotesi – all’organizzazione, in sé e per sé presa, e non all’ente formalmente considerato.
Se, d’altro canto, dovesse emergere che il sistema identifichi il soggetto
punito in base a criteri formali, una compiuta concezione «autonoma» della
norma penale condurrebbe ad avallare la possibilità che l’identità dell’ente,
pur permanendo, all’indomani della fusione, ai fini di competenza del diritto societario, debba invece reputarsi travolta agli effetti della responsabilità
da reato. Si tratterebbe di un approdo compatibile con l’idea che le qualificazioni giuridiche adottate in settori diversi dell’ordinamento, in quanto
autonomi, possano divergere; e che, applicato alla vicenda della fusione,
porterebbe a mettere in conto che agli effetti civili l’ente possa restare munito di un’identità che sia invece venuta meno dal punto di vista della responsabilità penale (o parapenale).
Il dubbio sulla coerenza dell’ordinamento – al quale si addebitasse di
statuire, da un lato, e negare dall’altro l’identità dell’ente – andrebbe rimosso una volta accertato che complessi sistematici funzionalmente distinti –
quello penale e quello extrapenale – intendano disciplinare, ciascuno ai
propri particolari effetti, un certo istituto – nel nostro caso, le cosiddette viRiv. trim. dir. pen. econ. 1-2/2015
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cende modificative –. Nulla infatti si opporrebbe a che la norma extrapenale considerasse integra l’identità (formale e/o sostanziale) di una società o
di un ente, facendone derivare la conservazione di posizioni giuridiche (anche) sfavorevoli; mentre la norma penale, dal canto suo, reputasse perduta
quell’identità (formale e/o sostanziale) al fine di escludere una sanzione punitiva. Il raccordo fra i diversi campi di disciplina sarebbe comunque conservato, quanto meno sotto forma di «gradualità» delle sanzioni: giacché –
mentre sarebbe difficilmente accettabile l’applicazione di «pene», in virtù
della pretesa conservazione di un’identità «penalistica», a un soggetto che il
diritto extrapenale reputi soppresso o venuto meno – sarebbe del tutto naturale escludere sanzioni di speciale incisività, come quelle penali, benché
si consideri ancora esistente il potenziale destinatario ad altri e meno incisivi scopi, indicati dalla disciplina extrapenale.
È, d’altronde, su tale costatazione – e sul presupposto teorico generale,
consistente nella relatività delle qualificazioni giuridiche – che riposa la costruzione normativa di campi di materia nei quali, preso atto delle caratteristiche della sanzione, non aliena a finalità punitive, si consacra la diversità
tra gli enti trasformati, ovvero risultanti da fusioni (oltre che da scissioni), e
i loro predecessori. È – notoriamente – quanto avviene per le sanzioni amministrative tributarie, in ragione dell’art. 15, comma 1, del d. lgs.
18.12.1997, n. 472, che, preso alla lettera, non lascia dubbi sulla predetta
diversità (9): offrendo un’indicazione tanto più stringente, una volta riconosciuto – per effetto dell’art. 7, comma 1, del d.l. 30.9.2003, n. 269, convertito in l. 24.11.2003, n. 326 – il carattere «personale» e non trasferibile della
responsabilità assunta dall’ente, almeno se di tipo associativo e munito di
personalità giuridica, per le violazioni tributarie collegate ai propri rapporti
fiscali (10).
( 9 ) Per agevolare la lettura, se ne riporta il testo: «La società o l’ente risultante dalla trasformazione o dalla fusione, anche per incorporazione, subentra negli obblighi delle società
trasformate o fuse relativi al pagamento delle sanzioni».
( 10 ) Si deve notare, per la verità, che la modifica introdotta dal richiamato art. 7 del d.l.
269/2003 (per un quadro dell’intervento, Marongiu, Le sanzioni amministrative tributarie:
dall’unità al doppio binario, in Riv. dir. trib., 2004, I, 404 ss.), è stata fortemente criticata: si è
detto, infatti, che concentrando la sanzione sul beneficiario dell’illecito si sia apportata una
forte deresponsabilizzazione dell’autore della violazione, identificato con la persona fisica
che agisca per l’ente; con la conseguenza di allontanare il sistema dal principio di «personalità»: cfr. Murciano, La «nuova» responsabilità amministrativa tributaria delle società e degli
enti dotati di personalità giuridica: l’art. 7 del d.l. n. 269/2003, in Riv. dir. trib., 2004, 657 ss.
La critica dipende, in effetti, dalla mancanza di un insieme di criteri ascrittivi dell’illecito tributario all’ente, sulla falsariga del d. lgs. 231/2001: difetto sottolineato dalla dottrina (F.
Gallo, L’impresa e la responsabilità per le sanzioni amministrative tributarie, in Rass. trib.,
2005, 11 ss.;), ma che non impedisce di cogliere nel medesimo fatto, se costitutivo di reato, la
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3. – Veniamo così a un nòcciolo concettuale a tutt’oggi per lo più inesplorato, o solo indirettamente trattato, nell’analisi delle vicende modificative (11): cosa deve intendersi per «identità» dell’ente, nel quadro dell’ascrizione della responsabilità prevista dal d. lgs. 231/2001? Meglio: sulla base
di quali presupposti, formali e/o sostanziali, deve identificarsi l’ente responsabile ai sensi del predetto decreto?
Nel linguaggio della dottrina si parla frequentemente di un’organizzazione fondamentale, materiale ed umana, per significare, ai fini della responsabilità «da reato», ciò che abbiamo indicato come «identità» dell’ente. Va tuttavia precisato che non sembra acquisita, allo stato, una compiuta
consapevolezza dei requisiti «identitari»: almeno nel caso della trasformazione, l’identità dell’ente è per lo più ricavata dalla circostanza che a mutare
sarebbe soltanto il suo assetto o la sua forma organizzativa, come confermerebbe la lettera dell’art. 2498 c.c., incentrata sulla conservazione in capo al-
fonte di una responsabilità sia della persona fisica che operi per l’ente, sia di quest’ultimo,
sebbene a titolo di violazione amministrativa (sul punto, Caraccioli, Sul problema della responsabilità degli «amministratori di fatto» nei reati tributari, in Riv. dir. trib., 2013, 145 s.).
Ciò nonostante, una corrente della dottrina tributaria è propensa a credere che il cumulo
della sanzione penale ed amministrativa «punitiva» per l’identico fatto materiale, indipendentemente dalla diversità dell’autore (persona fisica ed ente), possa contrastare con il divieto di bis in idem, nell’estensione ad esso attribuita dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali UE: posizione delineata da Dorigo, Il rapporto tra sanzione tributaria e sanzione penale secondo la Corte di Giustizia e i possibili effetti sull’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib.,
2013, IV, 204 ss. (220 s.); Giovannini, Persona giuridica e sanzione tributaria: idee per una riforma, in Rass. trib., 2013, 509 ss. A sostegno di tale orientamento si richiamano taluni pronunciamenti della Corte di Giustizia europea (le sentenze Van Esbroeck, della sez. II,
9.3.2006, causa C-436/04, punti 27, 32 e 36; Van Straaten, sez. I, 28.9.2006, causa C-150/05,
punti 41, 47 e 48, e del 16.11.2010, Mantello, C-261/09, punto 39), che pure, come sottolineato dall’avvocato generale Villalòn nel recente caso Akerberg Fransson (sentenza del
5.4.2013, causa C-617/10) «si discosta da quella applicata nell’ambito della concorrenza, in
cui la Corte di giustizia continua ad esigere una triplice condizione di identità dei fatti, del
contravventore e dell’interesse giuridico tutelato»: così al punto 91 delle conclusioni dell’avvocato generale, ove si richiamano le sentenze del 7.1.2004, Aalborg Portland ea./Commissione (C-204/00P, C-205/00P, C-211/00P, C-213/00P, C-217/00P e C-219/00P, Racc.,
I-123, punto 338) e Toshiba Corporation (16.3.2012, causa C-17/10, punto 97, con conclusioni divergenti da quelle dell’avvocato generale Kokott).
( 11 ) Il problema è volutamente lasciato aperto nello studio monografico di Massi, «Veste
formale» e «corpo organizzativo» nella definizione del soggetto responsabile per l’illecito da reato, Napoli, 2012, 139 ss.
Per un quadro generale del dibattito sulle vicende modificative disciplinate dal d. lgs.
231/2001, si vedano, comunque, oltre alle opere di volta in volta richiamate, Busson, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente, in Dir. pen. proc., 2001, 1471 ss.; De
Marzo, Il d. lgs. n. 231/2001: responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente, in Il
corriere giuridico, 2001, 1527 ss. (in particolare, 1532 s.); Grasso Gian., La responsabilità
amministrativa dipendente da reato delle persone giuridiche, società e associazioni anche prive
di personalità giuridica, in Contr. impr., 2001, 1429 ss. (1455 ss.).
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l’ente trasformato dell’insieme di diritti, obblighi e rapporti dell’ente che
effettui la trasformazione.
Dall’angolazione utile alla nostra indagine, si dà un’alternativa: se responsabile è l’ente «formalmente» inteso – cioè quello risultante da una
propria denominazione e, comunque, munito di una propria soggettività –,
esso rimane tale – responsabile, appunto – ancorché modificato, salvi i casi
nei quali la vicenda riorganizzativa ne sopprima la stessa identità.
Qualora, all’opposto, la responsabilità si informi a criteri sostanziali, si
dovrebbe accertare come la singola vicenda modificativa incida su di essi.
Schematizzando: se decisive fossero l’entità o le modalità di impegno economico di un autonomo patrimonio, da esse, purché invariate, si risalirebbe
all’attuale titolare; e così, mutatis mutandis, in base agli ulteriori criteri che,
alternativamente o cumulativamente, possano venire in gioco: dai vincoli di
programma formalizzati nell’oggetto sociale alla qualità e quantità di fornitori, clienti, quote di mercato, strumenti di azione complessiva, cultura e
ambiente d’impresa.
Il punto, che appare ormai di evidente centralità, deve essere chiarito,
perché preliminare alla compiuta comprensione della disciplina delle vicende modificative.
Ed allora: se si prendesse il via dal cosiddetto diritto «in azione», andrebbe ricordato come il più vistoso front d’ouvre contro la formalizzazione
dei criteri d’individuazione dell’ente, potenziale responsabile di un illecito
da reato, sia stato aperto da un’isolata pronuncia del 2010, con la quale la
Cassazione – intervallando due arresti di segno contrario, il primo del 2004
(12) e il successivo del 2012 (13) – ha assunto, appellandosi all’interpretazione costituzionalmente orientata (nella specie, con effetti in malam partem),
che anche l’impresa individuale possa rispondere di un illecito da reato (14).
Tra i motivi a supporto dell’asserzione campeggia, per quel che più rileva in
questa sede, la notazione che «molte imprese individuali spesso ricorrono
ad una organizzazione interna complessa che prescinde dal sistematico in-
( 12 ) Cass., sez. VI, 3.3.2004, n. 18941.
( 13 ) Cass., sez. VI, 16.5.2012 (dep. 23.7.2012), n. 30085, in Cass. pen., 2013, 793, con un
richiamo – volutamente tranchant– alla dimensione «collettiva» dell’ente.
( 14 ) Cass., sez. III, 15.12.2010, n. 15657, in Le società, 2011, 1075, con la serrata nota dissenziente di Paliero, Bowling a Columbine: la Cassazione bersaglia i basic principles della
corporate liability (1078 ss.); in Cass. pen. 2011, 2556, con nota, pure critica, di Pistorelli,
L’insostenibile leggerezza della responsabilità da reato delle imprese individuali. La sentenza,
sempre con commenti critici, si legge anche in Giur. comm., 2012, II, 652, con nota di Bevilacqua, La responsabilità da reato degli enti si applica anche alle imprese individuali?; e in
Giur. it., 2012, II, c. 3 ss., con nota di Artusi, Sulla responsabilità da reato dell’impresa individuale.
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tervento del titolare della impresa per la soluzione di determinate problematiche e che può spesso involgere la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore ma che operano nell’interesse della stessa impresa individuale»: il che, ad avviso della decisione, condurrebbe a prendere atto che
l’impresa individuale «ben può assimilarsi ad una persona giuridica nella
quale viene a confondersi la persona dell’imprenditore quale soggetto fisico
che esercita una determinata attività».
Rinunciando a una rassegna delle obiezioni sollevate e di quelle che, ancora, potrebbero sollevarsi contro la conclusione – sopra tutte, la lesione
del principio di proporzione, oggi consacrato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 48) e inevitabilmente minacciato dalla
possibilità di cumulare sanzioni dirette, da un lato, alla persona fisica autrice di un reato e, dall’altro, alla medesima persona fisica, nella veste di imprenditore individuale (15) –, si deve segnalare l’iter argomentativo della
sentenza: sarebbe la presenza di un’organizzazione di qualche complessità,
unita all’agire (eventuale) di più persone cooperanti verso un identico interesse, a segnare l’eclisse dell’imprenditore dietro la sfera dell’impresa, oggettivamente considerata: consentendone l’assimilazione all’ente munito di
personalità giuridica.
Con ciò si guadagna una «quadratura»: anche ad avviso della sentenza,
forse la più coralmente criticata nell’intera giurisprudenza sul decreto 231
(16), il polo logico della responsabilità resta incardinato nella «personalità
( 15 ) Sul valore della Carta nei sistemi interni dopo il Trattato di Lisbona – tema che, evidentemente, esula dal presente scritto – si rinvia a Caggiano, La tutela europea dei diritti della persona tra novità giurisprudenziali e modifiche istituzionali, in Convenzioni sui diritti umani e Corti nazionali, a cura di Di Blase, Roma, 2014, in part. 31 ss., ove è rimarcata la tendenza della Corte EDU a interpretare le garanzie convenzionali alla luce delle disposizioni della
Carta. Nel medesimo volume si vedano altresì i contributi di Morviducci, L’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: un percorso non ancora concluso, 41 ss.; e di Celotto, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e/o Carta dei diritti fondamentali, 69 ss.
Nella prospettiva del diritto penale, a favore dell’immediata operatività delle norme della
Carta nel diritto interno, con conseguente disapplicazione delle disposizioni con essa contrastanti, si veda, trattando dell’art. 50 e del divieto di bis in idem (processuale ma, ci sembra, anche sostanziale), a séguito della nota sentenza Grande Stevens c. Italia, 4.3.2014, n. 18640, Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50
della Carta?, in Diritto penale contemporaneo, doc. del 30.6.2014, 21 ss., che sviluppa il problema considerando la materia degli abusi di mercato certamente appartenente al diritto UE:
nel limite, pertanto, stabilito dalla sentenza n. 80 del 2011 della Corte costituzionale. Sul punto si veda anche quanto osservano Flick e Napoleoni, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? («Materia penale», giusto processo e ne bis in idem nella
sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse), in Riv. soc., 2014, 953 ss. (977 ss.).
( 16 ) La critica più ricorrente sta nella mancata percezione dell’esigenza, architrave del d.
lgs. 231/2001, di ricondurre la responsabilità da reato a un soggetto effettivamente distinto
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giuridica», stigma formale di autonoma soggettività. Nel difetto della personalità predetta, l’attribuzione di responsabilità passa per una «assimilazione»: tutto riducendosi perciò ad accertare se essa sia compatibile con i limiti testuali della legge, perché, se così non fosse, si ricadrebbe inesorabilmente nell’analogia a sfavore del reo (17), alla quale il nostro sistema costituzionale sbarra il passo.
Ebbene, al lume dell’enunciato legislativo, la responsabilità può ascriversi in primo luogo all’ente munito di personalità giuridica e, in secondo
luogo (art. 1 del d. lgs. 231/2001), a «società e associazioni anche prive di
personalità giuridica». Come si vede, la rinuncia alla «personificazione»
dell’ente responsabile non è indiscriminata: vale soltanto per società o associazioni, cioè per formazioni appartenenti a tipi nominati, in un’elencazione che, operando la regola della legalità formale ed espressa, non può non
essere tassativa. Al di là di incauti ottimismi sulla tenuta dei modelli formali, è chiaro cioè che non possa ammettersi, in penale, l’avvento di «effetti il
cui àmbito di riferibilità in chiave soggettiva potrà determinarsi solo a posteriori (appunto sul già accaduto) senza necessariamente diventare centro
unitario d’imputazione di situazioni giuridiche soggettive» (18): a meno di
celebrare l’irreversibile perdita di quell’attitudine «orientativa» del precetto, nella quale non può non vedersi una sua nota coessenziale (19) e che, giocoforza, postula un ricevente pre-determinato, cui razionalmente indirizzare
l’appello a condursi in conformità alla legge.
In breve: essenziale è il possesso di un tasso di «soggettività» giuridica
che designi, nell’ente, la sicura autonomia dall’azione individuale: nel nome
di una capacità di azione «collettiva» alla quale collegare, e sulla quale modellare, il rimprovero per l’illecito «da reato». Ed invero, se quest’ultimo
implica – come tende ormai ad ammettersi, sia pure da angolazioni non
coincidenti – un censurabile difetto di organizzazione; se, pertanto, a fondare il rimprovero è il potere dell’ente di organizzarsi correttamente, non
può non dedursi che simile potere – con ogni corrispondente ricaduta in
dall’individuo: cfr., già in riferimento alla decisione del 2004, citata alla nota 12, Brunelli e
Riverditi, sub art. 1, in La responsabilità degli enti, a cura di Presutti-Bernasconi-Fiorio, Padova, 2008, 77; nonché i commenti citati supra, nota 14.
( 17 ) Nel senso che si tratterebbe di non ammissibile analogia in malam partem, Paliero,
Bowling, cit., 1079.
( 18 ) Così Lipari, Spunti problematici in tema di soggettività giuridica, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1988, 648, in un saggio che, alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, denunciava la
deflagrata crisi della soggettività giuridica, sostituita da una semplice «registrazione di effetti», nell’ordinamento giuridico generale.
( 19 ) Mi permetto di rinviare, sul punto e in funzione di sintesi, in una letteratura evidentemente estesissima, al mio Sul rischio penale del professionista. Contributo alla teoria generale
del concorso di persone, Napoli, 2012, 144 ss.
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termini di obbligo – deve risiedere nelle mani di un soggetto capace di
orientarsi in conformità al precetto. Di un soggetto, dunque, non solo distinto dalla persona fisica, ma neppure riducibile a mera ed acefala oggettività: a un aggregato fattuale privo di volontà.
Non a caso, proprio alla predetta volontà «dell’ente» il decreto 231 attribuisce precisi effetti giuridici: a dimostrazione dell’irrilevanza, sul piano
della definizione della responsabilità, del rinvenimento di componenti oggettive o di ripartizioni isolate dell’ente, benché contrassegnate da autonomia funzionale e/o finanziaria; a conferma, inoltre, che non è l’impresa ad
essere punita, ma l’ente in quanto soggetto giuridico.
L’art. 26, comma 2 esclude infatti la responsabilità – altrimenti configurabile a titolo di tentativo – dell’ente che «volontariamente» impedisca
l’azione o l’evento tipici (20): e non sembra revocabile in dubbio che la legge
intenda con ciò riferirsi a una volontà propria dell’ente, senza confonderla
con la volontà, comunque determinata, di singoli, pur qualificati esponenti
del medesimo.
Lo comprova, dal canto suo, l’art. 21 del d. lgs. 231/2001, il quale, nel
regolare l’ipotesi della pluralità di illeciti «pendenti» a carico dell’ente, istituisce un istruttivo parallelo tra «unicità» della condotta (da intendersi come condotta che abbia dato corpo al reato, fonte dell’illecito) e «medesimezza» dell’attività dell’ente. Il parallelo è del massimo interesse perché rivela come al carattere «unico» o «plurimo» della condotta, indissolubilmente legato alla presenza o all’assenza di precisi dati psicologici, equivalga, nell’ottica della legge, il carattere unitario dell’attività dell’ente, che, per
essere meritevole di benigna considerazione, non può ragionevolmente
svincolarsi dalla presenza di requisiti corrispondenti a quelli, di tipo psicologico, che determinano l’unità o pluralità dell’azione dell’uomo.
Del resto: solo partendo da una premessa di questo tipo è possibile concepire e riconoscere nell’esperienza l’esercizio di poteri organizzativi e gestionali da parte di soggetti che operino per l’ente, come quelli – apicali o
«para-apicali» – menzionati dall’art. 5 del d. lgs. 231/2001. Ed ancora: solo
con simile premessa può avere senso parlare di un «interesse dell’ente» al
reato, distinto dall’interesse di chi lo commetta materialmente: nell’accezio-
( 20 ) Per il richiamo dell’art. 26 come prova del significato che assuma la volontà dell’ente,
Fiorella, I criteri di imputazione, in Lancellotti, La responsabilità della società per il fatto
dell’amministratore, Torino, 2003. Di recente, per un compiuto sviluppo del tema, collegando la volontà dell’ente alla interazione tra le persone investite del potere decisionale, Id.,
From macro-anthropos’ to ‘multi-person organisation’. macro-anthropos’ to ‘multi-person organisation’. Logic and structure of compliance programs in the corporate criminal liability, in Id.
(cur.), Corporate criminal liability and compliance programs, II, Towards a common model in
the European Union, Napoli, 2012, in part. 416 ss.
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ne, ancora una volta, inequivocamente accolta dal richiamato art. 5, che,
ammettendo una dissociazione tra i predetti interessi, postula evidentemente la diversità dei soggetti cui ricondurli.
«Dell’ente», quale soggetto autonomo, sono per di più i modelli di organizzazione e gestione. È la loro adozione a testimoniarne il lecito condursi (ossia il contegno che la legge richiede); mentre la loro assenza o inefficacia preventiva ne marcano un difetto organizzativo generale: il che permette di osservare come l’intera tecnica legale d’imputazione, oltre i singoli criteri ascrittivi, sia stata pensata nel disegno di una responsabilità dell’ente
quale «soggetto» giuridicamente autonomo e come tale identificabile (21).
Un punto sembra così chiarito: la dinamica della responsabilità da reato, imponendo di risalire a un soggetto capace di orientamento, appare difficilmente conciliabile con l’idea che la colpa si accentri in un ente identificabile sulla scorta di semplici parametri economico-sostanziali: a fortiori,
poi, se tali parametri si risolvano nella mera titolarità (ancorché sopravvenuta) dell’impresa o di una sua ramificazione.
4. – Riscontri si trovano nelle disposizioni del d. lgs. 231/2001 concernenti la struttura oggettiva dell’ente: le quali, nel valorizzare le componenti
patrimoniali o i complessi organizzativi insediati nell’ente medesimo, non
sembrano mai elevarli al gradino di soggetti responsabili: unico responsabile rimanendo l’ente soggettivamente considerato.
Forte valenza assume, in questa chiave, l’art. 27, ove il «patrimonio»
dell’ente funziona da limite alla responsabilità dei singoli membri per le
sanzioni pecuniarie (22): rivelando come la legge non ravvisi affatto nella titolarità di un autonomo patrimonio, né nelle finalità del suo impiego, una
«ragion sufficiente» di responsabilità.
È vero: talora il decreto 231 giustappone all’ente, in sé e per sé preso, la
singola «unità organizzativa», come avviene nell’art. 5, comma 1, lett. a, ove
( 21 ) Per l’esame critico di posizioni che si prestano, almeno in uno sviluppo logico, a dar
rilievo a elementi dell’organizzazione dell’ente quali indici di maturata soggettività, Massi,
«Veste formale» e «corpo organizzativo», cit., 133 ss., 211 ss.
( 22 ) Si tende per lo più a respingere l’ipotesi – per la quale, con approccio problematico,
De Angelis, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente (trasformazione, fusione, scissione, cessione d’azienda), in Le società, 2001, 1327 ss.; più decisamente, Giarda,
Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente, in Id.-Spangher-MancusoVarraso, La responsabilità «penale» delle persone giuridiche, Milano, 2007, 229 – che il valore limitativo dell’art. 27 Cost. operi nei confronti della persona fisica che abbia commesso il
reato, lasciando ad altra disciplina, di volta in volta applicabile, la regolazione della responsabilità patrimoniale propria di ciascun ente: si veda, al riguardo, Napoleoni, La responsabilità
patrimoniale per le obbligazioni derivanti dall’illecito, in Reati e responsabilità degli enti, a cura
di Lattanzi, cit., 261.
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si precisa, nel selezionare i soggetti apicali, che siano tali i preposti a unità
organizzative con autonomia finanziaria e funzionale; e poi, a cascata, negli
artt. 16, comma 3; 24 ter, comma 4; 25 quater, comma 3; 25 quater-1, comma 2; 25 quinquies, comma 3. È però opinione consolidata che non venga
così enucleato un soggetto al quale accollare la responsabilità, in alternativa
all’ente con soggettività propria.
A elementi oggettivi di organizzazione dell’ente, insuscettibili di subiettivazione, il decreto n. 231 si riferisce, poi, nello sforzo di isolare l’ambito
applicativo delle sanzioni (non i presupposti che generano la responsabilità). Invero, nel tracciare il perimetro degli effetti sanzionatori (23), importanza centrale spetta agli artt. 14, comma 1 e 69, comma 2, a mente dei quali
la sentenza che dispone una sanzione interdittiva deve sempre indicare
«l’attività o le strutture oggetto della sanzione» (anche se, per la verità, l’art.
14 parla solo della «specifica attività» da interdire).
Vi è un retroterra ben visibile: la pratica dell’illegalità potrebbe prendere piede in singoli settori dell’ente; in essi potrebbe anche celarsi la più profonda ispirazione di una politica parziale e non generale dell’impresa. Il
principio che il decreto sembra voler consacrare è la ricerca mirata delle
cause del reato; in modo da tracciare il giusto perimetro della sanzione (ancora una volta, non il soggetto responsabile). Così, il radicamento territoriale di singole strutture potrebbe consentire una prima «mappatura» dell’area
esposta al rischio d’illecito, o da essa concretamente toccata. Nel medesimo
senso potrebbe indicare l’autonomia organizzativa o gestionale riconosciuta
a specifiche unità, in assenza di elementi che lascino prospettare responsabilità ulteriori, da ricondurre all’apparato amministrativo centrale (24).
( 23 ) Esigenza avvertita, del resto, in qualificate espressioni dei lavori per la riforma legislativa: secondo il progetto Grosso, la sanzione interdittiva avrebbe dovuto riferirsi alla specifica attività nella quale il reato fosse stato commesso, potendo anche consistere nella chiusura
di un singolo stabilimento (si veda l’art. 127, comma 1, della versione definitiva del progetto).
Il rapporto tra chiusura dello stabilimento e interdizione dall’attività è stato, per così dire,
troncato dalla legge delega (l. del 29.9.2000, n. 300, in particolare art. 11, lett. l, nn. 1 e 3, che
vi ravvisa sanzioni autonome); mentre il decreto 231/2001, come sùbito si dirà nel testo, sembra ricondurre a unità i due profili.
( 24 ) Bisognoso di chiarimento è semmai altro: posto che l’interdizione tocchi uno specifico settore, va chiarito il duplice riferimento dell’art. 69, comma 2 all’«attività» o alle «strutture» oggetto di sanzione. Chiarimento che risponde a indiscutibili bisogni pratici, dovendo
stabilire il criterio da privilegiare, quando vada in direzione inversa all’altro. Ipotizziamo: l’attività caratterizzata da spinte illecite concerne la partecipazione alle procedure per l’appalto
di infrastrutture pubbliche, o la loro realizzazione, mentre le colpe processualmente verificate coinvolgono il management di una singola struttura. Dovrà allora essere interdetto il tipo di
attività, anche se condotta mediante una pluralità di rami o strutture autonome, o le sole articolazioni strutturali connesse al reato?
La previsione di una pluralità di parametri potrebbe collegarsi all’intento della legge di la-
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Anche da questo punto di vista sembra comunque mancare la possibilità di riferire l’illecito all’impresa oggettivamente considerata o all’ente riguardato da un punto di vista economico-sostanziale.
5. – Abbiamo allora acquisito un approdo fermo: il d. lgs. 231/2001 non
ammette, in generale, la punizione dell’ente in virtù della propria identità
economico-sostanziale; non responsabilizza l’impresa, né altre aggregazioni
oggettive, ad essa funzionali, nell’ambito dell’ente.
Nella prospettiva delineata, dobbiamo adesso volgerci all’esame delle
regole dettate dal d. lgs. 231/2001 in materia di (cosiddette) vicende modificative: per comprendere se esse si informino o si sottraggano al principio
testé messo in luce.
In questa chiave diciamo sùbito che è parso ai più fisiologico quanto l’art.
28 stabilisce sulla «trasformazione», ossia che quest’ultima non escluda né
mitighi la responsabilità «da reato». La legge sembra seguire un’idea di fondo: che la trasformazione non tocchi l’«identità» dell’ente (25). A cambiare
sarebbe la sola veste o forma esterna, non l’organizzazione fondamentale,
materiale ed umana, nella quale l’illecito è maturato. Sarebbe perciò legittimo addossare all’ente, benché trasformato, una responsabilità i cui presupposti si siano già dapprima perfezionati; a meno che venga a mancare, con la
trasformazione, un «tipo» di ente al quale la legge riferisca la responsabilità
da reato. Si fa l’esempio della trasformazione di una società di capitali in comunione d’azienda, ai sensi dell’art. 2500 septies c.c., per concludere che verrebbe meno, in questa ipotesi, la «continuità nell’esercizio dell’impresa» (26).
sciar operare, di volta in volta, quello che più puntualmente limiti gli effetti della sanzione,
adeguandola compiutamente alla realtà dell’impresa. Sarebbe così facilitato il compito di isolarne le diramazioni illecite, in modo da evitare ingiustificati pregiudizi per le articolazioni
non toccate dalle «metastasi» del reato. Con eloquente conferma, in ogni caso, che si tratterebbe pur sempre e soltanto di calibrare gli effetti della sanzione, non certo di ascrivere una
responsabilità. Non a caso la legge dice: «oggetto» – non soggetto – della sanzione.
( 25 ) Oltre che esplicitata dalla relazione ministeriale, è l’opinione dei più, fra i commentatori del decreto 231: cfr., tra altri, Agrusti, Le vicende modificative dell’ente, in La responsabilità da reato degli enti, a cura di D’Avirro e Di Amato, Padova, 2009, 512 s.; Carra, sub
art. 28, in Enti e responsabilità da reato, a cura di Cadoppi, Garuti, Veneziani, Milano,
2010, 485; de Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008, 129; Di
Sabato, Responsabilità dell’impresa nelle vicende modificative dell’ente, in La responsabilità
amministrativa degli enti. Atti del Convegno LUISS Guido Carli, a cura di Severino e Fontana, Roma, 2003, 90; Fabbriciani, sub art. 28, in La responsabilità degli enti, a cura di Presutti-Bernasconi-Fiorio, cit., 318; Napoleoni, Le vicende modificative, cit., 327; Quintana, sub art. 28, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, diretto da Levis
e Perini, Torino, 2014, 811. Problematicamente, Di Carlo, Le vicende modificative, in La
responsabilità amministrativa degli enti, cit., 84 s.
( 26 ) Cfr. Napoleoni, Le vicende modificative, cit., 323 s., che ritiene in tal caso escluse le
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Di certo, il fondamento della regola suggellata dall’art. 28 è rinvenuto
nella «non alterità» dell’ente, indipendentemente dal tipo di trasformazione (progressiva o regressiva, ossia da società di persone a società di capitali
e viceversa; omogenea o eterogenea, a seconda se vi sia o no identità della
«causa» sottostante al rapporto associativo) (27): profilo che, implicitamente o esplicitamente, finisce con l’essere risolutivo al fine di escludere un’applicazione men che rigorosa del principio di «personalità». Né sembra trovare diversa spiegazione la formula impiegata dalla legge, la quale chiarisce
che la responsabilità «resta ferma» nonostante la trasformazione: significando così, in termini forse non del tutto propri (28), come l’ente originario
continui ad essere destinatario del rimprovero, senza che venga in gioco alcun trasferimento a un ente «altro».
Residua un corollario, che si può conclusivamente enunciare: il limite
strutturale dell’addebito, stando alle premesse, non può non risiedere nella
circostanza che rimanga effettivamente intoccata l’identità dell’ente. In
questo senso, nel menzionato caso del passaggio da società di capitali a comunione di azienda, sembra concludere chi parla di una perdita di «individualità» dell’ente, collegata alla titolarità di personalità giuridica (29).
6. – Anche la fusione, secondo l’art. 29 del d. lgs. 231/2001, lascerebbe
intatta la responsabilità degli enti coinvolti. Per segnalare tale effetto la legge si serve tuttavia di una disposizione che può apparire, sotto certi aspetti,
non univoca.
Sul piano testuale merita di essere evidenziato il riferimento dell’art. 29
ai «reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione»:
espressione in sintonia con i casi di fusione tra enti che abbiano tutti commesso un illecito da reato, ma decentrata rispetto a un’operazione che coinvolga, accanto all’ente autore di un illecito, altro ente estraneo.
D’altra parte, pur chi ritenesse passibile di correzione logica una formula
sanzioni interdittive, mentre il debito per le sanzioni pecuniarie resterebbe a carico dei partecipanti alla comunione.
( 27 ) Una «vicenda evolutiva del soggetto titolare dell’impresa» la definisce Galgano,
Trattato di diritto civile, IV, parte XIV, Le società, Padova, 2010, 667. Nella giurisprudenza,
Cass. civ., sez. II, 7.5.2013, n. 10598; Cass. civ., sez. III, 20.6.2011, n. 13467; Cass. civ., sez.
lav., 10.2.2009, n. 3269; Cass. civ., sez. un., 31.10.2007, n. 23019; Cass. civ., sez. II, 16.4.2007,
n. 9087; Cass. civ., sez. I, 14.12.2006, n. 26826; Cass. civ., sez. III, 13.8.2004, n. 15737; Cass.
civ., sez. I, 13.9.2002, n. 13434; Cass. civ., sez. III, 23.4.2001, n. 5963; Cass. civ., sez., III,
4.11.1998, n. 11077.
( 28 ) Sottolinea l’equivocità della formula Bussoletti, Procedimento sanzionatorio e «vicende modificative» dell’ente, in Lancellotti (a cura di), La responsabilità della società per il
reato dell’amministratore, Torino, 2003, 135.
( 29 ) Fabbriciani, op. loc. cit.
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letteralmente più circoscritta, per comprendere nell’art. 29 anche la fusione
tra ente «colpevole» ed ente «estraneo», dovrebbe considerare che il predetto art. 29 sembri concepire un trasferimento o una successione nella responsabilità da reato, più che la sua permanenza in capo a un identico soggetto (30).
In altri termini: l’ente risultante dalla fusione risponderebbe dell’illecito
da reato, sebbene non possa negarsi – anzi il d. lgs. 231/2001 mostri di assumere – che si tratti di ente diverso da quello (o da quelli) altrimenti punibili.
Il dato si desume chiaramente dall’art. 29, là dove parla di enti che «erano
responsabili»; emergendo come la legge non reputi più tali enti responsabili, ad essi subentrando l’ente che risulti dalla fusione.
Una conferma viene dal successivo art. 42, ove è stabilito che nei casi di
trasformazione, fusione o scissione dell’ente originariamente responsabile il
procedimento penale prosegua nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della scissione. Lettera e logica della norma testimoniano che l’ente precedente la fusione è solo «originariamente
responsabile»: il legislatore mostra cioè di reputarlo, in virtù dell’operazione intervenuta, non più «attualmente» responsabile. Responsabilità «attuale» – contrapposta a quella «originaria» – che si concentrerebbe in ultima
analisi sull’ente risultante dalla fusione (o beneficiario della scissione).
Identica ratio sembra seguire l’art. 70, comma 1, del d. lgs. 231/2001,
quando distingue l’ente «indicato» nella sentenza, ossia quello «originariamente» responsabile, dall’ente «nei confronti» del quale essa è pronunciata: unico o principale titolare – si potrebbe concludere – della responsabilità da reato (31). È vero che la legge, nel riferirsi all’ente «originariamente re-
( 30 ) La dottrina commercialistica, anche quando respinge l’inquadramento della fusione
nel fenomeno della successione, preferendo considerarla come un’integrazione tra i contratti
sociali preesistenti, sembra non rifiutare l’idea che alla fusione medesima sia connaturata, in
qualche misura, la «generazione» di una nuova società, pur se avvenga per incorporazione di
un ente preesistente in un altro: si veda Galgano, op. ult. cit., 676 s. Il problema resta invece
estraneo all’orientamento che ricostruisce la trasformazione in termini oggettivi, quale modifica della disciplina o delle qualificazioni applicabili all’ente senza soluzione di continuità nei
rapporti: cfr. Pisani Massamormile, Trasformazione e circolazione dei modelli organizzativi,
in Riv. dir. comm., 2008, 77 ss.; Spada, Dalla trasformazione delle società alle trasformazioni
degli enti ed oltre, in Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, III, Milano, 2005, 3890 ss.
( 31 ) Non milita in senso contrario il successivo comma dell’art. 70, là dove specifica che la
sentenza pronunciata verso l’ente originariamente responsabile abbia comunque effetto anche nei confronti dell’ente risultante dall’operazione modificativa. La precisazione, in sé e per
sé presa, assume rilevanza quando la sentenza ometta di menzionare quale destinatario degli
effetti l’ente «modificato»: il che potrebbe discendere da una pluralità di cause, come l’errore
materiale o di fatto del giudice o – ancora – la mancata prova processuale dell’intervenuta
scissione. In forza dell’art. 70, comma 2, tali circostanze non precludono che la sentenza produca pienezza di effetti nei confronti dell’ente beneficiario, a carico del quale il processo è
«proseguito», anche nel difetto di una sua costituzione.
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sponsabile», vi comprende anche l’ente semplicemente trasformato: il che
ammonirebbe a non enfatizzare il distinguo tra responsabilità «attuale» e
responsabilità «originaria» dell’ente, posto che, come avvertito, la trasformazione non investirebbe, di norma, l’identità dell’ente. Resta fermo però
che nelle ipotesi di fusione o scissione la conservazione di tale identità è tutt’altro che pacifica; anzi per lo più negata (32).
7. – Quanto agli effetti della scissione, pare emergere un difetto di chiarezza della disciplina dettata dal d. lgs. 231/2001.
L’analisi dell’art. 42, vista la sua portata generale, lascerebbe concludere che la scissione, al pari della fusione, produca l’effetto naturale di dover
considerare l’ente beneficiario come «unico» o «principale» soggetto del
procedimento penale; in ogni caso contrapponendo l’ente scisso, quale
«originario responsabile», all’ente beneficiario, visto come «attuale» responsabile.
Senonché l’art. 30 sembra ripartire la responsabilità «da reato» a carico
dell’ente scisso e dell’ente beneficiario secondo i contenuti potenziali della
condanna: all’ente scisso verrebbe inflitta la sanzione pecuniaria – con la
previsione, in tal caso, di una responsabilità «in solido» dell’ente beneficiario, secondo la specificazione contenuta nel comma 2 – mentre ai fini delle
sanzioni interdittive andrebbe stabilito se permanga oppure no in capo all’ente originario la titolarità della struttura o dell’attività nell’ambito della
quale è (o si assume che sia) stato commesso il reato.
Lo si coglie appieno nel terzo comma dell’art. 30, dato che la sanzione
interdittiva colpisce l’ente che risulti «attualmente» titolare del «ramo di attività» in cui il reato è stato commesso. Principio, questo, che esprime la volontà della legge di indirizzare la sanzione – almeno quella interdittiva, probabilmente per contenuto la più importante nel sistema del d. lgs. 231/2001
(33) – verso l’ente in cui si radichi la lacuna strutturale o il difetto organizzativo che abbiano causato il reato.
( 32 ) Per un orientamento generale si veda, quanto alla fusione, de Vero, La responsabilità, cit., 130, che ritiene l’art. 29 del d. lgs. 231/2001 in contrasto con il principio di personalità, dall’angolo visuale dell’ente «incolpevole» che prenda parte all’operazione. Sulla scissione, Quintana, La responsabilità dell’ente nel caso di scissione. Problematiche applicative, in
La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2010-3, 7 ss. (15).
( 33 ) Per il rilievo, affatto condiviso, fra altri Fiorella, Le sanzioni amministrative pecuniarie e le sanzioni interdittive, in Responsabilità degli enti per reati commessi nel loro interesse. Atti del Convegno di Roma 30 novembre-1o dicembre 2001, supplemento al fasc. 6/2003 di
Cass. pen., 75 ss.; Pulitanò, La responsabilità «da reato» degli enti nell’ordinamento italiano,
ivi, 26. In generale, inoltre, Piergallini, I reati presupposto della responsabilità dell’ente e
l’apparato sanzionatorio, in Reati e responsabilità degli enti, a cura di Lattanzi, cit., 229 ss.
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Da questa angolazione non sembra fondata l’alternativa che, a scopi
esplorativi, pure potrebbe prospettarsi: ossia che il ramo di attività rappresenti il semplice oggetto su cui ricade la sanzione, mentre la responsabilità
resterebbe addossata all’ente originario. A prima vista, il tenore letterale
dell’articolo 30 offre spazio a questa tesi, sia con l’enunciazione del primo
comma («resta ferma la responsabilità», etc.), sia con la clausola di salvezza
a favore del terzo comma, che potrebbe essere interpretata non già come
eccezione al permanere della responsabilità, ma come una deroga alla normale coincidenza tra l’autore dell’illecito e il destinatario della sanzione interdittiva.
Senonché, a parte il sapore tutto sommato formalistico di una soluzione
che lasciasse all’ente scisso la sola etichetta di responsabile, concentrando
gli effetti sanzionatori sul beneficiario, è proprio il terzo comma dell’articolo 30 a precludere simile visione, allorché precisa che la sanzione interdittiva «si applichi» all’ente: sia pur in quanto titolare del ramo di attività.
Dal rapporto tra il primo e il terzo comma dell’art. 30 si evince, per di
più, che la clausola di salvezza enunciata dal primo comma non debba intendersi nel senso che il comma 3 operi solo in caso di scissione totale,
così da contrapporsi al primo comma, dedicato alla scissione parziale. Se
così fosse, non avrebbe senso il riferimento, contenuto nel medesimo terzo comma, a un trasferimento «in tutto o in parte» del ramo di attività,
innegabilmente comprensivo della scissione parziale. La riserva a favore
del comma 3 è piuttosto un moderamen alla regola del comma 1: appunto
nel senso che la responsabilità dell’ente (parzialmente) scisso «resta ferma» a condizione che non sia ceduto, in tutto o in parte, il ramo di attività ove è accaduto il reato, perché, qualora ciò avvenga, la responsabilità,
lungi dall’esser ferma, seguirebbe il trasferimento, come per effetto di sequela.
Con ciò sembra chiarirsi il senso dell’art. 30: la titolarità del ramo di
attività agisce come criterio doppiamente utile, tanto al fine di individuare
il responsabile che per ascrivere concretamente la responsabilità. In tal
modo il decreto si diparte dalla regola generale che incardina la responsabilità nel possesso di una soggettività giuridico-formale, alla quale collegare un difetto organizzativo. Nella scissione, la responsabilità si determina
(accanto a quella dell’ente scisso per le sanzioni pecuniarie) in ragione della titolarità – originaria o derivata – del ramo di attività ove sia stato consumato l’illecito «da reato»; come se essa conferisse un’identità economico-sostanziale idonea a legittimare l’addebito e, per di più, trasferibile. Ed
è proprio da questa angolazione che si giustifica la convinzione espressa
da una parte della dottrina, secondo cui nessuna responsabilità potrebbe
sopravvivere quando, nelle vicende del trasferimento prodotto dalla scisRiv. trim. dir. pen. econ. 1-2/2015
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sione, l’originario ramo di attività si disgreghi, rendendo inutile la sanzione (34).
Quanto detto sembra confermato dal capoverso dell’art. 30, là dove
ammette, nella sua ultima parte, che l’obbligo solidale per il pagamento delle sanzioni pecuniarie, assunto dall’ente beneficiario della scissione, possa
eccedere il valore effettivo del patrimonio trasferito quando venga ceduto
anche il ramo di attività nell’ambito del quale il reato sia stato commesso:
altra testimonianza del significato che la legge attribuisce alla effettiva collocazione della lacuna organizzativa in capo all’ente scisso o al beneficiario.
Tanto che si potrebbe ipotizzare un’interpretazione dell’art. 42, e della
«successione» nel ruolo di soggetto a carico del quale prosegue il processo,
nel senso che essa scatti solo nel caso di scissione «qualificata», ossia caratterizzata dal trasferimento dell’attività nella quale il reato sia stato commesso (35).
8. – Almeno nel caso della scissione pare dunque proporsi, in chiave di
attribuzione della responsabilità, un criterio collegato al trasferimento del
ramo di attività nel quale il reato sia stato commesso. Con la conseguenza –
si ripete – che, almeno in rapporto a questa particolare vicenda modificativa, l’espressione di continuità tra l’ente originario e quello scisso andrebbe
rinvenuta, appunto, nella predetta cessione: della quale si tratterebbe di fissare con maggiore precisione i contenuti.
Resta da comprendere, in altre parole, se ed in quale misura la conservazione del «ramo d’attività» in capo all’ente scisso, ovvero il suo trasferimento a quello risultante dalla scissione, consenta di stabilire un nesso di
reale continuità tra l’autore dell’illecito «da reato» e il soggetto sanzionato.
Dalla relazione ministeriale può cogliersi come l’espressione «ramo di
( 34 ) Bussoletti, Procedimento sanzionatorio e «vicende modificative dell’ente», in La responsabilità della società per il reato dell’amministratore, a cura di Lancellotti, cit., 140.
( 35 ) Quanto alla disciplina processuale, l’analisi del sistema sembra autorizzare l’interprete a ritenere che in caso di scissione con trasferimento del ramo d’attività collegato al reato
contestato l’ente beneficiario debba poter intervenire nel procedimento penale, anche perché
verso tale ente si dirigono le sanzioni interdittive, assumendo inoltre la responsabilità solidale
per le sanzioni pecuniarie (irrogate all’ente «originariamente responsabile»).
Resta ovviamente da stabilire se – ed in quale veste – accanto all’ente beneficiario della
scissione debba garantirsi il ruolo processuale dell’ente «originariamente» responsabile. La
risposta al quesito appare legata alla circostanza che, seppure abbia trasferito il ramo di attività dal quale il reato abbia tratto origine, l’ente scisso è considerato comunque dalla legge responsabile, quanto meno ai fini delle sanzioni pecuniarie: lo si deduce, come detto, dal comma 2 dell’art. 30, che in ogni ipotesi di scissione – totale o parziale, qualificata o meno dal trasferimento del ramo di attività – attribuisce al beneficiario una semplice obbligazione solidale
per il pagamento della sanzione, con l’effetto di radicare nell’ente scisso l’obbligo principale.
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attività» sia stata utilizzata nel decreto 231 senza curarne una precisa distinzione da altre, analoghe formule, pure incentrate sul riferimento all’attività
dell’ente. In un significativo passaggio della relazione si legge, comunque,
che l’art. 14, comma 1, nel collegare le sanzioni interdittive alla specifica attività alla quale si riferisce l’illecito dell’ente, avrebbe inteso esprimere la regola secondo la quale le «sanzioni, per quanto possibile, devono colpire il
ramo di attività in cui si è sprigionato l’illecito, in omaggio ad un principio
di economicità e di proporzione» (36). Simile regola – prosegue la relazione
– «deriva proprio dalla estrema frammentazione dei comparti produttivi
che oggi segna la vita delle imprese ed è inoltre destinata a rivelarsi preziosa
in sede di disciplina della sorte delle sanzioni interdittive applicate nei confronti degli enti soggetti a vicende modificative (v. artt. 30 e 31)».
Sembra perciò che la formula «ramo di attività» sia stata utilizzata per
designare un campo oggettivo di esercizio economico; come vieppiù attestano altri passi della relazione ministeriale (37), senza tuttavia che possa dirsi con ciò raggiunta la prova di un uso conforme dell’enunciato anche nell’ambito dell’art. 30.
Per la verità la dottrina non ha mancato di porre il problema del rapporto che corra tra «ramo d’attività» e «ramo d’azienda»; talora prospettandone accezioni sovrapponibili (38). L’accostamento trae sostegno da una
premessa indiscutibile: l’azienda serve come strumento di esercizio di una
particolare attività: il suo trasferimento si associa dunque normalmente a
quello dell’attività esercitata o, almeno, di un settore della medesima. D’altra parte il d. lgs. 231/2001 traccia una distinzione che non va obliterata, regolando in apposita disposizione, cioè nell’art. 32, il trasferimento del solo
ramo d’azienda, che mostra così di voler considerare separatamente dal trasferimento dell’attività.
( 36 ) Cfr. sub § 6, intitolato alle «sanzioni interdittive».
( 37 ) Cfr. nuovamente il § 6 della relazione ministeriale, ove si legge che «il giudice indica i
compiti e i poteri del commissario, tenendo conto del ramo di attività e del settore in cui è stato consumato l’illecito»; o il § 9, nel quale si conclude, trattando dell’art. 21, che «il riferimento agli illeciti dipendenti da reati commessi nello svolgimento della medesima attività evoca il
rapporto pertinenziale che deve intercorrere tra i reati e il settore o il ramo di attività dai quali
essi dipendono. Il regime del cumulo giuridico non potrà pertanto trovare attuazione quando
la pluralità di violazioni sia riconducibile ad attività diverse e, in ultima analisi, a diverse lacune organizzative».
( 38 ) Cfr. Napoleoni, Le vicende modificative, cit., 353 ss.; adesivamente, Sfameni, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente – capo II, in La responsabilità «penale» delle persone giuridiche, cit., 274 s., sulla premessa del rinvio, da parte dell’art. 30, a categorie negoziali, con la conseguenza che non potendo, ai sensi dell’art. 2555 c.c., trasferirsi
l’impresa in quanto attività, ma solo l’azienda, l’interpretazione del decreto dovrebbe procedere in conformità.
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Si apre con ciò la via per affrancare la nozione del «ramo di attività» da
un’accezione puramente oggettiva, come quella che sembra trasparire dalla
relazione ministeriale al decreto 231/2001 o che, immancabilmente, dovrebbe accettarsi se fosse consentita una sua piena identificazione con il ramo d’azienda, secondo l’opinione proposta da alcuni interpreti e che pure
l’odierna legislazione, in luoghi nevralgici del sistema, mostra di non recepire (39). Tanto più che la predetta nozione oggettiva, quale che debba risultarne l’estensione, potrebbe rivelarsi insufficiente a un’efficace salvaguardia
del principio di proporzione: limite, questo, comune alle tesi che, pur accentuando i caratteri di unità funzionale del ramo di attività, ne propongono pur sempre un’accezione sbrigliata dalla precisa riferibilità ai meccanismi e alle sfere decisionali che presiedano al suo esercizio.
Occorre precisare, su un piano di analisi generale, che un nesso di continuità tra gli enti interessati da una determinata operazione modificativa può
essere costruito su un insieme di ulteriori criteri: a partire da quello che faccia riferimento alla componente personale dell’organizzazione di una certa
attività, rappresentata dai detentori dei poteri di gestione o di controllo nell’ente coinvolto dalla vicenda modificativa: quel che potrebbe definirsi, in
breve, il «gruppo di comando» dell’ente rinnovato. In quest’ottica, la conservazione dei poteri di vertice in capo al soggetto o ai soggetti che abbiano
realizzato – oppure omesso di impedire – il reato dal quale dipenda l’illecito
amministrativo dell’ente potrebbe valere appunto a indicare una continuità
irrisolta tra il «prima» e il «dopo», mentre, per converso, il ricambio del
gruppo di comando potrebbe giocare come sintomo di discontinuità.
Naturalmente, il significato di un criterio che guardi alla continuità del
«gruppo di comando» – lungamente praticato dalla giurisprudenza statunitense in materia di punitive damages (40), ma non sempre adeguatamente
( 39 ) Significativo appare, in particolare, l’art. 55 del d. lgs. 9.4.2008, n. 81, ove agli effetti
della responsabilità penale del datore di lavoro è tracciata una netta distinzione tra «azienda»
e «attività» in essa svolta, come si desume soprattutto dalle lettere b) e c) del comma 2: disposizioni dal forte valore sistematico, anche perché richiamate dall’art. 25-septies del d. lgs. 231
del 2001.
( 40 ) Cfr. Ketterling, A proposal for the proper use of punitive damages against a successor, in The Journal of Corporation Law, 1986, 783 ss., ove è esaminato il caso-guida di Martin
v. Johns-Manville Corp. Ad avviso dell’autore una corretta visione del «test di continuità» (o
del «grado di identità») servirebbe propriamente ad appurare se il successore «sia» il predecessore: se, cioè, con esso si identifichi. Ecco perché non sarebbe sufficiente il permanere di
un «singolo» esponente, benché colpevole, nel nuovo ente: al contrario, il «tasso di identità»
dovrebbe risultare dalla misura in cui «soci, esponenti, dirigenti e amministratori siano strutturati nell’organizzazione dell’ente successore. Un sufficiente “tasso di identità” giusitificherebbe la conclusione che il predecessore è così strettamente identificato al successore che punire quest’ultimo significhi punire il primo».
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còlto, almeno nel suo stretto riferimento alla componente «umana» dell’ente, né pienamente sviluppato, come si è osservato in precedenza, nell’ambito del diritto antitrust, nonostante gli espressi riferimenti alla componente
«umana» dell’impresa trasferita – va calibrato in rapporto all’illecito «da
reato». Fa da sfondo una premessa: trattandosi di attribuire all’ente un illecito autonomo, ma pur sempre «derivante» – anzi a rigore «dipendente» –
dal reato, quest’ultimo dovrebbe essere il frutto di un’azione attribuibile a
soggetti che, per la posizione rivestita e/o le funzioni esercitate, esprimano
una carenza nell’organizzazione e/o nell’esercizio dei poteri spettanti al vertice e, quindi, una lacuna organizzativa non tempestivamente fronteggiata dall’ente originario, che si perpetui all’interno del nuovo ente (41).
Come dire: il ricambio del gruppo di comando potrebbe segnare, almeno in astratto e salva ogni necessità di concreto raffronto, una soluzione di
continuità con la pregressa gestione dell’ente e, in ogni caso, una cesura del
difetto organizzativo che abbia dato causa all’illecito, della quale la legge
non potrebbe non tener conto, volendo attuare un principio di «personalità» dell’addebito. Riflessione, questa, che si pone in continuità con l’analisi
aziendalistica, la quale vede in tutte le operazioni straordinarie (trasformazione, fusione, scissione) la possibilità di un mutamento dirompente nell’«articolazione della funzione imprenditoriale», mediato dal cambiamento
del personale addetto alla gestione e, con esso, dell’intero «processo decisorio» (42).
Allo stato, il rilievo del criterio nella cornice delle «vicende modificative» è percepito in misura ridotta. Il punto di emersione di un eventuale «ricambio» del vertice sembra stare nella previsione dell’art. 31 del d. lgs. 231/
2001, che – come noto – garantisce all’ente risultante da fusione o scissione
(ma non all’ente trasformato), al quale debba applicarsi una sanzione interdittiva, di chiederne la sostituzione con una sanzione pecuniaria. L’art. 31,
richiamando l’art. 17, subordina tale sostituzione, tra l’altro, alla avvenuta
eliminazione delle carenze organizzative che abbiano determinato il reato,
mercé l’adozione di modelli organizzativi efficaci (art. 17, comma 1, lett. b,
richiamata dall’art. 31, comma 2): ed è proprio in questa prospettiva che un
rinnovamento degli organi di vertice potrebbe guadagnare rilievo, agendo
come criterio di misura dell’efficacia preventiva riconoscibile ai modelli
adottati dal «nuovo» ente.
Ora, è chiaro che se il rinnovamento del vertice rilevasse, in base all’art.
( 41 ) Per un’applicazione, si rinvia a Masucci, Infedeltà patrimoniale e offesa al patrimonio, Napoli, 2006, 426 ss.
( 42 ) Le espressioni tra virgolette si leggono, con specifico riferimento alla trasformazione,
in Di Carlo, Le vicende modificative, cit., 84.
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ARTICOLI
31, ai soli fini della sostituzione delle sanzioni interdittive, esso non potrebbe per altro verso assumere quel più incisivo significato che, nell’ipotesi ricostruttiva qui prospettata, conduca a escludere la responsabilità dell’ente
«modificato», quando il ricambio al suo interno valga a «rompere i ponti»
col passato gestionale. Sotto questo profilo dovrebbe concludersi che il decreto 231 valuti eventuali variazioni della componente umana, per quanto
profonde, nel transito dal vecchio al «nuovo» ente come una sorta di condotta riparatrice o di ravvedimento tardivo, negando loro la virtù di paralizzare l’addebito.
Senonché una tale soluzione, condivisibile nella prospettiva dell’ente
singolarmente preso, che rimuova ex post le lacune organizzative acclarate,
potrebbe rivelarsi insufficiente nell’ottica dell’accertamento di una continuità significativa tra enti diversi. Potrebbe maturare il convincimento che
l’«identità» o «alterità» dell’ente non possano accertarsi secondo parametri
puramente oggettivi, dovendo anche tener conto del personale umano che
valuti, decida, agisca per l’ente. Potrebbe allora ritenersi, dinanzi a modifiche magari radicali del «gruppo di comando», che l’ente uscito da un’operazione di fusione o scissione sia compiutamente diverso, nella sua complessiva organizzazione, da quello nel quale l’illecito abbia preso corpo.
In quest’ottica, si tenga ancora conto che sarebbe frettoloso liquidare il
problema osservando che l’eventuale ricambio del vertice equivalga a una
semplice eliminazione di carenze pregresse. L’argomentazione apparirebbe
decentrata in tutti i casi nei quali la vicenda modificativa abbia portato alla
formazione di un ente «autonomo», che si pretenda di sanzionare. Invero
l’ente, proprio perché autonomo, dimostrerebbe, se guidato da soggetti diversi, di non possedere continuità, neppure materiale, con quello originario, non potendo perciò parlarsi, neppure in chiave per così dire sostanziale, di eliminazione di una carenza preesistente.
Al contempo e da un punto di vista strettamente interpretativo, sembrerebbe di poter confermare che nel d. lgs. 231/2001 il più saliente parallelo con l’art. 30, utile a dare contorni alla formula «ramo di attività», si rinvenga nell’art. 21, comma 1, nel punto in cui il legislatore parla di illeciti
realizzati con una «medesima attività». Più sopra, con diversa prospettiva,
abbiamo richiamato l’attenzione sulla circostanza che il decreto istituisca
un’equivalenza tra unicità della condotta criminosa e «medesimezza» dell’attività dell’ente; il che – abbiamo premesso – indurrebbe a ritenere non
del tutto avventurosa l’ipotesi che, al pari dell’unità o pluralità del comportamento umano, così pure la rilevazione di una «medesima» attività dell’ente passi attraverso requisiti, se non di tipo psicologico, quanto meno di
stampo non solo oggettivo: i quali, è ora possibile precisare, potrebbero
consistere proprio e anzitutto nell’identità della componente umana delRiv. trim. dir. pen. econ. 1-2/2015
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l’ente, ossia del gruppo di persone cui si riconduca la decisione collettiva
sull’azione dell’ente. L’attività dell’ente, in altre parole, sarebbe la medesima, nel quadro degli artt. 21 e 30 del decreto, non solo in quanto obiettivamente omogenea, ma solo se riconducibile allo stesso «gruppo» e alla stessa
«volontà» che l’abbiano in precedenza indirizzata verso la commissione di
illeciti; venendo meno nel caso contrario.
Si comprenderebbe, in tal modo, meglio accordandosi al complesso del
decreto 231, perché l’art. 32 subordini il configurarsi della reiterazione di
illeciti, nel caso della scissione, al trasferimento del ramo di attività; e perché lo stesso art. 32, nel comma 2, imponga inoltre al giudice, anche nel caso di fusione, di tener conto, oltre che delle specifiche caratteristiche della
vicenda, dell’attività nella quale sia stata commessa la precedente violazione: nella cornice di una valutazione dall’esito non preconfezionato (il giudice «può ritenere la reiterazione» (43)).
Si coglierebbe, al contempo, il senso del richiamo che qualche scrittore
fa, nell’esegesi dell’art. 32, all’onere di accertare l’identità o il ricambio del
personale addetto all’amministrazione o al controllo dell’ente (44): richiamo
non specificamente collegato alla nozione della «attività» trasferita; eppure
messo in campo per sollecitare una verifica della continuità tra l’ente preesistente e quello modificato.
9. – Si badi bene: ponendo in risalto, nel disciplinare la scissione, la titolarità «attuale» del ramo di attività collegato al reato, quale condizione per
ritenere l’ente responsabile, il decreto 231/2001, nel silenzio della legge delega, adotta un meccanismo che, come chiarisce la relazione, intende salvaguardare il principio di proporzione.
Resta un interrogativo di fondo: se si tratti di una soluzione generale,
estensibile alla trasformazione ed alla fusione, o piuttosto di uno schema
circoscritto alla scissione, magari perché, nell’apprezzamento legislativo,
solo in essa e non nelle altre vicende modificative potrebbe pervenirsi al riconoscimento di un difetto di continuità tra «vecchio» e «nuovo» ente.
Si è detto al riguardo come il problema si ponga in quanto la trasformazione è per lo più vista dal d. lgs. 231/2001 come fenomeno nel quale mancherebbe una vera cesura tra l’ente originario e quello trasformato; mentre
( 43 ) Ancorché possano esservi dubbi, a fronte della dettatura di una serie di parametri legali, per quanto generici, taluno ravvisa in questa ipotesi una vera e propria espressione di discrezionalità: fra i primi, in ordine cronologico, Busson, Responsabilità patrimoniale e vicende modificative dell’ente, in Responsabilità dell’ente per illeciti amministrativi dipendenti da
reato, a cura di Garuti, Padova, 2002, 206; Scognamiglio, op. cit., 336.
( 44 ) De Angelis, op. cit., 1332.
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nella fusione, pur sussistendo a valle della modifica una più marcata differenza tra il soggetto originario e quello responsabile, sembra in qualche misura che la legge finisca col reputarla meno rilevante, rinunciando a verificare il grado di compenetrazione tra gli enti coinvolti.
È chiaro per altro verso che l’impianto della materia troverebbe una
spiegazione più convincente se potesse sostenersi con fondamento che il legislatore abbia comunque valorizzato alla base dei processi regolati un momento unificante identificabile nella conservazione del ramo d’attività collegato all’illecito, considerandolo dunque, sia pur implicitamente, requisito
per poter applicare una sanzione al titolare, almeno se di tipo interdittivo.
Né deve ritenersi che il collegamento tra sanzione e titolarità di un particolare ramo di attività, posto dal d. lgs. 231/2001, sia circoscritto alla disciplina della scissione, non potendo escludersi che trasformazione e fusione siano incentrate su un criterio corrispondente, se pur implicito. A ben
vedere, la ragione della sua mancata esplicitazione potrebbe stare nella circostanza che la trasformazione, incidendo sulla forma e sulla disciplina giuridica dell’ente, comporti naturalmente la continuazione nell’esercizio di
una certa attività; e così pure la fusione, imperniata sull’aggregazione di
preesistenti strutture economiche e gestionali.
Ciò per altro verso implicherebbe, nei casi di trasformazione e fusione
non diversamente da quelli di scissione, l’esigenza di centrare la responsabilità dell’ente modificato sulla conservazione di un ramo di attività che intrattenga significative connessioni con il reato, fonte di responsabilità dell’ente. Con il consequenziale rovescio: l’accertamento del difetto di continuità, dovuto alla disgregazione o al mancato trasferimento di quel ramo,
porterebbe a dover negare la responsabilità del soggetto scaturito dalla vicenda modificatrice.
La lettura «unitaria» delle vicende modificative sortirebbe il non secondario vantaggio della maggior chiarezza sistematica – non essendovi ragione di punire un ente che, nel modificarsi, abbia rimosso i difetti organizzativi e le dinamiche operative che siano stati cause del reato – e della razionalità dogmatica, evitando di dover risalire, come è spinta a fare una parte della
giurisprudenza (45), a un duplice ed eterogeneo fondamento dell’attuale disciplina, in quanto si assuma che essa costituisca espressione sia del principio della «prosecuzione giuridica» (operante nei casi della trasformazione e
della fusione), sia della fruizione economico-patrimoniale dell’illecito di un
ente «altro» (come avverrebbe nella scissione o nella cessione dell’azienda).
( 45 ) Cfr. Trib. Milano, 20.10.2011, n. 18941, in Le società, 2012, 294, con nota di Salafia, Estinzione della sanzione amministrativa ex d. lgs. 231 per estinzione della società.
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10. – Rimane da dire del rilievo spettante alla «colpevolezza» dell’ente
risultante dalla vicenda modificativa: colpevolezza da intendersi, nel suo
nucleo minimo, come consapevolezza di un pregresso illecito dal quale possa scaturire la responsabilità dell’ente, ovvero, con contenuti via via più
estesi, come vera e propria «volontà» dell’illecito medesimo, in una fase
precedente la sua commissione o, almeno, in un momento successivo, nell’ottica di una «adesione» postuma all’episodio avvenuto.
Requisiti di «colpevolezza» riferibili all’ente, in sé e per sé preso, appaiono in effetti presupposti dal decreto n. 231/2001; non dimenticando
come essi corrispondano a un’esigenza da molti avvertita quale condizione
imprescindibile di una giusta imputazione all’ente della responsabilità per
illeciti «da reato».
Il problema più importante sta nel mettere a fuoco i meccanismi ricognitivi della «colpevolezza» dell’ente: questione notoriamente e non da oggi al centro del dibattito in materia, specie nel contesto anglo-statunitense
(46). Nell’impossibilità di offrirne almeno una panoramica, ci si limiterà a ricordare un dato che può reputarsi acquisito: negata cittadinanza allo schema «respondeat superior», sembra doversi escludere che la volontà del singolo, ancorché qualificato esponente dell’impresa permetta di identificare
conclusivamente la volontà di quest’ultima, in sé e per sé considerata.
Cercando di fotografare lo «stato dell’arte», le proposte più recenti partono sempre dall’analisi del comportamento collettivo. Muovono dall’idea
tradizionale che «la condotta illecita dell’ente è una forma di violazione collettiva delle regole allo scopo di conseguire obiettivi organizzativi» (47); ma
( 46 ) Un’efficace sintesi, a livello monografico, in Laufer, Corporate bodies and guilty
minds. The failure of Corporate Criminal Liability, Chicago-London, 2006, passim (in particolare, per la definizione di un modello di constructive fault, 70 ss.); e, nella recente saggistica, in
Skupski, The Senior Management Mens Rea: Another Stab at a Workable Integration of Organizational Culpability into Corporate Criminal Liability, in Case Western Reserve Law Review,
2011, 263 ss., in part. 297 ss. e 309 ss., dove si delinea un modello che studia la colpevolezza
dell’ente a partire dalla (preliminare) colpevolezza del suo corpo manageriale. Come ulteriori
punti di riferimento del dibattito, in una letteratura evidentemente amplissima, è utile richiamare, inoltre, accanto al noto e ormai classico lavoro di Bucy, Corporate Ethos: a Standard for
Imposing Corporate Criminal Liability, in Minnesota Law Review, 1991, 1095 ss. (in particolare 1121 ss.) quelli, più recenti, della medesima Bucy, Organizational Sentencing Guidelines:
the Cart before the Horse, in Washington University Law Quarterly, 1993, 329 ss., spec. 339
ss.; e di Moore, Corporate Culpability Under the Federal Sentencing Guidelines, in Arizona
Law Review, 1992, 743 ss. (per l’esame della «colpevolezza» della corporation, qual è costruita dalle sentencing guidelines, 785 ss.).
Per il sistema inglese si vedano, sempre in chiave di sintesi, Simester-Sullivan, Criminal
Law. Theory and Doctrine, Oxford-Portland, (3a ed.) 2007, 262 ss.
( 47 ) Clinard e altri, Illegal Corporate Behavior, U.S. Dept. of Justice, Washington
D.C., 1979, 25.
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si interrogano sulla azione preventiva (cosiddetta «proactive fault») o sulla
«reazione» dell’ente («reactive fault») all’emersione dell’illecito, per risalire
a un modo di organizzarsi o ad una politica gestionale consentanea all’illegalità o indifferente ai suoi sintomi. Il procedimento – si dirà – rischia di essere modellato entro schemi presuntivi: ma – è questo il dato da evidenziare
– la presunzione, che pure volesse praticarsi, punterebbe ad accertare una
«volontà» dell’ente in quanto tale, come realtà operativa irriducibile a sfere
individuali.
Anche il tema delle vicende modificative è inevitabilmente e direttamente attratto dal problema: perché, se si riconoscesse che una qualche
«colpevolezza» debba (ri-)costruirsi in capo all’ente, apparirebbe precluso
non solo il trasferimento secco di responsabilità da reato, ma anche il coinvolgimento nella sanzione dell’ente incolpevole. Vale a dire che resterebbe
impregiudicata l’esigenza di vincolare la responsabilità «da reato» a un
coefficiente di effettiva rimproverabilità, non dissociabile – nel caso dell’ente come della persona fisica – da elementi utili a «personalizzare» l’imputazione: si ricorra o meno, per raccoglierne il senso, al termine «colpevolezza».
A tale esigenza si è mostrato sensibile il legislatore italiano, allorché si è
trattato di regolare gli effetti della cessione di azienda, pur essa inclusa tra le
vicende modificative dell’ente. Riprendendo proposte già contenute nel
«progetto Grosso», il cessionario di azienda, esente da sanzioni interdittive
ed affrancato altresì da sanzioni pecuniarie quanto meno in via diretta, assume una potenziale responsabilità solidale per il pagamento di queste ultime, concernenti reati commessi prima della cessione, purché ne fosse o potesse esserne a conoscenza.
Il limite della previa conoscenza – effettiva o presunta, e perciò ridotta a
conoscibilità qualificata, come nel caso previsto dall’art. 33 – identifica un
elemento di schietta valenza «personale», nel quadro di un giudizio, se non
di autentica «rimproverabilità», quanto meno di «calcolabilità», che ben
può doversi estendere all’ente quando sia quest’ultimo, piuttosto che una
persona fisica, ad acquisire l’azienda o un suo ramo.
Prescindiamo, in questa sede, dalle ragioni che hanno indotto il legislatore italiano a divaricare la cessione o il conferimento di azienda da vicende
modificative che investano in profondità la struttura dell’ente (trasformazione, fusione e scissione). È certo che anche la dismissione di un ramo
aziendale si presti a scopi elusivi della responsabilità: la diversa disciplina
impressa al fenomeno (sono escluse sanzioni interdittive a carico del cessionario o conferitario; residua un’obbligazione solidale con beneficio di
escussione per le sole sanzioni pecuniarie «conosciute» dai medesimi cessionario o conferitario) appare alimentata da valutazioni concernenti la peRiv. trim. dir. pen. econ. 1-2/2015
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culiarità dell’ipotesi regolata, più che da precisi programmi di politica penale.
In altri termini, nella cessione di azienda si registra un semplice trasferimento di beni, sia pur raccordati in un complesso unitario, sì che la responsabilità per le sanzioni pecuniarie sembra quasi atteggiarsi come una sorta
di obbligazione propter rem, restando reciso il rapporto con le ulteriori
componenti personali e organizzative che concorrano a formare il complessivo «ambiente» nel quale l’illecito dell’ente sia maturato.
Se tale fosse la spiegazione della legge, tuttavia, non potrebbe escludersi
che nei casi di trasformazione, fusione o scissione possa realizzarsi l’identica situazione, apparendo irragionevole la mancata introduzione, quanto
meno in via interpretativa, di un limite analogo a quello positivamente previsto dall’art. 33.
Vale a dire: almeno là dove si stagli un ente autonomo, diverso da quello cui debba ricondursi l’illecito – l’incorporante nella fusione per acquisizione, il partecipante alla fusione paritaria o il beneficiario della scissione –,
l’applicazione di sanzioni interdittive potrebbe essere subordinata, almeno
de iure condendo, al requisito espresso dall’art. 33: dunque all’effettiva consapevolezza, da parte del destinatario, dell’illecito commesso o, quantomeno, della sanzione già formalmente inflitta all’ente originariamente responsabile.
In questa direzione, sia permesso aggiungere, sembra indicare il limite
sistematico testimoniato dall’art. 33, là dove, dinanzi al trasferimento di
una mera aggregazione funzionale-oggettiva di beni, come l’azienda, lascia
che il cessionario o il conferitario assumano esclusivamente, alle condizioni
precisate, un obbligo solidale per il pagamento della sanzione pecuniaria, in
conformità a un modello adottato anche per le sanzioni amministrative tributarie (art. 14 del d. lgs. 18.12.1997, n. 472): per ciò stesso negando ogni
più penetrante responsabilità e, men che meno, qualsiasi slittamento dell’obbligo «principale» – connesso a sanzioni pecuniarie o interdittive – dal
cedente al cessionario.
Al fondo, la disciplina costruita dal decreto è legittimata dalla sopravvivenza dell’ente cedente, titolare originario dell’azienda. Ma, se si ritiene che
l’art. 33 operi anche quando l’illecito conseguente al reato sia maturato nell’esercizio dell’azienda ceduta – conclusione da accettare, per chi creda alla
regola ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemos –, si tocca con mano come la responsabilità resti incardinata in un ente del quale sopravviva
non la componente oggettiva – che, anzi, sarebbe senz’altro soppressa, almeno quando vi sia unicità di azienda – bensì quella «soggettiva» o, come è
parso di poter dire, «umana». In essa, pertanto; rectius: nella sua permanenza, all’esito di qualsiasi vicenda modificativa, sarebbe coerente concludere
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che debba risiedere un limite generale della responsabilità «da reato», serbata o trasmessa dall’ente «modificato» per vie compatibili con il dettato
costituzionale.
Zusammenfassung
Der Beitrag analysiert das Phänomen der strafrechtlichen Verantwortlichkeit einer juristischen Person im Falle von Veränderungen im Sinne der Bestimmungen des GVD 231/2001.
Die Strafbarkeit verbleibt im Falle einer Umwandlung; im Fall einer Fusion scheint sie dagegen von der ursprünglichen auf die aus der Operation resultierenden Organisation überzugehen. Bei einer Aufteilung verlangt das
Gesetz hingegen ausdrücklich, dass zum Zwecke der Strafbarkeit derjenige
Betriebszweig, in welchem die Straftat begangen wurde, übertragen worden
ist.
Bewertet man diese Formel und begreift man ihre systematische Bedeutung, so ist es bereits de iure condito möglich anzunehmen, dass die Schuldhaftigkeit der aus der Aufteilung entstandenen juristischen Person durch das
Vorhandensein eines bedeutenden Fortsetzungsbestandes mit der juristischen
Person, in welcher die Straftat begangen wurde, bedingt ist. Diese Fortführung könnte in dem Weiterbehalt der Führungsriege und der unveränderten
Verwaltungs- und/oder Kontrollgewalt der juristischen Person erkannt werden; es ist dann zu überlegen, ob ein ähnliches Requisit auch in Fällen von
Umwandlung und Fusionierung postuliert werde.
Abschließend wird die Frage gestellt, ob im Falle von bedeutenden Änderungen der juristischen Person die Verantwortlichkeit, wie auch immer man
sie verstehe, weitere Elemente voraussetze, die dazu geeignet sind, einen
Schuldvorwurf zu postulieren, der sich durch effektive “Personifizierung” auszeichnet.
Abstract
This paper analyses the criminal liability of legal entities subjected to
modifications according to d. lgs. 231/2001.
Such liability stays even after the transformation; on the contrary, in case
of merger, it is subjected to shifting from the original entity to that resulting
from the operation. In the division, to the purposes of bans and disqualifications, law expressly requires the transfer of the branch of the enterprise in
which crime has been committed.
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Valuing such formula and catching its systematic relevance we can hypothesise, also de jure condito, that the responsibility of the entity resulting
from the division is subordinated to the finding of a relevant continuity with
the entity in which the presupposed crime was committed. The continuity
might be deduced from the preservation of the managers and from the unchanged distribution of the powers of management and/or control of the entity; it remains to be established whether such a requirement can be postulated also in case of transformation and merger.
Finally the paper covers the problem of establishing whether after relevant modifications of the entity its liability, however conceived, presupposes
further requirements, capable of consecrating what could be defined as a
blame upheld by factors of effective “personalisation” of the charge.
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Licia Siracusa
ricercatore di diritto penale nell’Università di Palermo
I DELITTI DI INQUINAMENTO AMBIENTALE E
DI DISASTRO AMBIENTALE IN UNA RECENTE PROPOSTA
DI RIFORMA DEL LEGISLATORE ITALIANO (*) (**)
Sommario:1. Premessa. - 2. Le principali novità del Disegno di Legge. - 3. Il delitto di inquinamento ambientale. - 3.1. La clausola di illiceità speciale. - 3.2. L’offesa punita. - 4. Il
ruolo del processo «Eternit» nella genesi del delitto di disastro ambientale. - 5. Il delitto
di disastro ambientale: la condotta tipica. - 5.1. L’evento del delitto di disastro. - 6. Altri
segni del processo «Eternit» tra le previsioni del Disegno di Legge sugli ecoreati. - 7.
Brevi note a margine su causalità e colpevolezza nelle prospettate incriminazioni. - 8. Un
sintetico «bilancio» in prospettiva futura.
1. – Benché in ambito dottrinale, già da lungo tempo si solleciti una revisione complessiva e sistematica della normativa penale a tutela dell’ambiente, i segnali di una rinnovata sensibilità del legislatore verso tale materia
sono piuttosto recenti e dunque – se si vuole – abbastanza tardivi; ancorché, per lo meno a prima vista, essi facciano positivamente sospettare che
sia finalmente maturata una piena consapevolezza circa l’improrogabilità di
un intervento di riforma nel settore.
Come sovente accade in diritto penale, il balzo in avanti nella direzione
di una radicale innovazione della disciplina è stato innescato dalla vasta eco
collegata a taluni eclatanti casi giudiziari, che hanno impetuosamente richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica e del legislatore sulla necessità
di assicurare adeguata copertura penale a condotte lesive del bene ambiente, non agevolmente punibili, nel quadro della normativa vigente.
La spinta decisiva (si spera) è dunque provenuta dal prepotente irrompere della prassi giudiziaria, piuttosto che dagli stimoli offerti dai polverosi
dibattiti accademici; come in effetti dimostra la rapida approvazione in Senato – avvenuta qualche settimana fa, a pochi giorni di distanza dal deposito delle motivazioni delle sentenza di legittimità sul «caso Eternit (1)» – di
(*) Testo ampliato e corredato di note della relazione tenuta al Seminario interdisciplinare «Il diritto penale dell’ambiente: profili, problemi e prospettive di riforma in Italia e in Germania», Università di Palermo, Dipartimento di Scienze Giuridiche, 27 marzo 2015.
(**) Nelle more della pubblicazione del contributo, il disegno di legge da cui esso trae
spunto è stato approvato in via definitiva dal Parlamento, ma le disposizioni qui commentate
sono rimaste invariate nei contenuti.
( 1 ) Dopo le severe condanne pronunciate in primo grado ed in appello, il «caso Eternit»
si è di recente concluso con il proscioglimento degli imputati per intervenuta prescrizione,
(Cass. pen., sez. I, 19.11.2014 (dep. 23.2.2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp.
Schmidheiny). Tale vicenda costituisce senza dubbio un leading case, per l’approccio innova-
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un Disegno di Legge in materia di «ecoreati» il cui testo giaceva in Parlamento da quasi un anno (2).
La brusca accelerazione impressa all’iter di approvazione di tale proposta, in concomitanza con la chiusura della vicenda «Eternit», è senz’altro il
segno della volontà politica di dare una risposta solerte alle ampie polemiche sollevate dall’esito di questo caso e da altri analoghi casi di disastri ambientali, rimasti impuniti, o esposti al rischio di rimanere impuniti (3).
Ciò induce a sperare in un’inversione di tendenza rispetto allo scenario
del passato, che è stato costellato dal fallimento di uno svariato numero di
tivo che ha inaugurato su un tema ormai divenuto «classico» nel dibattito penalistico, come
quello delle morti cagionate dalle polveri di amianto. Per l’ampia letteratura in materia, si leggano tra gli altri Palazzo, Morti da amianto e colpa penale, in Dir. pen. proc., 2011, 185; Bartoli, Causalità e colpa nella responsabilità penale per esposizione dei lavoratori ad amianto, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 597; Id., Responsabilità penale da amianto: una sentenza destinata
segnare un punto di svolta, in Cass. pen., 2011, 1712; La responsabilità penale da esposizione
dei lavoratori ad amianto, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, Surace, La morte del lavoratore per l’esposizione alle polveri di amianto: condizione perché sussista la responsabilità del
datore di lavoro, in Cass. pen., 2010, 211; Masera, La malattia professionale e il diritto penale,
in www.dirittopenalecontemporaneo; Id., Danni da amianto e diritto penale, in www.dirittopenalecontemporaneo; Zirulia, Causalità e amianto: l’eterno «duello» tra i consulenti tecnici delle parti, in Corr. mer., 2012, 277; Id., Amianto e responsabilità penale: causalità ed evitabilità
dell’evento in relazione alle morte derivate da mesotelioma pleurico, in www.dirittopenalecontemporaneo; Id., Ancora oscillazioni della giurisprudenza di legittimità sulle «morti da amianto», in www.dirittopenalecontemporaneo; Ascione, La tutela penale rispetto al rischio amianto, in Giur. mer., 2010, 900; Siracusa, Nesso di causalità ed esposizione a «sostanze tossiche»
(processi Montefibre 2011), in Nel diritto, 2012, 757; Id., Causalità e colpa nell’esposizione dei
lavoratori alle polveri di amianto tra «caos» e «logos», in questa Rivista, 2009, 969; Blaiotta,
Causalità e neoplasie da amianto, in Cass. pen., 2003, 3391, Insolera-Montuschi (cur.), Il
rischio da amianto. Questioni sulla responsabilità civile e penale, Bologna, 2006; Guariniello, Malattie professionali, tumori da amianto, asbestosi, in Foro it., 2000, 278; Id., I tumori
professionali nella giurisprudenza penale, in Foro it., 1999, 237; Di amato, La responsabilità
penale da amianto, Milano, 2003.
( 2 ) Disegno di Legge recante «Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente», già esitato dalla Camera dei Deputati il 26 febbraio 2014 ed approvato con modificazioni dal Senato della Repubblica il 4 marzo scorso.
( 3 ) Il riferimento è soprattutto al celebre «caso Ilva» di Taranto il cui processo, ancora in
corso, ha generato un aperto scontro istituzionale tra politica e magistratura circa la definizione del punto di equilibrio nel bilanciamento di interessi tra le esigenze di mantenimento della
produzione industriale da un lato, e la tutela della salute e dell’incolumità pubblica, dall’altro
lato.
La vicenda è nota. Al sequestro preventivo dell’intero comparto produttivo dell’Ilva a Taranto disposto dalla magistratura, ha fatto seguito l’approvazione del d.l. n. 207/2012 che ha
conferito agli impianti incriminati l’AIA (autorizzazione integrata ambientale) in deroga, nonostante ad opinione della procura, tali impianti avessero gravemente compromesso l’ambiente.
Per un commento del caso, si legga Picillo, Tra le ragioni della vita e le esigenze della produzione: l’intervento penale ed il caso Ilva di Taranto, in www.archiviopenale.it/fascicolo/fascicolo-n-2-maggio-agosto-2013-web/#.VSUDEfBGR9k.
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proposte di riforma dei reati ambientali (4). Il contesto culturale e politico
che sta accompagnando l’iter parlamentare del nuovo provvedimento sembrerebbe in effetti favorirne un approdo definitivo.
Nella realistica prospettiva che il Disegno di Legge sia destinato a modificare profondamente il volto del diritto penale ambientale in Italia, il
dibattito sul fondamento i limiti e le tecniche di tale ambito dell’ordinamento penale diviene dunque nuovamente attuale, e anzi si arricchisce degli stimoli offerti dal banco di prova della coeva, anzidetta, proposta di riforma.
Il testo esitato dal Senato fornisce infatti molteplici spunti di riflessione sia sotto il profilo dell’adeguatezza delle soluzioni normative proposte
alle istanze di politica/criminale che ne stanno alla base, sia sul versante
della loro «tenuta» in chiave teorica, alla luce delle peculiarità tanto del
bene giuridico tutelato, quanto delle condotte lesive incriminate. Senza
contare che esso offre anche l’occasione per valutare l’eventuale corrispondenza delle future disposizioni con le guidelines a suo tempo indicate
dal legislatore europeo nella Direttiva 2008/99/ce sulla tutela penale dell’ambiente (5).
Come è noto, l’Italia ha implementato la suddetta direttiva con il d. lgs.
7 luglio 2011, n. 121, il quale ha però largamente deluso le aspettative su di
esso riversate, sia perché non ha introdotto nuove fattispecie incriminatrici
di danno o di pericolo concreto per l’ambiente, come invece avrebbe richiesto un corretto adeguamento agli standards di incriminazione delineati
nel testo europeo; sia perché è risultato privo di una revisione globale del sistema di tutela penale dell’ambiente, che pure si era ipotizzata all’indomani
( 4 ) Per un excursus sulle principali proposte di riforma in materia, Siracusa, La tutela
penale dell’ambiente, Milano, 2007, 431 ss.
Tra le altre proposte, successive al 2007, si segnalano: il Disegno di Legge S. 384 del
6.5.2008 dal titolo «Introduzione nel codice penale di disposizioni in materia di ambiente»; il
Disegno di Legge S. 879 del 3.7.2008, «Introduzione nel codice penale del titolo VI - bis concernente i delitti contro l’ambiente»; il Disegno di Legge S. 1298, del 22.12.2008, «Introduzione nel codice penale di disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente»; la proposta di legge
C. 234 del 29.4.2008 «Modifiche al codice penale e altre disposizioni concernenti i delitti contro
l’ambiente»; il Disegno di Legge S. 2565, del 17.2.2011, «Introduzione nel codice penale dei
delitti contro l’ambiente. Delega al Governo per la raccolta e il coordinamento della disciplina
sanzionatoria speciale»; la proposta di Legge C. 2420, del 6.5.2009 recante disposizioni concernenti l’ntroduzione del titolo VI bis del libro II del codice penale e dell’articolo 25 quinquies.1 del d. lgs. 8.6.2001, n. 231, in materia di delitti contro l’ambiente; il Disegno di Legge
S. 1046 del 17.9.2013, intitolato «Nuove norme in materia di delitti contro l’ambiente e delega
al governo per la riforma della disciplina sanzionatoria penale in materia di reati contro il patrimonio culturale».
( 5 ) Direttiva 2008/99/ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19.11.2008 sulla tutela penale dell’ambiente, in GU L 328/28.
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dell’approvazione della direttiva come conseguenza dell’impatto della stessa sul nostro ordinamento (6).
Si è trattato invero di una soluzione parziale, di compromesso che non
ha comportato una ristrutturazione integrale della normativa penale di
settore (7), ma si è limitata al conio di nuove fattispecie incriminatrici a tutela delle specie animali e vegetali protette, prima inesistenti, e all’inserimento dei reati ambientali nel catalogo degli illeciti penali per i quali è
prevista la responsabilità degli enti (8), senza modificare nessuno dei molti
altri profili significativi della legislazione penale vigente in materia di ambiente.
L’attuazione degli obblighi di incriminazione di matrice europea ha
pertanto fallito l’obiettivo di rafforzare il livello complessivo della protezione penale dell’ambiente, poiché, come detto, non ha affiancato ai vecchi
reati di pericolo astratto e di natura contravvenzionale nuovi reati incentrati sulla concreta lesione del bene ambiente. Una soluzione integrata di tal
fatta, che avesse lasciato coesistere le fattispecie contravvenzionali con i
nuovi delitti di evento, non sarebbe infatti risultata esorbitante rispetto alle
prescrizioni della direttiva, tenuto conto che questa fissava uno standard comune minimo di tutela, lasciando impregiudicata la possibilità per gli Stati
di prevedere accanto alle incriminazioni delle offese più rilevanti anche reati di minore gravità, a vocazione preventiva (9).
Ebbene, le attese sulle ricadute positive della direttiva, rimaste deluse
all’indomani della sua attuazione, potrebbero invece trovare una risposta
compiuta con l’approvazione della riforma in commento, che prevede alcune significative novità sia sul versante dell’approfondimento del livello delle
offese incriminate, sia sotto il profilo dell’inasprimento della risposta san-
( 6 ) Benozzo, La direttiva sulla tutela penale dell’ambiente tra intenzionalità, grave negligenza e responsabilità delle persone giuridiche, in Dir. giur. agr. alim. dell’ambiente, 2009, n. 5,
301; Vagliasindi, La direttiva 2008/99 CE e il Trattato di Lisbona: verso un nuovo volto del
diritto penale ambientale italiano, in Dir. comm. intern., 2010, 458 ss.; Paonessa, Gli obblighi
di tutela penale, Pisa, 2009, 232 s.; Siracusa, La competenza penale comunitaria al primo banco di prova: la direttiva europea sulla tutela penale dell’ambiente, in questa Rivista, 2008, 898 e
899; Id., L’attuazione della direttiva sulla tutela dell’ambiente tramite il diritto penale, in
www.penalecontemporaneo.it, 2; Vergine, Nuovi orizzonti del diritto penale ambientale, in
Ambiente@Sviluppo, 2009, n. 1., 10.
( 7 ) Come da noi segnalato, già al momento dell’approvazione della legge delega, L’attuazione della Direttiva europea sulla tutela dell’ambiente tramite il diritto penale, in ww.penalecontemporaneo.it.
( 8 ) Ruga Riva, Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela
penale dell’ambiente: nuovi reati, nuova responsabilità degli enti da reato ambientale, in
www.penalecontemporaneo.it, 1 e 2; Pistorelli-Scarcella, Relazione dell’Ufficio del Massimario presso la Corte Suprema di Cassazione, in www.penalecontemporaneo.it, 1 ss.
( 9 ) Si legga il dodicesimo Considerando della direttiva.
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zionatoria, in corrispondenza del maggiore disvalore lesivo delle fattispecie
di nuova formulazione.
Alla rilevante innovazione determinata dalla possibile introduzione nel
sistema di delitti ambientali si aggiungerebbero inoltre ulteriori originali
soluzioni normative nell’ambito del regime di punibilità delle contravvenzioni. Questo si arricchirebbe infatti della previsione di una speciale causa
di estinzione del reato consistente nell’adempimento delle prescrizioni specificamente imposte dall’Autorità di vigilanza all’atto dell’accertamento
della contravvenzione ambientale, accompagnato dal contestuale pagamento di una somma pari a un quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la
contravvenzione (10). Tale moderno istituto – che richiama misure deflattive delle pene tradizionali in materia ambientale già ampiamente sperimentate in altri ordinamenti (11) – contribuirebbe invero ad irrobustire l’efficacia del sistema punitivo contravvenzionale.
Per tali ragioni, se davvero il testo in commento avesse buone chances di
divenire legge, l’orizzonte di una seria riforma del diritto penale ambientale
potrebbe non apparire più così remoto, come invece l’esperienza delle precedenti proposte ci ha abituati a pensare.
2. – Come anticipato, il Disegno di Legge di recente approvato al Senato prevede una riforma davvero radicale del diritto penale ambientale, in
quanto agisce su più fronti:
1) introduzione di un titolo riguardante i delitti ambientali nel codice penale;
2) introduzione di incriminazioni di danno e di pericolo concreto;
3) estensione dell’area applicativa di misure riparatorie e ripristinatorie;
4) modifica del regime di punibilità delle contravvenzioni ambientali.
In questo breve contributo, ci si occuperà esclusivamente di alcuni dei
profili appena segnalati. In particolare, si tralascerà di valutare i cambiamenti prospettati in materia di punibilità delle contravvenzioni e di ripristino dello stato dei luoghi: un’adeguata riflessione sulla ratio e sugli effetti di
questo tipo di misure necessiterebbe infatti di un più ampio inquadramento, nella prospettiva di una considerazione complessiva dell’apparato sanzionatorio del diritto penale ambientale, che estenderebbe troppo oltre i li-
( 10 ) Artt. 318 bis, 318 ter, 318 quater, 318 sexies, 318 septies del Disegno di Legge.
( 11 ) Per una descrizione di soluzioni analoghe presenti in altri ordinamenti giuridici, si
veda Siracusa, Tutela penale dell’ambiente, cit., 479 ss.
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miti del presente saggio. Per tali ragioni, nelle pagine seguenti, l’attenzione
si concentrerà prevalentemente sulle nuove incriminazioni, vale a dire sui
punti 1) e 2) dell’elenco sopra formulato.
La prima significativa novità del testo è certamente costituita dalla proposta di introdurre i delitti ambientali nel codice penale (12). Si tratta di una
soluzione a forte valenza simbolica, come ogni iniziativa di riforma che incida direttamente sul catalogo dei beni protetti dalle disposizioni codicistiche, cui si possono però collegare taluni indiscutibili vantaggi.
La collocazione dei più gravi reati ambientali nel codice penale certificherebbe in effetti il particolare rilievo assegnato al bene giuridico dell’ambiente; e da essa conseguirebbe una maggiore stigmatizzazione dei comportamenti puniti e, dunque, in ultima analisi, un complessivo rafforzamento
della funzione generalpreventiva degli illeciti penali in questione (13).
D’altro canto, tale prospettiva avrebbe anche l’indubbio pregio di poter
innescare alcuni positivi mutamenti. Essa potrebbe indurre a concentrare
l’incriminazione delle condotte più gravi in un numero contenuto di disposizioni, le quali verrebbero a loro volta formulate in maniera più chiara e
più sintetica, rispetto a quanto accada nell’ambito della stratificata e non
sempre coerente legislazione complementare. Così come, sarebbero necessariamente meno farraginosi e i rinvii alla disciplina amministrativa di settore (14).
Sicché, nonostante la scelta della collocazione topografica dei nuovi
reati non vada caricata di eccessivi significati (15), considerato che i principi
di garanzia e i paradigmi di razionalità alla base di ogni riforma del diritto
penale ambiente valgono qualunque sia il luogo di destinazione delle singo-
( 12 ) Per altro non nuova, nel panorama delle iniziative di riforma succedutesi nel tempo e
sinora sempre naufragate. Per più precisi riferimenti, ancora una volta rinvio al mio Tutela
penale dell’ambiente, cit., 431 ss.
( 13 ) Sono questi gli argomenti in genere proposti a favore della scelta di introdurre i reati
ambientali nel codice penale, Fiorella, Ambiente e diritto penale, in Zanghì (cur.), Protection of the Environment and Penal Law, Bari, 1993, 677; Catenacci, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a contenuto contravvenzionale, Padova, 1996,
255 ss.
( 14 ) Per quanto l’impiego di formule sintetiche di rinvio alla disciplina extrapenale di settore come «abusivamente», «illegittimamente» etc. creerebbe ulteriori problemi sotto il profilo della determinatezza delle fattispecie.
( 15 ) Come evidenziato più in generale, con riguardo alle prospettive di una riforma complessiva della parte speciale del diritto penale da coloro che invitano a non enfatizzare oltre
misura la questione della centralità del codice penale; tra questi, Donini, La riforma della legislazione penale complementare: il suo significato «costituente» per la riforma del codice penale, in Id. (cur.), La riforma della legislazione penale complementare, Padova, 2000, 56 ss.;
Fiandaca, In tema di rapporti tra codice e legislazione penale complementare, in Dir. pen.
proc., 2001, 137.
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le incriminazioni (16), nondimeno, l’inserimento dei delitti ambientali tra i
reati puniti dal codice penale sarebbe comunque un positivo passo in avanti; se non altro, per lo meno, perché in tal modo verrebbe ad avvalorarsi
l’idea dell’assoluta centralità assunta dal bene ambiente, nel quadro del nucleo forte dei valori oggetto di tutela penale.
3. – Come anticipato, il nuovo Disegno di Legge ha senza dubbio il pregio di prevedere l’inserimento nell’ordinamento penale di fattispecie incriminatrici che puniscono la violazione della normativa extrapenale sull’ambiente, accompagnata dalla verificazione di una effettiva situazione di danno o di pericolo concreto per il bene protetto.
I nuovi delitti ambientali di evento costituirebbero un completamento
del sistema vigente di tutela penale dell’ambiente, poiché accosterebbero
agli attuali illeciti di pericolo astratto incriminazioni che sanzionano forme
più avanzate di offesa. Così, da un lato, si colmerebbe un’evidente lacuna
del nostro ordinamento, il quale è attualmente privo di modelli di illecito di
questo tipo (17); dall’altro lato, lo si uniformerebbe agli standards di protezione indicati dalla Direttiva 2008/99/ce, e propri della gran parte degli ordinamenti europei (18).
( 16 ) Tale regola riguarda ovviamente ogni ambito del diritto penale e del diritto penale
c.d. «complementare»; come ci ricordano, tra gli altri, Palazzo, Relazione di sintesi, in Papa
(cur.), La riforma della parte speciale del diritto penale, Torino, 2005, 238 e Paliero, Riforma
penale in Italia e dinamica delle fonti. Una paradigmatica, nel medesimo volume, 119 ss.
( 17 ) In effetti, una delle principali accuse rivolte all’impianto della disciplina penale a
protezione dell’ambiente concerne proprio il profilo della scarsa offensività delle condotte
punite, da cui discenderebbe la predominante natura bagatellare degli illeciti. Sul tema la letteratura è vastissima. Si leggano, tra gli altri, Bajno, Ambiente (tutela dell’), in Dig. disc. pen.,
vol. I, Torino, 1987, 115; Id., Problemi attuali del dritto penale ambientale, in questa Rivista,
1988, 450; Bertolini, Ambiente (tutela dell’): nel diritto penale, in Enc. giur. trecc., vol. I, Roma, 1988, 3-6; Vergine, Ambiente, nel diritto penale (tutela dell’), in Dig. disc. pen., Appendice, vol. IX, Torino, 1995, 756 s.; Laganà, Tutela dell’ambiente e principio di offensività, in
Giust. pen., 1999, 223; Patrono, Inquinamento industriale e tutela penale dell’ambiente, Padova, 1980, 40 ss.; 114 ss., Id., Inquinamento idrico da insediamenti produttivi e tutela penale
dell’ambiente, in questa Rivista, 1989, 1019 ss.; Id., I reati in materia di ambiente, in questa
Rivista, 2000, 669 s.; Id., La disciplina penale dell’inquinamento idrico e atmosferico dopo il
c.d. Testo Unico Ambientale: profili problematici vecchi e nuovi, in questa Rivista, 2008, 704705; 719-720. Plantamura, Diritto penale e tutela dell’ambiente, Bari, 2007, 193 s.; Siracusa, Tutela penale dell’ambiente. Bene giuridico e tecniche di incriminazione, cit., 163 ss.; 501 s.;
Bernasconi, Il reato ambientale, cit., 119 s.; Lo Monte, Uno sguardo sullo Schema di Legge
Delega per la riforma dei reati in materia di ambiente: nuovi «orchestrali» per vecchi «spartiti»,
in questa Rivista, 2008, 56.
( 18 ) Il riferimento è all’ordinamento tedesco, spagnolo, portoghese, sloveno, olandese,
croato.
In particolare, mentre in alcuni Paesi è largo l’impiego di fattispecie di pericolo astratto
che incriminano la semplice inosservanza delle prescrizioni amministrative; in altri Paesi in-
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Più specificamente, il testo della riforma prevede un delitto di «Inquinamento ambientale» (art. 452 bis) che punisce condotte concretamente lesive dell’ambiente, purché realizzate in violazione della regolamentazione
extrapenale di settore. Si tratta dunque di un delitto di evento connotato
dal duplice requisito strutturale della illiceità e della offensività concreta del
comportamento.
3.1. – Quanto al requisito dell’illeceità della condotta, esso è sinteticamente espresso con una clausola di abusività. Occorre che i fatti cagionanti
l’offesa siano stati realizzati abusivamente.
L’utilizzo della clausola rappresenta una modifica rispetto al testo approvato alla Camera, il quale faceva invece riferimento alla «violazione di
disposizioni legislative e regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisse di per sé illecito amministrativo o penale».
La nuova formulazione consente di estendere l’incriminazione anche a
condotte il cui carattere di abusività consista nell’inosservanza non soltanto
della normativa legislativa o regolamentare a tutela dell’ambiente, ma anche di disposizioni o provvedimenti finalizzati alla tutela di interessi diversi
dall’interesse ambientale. Tale impianto risulta perfettamente coerente con
le caratteristiche della gestione amministrativa dell’ambiente, che è talvolta
strettamente intrecciata con la gestione e la salvaguardia di interessi di altra
natura. La dizione impiegata copre infatti anche i fatti realizzati in violazione di prescrizioni imposte a protezione di beni differenti (per es. il paesaggio, o la salute etc.), quando però cagionino un danno all’ambiente.
La soluzione sembra ragionevole, considerato che l’allargamento dell’ambito applicativo della norma da essa scaturente è in concreto controbilanciato dalla previsione di un evento offensivo, che circoscrive la rilevanza
penale esclusivamente ai fatti abusivi produttivi di un lesione all’ambiente.
Del resto, per fortuna non sussiste neanche il rischio che tale ampliamento del connotato di illiceità extrapenale valga anche per le incriminazioni che puniscono le semplici violazioni di prescrizioni amministrative,
non seguite dalla realizzazione di un accadimento concreto. Il carattere di
abusività riguarda invero esclusivamente i nuovi delitti di danno o di pericolo concreto, e non altresì le norme del tipo appena richiamato, le quali
vece, a questa tipologia di fattispecie si affiancano altri illeciti a struttura analoga a quella prevista nel testo in commento, che sanzionano la violazione di disposizioni extrapenali, o di
provvedimenti della Pubblica amministrazione la quale sia anche concretamente produttiva
di danni, o di pericoli per l’ambiente, o per la vita e l’incolumità pubblica.
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non appaiono neanche sfiorate dalla riforma, almeno nell’impianto approvato in via provvisoria.
Nei confronti di queste incriminazioni, un’evidente controindicazione
impedisce l’estensione dell’ambito applicativo anche alla violazione di disposizioni emanate a protezione di interessi diversi dall’ambiente; si tratta
dell’annacquamento della soglia del pericolo che ne deriverebbe, per la difficoltà di individuare la corretta base empirica di riferimento, data l’eterogeneità dei beni da tenere in considerazione e la scarsa consistenza naturalistica di alcuni di essi.
In tale tipologia di reati in effetti, il rinvio al regime amministrativo ha
un duplice rilievo: da un lato, attribuisce al fatto uno specifico connotato di
illeceità extrapenale e dell’altro lato, concorre direttamente alla tipizzazione delle offese ambientali, delimitando la soglia del pericolo. Per tale motivo dunque, esso non può che riguardare soltanto regole disposte a tutela
dell’ambiente.
Con riguardo invece al modo di intenderne il significato dell’illiceità in
oggetto nella struttura del fatto tipico, non vi è dubbio che tale clausola vada annoverata tra le autentiche clausole di illiceità speciale, le quali – come
è noto – servono ad attribuire al fatto un ulteriore profilo di illiceità, di carattere extrapenale, oltre all’illiceità penale che di per sé lo connota (19).
Si tratta dunque non di un elemento normativo che ha la funzione di
designare un presupposto della condotta; come sarebbe invece, ove esso
semplicemente rimandasse all’assenza di un provvedimento abilitativo;
bensì di un enunciato linguistico necessario a colorare il fatto di reato di
un’ulteriore qualifica di illiceità, consistente per l’appunto nel contrasto
con la normativa extrapenale di settore (20).
Tale lettura è confermata in primo luogo dal fatto che l’avverbio «abusivamente» ha sostituito un’altra più ampia formulazione, che faceva invero
espresso riferimento a profili di illiceità speciale del fatto punito; sicché, ragioni di coerenza logica inducono a pensare che si sia trattato soltanto del
passaggio da una dizione ad una nuova, di tipo più sintetico, senza che ne
sia mutata la funzione nella struttura del fatto tipico.
In secondo luogo, se, come pensiamo, la riforma ha lo scopo di comple-
( 19 ) Sulla clausole di illiceità speciale, per tutti, Pulitanò, Illiceità espressa e illiceità speciale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, 65 ss.
( 20 ) Sulla distinzione tra le autentiche clausole di illiceità speciale – che designano un requisito di illiceità extrapenale del fatto –, e le clausole di illiceità speciale per così dire «spurie» – che invece hanno la funzione di indicare un presupposto del fatto di reato, o di richiamare l’assenza di scriminanti, o ancora di ribadire l’illiceità penale generale del fatto si legga il
contributo illuminante di Pulitanò, op. ult. cit., 76 ss.
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tare il sistema di tutela penale dell’ambiente con l’incriminazione di tutte le
possibili gamme di offesa al bene, nel quadro della progressione criminosa
dal pericolo astratto a eventi di danno o di pericolo concreto, evidentemente il requisito in oggetto ha la funzione di restringere il campo delle incriminazioni ai comportamenti cagionativi di lesioni concrete all’ambiente che
costituiscano il naturale sviluppo del pericolo creato dall’inosservanza delle
cautele prescritte in sede amministrativa e sanzionate in maniera autonoma
da altre norme incriminatrici.
L’illiceità speciale in altri termini servirebbe a delimitare con maggiore
precisione i contorni delle condotte punite, evitando il ricorso al modello di
reato a forma libera, che tante difficoltà creerebbe, ove impiegato nel settore della tutela ambientale (21).
Rispetto al testo esitato alla Camera inoltre, è scomparso il riferimento
alla necessità che le inosservanze della disciplina extrapenale integrino di
per sé, a loro volta, illeciti di carattere amministrativo o di carattere penale.
Anche in tal caso la modifica appariva opportuna, per ragioni di ordine sistematico e per motivi di coerenza logica.
Una clausola di illiceità speciale congegnata nel modo della versione
precedente del Disegno di Legge rischiava infatti di creare enormi problemi sotto il profilo della disciplina del concorso di reati o del concorso di
norme, nonché del concorso tra illecito penale e illecito amministrativo,
con i connessi rischi di violazione del ne bis in idem sostanziale (22).
Quanto alla coerenza logica, è indubbio che il suddetto richiamo sarebbe risultato ridondante, a fronte di una clausola che implicitamente rinvia a
profili di illiceità extrapenale della condotta punita.
Orbene, benché risultino piuttosto chiari vuoi il ruolo tipizzante, vuoi il
contenuto della clausola in commento, a prima vista, il suo impiego potrebbe tuttavia generare altri possibili inconvenienti, del tipo di quelli che la
dottrina penalistica è solita ascrivere in generale all’impiego della tecnica
del rinvio nella costruzione del fatto tipico.
Tra questi, si annovera in primo luogo, il rischio di un eccessivo accrescimento del margine di indeterminatezza delle norme penali, con conseguente difficoltà per l’interprete nella ricognizione delle disposizioni extra-
( 21 ) Come ampiamente ricordato dalla dottrina che si è occupata del tema: per tutti, Siracusa, La tutela penale dell’ambiente, cit., 167 ss.; 473 ss.; Bernasconi, Il reato ambientale,
cit., 244 e 245.
( 22 ) Come giustamente segnalato da Ruga Riva, Commento al testo base sui delitti ambientali adottato dalla Commissione Giustizia della Camera, in www.penalecomtemporaneo.it,
3, che prospettava l’ipotesi di considerare il delitto un reato complesso, che assorbiva il meno
grave illecito penale o amministrativo.
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penali richiamate e concorrenti a definire il contenuto del precetto penale,
spesso sparse in una pluralità di testi normativi.
In secondo luogo, la tecnica di normazione in oggetto sarebbe difficilmente conciliabile con il principio di riserva di legge in materia penale, tenuto conto che da essa potrebbe derivare l’attribuzione del compito di definire il nucleo precettivo delle fattispecie incriminatrici a fonti normative diverse dalla legge statale (23).
Inoltre, i profili di illegittimità addirittura si amplierebbero, quando il
richiamo a discipline extrapenali includesse disposizioni del diritto europeo. In tal caso infatti, l’elasticità della clausola «abusivamente» si accrescerebbe a dismisura, inglobando le prescrizioni normative europee direttamente applicabili, di futura adozione (24).
Nel complesso tuttavia, si tratta di aspetti problematici largamente marginali.
Il rischio di un deficit di determinatezza provocato dal requisito in esame risulta infatti quasi del tutto inesistente, considerato che la clausola di illiceità costituisce soltanto un elemento normativo di un fatto tipico dai ben
( 23 ) Su tali temi, in generale, Palazzo, Tecnica legislativa e formulazione della fattispecie
penale in una recente circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in Cass. pen., 1987,
244 s.; Id., Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999, 253; Parodi Giusino,
Nodi problematici in tema di fonti del diritto penale, in Ind. pen., 2002, 441.
( 24 ) Come è noto, con riguardo al rinvio al diritto europeo da parte di norme penali incriminatrici, generalmente si afferma che il rinvio «recettizio» circoscriverebbe il requisito di illiceità del fatto tipico alle sole disposizioni espressamente elencate nella norma, cristallizzando
nel tempo il contenuto precettivo della stessa (Nella dottrina penalistica, sulla distinzione tra
le due forme di rinvio si legga, Viciconte, Nuovi orientamenti della Corte Costituzionale sulla vecchia questione delle norme «in bianco», in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 998; Petrone, La
costruzione della fattispecie penale mediante rinvio, in Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti
degli allievi, Torino, 2004, 192 s.). La fissità del richiamo è uno degli aspetti che renderebbe
tale forma di rinvio preferibile al rinvio c.d. «mobile», Bernardi, Diritto comunitario e diritto penale agro-alimentare, in Aspetti penali del diritto agro-ambientale ed agro-alimentare (Atti
del convegno «A. Carrozza», Firenze, 21.11.1997), Milano, 1997, 102 s.
Il rinvio «formale» determina invece un’estensione automatica dell’ambito applicativo
delle fattispecie penali alle successive modifiche degli atti normativi richiamati, con conseguente variabilità dei confini del precetto penale al mutare delle norme extrapenali che si susseguono nel tempo. Esso ha il vantaggio di impedire una riformulazione della normativa comunitaria da parte della disposizione penale nazionale; riformulazione che sarebbe vietata
qualora avesse ad oggetto norme contenute in regolamenti o in direttive self executing (sul tema, Pedrazzi, Droit communautaire et droit pénal des Etats membres, in Droit communautaire et droit pénal, Milano, 1981, 51 ss.; Bernasconi, L’influenza del diritto comunitario, in
Ind. pen., 1996, 455 s.; Riondato, Profili di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, in
questa Rivista, 1997, 1166 s.; Bernardi, I tre volti del diritto penale comunitario, in Picotti
(cur.), Possibilità e limiti di un diritto penale europeo, Milano, 1999, 65.)
Per una descrizione dei pregi e dei difetti delle due tecniche, con riguardo ai rapporti tra
diritto penale ambientale interno e diritto europeo, Bernasconi, Il reato ambientale, Pisa,
2008, 108 ss.
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più ampi contorni (come si vedrà, la vaghezza, ove rinvenibile, riguarderebbe semmai altri elementi della fattispecie).
Per di più, sul versante della violazione della riserva di legge, è evidente
come la clausola di abusività rappresenti l’elemento normativo di un fatto
tipico largamente descritto nei propri elementi costitutivi (bene giuridico
tutelato, tipo di comportamento punito, requisiti soggettivi del etc.) dalla
stessa norma incriminatrice.
Non sembra pertanto prospettarsi alcun vulnus del principio di legalità
in materia penale.
3.2. – Per quanto concerne il profilo dell’offesa, il delitto in commento
prevede l’incriminazione di condotte cha abbiano cagionato un una «compromissione» o un «deterioramento significativi e misurabili» di:
1) acque aria o di porzioni estese e significative del suolo o del sottosuolo;
2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della
fauna.
Anche in tal caso, come per il requisito dell’illiceità speciale, il testo approvato in Senato è parzialmente differente da quello esitato alla Camera,
ove invece l’evento lesivo veniva descritto in termini di «compromissione o
deterioramento rilevante». Diversa era anche la tipizzazione del corpo recettore, prima individuato nello «stato» delle acque, dell’aria, del suolo, e
del sottosuolo, e nell’ecosistema (oggi, il riferimento è ad un ecosistema).
Le modifiche apportate hanno certamente migliorato la norma.
Nella versione precedente in effetti, l’evento offensivo veniva delineato
in termini eccessivamente vaghi, in quanto risultava indefinita sia la nozione di compromissione, sia il significato dell’espressione deterioramento rilevante.
In dottrina, si era pertanto suggerito di ricostruire tali concetti in negativo, a partire dalla definizione di disastro ambientale fornita dall’art. 452
ter, che identificava il disastro come «alterazione irreversibile dell’ecosistema», o «alterazione la cui eliminazione risultasse particolarmente onerosa e
conseguibile soltanto con provvedimenti eccezionali». Per converso, ogni alterazione che fosse reversibile, o eliminabile tramite operazioni non troppo
complesse e non troppo costose costituiva l’evento del meno grave delitto
di inquinamento ambientale (25).
La soluzione interpretativa – come del resto ammette chi ne è l’artefi-
( 25 ) C. Ruga Riva, Commento al testo base sui delitti ambientali adottato dalla Commissione Giustizia della Camera, cit., 4.
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ce (26) – avrebbe ridotto i margini di indeterminatezza delle nozioni impiegate, senza tuttavia cancellare l’ineludibile cifra di vaghezza che caratterizza
ogni metodo di tipizzazione del danno all’ambiente.
Sul punto, le novità introdotte dal testo approvato in Senato senza dubbio riducono l’anzidetto margine di indeterminatezza.
In primo luogo, sebbene non venga ancora fornita una definizione di
compromissione e di deterioramento, tuttavia, l’aver qualificato tali accadimenti in termini di significatività e di misurabilità serve a connotarne in
modo più preciso il contenuto.
In specie, mentre la sostituzione dell’aggettivo rilevante con l’aggettivo
significativo non comporta alcuna apprezzabile variazione nelle sembianze
qualitative dell’evento, il richiamo alla misurabilità dell’alterazione risulta
cruciale, in quanto circoscrive l’offesa alle lesioni che siano concretamente
accertabili, alla stregua del livello di contaminazione del corpo recettore di
riferimento.
La misurabilità del deterioramento obbliga infatti ad eseguire una comparazione a posteriori tra lo stato dell’ambiente, così come era in quel particolare contesto empirico di azione, prima che essa producesse i suoi effetti,
e lo stato di qualità dell’ambiente così come risulta, dopo aver subito l’intervento di quell’azione. In tal modo, la norma nel descrivere l’evento al
contempo indica un metodo da seguire per il suo accertamento.
Si tratta di una accorgimento prezioso. Esso consente di adeguare e di
graduare la rilevazione del danno in base alle caratteristiche del contesto
empirico di partenza che possono essere ovviamente profondamente differenti da zona a zona, a seconda dell’area di influenza del comportamento
umano e del preesistente livello di inquinamento del corpo recettore.
In più, oltre a permettere una concreta delimitazione e contestualizzazione dell’incidenza della condotta sullo status dell’ambiente, il richiamo al
requisito della misurabilità della compromissione implica anche l’adesione
ad una concezione di ambiente di tipo «ecocentrico-moderato», in cui questo rileva come bene materialmente consumabile, composto da una pluralità di corpi recettori, a loro volta identificabili sul piano naturalistico. E ciò
certamente agevola nella determinazione dell’accadimento lesivo, il quale
deve così individuarsi in rapporto alla porzione del bene interessata, vale a
dire alla singola componente materiale dell’ambiente investita dall’azione e
concretamente lesa (27).
( 26 ) C. Ruga Riva, op. ult. cit., 4.
( 27 ) Sui pregi di una nozione «ecocentrico-moderata» del bene ambiente, sia ancora una
volta consentito rinviare al mio Tutela penale dell’ambiente, cit.
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Infine, il concetto di misurazione della compromissione o del deterioramento ha anche l’indubbio pregio di chiamare in causa nell’accertamento
dell’evento l’utilizzo dei limiti soglia, ancorché questi non siamo espressamente menzionati dalla norma. Tali valori rappresentano in effetti uno dei
più importanti parametri di valutazione a disposizione del giudice per la stima del livello di contaminazione presente e futuro di un ecosistema, in
quanto fissano una soglia di tolleranza che dovrebbe variare al variare del
contesto empirico di riferimento, ossia in base alle diverse peculiarità di
quel contesto.
L’impiego di tali indici di lesività diviene poi irrinunciabile laddove non
siano state eseguite rilevazioni recenti sullo stato di salute del corpo recettore interessato. In questi casi invero, non potendo disporre di una valida misura di riferimento per la determinazione del livello di inquinamento prodotto, l’interprete non potrebbe far altro che servirsi dei suddetti valori tabellari per identificare la soglia oltre la quale l’accadimento lesivo può ritenersi significativo e pertanto penalmente rilevante.
Inoltre, per descrivere con maggiore precisione le caratteristiche dell’evento lesivo, nella nuova formulazione, con riguardo all’alterazione del
suolo e del sottosuolo, l’art. 452 bis precisa che essa rileva soltanto ove coinvolga porzioni estese o significative del corpo recettore. Anche tale precisazione come gli altri profili or ora segnalati, opportunamente restringe l’ambito dell’incriminazione ad accadimenti lesivi di particolare gravità.
Va altresì accolta con favore la soppressione del riferimento allo «stato»
(di qualità) dell’aria dell’acqua del suolo e del sottosuolo che nella precedente versione rendeva particolarmente ambigua la nozione di ambiente,
giacché rimaneva incerto se occorresse riferirla alle componenti materiali
del bene, o anche all’uso che può farne l’uomo (28). Una volta eliminato tale
elemento, la scelta del legislatore di far propria una concezione ecocentrica
di ambiente, già ricavabile da altri elementi della norma, risulta ulteriormente confermata.
La medesima funzione di demarcazione della dimensione offensiva dell’evento si rintraccia infine nell’indirizzarsi dello stesso non ai danni dell’ecosistema nel suo complesso, ma di un ecosistema ben determinabile; il
che – ancora una volta – contribuisce a rendere meno macroscopico l’accadimento da accertare; in tal modo rapportabile non più all’intero ecosistema la cui dimensione è per definizione universale, ma ad un singolo microecosistema, afferente allo spazio di intervento della condotta punita.
In conclusione, come anticipato, certamente permane la lacuna della
( 28 ) Come segnalato da Ruga Riva, op. ult. cit., 4.
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mancata definizione di compromissione o di deterioramento. Si tratta tuttavia di un’omissione non troppo grave, sia perché i requisiti dell’evento appena enucleati riducono considerevolmente il livello di indeterminatezza di
entrambe le nozioni (nonostante anch’essi risultino, a loro volta, non sempre precisamente determinati o determinabili), sia perché rimane valida
l’opzione di individuare per relationem i requisiti dell’evento, ricavandola a
contrario dalla definizione di disastro ambientale di cui all’art. 452 ter.
4. – Come si è già segnalato all’inizio di questo contributo, la stretta
contiguità temporale tra l’approvazione in Sentato del Disegno di legge in
commento e il deposito delle motivazioni della sentenza «Eternit» svela le
ragioni politico-criminali alla base dello sblocco dell’iter di adozione del testo, che era giacente da circa un anno in Parlamento.
La profonda delusione dell’opinione pubblica e l’indignazione delle vittime suscitate dal proscioglimento dei dirigenti degli stabilimenti incriminati hanno senza dubbio contribuito ad imprimere una forte accelerazione
verso l’attuazione di una riforma dei reati ambientali che prevedesse l’introduzione della fattispecie di disastro ambientale; dalla cui assenza è sembrata invero dipendere la sopraggiunta impunità degli imputati, per lo meno,
nella percezione dei fatti trasmessa all’esterno dai mass media.
Nonostante le semplificazioni compiute dalla vulgata giornalistica, nella
vicenda «Eternit» si sono però intrecciati molteplici profili problematici,
che hanno investito vari ambiti del diritto penale – dall’elemento soggettivo
del reato alla determinazione del nesso causale; sicché, liquidare la storia
dell’intero processo come conseguenza della mancata tipizzazione in sede
normativa del reato di disastro ambientale sarebbe un’operazione impropria
ed anche ingiusta, considerato che tale profilo, per quanto significativo, non
è tuttavia esaustivo della complessità delle questioni implicate dal caso (29).
Contrariamente a quanto a prima vista si potrebbe credere infatti, il tema principale da cui ha preso avvio la vicenda «Eternit» è stato non tanto
l’incriminazione di gravi offese all’ambiente, quanto la probatio diabolica
del rapporto causale concernente le morti cagionate dall’inalazione di pol-
( 29 ) Per un commento dei diversi profili tematici della vicenda, anche con riguardo alle
decisioni pronunciate nei vari gradi di giudizio, Paoli, Esposizione ad amianto e disastro il paradigma di responsabilità adottato nella sentenza eternit (Nota a App. Torino, 2.9.2013) in
Cass. pen., 2014, 1802 ss.; Zirulia, Processo Eternit: a che punto siamo?, in www.penalecontemporaneo.it; ivi, Id., Sentenza Eternit: qualche osservazione «a caldo» sul dispositivo (Trib.
Torino, 13.2.2012, Pres. Casalbore, imp. Schmidheiny e altro); Id., Processo Eternit: il dispositivo della sentenza d’appello, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; Id., Caso Eternit: luci e
ombre nella sentenza di condanna in primo grado, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 471 ss.; Masera, La sentenza Eternit: una sintesi delle motivazioni, in www.penalecontemporaneo.it.
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veri di amianto. La questione della protezione penale dell’ambiente si è stagliata soltanto sullo sfondo del procedimento penale, instaurato prima di
tutto allo scopo di punire condotte gravemente lesive della salute delle persone.
In questo processo invero, le singole offese ai beni coinvolti nell’azione
distruttiva sono state proiettate verso un orizzonte più ampio ed interpretate come elementi di una macroscopica situazione lesiva che ha messo in pericolo l’ambiente, la salute pubblica e l’incolumità dei cittadini. Sicché, i
devastanti effetti inquinanti cagionati dalla dispersione su vasta scala di polveri di amianto sono venuti in rilievo come eventi catastrofici, strettamente
correlati al pericolo per la vita e l’incolumità di un numero indeterminato di
persone.
Tale impianto ha preso a sua volta avvio dalla decisione della Procura di
abbandonare l’impervia e più tradizionale strada del reato colposo di evento – per l’incriminazione dell’esposizione letale alle polveri di amianto – e
di percorrere la via più agevole del delitto doloso di pericolo, architettando
così, nell’ambito delle morti cagionate dall’assorbimento di sostanze nocive, una soluzione particolarmente originale; soprattutto sul versante dell’elemento soggettivo del reato ove venivano di gran lunga oltrepassati i
seppur significativi approdi sino ad allora raggiunti con l’altrettanto nota
vicenda del petrolchimico di Porto Marghera (30).
Rispetto ad analoghi casi del passato infatti, il caso «Eternit» ha innovato non tanto (o non solo) sotto il profilo del ricorso al disastro innominato
aggravato dalla verificazione dell’evento, quanto per la configurazione dell’elemento soggettivo dei reati contestati, in termini di dolo, piuttosto che
di colpa.
Nella valutazione dei giudici, la consapevolezza da parte degli imputati
della pericolosità degli agenti chimici trattati in fabbrica e la scelta di persistere nella mancata assunzione delle precauzioni necessarie a preservare la
salute hanno pertanto integrato rispettivamente, l’una, il coefficiente rappresentativo, l’altra, il nucleo volitivo, del dolo.
( 30 ) Anche in tale vicenda giudiziaria le indagini epidemiologiche attestanti la nocività
delle sostanze impiegate in ambiente di lavoro erano state impiegate come base del giudizio
di pericolo generico cui erano stati esposti non soltanto i lavoratori, ma anche le persone
esterne ai luoghi di lavoro e lo stesso ambiente circostante; si veda Cass. pen., sez. IV,
17.5.2006, n. 4675.
Sulla caso petrolchimico di Porto Marghera, Perini, Rischio tecnologico e responsabilità
penale. Una lettura criminologia del caso Seveso e del caso Marghera, in Rass. it. crim., 2002,
389, nonché, Piergallini, Il paradigma della colpa nell’età del rischio. Prove di resistenza del
tipo, in Riv. it. dir. poc. pen., 2005, 1670; Pulitanò, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico,
in Dir. pen. proc., 2008, 647.
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Tale significativo, quanto azzardato mutamento di paradigma ha costituito uno degli aspetti più significativi della vicenda de quo; accanto all’altrettanto importante tema della contestazione del reato di disastro innominato, che ha preso il posto dell’imputazione dei reati di omicidio colposo
plurimo, normalmente impiegata in giurisprudenza per inquadrare analoghe situazioni di decessi provocati dal contatto con l’amianto.
Così, in estrema sintesi, si può dire che nel quadro di questo nuovo approccio, l’evento dannoso a carico dei singoli è stato sostituito dall’evento
di pericolo per l’incolumità pubblica; e a sua volta quest’ultimo è stato inteso come un accadimento di danno per la popolazione (alias, per gruppi o
classi di individui (31)).
La strategia processuale prescelta, mentre ha per un verso aggirato il
problema dell’accertamento del nesso causale attraverso il ricorso a incriminazioni di pericolo (seppure aggravate dalla effettiva realizzazione dell’accadimento lesivo), ha per altro verso irrobustito la severità della risposta
penale – in apparenza «alleggerita» da quest’ultimo passaggio dal danno al
pericolo – attraverso il transito dalla colpa al dolo (32).
Ma se così stanno le cose, non si comprende quale sia il filo che congiunge l’esito del caso appena descritto al tema della tutela penale dell’ambiente, in generale, e alla proposta di legge da cui si è preso spunto, in particolare.
Per ricomporre il nesso tra i due fatti – la vicenda Eternit e il Disegno di
legge sugli ecoreati – occorre sgombrare il campo dai possibili fraintendimenti cui è esposto il ragionamento sin qui svolto.
( 31 ) Sull’originalità di tale prospettiva, Masera, La malattia professionale e il diritto penale, in www.dirittopenalecontemporaneo; Id., Danni da amianto e diritto penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.
( 32 ) Sulle istanze «retributive» alla base della scelta della più recente giurisprudenza di ricorrere al dolo in luogo della colpa nel settore delle malattie e delle morti professionali, Bartoli, Il dolo eventuale sbarca anche nell’attività di impresa, in Dir. pen. proc., 2012, 704. Sul
tema, si legga anche l’attenta analisi critica di Pulitanò, I confini del dolo. Una riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 22 ss.
In verità, al momento della pronuncia «Eternit» l’irruzione della responsabilità dolosa
nell’ambito delle morti di lavoratori per mancata adozione delle cautele prescritte era già
avvenuta con la sentenza di prima grado relativa al «rogo della Thyssenkrupp», ove per la
prima volta la morte dei lavoratori dovuta ad omissione di cautele antinfortunistiche era stata addebitata al datore di lavoro a titolo di dolo eventuale, piuttosto che di colpa aggravata
dalla previsione dell’evento (Corte d’Assise Torino, 15.4.2011 (dep. 14.11.2011), Pres. Iannibelli, Est. Dezani, imp. Espenhahn e altri, in www.dirittopenalecontemporaneo.it con nota
di Zirulia).
Come è noto, tale vicenda si è di recente conclusa con una sentenza delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione che ha ribaltato l’esito dei precedenti gradi di giudizio, imputando
il fatto a titolo di colpa cosciente, e non più di dolo eventuale (Cass. pen., sez. un., 18.9.2014,
n. 38343).
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L’aver evidenziato le molteplici sfaccettature del processo «Eternit» ha
significato coglierne gli spunti di riflessione offerti con riferimento a vari
istituti del diritto penale in esso implicati (per esempio, in materia di dolo e
di rapporti tra dolo eventuale e colpa con previsione dell’evento), senza però al contempo trascurarne il rilievo avuto con riguardo alla questione dell’incriminazione dei disastri a danno dell’ambiente, che costituisce invece
l’oggetto delle nostre riflessioni in questa sede.
Sotto tale profilo, gli episodi degli stabilimenti «Eternit» risultano
senz’altro emblematici sia delle conseguenze provocate dalla non rinvenibilità nel nostro ordinamento di una norma incriminatrice di condotte produttive di macroeventi lesivi dell’ambiente, sia della contestuale attività di
supplenza in tale ambito svolta dalla giurisprudenza.
Come è noto infatti, va senz’altro ascritto ai giudici (e anche a quelli del
processo Eternit) il merito di aver tentato di colmare il suddetto vuoto normativo mediante un’interpretazione estensiva della fattispecie incriminatrice del disastro innominato (art. 434 c.p.), sino a ricomprendervi anche i casi
di disastro ambientale, in essa non espressamente contemplati (33).
È così accaduto che in sede giurisprudenziale si siano forzati i confini
del reato di disastro innominato, facendo ricadere nella formulazione «altro
disastro» impiegata dalla norma che lo prevede anche i disastri ai danni dell’ambiente. In base a tale impostazione, la tipizzazione in forma libera della
condotta (che è infatti descritta nella disposizione come genericamente idonea a cagionare il crollo di costruzione o altro disastro) e l’indeterminatezza
della nozione di «altro disastro» consentirebbero appunto di ampliare lo
spettro dell’incriminazione pure ai casi di danni all’ambiente di enormi
proporzioni, cagionati da una cattiva gestione del rischio ecologico connesso allo svolgimento di talune attività industriali.
In altri termini, si è sostenuto che il delitto in questione possa ritenersi
integrato non soltanto quando l’evento offensivo consista in un singolo accadimento lesivo della vita o dell’integrità fisica di una pluralità indeterminata di persone, e contrassegnato da ampiezza, diffusività e complessità, ma
persino laddove tale macro evento sia il risultato di più condotte individuali
succedutesi nel tempo, che abbiano cumulativamente comportato una com-
( 33 ) Si tratta di un’opera di supplenza dell’inerzia del legislatore iniziata già negli anni ’70
con il caso «Seveso» (Cass. pen., 23.5.1986, Von Zwehl, in Cass. pen., 1988, 1252 ss.) e proseguita con il caso del Petrolchimico di Porto Marghera, sino alle più recenti vicende del caso
«Ilva» a Taranto e del caso «Eternit».
Per una ricostruzione di tale evoluzione giurisprudenziale, non aggiornata tuttavia alle
più recenti vicende Eternit e Ilva, Gargani, Reati contro la pubblica incolumità, vol. IX, in
Grosso-Padovani-Pagliaro, Trattato di diritto penale, Milano, 2008, 469 ss.
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promissione rilevante ed estesa dello stato dell’ambiente, con conseguente
concreta messa in pericolo della salute e dell’incolumità pubbliche (34).
La dottrina prevalente ha però largamente criticato il suddetto orientamento, evidenziando come esso risulti incoerente rispetto al significato della nozione di altro disastro che deriverebbe da una lettura sistematica della
fattispecie, e che indurrebbe invece a considerare i disastri incriminati dall’art. 434 c.p. alla stessa stregua dei disastri espressamente tipizzati dalle altre norme incriminatrici dello stesso capo (35).
Si tratterebbe cioè di disastri di altro tipo che tuttavia condividono i
medesimi requisiti dei quelli puniti dalle disposizioni precedenti; vale a dire
l’impatto violento e traumatico, e la natura tendenzialmente istantanea con
conseguente messa in pericolo della vita e dell’incolumità pubblica (36).
È dunque opinione consolidata che l’interpretazione creativa della giurisprudenza abbia comportato un’estensione in via analogica della disposizione in commento a situazioni del tutto eterogenee ad essa vuoi per la natura dell’evento lesivo preso in considerazione, vuoi per il bene giuridico leso.
Il disastro ambientale in effetti di regola costituisce il risultato di più
condotte rischiose, in genere consentite dall’ordinamento, che si cumulano
nel tempo sino a produrre danni ecologici anche di ampie dimensioni; e ciò,
senza che necessariamente vi sia alcun impatto violento all’origine della situazione offensiva.
Inoltre, mentre il disastro innominato punisce la messa in pericolo della
vita e dell’incolumità di un numero indeterminato di persone, il disastro
ambientale consiste in una lesione che incide direttamente sul bene ambiente, ancorché in talune situazioni i suoi effetti possano riverberarsi sulla
salute o sull’incolumità pubbliche.
È evidente come la complessità dell’opera di adattamento dell’art. 434
( 34 ) Corbetta, Delitti contro l’incolumità pubblica, Padova, 2003, 630; Giunta, I contorni del «disastro innominato» e l’ombra del princìpio di determinatezza, in Giur. cost., 2008,
3539.
( 35 ) Gargani, Reati contro la pubblica incolumità, cit., 474; Id., La protezione immediata
dell’ambiente tra obblighi comunitari di incriminazione e tutela giudiziaria, in VinciguerraDassano (cur.), Scritti in memoria di Giuliano Marini, 2010, 420 ss.; Paoli, Esposizione ad
amianto e disastro ambientale: il paradigma di responsabilità adottato nella sentenza Eternit, in
Cass. pen., 2014, 1802 ss.; Corbetta, Il disastro «provocato» dall’Ilva di Taranto, tra forzature
giurisprudenziali ed inerzie del legislatore, in Il Corriere del merito, 2012, 869 ss.; Piergallini, Danno da prodotto e responsabilità penale, Milano, 2004, 280; Vergine, Il c.d. disastro ambientale: l’involuzione interpretativa dell’art. 434 cod. pen., in Ambiente@Sviluppo, parte I e
II, 2013, rispettivamente 514 ss., e 644 ss.
( 36 ) Oltre agli Autori appena indicati alla nota precedente, sul tema, di recente anche
Forzati, Irrilevanza penale del disastro ambientale, regime derogatorio dei diritti e legislazione emergenziale: i casi eternit, Ilva ed emergenza rifiuti in Campania. Lo stato d’eccezione oltre
lo stato di diritto, in www.penalecontemporaneo.it.
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c.p. a casi strutturalmente diversi da quelli in esso previsti abbia generato
difficoltà interpretative di non poco conto, al punto da far apparire non più
rinviabile un’iniziativa legislativa indirizzata a colmare la lacuna normativa
da cui tale ardita prassi ha preso avvio (37).
Ad aggravare l’urgenza di un intervento di riforma in questa direzione è
poi intervenuto l’esito fallimentare di alcune vicende giudiziarie; tra le quali
il processo Eternit di cui si è andato discutendo in queste pagine ha assunto
un rilievo paradigmatico.
In tale procedimento infatti, il proscioglimento è essenzialmente dipeso
da una particolare modo di intendere la decorrenza del termine di prescrizione nel reato di disastro innominato aggravato dalla verificazione dell’evento di disastro, prospettata per adeguare la natura tendenzialmente
istantanea del disastro (anche innominato) all’opposta caratteristica di diluizione nel tempo delle condotte di esposizione e dispersione delle polveri
di amianto, propria dei fatti oggetto del giudizio (38).
L’ennesima forzatura esegetica dell’art. 434 c.p. è così caduta come un
enorme macigno sulla vicenda, la cui chiusura infelice ha generato nella collettività una sensazione di ingiustizia talmente profonda da riportare la questione dell’introduzione di una fattispecie incriminatrice ad hoc del disastro
ambientale al centro dell’azione legislativa in campo penale.
Da qui, lo stretto, quasi ovvio, collegamento, non solo temporale, ma al-
( 37 ) Sulla strutturale eterogeneità tra disastro ambientale e disastro innominato si è
espressa anche la Corte Costituzionale con la ormai nota sentenza n. 327 del 2008, ove per
l’appunto si è censurato la prassi giurisprudenziale di estendere l’art. 434 c.p. ai casi di disastri ecologici e si è auspicato un pronto intervento legislativo, in direzione del conio di un’autonoma fattispecie di disastro contro l’ambiente. Si legga in proposito, la nota di Flick, Parere pro-veritate sulla riconducibilità del c.d. disastro ambientale all’art. 434 c.p., in Cass. pen.,
2015, 12 ss.
( 38 ) La Corte di Cassazione ha stabilito che il disastro innominato aggravato dalla verificazione del disastro stesso costituisca una figura circostanziata del reato, il cui termine di prescrizione decorrerebbe dal momento della realizzazione dell’accadimento lesivo, ossia dal
tempo in cui l’evento di disastro ha raggiunto la maggiore gravità. Nel caso di specie, tale momento coinciderebbe con l’ultima immissione di fibre di amianto nell’ambiente circostante le
aree dei quatto stabilimenti, e sarebbe così fissabile non oltre il 1986, data in cui è cessata l’attività degli stabilimenti.
Per una sintesi delle opinioni contrarie che nel caso de quo spostano in avanti la decorrenza del termine di prescrizione, agganciandola non alla chiusura degli stabilimenti, bensì al
momento in cui la perdurante e massiccia dispersione delle fibre ha raggiunto il massimo livello Santamaria, Il diritto non giusto non è diritto, ma il suo contrario. Appunti brevissimi
sulla sentenza di Cassazione sul caso Eternit, in www.penalecontemporaneo.it.; nonché, Zirulia, Eternit, il disastro è prescritto. Le motivazioni della Cassazione, in www.penalecontemporaneo.it.
Un breve commento delle ragioni della decisione si deve anche a Gatta, Il diritto e la giustizia penale davanti al dramma dell’amianto: riflettendo sull’epilogo del caso Eternit, in www.
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tresì di necessità politico criminale, tra la sentenza Eternit e l’adozione in
Senato del Disegno di Legge che prevede per l’appunto la creazione di un
delitto di disastro ecologico.
5. – Come si è appena rammentato, con la prevista introduzione di una
norma incriminatrice del disastro ambientale il legislatore sembrerebbe
avere finalmente colto l’invito a colmare un pesante vuoto normativo dell’ordinamento. Permane, è ovvio, il timore che anche questa volta, come in
passato, la riforma non giunga a compimento, dato che per lungo tempo gli
organi legislativi sono rimasti sordi ai richiami della dottrina e della giurisprudenza costituzionale in proposito.
Ed in effetti è stato necessario attendere gli eclatanti proscioglimenti
del caso Eternit e le discusse vicende dell’Ilva di Taranto perché venisse seriamente affrontata la questione dell’irrobustimento della risposta penale
agli inquinamenti.
Pur con una certa cautela però, si può affermare che nel complesso le
condizioni attuali appaiono diverse e più propizie per un esito positivo, rispetto a quelle che hanno fatto da cornice ai precedenti tentativi di riforma.
Tale ultimo intervento legislativo si inserisce infatti in un contesto di sostanziale stabilità politica e di particolare attenzione dell’opinione pubblica
nei riguardi della questione oggetto della nuova disciplina.
Ciò detto, non resta che considerare il contenuto della novella fattispecie incriminatrice di disastro ambientale.
Come detto, siffatta disposizione costituisce il frutto di una considerevole «pressione» mediatica esercitata nei confronti del legislatore, da cui però non sembrerebbe essere scaturito uno scadimento della tecnica di tipizzazione della fattispecie; contrariamente a quanto in genere accade in situazioni analoghe, ove per effetto delle incalzanti istanze di tutela che ne stanno
alla base, la foga riformatrice finisce spesso con il travolgere la razionalità.
Sicché, complessivamente la nuova disposizione appare ben strutturata.
In primo luogo, essa si apre con una clausola di sussidiarietà che ne prevede l’applicazione «fuori dai casi previsti dall’art. 434 c.p.». Si tratta di un
accorgimento essenziale, una volta che si è scelto di inserire tra gli eventi del
disastro ambientale anche l’offesa alla pubblica incolumità (art. 452 quater
n. 3).
Senza la suddetta clausola di riserva infatti, la particolare natura del bene leso in quest’ultima ipotesi rischierebbe di complicare la distinzione tra
l’ambito applicativo della norma in commento ed il disastro innominato,
che tutela appunto un’analoga offesa al medesimo bene dell’incolumità
pubblica.
Sul versante del comportamento punito poi, la norma sostituisce alla
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condotta a forma libera del disastro innominato, una condotta a forma vincolata che si connota per lo specifico requisito dell’abusività, introdotto –
come per il delitto di inquinamento – in sostituzione della precedente formulazione: «violazione di disposizioni legislative regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale».
Nei riguardi di tale profilo vale pertanto quanto già affermato in proposito relativamente all’art. 452 bis.
Si tratta cioè di una clausola di illiceità pur sempre delimitativa dell’area
dell’incriminazione, benché riferibile non soltanto alla violazione delle prescrizioni normative o regolamentari, o a provvedimenti amministrativi, ma
anche all’inosservanza di cautele precauzionali di qualunque natura, pure
appartenenti al c.d. «soft law», o all’esperienza comune; e dirette ad evitare
offese vuoi all’ambiente, vuoi a beni giuridici di altra natura.
L’impiego della predetta locuzione seve ad evitare il rischio – già segnalato con riferimento alla precedente versione del testo (39) – che la norma lasci scoperti i casi di disastro ambientale provocato da condotte che non abbiano violato specifiche prescrizioni a tutela dell’ambiente (es. mancato superamento dei limiti tabellari), vuoi perché non ancora emanate al momento della realizzazione della condotta, vuoi perché semplicemente contenute
in codici deontologici di comportamento non vincolanti.
Quanto all’estensione della clausola di abusività anche a regole o cautele indirizzate a protezione di beni diversi dall’ambiente – oltre alle osservazioni svolte retro circa l’assenza del rischio di un’eccessiva dilatazione dell’ambito dell’incriminazione, opportunamente controbilanciata dalla tipizzazione dell’evento macroscopico del reato –, va in più evidenziato come
ciò serva a rendere punibili fatti analoghi a quelli del caso Eternit, in cui le
uniche violazioni di prescrizioni extrapenali commesse riguardino l’omissione di cautele destinate a preservare interessi di altra natura, come le cautele antinfortunistiche.
5.1. – L’art. 452 quater punisce il fatto di cagionare un «disastro» ambientale ossia un evento lesivo di significativa portata che può investire anche beni diversi dal bene ambiente.
L’evento del reato è dunque di due specie:
a) può riguardare l’ambiente;
b) può offendere la pubblica incolumità.
( 39 ) Ruga Riva, Commento al testo base sui delitti ambientali adottato dalla Commissione
Giustizia della Camera, cit., 5 e 6.
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– Quanto all’evento sub a), esso consiste: nell’alterazione irreversibile
dell’equilibrio di un ecosistema; o in alternativa, nell’alterazione di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile
soltanto con provvedimenti eccezionali.
Il primo tipo di danno ambientale si concretizza in una compromissione più grave di quella significativa e misurabile di cui al reato di inquinamento ambientale, in quanto contrassegnata dall’irreversibilità.
Il secondo tipo di compromissione invece è caratterizzata non tanto
dall’irreversibilità della lesione, quanto dall’impossibilità di eliminarla, data
la complessità tecnica delle operazioni di ripristino; o la loro inesigibilità,
sotto il profilo economico.
In entrambe le ipotesi, come per il delitto di inquinamento, il legislatore
circoscrive l’incidenza dell’evento ad un ecosistema, e non la estende all’ecosistema nel suo complesso, riducendo così considerevolmente i rischi
di una probatio diabolica dell’accadimento del reato, cui si andrebbe incontro ove viceversa il danno fosse rapportato ad un macro-ecosistema. Non vi
è dubbio infatti che la compromissione di un singolo micro-ecosistema sia
tendenzialmente sempre prevedibile e misurabile; e dunque anche più agevolmente accertabile ex post (40).
Con riferimento al disastro «reversibile», la versione del testo esitata dal
Senato ha accolto i suggerimenti espressi in dottrina all’indomani dell’approvazione del Disegno di Legge in Commissione giustizia circa l’esigenza di stabilire un coordinamento tra la nuova incriminazione e la disposizione del Testo Unico sull’ambiente, che estende la causa di non punibilità per intervenuta bonifica dei siti inquinati a reati ambientali contemplati in leggi diverse dallo stesso Testo Unico (art. 257, comma 4 d. lgs. n. 152/
2006) (41).
A tal proposito, si era invero evidenziato come la suddetta clausola di
non punibilità rischiasse di paralizzare l’applicazione della nuova incriminazione di disastro ambientale reversibile, considerata l’interferenza tra i
fatti puniti e la misura premiale.
Sennonché, come detto, in totale adesione a quanto prospettato sul
punto dalla dottrina appena richiamata, il nuovo art. 452 quaterdieces prevede che il citato comma 4 dell’art. 257 TUAMB venga modificato, nel senso di restringere la portata della condizione di non punibilità ai soli casi di
adempimento dei progetti di ripristino concernenti contravvenzioni am-
( 40 ) Sui vantaggi di tale soluzione, si rinvia a quanto detto retro a proposito del reato di
inquinamento ambientale.
( 41 ) Ruga Riva, op. ult. cit., 6.
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bientali previste in altre leggi. I delitti di nuovo conio ne verrebbero di conseguenza esclusi; ed il pericolo di una sovrapposizione delle due disposizioni di opposto contenuto sarebbe in tal modo scongiurata (42).
– Con riferimento al tipo di evento sub b) (offesa alla pubblica incolumità), si tratta di un evento di pericolo che deve discendere da un fatto offensivo rilevante o per l’estensione della compromissione all’ambiente, o
per la diffusività degli effetti lesivi; o infine, per il numero delle persone offese o poste in pericolo.
La ratio della previsione è – come è ovvio – di assicurare un’adeguata
copertura penale per i casi di disastri che pur non avendo cagionato un’alterazione irreversibile di un ecosistema, o un’alterazione reversibile ma ineliminabile dello stesso, nondimeno, abbiano una tale portata offensiva da
porre in pericolo l’incolumità delle persone.
Nel caso di offesa alla pubblica incolumità derivante da una compromissione estesa dell’ambiente o dalla diffusione dei suoi effetti lesivi pertanto, la lesione all’ambiente viene in rilievo come evento prodromico alla successiva messa in pericolo dell’incolumità pubblica (43).
Sennonché, la formulazione proposta per la tipizzazione dell’evento
non convince del tutto.
In primo luogo, il riferimento all’estensione della compromissione come parametro cui ancorare la conseguente idoneità del fatto a porre in pericolo la vita o la salute pubblica pecca di eccessiva vaghezza.
In assenza di ulteriori specificazioni sulle dimensioni che il pregiudizio
per l’ambiente deve assumere per risultare in grado di proiettare le sue potenzialità offensive nei confronti della vita o dell’incolumità di un numero
indeterminato di persone, ogni valutazione sul punto è affidata alla discrezionalità del giudice, con il rischio di enormi disparità di trattamento, a
fronte di eventi di analoga portata.
Di modo che, per esempio, non si comprende se l’estensione della
compromissione vada intesa in termini spaziali/materiali, valorizzandone
cioè le dimensioni naturalistiche; o debba essere interpretata in termini
temporali, come prolungamento e permanenza nel tempo del pregiudizio
ambientale; sino a ricomprendervi quindi casi analoghi a quelli del proces-
( 42 ) Così come aveva appunto suggerito Ruga Riva, op. ult. cit., 7.
( 43 ) Secondo uno schema logico proprio dei reati di comune pericolo, Parodi Giusino, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, 254; Ardizzone, Incolumità pubblica, in Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, 361 ss.; Gargani, Il danno qualificato dal pericolo, Torino, 2005, 210 ss.; 476 ss.; Id., Reati contro la pubblica incolumità, cit.,
3 ss.
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so Eternit di dispersione duratura e continuativa di fibre nocive nell’ambiente.
Inoltre, i profili di incertezza appena richiamati rischiano di creare una
pericolosa interferenza della fattispecie con il delitto di inquinamento ambientale, il cui evento tipico astrattamente potrebbe sempre integrare anche
l’evento del disastro ambientale di cui si sta discutendo, essendo il primo
descritto come compromissione significativa e misurabile di «estese» porzioni del corpo recettore.
La suddetta sovrapposizione si verificherebbe puntualmente, ove la rilevanza dell’accadimento del disastro venisse concepita in senso quantitativo, e cioè come estensione dell’ambito spaziale dell’offesa.
Né appare meno problematica la possibilità – prevista dalla disposizione – di agganciare la rilevanza della lesione ambientale idonea a creare una
situazione di pericolo per la vita o l’integrità fisica delle persone al requisito
dell’estensione dei suoi effetti lesivi.
Anche in tale ipotesi infatti, non viene specificato se debbano prendersi
in considerazione le conseguenze dannose che il fatto ha prodotto nei confronti di beni diversi dal bene ambiente; oppure in alternativa – come invero si è più propensi a credere – se vengano in rilievo esclusivamente i danni
provocati a carico dell’ecosistema. Che quest’ultima soluzione risulti la più
coerente con la struttura del delitto apparirebbe in effetti confermato dal
parametro finale, selezionato quale ulteriore possibile requisito identificativo dell’evento di disastro: vale a dire, il numero delle persone offese o poste
in pericolo.
È evidente che qui si fa rinvio ai singoli accadimenti lesivi della vita o
dell’incolumità delle persone (morte o lesioni) scaturiti dall’evento inquinante, i quali costituiscono però certamente «effetti lesivi» della compromissione dell’ambiente. Di conseguenza, in base ad un’interpretazione per
relationem, essi devono necessariamente rilevare in modo autonomo, come
distinti dagli «altri» effetti lesivi indicati nel medesimo punto 3) della disposizione incriminatrice.
Con riguardo al profilo or ora menzionato, del numero delle offese arrecate alle persone impiegato per identificare l’entità disastrosa degli accadimenti, non può sottacersi come esso denoti lo stretto collegamento tra le
vicende giudiziarie ricordate in queste pagine e la genesi del disegno di legge. Alle sue spalle si intravede in effetti l’impostazione seguita dai giudici
del caso Eternit di utilizzare i risultati degli studi di coorte circa il livello
dell’incidenza di determinate patologie all’interno di gruppi di persone
esposti all’amianto come copertura scientifica per l’attestazione del pericolo manifestatosi verso la pubblica incolumità.
I singoli eventi lesivi a danno della vita o della salute di un certo numero
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di soggetti vengono così prospetticamente in rilievo in quanto elementi di
una più ampia condizione di pericolo che si proietta verso il bene indeterminato dell’incolumità pubblica (44).
Tuttavia, l’art. 452 quater omette di precisare un aspetto fondamentale
affinché tale punto di vista possa correttamente funzionare; e cioè il fatto
che il «numero» delle offese ai singoli non possa essere esiguo, perché il pericolo nei confronti della pubblica incolumità di per sé implica il coinvolgimento di una pluralità indeterminata di persone (45).
Sennonché, a prescindere dal rilievo concernente la sua mancata aggettivazione, in ogni caso, il requisito numerico risulta pleonastico, in quanto
esso è implicitamente compreso nella stessa nozione di offesa alla pubblica
incolumità, che per sua natura si incentra su una pluralità indefinita di vittime, o di potenziali vittime. Senza contare che l’ancoraggio dell’offesa al numero delle persone lese o virtualmente ledibili diviene addirittura fuorviante ove si acceda alla tesi del carattere qualitativo, e non quantitativo, dell’elemento dell’indeterminatezza delle vittime (46).
A parere di chi scrive, per evitare fraintendimenti, nella descrizione dell’evento in questione sarebbe opportuno sopprimere il richiamo al numero
delle vittime reali o potenziali, o all’estensione della compromissione e limitarsi a qualificare l’accadimento semplicemente come offesa alla pubblica
incolumità conseguente a fatti di inquinamento rilevanti. In tal modo, il trascorrere della situazione offensiva dalla lesione all’ambiente verso la messa
in pericolo dell’incolumità pubblica si baserebbe su un requisito di «rilevanza» del fenomeno inquinante, declinabile in termini sia qualitativi, sia
quantitativi.
Tale impostazione avrebbe pertanto il pregio di assecondare una concezione mista del requisito di indeterminatezza delle persone investite dalla
fonte di pericolo, facendo rientrare nello spetto applicativo della norma
tanto i casi di offese all’ambiente generatrici di una condizioni di pericolo
che coinvolge un numero considerevole di persone (criterio quantitativo);
( 44 ) L. Masera, La malattia professionale e il diritto penale, cit.
( 45 ) A. Gargani, Reati contro la pubblica incolumità, cit., 173 ss. (Naturalmente, qui entrano in gioco i diversi modi di intendere il bene dell’incolumità pubblica, i quali però, pur
nella varietà di accenti, concordano nel ritenere che il bene in questione implichi l’indeterminatezza delle potenziali vittime. Per tutti, Ardizzone, Incolumità pubblica, in Dig. disc. pen.,
vol. VI, Torino, 1992, 365 ss.).
( 46 ) Florian, Dei delitti contro l’incolumità pubblica, in Enc. dir. pen. it., vol. VII, Milano, 1909, 167 ss.; Ardizzone, Incolumità pubblica, cit., 365.
Ritiene invece che il bene della pubblica incolumità possa acquisire una diversa connotazione, ora quantitativa, ora qualitativa, a seconda della fattispecie che viene in rilievo, Alessandri, Il pericolo per la pubblica incolumità nel delitto previsto dall’art. 437 c.p., in Riv. it.
dir. proc. pen., 1980, 272.
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quanto le situazioni in cui l’indeterminatezza delle vittime dipende dalla direzione o dalla portata del pericolo il cui raggio di azione è in grado di investire un numero indefinito di soggetti (criterio qualitativo).
Ciò permetterebbe di considerare tipiche rispetto alla fattispecie di disastro ambientale anche le ipotesi di incauta gestione di stabilimenti industriali o di altre fonti di pericolo da cui siano derivati fenomeni di inquinamento rilevanti – per estensione o per gravità delle compromissioni –, in
grado di offendere la pubblica incolumità; e ciò a prescindere dall’accertamento a posteriori del pericolo in concreto corso da più persone, o delle lesioni in concreto verificatesi a danno di più persone (47).
6. – I segni dell’influenza determinante che la vicenda Eternit ha avuto
nella genesi della proposta di riforma qui in commento si rintracciano oltre
che nella tipizzazione del reato di disastro ambientale, anche tra le righe di
altre disposizioni incriminatrici.
Così, brevemente, non sembra affatto casuale l’inserimento nel testo di
una disposizione che prevede un aumento di pena per i casi di morte o lesione provocati dai fatti di inquinamento ambientale di cui all’art. 452 bis
(art. 452 ter).
Tale norma ha certamente una precisa coerenza sistematica, giacché
punisce più severamente i casi di danni all’ambiente che abbiano inoltre
provocato il decesso o le lesioni di una o più persone, nell’ottica di assicurare una risposta sanzionatoria proporzionata alla maggiore gravità di un fatto oggettivamente plurioffensivo (48).
Sul versante delle ragioni politico criminali che ne hanno determinato
l’introduzione tuttavia, essa è la risposta approntata dal legislatore ad un interrogativo lasciato irrisolto dal processo Eternit.
In quella vicenda, come è noto, una delle questioni principali più ampiamente dibattute ha riguardato infatti il rapporto tra il c.d. «disastro interno» e il c.d. «disastro esterno» agli stabilimenti: il primo consistente nella
lesione o nella morte di migliaia di operai esposti alla contaminazione dell’ambiente di lavoro; il secondo invece nella diffusione all’esterno delle fabbriche della situazione offensiva, con conseguente messa in pericolo della
pubblica incolumità.
( 47 ) Illuminanti sul punto le osservazioni di Parodi Giusino, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, cit., 262.
( 48 ) Tale soluzione si colloca per altro in linea con quanto prescritto dalla Direttiva 2008/
99/ce sulla tutela penale dell’ambiente che obbliga alla creazione di illeciti a dimensione plurioffensiva, strutturati sul collegamento tra infrazione ambientale e produzione di un danno o
di un pericolo a carico della salute, della vita o dell’incolumità fisica delle persone (art. 3 lett. a).
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Il punto problematico aveva riguardato la possibilità di considerare i
singoli eventi lesivi a carico delle vittime come elementi del disastro, o viceversa come accadimenti rilevanti in senso autonomo e distinti dall’evento di
disastro.
In proposito, i giudici di primo grado avevano escluso che i singoli danni alle persone potessero essere ricondotti alla nozione di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p. cpv. ed avevano di conseguenza considerato le
malattie-infortunio come eventi rilevanti ai sensi dell’art. 437 comma 2 c.p.,
ossia come singoli risultati lesivi del reato di omissione di cautele contro gli
infortuni sul lavoro.
In termini opposti si era invece pronunciata la sentenza di appello, che
aveva ritenuto il fenomeno epidemico cagionato dalle condotte degli imputati un elemento strutturale dell’evento di disastro (49).
Infine sulla questione, la Corte di Cassazione ha da ultimo stabilito che
nel disastro innominato non vi sarebbe spazio per i singoli effetti lesivi a carico delle persone, i quali non potrebbero mai rilevare quali parti costitutive dell’accadimento di disastro. Quest’ultimo consisterebbe dunque sempre in un fatto distruttivo di grandi proporzioni, da cui discende la messa in
pericolo della pubblica incolumità; distinto dai singoli accadimenti lesivi a
carico delle vittime, che pure possono servire a ricostruirne la dimensione
catastrofica, nella prospettiva dell’offesa alla pubblica incolumità (50).
Ebbene, appare evidente che la scelta del legislatore di introdurre la figura aggravata di cui all’art. 452 ter sia stata motivata per l’appunto dalla
necessità di chiarire i rapporti pocanzi menzionati tra il disastro ambientale
e gli eventi di danno a carico dei singoli.
Nell’impianto del Disegno di Legge infatti, le morti o le lesioni personali cagionate dal reato di inquinamento non figurano come elementi costitutivi del disastro ambientale, nella cui struttura l’eventuale allargamento dell’offesa all’ambiente in direzione dell’offesa ad altri beni individuali (la vita,
la salute o l’incolumità delle persone) viene in rilievo nella sua indeterminatezza, quando rivolta verso una cerchia indeterminata di vittime (concezione qualitativa); ovvero se investe un numero considerevolmente elevato di
persone (concezione quantitativa).
Cosicché, l’art. 452 ter richiederebbe la dimostrazione ex post del nesso
causale tra il danno arrecato all’ambiente – così come tipizzato dall’art. 452
bis – e i singoli decessi, o le singole lesioni a carico di uno o più individui.
( 49 ) Per una lucida ricostruzione di questo e degli altri nodi tematici della caso Eternit nei
primi due gradi di giudizio, Zirulia, Processo Eternit: a che punto siamo, cit., 27 ss.
( 50 ) Cass. pen., sez. I, 19.11.2014 (dep. 23.2.2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp. Schmidheiny.
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Esso ricorrerebbe cioè soltanto nelle ipotesi in cui vi sia una precisa e dimostrata derivazione eziologica tra gli avvenimenti: condotta inquinante da un
lato, e morti o lesioni delle persone, dall’altro lato.
La ricostruzione a posteriori della relazione causa-effetto non sarebbe
invece necessaria per la configurazione del reato di disastro ambientale,
nella forma di cui alla lett. b) dell’art. 452 quater.
Qui in effetti, l’offesa alla pubblica incolumità non include la necessaria
verificazione di concreti accadimenti a danno delle vittime (e il suo conseguente accertamento). Questi semmai, ove realizzatisi su vasta scala, costituiscono parte di un macro-evento di danno collettivo e impersonale che si
proietta «qualitativamente» verso la messa in pericolo della pubblica incolumità, anche laddove non via sia piena certezza sul piano scientifico della
derivazione naturalistica di ogni specifico evento di morte o lesione dalla
condotta presa in considerazione (51).
7. – In conclusione delle rapide osservazioni sin qui svolte su alcune
delle importanti novità previste nel Disegno di Legge in materia di reati ambientali, siano consentite talune altrettanto brevi annotazioni a margine.
Un primo ordine di considerazioni riprende quanto in precedenza sommariamente accennato a proposito delle praticabilità di un modello di diritto penale ambientale incentrato sul danno, e non soltanto sul pericolo.
Orbene, è noto come in ambito ambientale le chances di funzionamento
di un siffatto modello siano significativamente condizionate dalla natura seriale e cumulativa delle condotte causali e dalla conseguente difficoltà di accertamento del nesso eziologico tra condotta ed evento.
In genere, l’offesa all’ambiente costituisce il risultato di una pluralità di
comportamenti lesivi successivi l’uno all’altro, o contestuali, che concorrono alla realizzazione dell’evento ed il cui contributo causale, individualmente considerato, nella catena degli avvenimenti appare sproporzionatamente inferiore all’entità dell’accadimento cagionato dal complessivo operare delle condotte stesse.
Ciò rende particolarmente insidiosa la ricostruzione del rapporto di
causalità nel contesto degli inquinamenti ambientali ed altrettanto problematica la buona riuscita dell’impiego del reato di evento. Per tali ragioni,
( 51 ) Il sistema di incriminazioni del Disegno di Legge si presterebbe così ad una lettura
conforme all’impostazione suggerita in dottrina da Donini, Imputazione oggettiva dell’evento,
in Enc. dir., Annali, vol. III, Milano, 20120, 703 ss. in base alla quale in contesti di incertezza
scientifica, i concreti accadimenti lesivi, mentre non sono causalmente ascrivibili alla condotta
di alcuno, possono tuttavia fondare un danno collettivo alla popolazione, qualificato dal pericolo verso una cerchia indeterminata di altri soggetti, rilevando così per il comune pericolo.
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come è noto, una parte della dottrina ritiene irrinunciabile nel diritto penale ambientale l’anticipazione della soglia della tutela al livello del pericolo
astratto (52).
Su tale fronte, la proposta di recente esitata dal Senato propugna, è vero, l’introduzione di fattispecie di evento o di pericolo concreto ma lo fa a
completamento di un sistema che complessivamente non abolisce le contravvenzioni di mero pericolo, affiancandole a più gravi delitti di danno.
Benché si tratti di una prospettiva nell’insieme ragionevole sia per la ragione appena detta, del mantenimento degli illeciti di pericolo, sia per la
soddisfacente tecnica di tipizzazione impiegata, permangono tuttavia non
poche perplessità, con riguardo alle concrete possibilità applicative delle
future norme.
A complicarne l’impiego, infatti, concorrono da un lato una certa vaghezza di alcune delle nozioni utilizzate e le difficoltà interpretative circa i
rapporti tra danno e pericolo nel disastro ambientale; dall’altro lato, la scarsa attenzione del legislatore alla dimensione fenomenologica degli inquinamenti.
Mi riferisco qui alla sproporzione tra condotta ed evento lesivo che sovente si riscontra nella realtà giudiziaria, quando il fatto considerato viene a
inserirsi nel contesto di preesistenti prassi inquinanti, aggravando la compromissione dell’ambiente, piuttosto che generandola ex novo. In tali casi,
la mancata tipizzazione delle condotte incriminate in termini di «mero contributo causale» impedisce il ricorso alle nuove fattispecie di reato.
Infine, un secondo ordine di considerazioni concerne un tema in apparenza del tutto slegato da quello pocanzi enucleato, ma in realtà anch’esso
ascrivibile alla foga punitiva del legislatore e alla particolare severità della
risposta penale da esso predisposta.
Il riferimento è al versante della colpevolezza, per la verità trascurato
nello spazio di questo contributo.
Brevemente, si può dire che dall’impianto del Disegno di Legge discenda un tipo di colpevolezza ambientale in cui il dolo abbraccia non soltanto
l’evento, ma altresì la consapevole inosservanza delle prescrizioni extrapenali poste a tutela dell’ambiente o di altri interessi giuridici.
Sicché, come taluno ha già avuto modo di evidenziare (53), verrebbe a
delinearsi un nuovo modello di dolo individuale accomunabile al dolo della
( 52 ) È noto che tale posizione è sostenuta oltre che dalla sottoscritta (per le quali si rimanda all’opera Tutela penale dell’ambiente, cit.) ance da Catenacci, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a contenuto contravvenzionale e Bernasconi,
Il reato ambientale, cit.
( 53 ) Ruga Riva, Dolo e colpa nei reati ambientali, in www.penalecontemporaneo.it, 12.
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persona giuridica, in quanto ritagliato sulla condotta di gestione di impresa
ed incentrato su una volontà colpevole che si esteriorizza nella sistematica e
deliberata violazione delle cautele necessarie ad impedire offese all’ambiente o alla salute pubblica. Si tratterebbe cioè di un dolo individuale affine al
dolo dell’ente collettivo, e per tale ragione forgiato alla stregua di una colpa
di organizzazione.
Tale forma spuria di dolo avrebbe in comune con la colpa – ed in specie
con la colpa di organizzazione – la deliberata e reiterata inosservanza di sistemi di gestione del rischio (in funzione di prevenzione sia dei danni all’ambiente, sia di offese a beni di altra natura), decisa a livello dei vertici di
impresa ed attuata nelle sedi locali dalla dirigenza dei singoli stabilimenti. Il
tratto distintivo tipico del dolo sarebbe invece individuabile non soltanto
nel maggior disvalore di una condotta sorretta dalla volontà dell’evento lesivo – il quale per altro potrebbe essere voluto anche nella forma più blanda
e più contigua alla colpa del dolo eventuale – ma anche nella voluta perseveranza del comportamento negligente.
Tra i rischi del nuovo modo di intendere il dolo dei reati ambientali si
annovererebbe per altro la particolare pervasività ad esso attribuita dal legislatore della riforma attraverso la previsione all’art. 452 novies di un’aggravante soggettiva comune consistente nella volontà di eseguire uno o più delitti ambientali, o di compiere una o più violazioni di disposizioni normative a tutela dell’ambiente; un autentico «dolo specifico ambientale» che si
estende sino ad abbracciare il fine di eseguire non soltanto i nuovi delitti
ambientali, bensì pure le violazioni previste nel TU sull’ambiente e persino
ogni altra disposizione a tutela dell’ambiente.
Anche su tale versante, come su altri già segnalati, si denota un tratto di
stretta contiguità tra il nuovo testo e le vicende del caso «Eternit». La forma
ibrida di dolo che verrebbe in rilievo appare invero fortemente tributaria
del dolo di quel processo, ove ciò che in via principale si contestava agli imputati era il fatto di aver consapevolmente e volontariamente perpetrato nel
tempo l’omissione di vari tipi di cautele antinfortunistiche, sapendo che da
ciò sarebbe derivata la messa in pericolo della vita e della salute di un numero indeterminato di vittime.
Nondimeno, il legislatore sembra non aver trascurato le difficoltà concernenti la tipizzazione del dolo e la prova dello stesso nei reati ambientali,
né l’irrinunciabilità del paradigma della responsabilità colposa, che emerge
con plastica evidenza soprattutto nell’ambito nei delitti ambientali di evento; qui, più che nei reati di mera condotta infatti, la prospettazione del rischio rimane sovente al livello di prevedibilità, o anche di previsione in concreto, dell’accadimento lesivo nelle sue caratteristiche essenziali e soltanto
di rado sfocia nell’effettiva volontà di cagionarlo.
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Per entrambi i delitti presi in considerazione in queste pagine è pertanto prevista anche la punibilità a titolo di colpa (ex art. 452 quinquies del Disegno di Legge), con conseguente estensione delle incriminazioni ai casi –
probabilmente statisticamente più frequenti nella prassi – in cui ad essere
voluta è soltanto la violazione delle regole cautelari ma non altresì la realizzazione dell’evento lesivo.
All’opportunità di tale previsione si accosta però la problematica formulazione del secondo comma della disposizione che la contiene, il quale
stabilisce un’ulteriore abbassamento di pena per le ipotesi di condotte colpose da cui sia derivato il pericolo di inquinamento ambientale e di disastro
ambientale. Lo scopo di tale prescrizione sembrerebbe quello di anticipare
la soglia della punibilità ai casi di condotte colpose che abbiano cagionato
una concreta situazione di pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale, senza che il disastro o l’inquinamento abbiano in concreto
avuto luogo.
Si tratterebbe in sostanzadi un’insolita forma di «tentativo colposo»
mascherato, in quanto ad essere punite sarebbero le violazioni (volute) delle regole precauzionali in concreto idonee a determinare una messa in pericolo dell’ambiente o dell’incolumità pubblica, sempre che l’evento offensivo non sia anch’esso direttamente voluto e non si sia verificato, e a condizione che ad essersi verificato sia stato soltanto il pericolo dell’evento lesivo.
Ai dubbi che può sollecitare la surrettizia previsione di un tentativo colposo di delitto, si aggiunge altresì l’ambiguità e l’illogicità del testo. Esso è
infatti così formulato: «se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente deriva il pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale,
la pena ... etc.». Ebbene i «fatti» cui si fa riferimento sono i delitti colposi di
inquinamento ambientale e di disastro ambientale di cui al primo comma
dell’articolo, ove, come detto, semplicemente si prevede la punibilità a titolo di colpa dei reati di cui agli artt. 452 bis e 452 quater.
Sicché, non si vede come sia possibile immaginare fatti colposi di disastro ambientale e di inquinamento ambientale che consistano nella realizzazione di un pericolo di disastro ambientale e di inquinamento ambientale.
Delle due l’una, o il disastro colposo e l’inquinamento colposo sussistono;
oppure, ciò che si realizza per effetto del comportamento colposo del soggetto agente è esclusivamente il pericolo dell’accadimento lesivo previsto
nelle due fattispecie incriminatrici.
Sarebbe dunque più corretto che nella versione definitiva del testo si
provvedesse a correggerne la formulazione riferendo per l’appunto l’evento
di pericolo non ai delitti di inquinamento e di disastro ambientale tout
court, bensì agli eventi dei suddetti reati: vale a dire, alla compromissione o
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alterazione misurabile e significativa a) delle acque o dell’aria o di porzioni
estese o significative del suolo o del sottosuolo; oppure, b) di un ecosistema
della biodiversità della flora o della fauna. Ovvero, con riguardo al disastro
ambientale, 1) all’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;
o, 2) all’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; o ancora, 3) all’offesa alla pubblica incolumità.
8. – Dalla rapida analisi sin qui condotta di talune delle novità previste
nel nuovo Disegno di Legge sugli ecoreati emergono alcuni tratti essenziali
della riforma che senza dubbio innovano in profondità il diritto penale dell’ambiente ed al contempo rivelano la ferma intenzione del legislatore di
rafforzare la risposta punitiva nei confronti della criminalità ambientale.
Il riferimento è soprattutto alla scelta di collocare i delitti ambientali nel
codice penale, di prevedere reati di evento da affiancare ai reati di pericolo
della legislazione speciale, di stabilire un trattamento sanzionatorio particolarmente severo per i nuovi reati, di introdurre una circostanza aggravante
speciale per il reato di associazione per delinquere finalizzato alla commissione di delitti ambientali (art. 452 septies), e così via.
L’impianto complessivo del testo denota dunque un particolare rigore
repressivo, ispirato di certo dalle istanze politico-criminali alla base dell’iniziativa, e tuttavia, almeno con riguardo ai livelli edittali di pena previsti per i nuovi delitti, nell’insieme proporzionato all’entità delle offese punite (alterazioni irreversibili, compromissioni significative e misurabili dell’ambiente, offesa alla pubblica incolumità etc.). Sproporzionati – e pertanto evitabili – sembrano invece alcuni eccessi prodotti dalla foga repressiva del legislatore, come la previsione dell’aggravante ambientale sopra richiamata, o la tipizzazione in forma mascherata di un tentativo colposo di
delitto.
Sul versante della tipizzazione delle offese, si è già evidenziato come la
prospettiva di affiancare il danno al pericolo, appaia ragionevole, anche se
non risolutiva delle difficoltà connesse all’accertamento del nesso causale in
materia di ambientale; soprattutto quando le condotte che vengano in rilievo non consistano nella reiterata e perdurante violazione di regole cautelari
preventive, ma siano contributi isolati e parcellizzati al processo causale che
conduce all’evento.
Probabilmente, per aggirare il rischio che le nuove incriminazioni risultino in concreto difficilmente applicabili sotto il profilo della causalità, si
potrebbe pensare di sostituire il verbo «cagionare» con una più articolata
formulazione, che faccia riferimento sia a condotte per cosi dire «complesse», cioè costituite da più azioni o omissioni prolungatesi nel tempo e conRiv. trim. dir. pen. econ. 1-2/2015
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ARTICOLI
correnti tanto nella produzione della situazione lesiva, quanto nel suo mantenimento, sia a condotte formate anche da una sola azione o omissione che
abbiano in concreto contribuito alla realizzazione dell’accadimento.
Infine, per quanti sforzi si facciano nell’elaborare proposte penalistiche
in grado di ridurre il gap tra certezza del diritto e incertezza della scienza, il
nuovo diritto penale dell’ambiente rimane pur sempre esposto alle difficoltà di adeguamento alla costante evoluzione delle conoscenze, in contesti di
sostanziale insicurezza scientifica. Su tale versante invero, qualunque tentativo di riforma degli illeciti penali in materia di ambiente inevitabilmente si
scontra con il problema della tendenziale sconfinatezza della responsabilità
colposa, e con gli effetti deflagranti dell’ingresso del principio di precauzione in materia penale.
Sicché, una volta oltrepassato il tanto dibattuto sbarramento dell’inutilità dei reati ambientali con evento naturalistico, nuovi stimolanti e forse altrettanto complessi orizzonti si dischiudono sul terreno della colpevolezza,
sia colposa, che dolosa.
Se infatti, come segnalato, la colpa chiama in causa la questione della
prevedibilità dei rischi alla stregua del livello di conoscenze disponibili e
della loro minore o maggiore attendibilità scientifica, la previsione del dolo
finisce invece con il riverberarsi sul significato stesso della condotte punite,
mutandone i connotati tipici. Ciò in quanto la volontà vuoi dell’inosservanza di disposizioni extrapenali, vuoi dell’evento necessaria ad integrare il dolo dei reati ambientali, mentre ben si attaglia ai tipi di condotte sopra definite «complesse», mal si concilia invero con singole isolate azioni o omissioni.
Zusammenfassung
Die Gesetzesreform im Bereich der “Ökodelikte”, die kürzlich vom Parlament genehmigt wurde, bewirkt eine bedeutende Änderung des Umweltstrafrechtes in Italien.
Der gegenständliche Beitrag beschäftigt sich mit der Analyse der Delikte
der „Umweltverschmutzung“ und der „Umweltkatastrophe“, einige der wichtigsten Neuigkeiten, die mit der Reform eingeführt wurden, und zugleich bezeichnende Beispiele eines Versuches des Gesetzgebers, die kriminalpolitischen Ansprüche in der Unterdrückung der gravierendsten Formen von Umweltzerstörung in Einklang zu bringen mit der Notwendigkeit einer Technik
der Typisierung des Straftatbestandes, welche mit den Eigenheiten des geschützten Rechtsgutes und den typischen offensiven Verwirklichungsmodalitäten im Umweltbereich kohärent sei.
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Abstract
The reform concerning “ecocrimes” recently approved by the Parliament
impressed a significant change to environmental criminal law in Italy. Amongst the most important novelties introduced by the reform, this paper considers the criminal offences of “Inquinamento ambientale” (environmental pollution) and of “Disastro ambientale” (environmental disaster), which are paradigmatic examples of the legislator’s attempt to balance the criminal-political needs for repressing the most serious forms of aggression against environment with the need for adopting a legislative technique of description of the
offences coherent with the peculiarities of the protected legal good and with
the modalities of realisation of the harmful behaviours in the environmental
field.
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COMMENTI A SENTENZA
Reati tributari - omesso versamento - ritenute certificate - sanzioni amministrative - ne bis in idem (artt. 4 Prot. n. 7 CEDU e 50 CDFUE, sia conforme al
diritto comunitario la disposizione di cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000).
Trib. Torino, 27.10.2014. Giud. E. Pio, B. S., imputato.
Deve essere rinviata per pregiudizialità alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea la questione relativa alla compatibilità della disposizione penale di cui all’art. 10 bis d. lgs. n. 74/2000 – delitto di omesso versamento di ritenute certificate – rispetto al diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, con particolare riferimento al caso in cui un soggetto venga
tratto in giudizio avanti al giudice penale per il reato de quo benché già condannato, in via definitiva, dall’Amministrazione finanziaria per l’omesso versamento, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di
sostituto d’imposta, delle ritenute certificate relative allo stesso anno d’imposta e
NE BIS IN IDEM E DOPPIO BINARIO SANZIONATORIO:
VERSO UNA PROGRESSIVA ASSIMILAZIONE TRA SANZIONI PENALI
E SANZIONI AMMINISTRATIVE?
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il divieto di bis in idem nella giurisprudenza europea. - 3. I precedenti: la sentenza Grande Stevens. - 4. Segue: le pronunce in materia fiscale. - 5. La
prospettiva nazionale: i reati tributari e il principio di specialità. - 6. Segue: il cd. «doppio
binario». - 7. Le Sezioni Unite n. 37425/2013. - 8. Considerazioni finali.
1. Con l’ordinanza in esame, il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, ha rinviato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE (1).
( 1 ) L’art. 267 TFUE (ex articolo 234 del TCE) così recita: «La Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull’interpretazione dei
trattati; b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o
dagli organismi dell’Unione. Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per
emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso
giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte. Quando
una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente
possibile».
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COMMENTI A SENTENZA
per il medesimo ammontare di cui alla contestazione penale. La questione asume
rilevanza alla luce della diversa interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea (e di Strasburgo) rispetto a quella offerta dalla giurisprudenza nazionale (Cass., S.U. del 28.3.2014, n. 37425) circa a) la natura penale o meno della sanzione amministrativa di cui all’art. 13, comma 1, d. lgs. 471/1997 e
conseguentemente, in caso di risposta positiva al questio, b) circa la sussistenza o
meno della violazione del principio di ne bis in idem (art. 50 TFUE) qualora per
«lo stesso fatto» l’imputato sia stato tratto a giudizio davanti al giudice penale.
(Omissis)
1. PROCEDIMENTO PRINCIPALE
(v. art. 94 RdP e punto 22, 1o paragrafo, delle Raccomandazioni)
1. Esposizione succinta del procedimento
Nel sopra emarginato procedimento penale B. S. è imputato «del reato di
cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000 perché in qualità di legale rappresentante della
società S. B. E C srl (c/f p. iva [Omissis]) non versava entro il termine previsto
Più esattamente, si chiede una valutazione di conformità – al diritto al ne bis in
idem sancito negli artt. 4 del Protocollo n. 7, Convenzione europea dei diritti dell’uomo (da ora CEDU) e 50 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(d’ora in avanti CDFUE) – dell’art. 10 bis (2) d. lgs. 74/2000 nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto che,
per lo stesso fatto (omesso versamento di ritenute), sia già stato destinatario della
sanzione amministrativa – con sentenza di condanna definitiva – di cui all’art. 13 (3)
d. lgs. 471/1997 (che prevede, altresì, l’applicazione di una soprattassa).
Il Giudice rimettente richiama, anzitutto, la vicenda oggetto del procedimento
penale, rilevando che l’imputato, cui era stata concessa la rateizzazione del debito
( 2 ) L’art. 10 bis dispone che: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque
non versa entro il termine previsto per la presentazione ella dichiarazione annuale di sostituto
di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta».
( 3 ) L’art. 13, rubricato «Ritardati od omessi versamenti diretti», al comma 1 dispone che
«Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non
effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non
versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Identica sanzione si applica nei casi di liquidazione della maggior imposta ai
sensi degli articoli 36 bis e 36 ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre
1973, n. 600, e ai sensi dell’articolo 54 bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633».
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per la presentazione delladichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute
certificate relative all’anno diimposta 2008 per un ammontare pari a 120.394
euro (importo superiore alla soglia dipunibilità di 50.000,00 euro)» (in Chieri,
Torino; il 31.7.2009).
2. Breve illustrazione dei fatti di causa
Nel corso del procedimento è stato sentito il funzionario della Agenzia delle Entrate (che hariferito degli accertamenti fatti, della contestazione in via amministrativa del debito tributarioattualmente ammontante a circa 170.000,00
euro, ed ha confermato che al momento delprocedimento l’imputato stava pagando ratealmente il debito).
All’udienza del 27.10.2014 la difesa dell’imputato ha prodotto la documentazione attestante il debito con l’Agenzia dell’Entrate (comprensivo di capitale,
interessi e sanzione), e la rateizzazione della somma di 178.612,24 (unitamente
ad altri importi) con la concessionaria Equitalia a seguito dell’iscrizione a ruolo
della cartella.
Da tale documentazione, in particolare, si evince che l’Agenzia delle Entra-
tributario per l’omesso versamento periodico delle ritenute certificate di cui all’art.
13 d. lgs. 471/1997, veniva «segnalato» alla Procura della Repubblica per il reato di
cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000.
Dopo un breve richiamo alla normativa nazionale di riferimento, l’ordinanza
procede con un excursus della giurisprudenza in materia, nonché del relativo contrasto risolto – seppur con qualche perplessità – dalle Sezioni unite, con sentenza n.
37425 del 2013 (4), che ha stabilito che l’omesso versamento delle ritenute certificate, di cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000, si pone non in rapporto di specialità con
l’art. 13, comma 1, d. lgs. 471/1997, bensì in rapporto di progressione illecita, con
la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni,
penale ed amministrativa. Le Sezioni unite, dunque, hanno escluso il contrasto con
gli artt. 4 del Protocollo 7 CEDU e 50 della CDFUE, poiché non sarebbe possibile
parlare di identità del fatto, relativamente alle fattispecie richiamate.
L’interpretazione del Tribunale di Torino, però, muove da una contraddittoria
lettura fornita dalle Sezioni unite – nella parte della citata sentenza n. 37425/2013 –
secondo la quale la violazione penale contiene necessariamente la violazione amministrativa. Infatti, così argomentando, la Suprema Corte avrebbe implicitamente
ammesso che la fattispecie di cui all’art. 13 d. lgs. 471/1997 rappresenta lo step ini-
( 4 ) La sentenza n. 37425 del 28.3.2013 è pubblicata in Cass. pen., 2014, 54 ss., con nota di
Ciraulo, La punibilità degli omessi versamenti dell’iva e delle ritenute certificate nella lettura
delle Sezioni unite. A commento della sentenza, cfr. altresì Ungaro, Omesso versamento iva
per il 2005 e ritenute 2004: le Sezioni unite escludono la violazione del principio di irretroattività, ne Il fisco, 2013, 5315 ss.; Valsecchi, Le Sezioni unite sull’omesso versamento delle ritenute per il 2004 e dell’iva per il 2005: applicabili gli artt. 10-bis e 10-ter, ma con un’interessante
precisazione sull’elemento soggettivo, in www.penalecontemporaneo.it, 18.9.2013.
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COMMENTI A SENTENZA
te, attesa l’entità del versamento, avrebbe provveduto alla segnalazione alla
competente Procura della Repubblica per il reato di cui all’art. 10 bis d. lgs.
74/2000.
2. DIRITTO NAZIONALE
1. Disposizioni nazionali richiamate
ILLECITO AMMINISTRATIVO
Ai sensi del comma 1 dell’art. 13 d. lgs. 18.12.1997, n. 471 «Chi non esegue,
in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti
periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in
acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al
trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni,
ziale della più grave condotta di cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000. Quest’ultima,
dunque – ad avviso del rimettente – assorbirebbe in sé la prima, superando il rischio del bis in idem sostanziale; viceversa, l’applicazione di entrambe le norme e
delle relative sanzioni comporterebbe la violazione del richiamato principio (5).
La vicenda appare di massima importanza anche in seguito alla recente questione di legittimità costituzionale (6) delle disposizioni normative che prevedono la
( 5 ) Tuttavia, l’argomentazione logico-giuridica seguita dalla Corte di Cassazione determina l’applicabilità delle due norme, escludendo, invece, la violazione del principio del ne bis
in idem sia sostanziale, trattandosi – ad avviso della Corte – di condotte diverse, che processuale, non potendo questo principio operare nei rapporti tra i procedimenti amministrativo e
penale. In ogni caso, dovrebbe essere fatta salva la necessità di soddisfare l’elementare esigenza di giustizia richiesta dai casi di progressione illecita, ove il disvalore penale del fatto è esaurito dall’applicazione di una sola delle fattispecie che condividono sia i presupposti, sia la
condotta, sia la tutela dei medesimi interessi. In tal senso, cfr. Dova, Ne bis in idem in materia tributaria: prove tecniche di dialogo tra legislatori e giudici nazionali e sovranazionali, in
www.penalecontemporaneo.it, 5.6.2014.
( 6 ) Cfr. Cass. pen., sez. V, n. 3333 del 10.11.2014 (dep. 15.1.2015), in www.penalecontemporaneo.it, 22.1.2015, con la quale la Suprema corte ha dichiarato rilevanti e non manifestamente infondate: «a) in via principale: la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione
per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, del d. lgs. 24 febbraio
1998, n. 58, art. 187-bis, comma 1, (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi della L. 6 febbraio 1996, n. 52, artt. 8 e 21) nella parte in cui prevede
“Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato” anziché “Salvo che il fatto costituisca reato”;
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la sanzione di cui al primo periodo, oltre a quanto previsto dal comma 1 dell’art. 13 del d. lgs. 18.12.1997, n. 472, è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo. Identica sanzione si applica nei casi di liquidazione della maggior imposta ai sensi degli articoli 36 bis e
36 ter del decreto del Presidente della Repubblica 29.9.1973, n. 600, e ai sensi
dell’art. 54 bis del d.P.R. 26.10.1972, n. 633».
Va inoltre precisato che sul datore di lavoro, in qualità di sostituto di imposta grava l’adempimento di alcuni obblighi strumentali, quali:
1) rilasciare al sostituito (entro il 28 febbraio - 15 marzo all’epoca dei
fatti - dell’anno successivo: v. art. 4, commi 6 ter e 6 quater, d.P.R. 22.7.1998, n.
322; art. 37, comma 10, d.l. 4.7.2006, n. 223, convertito dalla l. 4.8.2006, n.
248) una certificazione attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate in modo da permettere al soggetto passivo di documentare e di dimostrare il prelievo subito;
2) presentare annualmente (entro il termine del 31 luglio - 30 settembre
o 31 ottobre, a seconda dell’utilizzo del Mod. 770 semplificato o del Mod. 770
ordinario, in riferimento all’epoca dei fatti – dell’anno successivo: v. art. 4,
comma 3 bis, d.P.R. 22.7.1998, n. 322;
duplicazione punitiva, penale ed amministrativa, in materia di market abuse successivamente alla sentenza Grande Stevens (7), che ha rilevato il contrasto tra il doppio
binario sanzionatorio e il principio del ne bis in idem (8) (infra, par. 3), nonché a seguito delle numerose decisioni destinate ad altri ordinamenti (9), che hanno riconosciuto la natura sostanzialmente penale del procedimento tributario e delle connesse sanzioni «amministrative».
Rileva, dunque, il rimettente che l’eventuale considerazione della sanzione am-
b) in via subordinata: la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117
Cost., comma 1, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia
dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non
prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito
di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e
delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli».
( 7 ) Corte Europea dei diritti dell’uomo, Causa Grande Stevens e altri c. Italia, 4.3.2014,
divenuta ormai definitiva. La sentenza è consultabile in www.echr.coe.int.
( 8 ) Sul punto, cfr. Scoletta, Il doppio binario sanzionatorio del market abuse al cospetto
della Corte costituzionale per violazione del diritto fondamentale al ne bis in idem, in www.penalecontemporaneo.it, 17.11.2014. L’Autore rileva che «si trattava di un esito largamente prevedibile ed evitabile solo per effetto di un tempestivo intervento legislativo ricettivo delle statuizioni della Corte di Strasburgo».
( 9 ) Ex multis, cfr. CGUE, Åklagaren c. Hans Åkerberg Franssonn, C-617/10, in
www.eur-lex.europa.eu; Corte Eur., Sez. V, Lucky Dev. C. Svezia, 7356/10, 27.11.2014, in
www.penalecontemporaneo.it, 11.12.2014.
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COMMENTI A SENTENZA
art. 5, comma 1, lett. b, d.P.R. 16.4.2003, n. 126, e art. 4, comma 1, lett. c,
d.P.R. 7.12.2001, n. 435) una dichiarazione unica di sostituto d’imposta dalla
quale risultino tutte le somme pagate e le ritenute operate nell’anno precedente.
A sua volta anche il lavoratore-contribuente è obbligato a conservare le certificazioni così rilasciate e ad esibirle a richiesta degli uffici competenti per i dovuti controlli (v. art. 3, comma 3, d.P.R. 29.9.1973, n. 600).
ILLECITO PENALE
L’art. 10 bis d. lgs. 10.3.2000, n. 74 (contenente la disciplina dei reati in materia di imposte dirette ed IVA) introdotto art. 1, comma 414, l. 30.12.2004, n.
311 (Legge finanziaria per l’anno 2005) dal titolo «Omesso versamento di ritenute certificate» così recita: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni
chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta».
ministrativa quale sanzione effettivamente penale, in conformità alle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), comporterebbe una violazione
del divieto di bis in idem.
La CGUE è chiamata, pertanto, a verificare se sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000 che consente la celebrazione
e/o la prosecuzione del procedimento penale nei confronti dell’imputato che per lo
stesso fatto è già stato sottoposto a sanzione amministrativa con sentenza di condanna irrevocabile.
La premessa necessaria da cui muovere appare il generale obbligo posto a carico della giurisdizione italiana di adeguarsi alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della CGUE nonché della Corte di Strasburgo in modo da evitare ulteriori violazioni dei diritti convenzionali.
Tuttavia, preliminarmente, la Corte dovrà verificare la propria competenza a
pronunciarsi sulla vicenda in commento. Infatti, ai sensi dell’art. 51, par. 1,
CDFUE, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si applica agli Stati
membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione (10). Soltanto in questi casi sussisterebbe la competenza dei giudici, mentre la materia delle ritenute
( 10 ) Come è stato puntualmente rilevato da Vervaele, Ne bis in idem. Verso un principio
costituzionale transnazionale in UE, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 32 ss., resta dubbio l’esatto
significato dell’espressione «nell’attuazione del diritto dell’Unione» e, conseguentemente,
l’ambito di applicazione della Carta ratione materiae negli Stati membri, in quanto la Corte di
Giustizia non ha ancora chiarito la sua opinione definitiva in merito. Rileva, altresì, l’Autore
che alcuni Stati membri invocano un’interpretazione restrittiva secondo cui una connessione
con il diritto dell’UE non sarebbe sufficiente per far scattare l’applicazione della Carta.
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L’omesso versamento, alle scadenze (mensili) previste, delle ritenute operate, era in origine sanzionato penalmente, dal comma secondo dell’art. 2 d.l.
10.7.1982, n. 429, convertito dalla l. 7.8.1982, n. 516.
Tale norma è stata completamente sostituita dall’art. 3 d.l. 16.3.1991, n. 83,
convertito dalla 15.5.1991, n. 154, che, in luogo degli omessi versamenti mensili, ha sanzionato penalmente il mancato versamento delle ritenute entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale, condizionando
e graduando la sanzione al raggiungimento di certe soglie di omissione e alla
sussistenza o meno della certificazione delle ritenute stesse.
Nella vigenza di tali fattispecie penali, con il comma 1 dell’art. 13 d. lgs.
18.12.1997, n. 471 sopra riportato, è stata reintrodotta la sanzione amministrativa per l’omissione dei versamenti dovuti «alle prescritte scadenze».
Il d.lgs. 10.3.2000, n. 74, ha abrogato espressamente (art. 25, lett. d) il titolo
I del d.l. 10.7.1982, n. 429, convertito dalla l. 7.8.1982, n. 516, che conteneva la
repressione dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ivi
compresi tutti i reati a carico del sostituto di imposta, e, nell’ambito della nuova
disciplina in materia di reati tributari che introduceva, non previde fattispecie di
reato in continuità normativa rispetto a quella di cui al citato art. 2 della l. n. 516.
d’imposta è rimessa all’esclusiva competenza nazionale (11). Ciò, dunque, potrebbe
escludere la competenza della Corte ad esprimersi sulla questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Torino.
2. Il principio del ne bis in idem rappresenta oggi un principio nodale sia a livello nazionale che sovranazionale ed internazionale e soddisfa una vocazione fondamentale di giustizia (12).
Com’è noto, il ne bis in idem sostanziale – sul versante interno – vieta, nelle ipotesi di concorso di norme (13), di addebitare più volte lo stesso fatto al medesimo
( 11 ) Le materie del market abuse e dell’iva rientrano, invece, fra quelle di attuazione del
diritto dell’Unione.
( 12 ) Sul principio del ne bis in idem processuale, cfr. Astarita, Ne bis in idem, in Enc.
Dir., Milano, 2010, 773-743; Id., Ne bis in idem tra rimedi sanzionatori interni e spirito europeo, in Procedura penale e garanzie europee, a cura di Gaito, Torino, 2006, 145; Zumbo, Duplicazione di procedimento e ne bis in idem, in Giust. pen., 2007, 194. Nella manualistica,
Tranchina, L’esecuzione, in Diritto processuale penale, II, a cura di Siracusano-Galati-Tranchina-Zappalà, Milano, 2004, 577; Tonini, Lineamenti di diritto processuale penale, Milano,
2014, 520 ss.
( 13 ) Per un approfondimento sul concorso di norme, cfr. Frosali, Concorso di norme e
concorso di reati, Città di Castello, 1937; Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1996; Pagliaro, Concorso di norme (diritto penale), in Enc. Dir., VIII,
Milano, 1961, 545 ss.; Papa, Le qualificazioni giuridiche multiple nel diritto penale. Contributo
allo studio del concorso apparente di norme, Giappichelli, 1997; Romano, Il rapporto tra norme penali. Intertemporalità, spazialità, coesistenza, Milano, 1996; Siniscalco, Il concorso apparente di norme nell’ordinamento penale italiano, Milano, 1961.
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COMMENTI A SENTENZA
In altre parole, con l’entrata in vigore del d. lgs. 10.3.2000, n. 74, è stata
abolita ogni sanzione penale per l’omesso versamento delle ritenute, come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza dell’epoca (sez. 3, n. 3714 del
21.11.2000, Piacente, Rv. 218183; sez. 3, n. 39178 del 5.10.2001, Romagnoli,
Rv. 220360), restando solo la sanzione amministrativa di cui alla citata previsione del comma 1 dell’art. 13 d.lgs. 18.12.1997, n. 471.
Con l’introduzione dell’art. 10 bis nel d. lgs. 10.3.2000, n. 74, operata dall’art. 1, comma 414, l. 30.12.2004, n. 311, è stata ripristinata la sanzione penale
in relazione al mancato versamento delle ritenute entro il termine previsto per
la presentazione della dichiarazione annuale, purché fosse raggiunta una certa
soglia di omissione (C 50.000) e si trattasse di ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti.
2. GIURISPRUDENZA NAZIONALE IN MATERIA
(v. art. 94 RdP e punto 22, 2o paragrafo, delle Raccomandazioni)
Sulla disposizione in esame era insorto in giurisprudenza un contrasto circa
l’applicabilità della sanzione penale di cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000 (entrato
autore, a garanzia di equità e certezza giuridica (14). Strettamente correlato al ne bis
in idem sostanziale è il divieto di bis in idem processuale che, invece, preclude l’inizio o la prosecuzione di un procedimento penale per fatti già giudicati, salvaguardando la finalità di giustizia sostanziale che il primo vuole perseguire. Al riguardo,
aspetto dirimente è se il fatto debba essere inteso in senso naturalistico, ovvero un
determinato comportamento visto nella sua individualità storica, o in senso normativo, risolvendosi nella valutazione giuridica della fattispecie legale (15).
Relativamente al ne bis in idem processuale, il riferimento normativo è contenuto nell’art. 649 c.p.p. (16) – sul piano nazionale – nonché nel Patto sui diritti civili
( 14 ) Così, Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Cedam, 2013, 482. Il principio del
ne bis in idem è un principio di diritto positivo non codificato, ma desumibile dal dato legislativo, ad esempio dagli artt. 15 e 84 c.p., o dalle clausole di riserva.
( 15 ) Sul punto, cfr. Lozzi, Profili di una indagine sui rapporti tra «ne bis in idem» e concorso formale di reati, Milano, 1974, 39-55. L’Autore sostiene «l’inaccettabilità della tesi del
fatto in senso naturalistico giacché non si può prescindere da una valutazione normativa al fine di stabilire quali elementi, nel complesso di quelli che integrano una determinata situazione storica, debbano essere presi dal giudice come giuridicamente rilevanti (...). Pure la concezione normativa del fatto, perlomeno intesa con riferimento alla nozione di fattispecie legale,
è da respingere, considerata l’irrilevanza del mutamento del titolo di reato per stabilire l’identità o no dei fatti oggetto di successivi procedimenti (...). [dunque] per l’individuazione della
nozione di fatto non si può prendere in considerazione soltanto la situazione storica o soltanto lo schema legale, ma bisogna seguire un a via intermedia che tenga conto di entrambi».
( 16 ) L’art. 649 c.p.p. così recita: «L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale
per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il
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in vigore in data 10.1.2005) in caso di omissioni dei versamenti delle ritenute
relative all’anno 2004 avvenute entro la scadenza del 31.10.2005 (prevista quale
termine per la presentazione della dichiarazione mod. 770/2005 ordinario),
condotte già sanzionate dall’illecito amministrativo di cui all’art. 13 d. ls. 471/
1997.
La questione riguardava, da un lato, il problema della successione nel tempo delle norme sanzionatorie (penali ed amministrative) sopra riportate – questione non rilevante nel caso di specie – e, dall’altro lato, il rapporto di «specialità» o meno tra i due illeciti – questione rilevante nel caso di specie.
Secondo un orientamento (inaugurato da Cass. Pen., sez. 3, n. 25875 del
26.5.2010, Olivieri, Rv. 248151, e seguito poi da sez. 3, n. 7588 del 12.1.2012,
Screti; sez. 3, Sentenza n. 27719 del 4.4.2012, Bregoli; sez. 3, n. 27720 del
4.4.2012, Fumo; sez. 3, n. 47606 del 4.4.2012, Verini; sez. 3, n. 178 del
5.7.2012, dep. 2013, Spriano) non è ravvisabile alcuna sovrapposizione fra l’art.
10 bis d. lgs. 74/2000 e l’art. 13 d. lgs. 471/1997.
Mentre infatti la sanzione amministrativa prevista da quest’ultima norma
riguarda il mancato rispetto del termine del giorno sedici del mese successivo a
e politici e nell’art. 4 del Prot. 7 CEDU (17). Inoltre, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e, dunque, della Carta, il divieto di bis in idem ha un nuovo referente normativo nell’art. 50 CDFUE, la cui portata ha da subito sollevato dubbi.
Infatti, mentre il principio sancito dall’art. 4 Prot. 7 CEDU è un fondamentale
diritto soggettivo dell’individuo, corollario del giusto processo delineato nei suoi
basilari canoni nell’art. 6 della Convenzione – azionabile mediante ricorso diretto
alla Corte europea – l’art. 50 CDFUE è una norma che sancisce l’inderogabilità del
principio in seno all’UE ed è altresì direttamente ed immediatamente applicabile
nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno (18).
La ratio del divieto ha, da un lato, carattere preventivo, volendo impedire una
inutile duplicazione procedimentale per «fatti» che siano, o siano già stati, oggetto di
accertamento processuale; dall’altro lato, sta nella necessità di evitare che per lo stesso fatto un soggetto possa essere più volte sottoposto ad un procedimento penale.
Conseguentemente, non è ammesso che in pendenza di un procedimento venga iniziato, per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, un nuovo procedimento.
La giurisprudenza della Corte EDU e della CGUE segue il medesimo filone in-
grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la
causa nel dispositivo».
( 17 ) L’Italia, in sede di ratifica, aveva apposto una riserva, stabilendo il riferimento a reati
procedure e sanzioni qualificati come tali dalla legge italiana.
( 18 ) In tal senso, Trib. Milano, Uff. Ind. Prel., 6.7.2011. A commento della sentenza, cfr.
Vozza, Verso un nuovo «volto» del ne bis in idem internazionale nell’Unione Europea?, in
www.penalecontemporaneo.it, 3.5.2012.
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COMMENTI A SENTENZA
quello di effettuazione delle ritenute, fissato per il versamento delle stesse all’Erario, la reintrodotta sanzione penale ha ad oggetto il mancato versamento,
oltre un certo ammontare, delle ritenute complessivamente operate nell’anno
di imposta, entro il termine (30 settembre, per il Mod. 770 semplificato, ovvero
31 ottobre, per il Mod. 770 ordinario) stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa all’anno precedente.
Secondo questo orientamento, è solo in ragione del protrarsi della inadempienza, oltre la soglia stabilita, della permanente obbligazione tributaria fino al
maturare di tale scadenza, che si verifica l’evento dannoso per l’Erario e la consumazione della prevista fattispecie penale, non ostando al riguardo il già verificatosi mancato rispetto del termine stabilito per i versamenti mensili, rilevante esclusivamente sul piano della normativa amministrativa fiscale.
Sulla stessa linea si colloca sez. 3, n. 7588 del 12.1.2012, Screti, secondo la
quale l’art. 10 bis configurerebbe un reato omissivo istantaneo punito a titolo di
dolo generico, consumantesi nel momento di scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione nell’anno successivo a quello di effettuazione
delle ritenute.
terpretativo, così da rendere possibile una trattazione unitaria della questione esaminata. Le disposizioni normative richiamate muovono dal presupposto della identità fra «fatto» già giudicato (o per il quale pende già un procedimento) e «fatto»
nuovamente oggetto di accertamento giudiziario. Ciò pone una previa verifica del
«fatto» e in quale misura esso possa considerarsi «identico» (19).
Di norma, il ne bis in idem non opera qualora il fatto, in relazione al quale sia
intervenuta sentenza irrevocabile, determini la violazione di diverse disposizioni di
legge. In tale ipotesi potrà aversi un secondo giudizio, purché non sia logicamente
incompatibile col primo. Perché, invece, un soggetto non venga giudicato una seconda volta in relazione allo stesso fatto materiale, ciò che conta è una valutazione
del fatto inteso in senso naturalistico – con riferimento all’aspetto materiale dei fatti
di causa – rimanendo esclusa la rilevanza della sua qualificazione giuridica.
( 19 ) In tal senso, cfr. CEDU, Serguei Zolotoukhine c. Russia, 14939/2003, consultabile in
www.echr.coe.int; Corte di Giustizia, Von Esbroeck, C-436-04, in Cass. pen., 2006, 2295 ss.
Circa la nozione di identità del fatto nel diritto nazionale, cfr. Cass. pen., sez. un., 34655 del
28.6.2005, in Cass. pen., 2006, 8 ss. Sul punto, la Suprema Corte ha affermato che nell’ordinamento interno – in relazione all’art. 649 c.p.p. – ai fini della preclusione connessa al principio
del ne bis in idem, l’identità del fatto sussiste quando via sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta,
evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. Per ulteriori approfondimenti sulla nozione di «fatto» nel diritto penale interno, cfr. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, 1930; Fiandaca, Fatto nel diritto penale, in Dig. pen.,
V, Torino, 1991, 152 ss.; Pagliaro, Fatto, in Enc. Dir., XVI, Milano, 1967, 951 ss.; Id., Il fatto
di reato, Palermo, 1960; Romano, Il rapporto tra norme penali, cit., 20-26, 306-312; Vassalli,
Il fatto negli elementi del reato, in Studi in memoria di Delitala, III, Milano, 1984, 1643 ss.
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In senso contrario all’orientamento illustrato, Cass. Pen., sez. 3, n. 18757
del 8.2.2012, Germani, Rv. 252619 (seguita poi anche da sez. 3, n. 15025 del
9.10.2012, dep. 2013, Innocenti), la quale, richiamandosi espressamente al criterio già elaborato da altre decisioni (sez. 3, n. 14160 del 3.11.1999, Di Grisostomo, Rv. 214917), individua nel rapporto fra l’art. 13 d. lgs. 18.12.1997, n.
471, e l’art. 10 bis d. lgs. 10.3.2000, n. 74, una successione di norme sanzionatorie, regolante in sostanza, con spostamento del termine di adempimento e inasprimento repressivo, la stessa condotta omissiva, con la conseguenza che il
momento di consumazione dell’illecito, non importa se amministrativo o penale, non può essere che unico e identificarsi nella scadenza del termine utile per
realizzare la condotta doverosa, quale stabilito dalla legge vigente al momento
in cui i singoli versamenti dovevano essere effettuati.
Secondo tale orientamento, l’eventuale lettura della nuova norma penale
come statuizione prorogante con effetto retroattivo termini già scaduti, con
correlativa restituzione di effetti a illeciti già consumati e perfezionati, si porrebbe in palese contrasto con il divieto del bis in idem.
E ciò tanto più in considerazione della sostanziale identità, negata dall’indirizzo di segno opposto, tra la condotta prevista e punita in via amministrativa
I rapporti fra ne bis in idem sostanziale e ne bis in idem processuale si articolano
in modo peculiare e, per certi aspetti, problematico, nei casi in cui la legge preveda
che siano applicate sanzioni di diversa natura per il «medesimo fatto», tramite procedimenti di diverso tipo, ovvero amministrativo e penale.
In particolare, ciò si verifica nei sistemi sanzionatori basati sul cd. doppio binario, ove, eventualmente, il fenomeno del concorso apparente della norma amministrativa con quella penale può essere risolto ricorrendo al principio di specialità,
che, scongiurando il concorso formale di reati, esclude l’applicazione cumulativa
della pena e della sanzione amministrativa.
È opportuno, però, rilevare fin da ora che secondo la Corte di Giustizia europea il principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta non osta a che un
ordinamento imponga, per le medesime violazioni, una sanzione amministrativa e
successivamente una sanzione penale. Ciò significa che, in astratto, non è fatto divieto agli Stati membri di prevedere sanzioni amministrative e penali per una determinata condotta, ma ove la sanzione che il legislatore qualifica come amministrativa
dovesse avere natura afflittiva alla stregua di quelle penali, allora saremmo di fronte
ad una possibile violazione del ne bis in idem.
Al riguardo, si ravvisa l’opportunità di richiamare un’importante pronuncia, la
sentenza «Engel» (20), i cui criteri costituiscono chiaro parametro per la valutazione
delle norme e delle sanzioni. Infatti, tale sentenza delinea i criteri per stabilire se
norme e sanzioni abbiano o meno natura penale, avendo riguardo: a) alla qualifica-
( 20 ) Sentenza CEDU, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8.6.1976, in www.duitbase.it.
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COMMENTI A SENTENZA
dall’art. 13 d. lgs. n. 671 del 1997 e quella, penalmente rilevante, sanzionata
dall’art. 10 bis d. lgs. 10.3.2000, n. 74. Sul contrasto sono intervenute le Sezioni
Unite Penali con la sentenza del 28.3-12.9.2013, n. 37425 (ric. Favellato) la
quale ha affermato che:
a) con l’introduzione dell’art. 10 bis nel d. lgs. 74 del 2000 non si è formalmente determinata la sostituzione di un regime sanzionatorio ad un altro,
ma si è aggiunta, alla generale previsione delle fattispecie di illecito amministrativo di cui al comma 1 dell’art. 13 d. lgs. 18.12.1997, n. 471 (rimasto in vigore),
comprendenti l’omesso versamento, alle previste scadenze mensili, delle ritenute alla fonte, la previsione di una specifica fattispecie penale, ruotante sì nell’ambito dello stesso fenomeno omissivo ma ancorata a presupposti fattuali e
temporali nuovi e diversi. In questo caso, quindi, non si pone un problema di
successione di norme sanzionatorie, bensì una questione di eventuale concorso
apparente di norme (penale ed amministrativa), ed è una questione che, evidentemente, non riguarda solo l’anno 2004 ma anche gli anni successivi;
b) detto concorso è regolato dal principio di specialità, quale previsto in
generale nell’art. 9, comma 1, l. 24.11.1981, n. 689 (cfr. sez. 6, n. 11395 del
1.10.1993, Bellone, Rv.196065) – secondo il quale «Quando uno stesso fatto è
zione giuridica della violazione nell’ordinamento nazionale; b) alla natura effettiva
della violazione; c) al grado di severità della sanzione.
Come è stato affermato dalla Corte EDU, per poter qualificare come penale
una sanzione, occorre adottare un’impostazione «sostanzialistica», che prescinda
dal nomen juris, nel senso che una sanzione può qualificarsi come penale o meno a
seconda della condotta materiale della violazione e della natura afflittiva della stessa
(21). In particolare, in base al criterio della natura sostanziale dell’illecito commesso,
devono per contro qualificarsi come penali quelle norme sanzionatorie rivolte alla
generalità dei consociati, che perseguono lo scopo di prevenire, reprimere o punire
condotte che siano lesive di beni giuridici della collettività, quali sono gli interessi
che secondo il diritto degli Stati contraenti, sono normalmente tutelati dal diritto
penale (22).
Pertanto, la Corte di Strasburgo afferma la prevalenza della sostanza sulla forma, con l’obiettivo di garantire all’individuo una protezione maggiore di fronte all’esercizio del potere sanzionatorio degli Stati membri, seppur lasciando a questi ultimi ampi margini di apprezzamento. Ciò che il principio del ne bis in idem vuole
( 21 ) La tendenza «antinominalistica» della Corte di Strasburgo valorizza le caratteristiche
sostanziali della sanzione, travolgendo le tradizionali aree di intervento penale ed amministrativa. Per ulteriori considerazioni sul punto, cfr. Recchione, Pronunce della Corte EDU e
giurisprudenza della Cassazione tra tutela dei diritti individuali e salvaguardia degli interessi
collettivi, in www.archiviopenale.it, 3/2014.
( 22 ) Barel-Foltran, La legge europea 2013 e le sanzioni in materia di violazione degli obblighi dichiarativi, in Profili critici del diritto penale tributario, a cura di Borsari, Padova University Press, 2013, 357 ss.
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punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono
sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale» –, e che trova specifica espressione, nella materia in esame, nell’art. 19, comma 1, d. lgs. 74 del
2000, secondo il quale «Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II [precisamente dedicato ai «delitti»] e da una disposizione che
prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale».
c) per stabilire se nel caso in esame si è in presenza di un concorso apparente o effettivo di norme, si tratta, dunque, di verificare se le norme sanzionatorie in questione riguardino o meno lo «stesso fatto».
La risposta a tale quesito, secondo le Sezioni Unite, è negativa.
Entrambi gli illeciti in esame, invero, sono illeciti omissivi propri, integrati
dal mero mancato compimento di un’azione dovuta.
Gli elementi costitutivi dell’illecito omissivo (di mera condotta) sono: a) i
presupposti, cioè la situazione tipica da cui sorge l’obbligo di agire; b) la condotta omissiva (non facere quod debetur); e) il termine, esplicito o implicito, alla cui
scadenza l’inadempimento dell’obbligo assume rilevanza e si consuma l’illecito.
vietare non è la contemporanea applicazione di una sanzione amministrativa e di
una penale, ma soltanto l’applicazione di due sanzioni, entrambe di natura penale,
a carico dello stesso soggetto e per la stessa condotta materiale.
3. L’importante decisione della CEDU in materia finanziaria – a tutti nota come «Grande Stevens» (23) – ha determinato l’ingresso nel nostro ordinamento del
diritto al ne bis in idem di fonte convenzionale e comportato, come rilevato da attenta dottrina (24), rilevanti conseguenze di ordine pratico in tutti quei casi in cui,
per uno stesso fatto, troverebbero applicazione sia le sanzioni amministrative che
quelle penali e, per quanto qui rileva, nel settore del diritto penale tributario, caratterizzato dal sistema del «doppio binario».
Per tale ragione, appare opportuno richiamare brevemente la vicenda Grande
Stevens.
Si trattava di un caso di manipolazione del mercato, ove alcune società per azioni avevano dato vita ad una complessa vicenda finanziaria nel tentativo di conservare il controllo azionario della società madre. La condotta posta in essere era, però,
riconducibile alle ipotesi di manipolazione del mercato disciplinate dagli artt. 185 e
187 ter T.U.F., che prevedono, rispettivamente, un illecito penale ed un illecito amministrativo.
( 23 ) Cfr. supra nota 7.
( 24 ) Sul punto, cfr. De Amicis, Ne bis in idem e «doppio binario» sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza «Grande Stevens» nell’ordinamento italiano, in www.penalecontemporaneo.it, 30 giugno 2014; Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem:
verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?, in www.penalecontemporano.it.,
30.6.2014.
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COMMENTI A SENTENZA
Nell’illecito amministrativo di cui al comma 1 dell’art. 13 d. lgs.
18.12.1997, n. 471, il presupposto è costituito dalla erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte (artt. 23 ss. d.P.R. n.
600 del 1973) e di versamento della stessa all’Erario con le modalità stabilite
(art. 3 d.P.R. n. 602 del 1973), la condotta omissiva si concretizza nel mancato
versamento della ritenuta mensile e il termine per l’adempimento è fissato al
giorno quindici (poi passato al sedici) del mese successivo a quello di effettuazione della ritenuta (art. 8 d.P.R. n. 602 del 1973).
Nell’illecito penale di cui all’art. 10 bis d. lgs. 10.3.2000, n. 74, il presupposto è costituito sia dalla erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione delle ritenute alla fonte (artt. 23 ss. d.P.R. n. 600 del 1973) e di versamento delle stesse all’Erario con le modalità stabilite (art. 3 d.P.R. n. 602 del 1973),
sia dal rilascio al soggetto sostituito di una certificazione attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate nell’anno precedente (v. art. 4, commi 6 ter e 6 quater, d.P.R. 22.7.1998, n. 322); la condotta
omissiva si concretizza nel mancato versamento, per un ammontare superiore a
Euro cinquantamila, delle ritenute complessivamente operate nell’anno di imposta e risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti; il termine per
Più esattamente, era stato avviato il procedimento amministrativo per l’illecito
di cui all’art. 187 ter T.U.F., che si era concluso con l’inflizione, da parte della Consob, della sanzione pecuniaria ivi prevista (oltre alle sanzioni accessorie previste
dall’art. 187 quater T.U.F.). Parallelamente si celebrava il procedimento penale che
si concludeva, dopo un iter tortuoso, con la condanna degli imputati per il reato di
cui all’art. 185 T.U.F.
La Corte EDU, adita dagli imputati, condannava l’Italia per la violazione dell’art. 6, § 1, CEDU (diritto a un equo processo) e dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla
Convenzione (diritto di non essere giudicato o punito due volte). Nella motivazione
la Corte ricorda anzitutto che ciò che conta ai fini della garanzia del ne bis in idem è
che il secondo procedimento abbia ad oggetto fatti che sono nella sostanza i medesimi che hanno costituito l’oggetto del primo procedimento, già conclusosi con un
provvedimento definitivo.
Passato in giudicato il procedimento originato dalla contestazione dell’illecito
amministrativo di cui all’art. 187 ter, e rilevata la pendenza di quello penale, avente
ad oggetto l’omologa accusa del delitto di manipolazione del mercato di cui all’art.
185 T.U.F., la Corte EDU ha richiamato la propria elaborazione giurisprudenziale,
secondo cui non rileva se gli elementi costitutivi del fatto tipizzato dalle due norme
siano o meno identici, bensì solo se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla Consob e
dinanzi ai giudici penali «siano riconducibili alla stessa condotta».
La portata del principio secondo la CEDU va intesa come divieto di giudicare
una persona per una seconda «infrazione», qualora questa scaturisca dagli stessi
fatti o da fatti sostanzialmente identici: dal raffronto fra gli atti dei vari procedimenti, dunque, è possibile desumere la presenza del requisito dell’identità sostanziale
dei fatti posti alla base degli addebiti, assumendo quali parametri di riferimento
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l’adempimento è individuato in quello previsto (in riferimento all’epoca dei fatti, 30 settembre ovvero 31 ottobre, a seconda dell’utilizzo del Modello 770 semplificato o – come avvenuto nel caso di specie – del Modello 770 ordinario: art.
4 d.P.R. n. 332 del 1998) per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa all’anno precedente.
Secondo le Sezioni Unite, pur nella comunanza di una parte dei presupposti (erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione delle ritenute
alla fonte e di versamento delle stesse all’Erario con le modalità stabilite) e della
condotta (omissione di uno o più dei versamenti mensili dovuti), gli elementi
costitutivi dei due illeciti divergono in alcune componenti essenziali, rappresentate in particolare:
– al requisito della «certificazione» delle ritenute, richiesto per il solo illecito penale;
– dalla soglia minima dell’omissione, richiesta per il solo illecito penale;
– dal termine di riferimento per l’assunzione di rilevanza dell’omissione,
fissato, per l’illecito amministrativo, al giorno quindici (poi passato al sedici)
del mese successivo a quello di effettuazione delle ritenute, e coincidente, per
l’insieme delle circostanze fattuali concrete relative allo stesso autore e indissolubilmente legate fra loro nel tempo e nello spazio.
Ribadisce ancora la Corte EDU, rafforzando in misura significativa la tutela
sottesa al divieto di doppio giudizio, il principio secondo cui anche l’inflizione di
una sanzione amministrativa irrogata con sentenza di condanna definitiva può precludere l’avvio di un procedimento penale nei confronti della medesima persona, in
relazione agli stessi fatti che le vengono addebitati.
Perno della questione è la qualificazione anche della procedura amministrativa,
e delle sanzioni a cui essa è funzionale, come «sostanzialmente penale», nonostante
il nomen iuris adottato dal legislatore nazionale; con conseguente attrazione di tutte
le garanzie che il sistema convenzionale prevede per la materia penale (25).
Sembra chiaro che tale visuale «sostanzialistica» induce a rimeditare l’intero sistema della depenalizzazione, sollecitando il legislatore – anche sulla base delle direttive UE – ad una rilettura organica che scongiuri indebite duplicazioni di procedimenti e sanzioni (26).
( 25 ) Secondo i giudici di Strasburgo le sanzioni amministrative sono tali solo nominalmente, ma di fatto sono penali, in ragioni della loro severità, derivante ora dalla loro quantificazione per l’importo in concreto inflitto e in astratto comminabile, sia delle sanzioni accessorie, sia, infine, in ragione delle loro ripercussioni complessive sugli interessi del condannato.
Al riguardo, cfr. la Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, n. 35 del
2014, Considerazioni sul principio del ne bis in idem nella recente giurisprudenza europea: la
sentenza Grande Stevens e altri contro Italia, in www.cortedicassazione.it.
( 26 ) Per analoghe considerazioni, cfr. De Amicis, Ne bis in idem, cit., secondo il quale
«in materia di market abuse sembra necessario, in definitiva, un intervento del legislatore che,
valorizzando i criteri di ordine generale dettati dalla direttiva 2014/57/ue del 16 aprile 2014
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l’illecito penale, con quello previsto per la presentazione (entro le date del 30
settembre ovvero del 31 ottobre) della dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa al precedente periodo d’imposta.
Il Supremo Collegio ricostruisce, pertanto, il rapporto fra i due illeciti in
termini, non di specialità, ma piuttosto di «progressione»: la fattispecie penale
– secondo l’indirizzo di politicacriminale adottato in generale dal d. lgs. 74 del
2000 (su cui v. in particolare Corte cost., sent. n. 49 del 2002) – costituisce in
sostanza una violazione molto più grave di quella amministrativa e, pur contenendo necessariamente quest’ultima (senza almeno una violazione del termine
mensile non si possono evidentemente determinare i presupposti del reato), la
arricchisce di elementi essenziali (certificazione, soglia, termine allungato) che
non sono complessivamente riconducibili al paradigma della specialità (che,
ove operante, comporterebbe ovviamente l’applicazione del solo illecito penale), in quanto recano decisivi segmenti comportamentali (in riferimento al rilascio della certificazione – che erroneamente la sentenza Germani colloca nell’anno di effettuazione delle ritenute – e al protrarsi della condotta omissiva),
che si collocano temporalmente in un momento successivo al compimento dell’illecito amministrativo.
Non può peraltro sottacersi l’importanza della ordinanza con la quale la Sezione quinta della Suprema Corte ha sollevato questione di legittimità costituzionale
(27) rilevando, sulla scia della sentenza Grande Stevens, la violazione del ne bis in
idem in materia di market abuse, nella misura in cui le sanzioni «amministrative» riverberano i propri effetti anche sulla determinazione della successiva sanzione penale, soprattutto ove alla sanzione amministrativa si debba riconoscere natura penale ai sensi della CEDU e dei relativi Protocolli.
Inoltre, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione ha sollevato analoga
questione di legittimità costituzionale (28), in riferimento agli artt. 2 e 4 prot. 7 CEDU, in un certo senso «rovesciata», poiché è stato già definito il procedimento penale e la violazione del ne bis in idem è fatta valere con riferimento al procedimento
amministrativo.
4. Come rilevato, l’ordinanza in commento trae origine dal caso Grande Stevens, nonché dalle pronunce della Corte di giustizia in materia fiscale, di cui sono
stati destinatari altri Stati membri.
in tema di sanzioni penali per gli abusi di mercato, introduca efficaci meccanismi di raccordo
nello sviluppo delle forme procedimentali di “diversa” origine ed individui le fattispecie
“gravi” cui assegnare valenza penale, disegnando le linee di un doppio binario sanzionatorio
che renda oggettive, oltre che ragionevolmente percepibili dal senso comune, le esigenze di
tutela legate alla previsione di una doppia modulazione della sanzione, nel rispetto del principio del ne bis in idem e degli altri diritti fondamentali del cittadino europeo».
( 27 ) Cfr. supra nota 6.
( 28 ) Cass., sez. trib. civ., ord. 6.11.2014 (dep. 21.1.2015) consultabile in www.penalecontemporaneo.it.
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Le sezioni unite concludono, quindi, nel senso che la presenza della previsione dell’illecito amministrativo di cui al comma 1 dell’art. 13 d. lgs.
18.12.1997, n. 471, e la consumazione in concreto di esso, non sono di ostacolo
all’applicazione, in riferimento allo stesso periodo d’imposta e nella ricorrenza
di tutti gli specifici presupposti, della statuizione relativa all’illecito penale di
cui all’art. 10 bis d. lgs. 10.3.2000, n. 74.
La circostanza che in tal modo un fatto integrante uno o più illeciti minori
(omissione di uno o più versamenti di ritenute nel termine mensile per un ammontare complessivamente superiore a Euro cinquantamila) assurga, in punto
di fatto, a presupposto dell’illecito maggiore, richiedente a sua volta ulteriori
requisiti e caratterizzato da un diverso tempo di realizzazione, argomentano i
Giudici della Suprema Corte, non appare motivo sufficiente per escludere la
concorrente applicazione di entrambi gli illeciti.
Secondo il Supremo consesso (si riporta testualmente) «la conclusione così
assunta in ordine al rapporto sussistente, in via generale, fra le disposizioni in
discorso non si pone in contrasto né con l’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, né con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
che sanciscono il principio del ne bis in idem in materia penale. Anzitutto, inve-
Infatti, le argomentazioni del Tribunale di Torino trovano sostegno, indubbiamente, anche in un rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Haparanda (Svezia) e della relativa pronuncia della CGUE (29) nell’ambito di un procedimento penale per frode fiscale aggravata avviato contro un soggetto già condannato definitivamente al pagamento di una sovrattassa di natura fiscale per lo stesso fatto di inadempimento di obblighi dichiarativi e contributivi in tema iva.
In particolare, dinanzi al Tribunale di primo grado era sorta la questione circa
la ammissibilità del procedimento penale nei confronti del sig. H. Akerberg Fransson, alla luce degli artt. 4 Prot. n. 7 CEDU e 50 CDFUE e in ragione della sanzione
fiscale già applicata.
Anzitutto, la Corte di Giustizia ha affermato che l’art. 50 CDFUE non osta a
che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi
in materia di IVA, una combinazione di sovrattasse e sanzioni penali, al fine di assicurare la riscossione delle entrate provenienti dall’iva e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione. Tuttavia, qualora la sovrattassa abbia natura penale, ai
sensi dell’art. 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a che
procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona.
Per valutare la natura penale delle sanzioni tributarie, la Corte richiama poi la
( 29 ) Sentenza Åklagaren c. Hans Åkerberg Franssonn, C-617/10. A commento, cfr. Vozza, I confini applicativi del principio del ne bis in idem interno in materia penale: un recente
contributo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in www.penalecontemporaneo.it,
15.4.2013.
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ro, nella specie, come si è visto, non si può parlare di identità del fatto; in ogni
caso, poi, il principio suddetto si riferisce solo ai procedimenti penali e non
può, quindi, riguardare l’ipotesi dell’applicazione congiunta di sanzione penale
e sanzione amministrativa tributaria (in tal senso, espressamente, Corte di giustizia U.E., 26.2.2013, Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson)».
Tale orientamento è stato da ultimo ribadito da Cass. Pen., 8.4-15.5.2014,
n. 20266, che ha nuovamente escluso che il concorso tra sanzioni amministrative e penali possa determinare una violazione del principio del ne bis in idem.
3. DISPOSIZIONI DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
(v. art. 94 RdP e punto 23 delle Raccomandazioni)
Il diritto dell’Unione
L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, intitolato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato»,
così recita: «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il
quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».
giurisprudenza «Engel», stabilendo, infine, che spetta al giudice del rinvio – avuto
riguardo alla qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, alla natura
dell’illecito, nonché alla natura e al grado di severità della sanzione – valutare se
possa o meno procedere al cumulo di sanzioni tributarie e penali o se, diversamente, ciò determini una violazione del ne bis in idem (30).
Da ultimo, sorte analoga è spettata nuovamente alla Svezia (31) e alla Finlandia
32
( ), in due rinvii, rispettivamente, per evasione d’imposta e frode fiscale, entrambi
per violazione del ne bis in idem, ai sensi dell’art. 4 prot. 7 CEDU.
La Corte ha seguito un iter argomentativo pressoché identico, verificando la
natura penale dei procedimenti, l’identità del fatto, il giudicato e la duplicazione
dei procedimenti.
In particolare, la Corte ha ribadito che i procedimenti fiscali per l’applicazione
di soprattasse devono essere considerati penali e che il presupposto della medesima
infrazione sussiste qualora i fatti oggetto dei due procedimenti «costituiscono un
insieme di circostanze fattuali concrete concernenti lo stesso oggetto e collegate tra
loro nel tempo e nello spazio».
Pertanto, ancora una volta, si afferma che due procedimenti paralleli, in assen-
( 30 ) Il concetto «flessibile» di natura sostanzialmente penale della sanzione pone dubbi
di compatibilità col diritto interno, soprattutto in ordinamenti come il nostro, improntati al
principio di legalità, nella misura in cui si rimette al giudice nazionale la valutazione della natura penale di una sanzione qualificata, invece, come amministrativa dal legislatore.
( 31 ) Sul punto, cfr. nota 9.
( 32 ) Cedu, Nykenen c. Finlandia, 20.5.2014, n. 11828, in www.archiviopenale.it.
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L’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ne
definisce nei seguenti termini l’ambito di applicazione: «1. Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione
nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo
le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati. 2. La presente Carta non estende l’ambito di applicazione
del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, ne introduce
competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, ne modifica le competenze e i
compiti definiti nei trattati».
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
Il protocollo n. 7 integrativo della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Strasburgo il
22.11.1984, al suo articolo 4, intitolato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte», dispone quanto segue: «1. Nessuno può essere perseguito o con-
za di giudicato, non sono vietati dalla CEDU, purché il secondo venga interrotto
quando il primo è divenuto definitivo e la sanzione in concreto irrogata abbia natura penale in aderenza ai parametri suesposti.
5. Ai fini di un migliore inquadramento della questione de qua, relativamente
alla normativa interna, appare utile una breve ricostruzione dell’evoluzione del sistema penal-tributario, relativamente ai rapporti tra illecito penale ed illecito amministrativo.
Com’è noto, l’art. 21 della l. 4/1929 disciplinava la cd. pregiudiziale tributaria,
disponendo che, in relazione ai reati previsti dalle leggi sui tributi diretti, l’azione
penale non poteva essere esercitata se non prima della definitività dell’accertamento del tributo, che faceva stato per il Giudice penale, il quale non poteva sindacare
il giudizio dell’ufficio finanziario, ma poteva soltanto rifare un’indagine di fatto sul
concorso degli estremi del reato, fermo l’esito dell’accertamento anzidetto (33).
Agli inizi degli anni ’80 si decise di abolire l’istituto della pregiudiziale tributaria. Si ritenne, tuttavia, di salvaguardare l’esigenza cui la pregiudiziale era stata
preordinata, e cioè evitare di affidare al giudice penale accertamenti complessi in materia fiscale. La soluzione fu quella di sganciare gli illeciti penali dall’evasione d’imposta e farli coincidere con condotte prodromiche all’evasione, prevedendo all’art.
10 della l. 516/1982, il principio del cumulo fra sanzioni amministrative e penali.
Tuttavia, con l’ingolfarsi del sistema processuale, si rese necessaria la riforma
operata dal d. lgs. 74/2000, che concentrò la risposta repressiva su un gruppo abba-
( 33 ) Sechi, Diritto penale e processuale finanziario, Milano, 1966, 124.
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dannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il
quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato.
2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura
del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta. 3.
Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4.11.1950 (in prosieguo: la “CEDU”)».
4. BREVE ILLUSTRAZIONE DEI MOTIVI DEL RINVIO PREGIUDIZIALE
(v. art. 94 RdP e punto 22, 3o paragrafo, delle Raccomandazioni)
Rinvio per interpretazione
Ai sensi dell’articolo 267 TFUE, un giudice nazionale, adito in una controversia concernente il diritto dell’Unione il cui significato o la cui portata non gli
siano chiari, può, o eventualmente deve, adire la Corte su questioni interpreta-
stanza ristretto di violazioni prevalentemente attinenti all’autoaccertamento del debito di imposta, ma che destò numerosi dubbi ed interrogativi. La riforma del 2000
ha introdotto il principio di specialità (34) fra sanzioni penali e sanzioni amministrative all’art. 19 (35) del d. lgs. 74/2000, analogamente a quanto previsto dall’art. 9 (36)
( 34 ) Sul principio di specialità, Busson, Il principio di specialità, in La riforma del diritto
penale tributario. D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, a cura di Nannucci-D’Avirro, Padova, 2000,
341 ss.; Capolupo, Il principio di specialità, in La riforma del sistema penale tributario. D. lgs.
10 marzo 2000, n. 74, a cura di Capolupo-Pezzuto, Milano, 2000, 136 ss.; Caraccioli-Falsitta, Il principio di non cumulabilità fra sanzioni penali e sanzioni tributarie e la sua aberrante
mutilazione col decreto delegato n. 74/2000, ne Il Fisco, 2000, 9746; Traversi, Commento all’art. 19. Principio di specialità, in Diritto e procedura penale tributaria: Commentario al D. lgs.
74 del 2000, a cura di Caraccioli-Giarda-Lanzi, Padova, 2001, 477. Nella manualistica, Mantovani, Diritto penale, cit., 476 ss.; Pagliaro, Princìpi di diritto penale, Parte generale, Giuffrè, 2003, 175; Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, 5a ed., Torino, 357 ss.; Romano, Diritto penale, Parte generale, 2a ed., Cedam, 2013, 477 ss.
( 35 ) L’art. 19 stabilisce che «Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni
del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale.
Permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, che non siano
persone fisiche concorrenti nel reato».
( 36 ) L’art. 9, rubricato «Principio di specialità», così dispone: «quando uno stesso fatto è
punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale.
Tuttavia quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizio-
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tive relative alla disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi (par. 47 sentenza Franssonn cit.).
La questione del rinvio per pregiudizialità ha ad oggetto la compatibilità
della disposizione penale di cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000 rispetto al diritto
comunitario come interpretato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Nel caso in oggetto, infatti, l’imputato è già stato «condannato», in via definitiva, dalla amministrazione finanziaria per l’omesso versamento, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di
imposta, delle ritenute certificate relative all’anno di imposta 2008 per un ammontare pari a 120.394 euro.
Per la stessa condotta l’imputato è stato successivamente tratto a giudizio
per il reato di cui all’art. 10 bis cit.
La questione assume rilevanza alla luce della diversa interpretazione offerta
dalla Corte di Giustizia dell’Unione Euopea (e di Strasburgo), rispetto a quella
della giurisprudenza nazionale sopra citata, circa a) la natura penale o meno di
una sanzione amministrativa (nel nostro caso, di quella di cui all’art. 13 d. lgs.
471/1997) e, conseguentemente in caso di risposta positiva al quesito, b) circa
della l. 689/1981, secondo il quale quando uno stesso fatto è punito da una delle
fattispecie contemplate dal d. lgs. 74/2000 e da una disposizione che prevede una
sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale.
Occorre, dunque, chiedersi quale delle norme potenzialmente applicabili al
contribuente che viola la normativa tributaria (penale e amministrativa) deve considerarsi speciale rispetto all’altra. È stato rilevato che, nella maggioranza delle ipotesi (37), la disposizione speciale è quella penale, poiché prevede elementi «specializzanti» quale, ad esempio, il dolo specifico di evasione (38) e le soglie di punibilità
previste dalle singole fattispecie.
Il sistema dei rapporti fra sanzione penale e sanzione amministrativa è completato dall’art. 21 del d. lgs. 74/2000 che prevede regole particolari per consentire l’irrogazione di sanzioni amministrative anche per fatti di rilevanza penale, sospenden-
ne regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest’ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali.
Ai fatti puniti dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 30 aprile 1962, n. 283, e successive modificazioni ed integrazioni, si applicano soltanto le disposizioni penali, anche quando i fatti stessi
sono puniti con sanzioni amministrative previste da disposizioni speciali in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande».
( 37 ) Bellagamba-Cariti, I nuovi reati tributari – Commento per articolo al decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, Giuffrè, 2004, 182; Bersani, Il principio di specialità in tema di
applicazione delle sanzioni per i reati tributari: art. 21 del d.lgs. 74/2000, ne Il Fisco, 2002,
1176.
( 38 ) Salvo per le fattispecie per le quali è richiesto il dolo generico, ad esempio l’omesso
versamento di ritenute.
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la sussistenza o meno della violazione del divieto del ne bis in idem (art. 50
TFUE) qualora, per lo «stesso fatto», l’imputato sia stato tratto a giudizio avanti al giudice penale (come nel caso sottoposto a questo Giudice).
a) Natura penale della sanzione
Con la sentenza della Grande Sezione del 26.2.2013 (Åklagaren c. Hans
ÅkerbergFranssonn, C-617/10) la Corte di Giustizia ha affermato che:
a) ai fini della valutazione della natura penale delle sanzioni tributarie,
sono rilevanti tre criteri: la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, la natura dell’illecito e, infine, la natura e il grado di severità della
sanzione, come delineati nella sentenza C-GE, GS, 5.6.2012, C-489/10, Bonda § 37 (§ 35);
b) spetta al giudice nazionale «verificare» la natura penale o meno della
sanzione (§ 37) e conseguentemente, «valutare», alla luce dei criteri di cui sopra, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali ai
sensi del § 29 della stessa sentenza, circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le
rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive» (§ 36).
done l’esecuzione fino al momento in cui il procedimento penale si sia concluso. Se
ciò, indubbiamente, è diretto ad evitare l’inutile decorso dei termini di decadenza o
di prescrizione ed a garantire un’effettiva risposta sanzionatoria, tuttavia comporta
il rischio di duplicazione di procedimenti sanzionatori.
Certamente, la previsione del principio di specialità può dar luogo a fenomeni
di concorso tra norme penali ed amministrative, non sempre facilmente risolvibili,
poiché, nella maggior parte dei casi, vero è che la norma penale è quella speciale,
ma è vero anche che l’illecito amministrativo risulta talora tipizzato in modo così
minuzioso da generare dubbi circa la norma da applicare al caso concreto (39).
Il comma 2 del richiamato art. 19, prevede, invece, il cumulo di sanzioni penali
e sanzioni tributarie quando si tratta di violazioni commesse dai soggetti indicati
nell’art. 11, comma 1, d. lgs. 472/1997, che non siano persone fisiche concorrenti
nel reato.
Ciò costituisce un elemento di dubbia ragionevolezza nella misura in cui il responsabile solidale per la sanzione amministrativa – sia un ente collettivo che una
persona fisica non concorrente – soggiace in ogni caso alla sanzione amministrati-
( 39 ) Al riguardo, cfr. Perini, Reati tributari, in Dig. disc. pen., Torino, 2013, 345 ss. L’Autore richiama un esempio su tutti: la specifica previsione dell’aggravamento delle sanzioni
amministrative conseguenti all’infedele o all’omessa presentazione di dichiarazioni rilevanti
per l’imposizione diretta qualora le violazioni riguardino redditi prodotti all’estero (cfr. art. 1,
comma 3, d.lg. n. 471/1997), potrebbe rivelarsi un elemento specializzante capace, in caso di
emersione di ulteriori elementi specializzanti, di rendere la sanzione amministrativa prevalente su quella penale.
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Circa, in particolare, ai criteri interpretativi indicati per la individuazione
della natura «penale» o meno di una sanzione tributaria (indipendentemente
dal nomen iuris dato dallo stato dell’Unione), si osserva altresì come tali criteri
siano analoghi a quelli affermati dalla Corte EDU nella propria giurisprudenza
costante (sent. «Engel e altri c. Paesi Bassi», 8.6.1976, § 82, serie A n. 22), da ultimo ribaditi nella pronuncia 4.3.2014 «Grande Stevens e altri c. Italia» e, recentissimamente, nella sentenza 20.5.2014 (Nikanen c. Finlandia, proprio in un
caso di violazione di norme fiscali).
b) Divieto del ne bis in idem
Il tema dell’ambito di applicazione del principio del ne bis in idem, è stato
anch’esso oggetto della citata decisione Aklagaren c. Hans Akerberg Franssonn che, sul punto, ha affermato che:
a) l’art. 50 CDFUE non osta a che uno Stato membro imponga, per le
medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una combinazione di sovrattasse e sanzioni penali, al fine di assicurare la riscossione delle
entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione (§ 34);
va, anche ove la stessa non risulti applicabile al reo in forza del principio di specialità (40).
Tuttavia, il comma 2 dell’art. 19 può ritenersi implicitamente abrogato dall’art.
7 d.l. 269/2003, convertito in l. 326/2003, che ha reintrodotto le sanzioni amministrative a carico della persona giuridica, operando nuovamente il principio di specialità (41).
In tali ipotesi, appare discutibile possa parlarsi di identità del fatto, giacché la
fattispecie penale contempla quali soggetti attivi persone fisiche, cui il fatto deve risultare ascrivibile anche sotto il profilo soggettivo; la fattispecie amministrativa vede quali soggetti attivi enti, la cui sanzione è ascritta solo sulla base di una responsabilità oggettiva di posizione.
6. Dal punto di vista processuale, l’attuale sistema penal-tributario non prevede
più alcun rapporto di dipendenza fra il processo penale ed il processo tributario.
La vicenda in esame prende le mosse dalla giurisprudenza della Corte europea,
che pone in discussione la compatibilità con il sistema convenzionale di tutti i settori ordinamentali analogamente strutturati attorno ad un doppio, e parallelo, binario
( 40 ) In tal senso, cfr. Ardito, Il principio di specialità, in Diritto penale tributario, a cura
di Musco-Ardito, Bologna, 2013, 335 ss.
( 41 ) Cfr. Marongiu, Le sanzioni amministrative tributarie dall’unita al doppio binario, in
Riv. dir. trib., 2004, 373. Sul punto, osserva che «il decreto del 2003 ha creato due sistemi paralleli che convivono, l’uno che si applica alle persone fisiche a anche alle società di persone e
alle associazioni non riconosciute, per le quali va individuato l’autore materiale della violazione, e l’altro che si applica alle persone giuridiche, alle società di capitali».
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b) cionondimeno, «qualora la sovrattassa sia di natura penale, ai sensi
dell’articolo 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a che
procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa
persona» (§ 34).
Circa la nozione di «stesso fatto» si osserva che la Corte di giustizia (come,
ad es., affermato nell’interpretazione del principio di cui all’art. 54 della convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e/o in tema di esecuzione
del mandato di arresto europeo ex art. 3, n. 2 decisione quadro MAE, 2002/
584/GAI) ha affermato che l’unico criterio pertinente è quello dell’identità dei
fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze o condotte
concrete inscindibilmente collegate tra loro, indipendentemente dalla loro
qualificazione giuridica o dall’interesse giuridico tutelato (cfr. sent. 9.3.2006,
causa C-436/04, Van Esbroeck, punto 36).
Anche sotto tale profilo appare opportuno richiamare la recente sentenza
della Corte di Strasburgo 4.3.2014 «Grande Stevens e altri c. Italia», che, in
materia di abusi di mercato, ha affermato che l’avvio di un processo penale su
fatti già sanzionati (in via amministrativa) viola il fondamentale principio del ne
i quali creerebbero le condizioni per una violazione «sistemica» del diritto individuale al ne bis in idem.
Giova precisare che nessuna autorità di cosa giudicata può attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale
siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente (42). Pertanto, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari,
estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del
singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116
c.p.c.), deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è
destinato ad operare (43).
Altra preclusione ad un’automatica applicazione del giudicato risiede nella natura e nelle regole del processo tributario, ove trovano riconoscimento le presunzioni, che non possono, invece, costituire fondamento per una pronuncia penale di
condanna.
Tuttavia, il sistema del doppio binario vive un momento di crisi ed incoerenza.
Nonostante la «netta» separazione tra i due procedimenti, che dovrebbero muoversi su binari paralleli, l’ordinamento prevede che dal medesimo accertamento fiscale
possa derivare sia un contenzioso tributario che un procedimento penale, senza alcuna influenza dell’uno sull’altro, seppur nella comunanza dell’assunto di partenza.
( 42 ) Cass., sez. Trib., 30.12.2009, n. 27919, in www.leggiditaliaprofessionale.it.
( 43 ) Cass., sez. Trib., 9109/2002, in www.leggiditaliaprofessionale.it.
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bis in idem, secondo cui non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto
(nel caso esaminato, i ricorrenti, dopo essere stati sanzionati con illecito amministrativo nel 2007 dalla CONSOB, erano stati rinviati a giudizio con procedimento penale – con assoluzione in I grado e condanna in appello – conclusosi
in Cassazione con la declaratoria di intervenuta prescrizione dei reati).
La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione assume opzioni interpretative difformi da quelle espresse delle corti europee nelle citate decisioni.
La Corte di Cassazione (con le sopra richiamate decisioni a Sezioni unite
nel 2013, e semplice nel 2014), con particolare riferimento al reato di cui all’art.
10 bis cit., riconosce il concorso tra le sanzioni amministrative e penali, declinando il principio di specialità sulla base di un confronto tra fattispecie tipiche
in astratto considerate (sul punto cfr. anche, ai par. 1.2 e 1.3, nonché al par. 2
con espresso riferimento all’art. 9 della l. n. 689 del 1981, la decisione a Sezioni
Unite n. 1963 del 2011, De Lorenzo, Rv. 248722), in ossequio al testo della norma che fa riferimento al «fatto tipico» ed agli orientamenti della Corte Costitu-
Basti qui rilevare che l’interazione fra il procedimento penale e quello tributario si annoda già nella nozione di imposta evasa (44) – quale concetto penalistico
modellato sulla nozione tributaria di imposta dovuta – nella misura in cui la sostanziale identità dell’oggetto dell’accertamento giudiziale renderebbe poco coerente il
criterio della totale separatezza su cui si incentra il cd. doppio binario (45).
Appare opportuno, dunque, verificare se, in virtù degli addebiti mossi, il criterio dell’autonomia adottato in occasione della riforma del diritto penale tributario
del 2000 rappresenti tuttora una scelta efficace e rispondente alle esigenze del sistema (46).
( 44 ) Cfr. art. 1, comma 1, lett. f), d. lgs. 74/2000.
( 45 ) Per ragioni di maggiore coerenza sistematica, si è cercato di affermare il carattere
vincolante ai fini penali della determinazione tributaria dell’imposta evasa. Infatti, il concetto
di imposta evasa – quale componente della soglia di punibilità – valido solo ai fini penali, ha
generato notevoli incertezze. Più esattamente, ne sono derivate due diverse nozioni di imposta evasa, una ai fini penali e l’altra ai fini fiscali, con gravi problemi nel caso il contribuente
definisca la pretesa tributaria facendo ricorso alle procedure transattive, atteso che la Procura
possa comunque esercitare l’azione penale. Sul punto, cfr. Caraccioli, La necessità di una riforma coordinata delle sanzioni amministrative e penali in campo fiscale, ne Il Fisco, 2003,
5217. L’Autore sostiene che «sarebbe auspicabile l’eliminazione del riferimento all’imposta
evasa per i reati tributari, restituendo al giudice penale il solo compito di accertare l’esistenza
di fatti fraudolenti, con delle soglie svincolate da ambigui collegamenti con profili di evasione; chiarire definitivamente l’ambito del principio di specialità tra le due categorie di sanzioni; sì da chiarire la sorte delle risultanze fiscali in campo penale e delle risultanze penali in
campo fiscale».
( 46 ) Coppa-Sammartino, Sanzioni tributarie, in Enc. Dir., Milano, 1989, 438 ss.; Di Siena, Doppio binario tra procedimenti tributario e penale: una metafora ferroviaria in crisi?, ne Il
Fisco, 2014, 4259. L’Autore rileva che il d.lgs. 74/2000, abbandonato l’archetipo dei ccdd.
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zionale (cfr. la sentenza n. 97 del 1987 della Corte Costituzionale), non ravvisando, pertanto, la violazione del ne bis in idem.
L’interpretazione offerta dalla CGUE (e dalla Corte EDU) pare, invece, attenersi ad una nozione «sostanzialistica» del concetto di «stesso fatto», volta
cioè a verificare in concreto e caso per caso se i fatti – ascritti all’imputato in sede amministrativa e penale – siano riconducibili o meno alla stessa condotta,
giungendo pertanto a conclusioni opposte a quelle assunte dalla giurisprudenza italiana.
5. Argomenti essenziali delle parti nel procedimento principale
(v. art. 94 RdP e punto 23 delle Raccomandazioni)
(facoltativo) illustrazione succinta della posizione delle parti in ordine alla
risposta da dare alle questioni pregiudiziali
6. Punto di vista del giudice del rinvio
(v. art. 94 RdP e punto 24 delle Raccomandazioni)
Questo Giudice ritiene «opportuno» esprimere la propria opinione sulla
questionepregiudiziale sollevata.
L’autonomia procedimentale è, indubbiamente, un lascito della l. 516/1982,
che aveva ragione di esistere fino a quando i due ambiti – tributario e penale – avevano ad oggetto profili differenti (accertamento del tributo evaso e condotte prodromiche all’evasione). Mutato il contesto e focalizzata la disciplina penale sul fatto
evasivo, il mantenimento del doppio binario genera criticità, soprattutto tutte le
volte in cui la medesima violazione sia qualificabile nel contempo come illecito penale e amministrativo. Si tratta, cioè, dei casi in cui un determinato comportamento
sia riconducibile all’area di operatività di due norme distinte, una delle quali collega ad esso la sanzione penale e l’altra quella amministrativa.
Tuttavia, anche all’interno dell’apparato sanzionatorio in materia fiscale, le
sanzioni penali dovrebbero assumere un ruolo di carattere sussidiario, ispirandosi
alla logica del diritto penale come extrema ratio.
Nella materia tributaria il legislatore ammette, da un lato, che contro la stessa
persona sia instaurato il procedimento penale dopo (o durante) la celebrazione del
procedimento amministrativo, dall’altro, l’applicazione della pena dopo l’applicazione della sanzione amministrativa, salvo poi garantire la posizione del singolo, attraverso il ne bis in idem sostanziale, nella fase di esecuzione della stessa sanzione
amministrativa. Si avrà, invece, violazione del ne bis in idem nel campo sostanziale,
reati prodromici, ha delineato una (quasi) totale sovrapposizione dell’oggetto della repressione penale e dell’azione accertativa (e, quindi, in via mediata, dell’oggetto del processo tributario). Si è, dunque, in presenza di un contesto di ibridazioni reciproche che tendono all’irrazionalità ed in cui il criterio della separatezza procedimentale e processuale fra ambito fiscale
e penale vive ormai una crisi (forse) irreversibile.
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Quanto al primo profilo (natura «penale» della sanzione amministrativa),
facendo applicazione al caso in oggetto dei cd. Criteri di «Engel», elaborati dalla Corte di Strasburgo e sopra richiamati anche dalla Corte di Lussemburgo,
sembra difficile non ritenere che la sanzione prevista dall’art. 13 d. lgs. 471/
1997 (che prevede una «soprattassa» nella misura del 30% dell’importo non
versato), per la sua natura ed afflittività, non abbia anch’essa natura «penale».
In tal senso si richiamano i recenti arresti della Corte di Lussemburgo nella
più volte sopracitata decisione decisione Aklagaren c. Hans Akerberg Franssonn (e di Strasburgo nelle sentenze 20.5.2014 Nykanen c. Finlandia, Glantz c.
Finlandia e Hakka c. Finlandia), che hanno affermato la natura «penale» di
sanzioni amministrative in casi e materie analoghe a quello oggetto del presente
giudizio.
Quanto al secondo profilo (divieto del ne bis in idem), l’adozione dell’interpretazione «sostanzialistica» del principio di specialità assunta dalla Corte di
Lussemburgo (e di Strasburgo) porterebbe, nel caso in oggetto, a ritenere
«identico» il fatto sottoposto a questo Giudice (in sede penale) rispetto al fatto
già oggetto di sanzione amministrativa.
ma non in quello processuale, nel caso in cui all’applicazione della pena si aggiunga
l’esecuzione della sanzione amministrativa.
L’aspetto su cui si dibatte non è relativo alla convivenza dei procedimenti penale ed amministrativo – che in astratto possono convivere, seppur necessitando di alcuni correttivi – ma, piuttosto, alla necessità di estendere maggiormente le garanzie
convenzionali ed evitare eventuali «truffe delle etichette» (47). Ne consegue che,
ove la sanzione amministrativa applicata dovesse rivelare una natura repressiva e ripristinatoria per l’ordinamento, allora la sanzione penale non potrebbe trovare applicazione, poiché si violerebbe il ne bis in idem (48).
Se partiamo dal presupposto che il procedimento scaturente dalla violazione
dell’art. 13 d. lgs. 471/1997, conclusosi con sentenza di condanna definitiva, ha carattere penale, parrebbe evidente che la celebrazione di un secondo procedimento
( 47 ) In tal senso, Santoriello, Carta dei Diritti dell’Uomo e mancato pagamento delle imposte in sede penale e amministrativa, ne Il Fisco, 2014, 1656. Cfr. anche Di Siena, Doppio binario, cit., il quale rileva che la sanzione di cui all’art. 13, comma 1, d. lgs. 471/1997, non può
non qualificarsi come penale, data la gravità della stessa, nonché il suo carattere punitivo e
dissuasivo.
( 48 ) Su natura e funzione della sanzione penale, cfr. Cerquetti, Spunti problematici sulla
metamorfosi della sanzione penale, in Ind. pen., 2004, 51 ss.; Id., La funzione della pena, in
Riv. pen., 2003, 465; Dolcini, Sanzione penale o sanzione amministrativa: problemi di scienza
della legislazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 589; Salcuni, La nozione comunitaria di pena: preludio ad una teoria comunitaria del reato?, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2002, 199 ss. Sul
concetto di pena, cfr. altresì Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, 1973,
45 ss.; Id., Tecniche di tutela penale e tecniche alternative di tutela, in Funzioni e limiti del diritto penale, a cura di De Acutis-Palombarini, Padova, 1984, 67 ss.
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Il comportamento illecito tenuto dall’imputato è il medesimo, avendo ad
oggetto la stessa condotta omissiva (mancato versamento all’Erario) rivolta sul
medesimo oggetto materiale (le ritenute), e pertanto il medesimo disvalore punito dall’ordinamento, indipendentemente dalle differenze dell’ammontare e
dei termini di riferimento, non ravvisandosi una sostanziale differenza di condotta fra l’omesso versamento del tutto e la somma degli omessi versamenti delle porzioni del tutto.
Le argomentazioni svolte dalla Suprema Corte nel 2013 (e nel 2014) circa
l’insussistenza del ne bis in idem, muovono, come s’è visto, da una accezione
del principio di specialità differente da quella assunta dalla Corte di Lussemburgo (e di Strasburgo), ed in ogni caso ne escludono la rilevanza nel caso di
«applicazione congiunta di sanzione penale e sanzione amministrativa tributaria», laddove a conclusione opposta parrebbe giungersi qualora (comequi sostenuto) si debba ritenere la natura «penale» anche della seconda sanzione.
Ciò osservato, se, come afferma la stessa Corte di Giustizia (par. 45 decisione Aklagaren c. Hans Akerberg Franssonn cit.) il Giudice nazionale incaricato
di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione (come interpretate dalla Corte di Giustizia) ha l’obbligo di garantire
la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziati-
penale per gli stessi fatti ai sensi dell’art. 10-bis d. lgs. 74/2000 viola il principio del
ne bis in idem. A nulla rileverebbe, poi, che il procedimento penale non si sia ancora concluso, poiché l’art. 4 del prot. 7 CEDU vieta non soltanto di condannare, ma
anche solo di perseguire due volte lo stesso soggetto per i medesimi fatti.
In ambito fiscale, la CEDU ha rilevato che bisogna avere riguardo alla finalità
della sanzione derivante dall’illecito amministrativo-tributario, nella fattispecie la
soprattassa, e all’importanza della stessa in termini di severità, per cui lo Stato deve
ritenere raggiunta e soddisfatta la finalità deterrente e punitiva già con l’applicazione di una simile sanzione, laddove, invece, la ulteriore condanna in sede penale costituirebbe una illecita duplicazione e, quindi, una violazione del principio del ne
bis in idem (49).
7. Come anticipato, il problema della violazione del ne bis in idem era già stato
dibattuto dalle SS.UU., le quali hanno escluso il rapporto di specialità, riconoscendo una progressione illecita, con una motivazione che, tuttavia, non ha chiarito le
perplessità al riguardo (50).
La Cassazione ha svolto un articolato ragionamento, riconoscendo tanto agli illeciti amministrativi quanto a quelli penali la natura di illeciti omissivi propri, statuendo che, pur nella comunanza di una parte dei presupposti (la situazione tipica
da cui sorge l’obbligo) e della condotta omissiva, gli elementi costitutivi dei due ille-
( 49 ) Corte EDU, Nykenen c. Finlandia, cit.
( 50 ) Si rinvia alla nota 4.
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va, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale, le sopra svolte argomentazioni portano a dubitare che la disposizione di diritto interno che va applicata al caso in oggetto – ossia l’art. 10 bis d. lgs. 74/2000 – nella parte in cui
consente (o impone) la celebrazione e/o la prosecuzione del procedimento penale nei confronti dell’imputato che per lo stesso fatto è già stato sottoposto a
sanzione amministrativa irrevocabile, sia conforme con il diritto comunitario
nell’accezione interpretativa sopra esaminata.
Peraltro, i recenti arresti della Corte di Strasburgo sopra richiamati inducono a ravvisare un ulteriore profilo di interesse nella questione interpretativa in
oggetto, al fine di evidenziare la sussistenza di una eventuale violazione della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e del cittadino in subiecta materia.
7. Rinvio delle questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia
(v. art. 94 RdP e punto 26 delle Raccomandazioni)
Sulla base delle argomentazioni sopra svolte, risulta pertanto necessario ai
fini della soluzione della controversia in oggetto determinare se, alla luce degli
artt. 4 Prot. n. 7 CEDU e 50 CDFUE, sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui all’art. 10 bis cit. che consente la celebrazione e/o la prosecu-
citi divergono in alcune componenti essenziali, ovvero il termine, nonché la previsione di una soglia minima al di sotto della quale la condotta resta priva di rilevanza
penale.
Pertanto, le Sezioni unite hanno affermato che – con riferimento alla fattispecie
in esame – non può parlarsi di identità del fatto sanzionato in sede amministrativa e
penale, escludendo la violazione del ne bis in idem, che, peraltro – ad avviso della
Corte – si riferisce ai soli procedimenti penali e non può, quindi, riguardare l’ipotesi dell’applicazione congiunta di una sanzione penale e di una sanzione amministrativa tributaria (51).
Sembra, dunque, opportuno verificare se le argomentazioni svolte dalle Sezioni
unite possano o meno essere superate dalla riflessione che la Corte di Strasburgo ha
( 51 ) Cfr. Cass. pen., sez. III, 15.5.2014, n. 20266, in www.eutekneinfo.it. In questa pronuncia, la Corte di cassazione ha affermato che il processo penale per reati tributari deve
viaggiare in parallelo con il procedimento amministrativo e, quindi, «convivere» con l’esistenza di un debito tributario, senza che questo comporti violazione del ne bis in idem. La Suprema Corte rileva che un’estensione incontrollata del ne bis in idem porterebbe alla negazione stessa dell’attuale sistema sanzionatorio penal-tributario, nella sua connessione con quello
amministrativo. Infatti, i due sistemi repressivi sono tra loro interconnessi, ma viaggiano su
due binari paralleli, sicché non si pongono affatto in rapporto di esclusione reciproca, essendo diverse le esigenze sottese alla repressione penale da quelle poste alla base delle sanzioni
amministrative. A commento della sentenza, Antonini, Sanzione fiscale e penale in parallelo
per gli omessi versamenti, in Riv. giur. trib., 2014, 651 ss.
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zione del procedimento penale nei confronti dell’imputato che per lo stesso fatto è già stato sottoposto a sanzione amministrativa irrevocabile, nei termini di
cui in motivazione.
Trattasi, infatti, di una questione di interpretazione, che presenta un interesse generale per l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, con particolare riferimento alle implicazioni riconnesse allo «spazio» da assegnare in concreto all’esercizio del diritto diritto fondamentale del cittadino europeo affermato nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali (principio del ne bis in idem).
Peraltro, nella decisione «Franssonn» la Corte di Giustizia ha affermato
che, nella valutazione della compatibilità della disciplina amministrativo-penale dell’illecito prevista dal diritto interno con il divieto del doppio giudizio, il
giudice nazionale deve valutare «se occorra procedere ad un esame del cumulo
di sanzioni tributarie e penali previsto dal diritto interno sotto il profilo degli
standard nazionali», nell’interpretazione che di essi fornisce la Corte stessa; se
infatti (§ 29 sent. Cit.) resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, ciò non può compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione.
svolto con riferimento al principio del ne bis in idem come consacrato nell’art. 4
prot. 7 CEDU (52).
In primo luogo, si ravvisa che non pare conforme alla giurisprudenza sovranazionale la nozione di «stesso fatto» accolta dalla Cassazione, che sembra richiedere
che le vicende per cui si procede siano completamente sovrapponibili (53). Infatti,
in più occasioni i giudici di Strasburgo hanno ribadito che l’art. 4 del prot. 7 deve
essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un
secondo «illecito» nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono
sostanzialmente gli stessi, id est che i fatti ascritti al soggetto giudicato in più procedimenti siano riconducibili alla stessa condotta (54).
Pertanto, secondo la Corte Europea, affinché non vi sia identità del fatto è necessaria una radicale distinzione fra le condotte sottoposte a giudizio, nel senso che
esse non offendano il medesimo bene giuridico, circostanza questa che sembra poter essere esclusa nel caso in esame, posto che entrambe le ipotesi – di cui agli artt. 13
d. lgs. 471/1997 e 10 bis d. lgs. 74/2000 – tutelano l’interesse patrimoniale dell’erario.
Per tali ragioni, la richiamata decisione delle Sezioni unite appare per taluni
( 52 ) La questione dei rapporti tra illecito amministrativo e illecito penale in relazione ad
una medesima condotta ha riguardato – nella casistica sottoposta al vaglio della giurisprudenza di legittimità – anche altre fattispecie, ad esempio in materia di diritto d’autore, o fattispecie disciplinate dal Codice della strada. Per una disamina, cfr. la Relazione dell’Ufficio del
Massimario della Corte di Cassazione, n. 35 del 2014, Considerazioni sul principio del ne bis
in idem, cit.
( 53 ) Santoriello, Carta dei Diritti dell’Uomo, cit.
( 54 ) Cfr. CEDU, Serguei Zolotoukhine c. Russia, 14939/2003, cit.
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In tale prospettiva, sussiste pertanto un ulteriore profilo di «opportunità»
della questione pregiudiziale, al fine cioè di conoscere in concreto i criteri di
valutazione cui il giudice nazionale deve fare ricorso al fine di operare o meno
un giudizio di compatibilità del «cumulo» delle sanzioni con il principio del ne
bis in idem, tenuto conto della esigenza di non inficiare sia il livello di protezione assicurato dalla Carta dei diritti fondamentali che il principio del primato
del diritto dell’Unione europea, e della concorrente necessità per il giudice nazionale (che opera nell’ambito del principio di riserva di legge vigente in materia penale) di operare entro chiari parametri interpretativi.
Alla luce delle argomentazioni sopra svolte e richiamato quanto affermato
dalla citata sentenza Franssonn circa il potere del giudice comunitario di valutare pienamente «se del caso con la collaborazione della Corte» la compatibilità
di una disposizione del diritto interno che si ponga in contrasto con un diritto
fondamentale garantito dalla Carta (al fine della disapplicazione della norma di
diritto interno; par. 48 sent. cit.), sussistono fondate ragioni di opportunità che
inducono a sollevare la presente questione pregiudiziale.
P.Q.M.
Il Tribunale di Torino in composizione monocratica, visto l’articolo 267
TFUE, così provvede:
aspetti non condivisibile, poiché tralascia l’innovazione interpretativa che emerge
dalle decisioni europee relativamente alla natura della sanzione come parametro dirimente.
8. Alla luce dei precedenti richiamati, e in attesa della pronuncia sulla questione sollevata dal Tribunale di Torino, sembra opportuno un globale ripensamento –
e una conseguente riforma – di tutti i settori dell’ordinamento caratterizzati dalla
presenza di un doppio binario procedurale e sanzionatorio per i medesimi fatti, per
garantire maggiormente i diritti fondamentali dell’individuo.
Partendo da tale assunto, il giudice rimettente chiede l’intervento della
CGUE. Infatti, la pronuncia annotata sospetta che i fatti costitutivi dei due illeciti
siano gli «stessi», nel senso che il comportamento illecito tenuto dall’imputato è il
medesimo, avendo ad oggetto la stessa condotta omissiva (mancato versamento all’Erario) rivolta sul medesimo oggetto materiale (le ritenute), e pertanto il medesimo disvalore punito dall’ordinamento – indipendentemente dalle differenze dell’ammontare e dei termini di riferimento – non ravvisandosi una sostanziale differenza fra l’omesso versamento del tutto e la somma degli omessi versamenti delle
porzioni del tutto (55).
( 55 ) Ad avviso del giudice rimettente, l’adozione dell’interpretazione sostanzialistica del
principio di specialità fornita dalle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo porterebbe a rite-
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COMMENTI A SENTENZA
È sottoposta alla Corte di giustizia dell’Unione europea la seguente questione interpretativa pregiudiziale:
Se ai sensi degli artt. 4 Prot. n. 7 CEDU e 50 CDFUE, sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui all’art. 10 bis d. lgs. 74/2000 nella parte in
cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto (omissione versamento delle ritenute), sia già
stato destinatario della sanzione amministrativa irrevocabile di cui all’art. 13 d.
lgs. 471/1997 (con l’applicazione di una sovrattassa).
Visto l’art. 276 TFUE, l’art. 23 Statuto CGUE e l’art. 29 raccomandazioni
CGUE (2012/C338/01), dispone la sospensione del procedimento fino alla
pronuncia della Corte di giustizia.
Seppur l’ordinamento possa comminare, per la medesima condotta, sanzioni
amministrative e penali (56), ciononostante una sanzione potrebbe essere amministrativa solo formalmente, mentre nella sostanza potrebbe avere natura penale. Pertanto, ove dovesse accertarsi la natura penale della sovrattassa – la cui irrogazione è
prevista dall’art. 13, comma 1, d. lgs. 471/1997 – l’eventuale condanna ai sensi dell’art. 10 bis d. lgs. 74/2000 implicherebbe la violazione della garanzia europea del
ne bis in idem.
L’ordinanza in esame, quindi, sviluppa un ragionamento analogo a quello tracciato in ambito europeo, lasciando così presagire la possibile decisione della
CGUE, anche in ragione della recente decisione Nykenen c. Finlandia, nella quale
la Corte di giustizia ha escluso la garanzia di cui dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della
Convenzione in relazione alla tenue sanzione amministrativa prevista dall’ordinamento finlandese (57). Ciò fa presumere che verosimilmente analoga sorte spetterà
alla più grave sanzione amministrativa pari al trenta per cento dell’importo non versato, di cui all’art. 13 d. lgs. 471/1997.
Per tali considerazioni, dunque, l’eventuale pronuncia della Corte di Giustizia
– sulla questione interpretativa pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Torino –
potrebbe non discostarsi dall’orientamento finora elaborato in ambito europeo in
tema di ne bis in idem, relativamente al sistema cd. doppio binario, con la conseguente valutazione di non conformità dell’art. 10-bis d. lgs. 74/2000 al diritto al ne
bis in idem.
nere «identico» il fatto per cui si celebra il procedimento penale, rispetto a quello già oggetto
di accertamento amministrativo.
( 56 ) Le norme sanzionatorie sono tutte poste a tutela di un unico interesse, quello pubblico alla percezione dei tributi: l’apprezzamento del diverso grado di offesa di tale interesse (in
termini di lesione o di messa in pericolo), presente in ciascuna violazione, sta a fondamento
della scelta operata dal legislatore tra sanzione penale ed amministrativa.
( 57 ) Section 57, subsection 1, of the Tax Assessment Procedure Act (laki verotusmenettelystä, lagen om beskattningsförfarande, Act no. 1558/1995, as amended by Act no. 1079/
2005), che stabilisce che il contribuente, il quale ometta la dichiarazione dei redditi o abbia
redatto una dichiarazione fraudolenta o infedele, è tenuto a versare l’importo non pagato con
una tassa aggiuntiva e un supplemento d’imposta.
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ANTONELLA CIRAULO
Visto l’art. 159 c. I n. 2) c.p., dispone la sospensione dei termini di prescrizione del reato.
Manda alla Cancelleria per la notifica alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea del presente provvedimento e per la trasmissione degli atti (provvedimento e copia del fascicolo di causa) alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(mediante plico raccomandato indirizzato alla Cancelleria della Corte di giustizia – Rue du Fort Niedergrünewald, L-2925 Lussemburgo), nonché per gli ulteriori adempimenti di competenza.
Occorre, però, ricordare che i problemi sin qui discussi interessano la potestà
normativa degli Stati europei, nonché il diritto sanzionatorio amministrativo e il diritto penale. Quest’ultimo è, indubbiamente, quello con un maggiore potenziale lesivo dei diritti fondamentali (58). Proprio in ragione di tale carattere, talora la risposta
sanzionatoria è più pronta ed efficace ove affidata alle sanzioni amministrative, la cui
irrogazione ed il relativo procedimento richiedono un minor livello di garanzie (59).
È su questo aspetto che la Corte di Strasburgo fa leva: sempre più le sanzioni
amministrative – seppur di carattere pecuniario e, dunque, non incidenti sulla libertà personale – hanno una portata fortemente deterrente e repressiva, che le rende molto vicine alle sanzioni penali e per le quali, dunque, è necessario apprestare
adeguate forme di tutela.
Antonella Ciraulo
dottoranda di ricerca in discipline penalistiche
nell’Università di Firenze
( 58 ) Per interessanti spunti di riflessione, cfr. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale.
La democrazia penale fra differenziazione e sussidiarietà, Milano, 2004.
( 59 ) Sul punto, cfr. Donini, Teoria generale del reato, Padova, 1996, 40 ss. L’Autore rileva che «(...) le pene amministrative appaiono ben più spesso di sicura efficacia e pesantezza
economica rispetto a tante sanzioni penali di uso corrente. (...) Ritenendosi meramente
“quantitativa” la distinzione tra i due ordinamenti (penale ed amministrativo), a fronte di
continue migrazioni di fattispecie da un settore all’altro e rispettive sanzioni, è parso doveroso apprestare le medesime “garanzie” almeno a livello della legislazione amministrativa ordinaria». Tuttavia, l’Autore sottolinea il significato sempre più relativo e derogabile della valenza di quei principi in campo amministrativo, dove la sanzione, seppur «pesante», non minaccia la privazione della libertà personale, ribadendo, però, che nonostante il reato rappresenti
– almeno in linea di principio nella considerazione universale degli ordinamenti – l’illecito
più «grave», ciò non significa che il reato abbia conseguenze necessariamente più pregiudizievoli dell’illecito civile o amministrativo.
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Reati doganali - altri casi di contrabbando ex art. 292 d.P.R. n. 43/1973 ed evasione dell’IVA all’importazione - rilevanza penale dell’abuso del diritto - importazione di velivoli esteri.
Cass., sez. III, 9.1.2014 (dep. 13.3.2014), n. 11976. Pres. Mannino, Est. Marini
«5. La motivazione dell’ordinanza si presenta immune da critiche in quanto
ha evidenziato i profili di abuso ravvisabili nella condotta del ricorrente e del suo
concorrente nel reato. [...]
6. Osserva il Tribunale come tali passaggi realizzino uno schermo formale rispetto all’operazione effettiva e chiara fin dall’inizio (cessione diretta dalla società
statunitense al sig. V.) e non abbiano altro scopo che quello di evitare la sottoposizione dell’aeromobile al versamento dell’I.v.a. dovuta allo Stato italiano.
[...]
10. In conclusione, una volta individuata l’esistenza di operazioni in frode
compiute dagli indagati, correttamente il Tribunale ha ritenuto sussistere il “fumus” del reato contestato e applicabile l’istituto della confisca nei termini indicati
dall’ordinanza impugnata. Sussiste, dunque una corretta motivazione in ordine a
tutti i presupposti del sequestro anche con riguardo alle esigenze cautelari»
(Omissis).
Cass., sez. III, 17.1.2014 (dep. 20.3.2014), n. 13039. Pres. Teresi, Est. Di Nicola
«[...] 5. L’ipotesi di reato ritenuta fonda, avuto riguardo alla pronosticata condotta elusiva, sulla violazione del d.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, sotto il profilo
dell’omesso pagamento di un tributo interno (IVA).
Quanto infatti al ravvisato abuso del diritto ed ai riflessi di esso sulla configurabilità della fattispecie contestata, questa Sezione ha affermato che la scelta di un
qualunque Stato, nel quale introdurre il bene nella Comunità, ancorché determinata esclusivamente dal fatto che in detto Stato vi sia un regime fiscale più favorevole, non costituisce abuso del diritto di libera circolazione delle merci (art. 23
Trattato CE) e dei capitali (art. 56 Trattato CE), con la conseguenza che, in tema
di reati finanziari e tributari, la figura del cosiddetto abuso del diritto, qualificata
dall’adozione (al fine di ottenere un vantaggio fiscale) di una forma giuridica non
corrispondente alla realtà economica, non ha valore probatorio perché implica
una presunzione incompatibile con l’accertamento penale, ed è invece utilizzabile
in campo tributario come strumento di accertamento semplificato nel contrasto all’evasione fiscale (Sez. 3, n. 14486 del 26.11.2008 (dep. 2.4.2009), Rusca, Rv.
244071).»
(Omissis).
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COMMENTI A SENTENZA
Cass., sez. III, 20.3.2014 (dep. 3.4.2014), n. 15186. Pres. Teresi, Est. Graziosi
«Partendo dunque dalla inattribuibilità di valore probatorio della sussistenza
di un reato a una condotta elusiva in campo tributario [...], si è pervenuto a collocare la condotta di elusione sul piano della integrazione diretta della fattispecie
penale qualora coincida, per la sua conformazione, o con il contenuto della norma
penale in questione o con la violazione di una specifica norma tributaria antielusiva che consente appunto di identificare la condotta criminosa. [...]
3.2.5 Quanto sinora osservato significa che, per integrare una fattispecie penale, non è sufficiente che la condotta posta in essere – la quale formalmente costituisce l’esercizio di un diritto – abbia (come “motivo” in termini civili, come elemento
psicologico intenzionale, in termini penali) esclusivamente lo scopo di ridurre o risparmiare in ordine ad una debenza tributaria che l’agente comunque deve assolvere, attraverso tale esclusività scollegandosi dalla ratio normativa, cioè dal fondamento di tutela di beni/interessi per cui il diritto viene riconosciuto. E ciò comporta che l’esercizio del diritto a porre in essere una determinata condotta (nel caso di
specie, del diritto di avvalersi della libera circolazione delle merci nell’ambito della
Comunità Europea sancito dall’art. 95 del Trattato) non viene circoscritto nel suo
ambito d’applicabilità, e anzi tramutato in condotta penalmente illecita, soltanto
se lo scopo per cui l’agente se ne avvale è un proprio vantaggio tributario.
Acquisire un vantaggio tributario, di per sé, non rende quindi illecita la modalità dell’acquisizione. Occorre invece un’integrazione normativa, nel senso di
una norma specifica che confini lo spazio d’esercizio del diritto in questione e che
sia appunto incompatibile con un esercizio finalizzato esclusivamente al vantaggio
fiscale, la quale faccia pertanto venir meno la riconducibilità della condotta al reale esercizio di un diritto, convertendola in abuso del diritto, cioè in illecito.»
(Omissis).
L’ABUSO DEL DIRITTO IN UNA RECENTE VICENDA
DI DIRITTO PENALE DOGANALE (*)
Sommario: 1. Il caso oggetto delle tre pronunce. - 2. L’evasione dell’IVA all’importazione e
il contesto normativo: l’abuso del diritto come strumento probatorio (Cass., sez. III,
17.1.2014, n. 13039) o come frode (Cass., sez. III, 9.1.2014, n. 11976). - 3. Abuso del di-
(*) N.d.A.: nelle more della pubblicazione del presente lavoro è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale (n. 190 del 18 agosto 2015) il d. lgs. n. 128/2015, che con l’art. 1 introduce un nuovo
art. 10 bis nello Statuto del Contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212).
La nuova disposizione, la cui introduzione ha coinciso con l’abrogazione dell’art. 37 bis d.P.R.
n. 600/1973, si applica all’intero ordinamento tributario al di fuori dei tributi doganali (art. 4, d.
lgs. n. 128/2015), unifica i concetti di abuso del diritto e di elusione fiscale (vedi infra, nota 17) e
prevede espressamente l’irrilevanza penale delle condotte abusive (art. 10 bis, comma 13).
Delle singole novità derivanti dalla citata riforma si darà atto nelle note.
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ritto ed elusione: il criterio «oggettivamente» teleologico nell’identificazione della condotta abusiva (Cass. n. 15186/2014). - 4. L’abuso del diritto come strumento ermeneutico. - 5. Abuso e confini del diritto: il criterio teleologico oggettivo nel funzionamento
dell’abuso di diritto. - 6. Conclusione - abuso del diritto e integrazione della fattispecie.
1. Nelle tre pronunce in commento la Suprema Corte deve ancora una volta fare i conti con i complessi rapporti fra la categoria (1) dell’abuso del diritto e la materia penale.
Il caso, comune alle tre sentenze, riguarda il sequestro preventivo di velivoli di
produzione e immatricolazione statunitense. Gli aerei, prima della definitiva importazione sul suolo italiano, fanno ingresso in Europa attraverso la Danimarca,
paese che per l’importazione di tale bene prevede un’aliquota IVA pari allo 0%. In
tale operazione viene individuato dall’accusa il fumus del reato di evasione dell’IVA
all’importazione.
Il Tribunale del riesame di Cagliari, nel confermare il provvedimento cautelare, aveva fatto ricorso alla categoria dell’abuso del diritto, così riqualificando
l’operazione come diretta importazione del velivolo dagli Stati Uniti all’Italia, integrata dalla strumentalizzazione del diritto di libera circolazione delle merci e dei
capitali.
È infatti evidente che il riferimento al principio generale è l’unica possibilità
per sostenere la riqualificazione dell’operazione, non potendo operare in ambito
IVA la disposizione antielusiva di cui all’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973 (2).
Solo in una delle pronunce qui commentate, la prima in ordine di tempo, la
( 1 ) Come noto, la problematicità del concetto si avverte già nella contrapposizione, interna alla dottrina civilistica, sulla scelta del termine atto a definire l’abuso del diritto: fra chi
propende per la definizione dell’abuso del diritto come fenomeno (Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 105 ss.), chi lo definisce un argomento (Gentili, Abuso del diritto,
giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, in Riv. Dir. Comm., 2009), chi lo definisce figura o dottrina (Pino, Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in
Riv. critica del diritto privato, 2004, 25 ss.; Id., L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica (precauzioni per l’uso), in Maniaci (a cura di), Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica,
Giuffrè, Milano, 2006, 115; Id., L’esercizio del diritto soggettivo e i suoi limiti. Note a margine
della dottrina dell’abuso del diritto, in Ragion pratica, 2005, 161 ss.; Salvi, Abuso del diritto. I)
Diritto civile, in Enc. Giur., I, Roma, 1988), al termine categoria viene poi fatto spesso ricorso
e, infine, deve citarsi la definizione del concetto come principio, propria della recente giurisprudenza tributaria; sul punto si ritornerà più oltre nelle note. Si vorrà perdonare al presente
lavoro l’utilizzo indifferenziato dei termini succitati, dovuto all’impostazione prettamente penalistica dell’analisi, nell’intento di guardare all’abuso innanzitutto come a un concetto, prescindendo quindi il più possibile dalla questione della sua qualificazione giuridica, che esorbiterebbe dall’intento, proprio di questa riflessione, di evidenziarne i profili di interazione
con la materia penale così come inquadrati dalla Suprema Corte in questa vicenda.
( 2 ) Cfr. Salvini, L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr.
trib., 2006, 3100; Zoppini, Fattispecie e disciplina dell’elusione nel contesto delle imposte reddituali, in Riv. dir. trib., 2002, I, 127.
Come anticipato, il nuovo divieto di abuso del diritto (art. 10 bis, Statuto del contribuente) si applica invece all’intero ordinamento tributario – compresa dunque l’imposta sul valore
aggiunto – con la sola esclusione dei tributi doganali (art. 4, d. lgs. n. 128/2015).
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COMMENTI A SENTENZA
Cassazione giunge a confermare il provvedimento di sequestro, concludendo invece nelle altre due per il suo annullamento.
L’intreccio dei tre percorsi motivazionali è particolarmente interessante perché, come si vedrà, solo in questi ultimi due casi la Corte si riferisce compiutamente
alla figura dell’abuso di diritto, e lo fa con argomentazioni sensibilmente diverse.
2. È utile muovere dall’analisi della sentenza n. 13039/2014, perché, sebbene
non la prima in ordine di tempo, è la pronuncia che più diffusamente si sofferma
sulla portata della fattispecie incriminatrice oggetto della vicenda e aiuta a delimitare l’oggetto di indagine.
Come anticipato, in tutti e tre i casi il delitto contestato è quello di evasione dell’IVA all’importazione, fattispecie disciplinata dal rinvio che l’art. 70 d.P.R. n. 633/
1972 effettua alle disposizioni doganali, anche per la determinazione, fra l’altro,
delle sanzioni (3).
Nel caso di specie, il citato art. 70 veniva posto dall’accusa in relazione all’art.
292 T.u.l.d. (4).
La Corte imposta la propria motivazione muovendo dall’orientamento giurisprudenziale, maggioritario, che ha affermato l’autonomia del reato di evasione dell’IVA all’importazione rispetto alle fattispecie doganali, cui essa rinvierebbe pertanto solo quoad poenam (5).
( 3 ) L’art. 70 d.P.R. n. 633/1972 opera un generale rinvio alle disposizioni doganali per
l’accertamento, la liquidazione, la riscossione dell’imposta, ma anche per la disciplina delle
controversie e delle sanzioni. Ciò comporta l’applicazione dell’art. 295 T.u.l.d, disciplinante
le aggravanti, e dell’art. 301 T.u.l.d., che prevede la confisca obbligatoria nei casi di contrabbando; cfr. Cass. pen., sez. III, 3.3.2005 n. 17835, in Cass. pen., 2007, 757; Cass. pen., sez. III,
2.12.1997, n. 3549; in dottrina Padovani, Leggi penali complementari, Milano, 2007, 904;
Flora, voce Contrabbando doganale, Dig. disc. pen, III, Torino 1989, 125; Antolisei-Grosso, Manuale di diritto penale: Leggi complementari., Vol. II, Milano, 2008, 435 ss., 446; sulla
tecnica del rinvio, per tutti, Petrone, La costruzione della fattispecie penale mediante rinvio,
in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Torino, 2004, 151 ss.
( 4 ) Il testo dell’art. 292 Testo unico delle leggi doganali, d.P.R. n. 43/1973, rubricato Altri casi di contrabbando, recita: «Chiunque, fuori dei casi preveduti negli articoli precedenti,
sottrae merci al pagamento dei diritti di confine dovuti, è punito con la multa non minore di
due e non maggiore di dieci volte i diritti medesimi».
( 5 ) Con la conseguenza, merita precisarlo, della possibilità di affermare il concorso formale fra i due delitti. La tesi dell’assimilazione dell’IVA all’importazione ai diritti di confine
faceva infatti principalmente leva sull’art. 34 T.u.l.d., il quale – come del resto già l’art. 7 della
Legge doganale del 1940 – definisce i «diritti doganali» come tutti i diritti che l’Agenzia delle
Dogane è tenuta a riscuotere in forza di una legge, in relazione alle operazioni doganali. Il suo
secondo comma, poi, definisce come «diritti di confine» anche «le sovrimposte di confine ed
ogni altra imposta o sovrimposta di consumo a favore dello Stato». Da quest’ultimo inciso si
traeva spunto per qualificare l’IVA all’importazione come diritto di confine, essendo l’IVA
l’imposta sul consumo per eccellenza, con la conseguenza che la fattispecie di contrabbando di cui all’art. 292 T.u.l.d avrebbe esaurito il trattamento sanzionatorio della relativa evasione. A tale tesi è stato obbiettato di non tenere in sufficiente considerazione le segnalate
peculiarità dell’IVA, che, oltre a gravare sui consumi, ha come presupposto anche l’importazione in sé; per una ricostruzione del dibattito sul punto Padovani, op. cit., 904 ss.; Flora, op. cit., 124.
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Così procedendo, la Cassazione arriva a isolare una fattispecie autonoma, la cui
condotta astratta viene a coincidere con la mera sottrazione dei beni all’imposta dovuta (6).
Seguendo l’impostazione della Corte, l’ambito applicativo della fattispecie deve però essere ridimensionato in funzione della definizione del presupposto d’imposta, da identificarsi nel concetto di importazione (7): a questo riguardo viene invocata la giurisprudenza, comunitaria e interna (8), che ha progressivamente ri-
( 6 ) Senza quindi poter fare riferimento alle specifiche modalità di evasione tassativamente previste dalle altre fattispecie doganali, a forma vincolata; sulla funzione dell’art. 292
T.u.l.d. di chiusura del sistema, cfr. Padovani, op. cit., 893. A fronte dei molteplici problemi
applicativi derivanti dal rinvio dell’art. 70 d.P.R. n. 633/1972, un primo punto fermo è che
l’evasione dell’IVA all’importazione non risulta assoggettabile alla disciplina penalistica di
cui al d. lgs. n. 74/2000, cfr. Cass., sez. III, 15.4.2001, n. 13831, in CED Cassazione, 218798;
conformi Cass., sez. III, 31.1.2003, n. 4680; Cass., sez. III, 11.12.2002, n. 41480; Cass., sez.
III, 11.12.2002, n. 41465; Cass., sez. III, 5.11.2001, n. 36801.
( 7 ) L’autonomia fra IVA all’importazione e IVA interna si apprezza innanzitutto nella diversità del presupposto: la prima prescinde infatti dalla conclusione di un negozio giuridico
oneroso o gratuito, e fa invece riferimento a specifiche operazioni, fra le quali, per ciò che qui
interessa, l’immissione in libera pratica (art. 67, d.P.R. n. 633/1972); l’IVA all’importazione
poi, dal punto di vista soggettivo, si applica a chiunque (art. 1 d.P.R. n. 633/1972), indipendentemente dalla qualificazione di soggetto passivo ai fini dell’IVA interna; a tali differenzesi
devono aggiungere quelle procedimentali, derivanti dal citato rinvio dell’art. 70 d.P.R. n.
633/1972, che impongono l’applicazione dell’IVA all’importazione a ogni singola operazione, come per i dazi doganali, e ne escludono l’autoliquidazione per masse a opera del contribuente, come invece di regola per l’IVA interna; cfr., per tutti, Falsitta, Manuale di diritto
tributario - Parte speciale, Padova, 2010, 780 ss.
( 8 ) In particolare la cassazione richiama la nota sentenza Drexl C-299/86, del 25.2.1988,
che ha avuto modo di precisare i limiti di ammissibilità, in caso di cessione intracomunitaria,
dell’applicazione dell’IVA parte dello stato d’importazione su di un bene già sottoposto a imposizione nel paese d’esportazione: il caso era quello di un cittadino tedesco, residente a Loano in Italia, che veniva imputato del reato di contrabbando per aver importato irregolarmente un’autovettura dalla Repubblica federale di Germania, ivi immatricolata, introducendola e
utilizzandola sul territorio italiano senza osservare le norme sulla temporanea importazione.
La Corte di Giustizia vincola la compatibilità di tale imputazione al riscontro di (i) assenza di
doppia imposizione (lo Stato d’importazione può applicare l’imposta sottraendo alla propria
pretesa quanto già versato allo Stato d’esportazione) e (ii) l’infrazione relativa all’IVA all’importazione non sia sanzionata in modo sproporzionatamente più severo di quella relativa agli
scambi interni, pena la violazione dell’art. 95 del Trattato di Roma, su cui vedi (infra, nota seguente). La sproporzione era individuata dalla Corte di Giustizia nell’applicabilità delle aggravanti oltre alla confisca, nell’equiparazione fra tentativo e reato consumato, nella punibilità anche dei consumatori finali, nell’insussistenza di una soglia minima di punibilità esistente
invece per le violazioni commesse in Italia. Sul versante nazionale la giurisprudenza ha coerentemente sancito – sia per la portata precettiva dell’art. 95 del Trattato, sia per la vincolatività della sentenza Drexl – l’incompatibilità fra la fattispecie delittuosa di cui all’art. 70 d.P.R.
n. 633/1972 e la normativa comunitaria, definendo il fatto come non più previsto dalla legge
come reato per incongruenza sanzionatoria; Cass., sez. III, 21.2.1989, in Cass. pen., 1989, 1547;
sez. III, 4.7.1990, n. 9696; Cass., sez. III, 7.5.1989, n. 3528; da ultimo Cass., sez. III, 5.3.2004,
n. 10677; Della Valle, Spunti in materia di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale
tributario, in questa Rivista, 1989, 1136, in part. 1152 ss.; Mendoza, Contrabbando doganale
ed evasione dell’IVA all’importazione di autoveicoli immatricolati in Stato membro della CEE,
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COMMENTI A SENTENZA
stretto la sfera di applicabilità della fattispecie di cui all’art. 70 d.P.R. n. 633/1972,
coerentemente alle esigenze imposte dalla creazione di un mercato europeo, fondato sull’unione doganale e sul divieto di imposizione fiscale protettiva o discriminatoria (9).
Il concetto di importazione a fini IVA non appare oggi indiscriminatamente
collegato al mero superamento della linea di confine nazionale, ma viene riferito solo a beni di «provenienza extra-comunitaria» e tale cessa di essere (10) – ex art. 67
d.P.R. n. 633/1972 – il bene di produzione estera che venga immesso in libera pratica in un Paese membro (11).
in Cass. pen., 1991, 1512; Mercone, Rapporti di sovraordinazione tra diritto comunitario e diritto penale italiano, in Cass. pen., 1992, 2860 ss.
( 9 ) L’unione doganale trova la propria fonte nell’art. 28 TFUE, ma già nell’art. 9 del
Trattato di Roma, poi art. 23 del Trattato CE; essa si è concretizzata nell’Atto Unico Europeo
del 18.2.1986, ratificato dall’Italia con la l. 23.12.1986, n. 909, il cui art. 13 (tramite una modifica all’art. 8 a del Trattato CEE), individuava nel 31 dicembre 1992 la scadenza del termine
in cui la Comunità avrebbe dovuto adottare le misure destinate all’instaurazione progressiva
del mercato interno, ovvero di «uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni
del presente trattato» (art. 13, comma 2); cfr. la sentenza Corte europea di Giustizia
23.10.2003 C-115/02, Rioglass; sent. 9.9.2004, C-72/03, Soc. Carbonati Apuani. A ciò si deve
aggiungere che l’unione doganale si manifesta anche nei rapporti con i paesi terzi, con l’unione tariffaria di cui all’art. 207 TFUE (ex art. 133 del TCE, vedasi anche gli artt. 113 e 115
Trattato di Roma). Diversamente dall’aliquota IVA, infatti, la tariffa doganale europea è unitaria, posto che l’uniformità della protezione doganale rappresenta un ulteriore corollario del
mercato comune. Coerentemente all’abolizione dei dazi doganali, il diritto comunitario ha
previsto il divieto di trattamenti tributari discriminatori o di effetto equivalente. In particolare l’art. 30 TFUE (ex art. 25 TCE) vieta i dazi doganali all’importazione o all’esportazione e le
tasse di effetto equivalente, oltre ai dazi doganali di carattere fiscale; l’art. 34 TFUE (ex articolo 28 del TCE) vieta le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di
effetto equivalente fra gli Stati membri; l’art. 110 TFUE (ex articolo 90 TCE, ex 95 Trattato
di Roma), vieta l’applicazione diretta o indiretta, sui prodotti degli altri Stati membri, di imposizioni interne superiori a quelle applicate ai prodotti nazionali similari, e vieta anche imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni; cfr. Daniele, Diritto
del mercato unico europeo. Cittadinanza, libertà di circolazione, Milano, 2012, 51; Scuffi, Diritto doganale e delle accise - Rassegna di giurisprudenza, in Dir. prat. trib., 2011, 627 ss.; Padovani, L’imposta sul valore aggiunto, in Russo, Manuale di diritto tributario - Parte speciale,
Milano, 2007, 273 ss.
( 10 ) A seguito delle modifiche all’art. 67, d.P.R. n. 633/1972, intervenute con il d.l. n.
331/1993; cfr. Falsitta, Manuale..., cit., 780; Soana, I reati tributari, Milano, 2013, 411; sulla necessità di un intervento che modificasse la portata dell’art. 70 d.P.R. n. 633/1972 in riferimento all’importazione di merci comunitarie, Mendoza, op. cit., 1514; per un quadro delle
soluzioni interpretative a fini del ridimensionamento della portata del delitto di cui all’art. 70
d.P.R. n. 633/1972 immediatamente dopo la sentenza Drexl, Della Valle, op. cit., 1144;
Mercone, op. cit., 2860 ss.
( 11 ) L’importazione IVA è definita come «operazione di immissione in libera pratica»
(art. 67, lett. a), d.P.R. n. 633/1973); cfr. Mendoza, op. cit., 1512. Al riguardo si deve sottolineare la chiara distinzione fra IVA all’importazione e dazio dal punto di vista del regime tributario applicato al bene extra-europeo: con l’immissione in libera pratica il prodotto acquisisce lo status di merce che può circolare liberamente all’interno dell’Unione europea (l’art.
129 del Regolamento Doganale Comunitario); con l’assolvimento dell’IVA il bene estero, già
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Sulla base di tale definizione, la Corte ridimensiona la portata dell’elemento
normativo della fattispecie – «dovuti» – individuando nel previo sdoganamento del
bene in Danimarca la condizione ostativa per l’integrazione del presupposto d’imposta.
A fronte della prova dell’avvenuta immissione in libera pratica in un altro Stato
membro, secondo la Corte alcuna rilevanza penalistica può essere riconosciuta all’abuso del diritto come strumento di accertamento semplificato in diritto penale,
che permetta di affermare la natura extra-comunitaria di un bene già sdoganato in
Europa al momento del suo ingresso in Italia (12).
immesso in libera pratica, può essere immesso in consumo, nel circuito commerciale nazionale. Immissione in libera pratica e immissione al consumo rappresentano, pertanto, istituti diversi tra loro, che assolvono funzioni tra loro differenti, nonostante i corrispondenti tributi
abbiano un presupposto analogo e siano equiparati dal punto di vista sanzionatorio; la Cassazione ha avuto modo di ritenere integrato il delitto di cui all’art. 70 d.P.R. n. 633/1972 nel caso di un bene proveniente dalla Svizzera, Stato appartenente all’unione doganale, ma non a
quella fiscale (a seguito dall’Accordo 19.12.1992 tra la cee e la Svizzera con cui sono stati
aboliti i dazi doganali in senso proprio e le tasse ad effetto equivalente); cfr. ex multis Cass.
pen., sez. 3, n. 17432 del 22.3.2005; Cass., sez. III, 15.6.2009, n. 24678; da ultimo sul punto
Cass. pen., sez. III, 26.2.2013, n. 33161; analogamente, in riferimento a S. Marino, Cass., sez.
III, 12.7.2012, n. 34256; da ultimo Cass. pen., sez. III, 15.10.2014, n. 50320.
( 12 ) È interessante notare che la Suprema Corte, in questo passaggio, cita un suo precedente alla cui massima si conforma interamente. Si tratta della sentenza, sez. III, 2.4.2009, n.
14486, in cui si negava il valore probatorio dell’abuso del diritto, per la sua natura presuntiva
compatibile solo con l’accertamento tributario, così che la Corte concludeva in quella sede
per la non configurabilità sia del reato di contrabbando doganale che del reato di evasione
dell’IVA all’importazione. Il caso presentava però una peculiarità rispetto a quello qui in oggetto: il velivolo, che veniva immatricolato nella Confederazione Elvetica dalla società acquirente avente sede in Svizzera e successivamente sdoganato in territorio comunitario per conseguire un beneficio fiscale, era stato fabbricato e acquistato in Italia. Soffermandosi anche in
quella sede sui requisiti del concetto di importazione rilevante ex art. 67 d.P.R. n. 633/1972,
la Cassazione si concentra, a differenza del caso qui all’oggetto, su quello di origine comunitaria del bene, concludendo che «nel caso in esame, è pacifico che il velivolo è stato prodotto in
[...] risultando irrilevante – ai fini dell’individuazione del Paese di origine – la circostanza di essere stato, all’atto dell’acquisto, esportato nella Confederazione Elvetica (e poi reintrodotto nella Comunità attraverso la [...]) posto che il Paese di origine è quello in cui vi sia stata la produzione del bene (ovvero quello in cui esso abbia subito l’ultima sostanziale trasformazione industriale). Non si vede, dunque, come sia possibile contestare un delitto di evasione di IVA all’“importazione” laddove, semmai, sarebbe, piuttosto, ragionevolmente ipotizzabile un caso di evasione dell’IVA interna». Così che la Suprema Corte conclude per l’annullamento a causa dell’impossibilità di ravvisare un’ipotesi alternativa di reato, soprattutto considerata la specifica
sede processuale cautelare in cui essa veniva chiamata a occuparsi della questione; si veda però Cass., sez. III, 25.6.2014 (dep. 4.11.2014), n. 45468, che si riferiva invece a un caso in cui
un bene di produzione comunitaria veniva importato in Italia dalla Svizzera, la Suprema Corte conferma sia la natura di reato autonomo della fattispecie di cui all’art. 70 d.p.r. n. 633/
1972, che l’orientamento secondo cui il citato Accordo doganale (supra, nota precedente) lascerebbe impregiudicata la facoltà di riscossione dell’IVA e precisa che all’applicazione della
fattispecie di evasione dell’IVA all’importazione non osta la circostanza che il bene sia stato
prodotto in Italia, posto che il citato accordo doganale ha abolito i dazi e le restrizioni quantitative, ma non ha incluso la Svizzera nel territorio doganale della Comunità, così che la nozione di importazione definita dalla sesta direttiva n. 77/338 cee (art. 7), valida per gli Stati
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COMMENTI A SENTENZA
Nella sentenza in commento, dunque, la questione viene risolta alla luce della
formale qualificabilità come «merce comunitaria» del velivolo di produzione extraeuropea: l’importazione, per come il delitto la presuppone, è consistita nel momento in cui l’aereo è stato introdotto in Danimarca, dove è stato effettivamente
sottoposto all’applicazione dell’imposta, per quanto con aliquota dello 0%.
Così argomentando, a ben vedere, la Suprema Corte non risponde del tutto alle
questioni sollevate dal Tribunale. Mentre infatti la Cassazione si limita a riportare la
palmare irriconducibilità del passaggio Danimarca-Italia alla descrizione legislativa
di «importazione a fini IVA», il Tribunale pretendeva invece di avere dimostrato
perché l’operazione, complessivamente considerata, dovesse essere riqualificata come di importazione, ai sensi dell’art. 70 d.P.R. n. 633/1972.
Tale impostazione, in altre parole, pareva sottendere una concezione dell’abuso del diritto come qualcosa di più di un mero strumento probatorio: si voleva affermare che la sottoposizione all’IVA 0% e il pagamento della Tariffa Doganale
Unitaria in Danimarca equivalevano all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto in
Italia.
Come anticipato, una conclusione diversa viene invece raggiunta da Cass. n.
11976/2014, che conferma l’ordinanza del Tribunale di Cagliari e dunque il decreto di sequestro preventivo.
Si deduce dalle difese che anche in questa sede era stata invocata la figura dell’abuso del diritto, impostazione che la Suprema Corte – punto 5 della decisione
ora in commento – si limita a sposare implicitamente.
L’operazione di importazione avrebbe avuto l’unico scopo di costituire uno
schermo formale rispetto all’operazione effettiva, che sarebbe stata da individuarsi
nella diretta cessione del velivolo dalla compagnia statunitense all’imputato.
A sostegno di tale tesi, la Cassazione muove da riferimenti a circostanze fattuali
tratte dall’ordinanza oggetto di impugnazione: in particolare, dalla mancata iscrizione del velivolo nei registri ufficiali danesi e dall’assenza di un titolare effettivo
del bene diverso dal soggetto che l’aveva acquistato negli Stati Uniti. Come a dire
che al pagamento della Tariffa doganale non sarebbe seguita alcuna effettiva immissione al consumo del bene in Danimarca (13).
membri, non può invece valere per i rapporti tra essi e la Confederazione Elvetica: l’origine
comunitaria del bene non ha dunque più alcuna rilevanza laddove il bene sia uscito dall’unione doganale Europea; conforme Cass., sez. III, 3.3.2005, n. 17835, Santoro, Rv. 231836.
( 13 ) La Cassazione pone particolare attenzione alla circostanza che l’importazione in Danimarca era avvenuta a cura di una società intermediaria di diritto austriaco, il cui legale rappresentante risultava verosimilmente collegato – in quanto domiciliato nei medesimi locali –
allo stabilimento italiano della società statunitense produttrice dei velivoli. Si sottolinea inoltre che il soggetto destinatario del bene risultava tale fin dall’inizio delle operazioni di importazione dagli Stati Uniti, e che a lui era stata emessa la fattura finale. Il riferimento all’immatricolazione merita qualche precisazione. La Suprema Corte prende atto del limite della doppia imposizione per l’ammissibilità dell’applicazione dell’IVA negli scambi intracomunitari,
principio ribadito dalla citata sentenza Drexl (il cui caso, come visto, si riferiva a un veicolo
già immatricolato nel paese membro d’esportazione, cfr. supra nota 8), ma già affermato da
altri precedenti della Corte europea di Giustizia in materia di IVA all’importazione e art. 95
TCE; cfr. sentenza 5.5.1982, causa n. 15/81, Schul, in Dir. prat. trib., 1984, II, 834 ss., con no-
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La conclusione della Suprema Corte non è però del tutto coerente con la pretesa affermazione dell’abusività dell’operazione: in questa sede la Cassazione conclude, infatti, per la natura fraudolenta dell’operazione medesima (14).
Come noto, l’assimilazione della figura dell’abuso alla frode o simulazione è un
rilievo ricorrente, non solo nella vicenda in esame, su cui si registrano posizioni
contrastanti in dottrina (15).
ta di Braccioni, Sul regime fiscale relativo alle importazioni dei beni ceduti da privati nell’ambito della CEE; sentenza 21.5.1985 (causa 47/84 Gaston Schul, Racc., 1985, 1491); Della
Valle, op. cit., 1150; Daniele, op. cit., 53. Nella sentenza qui in oggetto, la Cassazione specifica che tale rischio si sarebbe presentato solo nel caso in cui il bene fosse già stato immatricolato e iscritto nei registri pubblici in altro Paese membro, ove si sarebbe dunque ritenuto già
assolto il debito IVA, che sarebbe stato dunque duplicato a fronte di un’ulteriore imposizione all’ingresso in Italia. L’immatricolazione è uno degli elementi del presupposto di imposizione, ai fini dell’IVA sulle operazioni intracomunitarie, dell’acquisto a titolo oneroso di mezzi di trasporto nuovi, spediti o trasportati nello stato da un altro Stato membro, resa imponibile a fini antielusivi dall’art. 38, comma 3, lett. e), d.l. n. 331/1993, anche fra privati; ai medesimi fini antielusivi, il citato comma 3, alla lett. b), equipara all’acquisto intracomunitario «la
introduzione nel territorio dello Stato da parte o per conto di un soggetto passivo d’imposta
di beni provenienti da altro Stato membro»; cfr. Falsitta, Manuale..., cit., 784. Come detto,
però, il riferimento alle disposizioni in materia di IVA intracomunitaria non avrebbe reso
possibile l’applicazione dell’art. 70, d.P.R. n. 633/1972, si vedano sul punto le conclusioni
della citata Cass., n. 14486/2009; cfr. supra nota 6 e nota 12 sulla diversità campo applicativo
d.lgs. n. 74/2000.
( 14 ) La sent. n. 11976/2014 fa infatti riferimento alla sentenza Trespa International BV
(C-248/2007). Tale pronuncia veniva invocata per motivare la fittizietà dell’interposizione
del soggetto austriaco rispetto al consumatore italiano, posto che in quel caso la Corte Europea di Giustizia si era soffermata su profili applicativi del Regolamento di attuazione del Codice Doganale Comunitario (Regolamento n. 2454/1993 di attuazione del Codice Doganale
Comunitario, Reg. 2913/1992), in particolare riconducendo determinati obblighi amministrativi al cessionario finale della merce importata invece che al diretto importatore. La cassazione n. 11976/2014 evidenzia come si fosse in quella sede avuto modo di affermare che la
«persona che fa importare la merce (ex art. 291, n. 1) è quella cui la merce è destinata e “che
ha intenzione di utilizzarla per la destinazione particolare prevista”; e si era chiarito anche
che non vi è “cessione di merci” all’interno della Comunità se la persona autorizzata all’operazione di importazione agisce per conto dell’importatore finale, anche se la merce è importata in uno Stato membro e successivamente trasportata in un altro Stato membro. Il caso, però, come correttamente sottolineato nella successiva Cass. n. 15186/2014 (qui più oltre commentata), riguardava strettamente i requisiti amministrativi (autorizzazione scritta) per godere di un particolare regime tariffario favorevole (in termini di sospensione o riduzione del dazio), e non strettamente l’IVA all’importazione».
( 15 ) Rivaluta questa impostazione, riconducendo la constatazione della autonomia del
meccanismo elusivo da frode e simulazione a Cass., sez. trib., 29.9.2006, n. 21221, in Rep. Foro it., 2006, Redditi (imposte), n. 837, Gentili, Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria...,
cit., 418 ss., concludendo che l’abuso del diritto «potrà [...] evitare il nome ma non la sostanza delle impugnative per simulazione o per frode»; la riflessione dell’A. si fonda su di una ricostruzione dell’abuso tributario in termini di Mißbrauch von rechtlichen Gestaltungsmöglichkeiten (art. 242 BGB e 42 Abgabenordnung), così che il parallelo con la simulazione starebbe nel nascondimento, al di sotto di forme giuridiche non volute, della vera sostanza economica dell’operazione, mentre l’accostamento alla frode deriverebbe dall’inderogabilità
della norma fiscale; si veda però Pedrazzi, Qualche riflessione sulla «frode fiscale», in Dir.
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COMMENTI A SENTENZA
3. Nell’ultima sentenza in commento (n. 15186/2014) la terza sezione, in diversa composizione, ha invece cura di distinguere, da una parte, le categorie dell’abuso
del diritto e dell’elusione, dall’altra la frode, sforzandosi di precisare, ripercorrendo
le argomentazioni dell’ordinanza sul punto, il nucleo concettuale della figura dell’abuso.
Il Tribunale aveva infatti sottolineato gli indici e le manifestazioni sintomatiche
dell’abuso del diritto, rifacendosi alla concezione tripartita del fenomeno elusivo,
composta dall’elemento intenzionale – il «fine abusivo esclusivo» –, dall’elemento
strutturale – «l’architettura complessiva non lineare delle operazioni negoziali sottostanti, prive di giustificazione economica diversa dal risparmio del tributo» – e
dall’elemento teleologico – «il risparmio indebito di imposta».
Anche qui si accosta poi alla categoria dell’abuso una terminologia evocativa
dei concetti di frode e simulazione, che poco o nulla hanno a che vedere con l’abuso del diritto e dell’elusione, caratterizzati, come noto, da trasparenza ed esatta corrispondenza del compiuto al voluto (16).
La Suprema Corte dimostra invece maggiore consapevolezza delle caratteristiche peculiari della figura dell’abuso del diritto: dopo un lapidario riferimento
ai rapporti fra abuso del diritto ed elusione (17), la Cassazione esordisce richia-
prat. trib., 1988, I, 259 ss., che distingue simulazione e di frode; distingue nettamente frode ed
elusione Lupi, L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali, in Rass. trib., 1994,
228; Id., Elusione e risparmio d’imposta nella nuova normativa, ivi, 1997, 1099, anche per cenni ai rapporti fra fraudolenza ed elusione nella normativa antecedente all’art. 37 bis d.P.R. n.
600/1973, ovvero l’art. 10 della l. n. 408/1990; Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale:
quale rilevanza penale?, in Giur. comm., 2011, nota 10.
( 16 ) Nelle parole del Tribunale «una condotta connotata da profili di frode, intenzionalmente posta in essere al solo scopo di porre in consumare un’evasione fiscale, altrimenti irrealizzabile, e di dissimulare la realtà dei rapporti giuridici sottostanti».
( 17 ) I rapporti fra abuso del diritto ed elusione sono stati, come noto, oggetto di acceso
dibattito in dottrina; cfr. Melillo, Elusione e abuso del diritto: tra ipotesi di integrazione ed
esigenze di certezza normativa, in Dir. prat. trib., 2010, I, 413; Carpentieri, L’ordinamento
tributario tra abuso e incertezza del diritto, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1053; Basilavecchia,
Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, in GT Rivista di giurisprudenza tributaria, 2008, 741.
A risolvere detta diatriba è intervenuto, come anticipato, il nuovo art. 10 bis dello Statuto
del Contribuente, che prevede l’unificazione delle nozioni di abuso del diritto e di elusione fiscale in un’unica definizione che risulta fortemente influenzata dalla raccomandazione della
Commissione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva.
Essa differisce dalla previgente definizione prevista dal comma 1 dell’art. 37 bis, e risulta
strutturata su tre punti fondamentali: due elementi costitutivi e una clausola negativa. I primi
sono l’assenza di «sostanza economica» e la realizzazione di «vantaggi fiscali indebiti» come
effetto essenziale dell’operazione: due requisiti che, così come definiti dal successivo comma
2, lett. a) e b), art. 10 bis, devono essere compresenti per la contestazione dell’abuso rispetto a
un’operazione che pure appaia formalmente rispettosa delle norme tributarie. La clausola di
esclusione è rappresentata dalla presenza di valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche
di ordine amministrativo e gestionale, che rispondono a esigenze di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa e, per come è scritto il comma 3 – «non si considerano abusive, in
ogni caso» – (comma 3), è evidente che tale esimente sia suscettibile di operare anche nel caso
in cui i suddetti elementi costitutivi siano presenti.
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mandole «fonti», nazionale (18) e comunitaria (19), del principio antielusivo.
Si cerca però subito di mettere in luce la cifra comune di queste categorie, precisando che, se di frode si vuole parlare in questo campo, si deve parlare di frode alla funzione (20).
La Cassazione pone dunque al centro della categoria dell’abuso del diritto il
problematico concetto di «scopo della norma», una lettura del fenomeno che si distingue da quella del Tribunale proprio nei criteri di valutazione della condotta abusiva (21).
( 18 ) Notoriamente «bipartita» fra elusione nominata e principio generale antiabuso/elusione innominata, riconducibile, come noto, alla posizione assunta sul punto dalla Suprema
Corte nelle sentenze del 2008 (in part. Cass., sez. un. civ., 23.12.2008, nn. 30055, 30056,
30057, in GT - Rivista di giurisprudenza tributaria, 2009, 229 ss., con nota di Lovisolo, L’art.
53 Cost come fonte della clausola generale antielusiva ed il ruolo delle «valide ragioni economiche» tra abuso del diritto, elusione fiscale e antieconomicità delle scelte imprenditoriali) che
hanno individuato nell’art. 53 Cost. – e nel relativo obbligo di contribuzione in proporzione
alla capacità economica – un principio generale antielusivo, sufficiente per individuare attività elusive, non opponibili all’erario, in quelle operazioni caratterizzate da un uso distorto, anche se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere un vantaggio fiscale, prive di giustificazioni economicamente apprezzabili diverse dal
vantaggio fiscale stesso; cfr. Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr.
Giur., 2009, 423; Lovisolo, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un
principio, Riv. dir. trib., 2009, 49; Lupi-Stevanato, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. Trib., 2009, 403; Corasaniti, Sul generale
divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario, in Obbligazioni e contratti, 2009, 212;
Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. trib., 2009, 487; Pedrotti, Il
principio giurisprudenziale dell’abuso del diritto nell’imposizione diretta, in Dir. prat. trib.,
2010, 597; cfr. Cass. civ., sez. V., 5.1.2014, n. 653; Cass. civ., sez. V, 30.11.2012, n. 21390, che
ha definito l’operazione abusiva come caratterizzata dall’elemento predominante e assorbente dello scopo elusivo del fisco, così che il disinnesco del divieto può verificarsi solo nel caso
in cui possa spiegarsi altrimenti il mero conseguimento di risparmio d’imposta.
( 19 ) Originatasi, come noto, a partire dalla sentenza Halifax del 2006 (CGCE, 21.2.2006,
causa C-255/02, Halifax), la quale, al § 93 esclude esplicitamente che a un comportamento
abusivo possa essere ricondotta una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento
normativo chiaro e univoco, limitandosi a prevedere la conseguenza del rimborso di quanto
sottratto a imposizione; per un inquadramento delle differenze fra i principi affermati in
quella sentenza e le soluzioni nazionali (in part. l’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973) vedi Salvini,
L’elusione IVA..., cit., 3097; sottolinea la minore specificità della nozione domestica di abuso,
sia rispetto a quella comunitaria, che a quella elusiva di cui al diritto positivo, Zizzo, L’elusione tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario: definizioni e prospettive di coordinamento, in Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 65; vedi
anche Beghin, Abuso del diritto: la confusione persiste, in GT-Rivista di giurisprudenza tributaria, 2008, 649.
( 20 ) Nel contestare tale assunto, così si esprime la successiva Cass. n. 15186/2014: «non è,
in conclusione, configurabile una sorta di penalmente illecita simulazione complessiva quale
è quella che riscontra il Tribunale». In particolare la Suprema Corte, nella sentenza n. 15186/
2014, critica il richiamo, operato nella precedente sent. n. 11976/2014, alla sentenza Trespa
International BV (C-248/2007); cfr. supra nota 14.
( 21 ) La cassazione conferma l’insufficienza, ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa, dell’esclusiva finalità psicologica in capo all’agente di conseguimento del vantaggio fi-
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La Corte dimostra di volere impostare il ragionamento su un piano di maggiore
astrazione, prescindendo dal tentativo di una descrizione definitoria dell’attività
elusiva, si muove alla ricerca del nucleo comune ai concetti di abuso del diritto e di
elusione fiscale, che essa individua nel tradimento dello scopo intrinseco al diritto
da cui il soggetto agente muove (22), in questo caso la libertà di circolazione delle
merci e dei capitali (23).
È questo un criterio che potremmo dire oggettivamente teleologico, secondo cui
l’abuso del diritto si definisce nella «distorsione del diritto rispetto alla sua funzione
tipica, alla sua ragion d’essere, a principi fondamentali dell’ordinamento» (24).
scale, nonché dell’eventuale effettivo conseguimento dello stesso; per una disamina dei precedenti in tal senso cfr. Marcheselli, Equivoci e prospettive della elusione tributaria, tra principi comunitari e principi nazionali, in Dir. prat. trib., 2010, 824 ss.; la dottrina tributaristica ha
avuto modo di precisare che il requisito delle valide ragioni economiche non è elemento costitutivo della fattispecie elusiva, ma rappresenta un fatto impeditivo all’operatività della norma antielusiva; cfr. Lupi, Elusione e legittimo risparmio di imposta nella nuova normativa, in
Rass. trib., 1997, 1100; Russo, Brevi note in materia di disposizioni antielusive, in Rass. trib.,
1999, 75; Zoppini, Fattispecie e disciplina dell’elusione nel contesto delle imposte reddituali, in
Riv. dir. trib., 2002, 78.
( 22 ) Valorizzando, a ben vedere, un accenno già operato in tal senso dall’ordinanza del
Tribunale, che aveva individuato l’illiceità dell’operazione nelle modalità di esercizio del diritto: «oltre i limiti ed in contrasto con gli scopi per i quali è stato riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico».
( 23 ) La Suprema Corte evidenzia nella propria argomentazione il riferimento alla giurisprudenza comunitaria che negato l’abuso del diritto di libera circolazione delle merci o di
stabilimento in riferimento a fini di risparmio fiscale; Corte di Giustizia, sentenza 9.3.1999,
Centros Ltd., C-212/97; Id., sent. 12.9.2006, Cadbury Schweppes e a., C-196/04. È stato detto che lo scopo della norma, nell’abuso del diritto tributario, è solo quello della norma tributaria, sostenendo una diversa accezione della figura dell’abuso del diritto nella materia civile e in
quella tributaria, fondata sull’assenza, in diritto tributario, di un autonomo potere dispositivo
di autoregolamentazione, con conseguente limitazione in capo al contribuente della scelta fra
gli strumenti giuridici Lupi, Elusione e sanzioni penali, in Fiscalità d’impresa, Il Sole-24 Ore,
Milano, 2000, 151; cfr. anche Id., L’elusione come strumentalizzazione..., cit., 226. Venendo
però all’identificazione dello scopo della norma tributaria, esso può essere ricostruito secondo
percorsi differenti: da un lato, infatti, con le parole della sentenza Halifax, il vantaggio fiscale
perseguito si rivela indebito in quanto contrario all’obbiettivo perseguito dalle disposizioni della sesta direttiva, e analogamente, sul fronte interno, lo scopo può essere individuato nell’art.
53 Cost., come esplicitamente fatto dalla Suprema Corte nelle sentenze del 2008 (per riferimenti vedi supra, nota 18); dall’altro, ricordando con Autorevole dottrina che «il prelievo tributario non si trova in diretto contatto con la capacità economica di ciascuno, ma con gli indici di
questa capacità», deve porsi l’accento sul fatto che quindi l’elusione svolge la propria funzione,
servente dell’art. 53 Cost., in maniera indiretta, assicurando la maggiore aderenza del prelievo
al «criterio distributivo fissato dal legislatore, e per suo tramite al principio costituzionale di capacità contributiva» (in corsivo parole di Zizzo, Clausola antielusione..., cit., 490, che introduce
queste precisazioni dopo aver sottolineato la connessione fra divieto di abuso e principio di
capacità contributiva); per Zoppini, Fattispecie e disciplina..., cit., 128, il riferimento positivo,
da parte dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973, all’aggiramento di una norma fiscale sostanziale
impedirebbe di considerare la norma antielusiva una norma antiabuso.
( 24 ) Così Pino, Il diritto e il suo rovescio..., cit., 50, che offre un quadro dei vari criteri sui
quali la figura dell’abuso può essere fondata (31 ss.); si veda anche l’esposizione dello Josserand, De l’esprit desdroits et de leurrelativitè. Théorie dite de l’abusdesdroits, Paris, 1939, 365
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Del criterio teleologico in senso stretto, così come apparentemente recepito
dalla Suprema Corte, non si trova esplicita traccia nella legislazione in materia di
elusione (25).
La scelta del criterio in parola non ridimensiona, di per sé, la difficoltà, intrinseca alla figura dell’abuso, nella ricerca di una reale guida obbiettiva per l’interprete
(26), difficoltà che ha offerto diversi spunti, alla sensibilità del penalista, per sostenerne la pericolosità, o l’inutilità.
Come noto, infatti, la dottrina ha avuto modo di evidenziarne, con accenti diversi, il conflitto rispetto al principio di legalità. In particolare si è messo in luce il possibile contrasto con i corollari della tipicità, tassatività, determinatezza, materialità (27),
ss., ripresa in Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 14, nota 6, secondo cui i vari
orientamenti al riguardo possono essere raggruppati attorno ai quattro elementi de: l’intenzione di nuocere; la colpa nell’esecuzione; il difetto di interesse legittimo; la deviazione del diritto dalla sua funzione sociale; merita sottolineare che per lo Josserand, l’ordinamento italiano sarebbe un esempio di sistema fondato sulla relatività dei diritti, prendendo l’art. 833 c.c.
quale esempio; cfr. Josserand, op. ult. cit., 297.
( 25 ) O almeno non vi era nel testo dell’art. 37 bis, scenario radicalmente mutato con la recentissima riforma introdotta con il d. lgs. n. 128/2015, recita infatti ora il comma 2 dell’art.
10 bis dello Statuto del contribuente: «Ai fini del comma 1 si considerano:
a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole
operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli
strumenti giuridici a normali logiche di mercato;
b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con
le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario» (corsivi aggiunti).
( 26 ) Pino, op. ult. cit., 51. Il rilievo è tanto più pregnante se si guarda alla contestualizzazione nella materia tributaria della categoria dell’abuso: se è dal principio di capacità contributiva che deve trarsi l’identificazione del fattore di selezione delle condotte elusive (Zizzo,
Clausola antielusione..., cit., 492) – ovvero le valide ragioni economiche, da cui i conseguenti
problemi di ripartizione dell’onere della prova – viene spontaneo chiedersi come influisca
sull’apprezzamento dell’elusione la constatazione che non tutti gli oneri fiscali, pur suscettibili di elusione, presentino il medesimo legame con il principio di cui all’art. 53 Cost. (basti
pensare al tipo di prelievo oggetto della vicenda qui commentata rispetto all’IVA interna, o ai
dazi doganali), e che in alcuni casi il principio di capacità contributiva paia atteggiarsi in senso diverso da quello puramente economico (si pensi all’Irap, con la doverosa precisazione che
l’evasione di questa imposta non trova apposita sanzione penalistica; cfr. da ultimo Cass.,
2.2.2015, n. 4906, inedita); Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali,
in Corr. giur., 2009, 293, rileva l’incompletezza teorica del ragionamento proprio delle sentenze del 2008 (supra, nota 18) lamentando il mancato riferimento al principio costituzionale
di uguaglianza; sul criterio delle valide ragioni economiche Mastroiacovo, L’economicità
delle valide ragioni economiche (note minime a margine della recente evoluzione del principio
di abuso del diritto), in Riv. dir. trib., 2010, I, 449 ss.; propone la rimozione dell’aggettivo
«economiche» alle «valide ragioni» Procopio, L’improcrastinabile soluzione legislativa dell’abuso del diritto, in Dir. prat. trib., 2011, 252; si veda anche Ficari, Clausola antielusiva e
art. 53 della Costituzione, in Rass. trib., 2009, 390.
( 27 ) La critica è fondata sulla tesi che l’interpretazione dei concetti di effettivo/fittizio,
propri del d. lgs. n. 74/2000 sia semanticamente collegata alla esistenza materiale; cfr. Musco-Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2010, 170; Flick, Abuso del diritto ed elusio-
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ma anche con il principio di offensività (28) e, guardando alla dimensione applicativa dell’elusione, con quello di irretroattività della legge penale (29).
4. Il dibattito sulla interazione fra abuso del diritto e fattispecie penali ha, almeno in parte, assunto un andamento analogo a quello avvenuto in seno alla dottrina
civilistica relativamente alla stessa ammissibilità dell’abuso del diritto come categoria giuridica (30): riguardo la possibilità dell’esistenza dell’abuso di diritto nel diritto
penale, infatti, le varie posizioni possono, schematizzando, essere ricondotte a due
approcci.
Il primo tende a vedere l’abuso del diritto come una categoria fenomenologica
31
( ), idonea ad agglutinare attorno a sé le più varie condotte concrete, accomunate
da più elementi, i quali diventano segni intercambiabili, e comunque meramente
descrittivi.
ne fiscale: quale rilevanza penale?, cit., 485-486; Mucciarelli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario,
Milano, 2009, in part. 432, secondo il quale «la categoria dell’abuso del diritto, in quanto principio generale dell’ordinamento, è strutturalmente estranea al mondo del diritto penale, per la
sua incompatibilità con il fondante principio di legalità» (corsivo aggiunto); Musco, Brevi note
sulla riforma del diritto penale tributario, in Rass. trib., 2010, 1179; Lanzi-Aldrovandi, op.
cit., ed. 2011, 166 ss., in part. 170; Perini, La tipicità inafferrabile, ovvero elusione fiscale,
«abuso del diritto» e norme penali, in Riv. dir. trim. econ., 2012, 731 e 746; Lunghini, Elusione e principio di legalità: l’impossibile quadratura del cerchio?, in Riv. dir. trib., I, 2006, 657;
Salcuni, Abuso del diritto ed elusione fiscale. Tra offensività e determinatezza, Riv. dir. trim.
econ., 2013, 113 ss., in part. 127 ss.; Troyer-Ingrassia, La rilevanza penale dell’elusione fiscale e il triangolo di Penrose, in Riv. it. dir. proc. pen., 2086, che fanno riferimento al principio di precisione e quello di tipicità, in part. nota 21; Fasani, L’irrilevanza penale dell’elusione tributaria, in Le Società, 2012, 799 ss.; Borsari, Profili penali dell’elusione fiscale, in Id. (a
cura di), Profili critici del diritto penale tributario, Padova, 2013, 159 ss.; con riferimento all’elusione fiscale già Alessandri, L’elusione fiscale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1075 ss.
( 28 ) La tesi è stata sviluppata in riferimento alle fattispecie di cui al d. lgs. n. 74/2000 da
Salcuni, op. cit., 133 ss., sulla base della ricostruzione del bene giuridico di quelle fattispecie
in termini di strumentalità, come trasparenza fiscale, limitando l’operatività del precetto penale alle sole clausole antielusive speciali o analitiche; contra, individua il bene giuridico delle
suddette fattispecie nella corretta percezione del tributo, insieme alla dottrina maggioritaria,
Musco, voce Reati tributari, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007, 1045; ridimensionano la
critica fondata sul principio di offensività in quanto essa aprirebbe «ampi spazi ad una generalizzata e notevole discrezionalità in numerose e possibili prospettive di condotte potenzialmente elusive e abusive» Lanzi-Aldrovandi, Manuale..., ed. 2014, 193.
( 29 ) Il punto verrà ripreso infra § 6, nota 58.
( 30 ) È ricorrente nelle trattazioni, anche penalistiche, sul tema, la citazione di Rotondi,
L’abuso di diritto, Riv. dir. civ., 1923, 104 ss. «[è] un fenomeno sociale non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di
transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica e ciò per la contraddizione
che nol consente».
( 31 ) Si veda anche il commento del Presidente dell’Unione delle Camere Penali Valerio
Spinarelli sul Sole 24 Ore di Martedì 6 settembre 2011, 15, che sottolinea il rischio di abbandonare una pena rispettosa dei «binari» del diritto penale (valutazione del fatto e del soggetto
che quel fatto ha commesso – art. 133 c.p.), in favore di una pena che scatterebbe «in automatico» nel contesto di una «fenomenologia».
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Secondo questa impostazione, dando per assodata la natura irrimediabilmente
discrezionale e assiologico-valutativa della categoria (32), a fronte dei rischi di eterointegrazione del dettato positivo non resterebbe che constatare come, in taluni
casi, le fattispecie penali effettivamente contemplino condotte che la dottrina dell’abuso ascriverebbe al relativo fenomeno, mantenendone però ferma l’operatività
su presupposti completamente autonomi.
Muovendo da queste premesse, si è giunti a sostenere l’incompatibilità della categoria non solo con il diritto penale, ma con l’intero diritto punitivo (33).
La posizione assunta dalla Suprema Corte nella sentenza qui all’oggetto (n.
15186/2014) è, almeno all’apparenza, figlia di un’impostazione diversa.
Per la cassazione l’abuso del diritto è una categoria giuridica, è una norma di gestione ermeneutica, suscettibile di operare in termini oggettivo-teleologici.
A questo riguardo pare a chi scrive che siano due gli elementi meritevoli di attenzione nell’ordito argomentativo della sentenza qui commentata.
Nelle parole della Corte l’abuso del diritto è innanzitutto un istituto di sostanza
ermeneutica, ovvero uno strumento di concretizzazione, e quindi di circoscrizione della efficacia della norma che ha natura generale ed astratta (34).
( 32 ) Sui criteri, latu sensu, morali, quale ricostruzione del concetto di abuso, e per i riferimenti alla dottrina che ha propeso per tale tesi cfr. Pino, Il diritto e il suo rovescio..., cit., 46;
parla di integrazione meta-legale Flora, Perché l’«elusione fiscale»..., cit., 873; cfr. anche
Giacometti, op. cit., 460.
( 33 ) Dunque anche rispetto alle sanzioni amministrative; cfr. Marcheselli, Elusione,
buona fede e principi del diritto punitivo, in Rass. trib., 2009, 401; Falsitta, L’aberrante cumulo materiale fra sanzioni penale e sanzioni amministrative tributarie nel Decreto delegato n.
74/2000, in Riv. dir. trib., 2001, 215; Screpanti, Elusione fiscale, abuso del diritto e applicabilità delle sanzioni amministrative, in Rass. trib., 2011, 413, che intitola il § 3.3 del Suo lavoro
«Incompatibilità “ontologica” fra elusione, abuso e repressione penale»; Carinci, Elusione
fiscale, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Dir. prat. trib., 2012,
785 ss.; Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quali sanzioni tributarie?, in Giur. Comm.,
2012, 177; Gabelli-Rossetti, Cass. 30 novembre 2011, n. 25537: anche l’elusione sconta le
sanzioni amministrative, in Fisco, 2011, 7906; Castaldi, La punibilità del comportamento elusivo, in Corr. trib., 2009, 2391; Corrado, Elusione e sanzioni: una dicotomia insanabile; Id.,
Elusione tributaria, abuso del diritto (comunitario) e inapplicabilità delle sanzioni amministrative, in Riv. dir. trib., I, 2010, 551 ss.; Id., La questione dell’applicabilità delle sanzioni amministrative ai comportamenti elusivi, in Dir. prat. trib., 2010, 621 ss.; Comm. Trib. Prov. Milano,
sez. XIV, 3.10.2006 - 13.11.2006, n. 278, in Riv. dir. trib., 2009, III, 23 ss., con nota di Caraccioli, Clausole anti-elusive ex art. 37 bis DPR n. 600/1973: inapplicabilità di sanzioni tributarie e profili penali, 47 ss.
La questione è stata definitivamente risolta dalla riforma portata dal d. lgs. n. 128/2015, il
quale, con il comma 13 del nuovo art. 10 bis dello Statuto del contribuente, prevede che: «Le
operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta
ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».
( 34 ) Suscettibile, precisa la Corte, di trovare applicazione anche in campo processuale, e
cita quale esempio di abuso del diritto processuale il caso affrontato da Cass., sez. un.,
29.9.2011 - 10.1.2012, n. 155. Il riferimento all’elemento ermeneutico invoca, innanzitutto, la
contrapposizione, interna alla dottrina tributaristica, sull’ascrizione dell’elusione al momento
ermeneutico della fattispecie tributaria; secondo Marcheselli, Elusione, buona fede..., cit.,
406, nt. 5, insiste, persuasivamente, per l’estraneità della categoria dell’elusione rispetto alla
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Alla Cassazione non sfugge poi l’ampiezza con cui tale norma potrebbe operare, e subordina perciò la sua interazione con la materia penale all’individuazione di
una specifica disposizione-filtro che la riconcili – ed è questo il secondo punto centrale – con il vero ostacolo rispetto alla sua interazione con la disposizione penale,
che la Corte indica nel principio di determinatezza, inteso come freno alle potenzialità ermeneutiche, a tutela del principio di separazione dei poteri e dell’autodeterminazione del singolo (35).
L’abuso del diritto e l’elusione, dunque, non possono essere apprezzati solo sul
piano probatorio: la riflessione deve invece spostarsi sul piano dei criteri di integrazione diretta della fattispecie penale, ciò che, secondo la Corte, non può tuttavia avvenire tramite il ricorso a un principio generale, né a una norma di gestione ermeneutica (36).
tematica dell’interpretazione, annosa questione su cui la dottrina si divide, precisando che,
laddove la fattispecie astratta potesse essere ritenuta suscettibile, una volta trasformata da disposizione a norma vera e propria, di ricomprendere quella condotta concreta, si tratterebbe
di evasione e non di elusione; contra Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 3.
( 35 ) La Cassazione trova questo riferimento dalla sent. Cost. n. 21/2009: «Quanto, poi,
alla asserita compromissione del principio di determinatezza – al quale si riferiscono, in effetti, in larga prevalenza le censure del giudice a quo – questa Corte ha avuto modo di affermare
come esso risponda a due fondamentali obiettivi: per un verso, quello di evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il
lecito e l’illecito; e, per altro verso, quello di garantire la libera autodeterminazione individuale, permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria condotta (sentenza n. 327 del 2008)».
( 36 ) «Così che – prosegue la Suprema Corte –, come accade per le espressioni sommarie e i
vocaboli polisensi, il ricorso a clausole generali o a concetti elastici non comporta alcun vulnus
del suddetto parametro costituzionale, potendo il giudice esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta in base a un fondamento ermeneutico controllabile» e conclude citando la nota sent. Cost., n. 364/1988. La Suprema Corte si ricollega
con la pronuncia in oggetto a quell’orientamento, consolidatosi in riferimento alle fattispecie
di cui agli artt. 4 e 5 d. lgs. n. 74/2000, secondo il quale la condotta di elusione – con le stesse
parole della cassazione – può essere posta sul piano della integrazione diretta della fattispecie
penale qualora coincida, per la sua conformazione, o con il contenuto della norma penale in questione, o con la violazione di una specifica norma tributaria antielusiva che consente appunto di
identificare la condotta criminosa; è il noto caso «Dolce e Gabbana», Cass., sez. II,
22.11.2011, n. 7739 (in Dir. pen. proc., 2012, 858, con commento di Veneziani, Elusione fiscale, «esterovestizione» e dichiarazione infedele); cfr. Cipollina, Elusione fiscale, in Riv. dir.
fin., I, 2007, 555-558 sottolinea come il sempre maggior ricorso a fattispecie antielusive particolari, alimentando la crescente complessità del sistema, e dunque innescando «l’inevitabile,
iperspecializzata risposta dei contribuenti e dei loro legali», portino a sempre maggior incertezza. Sul tema delle disposizioni antielusive di tipo analitico cfr. La Rosa, Nozione e limiti
delle norme antielusione analitiche, in Corr. trib., 2006, 3092 ss.; Id., Elusione ed antielusione
fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, 785 ss.; Zoppini, La condotta
elusiva sotto il profilo della pena, in Riv. dir. trib., 2002, 585; Del Federico, Elusione e illecito tributario, in Corr. trib., 2006, 3110 ss., che conclude per la sanzionabilità dell’elusione
enucleata dall’art. 37 bis; da ultimo Giacometti, op. cit., propone una lettura alternativa dei
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5. Si riprenda il primo dei due punti evidenziati in conclusione del precedente
paragrafo: è visto che per la Suprema Corte l’abuso del diritto può essere uno strumento di concretizzazione, di precisazione dei confini dell’esercizio del diritto, che
opera convertendo la condotta in abuso, cioè in illecito (37).
Da qui due osservazioni.
La prima è, per quanto banale, che la figura dell’abuso non serve quando i confini del diritto sono chiari, nel senso di espressi, così che non vi sia alcuna apparenza
di liceità da convertire in illecito (38).
La seconda attiene proprio all’utilizzo del termine conversione: la Suprema
Corte non esclude che, laddove non sia invocato in funzione di integrazione della
fattispecie, l’abuso del diritto possa esplicare, sulla base dell’indicato criterio teleologico, la propria funzione di disvelamento del legittimo esercizio del diritto in illecito (39).
concetti di elusione ed evasione, riconducendo alla seconda, dunque al penalmente rilevante,
comportamenti che, pure eventualmente inquadrati nell’ambito dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600/
1973, siano connotati dall’assenza di un vero interesse, apparenti, dunque tacciabili di quel
carattere di fittizietà che gli elementi normativi dell’art. 4 d. lgs. n. 74/2000 presuppongono.
( 37 ) Cfr. Cass. n. 15186/2014, al punto 3.2.5.
( 38 ) Ciò parrebbe ridimensionare alcuni degli argomenti spesi dalla dottrina che si è
schierata contro la possibile utilità della categoria dell’abuso del diritto nell’esegesi della disposizione penale. L’esempio (tratto da Mucciarelli, Abuso del diritto..., cit., 434), riguarda
una delle disposizioni cui per antonomasia si riconduce la figura dell’abuso del diritto: il divieto di atti emulatori ex art. 833 c.c., che estende l’applicazione dell’abuso del diritto a tutto
il campo dei diritti reali. La fattispecie di riferimento è quella di incendio di cosa propria, art.
423, comma 2, c.p. A questo riguardo si osserva che, pur non potendo negare la possibilità di
qualificare come abusiva, laddove ne sussistano i presupposti ex art. 833 c.p., la condotta di
chi bruci una cosa propria, rispetto a un tale caso l’operatività della fattispecie penale si attiva
sull’autonomo presupposto dell’insorgenza del pericolo di incendio, indipendentemente dall’invocazione del divieto di aemulatio quale fonte dell’antigiuridicità della condotta: di qui
l’inutilità della categoria. Tale ragionamento non pare esentabile da critiche. Si può muovere
dalla considerazione che il diritto suscettibile di abuso è, nel caso proposto, quello di proprietà, diritto al cui esercizio l’art. 832 c.c. pone espressi confini, rinviando ai limiti e agli obblighi
dell’ordinamento giuridico: di questi limiti le fattispecie penali rappresentano l’esempio più
evidente. La disposizione penale allora, lungi dall’assorbire nella propria sfera di operatività,
in questo caso, condotte abusive, opera necessariamente in casi di eccesso o non esercizio del
diritto, così che la figura dell’abuso e la fattispecie penale non si sovrappongono; cfr. Spena,
Diritti e responsabilità penale, Milano, 2008, 124 ss., in particolare 126, l’A. evidenzia (ibid.,
122) il rapporto di mutua esclusività fra norma penale e norma extra-penale, in cui è quest’ultima che rinvia alla prima per definire il proprio ambito di applicazione, problema che finisce
per costituire il reciproco delle clausole di antigiuridicità espressa o speciale; cfr. Fiordalisi,
Abuso di facoltà legittime ed impedibilità degli atti antigiuridici, Torino, 2008, 63, il quale pure (57) porta l’esempio dell’incendio di cosa propria, invocando però la fattispecie di danneggiamento tramite incendio di cui all’art. 424 c.p., che punisce colui che appicca il fuoco alla
cosa propria al solo scopo di danneggiare la cosa altrui, se dal fatto sorge il pericolo di incendio, delitto la cui tipicità parrebbe invece ricalcare (tramite il dolo specifico) il dettato dell’art. 833 c.c.; riconduce l’art. 833 c.c. all’abuso del diritto fondato sul criterio intenzionale
Pino, Il diritto e il suo contrario..., cit., 35, nota 10.
( 39 ) Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007, 85 ss., secondo cui «l’eccesso dal diritto risulta valutando l’atto staticamente; l’abuso si realizza valutan-
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A questo riguardo si deve infatti registrare che là dove l’abuso del diritto viene
accostato all’antigiuridicità, la frizione della categoria rispetto all’affermazione di
responsabilità penale si distende in una certa misura (40): per chiarire le implicazioni
di tale impostazione si può rileggere in quest’ottica un recente caso in materia di
estorsione.
Anche qui la condotta era apparentemente qualificabile come esercizio di un diritto, il diritto di diffondere a fini giornalistici immagini sensibili e personali di personaggi noti (41).
Pur non confliggendo, la condotta concretamente posta in essere, con alcuno
dolo in una prospettiva dinamica, che metta a nudo l’interesse per il quale esso è stato posto
in essere. Solo questa prospettiva, che si traduce nella necessità di compiere un accertamento
in concreto e a posteriori, può mostrare l’eventuale abuso».
( 40 ) È frequente, nella dottrina che si è dedicata all’esimente dell’art. 51 c.p., il riferimento all’abuso del diritto; cfr. Cavallo, L’esercizio del diritto nella teoria generale del reato, Napoli, 1939, 256 ss.; Manna, L’antigiuridicità e le scriminanti, in Cadoppi-Canestrari-Manna-Papa (a cura di), Trattato di diritto penale, Parte Generale, II, Torino, 2013, 211 ss.; Spena, op. cit., 131 ss.; Caraccioli, L’esercizio del diritto, Milano, 1965, 126, secondo cui l’abuso del diritto atterrebbe ai profili interpretativi della scriminante e non ai suoi rapporti con la
norma incriminatrice; Semeraro, L’esercizio di un diritto, Milano, 2009, 36 ss., il quale ritiene che, nel caso in cui la direzione finalistica non sia intrinseca alla fonte del diritto, debba
operare il comma 1 dell’art. 59 c.p., che produce l’irrilevanza dello scopo perseguito dal soggetto attivo se il fatto è stato obbiettivamente conforme alla norma scriminante (corsivo aggiunto);
Lanzi, La scriminante dell’art. 51 e le libertà costituzionali, Milano, 1983, 35, secondo cui
l’esercizio del diritto con finalità diverse da quelle caratteristiche del diritto medesimo non
determina l’insorgenza della scriminante di cui all’art. 51 c.p., in quanto – già in chiave oggettiva – un tale comportamento non è configurabile come esercizio del diritto; Mucciarelli,
Abuso del diritto..., cit., 433, il quale pare accondiscendere all’ammissibilità della categoria
dell’abuso del diritto in riferimento alle scriminanti.
( 41 ) Si tratta del noto Caso Corona, Cass., sez. II, 20.10.2011, n. 43317, in Cass. pen., 2012,
4092 ss., con nota di Notargiacomo, La Corte di cassazione alla ricerca di un difficile equilibrio tra trattamento lecito di dati personali ed estorsione; anche in Dir. pen. cont., con nota di
Tarantino, La strumentalizzazione del diritto di cronaca per finalità contra ius: estorsione? Si
trattava in quella sede dell’esercizio del diritto di cronaca, il cuore della questione era, più in
particolare, la possibile rilevanza penale della sua strumentalizzazione a fini estorsivi. La Corte, riprendendo un precedente (sempre in materia di estorsione), afferma che «anche l’abuso
del diritto, in quanto possibile strumento di sopraffazione dell’altrui libertà di autodeterminarsi,
può integrare l’estremo della minaccia – che, non a caso, l’art. 629, a differenza dell’art. 612
c.p.p., non richiede debba profilare in sé alcun danno ingiusto – quale elemento necessario e sufficiente per costringere altri ad una prestazione dannosa e tale da realizzare, per l’autore, un profitto che l’ordinamento, stavolta, qualifica come ingiusto, proprio perché, ad un tempo, indebito e
coartato» (cfr. in particolare Cass., sez. II, 4.11.2009, n. 119, Ferranti); cfr. Mucciarelli, op.
cit., 434, che nega alcuna rilevanza alla categoria rispetto all’operatività della fattispecie di
estorsione; Salcuni, op. cit., 116-117. È noto che secondo dottrina e giurisprudenza maggioritarie l’assenza nel dettato dell’art. 629 c.p. di qualsiasi riferimento all’ingiustizia del male
prospettato permetterebbe di commettere un’estorsione strumentalizzando un proprio diritto; cfr. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, cit., 140; Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale. II. I delitti contro il patrimonio, Bologna, 2008, 151 s.; Mantovani,
Estorsione, voce in Enc. giur., XIII, Roma, 1989, 2; Marini, Estorsione, voce in Dig. disc. pen.,
IV, Torino, 1990, 381; cfr. Tarantino, op. cit., 8 ss., per la ricostruzione del dibattito, con riferimenti all’orientamento contrario e altre applicazioni giurisprudenziali in questa direzione.
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dei limiti espressi del diritto esercitato (42), la Suprema Corte ha affermato la responsabilità penale invocando la sola categoria dell’abuso del diritto in funzione, si
sarebbe tentati di affermare, di disattivazione dell’effetto scriminante di una norma
extra-penale.
Eppure, quando essa parla di integrazione del requisito della minaccia tramite
l’abuso del diritto, essa pare fare di più (43).
Si può tentare una scomposizionedei passaggi logici impliciti in quella pronuncia sulla base di quanto indicato dalla sentenza n. 15186/2014.
I presupposti del ragionamento della Suprema Corte, in quella come in altre
sentenze sul tema, potrebbero essere due: il primo è che la mancata specificazione,
nell’art. 629 c.p., del requisito dell’ingiustizia, non permette di escludere la strumentalizzazione del diritto quale modalità di realizzazione del delitto; il secondo è
che esiste uno scopo intrinseco al diritto che il soggetto pretende di esercitare.
L’utilità del primo assunto sta nella possibilità di superare la restrizione applicativa del delitto in parola ai soli casi in cui il male minacciato sia contra ius. Affermare, però, che sia la mancata specificazione in tal senso da parte dell’art. 629 c.p. a
permettere l’ingresso di situazioni di apparente liceità nel penalmente rilevante pare, in prima battuta, confermare l’identificazione, propria di quella tesi, dell’ingiustizia come contrarietà al diritto: così Corona sarebbe stato responsabile solo se
avesse strumentalizzato il diritto di cronaca al fine di ottenere droga o organi umani, quale profitto contra ius (44).
Nel caso di specie, però, non era solo il male, inteso come neutra incisione della
sfera giuridica altrui, a non incontrare alcun limite nel diritto positivo, ma anche il
profitto eventualmente conseguito, che in sé considerato era perfettamente lecito,
presupponendo l’attività di giornalista la remunerazione del materiale ceduto ai
giornali.
È stato necessario, dunque, valutare non il profitto in sé, ma il fine di cui questo
rappresentava manifestazione concreta.
Esso può essere individuato nella finalità informativa propria dell’attività giornalistica, che permette l’incisione della sfera giuridica altrui: è questa la portata del
( 42 ) Corona, avendo acquisito lecitamente fotografie compromettenti di personaggi noti,
aveva prospettato ai diretti interessati la possibilità di vendere le fotografie a giornali di gossip, nel rispetto del diritto di cronaca, che lo autorizzava (ex artt. 136 e 137 Cod. privacy) a incidere sulla reputazione dei personaggi coinvolti nell’esercizio della sua professione, dunque
anche in vista di un compenso.
( 43 ) Cfr. Cass., 13.11.2001, in Cass. pen., 2002, 3460 ss., secondo cui «la circostanza che vi
sia stato un accordo contrattuale tra il datore di lavoro e il lavoratore, non esclude, di per sé, la
sussistenza del reato di estorsione, in quanto uno strumento teoricamente legittimo può essere
usato per scopi diversi da quelli per cui è stato apprestato e può integrare, al di là dell’apparenza esteriore, una minaccia ingiusta, perché ingiusto è il fine cui essa tende, idonea a condizionare
la volontà del soggetto passivo, particolarmente interessato ad assicurarsi una possibilità lavorativa che altrimenti sarebbe esclusa», in un caso in cui il datore di lavoro avrebbe costretto i
dipendenti ad accettare retribuzioni inferiori a quelli dovuti (corsivo aggiunto).
( 44 ) Oppure si potrebbe dire che sia la disposizione penale stessa a offrire il parametro
per valutare l’ingiustizia della condotta, da identificarsi nel grado di costrizione dei soggetti
passivi, con l’unico esito, a ben vedere, di fare entrare surrettiziamente il requisito del metus
nella struttura dell’art. 629 c.p.; cfr. Tarantino, op. cit., 12.
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diritto esercitato, un nucleo non definito, ma definibile, di condotte riconducibili
all’esercizio di quel diritto.
Quello che la Corte constata, dunque, è la difformità fra il fine di mero lucro
perseguito dall’autore e quello, sotteso al diritto esercitato, di lucro teleologicamente diretto all’esercizio della professione di giornalista.
Constatata la difformità fra il fine sotteso al diritto esercitato e quello perseguito, si giunge ad affermare il divieto: il fine è ingiusto, e lo sarebbe anche il profitto
se, eventualmente, conseguito.
E tale affermazione del divieto, ciò che permette l’espunzione della condotta
concreta dall’area di liceità, pare avvenire sulla base di quella che in dottrina si è indicata come creazione di una lacuna assiologica (45): una norma di divieto ad hoc formulata sulla base del contrasto fra la condotta concreta e la finalità oggettiva intrinseca alla posizione giuridica di partenza.
L’impostazione della sentenza Corona, a ben vedere, presuppone tale concetto
per poter rispondere alla dottrina che ha sottolineato la strutturale ed ontologica differenza (46) fra esplicita qualificazione giuridica dell’illiceità e tradimento dello scopo
della norma, contrapposizione che indica quella – almeno apparente – contraddittorietà intrinseca alla categoria dell’abuso del diritto e dunque all’elusione (47).
In quel caso la Corte pare ricondurre la dottrina dell’abuso al polo negativo
dell’antigiuridicità – la mancanza di una norma che facoltizzi espressamente, autorizzandolo, il comportamento preso in esame – senza fare esplicito riferimento alla sua
componente positiva, intesa come possibilità di ricollegare al comportamento concreto misure sanzionatorie, intese in un senso ampio (48). Non si è sentita, in quella
( 45 ) L’abuso del diritto crea una lacuna, operando un restringimento in via interpretativa,
ad esempio tramite la tecnica della dissociazione, dell’ambito di estensione delle regole che disciplinano il diritto; cfr. Pino, Il diritto e il suo rovescio..., cit., 54 il quale prosegue precisando
che «una lacuna di questo tipo non consiste nella mancanza di una norma, o nella mancanza di
una norma certa, che disciplini una certa fattispecie, ma nella mancanza di una norma giusta o
ottimale (e nella speculare presenza di una norma ingiusta, o sub-ottimale)»; sull’argomento
della dissociazione cfr. Guastini, Interpretare e argomentare, in Cicu-Messineo-MengoniSchlesinger (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 2011, 235, amplius
284 ss.; vedi anche Perelman-Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione (1958),
Torino, 2001, 433 ss.; come sottolineato da autorevole dottrina, anche l’elusione dimostra di
ricorrere, in prima battuta, al medesimo meccanismo dissociativo; cfr. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. trib., 2009, 491; condivide il riferimento alla lacuna assiologica Gentili, L’abuso del diritto come argomento, 176; sulla problematica delle lacune
assiologiche Guastini, op. ult. cit., 134 ss.; Irti, Breve introduzione al «problema delle lacune
giuridiche», in Studium Iuris, 2012.
( 46 ) Così Musco, Brevi note sulla riforma del diritto penale tributario, in Rass. trib., 2010,
1188.
( 47 ) Cfr. Rescigno, L’abuso del diritto, cit., 13, si veda anche supra, nota 30, la citazione
di Rotondi; cfr. in riferimento all’elusione Marcheselli, Equivoci..., cit., 801: «l’elusione
tributaria è un fenomeno strettamente collegato ai principi generali, ed in modo quasi paradossale. Da un lato essa è, infatti, un fenomeno che contrasta con i principi generali. Dall’altro, chi elabori strumenti di contrasto dell’elusione rischia di violare i principi generali, del
diritto tributario e dell’ordinamento, con effetti a volte più gravi dell’elusione stessa».
( 48 ) La ricostruzione della figura di qualificazione dell’antigiuridicità quale combinazio-
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sede, la necessità di corroborare sotto quest’ultimo profilo la conclusione raggiunta, anche se, a ben vedere, si sarebbe potuto, tramite il riferimento all’art. 1438
c.c. (49).
Il ragionamento si chiude con il seguente passaggio: se il fine è ingiusto, lo è anche il male prospettato. La lacuna ricomprende tutta la condotta così come concretamente realizzatasi e si giunge ad affermare che si è integrata la minaccia.
Ritornando all’assunto da cui si sono prese le mosse, dunque, pare che ben si
potesse affermare che il requisito dell’ingiustizia fosse implicito nell’art. 629 c.p., se
solo si fosse ammesso che tale ingiustizia si potesse manifestare non solo come contra ius, ma anche non iure: la conclusione raggiunta dalla Corte è, infatti, quella di
riconoscere l’utilità dell’abuso del diritto in riferimento a una clausola di antigiuridicità speciale, un elemento da ascrivere alla tipicità del fatto astratto (50).
Ricollegandoci alla pronuncia qui commentata, merita, infine, di essere sottolineato che la sentenza Corona non invoca una specifica disposizione anti-abuso, ri-
ne di un polo negativo e uno positivo è tratta da Gallo-Severino, voce Antigiuridicità, in
Enc. giur. Treccani, II, 1988, 5, che riconducono alla prima componente, oltre le sanzioni dirette alla punizione dell’agente, alla riparazione del danno o al ripristino della situazione
preesistente, ma anche alla legittima difesa, da intendersi come rimedio preventivo, sanzione
generale dell’ordinamento.
( 49 ) Secondo cui «la minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento
del contratto solo quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti»; sottolinea il collegamento
fra l’art. 1438 c.c. e l’art. 629 c.p. Cerase, Sub art. 629 c.p., in Lattanzi-Lupo (diretta da),
Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, XI, Milano, 2000, 125; il punto verrà
ripreso infra, notaseguente; cfr. Cass., sez. II, 27.10.1983, n. 2476, in Cass. pen., 1985, 876, secondo cui «la semplice strumentalizzazione dell’esercizio di un diritto, ove si esprima in termini contrattuali, in un rapporto paritario di libere determinazioni, pur diretta, per ipotesi,
alla realizzazione di un notevole profitto, non rende questo ingiusti in senso tecnico, in quanto esso è rappresentativo di una prestazione nell’incontro sinallagmatico delle volontà».
( 50 ) In tal senso non milita infatti solo il segnalato spunto letterale tratto dalla pur scarna
argomentazione della Suprema Corte («integra il requisito della minaccia»). Quando la Corte
taccia di abusività il fine concretamente perseguito dall’agente (ex art. 1438 c.c.), non sta considerando l’ingiustizia del profitto in quanto tale, in quanto contra ius; essa sta, invece, apprezzando il fine di lucro dell’autore in rapporto al fine intrinseco al diritto di cronaca. È quest’ultimo che ridimensiona la portata del diritto limitandola alle condotte che, pur lucrative,
appaiano teleologicamente connesse all’informazione del pubblico. Constata la incompatibilità del fine concretamente perseguito con lo scopo intrinseco al diritto esercitato, la Corte
crea la lacuna assiologica, una norma di divieto che espunge la condotta concreta, in particolare il male minacciato (inteso inizialmente come neutra incisione della sfera giuridica altrui)
dall’area di liceità; cfr. Gatta, La minaccia, Roma, 2013, 133; 185 ss., in part. 193, che ricollega l’invocazione della figura dell’abuso del diritto, tramite il disposto dell’art. 1438 c.c. in
funzione di fondamento sitematico, alla Zweck-Mittel-Relation fra il (lecito) male prospettato
e il fine perseguito, pur qualificando il requisito dell’ingiustizia quale clausola di antigiuridicità speciale, elemento normativo implicito nell’art. 629 c.p., con conseguente riconducibilità
del relativo errore all’art. 47, comma 3, c.p. (ibid., sulla assimilabilità del ricatto così ricostruito a ipotesi autonome di reato previste dall’ordinamento francese e spagnolo, ibid., 22, nota
16); sul tema delle clausole di antigiuridicità espresse o speciali non può che rinviarsi a Levi,
Ancora in tema di illiceità speciale, in Scritti giuridici in onore di Eduardo Massari, Napoli,
1938, 352 ss.; Pulitanò, Illiceità espressa e illiceità speciale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, 65
ss.; Risicato, Gli elementi normativi della fattispecie penale, Milano, 2004, 101 ss.
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tenendo sufficiente la possibilità di riscontrare un divieto implicito, costruito ad hoc
tramite la lacuna: una norma nuova, creata solo per essere riempita, relativamente
alla quale non si avvertono, però, i dubbi di compatibilità, avanzati dalla qui commentata sent. n. 15186/2014, con la certezza del diritto (prevedibilità della decisione giudiziale), o con il divieto di retroattività (51).
6. La necessità di una specifica disposizione anti-elusiva (52) si presenta invece,
secondo la sentenza qui da ultimo commentata (n. 15186/2014), laddove la figura
dell’abuso emerga in riferimento a elementi normativi della fattispecie di reato che
si rivelino direttamente integrativi di quest’ultima, contribuendo a definire l’oggettività giuridica della fattispecie penale (53).
( 51 ) Cfr. Guastini, op. cit., 142, 163.
( 52 ) Cfr. Mucciarelli, Abuso del diritto..., cit., 412 parla di «non certo soddisfacente (sul
piano penalistico) tipizzazione dell’elusione fiscale contenuta nell’art. 37 bis d.P.R. n. 600/
1973», e avverte «che in talune situazioni (fra le quali, ad es., quella dell’art. 37 bis d.P.R. n.
600/1973 ovvero quella dell’art. 883 cod. civ. con riferimento all’abuso del diritto) norme positive di legge paiono in qualche misura riferirsi a specifici comportamenti posti in essere dall’agente»; corsivi aggiunti; in riferimento alla specifica questione della distinzione fra evasione ed elusione si vedano le chiare considerazioni di Castaldi, op. cit., nota 4, secondo cui si
deve escludere una qualsivoglia rilevanza alla questione della punibilità dell’elusione «con riferimento alle ipotesi in cui i recuperi impositivi avvengano sulla base di norme cd. antielusive
specifiche (cd. norme surrogatorie) dove la normativamente disposta attrazione della fattispecie
elusiva nel raggio di azione della disposizione elusa fa sì che per ciò solo il comportamento da
elusivo diventi evasivo e dunque soggetto alle corrispondenti norme sanzionatorie»; cfr. Marcheselli, Elusione, buona fede..., cit., 402 e 410; quello della specificità della disposizione
antielusiva, nell’ottica di una effettiva distinzione concettuale fra evasione ed elusione e con
specifico riferimento alla questione dell’interposizione fittizia, è un profilo rispetto al quale la
sentenza Dolce e Gabbana ha ricevuto incalzanti critiche; cfr. Mereu, Abuso del diritto ed
elusione fiscale: rilevanza penale o mera mancanza di unaexplicatioterminorum? Alcune riflessioni a margine del caso «Dolce&Gabbana», in Dir. e prat. trib., 2012, I, 1001 ss.; sulla disciplina del transfer pricing quale fonte di disposizioni sufficientemente specifiche; Lanzi-Aldrovandi, Manuale di diritto penale tributario, Padova, 2011, 171-177, vedasi anche l’edizione
2014, 193 ss.; Veneziani, Elusione fiscale..., cit., 895; amplius, sul tema Ramponi, «Transfer
Pricing» e categorie penalistiche. La selettività dell’illecito penale tributario tra disvalore d’azione e disvalore d’evento, in questa Rivista, 2009, 193.
( 53 ) Per un inquadramento della problematica non può che rinviarsi a Ruggiero, Gli
elementi normativi della fattispecie penale. Lineamenti generali, Napoli, 1965; Risicato, op.
cit., 171 ss.; Gatta, Abolitio criminis e successione di norme «integratrici»: teoria e prassi, Milano, 2008, 21 che così riassume le tre aree problematiche collegate alla categoria degli elementi normativi della fattispecie: (i) quella dei rapporti fra conformità al tipo legale e Tatbestand; (ii) il problema della loro precisione e indeterminatezza in riferimento alla loro funzione di concorso alla descrizione del fatto tipico; (iii) quella dei rapporti strutturali fra gli elementi normativi e le norme cui fanno riferimento, onde stabilire la natura integratrice o meno
del fatto tipico; con specifico riferimento al problema della delimitazione dell’oggetto del dolo e di quello dell’errore; cfr., per tutti, Donini, Dolo e prevenzione generale nei reati economici. Un contributo all’analisi dei rapporti fra errore di diritto e analogia nei reati a contesto lecito di base, in questa Rivista, 1999, in part. 45 ss. È doveroso ricordare che la Suprema Corte
ha escluso l’abolitiocriminis in un caso di evasione di IVA all’importazione di metalli non ferrosi commesso nel 1991, nonostante l’entrata in vigore del Mercato unico europeo a far data
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Mettendo l’accento sulla necessità di individuare una specifica disposizione antielusiva, la Suprema Corte si dimostra consapevole delle peculiarità del contesto
normativo in cui la vicenda si inserisce.
Il punto è delicatissimo: da una parte vi è la vexata quaestio dei criteri identificativi dell’elemento normativo effettivamente integrativo della fattispecie penale; dall’altra vi è una distinzione, interna al momento correttivo dell’abuso, fra
la mera creazione della lacuna e le conseguenze di diritto positivo a essa ricollegabili (54).
Si può ripercorrere la scomposizione analitica vista al paragrafo precedente,
contestualizzandola nella materia tributaria: la prima conseguenza dell’affermazione della natura elusiva dell’operazione è che la qualificazione tributaria perseguita
dall’agente è vietata (rientra nella lacuna e soddisfa il polo negativo dell’antigiuridicità), in quanto inopponibile (sanzione generica che integra il polo positivo dell’antigiuridicità) (55).
dal 1.1.1993 (cfr. supra, nota 10): secondo la Corte «trattandosi di norme fiscali, il disvalore
del fatto rimane integrononostante le successive modificazioni della disciplina dei presupposti
dell’obbligazione tributaria» permanendo il debito tributario derivante dell’obbligazione tributaria già evasa l’abolizione delle barriere doganali non fa venire meno la lesione dell’interesse tutelato determinatasi dall’evasione dei diritti di confine esigibile all’epoca; cfr. Cass.
Cass., sez. V, 11.5.2006, n. 21197, in Cass. pen., 2007, 560 ss.; cfr. Gatta, op. ult. cit., 714 ss.,
che conclude in favore della natura solo apparentemente integratrice della disciplina doganale in questa specifica prospettiva; parla di «discrasie interpretative» della giurisprudenza sulla
natura integratrice o meno di un norma extra-penale sui diversi versanti degli artt. 47, comma
3, e art. 2 c.p., Risicato, op. cit., 171, nota 12.
( 54 ) Sia l’abuso del diritto che l’elusione non esistono senza la fase della correzione che,
come visto, implica in prima battuta la creazione di una lacuna; cfr. Pino, Il diritto e il suo rovescio..., cit., 51; questa può assumere, a seconda della disposizione cui si viene ricondotta
l’enucleazione del principio, una determinata conseguenza in termini di diritto positivo, in
diritto civile l’illiceità (l’art. 2043 c.c. in relazione a un atto emulativo) ovvero annullamento
del contratto (art. 1438 c.c.), e l’elenco potrebbe continuare.
( 55 ) È stato anche notato che la patologia in senso civilistico degli atti elusivi costituisce il
presupposto implicito del disconoscimento; così Addis, L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario, in Dir. prat. trib., 2012, 878; e questo senza dimenticare il sempre latente rischio di
intrecciare, dal punto di vista delle conseguenze positive, la fase correttiva dell’elusione e
quella dell’abuso del diritto; si pensi a quell’orientamento giurisprudenziale che nel contrasto
all’elusione faceva riferimento alle categorie civilistiche della nullità per difetto di causa o per
causa illecita; cfr. cass., Sez. trib., 21.5.2005, n. 20398, in Rass. trib., 2006, 295, con nota di
Stevanato, Le «ragioni economiche» nel dividendwashing e l’indagine sulla «causa concreta»
del negozio: spunti per un approfondimento; Cass., sez. trib., 14.11.2005, n. 22932, in banca
dati fisconline; Beghin, Il dividend stripping tra clausole generali antielusive, disposizioni ordinarie con funzione antielusiva e abnorme impiego di strumentazione civilistica, in Riv. dir. trib.,
2007, II, 691 ss.; si è poi avuto modo di precisare che nel caso in cui la condotta appaia suscettibile di riconduzione all’interno di una clausola speciale o analitica antielusione, sarebbe tale
disposizione a rendere la condotta antigiuridica dal punto di vista tributario (cfr. Caraccioli,
Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ed elusione: quali rapporti?, in AA.VV., La riforma del diritto penale tributario, Torino, 2001, 237-238), ma si è anche avvertito che «l’elusione presuppone per definizione l’assenza di una norma tributaria o civile che la vieti espressamente» (Mangione, La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in Musco, Diritto penale tributario, Milano, 2001, 90). È nota la contrapposizione, interna alla dottrina tributari-
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Il problema è poi quello del conflitto con il principio di determinatezza, che nasce perché sul piano del diritto positivo il divieto si traduce nell’applicazione dell’imposta giusta (56), cioè del «diritto di confine dovuto», che svolge diverse funzioni
nell’economia della fattispecie penale qui considerata: è l’obbiettivo della sottrazione e contribuisce dunque definire la lesione del bene giuridico; funge da parametro
di riferimento nel calcolo sia del superamento della soglia ex art. 295 bis T.u.l.d.
(57), sia della multa (58).
stica, fra chi sostiene la natura illecita dell’operazione elusiva (dunque la natura sostanziale
dell’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973), e chi propende invece per la semplice inefficacia (dunque
per la natura procedimentale della disposizione antielusiva). Guardando alle problematiche
relative al fenomeno elusivo, la qualificazione di illiceità per la condotta elusiva viene connessa a una lettura in chiave sostanziale dell’art. 37 bis, dal contenuto precettivo vincolante per il
contribuente, fin dal momento della presentazione della dichiarazione; si tratta della ben nota posizione di Gallo, Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, 326 ss. conclude
per l’illiceità delle condotte riferibili all’art. 37 bis d.P.R. n. 600/1973, in quanto contra legem,
con la conseguente possibilità di applicare le sanzioni amministrative e non preclusione dell’applicabilità di quelle penali, Russo, Manuale di diritto tributario, Milano, 2007, 230-231;
tale lettura sostanzialistica conduceva inevitabilmente all’equiparazione tra evasione ed elusione, attraverso il concetto di imposta dovuta; contro questa lettura si schiera chi sostiene la
natura esclusivamente procedimentale dell’art. 37 bis; cfr., ex multis, Musco-Ardito, op.
cit., 174-175; Marcheselli, Elusione e buona fede..., cit., 417; Piccioli, Profili penali dell’abuso del diritto, in Riv. dir. trib., 2011, 125; definisce i primi tre commi dell’art. 37 bis come
compendio di natura sia sostanziale che procedimentale Zoppini, Fattispecie e disciplina...,
128; da ultimo, sul punto, propende per la natura sostanziale dell’art. 37 bis Giannelli,
Sanzioni ed elusione fiscale: considerazioni a margine del recente orientamento della Corte di
cassazione, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 132 sulla base di un’attenta considerazione del testo
dell’art. 37 bis che, diversamente dalla norma antielusiva previgente, (art. 10, l. 29.12.1990,
n. 408), caratterizza in senso ontologico le condotte elusive come inopponibili. Vedi infra,
nota 59.
( 56 ) Come indicato da attenta dottrina in diritto tributario l’abuso si corregge, a seconda
dei casi, con la giusta applicazione del regime proprio dell’operazione (si pensi a deduzioni,
detrazioni, crediti), ovvero del regime rispetto la cui ratio l’inquadramento formale risulta incongruente (si pensi a rinvii, esenzioni, esclusioni, aliquote agevolate); cfr. Zizzo, Clausola
antielusione..., cit., 491; la definisce integrazione del presupposto del tributo Fedele, La riserva di legge, in AA.VV., Trattato di diritto tributario (diretto da Amatucci), I, 1, Padova,
1994, 192, così che, ci pare la logica conseguenza del ragionamento, la norma impositiva [...]
non si assume violata di per sé, ma nella diversa e più ampia estensione che viene ad assumere
per il tramite di una norma veicolo [e] il prelievo tributario trova fondamento in una fattispecie
normativa complessa data dalla norma impositiva e dalla clausola antielusiva; così Castaldi,
op. cit., § 5, che, avendo qualificato la clausola antielusiva come elemento costitutivo della fattispecie normativa violata (ibid. nota 12), conclude per la non punibilità della condotta in assenza di una norma che specificamente sanzioni la violazione di una simile fattispecie complessa.
( 57 ) Sul punto Irollo, Considerazioni «a caldo» sulla recente parziale depenalizzazione
del reato di contrabbando doganale, in questa Rivista, 2000, 273 ss.
( 58 ) È in questo momento che, secondo una parte della dottrina penalistica, l’elusione rivelerebbe la sua vocazione retroattiva; cfr. Flora, Perché l’«elusione fiscale» non può costituire reato (a proposito del «caso Dolce&Gabbana»), in questa Rivista, 873; Perini, La tipicità
inafferrabile..., cit., 752. Il tema si riconnette a quello delle garanzie procedimentali e processuali in sede di contestazione dell’abuso; Melillo, Elusione e abuso del diritto: tra ipotesi di
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È guardando a queste conseguenze che si impone la necessità di una disposizione specifica, che la Corte ha in altre sedi individuato nell’art. 37 bis d.P.R. n.
600/1973, ma che comunque in questa sede non avrebbe potuto operare (59).
È proprio in questa contestualizzazione della lacuna nel diritto positivo che
l’abuso del diritto, come sostenuto da autorevole dottrina, rivelerebbe la sua asso-
integrazione ed esigenze di certezza normativa, in Dir. prat. trib., 2010, 423; Cantillo, Profili
processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. trib.,
2009, 481 ss.; Ragucci, Il contraddittorio come principio generale dell’ordinamento comunitario, nota a Corte di Giustizia, sentenza 18.12.2008, causa C-349/07, in Rass. trib., 2009, 570;
Armella-Ugolini, Incertezza sulla rilevanza penale dell’abuso del diritto e raddoppio dei termini, in Corr. trib., 2012, 412.
( 59 ) Si vedano sul punto le attente considerazioni sulla compatibilità fra l’art. 37 bis e il
principio di determinatezza sotteso alle disposizioni sanzionatorie, con specifico riferimento
al delitto di dichiarazione infedele, in Giannelli, op. cit., 133 ss., che conclude per l’incompatibilità della disposizione, così come ora strutturata, con tale principio.
Con l’abrogazione dell’art. 37 bis (art. 2, d. lgs. n. 128/2015) scompare anche l’elenco tassativo, di cui al terzo comma della medesima disposizione, cui era limitata la sfera applicativa dell’elusione, e cui la giurisprudenza ricollegava la funzione di conciliare la categoria tributaria con il principio di determinatezza, fondativo dell’impianto costituzional-penalistico.
Il comma 12 del nuovo art. 10 bis recita: «In sede di accertamento l’abuso del diritto può
essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la
violazione di specifiche disposizioni tributarie»; e non pare un caso che, in una precedente
versione, detto comma si chiudesse con uno specifico riferimento alle disposizioni di cui al
decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74.
I rapporti fra il campo di applicazione dell’abuso del diritto e l’intervento del presidio penalistico sono dunque improntati alla mutua esclusione: l’abuso del diritto non può essere
contestato se l’operazione perseguita dal soggetto agente è suscettibile di ingenerare responsabilità penale; quest’ultima, come visto, non può poggiare su di una contestazione di abuso
del diritto (comma 13, art. 10 bis).
Tale impostazione è inoltre confermata dal testo, non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, della imminente riforma dei reati tributari, nell’ambito della quale la definizione della
nuova condotta di «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente» (art. 1, lett. h, d.
lgs. n. 74/2000), ricompresa nel riformulato delitto di «dichiarazione fraudolenta mediante
altri artifici» (art. 3 d. lgs. n. 74/2000), sfrutta in negativo il concetto di abuso del diritto: esse
sono infatti «operazioni, non integranti quelle disciplinate dall’art. 10 bis della legge 27 luglio
2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti»; e la condotta di «mezzi fraudolenti» (art. 1,
lett. i e art. 3, d. lgs. n. 74/2000), sarebbe integrata in caso di artifici, attivi od omissivi, realizzati «in violazione di uno specifico obbligo giuridico».
La tenuta e utilità della riforma, è evidente, si gioca allora sulla definizione della categoria
delle «specifiche disposizioni tributarie», la violazione delle quali, se è legittima un’interpretazione a contrario dei commi 12 e 13, ben può integrare il precetto penale.
È questa l’altra faccia della cd. elusione codificata: eliminato l’elenco del vecchio art. 37
bis, rimangono però vigenti quelle «norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario [...]», che il decreto n. 128/2015, all’art. 3,
esplicitamente cita ai fini di regolarne l’interpello disapplicativo.
Per fare un esempio di normativa fiscale specifica suscettibile di integrare il precetto penale si potrebbe citare la disciplina dei prezzi di trasferimento; sul punto, in tal senso già
Lanzi-Aldrovandi, Manuale..., 2014, cit., 193 ss.
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nanza con l’analogia, problema che, non avendo invocato la lesione del principio di
tassatività, la Corte dimostra in questa sede di non percepire (60).
In conclusione, la sentenza da ultimo commentata pare indicare molteplici profili problematici, ben lungi dall’essere risolti, nella ricerca di uno spazio di operatività stabile all’abuso del diritto, all’interno del difficile momento in cui stretta legalità e tutela dell’autodeterminazione convergono davanti al problema della individuazione prevedibile del disvalore (61).
( 60 ) Parte della dottrina civilistica assimila la figura dell’abuso del diritto a quella dell’analogia, pur precisando che esse non appaiono perfettamente sovrapponibili, posto che solo la seconda si applica a un caso non regolato; Gentili, op. cit., 413 ss.; a favore della natura
analogica dell’elusione Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come
clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in
Maisto, op. cit., 16; Id., Natura delle disposizioni contenenti «norme per l’interpretazione di
norme» e l’art. 37 bis sull’interpretazione analogica o antielusiva, in Riv. dir. trib., 2010, I, 547;
nello stesso senso, nella dottrina penalistica, Mucciarelli, Abuso del diritto..., cit., 431; si vedano le osservazioni sul punto di Vanz, L’elusione fiscale tra forma giuridica e sostanza economica, in Rass. trib., 2002, 1615, che sottolinea la diversità fra elusione e analogia cosi come descritta dall’art. 12 Preleggi, per assenza nel primo fenomeno della lacuna, e propende per la
definizione dell’art. 37 bis come «norma-valvola» che si distingua dall’analogia; dubitano della sussistenza, in caso di elusione, della lacuna involontaria e della sussistenza della medesima
ratio Troyer-Ingrassia, op. cit., 2086, nota 21; si vedano anche Pisano, Cenni sui fondamenti della disciplina penale tributaria e sulla rilevanza penalistica dell’elusione fiscale, in Riv.
dir. impr., 2002, 631; Salcuni, op. cit., 129 e 131. Guardando al ragionamento sotteso alla
sentenza Corona, pare però dubbio che l’abuso del diritto necessiti sempre di una ratio legis
diversa da quella intrinseca alla posizione giuridica cui la condotta concreta formalmente afferisce, e propria invece di una disciplina giuridica, o istituto, diverso. Davanti a una clausola
contrattuale che prevedesse una caparra confirmatoria abnorme e un inadempiente che, una
volta convenuto, dolendosi dell’eccessività della clausola ne chiedesse la riduzione, il giudice
potrebbe accogliere la richiesta riconducendo la fattispecie concreta alla disposizione che regola la clausola penale. La disposizione di cui all’art. 1385 c.c. sarebbe sovrainclusiva, nel senso che il testo ricomprende casi che non sono concretamente riconducibili alla ratio sottesa
all’istituto della caparra confirmatoria, che è, come noto, quella di pattuire un acconto sul
prezzo – in caso di adempimento –, ovvero un corrispettivo per il recesso in caso di inadempimento. La caparra eccessiva dimostra invece di essere in concreto riconducibile alla ratio
sottesa agli artt. 1382-1384, quella propria della clausola penale. Applicando a tale caso la tesi
di Gentili (loc. ult. cit.) l’abuso del diritto dovrebbe apprezzarsi – declinato nella specifica
veste del principio di buona fede – nel fatto che la ratio legis sottesa all’istituto della clausola
penale attrarrebbe il caso concreto nella propria sfera di applicazione, sottraendolo a quella
letteralmente propria dell’art. 1385 c.c. La premessa di un tale ragionamento è però sempre
che ciò che permette la fuoriuscita del caso concreto dalla sfera applicativa dell’art. 1385 c.c. è
appunto il contrasto con il dovere di buona fede e con il principio di solidarietà a esso sotteso. Pare a chi scrive che nel caso Corona la Corte abbia infatti ragionato sancendo l’incompatibilità della condotta concreta rispetto alla ratio legis intrinseca alla medesima posizione giuridica di cui il soggetto si voleva avvalere, ovvero il diritto di cronaca; sui rapporti fra abuso
del diritto e buona fede oggettiva cfr. Cass., 18.9.2009, n. 20106 in Guida al diritto, 2009, 38
ss.; anche in I contratti, 2010 5 ss.; in dottrina Restivo, op. cit., 147 ss.; Bonanzinga, Abuso
del diritto e rimedi esperibili, in www.comparazionedirittocivile.it, 6 ss., anche per riferimenti
ai molteplici contributi dottrinali.
( 61 ) In una recente pronuncia la cassazione ha affermato che la rilevanza penale per dichiarazione infedele di una condotta ascrivibile a una specifica disposizione elusiva non con-
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FEDERICO DONELLI
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Come visto, la Suprema Corte si limita in questa sede a stabilire che il margine
di discrezionalità intrinseco all’abuso del diritto rivela la propria incompatibilità
con la materia penale – confliggendo con il principio di indeterminatezza – solo
laddove appare suscettibile di interferire con la diretta integrazione della fattispecie
e conclude, condivisibilmente, per l’incompatibilità del principio generale antiabuso con tale principio (62).
Si è però anche visto che, ammettendo la possibilità, come fa la sent. 15186/
2014, di ricostruire l’abuso del diritto in termini teleologico-oggettivi, nell’intento
di preservarne la funzione correttiva in senso sostanzialistico della lettera della legge, la categoria dimostra di ricorrere a meccanismi operativi che causano ragionevole preoccupazione al penalista: la creazione di un divieto ad hoc sulla base di parametri non espliciti o prevedibili, il potenziale conflitto con il divieto di analogia
(63), la vocazione almeno apparentemente retroattiva (64). Preoccupazioni che, come visto, in altri settori di intervento del presidio penale, con altre variabili dogmatiche, la Corte ha dimostrato di non rilevare.
trasta con il principio di legalità in materia penale in quanto si tratterebbe di un’interpretazione conforme a ragionevole prevebilità, tenuto conto della ratio delle norme incriminatrici,
della loro finalità e del loro inserimento sistematico; cfr. Cass., sez. III, 6.3.2013, n. 19100, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2078, con nota di Troyer-Ingrassia, La rilevanza penale..., cit., che incentrano la critica alla conclusione della Suprema Corte (da 2087 ss.) sulla violazione degli
artt. 5 c.p. e 7 Cedu, in quanto diretta a punire una discrasia deontologica e non ontologica,
determinata sulla base di criteri non prevedibili; la stessa qualificazione, operata dalla Suprema Corte nella sentenza qui da ultimo commentata dell’abuso del diritto come strumento ermeneutico, evoca le riflessioni di attenta dottrina che, valorizzando in massimo grado la tutela del principio di autodeterminazione del singolo davanti alla legge – esigenza tanto più pressante in materia penale –, sottolinea come sostenere la punibilità dell’elusione significhi «affermare il dovere specifico del contribuente di integrare la lettera della legge, al di là dei limiti
consentiti dall’interpretazione, per preservarne lo spirito», nonché «[...] in contrasto con la lettera della legge»; cfr. Marcheselli, Elusione, buona fede..., cit., 406.
( 62 ) Si vedano le osservazioni di Pino, Il diritto e il suo rovescio..., cit., 57 il quale, ricostruendo la figura dell’abuso del diritto come bilanciamento di principi, ritiene che, con l’eccezione del rinvio a meri criteri morali (cfr. supra nota 33), non si tratterebbe «necessariamente di una discrezionalità incontrollabile (dal punto di vista di una ricostruzione ex post del ragionamento giustificatorio del giudice in sede dogmatica o giudiziale), né necessariamente diversa,
qualitativamente e quantitativamente, da altre forme di discrezionalità giudiziale comunemente
tollerate dagli ordinamenti giuridici»; Spena, op. cit., 131 ss., sull’abuso del diritto quale bilanciamento nell’applicazione della scriminante dell’esercizio del diritto, in riferimento a libertà
di espressione e tutela dell’altrui dignità.
( 63 ) Sul punto particolarmente utile appare la lettura dottrinale della medesima problematica nell’ordinamento tedesco. A questo specifico riguardo, riprendendo i dubbi della dottrina nazionale riguardo la assimilabilità dell’abuso del diritto all’analogia (cfr. supra nota 61),
si deve segnalare come si sia tentato in quella sede di superare tale scarto qualificando il ragionamento antielusivo come «Gegenanalogie», o «Riduzione teleologica», che pure ricadrebbe nel divieto di cui all’art. 103, comma 2, del Grundgesetz; cfr. Tiedemann, Strafbare
Erschleichung von Investitions zulagen durch Aufhebung und Neuabschluß von Leiferverträgen?, in Neue Juristische Wochenschrift, 1980, 1559; si vedano anche le osservazioni sul punto
di Bruns, Zur strafrechtlichen Relevanz des gesetze sumgehenden Täterverhaltens, in Goltdammer’s Archiv für Strafrecht, 1986, 20 ss.
( 64 ) Il rilievo si trova già in Tiedemann, loc. ult. cit.
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COMMENTI A SENTENZA
Ampliando dunque lo sguardo ai rapporti fra abuso del diritto e diritto penale,
non si può che associarsi all’invito, mosso da autorevole dottrina, a un complessivo
ripensamento dei relativi rapporti (65).
Con specifico riferimento alla problematica dell’elusione fiscale, e alla riforma
intervenuta con il d. lgs. n. 128/2015, essa non può che essere accolta con favore.
Per valutare la compiuta riconciliazione – all’insegna della certezza del diritto – della materia penale con la categoria dell’elusione si dovrà attendere che essa giunga
alla prova della prassi, con la rilevante variabile dell’imminente riforma delle fattispecie incriminatrici (66).
Federico Donelli
dottorando nell’università di Teramo
( 65 ) Cfr. Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, cit., 465.
( 66 ) Per quanto riguarda, infine, l’entrata in vigore della riforma, si deve segnalare che il
decreto n. 128/2015 (art. 5) prevede per l’efficacia dell’art. 10 bis tempistiche particolari: essa
entrerà in vigore «il primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto», dunque a partire da ottobre 2015, con effetto retroattivo sulle operazioni poste
in essere in data anteriore per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto
impositivo. Con specifico riferimento alle implicazioni penalistiche della riforma, pare difficile negare la qualificazione del comma 13, art. 10 bis come clausola di esclusione della tipicità,
così che, stante la sua idoneità a esplicare effetti al di là del giudicato ex art. 2, comma 2, c.p.,
sarà da subito possibile far presente che il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
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A T T U A L
I T À
PROFILI PENALISTICI DEI PAGAMENTI «PREFERENZIALI»
ALL’AMMINISTRATORE DI SOCIETÀ
1. Introduzione
La problematica sussunzione del fatto dell’amministratore che si ripaghi un
proprio credito sotto le fattispecie di bancarotta fraudolenta è oggetto di risposte giurisprudenziali profondamente differenti: nell’arco degli ultimi dieci anni
si sono infatti succedute molteplici sentenze, sempre in bilico tra il riconoscimento della fattispecie distrattiva ovvero di quella preferenziale. In realtà, come taluno ha già sottolineato (1), forse il problema non può trovare una soluzione univoca, ma differenziata in ragione del «titolo» del credito vantato dall’amministratore.
Nondimeno, pur essendo condivisibile la specificazione del tipo di credito
in funzione dell’applicazione delle fattispecie incriminatrici fallimentari, occorre comunque recuperare la tipicità specifica della bancarotta preferenziale, che
rischia, in casi simili, di vedersi soccombente rispetto alla forza pervasiva della
bancarotta per distrazione (2).
Prendendo attentamente in considerazione la giurisprudenza della quinta
Sezione, si riscontrano due decisioni piuttosto risalenti nel tempo, le cui massime segnano il punto d’inizio dei due filoni interpretativi tuttora coesistenti.
In particolare, a favore dell’applicazione della fattispecie fraudolenta milita
la sentenza 30.1.1987, n. 5077, a mente della quale «l’amministratore che si ripaghi dei suoi crediti verso la società è ugualmente responsabile di bancarotta per distrazione, non potendosi scindere la qualità di creditore da quella di amministratore, come tale vincolato alla società dall’obbligo della fedeltà e da quello della tutela degli interessi sociali anche nei confronti dei terzi. Ne consegue che risponde
del reato sopra indicato, il cui elemento soggettivo è costituito dal dolo generico,
colui che, amministratore di diritto o di fatto di una s.r.l., si sia appropriato di
somme di danaro che era tenuto a ripartire tra tutti i creditori della stessa, pur
quando abbia destinato quelle somme alla compensazione dei crediti vantati dal
precedente amministratore della società» (3).
Occorre immediatamente sottolineare che il tema dell’«inscindibilità» delle posizioni di creditore e di amministratore costituisce il leitmotiv, la clausola
di stile, il principale argomento giuridico che sostiene la produzione giurispru-
( 1 ) Alagna, La bancarotta dell’amministratore infido ed egoista, in Giur. comm., 2011,
614 ss.
( 2 ) D’ora in avanti, e per le ragioni che si specificheranno meglio infra, si farà talora riferimento all’ipotesi prevista al comma 1 dell’art. 216 l.f. utilizzando la dizione «fraudolenta», intesa in «senso stretto», contrapposta come tale all’ipotesi preferenziale.
( 3 ) Cass. pen., sez. V, 30.1.1987, n. 5077 (rel. Aloisi), in C.E.D., rv. 175775.
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ATTUALITÀ
denziale successiva, che spesso si è giovata di un testuale richiamo alla massima
del 1987 (4).
Al contrario, e precedentemente alla citata pronuncia, la medesima Sezione
aveva affermato che «l’amministratore che si ripaghi i suoi crediti verso la società
fallita non risponde del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, ma di
bancarotta preferenziale» (5).
Si tratta dunque di due prese di posizione assolutamente distinte: procedendo ancora con larga approssimazione, può ben dirsi che, nell’un caso, vi è
una particolare valorizzazione «soggettiva», che induce a ritenere inscindibile
la qualità – e, soprattutto, i doveri – di amministratore da quella di creditore;
nell’altro, al contrario, vi è una maggiore adesione alla tipicità della fattispecie,
salva la verifica della sussistenza effettiva del credito.
È fin da subito possibile anticipare la speranza di un intervento delle Sezioni Unite – per quanto la nomofilachia sia oggi quasi chimerica – che potrebbero
finalmente mettere maggior chiarezza su un tema dai risvolti teorici e pratici
tutt’altro che trascurabili.
( 4 ) Cass. pen., sez. V, 2.12.1997, n. 1458 (rel. Cognetti), in C.E.D., rv. 209801: «L’amministratore che si ripaga dei suoi crediti verso la società è ugualmente responsabile di bancarotta
per distrazione, non potendosi scindere la qualità di creditore da quella di amministratore, come
tale vincolato alla società dall’obbligo di fedeltà e da quello della tutela degli interessi sociali anche nei confronti dei terzi». Il ricorrente argomentare trae – quantomeno cronologicamente –
la sua prima ispirazione dalla elaborazione della giurisprudenza di lingua tedesca, sia del Reichsgericht (Reichsgericht, 25.10.1934, n. 131, in RGSt, vol. 68, 368 ss.) sia del Bundesgerichthof (Bundesgerichthof, 21.5.1969, n. 27, in NJW, 1969, 1494, e Bundesgerichthof,
6.11.1986, n. 327, in BGHSt, 34, 221). Il punto di partenza della menzionata argomentazione
si centra intorno alla definizione della ratio del diritto penale fallimentare: esso avrebbe la
specifica finalità di comprimere gli atteggiamenti egoistici dell’imprenditore, prevenendo le
occasioni di abusare della sua posizione sociale per fini meramente personali. Coerentemente, solo l’ipotesi fraudolenta (§ 283 StGB) sarebbe sostanzialmente idonea a reprimere condotte di una simile gravità. Il secondo cardine si fonda sull’autonomia del lessico giuridico
penalistico rispetto a quello fallimentare quanto, in particolare, alla nozione di «creditore».
Laddove nel contesto civilistico essa identificherebbe chi ha una pretesa giuridica economica
insoddisfatta, nell’ambito penale vi sarebbe una contrazione semantica, posto che non sarebbe ammissibile una coincidenza concettuale tra il soggetto debitore e il creditore che potrebbe essere ammesso all’insinuazione al passivo. In effetti, l’amministratore sarebbe altrimenti
privilegiato – quoad poenam (in considerazione dell’applicazione della fattispecie di bancarotta preferenziale prevista al § 283c StGB) – per un’azione che sarebbe altrimenti proibita
dalle disposizioni di riferimento, in quanto mossa da fini meramente egoistici: la descritta opzione interpretativa, pertanto, sarebbe l’unica davvero confacente allo scopo di tutela positivizzato dalla norma. Tuttavia, non sfugge come la surrettizia distinzione tra il concetto civilistico e quello penalistico di «creditore» susciti più di una perplessità, poiché non sembra che
rintracciarsi una marcata attività di creazione del diritto, contrastante con il principio di legalità e per di più in malam partem. Cfr. De Simone, Brevi note a margine della c.d. bancarotta
preferenziale, in questa Rivista, 1994, 169.
( 5 ) Cass. pen., sez. V, 7.6.1973, n. 7051 (rel. Melone), in C.E.D., rv. 125217.
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2. Una rassegna della giurisprudenza degli ultimi dieci anni
La giurisprudenza propensa a riconoscere il delitto di bancarotta fraudolenta si è mossa assumendo la granitica validità della massima citata supra, pur a
fronte di una pluralità di casi diversi nei loro connotati essenziali.
Così, si è affermato che i finanziamenti dei soci, avendo talora una destinazione «in conto capitale», che si traduce a sua volta nella disciplina della postergazione prevista dall’art. 2467 c.c., non siano rimborsabili in mancanza di utili
sociali, anche in considerazione della prassi di vincolare a specifiche destinazioni i medesimi, condizionandone il rimborso; il che, collegato all’assenza di una
deduzione specifica del ricorrente (amministratore e socio) sulla natura del
rimborso e in forza del richiamo alla massima sull’incompatibilità, condurrebbe inevitabilmente alla sussistenza della fattispecie distrattiva (6).
Stessa qualificazione giuridica è stata riservata al ben diverso caso – pur, si
noti, con costante richiamo alla massima «primigenia» – del socio amministratore di fatto che si ripaga il prestito nei confronti della società: «nessun rilievo
avrebbe quindi potuto avere la eventuale conferma [...] di un prestito alla società
( 6 ) Cass. pen., sez. V, 6.12.2004, n. 2273 (rel. Nappi), in Cass. pen., 2006, 1563; in tema
cfr. anche Cass. pen., sez. V, 13.4.2007, n. 19557 (rel. Marasca), in Cass. pen., 2008, 1557, il
cui caso concreto vedeva un sostanzioso prelievo dell’amministratore in concorso con la
moglie senza alcuna giustificazione contabile per restituzioni di finanziamenti concessi alla
società; essendo il reato di bancarotta fraudolenta a dolo generico, conclude la Corte, integra il reato la condotta volta a prelevare una somma di denaro con la «pretesa finalità» di
compensare un proprio credito: difatti, tale pretesa deve essere fatta valere nei modi ordinari con l’insinuazione al passivo e con il vaglio degli organi della procedura; di più – si osserva – non vi era corrispondenza tra quanto preteso e quanto prelevato, né l’imputato ha offerto precise indicazioni in ordine alla destinazione a fini sociali del denaro prelevato. Cfr.
anche Cass. pen., sez. V, 30.5.2012, n. 25292 (rel. Lapalorcia) in Cass. pen., 2013, 331, la
quale dà conto di tre orientamenti giurisprudenziali: il primo legato alla massima citata in
tema di inscindibilità, cui correlativamente si lega il riconoscimento della bancarotta fraudolenta; il secondo teso ad affermare la sussistenza della bancarotta preferenziale solo nel
caso in cui vi sia la soddisfazione di un credito di lavoro; un terzo, infine, incline a riconoscere sempre quest’ultima fattispecie, indipendentemente dalla natura del credito vantato
(all’ovvia condizione che esso sia esistente ed effettivo). La sentenza, escludendo che si tratti di crediti di lavoro, aderisce al primo orientamento, considerata la particolare natura del
credito dell’amministratore – e le particolari modalità satisfattorie lato sensu «decettive» –
nascente da finanziamenti a favore della società, vincolati al raggiungimento di specifiche finalità di risanamento e comunque postergati alla soddisfazione degli altri creditori, compresi i chirografari. V. ancora Cass. pen., sez. V, 3.7.2012, n. 42710 (rel. Micheli), in Riv. pen.,
2013, 300, a mente della quale configura il reato di bancarotta fraudolenta l’operazione di
incameramento di denaro oggetto di rimborso di un finanziamento – peraltro dubbio, perché i denari non sarebbero mai transitati per le casse della società – anche in considerazione
del fatto che la condotta è stata realizzata quando la società versava in evidente stato di decozione e, altresì, considerata l’identità soggettiva tra amministratore e creditore; infatti, nel
caso in cui il creditore si identifichi con l’amministratore, un atto di disposizione che si collochi al momento dell’insolvenza conclamata – diretto a suo proprio vantaggio – assume un
significato molto diverso – e più grave – rispetto alla volontà di privilegiare un creditore, così concretando l’ipotesi fraudolenta.
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ATTUALITÀ
da parte del C., una volta che a costui fosse risultata attribuibile [...] la qualità di
amministratore, sia pure di fatto, dell’impresa fallita» (7).
In senso parzialmente diverso, «condizionatamente» aperto all’opposta ricostruzione interpretativa, la Suprema Corte ha affermato che non ricorre la
bancarotta di cui al comma 1 dell’art. 216 l.f. nel caso in cui l’amministratore
effettui dei prelevamenti (anche non regolarmente contabilizzati) a titolo di retribuzione, a condizione tuttavia che non emerga l’apprensione di altre somme
e che i prelevamenti risultino congrui rispetto al lavoro prestato. Nel caso di
specie, tuttavia, avendo l’imputato percepito illecitamente le somme – provvedendo sia a determinare che a liquidare in proprio favore il compenso, non
promanante dunque da una regolare delibera assembleare o da una norma statutaria – non potrebbe trovare applicazione la bancarotta preferenziale, posta
la patologia genetica del credito vantato (8).
Infine, il Supremo Collegio ha riconosciuto la sussistenza della bancarotta
fraudolenta anche nel caso in cui l’amministratore di diritto si liquidi il compenso sulla base di delibere assembleari regolari e conformi alla disciplina civilistica di riferimento: tale circostanza fattuale nulla toglierebbe alla configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, sia perché risponde di esso l’amministratore che si ripaghi un credito nei confronti dell’impresa poi fallita, sia perché la vita della società era caratterizzata da una cronica inattività e, pertanto, il
compenso non sarebbe stato «guadagnato» dal soggetto agente (9).
( 7 ) Cass. pen., sez. V, 7.6.2006, n. 2647 (rel. Dubolino), in Cass. pen., 2008, 727; conforme Cass. pen., sez. V, 17.1.2013, n. 13278 (rel. Settembre) in DeJure, il cui fatto storico è
«soggettivamente» analogo, poiché vede un amministratore di fatto ripagarsi con i denari sociali il compenso per il proprio lavoro: la Corte sostiene che l’ipotesi preferenziale è sempre
collegata al legittimo esercizio delle funzioni di amministratore, dipendenti anche dalla formale investitura operata dagli organi sociali e dalla congruità del compenso percepito in relazione all’attività svolta; diversamente, nel caso di specie, essendosi il soggetto agente inserito
motu proprio nella compagine amministrativa, l’azione sarebbe stata finalisticamente diretta –
«distrattivamente» – alla soddisfazione illecita di un proprio interesse.
( 8 ) Cass. pen., sez. V, 19.12.2006, n. 4985 (rel. Didone), in C.E.D., rv. 236319; v. ancora
Cass. pen., sez. V, 27.10.2009, n. 46959 (rel. Vessichelli), in C.E.D., rv. 245399, a mente della
quale, in caso di fuoriuscite a titolo di competenze degli organi sociali deliberate dal consiglio
di amministrazione in violazione dell’art. 2389 c.c. (che riserva tale competenza in via generale all’assemblea dei soci), considerato che la Suprema Corte non è deputata alla verifica dell’attività concreta svolta in veste di amministratore, poiché trattasi di una questione di fatto,
non può trovare applicazione la giurisprudenza che ammette l’addebito ex art. 216/3 l.f., poiché essa si basa sul presupposto che sia individuabile in capo agli amministratori la qualifica
di creditore effettivo, nonché la condizione che si tratti di crediti congrui e comunque non
esorbitanti quanto effettivamente dovuto. In senso analogo, soprattutto sotto l’aspetto della
irregolarità formale della determinazione e della liquidazione del compenso, cfr. Cass. pen.,
sez. V, 28.10.2010, n. 1901, (rel. Scalera), in Cass. pen., 2012, 640, secondo la quale l’autoliquidazione delle retribuzioni dell’imputato per l’attività di amministratore può integrare la
bancarotta preferenziale solo quando lo statuto della società fallita contempli espressamente
la retribuzione dovuta all’amministratore e ne quantifichi l’ammontare, ovvero essa sia riportata in bilancio.
( 9 ) Cass. pen., sez. V, 22.6.2007, n. 27343 (rel. Dubolino), in C.E.D., rv. 237580; è appe-
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* * *
L’opposto filone giurisprudenziale, incline al riconoscimento della fattispecie preferenziale di cui al comma 3 dell’art. 216 l.f., si è mosso valorizzando
l’aspetto della tipicità propria dell’illecito in parola, sotto lo specifico aspetto
della genesi e dell’ammontare del credito oggetto della condotta dell’amministratore.
Così, nel caso in cui l’amministratore, socio accomandatario di una società
in accomandita semplice, trattenga a titolo di compenso una somma di denaro,
la Suprema Corte si è espressa in favore della configurazione della fattispecie di
bancarotta preferenziale, a patto che non risulti un’ulteriore percezione di denaro e che sia incontestabile la congruità del prelievo, sulla scorta del fatto che
l’art. 2260 c.c., espressamente rinviando alla disciplina del compenso del mandatario, consentirebbe di ritenere «geneticamente» inoppugnabile l’apprensione delle risorse sociali in funzione di soddisfazione del credito di lavoro vantato
dall’amministratore (10).
Nella medesima prospettiva si colloca una seconda pronuncia, la quale perviene al medesimo risultato pur in un contesto fattuale completamente diverso.
La vicenda societaria include infatti la sottoscrizione di un leveraged buy out intercorso tra due società di capitali nell’ambito di una complessa manovra finanziaria, con la quale si «trasferisce» anche il credito dell’amministratore. Nel caso in esame, argomentando a partire dalla natura «reale» del credito vantato
(sia prima che in seguito alle predette operazioni finanziarie), la Corte di Cassazione afferma la sussistenza della bancarotta preferenziale, la quale si caratterizzerebbe – distinguendosi in ciò dalla condotta distrattiva – per la diversità
dell’interesse giuridico protetto (11).
In effetti – aderendo alla maggioritaria posizione dottrinale – in casi consimili non sarebbe offeso il diritto dei creditori alla conservazione del patrimonio
del debitore in funzione di garanzia, bensì verrebbe sanzionata la condotta dell’imprenditore che, con finalizzazione solutoria, dispone dei beni in maniera
non conforme alla posizione paritaria dei creditori disposta dal Legislatore.
Verificando, dunque, che all’esito dell’illecito ristoro la consistenza patrimoniale non è alterata – posto che alla carenza di dotazione liquida corrisponde la scomparsa di pari passività – e parimenti sussistendo una ragione giuridica effettiva e reale che sorregga la pretesa del creditore, il relativo soddisfaci-
na il caso di sottolineare il conflitto, tutt’altro che apparente, con l’asserzione circa i limiti del
giudizio di merito contenuta nella sentenza citata alla nota precedente, appena supra.
( 10 ) Cass. pen., sez. V, 10.11.2004, n. 48280 (rel. Rotella), in Dir. prat. soc., 2005, 85; il riferimento implicito sembra collegare alla disciplina penalistica – mediante il rinvio dell’art.
2260 c.c. – il dettato dell’art. 1709 c.c., a mente del quale «Il mandato si presume oneroso. La
misura del compenso, se non è stabilita dalle parti, è determinata in base alle tariffe professionali o agli usi; in mancanza è determinata dal giudice».
( 11 ) Cfr. Cass. pen., sez. V, 18.5.2005, n. 23730 (rel. Sandrelli), in DeJure; sul tema e sul
ruolo del bene giuridico v. infra, par. 3.
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mento non dovrebbe mai collocarsi concettualmente nell’ambito della condotta distrattiva, a prescindere dalla posizione societaria del soggetto agente, che
non attiene all’oggettività della fattispecie e che potrà invece essere diversamente valutata in sede di commisurazione della pena.
Come è evidente, pur nella consonanza degli esiti processuali, le situazioni
fattuali sono radicalmente diverse.
Nondimeno, vi sono sei distinti elementi che possono essere isolati e che
fondano l’argomentazione a sostegno della sussistenza della bancarotta preferenziale: a) il momento genetico del credito, che non deve essere viziato
da alcuna patologia (12); b) la congruità della somma incassata dall’amministratore rispetto al credito vantato (13); c) l’assenza di ulteriori percezioni di
denaro per la medesima causale; d) l’irrilevanza della corretta contabilizzazione dell’esborso sociale (14); e) l’irrilevanza della qualifica soggettiva rive-
( 12 ) Cfr. sul punto Cass. pen., sez. V, 6.7.2006, n. 38149 (rel. Marasca), in Cass. pen.,
2007, 4704, nella quale si afferma – con esplicito rinvio alla sentenza 48280/04, pur a fronte
di condizioni fattuali ancora una volta diverse – che l’amministratore di una s.r.l. che percepisca il compenso per la propria attività lavorativa in assenza della corrispondente delibera assembleare (effettivamente sussistente una delle annualità precedenti), risponde di bancarotta
preferenziale, essendo la mancata approvazione della delibera (e dell’ammontare del compenso) unicamente uno degli indici della irregolarità dell’operazione, contraddetto dall’assenza di alcuna contestazione circa il diritto degli amministratori a vedersi liquidare il compenso e circa la congruità del medesimo. Chiude il ragionamento argomentativo la considerazione per la quale non può configurarsi la più grave ipotesi ex art. 216/1 l.f. perché il denaro
sociale è stato utilizzato al fine – anch’esso sociale – di pagare dei creditori – per quanto «particolari» – che avevano fornito prestazioni professionali. Analogamente, Cass. pen., sez. V,
7.3.2008, n. 14908 (rel. Sandrelli), in Cass. pen., 2008, 4790, e Cass. pen., sez. V., 15.4.2011,
n. 28077 (rel. Fumo), in Foro it., 2012, 185, la quale esplicitamente afferma che, in caso di
«autoliquidazione», qualora sia giudizialmente accertato (anche in sede civile) l’an e il quantum del credito, l’amministratore risponde del delitto di bancarotta preferenziale.
( 13 ) Cfr. in particolare Cass. pen., sez. V, 14.2.2007, n. 9188 (rel. Amato), in Cass. pen.,
2008, 3028, nella quale la Suprema Corte annulla con rinvio la sentenza di appello rilevando
che, avendo il Giudice di secondo grado ritenuto esorbitanti i compensi dell’amministratore
di fatto di una ditta individuale, e non applicandosi nel caso di specie l’art. 2389 c.c. (dettato
unicamente per le società di capitali), non si configura l’ipotesi di bancarotta fraudolenta per
distrazione nel caso in cui vi siano dei prelevamenti dell’amministratore – anche se non regolarmente contabilizzati – qualora non emerga che a tale titolo siano state percepite altre somme e qualora i medesimi siano congruenti nella loro entità. Conseguentemente, il Supremo
Collegio impone alla Corte distrettuale di provvedere ad accertare quale fosse l’entità dell’impegno profuso dall’amministratore di fatto allo scopo di determinare – anche in via presuntiva – l’ammontare effettivo del compenso. In proposito, si noti il profondo contrasto con le
pronunce citate supra, alla nota 6.
( 14 ) Cfr. Cass. pen., sez. V, 21.9.2007, n. 39043 (rel. Di Tomassi), in C.E.D., rv. 238212,
anch’essa sentenza di annullamento con rinvio, fondata sulla circostanza per la quale la Corte
di merito si sarebbe limitata a rilevare che le dazioni erano avvenute in una situazione di sostanziale decozione e che dunque sarebbero qualificabili ex art. 216/1, poiché su di esse opererebbe una presunzione ex tunc di volontaria distrazione in pregiudizio dei creditori. Il Collegio oppone la seguente argomentazione: non può integrare l’ipotesi distrattiva una condotta la cui portata pregiudizievole risulti annullata prima della sentenza dichiarativa di fallimento (come nel caso di specie), che sancisce il momento in cui verificare la consumazione del-
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stita dal soggetto agente (15); f) lo stato di decozione dell’impresa (16).
In una pronuncia più recente (17), la maggior parte dei prefati elementi sono raccordati in un quadro unitario, che giunge a svelare le ragioni sottese all’orientamento in parola: si è infatti affermato che l’amministratore di una società in nome collettivo che ritrae «arbitrariamente» il proprio compenso risponde di bancarotta preferenziale, ma è centrale, ai fini della qualificazione
giuridica del fatto, stabilire se la somma prelevata dalle casse sociali corrisponda (rectius: sia congrua) rispetto al lavoro prestato. Tale compito è rimesso al
giudice del merito: se la somma corrisponde a quanto percepito negli anni precedenti all’insolvenza – o a quanto percepito in società «analoghe» – non si può
parlare di vantaggio indebito, soprattutto in forza della fondamentale considerazione per cui la legittimità dell’apprensione del compenso deriva direttamente dal dettato dell’art. 36 Cost.
Correlativamente, nessun pregio – secondo la Corte – avrebbe una limitazione che pretendesse la sussistenza di un credito certo, liquido ed esigibile:
non solo, e non tanto, perché tali connotati sono necessari per opporre il credito in compensazione, e non già per vantare il diritto alla liquidazione del compenso, ma soprattutto perché la fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione è integrata dalla sottrazione del bene agli interessi dei creditori, la
quale non ricorre nel caso dell’amministratore che percepisca il compenso dovuto. In breve, si tratterebbe di una «questione economico-patrimoniale alla
quale risultano estranee le regole del diritto civile per la liquidazione di un credito».
l’offesa. Dall’altro lato, irrilevante è invece la giustificazione contabile, a fronte di un credito
giustificato e autorizzato: la Cassazione afferma sul punto che sarebbe errato contestare in via
di principio il diritto al compenso, e che diverso è contestare la congruità dei prelevamenti
ovvero la deliberazione e l’annotazione dei medesimi, stabilendo la ricorrenza dell’ipotesi distrattiva nel caso in cui il compenso non sia dovuto né autorizzato, ovvero dell’ipotesi preferenziale a patto che sussista lo stato di decozione e il consilium fraudis in danno dei creditori.
( 15 ) Cass. pen., sez. V, 5.10.2007, n. 43869 (rel. Pizzuti), in C.E.D., rv. 237975, secondo la
quale la restituzione di un finanziamento soci all’amministratore, non comportando una diminuzione del patrimonio sociale – poiché alla diminuzione tra le attività della società corrisponde per il medesimo importo una riduzione delle passività – integra certamente una violazione della par condicio creditorum, senza tracimare nell’ipotesi più grave dell’art. 216/1 l.f.,
poiché la circostanza che tra i beneficiari vi fosse anche lo stesso amministratore non implica,
per ciò solo, il mutamento del titolo di reato. Analogamente, Cass. pen., sez. V, 17.10.2007, n.
46301 (rel. Colonnese), in Cass. pen., 2008, 3856; Cass. pen., sez. V, 14.2.2013, n. 13318 (rel.
Pistorelli), in Cass. pen., 2014, 329; Cass. pen., sez. V, 2.10.2013, n. 5186 (rel. Lapalorcia), in
DeJure, la quale sottolinea che «la bancarotta preferenziale esige, da un lato, che le restituzioni
riguardino crediti per finanziamenti concessi dai soci alla società liquidi ed esigibili, dall’altro
che esse siano effettuate in periodo di insolvenza, e comunque che i pagamenti abbiano lo scopo
di favorire taluno dei creditori a danno degli altri».
( 16 ) A tali elementi, frutto della elaborazione giurisprudenziale, meritano di essere aggiunti anche: g) il tipo di società amministrata; h) la titolarità o meno in capo all’amministratore di una partecipazione sociale; i) la natura del credito vantato.
( 17 ) Cass. pen., sez. V, 16.4.2010, n. 21570 (rel. Marasca), in Cass. pen., 2011, 1549, e in
Giur. comm., 2011, 612 (con nota di Alagna, La bancarotta, cit.).
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Per di più, nel caso in cui manchi una formale delibera degli organi sociali,
non può dirsi pregiudicato il diritto alla percezione del compenso, posta la natura squisitamente formale del requisito in esame, che certamente non può
condurre a ravvisare il più grave delitto del comma 1 dell’art. 216 l.f.
L’opzione interpretativa descritta – conclude il Collegio – si giova ulteriormente del raffronto sistematico con l’avvenuta eliminazione dell’art. 2630,
comma 2, c.c. – che incriminava esplicitamente l’apprensione del compenso
non formalmente deliberato – a seguito della riforma del diritto societario, «cosicché anche la volontà del legislatore appare conforme all’indirizzo giurisprudenziale che oramai sembra prevalente».
* * *
Come si percepisce chiaramente, il nutrito comparto giurisprudenziale sul
tema, anche al netto delle differenti situazioni fattuali dalle quali prende le
mosse, non è affatto prodigo di elementi univoci, e si articola cronologicamente
secondo una quasi puntuale alternanza di pronunce aderenti ai due diversi
orientamenti.
Tuttavia, senza voler anticipare delle affrettate conclusioni, è certamente
possibile sottolineare il maggior rigore scientifico del secondo orientamento, il
quale però si dipana non senza talune incongruenze, talvolta all’interno della
medesima parte motiva. Dall’altro lato, (in?)consapevolmente questa giurisprudenza ha evidenziato l’importanza di una serie di requisiti e di elementi necessari al fine di sostenere la più mite ipotesi delittuosa del comma 3 dell’art.
216 l.f., in luogo della onni-potente/-presente/-comprensiva bancarotta fraudolenta per distrazione.
Merita ulteriormente rilevare che tra la fattispecie del comma 1 e quella del
comma 3 dell’art. 216 l.f. vige un rapporto di assoluta incompatibilità, il quale
esclude in radice che possa porsi un problema di concorso reale o apparente di
norme (18). La ragione, logica prima che giuridica, si riassume nei termini che
seguono: il pregiudizio, infatti, o riguarda la totalità della massa sotto il profilo
della garanzia, o solo alcuni dei creditori. Tertium non datur.
In ogni caso, per comprendere a pieno gli elementi della tipicità oggettiva
della fattispecie e la reciproca interazione tra quest’ultima e il bene giuridico –
anche in funzione di canone ermeneutico – nonché affrontare con maggiore
consapevolezza il commento degli orientamenti giurisprudenziali testé descritti, è necessario procedere ad un sommario excursus delle molteplici ricostruzioni che si sono affacciate nella dottrina, tese alla ricostruzione di una precisa fisionomia dell’illecito in parola.
( 18 ) In tema, su tutti, F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966, 233.
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3. Cenni sul dolo specifico e sul bene giuridico della bancarotta preferenziale realizzata mediante «pagamenti»
La dottrina non ha mai avuto esitazioni nel riconoscere che nel novero dei
creditori sociali potesse essere ricompreso anche un soggetto qualificato, in
quanto portatore di effettive ragioni di credito, argomentando sulla scorta della
diversità di bene giuridico tutelato dalla norma ai commi 1 e 3 (19).
Tuttavia, prima ancora di trovare riferimento nel bene giuridico, quale criterio discretivo tra le due ipotesi di bancarotta, la questione sembra poter trovare una precisa soluzione già sul piano della tipicità della bancarotta preferenziale, la quale ha dei tratti, una genesi e una evoluzione assolutamente distinti
rispetto all’ipotesi fraudolenta in senso stretto.
In effetti – ed è «scoperta» di ben poco spessore – altro è la discriminazione, altro la frode (20). La fattispecie dell’art. 216/3 l.f., sostanziale erede dell’art.
856/4 del codice di commercio, ha infatti mutato aspetto rispetto al passato, facendo della bancarotta preferenziale un’ipotesi di bancarotta fraudolenta, e
tuttavia aggiungendo l’ulteriore – e certamente decettiva (21) – condotta relativa alla «simulazione dei titoli di prelazione».
Tale inclusione ha comportato una duplice conseguenza: da un lato, ha imposto un notevole sforzo alla dottrina per accreditare la tesi, ormai consolidata,
che l’art. 216/3 costituisse un autonomo titolo di reato (22); dall’altro, ha proba-
( 19 ) Per tutti Pedrazzi, Sub art. 216, in Pedrazzi-Sgubbi, Art. 216-227. Reati commessi
dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Galgano (a cura di), Commentario
Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Bologna-Roma, 1995, 301.
( 20 ) Merita ricordare che l’ascendenza del moderno diritto fallimentare, con specifico riferimento al riparto dei debiti del fallito, risale alla lex Julia, la quale esplicitò per la prima
volta il diritto dei creditori al riparto dei beni del debitore. Tale percorso evolutivo condusse
poi all’introduzione dell’actio pauliana, la quale fu da subito connotata dal concetto di «fraudolenza», inteso come connubio del danno per i creditori (eventus danni) e del correlativo
scopo nella mente del soggetto agente (consilium fraudis). In questa specifica chiave storica,
peraltro, la fraudolenza della bancarotta preferenziale assume una sua fisionomia, a patto che
– come si vedrà infra – si riconosca cittadinanza all’elemento del danno, sulla cui qualificazione giuridica è aperto il più ampio dibattito dottrinale.
( 21 ) In questo preciso senso Donini, I pagamenti preferenziali nella bancarotta (art. 216,
comma 3, l. fall.): frode ai creditori e colpa grave come limiti «esterni» alla fattispecie. Il rischio
non più consentito come elemento oggettivo «interno», in St. iuris, 1999, 143; analogamente
Tassinari, Tipicità oggettivo-soggettiva della bancarotta preferenziale, in Il fall., 2002, 1347
ss., secondo il quale «l’accostamento, nella legge fallimentare vigente, delle due ipotesi criminose summenzionate, solleva, peraltro, alcune perplessità: le due condotte, in effetti, sono contrassegnate da un diverso grado di lesività, determinato dalla differente configurazione modale della
preferenza accordata al creditore. Mentre, nell’ipotesi del pagamento, l’alterazione della par
condicio appare immediata, l’attribuzione di un privilegio è destinata, quantomeno nella bancarotta preferenziale prefallimentare, ad operare nel successivo momento del riparto ed, al contempo, si distingue dalla prima per un più spiccato contenuto di fraudolenza».
( 22 ) È infatti all’evidenza che la c.d. «unità dei reati di bancarotta» non appare oggi più
supportata dall’elaborazione teorica sviluppata in relazione alle varie ipotesi previste agli artt.
216 e 223, ma è esclusivamente frutto di una (discutibile) scelta legislativa. In questo senso,
per tutti, Cocco, La bancarotta preferenziale, Milano, 1987, 114; contra, Delitala, Contribu-
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bilmente complicato l’indagine intorno all’enucleazione del bene giuridico
protetto dalle norme penal-fallimentari nel loro complesso (23).
In effetti, appare evidente che le due condotte descritte nella norma sono
del tutto diverse, soprattutto per la loro afferenza e vicinanza al concetto di
«frode», che nondimeno permea l’intera disposizione di cui all’art. 216 l.f.: non
può sottacersi, nondimeno, che quanto alla formulazione letterale della bancarotta preferenziale realizzata mediante pagamenti – cui è limitata la presente indagine – non è dato riscontrare alcun elemento propriamente «fraudolento».
Al contrario, lo scopo di favorire uno dei creditori non si pone – e non resta –
come occulto od occultabile, ma manifesto al punto di far dubitare della bontà
della stessa scelta tecnico-legislativa operata nel 1942.
Anche in ragione della considerazione appena svolta, e forse anche in virtù
della tipizzazione di una condotta non solo neutra, ma addirittura doverosa
qualora l’imprenditore sia in bonis, non sembra possibile prescindere dallo stato di insolvenza, che viene in dottrina ritenuto talora un presupposto della condotta (24), talaltra valorizzato nella prospettiva soggettiva, poiché il fine di avvantaggiare uno dei creditori non può sussistere se non quando l’impresa è in
dissesto o in procinto di cadervi (25).
La communis opinio afferma, ed è un passaggio fondamentale, che il fatto
criminoso debba necessariamente arrecare un pregiudizio alla massa creditoria (26). Talché, ad esempio, il caso del pagamento del credito privilegiato, in
costanza di capienza per tutti i crediti ugualmente privilegiati, non darebbe
luogo ad ipotesi delittuosa (27). Il che implica, conseguentemente, l’idea che l’il-
to alla determinazione giuridica del reato di bancarotta,in Delitala, Diritto penale. Raccolta
degli scritti, Milano, 1976, 726, il quale, vigente ancora il codice di commercio del 1882, interpretava in modo unitario le (allora distinte) ipotesi di bancarotta fraudolenta e bancarotta
preferenziale.
( 23 ) È nota la tradizionale diversità di posizione tra chi tende a riconoscere in detti reati
delle offese alla economia pubblica, con la correlativa connotazione pubblicistica della condotta del reo, spesso – se non sempre – sprovvista di una simile rilevanza/portata (cfr. Candian, Della bancarotta, in Riv. dir. comm., 1935, 218 ss.); chi, diversamente, riconduce gli illeciti penal-fallimentari alla categoria dei delitti contro il patrimonio, identificando quale punto di tutela l’integrità patrimoniale del soggetto fallito allo scopo del soddisfacimento dei creditori (cfr., per tutti, Delitala, L’oggetto della tutela del reato di bancarotta, in Id., Diritto penale, cit., 833 ss.); chi ritiene che il reato, plurioffensivo, tuteli tanto un bene sostanziale, ossia
il patrimonio dei creditori, quanto un bene giuridico processuale, rappresentato dal corretto
svolgimento della procedura concorsuale (Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle
altre procedure concorsuali, Milano, 1955, 25); chi, ancora, ha colto il momento essenziale dei
delitti in esame nella tutela del diritto di credito (cfr. Cocco, La bancarotta, cit., 77 ss.).
( 24 ) Giuliani Balestrino, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 2006, 476.
( 25 ) Rossi, I reati fallimentari, in Antolisei (a cura di Grosso), Manuale di diritto penale. Leggi complementari, II, Milano, 2014, 154.
( 26 ) Da ultimo, Cocco, Il ruolo delle procedure concorsuali e l’evento dannoso nella bancarotta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 67 ss.; Santoriello, La bancarotta fraudolenta documentale e la bancarotta preferenziale, in Le Società, 2014, 610; Rossi, I reati fallimentari, cit.,
138.
( 27 ) Rossi, I reati fallimentari, cit., 154; Giuliani Balestrino, La bancarotta, cit., 477.
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lecito in esame sia caratterizzato da un preciso «evento», consistente nel danno
per la massa creditoria correlato al fine di favore del pagamento preferenziale.
È tuttavia da osservare che l’espressione testuale non rende immediatamente riconoscibile un simile requisito nella fattispecie incriminatrice; l’elemento in parola, al contrario, emerge quale iperfetazione dell’interpretazione
orientata secondo il bene giuridico – e, sembra corretto aggiungere, secondo la
disciplina extrapenale di riferimento – che intende assicurare alla norma una
sua propria offensività, correlata ad una sostanziale realtà fattuale (28). Pertanto, sembrerebbe prima facie insostenibile una limitazione della tipicità della
bancarotta preferenziale alle sole condotte che sfocino concretamente in un
danno per la par condicio.
Come si è detto, la questione interpretativa relativa al «danno dei creditori»
è stata ritenuta superabile facendo ricorso alla precisa individuazione del bene
giuridico protetto (29), il quale va tuttavia tenuto distinto dallo scopo della norma. Quest’ultimo, se può valere ad anticipare in qualche modo i caratteri dell’oggetto giuridico, non trova identificazione con lo stesso: mentre lo scopo è il
motivo per il quale è posta la tutela, il bene giuridico indica l’oggetto verso il
quale quest’ultima si esprime (30).
( 28 ) Sul punto, cfr. Tagliarini, Profili salienti della bancarotta preferenziale, in Ind. pen.,
1992, 747 ss.: «Da ciò potrebbe trarsi la convinzione che, nell’ipotesi dell’art. 216, 3o comma,
L.F., la fattispecie è costituita, oltre che dai pagamenti e dalla simulazione dei titoli di prelazione
(condotta), dall’evento consistente nel favore sorgente per taluno dei creditori con connesso danno per la par condicio. Tale concezione appare suggestiva, poiché corrisponde alla giusta esigenza di assicurare la lesività della fattispecie, ma lascia perplessi perché, da un lato, non supera i limiti della tradizionale concezione giuridica dell’evento, e, dall’altro lato, non tiene conto che la
lesività del fatto può giuridicamente essere apprezzata anche nell’ipotesi di reati di condotta, privi di evento naturalistico». Contra, Giuliani Balestrino, La bancarotta, cit., 475: «L’imprenditore-debitore, consapevole del proprio stato di dissesto, quando realizza una bancarotta preferenziale agisce “a danno” dei creditori. E, difatti, l’art. 216 comma 3 l.f., incriminante la bancarotta preferenziale, stabilisce che il danno deve riflettersi sullo schermo mentale dell’agente come un fatto certo e inevitabile: viceversa, il “pregiudizio” è un concetto assai più lato ed elastico e
comprende pure il pericolo. Per lo stesso motivo, non si ha bancarotta preferenziale [...] ove venga pagato un creditore privilegiato e il pagamento non danneggi gli altri creditori; prova ulteriore, questa, che l’evento costituito dalla lesione della garanzia è elemento costitutivo del reato».
( 29 ) Così Cocco, La bancarotta preferenziale, cit., 69, il quale peraltro ricorda l’opposta –
e autorevole – posizione di Nuvolone, Il possesso nel diritto penale, Milano, 1942, 55 ss., che
sostiene appunto l’erroneità dell
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