Scarica allegato - Arcipelago Adriatico

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L’età
contemporanea
(dall’impero
napoleonico
alla
distruzione di Zara, 1797 – 1944)
L’impero napoleonico assegnò l’Istria e la Dalmazia prima al Regno
d’Italia. “Dalmati! L’Imperatore Napoleone, Re d’Italia, vostro Re, vi
rende alla vostra Patria… Egli ha riuniti i popoli d’Italia in una sola
famiglia…” Così iniziava, con la tipica retorica dei tempi nuovi, il
proclama del generale Dumas del 19 febbraio 1806. Poi alle Province
Illiriche,
brillante
diversissime,
dalla
costruzione
Carniola
illuminista
a
all’Isontino, con capitale Lubiana.
parte
che
della
riuniva
Croazia,
regioni
all’Istria,
L’assembramento non funzionò
gran che e la Dalmazia napoleonica continuò a governarsi come prima
sotto la protezione del maresciallo Marmont, “duca di Ragusa”, città
caduta anch’essa nel frattempo sotto l’ala napoleonica.
Cominciarono allora i contrasti etnici tra italiani e croati e una
prima presa di coscienza della loro diversità. Era l’idea di “nazione”,
portata dalle armate rivoluzionarie, che stava ponendo le premesse
del futuro conflitto che segnerà tutta l’età contemporanea. Ad
approfittare di questo lievito fu paradossalmente proprio l’impero
austriaco e i suoi generali croati che, giocando sulla nostalgia di
Venezia e insieme sui violenti atteggiamenti anticattolici e anticlericali
del governo napoleonico, aizzarono contro i francesi una parte del
patriziato cittadino, ma soprattutto le campagne influenzate dal clero
croato. I reggimenti dalmati venivano invitati a disertare per unirsi ai
loro “fratelli” croati delle armate austriache.
Argomenti che sotto il dominio veneto non avrebbero avuto alcuna
presa si rivelarono invece premianti. Come i reggimenti italiani inviati
da Napoleone in
Spagna si liquefacevano di fronte alla propaganda
sanfedista dei ribelli realisti, così molti reggimenti dalmati, che
combattevano con le stesse uniformi e sotto le insegne bianco-rossoverdi dell’armata italiana, si disfecero sia nelle campagne contro
l’Austria in Dalmazia sia durante la campagna di Russia.
reggimento
“Real
Dalmata”
si
mantenne
fedele
fino
Solo il
alla
fine
meritando menzioni ed onori e un posto nelle bacheche del Museo des
Invalides, sulle rive della Senna. Se leggiamo i nomi dei suoi ufficiali
e dei suoi graduati scopriamo che sono quasi tutti nomi di italiani
della Dalmazia e dell’Istria e di veneto-greci delle Isole Ionie.
Si profila così una situazione tutta “moderna”, confermata dalle
cronache della lunga guerra che si combatté sulle coste dalmate
durante il blocco inglese al continente controllato da Napoleone, che
contrapponeva sul campo ed in mare i franco-italiani da un lato agli
austro-russo-inglesi dall’altro.
Vinte le prime resistenze alla scomparsa della Serenissima, una
parte dei ceti dirigenti cittadini si allineò su posizioni filo-austriache
sia per convincimenti religiosi, sia per motivi di ordine economico e
sociale di avversione al nuovo corso borghese. Filo-austriache finirono
per diventare le popolazioni rurali croate; filo-russe quelle serbe e
montenegrine. Un’altra parte cospicua della nobiltà cittadina e gran
parte dei ceti popolari e borghesi delle città dalmate si sentirono
solidali con le nuove idee della rivoluzione ed appoggiarono con
convinzione
le
innovazioni
introdotte
con
molto
equilibrio
dal
provveditore generale veneziano Vincenzo Dandolo. E’ così che si
spiega la fedeltà del reggimento ora nominato, come la fedeltà al
governo napoleonico dei consigli comunali e dei podestà, nonché delle
varie Guardie nazionali che si erano costituite nelle città, sul modello
di quelle francesi e italiane. Sintomatico fu il comportamento degli
zaratini durante l’assedio austro-inglese del 1813, quando si tennero
saldamente al fianco delle truppe francesi e italiane che difendevano
la città, contribuendo efficacemente a reprimere un ammutinamento
di soldati croati, che furono disarmati e accompagnati fuori della cinta
fortificata per evitare di dover sfamare bocche inutili.
Era chiaramente l’inizio di quella contrapposizione che percorse
tutto l’Ottocento: da un lato un fronte croato che, partendo dalle
campagne e con il sostegno del clero, acquista sempre maggior
coscienza nazionale, guadagna una parte della nascente borghesia
croata di Ragusa e di Spalato e vede generalmente nell’Austria la sua
alleata per scalzare l’egemonia culturale ed economica dell’elemento
italiano; dall’altro un fronte liberale, nel quale si organizzano gli
italiani delle città , più sensibili alle idee occidentali e ai progetti di
unificazione degli stati italiani in un’unica realtà politica. Questo fronte
verrà ad assumere inevitabilmente un carattere anti-austriaco oltre
che apertamente anti-croato.
In questo quadro evolutivo – ovviamente non omogeneo – trova
spiegazione il rapido sorgere in Dalmazia durante la Restaurazione
delle società segrete di tipo carbonaro, come la misteriosa sigla dei
“Greci del
Silenzio”, la
Società Esperia, la “Setta dei Guelfi”.
L’impronta nazionale italiana del secondo nome non ha bisogno di
commenti. La prima società è chiaramente collegata con le aspirazioni
d’indipendenza del popolo greco, portate avanti proprio dagli ambienti
dei patrioti veneziani e corfioti. Si pensi a Ugo Foscolo, nato a Zante
ed educato a Spalato, e alla sua amicizia politica con i poeti greci
Calvos e Solomòs. “Logge” di queste società segrete erano sorte nelle
città dalmate in collegamento con il resto d’Europa, con il LombardoVeneto e con il Regno delle Due Sicilie. Ad esse non doveva essere
estranea l’influenza massonica, come non mancavano di denunciare
nelle relazioni che si scambiavano – ovviamente in italiano – le polizie
austriache e quelle borboniche.
E’ il caso di osservare che fino al 1860 l’italiano continuò ad essere
la lingua ufficiale della Dalmazia, della sua Dieta, dei suoi tribunali,
dei suoi uffici pubblici. L’atteggiamento del governo austriaco fino a
quell’epoca fu infatti ispirato ad un certo rispetto per la supremazia
italiana
nella
regione,
preoccupato
di
non
smuovere
equilibri
consolidati e di non spingere apertamente gli italiani verso la causa
liberale
unitaria.
Il
patriziato
dalmato
ebbe
il
suo
spazio
nell’amministrazione, nella marina e nella giustizia, così in Dalmazia
come nelle altre province italofone dell’impero (dalla Lombardia al
Trentino, all’Istria), a Vienna e nelle missioni diplomatiche all’estero.
Del resto l’Austria faceva leva sulla radicata presenza dei suoi sudditi
italiani in tutto il Levante mediterraneo, da Smirne ad Alessandria
d’Egitto (veneziani, triestini, istriani). E su di loro impostò la sua
penetrazione commerciale con l’istituzione del Lloid Austriaco e delle
Assicurazioni Generali,
mettendo a frutto la popolarità del leone
alato. In questo modo riusciva per lo meno ad assicurarsi la
collaborazione preziosa di una parte dei ceti dirigenti italiani del suo
vasto impero.
Anche se le società segrete erano certamente frange minoritarie,
eredi
delle
nostalgie
napoleoniche
o
innamorati
delle
utopie
mazziniane, sta di fatto che quando scoppiarono in Europa le
rivoluzioni del 1848 la Dalmazia non rimase inerte. Il popolo e la
borghesia delle città
si unì alla richiesta della Costituzione e, pur
senza ricorrere alla violenza, solidarizzò con le insurrezioni di Milano
e soprattutto di Venezia. Fu così che si costituì nelle principali città
abitate da italiani la Guardia Nazionale di napoleonica memoria. I
commissari austriaci ne approvarono gli statuti nel tentativo di tenere
la situazione sotto controllo. Ma a Zara avvenne che i militi della
Guardia cambiassero le coccarde bianco-rosse con quelle tricolori
italiane e che in più occasioni finestre e
balconi inalberassero il
vessillo bianco-rosso-verde. La polizia lasciò correre per mesi per non
inasprire gli animi, prendendo atto dell’esistenza di un sentimento
popolare abbastanza diffuso e presumibilmente maggioritario, dato
che all’iniziativa dei patrioti nessuno si oppose e per mesi le piazze
risuonarono di marce e inni chiaramente allusivi alla causa delle
rivoluzioni veneziana e romana.
In entrambe le rivoluzioni troviamo i dalmati in prima fila, sia a
livello di vertice, che nelle truppe volontarie. Federico Seismit-Doda,
patrizio raguseo di idee liberali e repubblicane (da vecchio sarà
ministro nel governo Crispi) è a Roma, accanto a Garibaldi e ad
Armellini. Niccolò Tommaseo, cattolico-liberale, neoguelfo, federalista,
è a capo della Repubblica di Venezia insieme a Daniele Manin. E con
lui sono numerosi ministri dalmati della neonata repubblica e
centinaia di volontari raccolti nella Legione Dalmata. Altre centinaia di
volontari, partiti da ogni angolo della Dalmazia, sono al servizio della
Repubblica Romana e altri militano nell’armata piemontese. Di fronte
a queste manifestazioni, così estese e convinte, non vi possono
essere dubbi da che parte stiano gli italiani della Dalmazia.
C’è un episodio illuminante che riguarda il comune di Spalato. Nel
processo di concessione delle costituzioni da parte del governo di
Vienna la municipalità di Zagabria invia a quella di Spalato, come alle
altre città dalmate, un messaggio di “fratellanza”, per sondarne
l’atteggiamento in vista di una loro adesione alle richieste dei popoli
slavi della monarchia all’imperatore. La missiva è però redatta in
lingua croata e la risposta negativa del consiglio comunale di Spalato
– al pari di quelle degli altri comuni dalmati, esclusa la sola Obrovazzo
– arriva, naturalmente in italiano, con un vistoso ritardo in quanto - si
giustifica nella lettera – a stento si era trovato “un cittadino di
Spalato, che ne conta 12.000, capace di tradurre “ il loro messaggio.
Risposta
chiaramente
provocatoria,
che
però
dà
un
saggio
dell’atmosfera che si respirava nel 1848-49 nella città dalmata. E un
po’ di verità c’era anche in
quella risposta se anni dopo il primo
giornale del partito “croato” della Dalmazia veniva pubblicato in lingua
italiana, dalla testata (“Il Nazionale”) all’ultima riga, per poter essere
letto dai cittadini della regione. Non ci sarebbe da gloriarsene se si
riflette che era il sintomo del vasto analfabetismo delle popolazioni
rurali! Ma era comunque un fatto.
L’interesse per l’indipendenza italiana si ripeterà durante la
seconda guerra d’indipendenza (1859), per lo meno per quanto
riguarda
l’afflusso
di
volontari
nell’esercito
sardo
e
nelle
file
garibaldine. La vigilanza della polizia sulle città si farà più attenta e
penetrante e gli arresti di persone sospette sarà il segno di
inquietudini e di attese che tornano a serpeggiare nella popolazione di
fronte ai primi successi della causa nazionale italiana.
Dopo la costituzione del regno d’Italia (1861) e ancor più dopo la
III guerra d’indipendenza e la perdita del Veneto l’atteggiamento delle
autorità e del governo austriaci cambia radicalmente. Non vi è più
motivo di accattivarsi una minoranza nazionale, come quella italiana,
nettamente minoritaria all’interno della monarchia. Tanto più che, da
Trento a
Cattaro, la parte più avanzata della cultura di questa
minoranza guarda ormai all’Italia come punto di riferimento.
Si
profila a questo punto con chiarezza l’alleanza austro-croata per
portare la Dalmazia e anche l’Istria nell’orbita del regno croato.
Nascono i due partiti: quello
“croato” degli annessionisti e quello
“italiano” degli autonomisti. La battaglia sarà lunga e si protrarrà fino
al primo conflitto mondiale, essendo comunque riusciti i dalmati
italiani, quantunque minoritari, a difendere l’autonomia della regione,
con la sua Dieta, e la sua diretta dipendenza da Vienna.
E’ una partita lunga ed estenuante che il partito autonomista deve
giocare da solo, non potendo contare sull’appoggio del governo
italiano, che non vuole grane con l’Austria, tanto più dopo la stipula
della Triplice Alleanza nel 1882 fra Roma, Vienna e Berlino.
La principale trincea di questa lotta sarà la difesa della lingua
italiana
come
lingua
ufficiale.
L’altra
trincea
la
difesa
della
maggioranza elettiva nella Dieta e nelle amministrazioni comunali. La
prima battaglia vedrà una progressiva recessione dell’italiano dalla
maggior parte dei comuni minori, dove verrà affiancato dal serbocroato o sostituito del tutto. Al termine di questo processo la lingua
italiana resterà come lingua unica solo nel territorio del comune di
Zara, mentre negli altri comuni maggiori, come
Ragusa,
Spalato, Sebenico,
Cattaro, Curzola, Lesina, Traù, verrà progressivamente
affiancata dal serbo-croato, così come negli atti ufficiali del governo
regionale e dei tribunali.
Se nel 1861 la Dieta dalmata aveva trenta deputati italiani e undici
croati, nel 1870 veniva persa la maggioranza e alla vigilia del 1915 la
rappresentanza
italiana
rischiava
di
scomparire.
Così
venne
progressivamente persa la maggioranza in tutti i comuni, tranne
quello di Zara. Nemmeno l’opera illuminata e imparziale, il valore
politico e l’universale stima di un Antonio Baiamonti, il “potestà
mirabile”, amico del Tommaseo, riuscì a conservare Spalato al partito
autonomista.
Alla perdita dei comuni corrispose inevitabilmente l’abolizione delle
scuole italiane, sia di quelle primarie che dei ginnasi, dei licei e delle
scuole tecniche. Privi dell’appoggio statale gli autonomisti dovettero
ricorrere, nelle città dalmate al di fuori di Zara, alle scuole private,
mantenute con le sovvenzioni del partito autonomista, della “Pro
Patria”, della “Dante Alighieri” e della Lega Nazionale.
Il processo di slavizzazione culturale rispondeva del resto alla
proporzione numerica tra italiani e slavofoni, che rappresentavano la
stragrande maggioranza della popolazione. Man mano che venivano
modificate le leggi elettorali e le circoscrizioni amministrative, con il
disegno evidente di mettere la minoranza italiana in difficoltà, le
conseguenze
non
si
facevano
attendere.
L’azione
del
governo
austriaco era validamente sostenuta dalla maggioranza del clero
croato, cui era facile gioco descrivere l’Italia e gli italiani come nemici
della Chiesa, a causa della vessatissima “questione romana”. Ardua fu
quindi l’azione dei sacerdoti e dei religiosi dalmati di lingua italiana
per fronteggiare questa offensiva nazionalistica. Si riuscì ad ottenere
che ove il vescovo fosse croato, il suo vicario fosse di nazionalità
italiana. E agli stessi equilibri si dovette ricorrere per gli ordini
religiosi. Specie i francescani erano molto amati dalla popolazione
delle città, ancora prevalentemente o largamente italiana. Occorreva
quindi evitare che i conventi cittadini venissero invasi da religiosi o
religiose di sentimenti anti-italiani.
Né mancarono purtroppo in questo clima di continuo confronto gli
episodi di violenza e di intolleranza, come in occasione della visita a
Sebenico della nave militare italiana “Monzambano” nel 1869. Nel
corso della festa in Piazza dei Signori offerta all’equipaggio dal
Comune, amministrato ancora dal partito italiano, avvennero incidenti
provocati da agitatori del partito croato. Rimasero uccisi ben 14
marinai italiani. Tommaseo da Firenze ne scrisse con profonda
tristezza, attribuendone la responsabilità alle autorità austriache che
non avevano saputo assicurare l’incolumità di marinai inermi. Nel
1870 vi fu l’incendio doloso del Teatro Verdi di Zara, luogo-simbolo
dell’italianità cittadina. Seguirono nei decenni successivi scontri
cruenti in occasione di ogni campagna elettorale, alimentando la
diffidenza e l’ostilità reciproca delle due etnie.
Fu inevitabile che verso la fine dell’Ottocento il partito degli italiani
si trasformasse da autonomista in irredentista, come stava avvenendo
a Trieste, a Fiume, nel Trentino e in Istria. La morsa contro la
componente italiana autoctona della popolazione si faceva troppo
stretta, la sfiducia verso l’equidistanza del governo di Vienna sempre
più radicata e giustificata perché si proseguisse sulla linea moderata
dell’autonomismo. I circoli irredentisti, animati dagli intellettuali del
luogo, come il giornalista zaratino Arturo Colautti – che scriveva sui
principali giornali italiani – fecero sempre più proseliti specie fra i
giovani e fra i borghesi e i popolani animati da sentimenti repubblicani
ed anarchici.
Le componenti dell’irredentismo, a cavallo tra i due secoli, furono
quindi diverse. In esso convivevano esperienze socialiste, liberalimoderate, cattolico-liberali, nazionaliste e anarchiche. Un unico
cemento le teneva strette: la difesa dell’italianità e il desiderio di
unire la loro terra all’Italia, a
unificazione
nazionale.
Punto
completamento del processo di
di
riferimento
del
movimento
irredentista era Trieste, con i suoi scrittori che collaboravano alla
rivista fiorentina “La Voce” (Carlo e Giani Stuparich, Scipio Slataper,
Umberto Saba, Ruggero Timeus e altri).
Un ruolo importante nell’irredentismo dalmato, come in quello
istriano e triestino, ebbero gli esponenti delle comunità ebraiche delle
città costiere, aperte ai sentimenti liberali e quindi di atteggiamento
culturale anti-austriaco e filo-italiano, essendo peraltro l’italiano la
lingua parlata preferibilmente nelle loro case e molto forti i loro
legami con le comunità di Venezia e di altre città della penisola.
Fu in questa situazione che maturò nel 1914-1915 la pressione
degli irredentisti dalmati per l’entrata in guerra dell’Italia accanto
all’Intesa e per la firma del Patto segreto di Londra, che assegnava
all’Italia, in caso di vittoria alleata, metà della Dalmazia, con Zara e
Sebenico e un cospicuo entroterra. Il sogno degli irredentisti era di
ottenere tutta la Dalmazia, fino alle Bocche di Cattaro e tale fu la loro
attiva propaganda durante tutta la prima guerra mondiale.
Occorre valutare il pensiero di un uomo preparato e prudente, come
il leader del partito irredentista dalmato di quegli anni, Roberto
Ghiglianovich, per comprendere oggi la ragionevolezza di quel disegno
e non tacciarlo di follia, di fronte alla realtà di una composizione
etnica della popolazione così sbilanciata a favore dell’elemento
slavofono. La tesi annessionista al regno d’Italia si fondava sulla
considerazione della profonda differenza tra gli slavi della costa e
quelli dell’interno, sulla divisione degli stessi slavi tra serbi e croati e
dell’avversione dei primi per i secondi e viceversa, sull’aspettativa che
solo un paese di grande civiltà giuridica e di notevoli risorse
economiche come l’Italia avrebbe potuto assicurare alla regione un
avvenire di convivenza inter-etnica e di prosperità, con un regime
speciale di autonomia che salvaguardasse le peculiarità linguistiche
del territorio tutelando allo stesso modo il patrimonio linguistico e di
costume di croati, serbi e italiani. Leggendo le pagine di quest’uomo
appassionato e preparato ci si rende conto della buona fede di questa
posizione e dell’assoluto rispetto per la cultura e le lingue slave della
maggioranza dei dalmati. A chi gli faceva obiezioni rispondeva che i
diritti storici dell’Italia sulla Dalmazia e la situazione etnica e culturale
della regione erano ben più forti delle ragioni francesi sull’AlsaziaLorena, la cui riconquista costituiva il principale obiettivo dichiarato
dell’intervento francese.
Il movimento irredentista degli istriani e dei dalmati trovava un’eco
profonda in una parte considerevole della cultura italiana, specie in
campo letterario e artistico, mentre molti storici ed economisti erano
assai più tiepidi se non apertamente ostili.
Le vicende della prima guerra mondiale trovarono numerosi dalmati
fra i volontari dell’esercito e della marina italiani. Molti esponenti
politici irredentisti, che non erano riusciti a riparare in Italia, furono
arrestati
e
ristretti
nelle
prigioni
austriache.
L’intero
consiglio
comunale di Zara, composto totalmente da italiani, fu internato nelle
regioni più lontane dell’impero, ove rimase fino agli ultimi giorni
dell’ottobre 1918.
Se questo era lo spirito dei dalmati italiani si può comprendere
come essi trepidarono dopo il disastro di Caporetto e quale fu il loro
entusiasmo alla notizia di Vittorio Veneto. Zara insorse, disarmò la
guarnigione austriaca, allontanò dalle caserme ufficiali e soldati delle
altre nazionalità dell’impero e costituì per la terza volta la Guardia
Nazionale, composta da militari di nazionalità italiana e da civili,
sovrapponendo alle uniformi austriache le coccarde tricolori. La città si
coprì di bandiere italiane, cucite in segreto nelle case, in attesa della
“Redenzione”, che avvenne nella giornata del 3 novembre con lo
sbarco sulla Riva Nuova della torpediniera 55.
Seguirono le trattative di pace, i timori per le contestazioni alleate
sulla Dalmazia, la questione fiumana. Furono anni di intensa passione
civile. Con il patto di Corfù del 1917, stipulato dagli esponenti politici
croati, serbi e sloveni e sostenuto da Francia e Gran Bretagna, veniva
prevista la costituzione di un regno unico che raccogliesse i tre popoli.
Era evidente che il patto segreto di Londra, che era condiviso anche
dalla Russia e dalla Serbia nella situazione prebellica (bisognava far
entrare in guerra l’Italia) era completamente superato. Dal canto suo
il Consiglio Nazionale di Fiume, che rappresentava la stragrande
maggioranza della popolazione della città, aveva chiesto l’annessione
all’Italia, malgrado il patto di Londra non lo prevedesse.
La posizione del governo italiano era difficilissima. Ritirò le sue
truppe da Fiume per evitare incidenti con i contingenti alleati. La
risposta a quest’atto, prudente ma rinunciatario, fu l’impresa di
D’Annunzio che accorse da Ronchi in aiuto della città con migliaia di
volontari.
Interi
reparti
dell’esercito
italiano
si
unirono
a
lui
disobbedendo al governo di Roma.
Non è qui il luogo di valutare la portata e il significato della
Reggenza Italiana del Carnaro. Occorre dire che a quella vicenda la
Dalmazia partecipò ancora una volta con l’entusiasmo dei suoi
volontari che accorsero a Fiume da ogni angolo della costa formando
un’intera legione. Anche a Zara si costituì un reparto di legionari,
formato interamente da giovani della città e di altre località della
Dalmazia.
L’epilogo è noto. Bombardata Fiume dalla flotta italiana nel “Natale
di sangue” del 1920, con numerosi morti e feriti tra i legionari e la
popolazione, D’Annunzio fu costretto alla resa per non versare altro
sangue in una lotta fratricida.
Con i successivi trattati di Rapallo (1920) e di Roma (1924) furono
assegnate all’Italia, rispettivamente, in Dalmazia la sola città di Zara
con una minuscola enclave, le isole di Lagosta e Pelagosa e la città di
Fiume fino all’Eneo, lasciando alla neonata Iugoslavia il sobborgo di
Sussak.
Le clausole del trattato di Rapallo avrebbero dovuto assicurare la
sopravvivenza della minoranza italiana, ancora consistente in qualche
decina di migliaia di persone concentrate a Spalato e nelle altre città
maggiori. Ma i fatti furono diversi. Alcune migliaia di italiani furono
costretti all’esodo dal clima di violenze che si era instaurato
(aggressioni, pestaggi, devastazioni dei circoli di cultura italiani e dei
caffè frequentati dalla minoranza, dei negozi di proprietà dei più noti
irredentisti, incendi dei raccolti e delle case di campagna, taglio dei
vigneti, ecc.). Gli altri cercarono di sopravvivere e di evitare
l’assorbimento, mandando i loro figli a studiare a Zara, a Trieste o in
altre città italiane.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale la comunità di Spalato
contava ancora alcune migliaia di persone. Con l’invasione della
Iugoslavia da parte delle truppe dell’Asse nell’aprile del 1941 sembrò
agli italiani della Dalmazia che si compisse finalmente il loro sogno.
Con il consenso del governo ustascia di Ante Pavelic, che aveva
costituito il primo stato indipendente croato dell’età moderna (il
secondo nascerà nel 1991), furono annessi all’Italia i territori di
Sebenico, Traù, Spalato, le Bocche di Cattaro e le isole maggiori. Solo
Ragusa (Dubrovnik) fu lasciata al nuovo Regno di Croazia.
Ma non era che un sogno, che si trasformò ben presto in un incubo.
Malgrado le originarie intenzioni di guadagnarsi la simpatia della
popolazione croata del governatore Bastianini e delle autorità militari,
conservando al suo posto il personale iugoslavo dei pubblici uffici,
mantenendo le scuole esistenti ed equiparando il serbo-croato
all’italiano come lingue ufficiali delle tre nuove province (Zara, Spalato
e Cattaro), già nel 1942 prese corpo nelle zone montuose dell’interno
una duplice guerriglia: quella dei nazionalisti serbi filo-monarchici, i
Cetnici, e quella dei partigiani controllati dal partito comunista
iugoslavo di Josip Broz Tito.
Iniziò una tormentata azione di repressione e di contenimento delle
nostre forze armate. In molte occasioni, a seguito delle stragi di serbi
ortodossi (i morlacchi di veneta memoria) compiute dai miliziani
ustascia, si determinò una vera e propria alleanza di fatto tra
l’esercito italiano e i guerriglieri cetnici. Ricerche recenti, basate su
documenti dell’epoca, dimostrano come le truppe italiane riuscirono a
proteggere le popolazioni serbe dalle violenze degli ustascia di
Pavelic, così come protessero dalle persecuzioni razziali gli ebrei croati
che si rifugiarono in Dalmazia.
In quel drammatico periodo (aprile 1941-settembre 1943) tornarono
nelle città natali numerosi esuli dalmati per svolgere le loro funzioni di
funzionari, impiegati, giudici, ufficiali delle varie armi, con la volontà
di contribuire con la loro conoscenza delle lingue e delle mentalità
locali alla buona riuscita dell’amministrazione italiana e alla sua
accettazione da parte della popolazione croata.
Lo sviluppo negativo del conflitto, l’appoggio inglese alla guerriglia
di Tito, il clima di ritorsioni innescato dagli attentati dei partigiani e
dalle rappresaglie delle nostre truppe, distrussero ogni illusione.
Il crollo militare italiano del settembre 1943 lasciò inerme la
popolazione civile italiana di fronte all’ostilità dei tedeschi e degli
ustascia, che approfittarono della situazione per rivalersi sugli italiani
”traditori”, militari e civili, e alle prime pulizie etniche dei partigiani di
Tito. A Spalato e nella vicina Riviera dei Sette Castelli si svolsero gli
episodi più tragici e sanguinosi di quel settembre. In un primo
momento i partigiani si impadronirono della città, disarmarono il pur
numeroso presidio italiano, diedero avvio alle esecuzioni sommarie di
oltre un centinaio di civili italiani (impiegati, insegnanti e i loro
familiari), preferendo ovviamente gli italiani
autoctoni come il
provveditore agli studi Giovanni Soglian, il preside Luginbuhl e altri
spalatini e sebenzani, senza trascurare qualche avversario politico,
come il pope della chiesa ortodossa di Spalato.
Dopo pochi giorni e dopo violenti combattimenti nei dintorni della
città tra tedeschi e partigiani, ai quali presero parte – dall’una e
dall’altra parte -
anche reparti italiani, Spalato e la Riviera furono
occupate dalle truppe germaniche, che prima bombardarono e
mitragliarono migliaia di militari italiani che i partigiani avevano
concentrato sulle banchine del porto, poi fucilarono numerosi ufficiali,
compresi cinque generali, che si erano dichiarati fedeli al governo del
Re.
Così cominciava il calvario degli italiani in Dalmazia. Anche Zara fu
occupata dalle truppe
tedesche dopo una debole resistenza dei
reparti di alpini dislocati a Punta Amica.
Dopo la costituzione della
RSI, Mussolini riuscì ad ottenere da Hitler che gli ustascia si ritirassero
dalla città e che venisse mantenuta l’autorità di un prefetto italiano e
che l’ordine pubblico fosse assicurato da un reparto di carabinieri
armato.
Si costituì anche un reparto di giovani fascisti repubblicani
che prese il nome dalla medaglia d’oro zaratina Antonio Vukassina,
caduto in uno scontro contro i partigiani titini nel giugno del 1943. Ma
questo reparto fu presto allontanato ed inviato nella pianura padana a
seguito di pressioni tedesche e del governo di Zagabria, per gli
incidenti
avvenuti
con
reparti
tedeschi
ed
ustascia
in
difesa
dell’italianità della città.
Ai primi di novembre del 1943 iniziarono i bombardamenti di Zara.
Con 54 incursioni le fortezze volanti americane e i bombardieri inglesi
distrussero l’80% degli edifici, compresa la chiesa rinascimentale di S.
Maria, la Madonna della Salute, il teatro Verdi e alcuni palazzi gotici
veneziani. Rimasero miracolosamente illese tra i cumuli di rovine il
Duomo e le chiese di S. Grisogono, di S. Francesco, di S. Simeone, di
S. Michele.
La
popolazione,
dopo
aver
subito
migliaia
di
morti,
dovette
rassegnarsi ad abbandonare la città ormai inabitabile. Gli abitanti si
rifugiarono nei paesi del contado, che li ospitarono amichevolmente,
dimostrando così quanto poco fosse radicato nel popolo vero, croato o
serbo, l’odio verso i conterranei italiani. Altri trovarono riparo nei
fortini intorno alla città. Il capodanno del 1944 trovò Zara che ardeva
in un immenso rogo durato tre giorni e tre notti a seguito dei
bombardamenti al fosforo degli aerei alleati. Complessivamente
furono riversate su una città di 22.000 abitanti, con un centro urbano
di due chilometri quadrati ereditato dall’antica Jadera liburnica e
romana, più tonnellate di esplosivo di quelle impiegate per la
distruzione della città di Cassino e della vicina Abbazia. Resta ancora
da dimostrare sul piano storico quale obiettivo militare potesse
costituire Zara per tanto impegno distruttivo, quando era noto che nel
vecchio porto c’erano soltanto due o tre pontoni armati tedeschi e gli
effettivi di una compagnia della Wehrmacht in una caserma di
Cereria. Perché picchiare allora sul centro storico e il suo reticolato
romano di calli e campielli?
L’interpretazione più naturale, che fu data fin da allora da ambienti
informati non sospetti, come i comandi italiani del governo di Salerno,
è che i bombardamenti furono causati da false informazioni fornite da
Tito agli alleati con lo scopo evidente di liberarsi definitivamente
dell’ultima città italiana - di diritto e di fatto - della Dalmazia. Non per
nulla Enzo Bettiza ha chiamato Zara la “Dresda dell’Adriatico”
Quando i partigiani di Tito entrarono a Zara, nell’ottobre del 1944 a seguito della ritirata tedesca da tutta la penisola balcanica –
entrarono in una città morta. Ballarono il kolo in mezzo alle rovine e
all’ombra di S. Donato arrostirono maiali e capretti.
Centinaia di
cittadini furono arrestati e fucilati nei giorni e nei mesi successivi. Li
cercarono nei sobborghi e nei villaggi del contado. Alcuni furono
annegati in mare, con le pietre legate al collo. Altre centinaia
periranno anni dopo nel gulag titino dopo processi sommari per
“collaborazionismo” con il governo e le forze armate italiane.
Furono cioè trattati, in violazione delle norme elementari del diritto
internazionale, come se non fossero essi stessi cittadini italiani. E a
nulla valse il fatto che consistenti reparti di militari italiani avessero
combattuto, nelle regioni interne, a fianco dei partigiani titini, in
obbedienza agli ordini ricevuti dal governo del Sud.
Il Trattato di pace del 1947 sancì la fine della Dalmazia italiana,
con il passaggio alla nuova Jugoslavia della piccola provincia di Zara.
L’esodo dei cittadini dal comune capoluogo (20.000 su 22.000) fu
l’ultimo triste plebiscito.
Lucio Toth