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IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454 commento di Graziella Glendi 48 48 49 Agevolazioni Incentivi occupazionali: recupero ‘‘lungo’’ per crediti frazionati Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15190 commento di Sarah Eusepi 58 60 Imposta di registro La cessione ‘‘isolata’’ di beni funzionali all’esercizio d’impresa è sempre cessione di azienda Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15175 commento di Filippo Dami e Diletta Mazzoni 67 72 Giurisprudenza di merito Fiscalità internazionale I vizi formali non fanno perdere la qualifica di beneficiario effettivo prevista dalla normativa europea Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I, Sent. 3 novembre 2016, n. 8303 commento di Franco Roccatagliata GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 76 79 3 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {AAAAA_FISCALE}0105_17-GTRI01/ 00135027_2017_01_SOMMARIO.3d Sommario Gennaio 2017 Redditi di lavoro autonomo Deducibile (in parte) il vestiario utilizzato per trasmissioni televisive 85 87 Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XL, Sent. 22 luglio 2016, n. 6443 commento di Mauro Beghin Indici Autori, Cronologico, Repertorio della giurisprudenza per materia e Sistematico 95 Direzione scientifica Cesare Glendi Editrice Wolters Kluwer Italia s.r.l. - Strada 1, Palazzo F6 - 20090 Milanofiori Assago (MI) - http://www.ipsoa.it Direttore responsabile Giulietta Lemmi Redazione Paola Boniardi, Valentina Cazzaniga, Marcello Gervasio Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 537 del 27 novembre 1993 Tariffa R.O.C.: Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano Iscritta nel Registro Nazionale della Stampa con il n. 3353 vol. 34 foglio 417 in data 31 luglio 1991 Realizzazione grafica Ipsoa Fotocomposizione Sinergie Grafiche Srl - Viale Italia, 12 - 20094 Corsico (MI) - Tel. 02/57789422 Stampa GECA s.r.l. - Via Monferrato, 54 - 20098 San Giuliano Milanese (MI) - Tel. 02/99952 Rivista licenziata per la stampa il 19 gennaio 2017 Pubblicità oppure Inviare assegno bancario/circolare non trasferibile intestato a Wolters Kluwer Italia s.r.l. 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Redazione Per informazioni in merito a contributi, articoli ed argomenti trattati scrivere o telefonare a: IPSOA Redazione GT Casella postale 12055 - 20120 Milano Telefono (02) 82476.008 - Telefax (02) 82476.883 E-mail: [email protected] www.wolterskluwer.it Strada 1 Palazzo F6 20090 Milanofiori Assago (MI), Italia Amministrazione Per informazioni su gestione abbonamenti, numeri arretrati, cambi d’indirizzo, ecc. scrivere o telefonare a: IPSOA Servizio Clienti - Casella postale 12055 - 20120 Milano Telefono (02) 824761 - telefax (02) 82476.799 Servizio risposta automatica telefono (02) 82.476.999 Abbonamenti Gli abbonamenti hanno durata annuale, solare: gennaio-dicembre; rolling: 12 mesi dalla data di sottoscrizione, e si intendono rinnovati, in assenza di disdetta da comunicarsi entro 30 gg. dalla data di scadenza a mezzo raccomandata A.R. da inviare presso la sede del Produttore. 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Lei potrà in ogni momento esercitare i diritti di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 196/2003, fra cui il diritto di accedere ai Suoi dati e ottenerne l’aggiornamento o la cancellazione per violazione di legge, di opporsi al trattamento dei Suoi dati ai fini di invio di materiale pubblicitario, vendita diretta e comunicazioni commerciali e di richiedere l’elenco aggiornato dei responsabili del trattamento, mediante comunicazione scritta da inviarsi a: Wolters Kluwer Italia S.r.l. - PRIVACY - Centro Direzionale Milanofiori Strada 1-Palazzo F6, 20090 Assago (MI), o inviando un Fax al numero: 02.82476.403. Distribuzione Vendita esclusiva per abbonamento Italia Abbonamento annuale: D 259,00 Estero Abbonamento annuale: D 518,00 Modalità di pagamento Versare l’importo sul C/C/P n. 583203 intestato a WKI s.r.l. Gestione Incassi Strada 1, Palazzo F6, Milanofiori 4 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite IVA L’omessa dichiarazione IVA non esclude l’iscrizione a ruolo per il recupero dell’imposta detratta Cassazione, SS.UU., Sent. 8 settembre 2016 (21 giugno 2016), n. 17758 - Pres. Rordorf - Rel. Cirillo (stralcio) IVA - Dichiarazioni - Omessa presentazione della dichiarazione annuale - Iscrizione a ruolo dell’imposta detratta - Legittimità - Successiva emissione della cartella di pagamento - Legittimità Nella fattispecie di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è consentita l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e la consequenziale emissione della cartella di pagamento, ben potendo il Fisco operare, con procedure automatizzate, un controllo formale che non tocchi la posizione sostanziale della parte contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi e da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi in possesso dell’anagrafe tributaria, ai sensi degli artt. 54-bis e 60, D.P.R. n. 633/1972. Resta salva, nel successivo giudizio di impugnazione della cartella, l’eventuale dimostrazione, a cura del contribuente, che la deduzione di imposta eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto riguardi acquisti fatti da un soggetto passivo di imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza dell’8 novembre 2011 la Commissione tributaria regionale della Calabria ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate nei confronti del Comune di San Nicola da Crissa e, riformando la decisione della Commissione tributaria provinciale di Vibo Valentia, ha confermato la cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione IVA per l’anno 2004, dove l’ente locale aveva esposto un credito d’imposta riportato dall’annualità precedente, rispetto alla quale, dall’interrogazione dell’anagrafe tributaria, la dichiarazione IVA risultava essere stata omessa. 2. Il giudice d’appello, premesso che un credito d’imposta non esposto nella dichiarazione annuale IVA non poteva essere portato in detrazione nella dichiarazione per l’anno successivo dovendo essere invece richiesto con domanda di rimborso, ha osservato che il Comune non ha affatto contrastato le risultanze dell’anagrafe tributaria circa l’omissione della dichiarazione IVA e si è limitato a sostenere la legittimità del credito d’imposta invocando documentazione in suo possesso ma nei fatti mai prodotta in giudizio. Ha, pertanto, concluso per la correttezza dell’iscrizio- GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 ne a ruolo effettuata dal Fisco avvalendosi dei poteri riconosciutigli dall’art. 54-bis, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. 3. Ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi e memorie, l’ente locale; l’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso mentre l’intimata Equitalia non ha spiegato alcuna attività difensiva. La causa, rimessa all’udienza pubblica a seguito di ordinanza emessa della Sottosezione tributaria della sesta Sezione civile all’esito dell’adunanza camerale del 16 aprile 2014, è pervenuta dinanzi alle Sezioni Unite a seguito di ordinanza interlocutoria della quinta Sezione civile n. 22902/2014. L’ente locale si difende con ulteriore memoria. Considerato in diritto (Omissis) Con il quarto e ultimo motivo di ricorso, denunciando vizi motivazionali e plurime violazioni di norme di diritto (artt. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), la parte ricorrente formula due censure. In primo luogo, si duole del fatto che il giudice d’appello ha motivato la propria decisione sul rilievo che 5 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite la somma oggetto della cartella corrispondeva a un credito d’imposta irritualmente portato in detrazione, senza però enucleare gli elementi di fatto da cui aveva tratto detto convincimento. In secondo luogo si duole del fatto che il giudice d’appello, sul rilievo che la somma oggetto della cartella corrispondeva a un credito d’imposta irritualmente portato in detrazione, abbia trascurato che quello compiuto dal Fisco non era stato quel mero controllo cartolare, unico ad essere consentito dall’art. 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, a pena d’illegittimità della procedura adottata. 4.1. Il primo profilo di censura è manifestamente infondato atteso che la Commissione tributaria regionale ha opportunamente considerato che era pacifico nel dibattito processuale che il fondamento dell’iscrizione a ruolo era dato dall’asserita irritualità della detrazione del credito d’imposta a causa della mancanza della dichiarazione per l’anno di precedente maturazione. 4.2. Il secondo profilo è, invece, meritevole di approfondimento ed è oggetto dell’ordinanza interlocutoria n. 22902/2014. Sul punto osserva la quinta Sezione che nella giurisprudenza tributaria della Corte di cassazione si rinvengono due diversi indirizzi interpretativi. Il primo orientamento - riferibile in via esemplificativa alle decisioni del 22 aprile 2009, n. 9564, e del 4 maggio 2010, n. 10674, sui limiti operativi dell’art. 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 - ritiene che “allorquando il credito portato in detrazione non risulti dalla dichiarazione annuale, sia perché diverso sia, più radicalmente, perché la stessa non è stata presentata, è pienamente legittimo il ricorso alla procedura de qua” (cfr. implicitamente anche Cass., 16 ottobre 2012, n. 17754). Il secondo orientamento - riferibile, sullo stesso tema, alla decisione del 3 aprile 2012, n. 5318, nonché a quella del 15 febbraio 2013, n. 3755 (con rinvii a: Corte cost., 7 aprile 1988, n. 430; Cass., 27 maggio 2011, n. 11712; Cass., 21 aprile 2011, n. 9224; Cass., 23 luglio 2010, n. 27396; Cass., 8 maggio 2007, n. 13591) - ritiene che “la negazione della detrazione nell’anno in verifica di un credito dell’anno precedente, per il quale la dichiarazione è stata omessa, non può essere ricondotta al mero controllo cartolare, in quanto implica verifiche e valutazioni giuridiche, dovendo ritenersi che il disconoscimento dei crediti e l’iscrizione della conseguente maggiore imposta dovevano, pertanto, avvenire previa emissione di motivato avviso di rettifica”. 5. Questo secondo indirizzo, nel delineare il perimetro da assegnare al procedimento di controllo automatizzato nonché ai poteri conferiti al Fisco in seno ed in esito a questo, rileva che l’iscrizione a ruolo è consentita soltanto allorquando sia rilevato un errore materiale o di calcolo manifestamente evidente, ovvero risultino vizi di forma nella compilazione della dichiarazione o, ancora, emergano indicazioni oggettivamente contraddittorie, qualora, peraltro, tali vizi ed irregolarità siano intrinseci alla dichiarazione del contribuente. 5.1. Per l’orientamento in esame non può l’Amministrazione procedere all’iscrizione desumendo aliunde i parametri della verifica, né può pervenire alla correzione dei vizi o delle irregolarità riscontrate sulla base di una diversa valutazione qualitativa o quantitativa del presupposto di imposta. 5.2. La mancanza della dichiarazione annuale concernente l’esercizio in cui il credito d’imposta si assume maturato non consentirebbe di svolgere quel mero riscontro cartolare che la legge richiede. Di qui la necessità di procedere ad autonomo accertamento, presidiato dalle ordinarie garanzie difensive; non sarebbe prospettabile, in questo caso, una mera attività esecutiva con la quale l’Ufficio finanziario si limiti a dare attuazione alla dichiarazione sottoscritta dal contribuente, come espressamente stabilito dalla legge allorquando dispone che “i dati contabili risultanti dalla liquidazione prevista dal presente articolo si considerano, a tutti gli effetti come dichiarati dal contribuente e dal sostituto di imposta”. 6. Riguardo al contrapposto e condivisibile primo indirizzo, favorevole alla posizione del Fisco, si osserva che - sulla base dei dati indicati nella dichiarazione ovvero in possesso dell’anagrafe tributaria - l’art. 54bis, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, riconosce in capo all’Amministrazione finanziaria il potere di: a) correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dal dichiarante riguardo alla determinazione del volume d’affari e alla liquidazione dell’imposta; b) correggere gli errori materiali riscontrati nel riporto delle eccedenze d’imposta derivanti da precedenti dichiarazioni; c) controllare la tempestività dei versamenti dell’imposta (acconto, conguaglio, liquidazione periodica) e la loro coerenza con le risultanze della dichiarazione annuale. Si tratta, dunque, di controllo formale che avviene attraverso quelle procedure automatizzate che non comportano alcuna verifica della posizione sostanziale della parte contribuente. Perciò si è detto in dottrina che il controllo formale attraverso procedure “automatizzate” attiene a questioni liquidative del- 6 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite l’imposta sulla scorta di quanto dichiarato dal contribuente, di talché il controllo resta appunto “formale”, non contrapponendosi una diversa ricostruzione sostanziale dei dati da parte dell’Amministrazione finanziaria. Nella giurisprudenza di legittimità si è pure detto che, nel momento in cui il Fisco procede a una vera e propria interpretazione e valutazione dei dati indicati in dichiarazione, non si può più parlare di controllo automatizzato della dichiarazione, bensì di autentico accertamento (Cass., 6 agosto 2008, n. 21176; Cass., 26 gennaio 2007, n. 1721; Cass., 16 settembre 2005, n. 18415; Cass., 17 marzo 2000, n. 3119); sicché, in questi casi, la relativa pretesa dell’Amministrazione finanziaria dovrebbe essere fatta valere con l’emanazione di avviso, quale atto impositivo, e non con la diretta iscrizione a ruolo seguita da cartella di pagamento. 6.1. In proposito, la Relazione accompagnatoria al D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, che ha definito il perimetro degli omologhi controlli automatizzati disciplinati dagli artt. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, chiarisce che si tratta di una procedura che “tende a rimuovere gli errori e le inesattezze risultanti in modo obiettivo dalla dichiarazione e che non comportano giudizi di valutazione ed estimazione delle componenti positive e negative del reddito”. Orbene entrambe le disposizioni introdotte dal D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, stabiliscono che, “avvalendosi di procedure automatizzate”, l’Amministrazione provvede “sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni fiscali presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria”. Il senso di una normativa di tal genere non può che essere quello di un controllo fatto grazie all’utilizzo di quei mezzi informatici che consentono di correlare i dati esposti nelle dichiarazioni e le informazioni sul contribuente reperibili nell’anagrafe tributaria (regolata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 605 e dal D.P.R. 2 novembre 1976, n. 784). Si tratta di un sistema informativo nel quale sono immagazzinate principalmente quelle notizie essenziali risultanti dalle dichiarazioni fiscali. Nella mancata presentazione di una dichiarazione annuale IVA può ben ravvisarsi una di quelle notizie che rilevano come mero dato storico dal quale derivano conseguenze giuridiche. Sicché non vi sarebbe ragione di non consentire la lavorazione con procedura automatizzata di un dato omissivo, dovendo l’Amministrazione provvedere, appunto, “sulla base dei dati e degli elementi diretta- mente desumibili dalle dichiarazioni fiscali presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria”. 6.2. È vero che la Corte costituzionale, nell’ordinanza del 7 aprile 1988, n. 430, afferma che la liquidazione ex art. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è operata sulla base delle dichiarazioni presentate mediante un mero riscontro cartolare, nei casi eccezionali e tassativamente indicati dalla legge, vertenti su errori materiali e di calcolo immediatamente rilevabili, senza la necessità quindi di alcuna istruttoria; ma all’epoca di tale pronuncia il testo vigente dell’art. 36-bis non faceva cenno al potere per l’Amministrazione di provvedere con procedura automatizzata “sulla base dei dati ... in possesso dell’anagrafe tributaria”. 6.3. Nel caso specifico il controllo automatizzato del dato della detrazione per pregresso credito d’imposta inserito nella dichiarazione annuale IVA non può che essere fatto in correlazione con il dato presente nell’anagrafe tributaria sulla presentazione o meno della dichiarazione annuale IVA nell’anno di maturazione del ridetto credito d’imposta ed è uno dei casi più tipici e semplici di controllo meramente formale, atteso che esso non tocca la posizione sostanziale della parte contribuente ed è scevro da profili valutativi e/o estimativi e da atti d’indagine diversi da quel mero raffronto tra la dichiarazione fiscale e l’anagrafe tributaria esplicitamente consentito dall’art. 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (conf. Cass., SS.UU., ud. 21 giugno 2016, Fall. LTS). 6.4. Né rileva che ciò comporta l’applicazione di norme giuridiche, quali quelle derivanti dal combinato disposto degli artt. 30 e 55 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Il tema dell’applicazione diretta e immediata di norme giuridiche in sede di controllo automatizzato è stato approfondito dalla Corte di cassazione in materia di oneri, affermandosi - ad esempio - che il recupero degli oneri non contemplati dall’art. 10 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è consentito quando sia desumibile ictu oculi, dal controllo formale della dichiarazione e dell’allegata documentazione, che il titolo è diverso da quello previsto dalla lettera della legge, e non anche quando tale indeducibilità sia ricavabile dall’interpretazione di detta documentazione o della norma giuridica (Cass., 15 giugno 2007, n. 14019; conf. Cass., 8 luglio 1996, n. 6193; Cass., 29 febbraio 2008, n. 5460). Dunque, se manca una diversa valutazione nell’an o nel quantum del presupposto impositivo ovvero una diversa valutazione della esistenza di crediti o oneri, l’Amministrazione può liquidare quanto rilevato nel controllo formale ed ef- GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 7 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite fettuare l’iscrizione a ruolo e la notifica della cartella, senza necessariamente dover emettere un previo avviso di accertamento in rettifica (Cass., 21 aprile 2011, n. 9224). 6.5. Da qui deriva, in materia di IVA (artt. 30 e 55 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), la correttezza della tesi giurisprudenziale secondo cui “allorquando il credito portato in detrazione non risulti dalla dichiarazione annuale, sia perché diverso sia, più radicalmente, perché la stessa non è stata presentata, è pienamente legittimo il ricorso alla procedura de qua” (così Cass., 2 aprile 2009, n. 9564). Si tratta, seguendo la logica dell’indirizzo in esame, di mera attività esecutiva con la quale l’Ufficio finanziario si limita a dare attuazione al precetto legale rispetto ai dati di dichiarazione, come chiaramente evidenziato dall’art. 54-bis, comma 4, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui “i dati contabili risultanti dalla liquidazione prevista dal presente articolo si considerano, a tutti gli effetti come dichiarati dal contribuente”. Quest’ultimo, sulla base del principio dell’onere e della prossimità della prova, potrebbe poi esercitare il proprio diritto di difesa, documentando in giudizio l’avvenuta presentazione della dichiarazione annuale ritenuta omessa dal Fisco sulla scorta dell’anagrafe tributaria. 6.6. Il procedimento di controllo automatizzato dei dati è eseguito senza alcun intervento diretto degli Uffici e in forza dell’art. 54-bis può essere attivato nei casi di mancata considerazione dei pagamenti effettuati, errata o incompleta trasmissione e\o ricezione dei dati della dichiarazione, errori di compilazione della dichiarazione da parte del contribuente sanabili e facilmente riconoscibili, errata individuazione del contribuente, incoerenza della dichiarazione, eccedenze di imposta non completamente confermate dal sistema informativo (circolare n. 100/E e n. 143/E/2000; circolare n. 34/E/2012 e n. 21/E/2013). La procedura si conclude con un atto liquidatorio ai fini dell’iscrizione a ruolo a titolo definitivo ai sensi del comma 3 dell’art. 54-bis e del comma 6 dell’art. 60. 6.7. Si tratta, con altre parole, d’intervenire su errori e/o omissioni del contribuente, con la procedura automatizzata prevista dall’art. 54-bis che comporta di per sé stessa lo “scarto” e la “ripresa” delle posizioni fiscali formalmente irregolari alla luce delle risultanze dell’anagrafe tributaria (Cass., SS.UU., ud. 21 giugno 2016, Fall. LTS). Tale procedura può ben costituire innesco iniziale dell’azione del Fisco, restando in disparte il rilievo che il diritto di detrazione non può essere negato nel giudizio d’impugnazione della cartella emessa dal Fisco a seguito di controllo forma- 8 le automatizzato, laddove, pur non avendo il contribuente presentato la dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, sia dimostrato in concreto - ovvero non controverso - che si tratti di acquisti fatti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati a IVA e finalizzati a operazioni imponibili e di deduzione eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto (conf. Cass., SS.UU., ud. 21 giugno 2016, Fall. LTS). Ciò tuttavia non rileva nella specie, non essendo tale diversa questione oggetto specifico di alcun motivo di ricorso (rispetto al negativo accertamento di fatto compiuto dal giudice d’appello). 6.8. In conclusione, nel rigettare anche la seconda censura del quarto motivo di ricorso, deve essere enunciato il seguente principio di diritto: “In fattispecie di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è consentita l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e la consequenziale emissione di cartella di pagamento, ben potendo il Fisco operare, con procedure automatizzate, un controllo formale che non tocchi la posizione sostanziale della parte contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi e da atti d’indagine diversi da mero raffronto con dati ed elementi in possesso dell’anagrafe tributaria, ai sensi degli artt. 54-bis e 60 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (fatta salva, nel successivo giudizio d’impugnazione della cartella, l’eventuale dimostrazione a cura del contribuente che la deduzione d’imposta, eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, riguardi acquisti fatti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati a IVA e finalizzati a operazioni imponibili)”. 7. La complessità e l’incertezza delle questioni giuridiche che hanno richiesto l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite costituiscono giustificati motivi per la compensazione delle spese del giudizio di legittimità tra le parti costituite. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti costituite le spese del giudizio di legittimità. Il testo integrale della sentenza può essere richiesto a [email protected] www.edicolaprofessionale.com/gt GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite Disconoscimento formale del credito IVA in caso di omessa dichiarazione relativa all’anno d’imposta precedente di Alberto Comelli (*) La sentenza resa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 17758/2016 afferma la legittimità dell’iscrizione a ruolo e della consequenziale notifica della cartella di pagamento, ai fini dell’IVA, per effetto del controllo formale automatizzato ed in assenza dell’emissione di un avviso di accertamento, in corrispondenza del credito derivante dall’esercizio del diritto di detrazione, sorto con riferimento all’anno d’imposta precedente, per il quale la dichiarazione annuale sia stata omessa. Tuttavia, l’arresto non sembra prendere in considerazione, e, dunque, inspiegabilmente svaluta, la comunicazione al contribuente dell’esito della liquidazione dell’imposta, al fine di consentire a quest’ultimo di fornire i chiarimenti necessari all’Ufficio tributario, prima dell’iscrizione a ruolo, entro i trenta giorni successivi al ricevimento della stessa comunicazione. Procedendo con ordine, l’arresto in esame scaturisce da una vicenda che trae origine dall’impugnazione di una cartella di pagamento, confezionata a seguito di un controllo automatizzato della dichiarazione annuale ai fini dell’IVA, per l’anno d’imposta 2004, nei confronti di un Comune che aveva riportato un credito d’imposta dall’annualità precedente, per la quale, tuttavia, risultava omessa la relativa dichiarazione, sulla base dei dati forniti dall’anagrafe tributaria. Secondo quanto si può desumere dalla sintetica descrizione in punto di fatto, contenuta nel- l’arresto in esame, la Commissione tributaria provinciale di Vibo Valentia accoglieva il ricorso, in quanto l’iscrizione a ruolo e la confezione della relativa cartella di pagamento si collocavano al di fuori del perimetro individuato dall’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972 (1). Questa disposizione, infatti, precisamente individua(va) le ipotesi in relazione alle quali può essere espletato il controllo automatizzato, circoscritto “ai soli casi di errori materiali o di calcolo ovvero alle ipotesi di omessi o intempestivi versamenti emergenti dalla stessa dichiarazione fiscale del contribuente”. Nell’appello, l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate sosteneva che, in presenza di un’omessa dichiarazione annuale, il credito d’imposta non può essere portato in detrazione nell’anno successivo, ma può essere esclusivamente richiesto mediante la presentazione di un’istanza di rimborso ed impugnava la sentenza di prime cure nella parte in cui negava la legittimità dell’espletamento della procedura automatizzata in assenza, nella specie (secondo il giudice di primo grado), di un errore materiale o di calcolo. La Commissione tributaria regionale Calabria accoglieva l’appello e sottolineava, per quanto qui interessa, “che un credito d’imposta non esposto nella dichiarazione annuale IVA non poteva essere portato in detrazione nella dichiarazione per l’anno successivo dovendo es- (*) Professore di Diritto tributario presso l’Università di Parma - Avvocato cassazionista con studio in Roma (1) L’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972 è stato introdotto dall’art. 14, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 241/1997. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 9 La sentenza in esame risolve una questione particolarmente delicata e controversa nella stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, laddove si contrapponevano, negli indirizzi interpretativi della quinta Sezione civile, due orientamenti diametralmente opposti, pur in presenza degli stessi profili fattuali. La sentenza in esame, pertanto, è non poco importante, sia in apicibus, sia sul piano concreto e operativo, in quanto consente di sciogliere positivamente alcuni nodi, sotto il profilo interpretativo, pur con le opportune considerazioni critiche proposte all’attenzione del lettore in questa breve nota. I fatti di causa Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite sere invece richiesto con domanda di rimborso”. Aggiungeva, inoltre, che il Comune non aveva contestato l’omissione della presentazione della dichiarazione annuale ai fini dell’IVA e si era limitato a sostenere la legittimità del credito d’imposta, pur senza produrre in giudizio la documentazione in suo possesso che potesse giustificare tale assunto. Il giudice del gravame, pertanto, concludeva nel senso che l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate aveva operato correttamente iscrivendo a ruolo l’importo corrispondente al credito d’imposta derivante dall’anno precedente, in applicazione dei poteri previsti dall’art. 54-bis, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972. L’ente locale proponeva ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, al quale replicava l’Agenzia delle entrate mediante un controricorso, mentre Equitalia, pur intimata, non si costituiva in giudizio. La Corte giudica tali censure infondate e rigetta il ricorso, compensando interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Mentre il primo profilo del quarto motivo è giudicato manifestamente infondato, il secondo profilo dello stesso motivo è quello ritenuto meritevole di approfondimento, in seguito all’ordinanza interlocutoria della quinta Sezione civile n. 22902/2014 (2), preceduta dalla pubblica udienza per effetto dell’ordinanza emessa dalla Sottosezione tributaria della sesta Sezione civile, all’esito dell’adunanza camerale. Passando ai motivi dell’arresto, per quanto qui interessa, la Corte scolpisce alcune argomentazioni, solo parzialmente condivisibili. In primis, essa “osserva che la detrazione dell’imposta pagata per l’acquisizione di beni o servizi inerenti all’esercizio dell’impresa è subordinata, in caso di contestazione da parte dell’Ufficio, alla rela- tiva prova, che dev’essere fornita dal contribuente mediante la produzione delle fatture e del registro in cui vanno annotate e delle dichiarazioni periodiche in base ai criteri generali di riparto dell’onere della prova previsti dall’art. 2697 c.c. ed alle specifiche disposizioni del Decreto IVA e della Sesta Direttiva, che regolano la materia della deducibilità dell’imposta assolta”. Questa statuizione si colloca nel solco interpretativo tracciato dalla sentenza delle medesime Sezioni Unite depositata lo stesso giorno rispetto a quella che qui si commenta, n. 17757/2016 ed avente lo stesso Presidente (Dott. Rordorf) e lo stesso giudice relatore (Dott. Cirillo) (3). Passando all’altra tematica, con questa strettamente connessa, la Corte esamina sinteticamente i due diversi orientamenti, emersi nella giurisprudenza della quinta Sezione civile, che hanno pienamente giustificato il giudizio delle Sezioni Unite, suscettibile di uniformare, in via interpretativa, i futuri arresti in parte qua dei giudici di merito e della stessa quinta Sezione civile. Alla stregua del primo orientamento, in caso di omissione della presentazione della dichiarazione annuale, il credito derivante dalla detrazione dell’IVA, sorto in tale annualità e riportato nella dichiarazione annuale relativa all’anno successivo, consente l’espletamento della procedura di cui all’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972, che prevede il controllo automatizzato (4). Secondo un diverso orientamento, invece, il disconoscimento della detrazione dell’imposta, collegato esclusivamente all’omessa presentazione della dichiarazione annuale (per l’annualità precedente), non può ricondursi ad un mero controllo cartolare, laddove presuppone verifiche e valutazioni giuridiche che postulano la necessaria adozione e notificazione di un avviso di rettifica (5). In virtù di quest’ultimo indirizzo, l’iscrizione a ruolo sarebbe con- (2) In Corr. Trib., n. 4/2015, pag. 285 ss., con commento di M. Basilavecchia, “Conseguenze dell’omissione della dichiarazione IVA sul riporto del credito alle annualità successive”, il quale esprime un giudizio positivo sulla rimessione alle Sezioni Unite della questione, che richiede, secondo l’Autore, un intervento nomofilattico ai massimi livelli. (3) La sentenza è pubblicata in Corr. Trib., n. 41/2016, pag. 3133 ss., con nota di P. Centore, “La dichiarazione IVA con efficacia formale e sostanziale”, il quale commenta (a titolo di confronto e di completamento) anche l’arresto della CGE, 28 luglio 2016, nella causa C-332/15. (4) Inter alia, Cass., 22 aprile 2009, n. 9564; Id., 4 maggio 2010, n. 10674; Id., 16 ottobre 2012, n. 17754. (5) In tal senso, tra le tante, cfr. Cass., 3 aprile 2012, n. 10 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Il contenuto della sentenza del Giudice di legittimità Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite sentita esclusivamente in presenza di un errore materiale o di calcolo manifestamente evidente, oppure qualora risultino vizi di forma nella compilazione della dichiarazione, ovvero quest’ultima faccia emergere indicazioni oggettivamente contraddittorie, sempre che questi “vizi ed irregolarità siano intrinseci alla dichiarazione del contribuente”. Sarebbe da escludere l’iscrizione a ruolo, in virtù del controllo automatizzato, qualora si realizzi la correzione dei vizi o delle irregolarità riscontrate mediante una diversa valutazione qualitativa o quantitativa del presupposto dell’imposta. In questa prospettiva, l’omissione della dichiarazione annuale non consentirebbe di espletare il mero riscontro cartolare che la legge richiede, dovendosi in tale ipotesi confezionare un autonomo atto impositivo, non surrogabile dalla (iscrizione a ruolo e dalla) cartella di pagamento (6). L’arresto che qui si commenta aderisce al primo indirizzo, favorevole ad un orientamento interpretativo del più volte citato art. 54-bis, suscettibile di comprendere nel suo alveo anche il controllo automatizzato nella prospettata fattispecie, senza che sia indispensabile l’emissione e la notificazione di un avviso di rettifica. La giustificazione di questa scelta (favorevole all’Agenzia delle entrate), da parte della Corte di cassazione, scaturisce da un’interpretazione letterale dell’art. 54-bis, comma 2, dalla quale emerge che il controllo formale “avviene attraverso quelle procedure automatizzate che non comportano alcuna verifica della posizione sostanziale della parte contribuente”. In altre parole, “sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria” (7), si tratta di una liquidazione collegata direttamente ed esclusivamente a quanto dichiarato dal contribuente, senza contrapporre una diversa ricostruzione di tipo sostanziale, da parte dell’Ufficio tributario. Se si realizza questa verifica della posizione sostanziale del contribuente, mediante una diversa interpretazione e/o valutazione dei dati dichiarati, l’attività amministrativa espletata si colloca al di fuori del perimetro del controllo automatizzato e postula l’emissione e la notificazione di un avviso di rettifica. In tale fattispecie, sarebbe del tutto illegittima l’iscrizione a ruolo e la notifica della correlativa cartella di pagamento e, in caso di (rituale) impugnazione, quest’ultima dovrebbe essere interamente annullata dal giudice tributario. In altre parole, l’iter logico-giuridico della sentenza in esame ruota intorno al concetto di controllo automatizzato del soggetto sottoposto alla liquidazione dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione, che non modifica in alcun modo la posizione sostanziale dello stesso. Sono assenti, nel caso di specie, profili di valutazione e/o di estimazione, in relazione ad un raffronto tra le risultanze della dichiarazione annuale ai fini dell’IVA e gli elementi risultanti dall’anagrafe tributaria, che trova il suo fondamento giuridico nell’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972. L’irregolarità riscontrata in sede di controllo formale, pertanto, deve poter emergere ictu oculi, a prescindere sia dall’interpretazione della documentazione, ovvero della norma giuridica applicata nel caso concreto, sia da un diverso apprezzamento del presupposto impositivo (nell’an o nel quantum), o dell’esistenza di crediti (od oneri). E la conclusione del “procedimento di controllo automatizzato”, secondo tale approccio, non potrebbe essere altro che l’emissione di “un atto liquidatorio ai fini dell’iscrizione a ruolo a titolo definitivo ai sensi del terzo comma dell’art. 54-bis e del sesto comma dell’art. 60” del D.P.R. n. 633/1972. Aggiunge l’arresto in esame che il contribuente, “sulla base del principio dell’onere della prova e della prossimità della prova, potrebbe poi esercitare il proprio diritto di difesa, documentando in giudizio l’avvenuta presentazione della dichiarazione annuale ritenuta omessa 5318; Id., 31 maggio 2016, n. 11292. (6) In senso conforme, cfr. Comm. trib. reg. Puglia, Sez. staccata di Lecce, 13 febbraio 2014, n. 359. (7) Così dispone l’art. 54-bis, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 11 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite dal Fisco sulla scorta dell’anagrafe tributaria”. Nuovamente con una proiezione nella dimensione processuale (8), la sentenza afferma (9) che (in tale sede) non può essere negato il diritto di detrazione, pur in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo in cui è sorto, qualora il contribuente dimostri (ovvero sia non contestato) “che si tratti di acquisti fatti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati a IVA e finalizzati a operazioni imponibili e di deduzione eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto”. In questa prospettiva ricostruttiva, le Sezioni Unite giungono ad affermare la piena legittimità dell’applicazione del disposto del più volte citato art. 54-bis, in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale ai fini dell’IVA e di riporto del credito d’imposta sorto in tale annualità nella dichiarazione presentata per l’anno successivo. In altre parole, è consentita in tale fattispecie l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e l’emissione e la notificazione della relativa cartella di pagamento, trattandosi di un controllo formale da espletare mediante una procedura meramente automatizzata, suscettibile di prescindere da profili di tipo valutativo e/o estimativo e dalla posizione sostanziale del contribuente. Apprezzamenti valutativi Se questa è la conclusione alla quale è pervenuta la sentenza che qui si commenta, occorre formulare alcune considerazioni in parte adesive ed in parte (non poco) critiche. La disciplina che ne occupa prevede la legittimità dell’iscrizione a ruolo, senza previa notifica di un avviso di rettifica, dell’imposta (o della maggiore imposta) che scaturisce da talune irregolarità, tassativamente predeterminate dall’art. 54-bis e non estensibili in via interpretativa, (8) Vale a dire, nel giudizio di impugnazione della cartella di pagamento confezionata in seguito al controllo formale automatizzato, di cui all’art. 54-bis. (9) Ancora nel solco tracciato dalla sentenza resa dalle Sezioni unite n. 1775/2016, cit. (10) Cfr. A. Comelli, Poteri e atti nell’imposizione tributaria, 12 direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate, ovvero da altri elementi in possesso dell’anagrafe tributaria (10). Si tratta di un controllo generalizzato e relativamente tempestivo (11) che viene espletato senza alcun pregiudizio rispetto all’ordinaria azione accertatrice, la quale può essere esercitata entro il termine stabilito, a pena di decadenza, ai fini della notificazione dell’atto impositivo (rectius: impoesattivo). La liquidazione dell’imposta dovuta in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti postula che gli Uffici tributari procedano, con l’ausilio di procedure automatizzate, ad una rettifica non poco limitata, quanto al suo grado di intensità ed in relazione esclusivamente ai dati ed agli elementi direttamente desumibili alla stregua delle stesse dichiarazioni, ovvero dei dati e degli elementi in possesso dell’anagrafe tributaria. In virtù dell’art. 54-bis, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972, agli Uffici dell’Agenzia delle entrate è consentito quanto segue: a) correggere gli errori materiali o di calcolo commessi nella determinazione del volume d’affari e delle imposte o nel riporto delle eccedenze di imposta risultanti dalle precedenti dichiarazioni; b) controllare la rispondenza con la dichiarazione e la tempestività dei versamenti dell’imposta risultante dalla dichiarazione annuale, a titolo di acconto e di conguaglio. I dati contabili che scaturiscono da queste operazioni di liquidazione “si considerano, a tutti gli effetti, come dichiarati dal contribuente”, ai sensi dell’art. 54-bis, ultimo comma. Alla luce della ricostruzione dell’istituto così operata, è condivisibile la conclusione alla quale è pervenuta la sentenza in rassegna, sotto il profilo della non necessaria emissione di un avviso impoesattivo di rettifica, nell’ipotesi ivi esaminata. Tuttavia, lo stesso arresto inspiegabilmente lascia sullo sfondo, anzi sembra totalmente ignorare, il disposto del comma 3 dell’art. 54-bis, Padova, 2012, pag. 390 ss. e, in particolare, 391 e 392. (11) La liquidazione dell’imposta dev’essere espletata dall’Ufficio tributario “entro l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo”, ai sensi dell’art. 54-bis, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite laddove al soggetto sottoposto alla liquidazione dell’imposta dev’essere comunicato l’esito di questa, se diverso da quello evidenziato nella dichiarazione presentata, nella prospettiva di “evitare la reiterazione di errori e per consentire la regolarizzazione degli aspetti formali”. Il contribuente, entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, può fornire all’Ufficio dell’Agenzia delle entrate “i chiarimenti necessari”, nell’ottica di consentire a quest’ultimo di considerare “eventuali dati o elementi” non valutati o erroneamente valutati. Solamente in assenza (in tutto o in parte) di persuasivi “chiarimenti” e/o di “dati o elementi” in precedenza non considerati, oppure erroneamente valutati, l’Ufficio procede all’iscrizione a ruolo a titolo definitivo, sempre che il soggetto sottoposto alla liquidazione dell’imposta, prima della formazione del ruolo, non versi la somma risultante dalla comunicazione, eventualmente ridotta per effetto dei chiarimenti, dei dati e/o degli elementi forniti all’Ufficio stesso. Peraltro, l’invio della comunicazione al contribuente non è meramente facoltativo e la sua omissione realizza un vizio che inficia l’intera procedura liquidativa ed è suscettibile di rendere illegittima sia l’iscrizione a ruolo, sia la relativa cartella di pagamento, ancorché ritualmente notificata e succintamente motivata. Alla medesima conclusione, peraltro, si giunge qualora si consideri il disposto dell’art. 6, comma 5, dello Statuto del contribuente, secondo il quale “prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’Amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della ri- chiesta” (12). E aggiunge l’ultimo periodo del comma stesso che “sono nulli i provvedimenti emessi in violazione delle disposizioni del presente comma” (13). (12) La sussistenza (o meno) del credito d’imposta derivante dall’esercizio del diritto di detrazione dell’IVA, nell’anno in cui la dichiarazione annuale è stata omessa e riportato nell’anno successivo, costituisce certamente un aspetto rilevante della dichiarazione sottoposta a controllo formale, ai sensi dell’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972. (13) È esclusa l’applicazione dell’art. 6, comma 5, dello Sta- tuto “nell’ipotesi di iscrizione a ruolo di tributi per i quali il contribuente non è tenuto ad effettuare il versamento diretto”, ai sensi del penultimo periodo del medesimo comma 5. (14) Cfr. S. Zagà, “Le discipline del contraddittorio nei procedimenti di ‘controllo cartolare’ delle dichiarazioni”, in Dir. prat. trib., 2015, I, pag. 845 ss. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Profili critici Queste osservazioni consentono di mettere in evidenza che l’impostazione dell’arresto in rassegna è corretta sotto il profilo della non obbligatoria emissione, nel caso di specie, dell’atto impoesattivo di rettifica, ma incontra un preciso limite laddove omette totalmente di considerare la necessaria interlocuzione tra l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate ed il contribuente qualora emerga, in esito al controllo formale, “un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione”. In altre parole, l’arresto in esame presuppone che il processo di impugnazione della cartella di pagamento sia l’unica sede nella quale il contribuente possa dimostrare, “sulla base del principio dell’onere della prova e della prossimità alla prova”, l’avvenuta presentazione della dichiarazione (asseritamente omessa), ovvero che l’esercizio del diritto di detrazione dell’imposta è stato correttamente esercitato. Più esattamente, tale diritto dev’essere espletato entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto e deve riflettere, inoltre, il triplice requisito secondo cui (a) si deve trattare di acquisti espletati da un soggetto passivo d’imposta, (b) che siano assoggettati ad IVA e (c) siano finalizzati all’effettuazione di operazioni imponibili. Questo riscontro, tuttavia, dovrebbe essere effettuato (almeno in prima battuta) in sede amministrativa, per effetto dell’invio della comunicazione al contribuente, in presenza di “un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione”, in virtù dell’art. 54-bis, comma 3 (14). 13 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite La motivazione della sentenza in rassegna, pertanto, incontra un preciso limite laddove svaluta questa interlocuzione. Essa, al contrario, dovrebbe essere uno strumento efficace, in un’ottica amministrativa, al fine di chiarire la sussistenza degli elementi che, in concreto, dovrebbero consentire al contribuente che non abbia presentato la dichiarazione annuale relativa all’anno precedente, di riportare il credito d’imposta nell’anno immediatamente successivo, in presenza dei tre requisiti sostanziali che legittimano il soggetto passivo ad esercitare il diritto di detrazione dell’imposta. Questo vaglio in sede amministrativa dovrebbe rappresentare un efficace filtro preprocessuale rispetto a liti che ben potrebbero essere evitate, a condizione che esso si svolga concretamente in modo imparziale e senza pregiudizi. Se il processo che scaturisce dall’impugnazione dell’iscrizione a ruolo e della relativa cartella di pagamento, derivante dal controllo formale automatizzato, fosse considerato solamente come una mera “valvola di sfogo” di una interlo- 14 cuzione tra l’Ufficio accertatore ed il contribuente che non si è celebrata, ovvero si è svolta in modo formalistico (e, in fondo, apparente), “scaricando” sul giudice il riscontro in contraddittorio tra le parti che dovrebbe svolgersi più correttamente in sede amministrativa, si tratterebbe di un abuso della strumentazione processuale. In tale ipotesi, dovrebbe essere sanzionata la parte pubblica, con la condanna alla rifusione delle spese del giudizio da parte del giudice, sempre che il contribuente abbia già fornito all’Amministrazione finanziaria, in sede di risposta tempestiva alla comunicazione dell’esito del controllo automatizzato, tutti gli elementi suscettibili di dimostrare il corretto e tempestivo esercizio del diritto di detrazione dell’imposta ed abbia, successivamente, prodotto in giudizio nuovamente tutta la relativa documentazione, dalla quale si evinca chiaramente la sussistenza dei tre requisiti previsti per l’esercizio del diritto di detrazione, ut supra evidenziati. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite Consorzi Ribaltamento dei costi e ricavi tra consorzi e società consorziate Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016 (19 aprile 2016), n. 12191 - Pres. Rordorf - Rel. Iacobellis Consorzi - Prestazioni di servizi - Prestazioni rese da consorzio - Attività commerciale con scopo di lucro Ammissibilità - Differenza tra quanto fatturato dal consorzio al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato al consorzio - Problematica configurabilità quali ricavi non fatturati - Natura dei rapporti tra consorzio e consorziati tra di essi e nei confronti dei committenti - Rilevanza La causa consortile non è ostativa allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività commerciale con scopo di lucro. Costituisce questione di merito l’accertamento in ordine ai rapporti intercorsi tra la società consortile e la consorziata nell’assegnazione dei lavori o servizi ai singoli consorziati e nella esecuzione delle commesse, che debbano essere oggetto di valutazione caso per caso. Il testo integrale della sentenza può essere richiesto a [email protected] www.edicolaprofessionale.com/gt La finalità mutualistica dei consorzi non è incompatibile con il fine di lucro ma il trattamento fiscale dipende dalla situazione di fatto di Andrea Venegoni (*) È sempre più frequente la prassi per cui i consorzi o, meglio ancora, le società consortili, non trasferiscono più integralmente costi e ricavi delle commesse alle società consorziate (il c.d. ribaltamento), ma trattengono una quota di utili. Tale prassi, che a prima vista potrebbe apparire in contraddizione con la natura mutualistica dei consorzi, fa anche sorgere dubbi sul trattamento fiscale di tale operazione. Il Supremo Collegio esamina le relative questioni che vengono in rilievo in una serie di sentenze “gemelle” complesse, nn. 12190, 12191, 12192, 12193 e 12194 del 2016, altamente tecniche, nelle quali si affermano alcuni principi di diritto importanti, quale quello della piena compatibilità tra finalità mutualistica dei consorzi e scopo di lucro, evidenziando, nel contempo, la presa di coscienza delle modalità operative dei grandi consorzi di oggi, che spesso assumono ed eseguono lavori in proprio, senza il contributo delle imprese consorziate. La necessità del ribaltamento dei costi e ricavi dipende, allora, anche dalle specifiche modalità operative del caso concreto, che devono essere esaminate dal giudice di merito, ma, ai fini fiscali, non può prescindere dalla qualificazione del rapporto tra consorzio e consorziate. Solo se lo stesso si configura in termini di mandato senza rappresentanza, la normativa fiscale sembra necessariamente richiedere il ribaltamento, a meno che la differenza di importi fatturati non co(*) Magistrato dell’ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 15 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite stituisca la provvigione. Sorge, allora, un problema di onere della prova sulla qualificazione dell’importo non trasferito. Con una serie di recenti decisioni (1) le Sezioni Unite della Corte di cassazione si sono occupate di un problema dall’ampia portata pratica e dal rilevante significato giuridico in tema di rapporti tra consorzi, o meglio società consortili, e società consorziate, ed, in particolare, dei riflessi fiscali della questione. In estrema sintesi, il problema, derivante da una serie di accertamenti, è quello del c.d. ribaltamento dei costi e dei ricavi alle singole società consorziate. I casi in questione Nei casi in questione, tutti riconducibili allo stesso consorzio, l’Agenzia aveva accertato nei confronti delle singole consorziate maggiori operazioni imponibili ed omesso versamento IVA, in conseguenza dei rapporti tra le stesse ed il consorzio di cui facevano parte. Quest’ultimo, una società consortile per azioni, operava sulla base di un mandato senza rappresentanza, in virtù del quale (art. 1705 c.c.) agiva nell’interesse, e non nel nome, dei consorziati, acquisiva commesse da terzi, le quali venivano poi eseguite o dai singoli consorziati, o dal consorzio stesso (che aveva una sua autonoma struttura), o in alcuni casi con un sistema misto, cioè in parte dal consorzio e in parte dai consorziati. Secondo l’Agenzia il consorzio, pur potendo operare come società commerciale, non avrebbe dovuto avere scopo di lucro, in virtù della sua stessa natura mutualistica e sulla base del principio generale desumibile dall’art. 2602 c.c., per cui avrebbe dovuto “ribaltare” i componenti attivi e passivi delle operazioni sui singoli consorziati con obbligo a carico di ciascuna di esse di fatturazione dell’intero importo, naturalmente pro-quota. Invece, l’importo complessivo fatturato dalle consorziate al consorzio era inferiore a quello fatturato da quest’ultimo ai terzi committenti, cosicché la somma che il consorzio trasferiva al singolo consorziato, e che quest’ultimo fatturava al consorzio (sulla base di quanto riceveva effettivamente) non rappresentava l’intero ammontare della propria quota della commessa, ma una cifra inferiore, trattenendo il consorzio la differenza (e giustificando ciò prevalentemente a titolo di contributo delle consorziate ai costi generali di gestione del consorzio, ma senza che, in tal caso, vi fosse alcuna raffigurazione contabile di tale imputazione degli importi). Sulla base di questi riscontri a carico del consorzio, l’Amministrazione finanziaria procedeva conseguentemente all’accertamento anche nei confronti di queste ultime, non solo ai fini delle imposte dirette, ma anche dell’IVA. Sia la Commissione tributaria provinciale che la Commissione tributaria regionale ritenevano, però, legittima la modalità operativa sopra descritta. Per questo, l’Agenzia ricorreva in Cassazione. La questione veniva, poi, rimessa alle Sezioni Unite perché la Sezione tributaria osservava che, mentre esiste un filone giurisprudenziale secondo cui il consorzio deve sempre ribaltare tutti gli utili e i costi sulle consorziate (Cass., n. 13293/2011, n. 13294/2011, n. 13295/2011, n. 14780/2011, n. 20778/2013) in virtù della sua funzione mutualistica, dall’altro esiste un orientamento basato sull’autonoma soggettività giuridica e fiscale del consorzio rispetto alle imprese consorziate, per cui lo stesso può svolgere attività commerciale e conseguire utili. In tale visione, lo scopo di lucro è inteso come economicità della gestione dell’attività svolta dal consorzio, e non è in contraddizione con lo scopo di mutualità, ravvisabile in una migliore razionalizzazione dei costi generali di gestione che va a beneficio delle singole imprese consorziate (Cass., n. 24014/2013). (1) Cass., SS.UU., 19 aprile 2016, nn. 12190, 12191, 12192, 12193 e 12194. 16 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite Va detto subito che la conclusione delle SS.UU., in linea con quelli che sembrano essere gli orientamenti più recenti della dottrina che si è occupata specificamente di un argomento così settoriale, afferma l’importante principio di diritto per cui la causa mutualistica non osta allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività con scopo di lucro, ed appare poi tenere conto della modernità e complessità di oggi nei rapporti tra consorzi e società consorziate, tale per cui la disciplina fiscale non può prescindere da un’analisi di fatto di ciascuna situazione, e, proprio per questo, la sentenza rinvia nuovamente gli atti al giudice di merito per un esame della questione sotto tale punto di vista. Per arrivare a ciò, però, le sentenze danno conto di un percorso a tappe progressive che coinvolge necessariamente una serie di questioni non solo di diritto tributario. In particolare, le questioni riguardano: a) se un consorzio possa ritenersi dotato di propria soggettività ai fini prima civilistici e poi fiscali; b) se, ammesso ciò, la finalità mutualistica che lo caratterizza sia compatibile con lo svolgimento di attività aventi scopo di lucro; c) come si configuri, nella realtà odierna ed in termini giuridici, il rapporto tra consorzio e società consortili; d) quali siano le conseguenze dal punto di vista fiscale. consortile, figura prevista nel nostro ordinamento a partire dalla Legge 10 maggio 1976, n. 377 (3) che ha introdotto l’art. 2615-ter c.c. (4). La Corte di cassazione, in varie decisioni, ha più volte ha posto in luce l’autonomia della società consortile rispetto alle società consorziate, e la sua specificità anche rispetto ai consorzi non in forma societaria, autonomia che si riflette nell’enunciazione di alcuni principi in deroga a quelli generali e dalla quale si può trarre la conseguenza della soggettività non solo ai fini civilistici, ma anche fiscali. Nella sentenza n. 18113/2003 (5), in particolare, la Corte si è occupata per la prima volta del problema, ai fini esclusivamente civilistici, della responsabilità dei soci (che nella specie erano a loro volta delle società) verso terzi per obbligazioni assunte dalla società consortile, affermando che la forma societaria prevale sulle norme che disciplinano la responsabilità dei consorzi, ed in particolare l’art. 2615 c.c., secondo cui per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati rispondono questi ultimi solidalmente col fondo consortile. In sostanza, ha affermato la Suprema Corte, quando il consorzio ha forma di società di capitali, la responsabilità dei soci non è regolata dall’art. 2615 c.c., ma prevalgono le regole del tipo societario, per cui i soci non rispondono in proprio delle obbligazioni della società consortile di capitali. Soggettività dei consorzi Finalità mutualistica e scopo di lucro Sul primo punto, dopo alcuni dubbi, è certamente ormai acquisito il concetto secondo cui il consorzio abbia propria personalità civilistica, distinta rispetto alle società consorziate (2). I dubbi sulla soggettività civilistica e fiscale si sono, a maggior ragione, diradati dopo l’introduzione della possibilità per i consorzi di assumere forma societaria ed integrare una società Chiarito, dunque, che la società consortile, specie se di capitali, ha piena soggettività giuridica, si tratta di compiere un passo ulteriore nell’analisi. Si tratta, cioè, di valutare se una società consortile sia sempre caratterizzata da finalità mutualistica e se, allora, questa sia compatibile con lo scopo di lucro. Se così non fosse, infatti, i ricavi ed i costi dell’attività, (2) Per una panoramica anche storica sull’evoluzione della soggettività anche tributaria dei consorzi esterni si veda M. Interdonato, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, Milano, 2004, pag. 35 ss. (3) Che ha modificato anche altre disposizioni in materia di consorzi; in generale si veda A. Frignani, “Le nuove norme sui consorzi”, in Giur. Comm., 1976, pag. 587. (4) Art. 2615-ter c.c. 1. Le società previste nei capi III e seguenti del titolo V possono assumere come oggetto sociale gli scopi indicati nell’art. 2602 c.c. 2. In tal caso l’atto costitutivo può stabilire l’obbligo dei soci di versare contributi in denaro. (5) Sez. I, n. 18113/2003, RV 568493 e 568494. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 17 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite condotta con causa mutualistica, dovrebbero essere riferiti direttamente alle singole società consorziate. Ora, la dottrina commerciale maggioritaria ritiene che la causa consortile, intesa come finalità sociale ed economica del contratto di consorzio, abbia natura mutualistica (6). La mutualità consortile consisterebbe nello svolgimento o nella disciplina in comune di una o più fasi delle imprese consorziate allo scopo di conseguire direttamente nelle economie di queste ultime un vantaggio di natura economica il quale potrà normalmente tradursi in maggiori entrate o minori spese per le consorziate. In base a ciò, la società consortile dovrebbe essere caratterizzata dall’assenza di scopo di lucro. Spesso, gli stessi consorzi, anche in forma di società consortile, si definiscono nei propri statuti come enti che non perseguono scopo di lucro. Tuttavia, le analisi dottrinali specifiche sull’argomento evidenziano che le società consortili, proprio in quanto società anche di capitali, e quindi soggetti che svolgono attività commerciale e dotate di propria personalità giuridica, svolgono sempre più attività complesse, anche avvalendosi di una propria autonoma struttura, e non limitandosi ad operare tramite le consorziate. Non si limitano, così, ad aggiudicarsi appalti che poi distribuiscono per l’esecuzione alle imprese consorziate, ma, in alcuni casi, entrano in contatto con i terzi anche in proprio ed a tale titolo eseguono i lavori anche tramite proprio personale; in altri casi ancora ciò avviene anche congiuntamente alle società consorziate. In tale situazione, la dottrina ritiene che il profitto che deriva da tali attività possa costituire utile della società consortile (7). Questo pone però il problema della compatibilità con la finalità mutualistica. Secondo la stessa dottrina, in realtà proprio dalla legge può ricavarsi la non incompatibilità di scopo di lucro e finalità consortile; dal complesso delle disposizioni della Legge 21 maggio 1981, n. 240, ed in particolare dagli artt. 1 e 4, infatti, si deduce che la normativa concede agevolazioni alle società consortili i cui statuti escludano la distribuzione di utili, circostanza da cui dovrebbe dedursi, a contrario, la possibilità per le società consortili in generale di conseguire e distribuire utili (8). Scopo di lucro e finalità mutualistica nelle società consortili, in particolare di capitali, tendono quindi oggi a non essere più considerati incompatibili, in particolare nel momento in cui si fa riferimento al concetto di “lucro oggettivo” (cioè lo svolgimento di un’attività commerciale secondo criteri economici) anziché a quello di “lucro soggettivo” (cioè il conseguimento di un’utilità economica personale in capo ai singoli partecipanti alla persona giuridica) (9). Anche su questo argomento la giurisprudenza della Corte viene in soccorso. A proposito di società cooperative, per esempio, la Corte ha generalmente riconosciuto la possibilità di fallimento, proprio perché, nonostante la finalità mutualistica, le stesse possono svolgere attività commerciale, atteso che per la qualificazione di un’impresa come commerciale rileva il perseguimento del lucro oggettivo, cioè il rispetto dei criteri di economicità della gestione; la società cooperativa, quindi, può avere scopo di lucro, ed ugualmente la società consortile (10). Piuttosto si può porre un problema di proporzione tra le due finalità, nel senso che in una (6) Si veda M. Interdonato, Il regime fiscale dei consorzi, cit., pag. 172, A. Borgioli, “Consorzi e società consortili”, in Cicu Messineo (diretto da), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1985, pag. 95 ss., G. Volpe Putzolu, “I consorzi per il coordinamento della produzione e dello scambio”, in Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico economico, Padova, 1981, G. Minervini, “La nuova disciplina dei consorzi”, in Giur. Comm., 1982, I, pag. 873. (7) Si veda al riguardo A. Propersi - G. Rossi, “I consorzi”, in I manuali di Guida al Diritto, Gruppo 24 Ore, 21 a edizione, 2010, pag. 55, nonché G. Cottino, Diritto commerciale, Vol. I, tomo 2, CEDAM, 1987, pag. 63. (8) A. Propersi - G. Rossi, cit.; A. Borgioli, Consorzi e società consortili, Milano, 1985, pag. 137; R. Rordorf, “Finalità consortili e società di capitali”, in Impresa, n. 3/1983, pag. 1202, inve- ce, la interpreta come norma che conferma la deroga nelle società consortili ai principi generali in materia societaria. (9) Si veda A. Giovannini, “Impresa commerciale e lucro nelle imposte dirette e nell’IVA”, in Riv. dir. trib., n. 5/2012, pag. 467. (10) Sez. I, n. 6835 del 24 marzo 2014. Si vedano anche Sez. I, n. 9513 dell’8 settembre 1999, Sez. V, n. 13423 del 9 ottobre 2000, Sez. V, n. 5839 del 16 maggio 1992, e Sez. V, n. 13854/2004, secondo cui a proposito dell’attività di un consorzio “È appena il caso di sottolineare che, ai fini della commercialità dell’attività, è sufficiente che questa sia svolta secondo intenti di economicità, cioè che sia diretta all’equilibrio gestionale (a nulla rilevando che non si persegua un profitto o comunque un fine di lucro, in sé non essenziali per l’esercizio di un’attività commerciale)”. 18 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite società consortile lo scopo di lucro non dovrebbe essere prevalente, ma strumentale rispetto a quello mutualistico (11), sebbene poi nella pratica possa non essere sempre semplice stabilire quando una finalità prevalga sull’altra; la questione, peraltro, non è irrilevante perché se, infatti, lo scopo di lucro fosse prevalente su quello mutualistico, non si dovrebbe più parlare di società consortile, ma di società lucrativa ordinaria che persegue, in via secondaria, anche uno scopo mutualistico, con tutte le conseguenze, per esempio, in termini di norme applicabili alla struttura, organizzazione e gestione della società. Va anche aggiunto che, naturalmente, la questione della compatibilità della forma di società consortile con lo scopo di lucro va considerata in concreto, analizzando il merito dell’attività posta in essere dalla stessa società, dovendosi valutare il tipo di operazioni che la stessa realizza. In conclusione, scopo di lucro e finalità mutualistica non sono tra loro incompatibili. Qualificazione del rapporto tra consorzio e consorziate Posto, quindi, che i consorzi e soprattutto le società consortili sono dotati di una propria soggettività anche tributaria, che possono svolgere attività commerciale e che scopo mutualistico e fine di lucro non sono necessariamente in conflitto e possono coesistere soprattutto in relazione a determinate modalità operative del consorzio, si tratta di vedere se ulteriori elementi per l’analisi della questione del ribaltamento dei costi e ricavi possano dedursi dalla tipologia di rapporto che si instaura tra società consorziate e società consortile, quando la stessa svolge attività esterna ed assume lavori da terzi. In passato si è spesso fatto ricorso ad istituti di diritto privato per inquadrare tale rapporto, quali il mandato, la commissione o l’agenzia, il subappalto. (11) M. Spolidoro, Le società consortili, Milano, 1984, pag. 130. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 La differenza tra gli importi delle fatturazioni, infatti, in via teorica, si potrebbe giustificare anche in quanto provvigione nell’ambito di un rapporto di mandato, oppure semplicemente inquadrando il rapporto tra consorzio e consorziate come subappalto, per cui la differenza rappresenterebbe un ricarico applicato dal subappaltante (il consorzio) nell’affidamento dei lavori ai subappaltatori (le società). Se il consorzio operasse quale mandatario con rappresentanza (art. 1704 c.c.), non solo per conto, ma anche in nome delle società consorziate, in capo alle quali si verificheranno gli effetti del negozio, le imputazioni civilistiche e fiscali dovrebbero fare capo direttamente alle imprese consorziate. Il ribaltamento integrale dei costi e ricavi è quindi, in tal caso, quasi una naturale conseguenza dello schema giuridico posto in essere. Tuttavia, il rapporto tra società consorziate e consorzio è per lo più inquadrato in termini di mandato senza rappresentanza, di cui all’art. 1705 c.c., in quanto caratterizzato dalla assunzione diretta da parte del mandatario (la società consortile) del vincolo negoziale nei confronti dei terzi, con esclusione di un rapporto diretto tra terzi e mandanti (le società consorziate). Tale qualificazione, invece, sulla sola base dei principi civilistici, non è risolutiva per stabilire se essa comporti necessariamente il ribaltamento dei costi e ricavi tra il consorzio e le consorziate. In merito, poi, all’inquadramento del rapporto tra consorzio e consorziate come subappalto, va osservato che quando il consorzio trasferisce l’onere della esecuzione delle commesse sulle consorziate, assume le stesse già per conto di queste ultime, mentre non sembra potersi sostenere che in un rapporto di appalto e subappalto l’appaltatore operi per conto delle subappaltatrici. Del resto la giurisprudenza amministrativa in materia di opere pubbliche ha espressamente statuito che “gli affidamenti da parte del consorzio ai consorziati non costituiscono in nessun caso subappalto” (12), mentre (12) Cons. Stato, Sez. VI, n. 8720 del 24 dicembre 2009. 19 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite non è escluso che il consorzio possa procedere a subappalti a terzi diversi dai consorziati. Anche un dato normativo soccorre a sostenere la tesi della non inquadrabilità del rapporto nella figura del subappalto, in quanto l’art. 141 del D.P.R. n. 554/1999, in materia di esecuzione di opere pubbliche, afferma espressamente che “l’affidamento dei lavori da parte dei soggetti di cui all’art. 10, comma 1, lett. b) e c) ai propri consorziati non costituisce subappalto”, e i soggetti cui fa riferimento la norma richiamata sono esattamente i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro, i consorzi tra imprese artigiane, i consorzi stabili costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell’art. 2615-ter c.c. La qualificazione giuridica più frequente, anche se non esclusiva, del rapporto tra consorzio e consorziate è, quindi, quello del mandato senza rappresentanza. A questo proposito, un ulteriore elemento di riflessione sulla questione deve essere introdotto. Occorre, infatti, verificare la disciplina fiscale del mandato senza rappresentanza, poiché le norme fiscali su questo tipo di negozio determinano degli interrogativi sulla possibilità di non ribaltare integralmente i ricavi. In particolare, si opporrebbero al mancato ribaltamento, in qualità di mandatario senza rappresentanza, proprio le norme fiscali sull’IVA, ed in particolare l’art. 3, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972 (13) e l’art. 6, paragrafo 4, della VI Direttiva IVA del Consiglio dell’Unione 77/388 che, in sostanza, prevedono la stessa base imponibile per la tassazione sia della prestazioni tra mandatario e terzo che di quella tra mandatario e mandante (14). Ai fini IVA, cioè, nel mandato senza rappresentanza una differenza patrimoniale tra le due prestazioni non sarebbe ammissibile, a meno che non si tratti esplicitamente della provvigione del mandatario (art. 13, comma 2, D.P.R. n. 633/1972), ma in tal caso la circostanza dovrebbe essere manifestamente dichiarata sin dall’inizio e trovare riscontro nelle scritture contabili (15). Peraltro, al di là dell’aspetto della provvigione, invece, anche all’analisi del problema specifico della giustificazione di una differenza di importi fatturati tra consorzio e consorziate nell’ambito del mandato non è estranea la modalità operativa del consorzio, perché la dottrina che si è occupata specificamente dell’argomento (16) ha evidenziato che la teoria che sostiene che tra consorzio e consorziate deve sempre realizzarsi l’integrale ribaltamento dei costi e profitti non tiene conto della diversità di fattispecie con cui può operare il consorzio ed impone il ribaltamento formale ed integrale anche per quelle situazioni, verificatesi anche nel consorzio, in cui lo stesso opera in proprio, con propria organizzazione di mezzi e personale. Anche in tal caso, quindi, la questione va analizzata alla luce dell’attività concreta posta in essere dal consorzio ed in particolare tenendo ben distinte situazioni tra loro diverse. (13) La disciplina sull’IVA prevede all’art. 3, comma 3, del D.P.R. 633/1972, che “le prestazioni di servizi rese o ricevute dal mandatario senza rappresentanza sono considerate prestazioni di servizi anche nei rapporti tra il mandante ed il mandatario”. Ai fini IVA, con una fictio iuris, l’operazione viene duplicata e considerata come se fossero due distinte operazioni: una tra il mandatario e il terzo, l’altra tra il committente ed il mandatario. L’art. 13, comma 2, lett. b), del D.P.R. n. 633/1972, prevede che nelle operazioni tra il mandante ed il mandatario la base imponibile venga quantificata nel prezzo pattuito dal mandatario con il terzo, aumentato o diminuito dell’eventuale provvigione spettante al mandatario, e l’art. 3, comma 4, lett. h), del D.P.R. n. 633/1972, esclude che le prestazioni dei mandatari di cui all’art. 13 possano considerarsi prestazioni di servizi. Per L. Castaldi, “Le operazioni imponibili”, in Tesauro (diretta da), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario - L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, pag. 63, tale configurazione metterebbe in rilievo l’esatto inquadramento giuridico dei rapporti tra mandante-mandatario e mandata- rio-terzo sotto il versante sostanziale, al contempo escludendo l’autonoma rilevanza impositiva alle prestazioni di servizio rese dal mandatario. Per un commento all’art. 13, D.P.R. 633/1972 si vedano G. Zizzo, “Art. 13 (Commento)”, in Centore (a cura di), Codice IVA nazionale ed internazionale, 2010, pag. 447; G. Stancati, “Art. 13 (Commento)”, in Falsitta - Fantozzi - Marongiu - Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie - IVA e imposte sui trasferimenti, 2011, IV, pag. 173; G. Mandò - D. Mandò, Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, 2010, pag. 326-327. (14) Si veda Sez. V, n. 27321/2014, RV 634120, che richiama anche CGE, 14 luglio 2011, in causa C-464/10, risoluzione Ministero delle Finanze 27 settembre 1999, n. 146. (15) Nel senso che la provvigione debba essere esclusa dalla base imponibile IVA si veda risoluzione Agenzia delle entrate, Dir. Centrale Normativa e Contenzioso, 30 luglio 2002, n. 250. (16) M. Interdonato, Il ribaltamento obbligatorio di costi e ricavi, pag. 523 ss. 20 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Aspetti fiscali del mandato senza rappresentanza Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite Quando i lavori sono svolti integralmente dalle consorziate che ne sostengono anche i costi, mentre il consorzio svolge solo opera di coordinamento, lo schema del mandato è compatibile con tale situazione, ed in effetti la normativa IVA, scindendo il rapporto in due prestazioni (tra mandante e mandatario e mandatario e terzo) ed affermando che la base imponibile per entrambe le prestazioni è data dal prezzo della prestazione pattuito tra mandatario e terzo, richiede che tra le stesse vi sia equivalenza, restando a carico del consorzio solo i costi non imputabili a commessa, da coprire con il sistema dei contributi dei consorziati. In tale situazione, le singole imprese fattureranno al consorzio, ciascuna per la propria parte, il corrispettivo di quanto eseguito fino a raggiungere il prezzo finale del contratto tra consorzio e committente, ed il consorzio addebiterà proquota i costi per l’attività di coordinamento e fatturerà al terzo committente l’importo dell’appalto. Anche nel caso in cui il consorzio ponga in essere solo una parte del processo produttivo, è ancora ravvisabile la compatibilità con lo schema del mandato senza rappresentanza. Ma sempre più frequentemente si verificano anche casi in cui alcune commesse sono assunte dal consorzio in proprio, senza alcun legame con l’attività consortile, e le prestazioni sono eseguite interamente dal consorzio con propri mezzi e una propria struttura, senza intervento delle società consorziate. In tal caso, diventa difficile inquadrare i rapporti tra società consorziate e società consortile nei termini del mandato e questo, secondo gli studiosi, dovrebbe condurre a rivalutare la necessità del ribaltamento integrale. Oltretutto, osserva la dottrina (17), anche il dato letterale della legge non sembra richiedere necessariamente tale modalità, poiché gli artt. 2602 ss. c.c. non imporrebbero necessariamente il ribaltamento tecnico integrale di costi e ricavi, potendo l’assunzione di rischi da parte delle consorziate, nei casi in cui il consorzio svolge l’intera attività, avvenire anche con compensazioni, purché il risultato economico emerga nelle economie delle consorziate e si azzeri o riduca nella stessa misura in capo al consorzio. Tale affermazione non è in contrasto col principio, più volte richiamato dalla Cassazione nelle sentenze in cui ha sancito l’obbligo di ribaltamento, secondo cui la società consortile per sua natura e funzione, oltre che per scopo, non ha un proprio interesse economico né produce un reddito proprio. Resta, infatti, incontestabile che l’attività principale del consorzio (denominata così anche l’ipotesi di società consortile) non può che essere mutualistica, escludendo con ciò il perseguimento di un interesse economico/lucrativo in via principale. Tuttavia, per la dottrina, tale interesse può essere perseguito in via marginale e secondaria. In questi casi, in cui lo scopo mutualistico è fortemente attenuato se non assente, la dottrina sostiene che il ribaltamento formale ed integrale dei costi e ricavi sarebbe veramente poco giustificato e oltretutto la sua assenza non genera di per se’ sola un salto di imposta (18). Certo, altra dottrina ha messo in luce che, in relazione all’ipotesi di appalto eseguito interamente dal consorzio, si potrebbero sollevare dubbi sulla reale attività mutualistica del consorzio, ed anche ipotizzare “una sorta di abuso” (19) dell’utilizzo di tale strumento. In tali casi, infatti, il consorzio non svolgerebbe un servizio per conto delle consorziate, ma porrebbe in essere un’attività completa, della quale sostiene costi e spese, e ciò determinerebbe l’imputazione in capo solo al consorzio anziché alle consorziate del risultato economico di quella specifica attività svolta, concetto che però, secondo tale dottrina, non appare in linea con il principio di cui all’art. 2615 c.c. secondo cui il rischio di impresa deve comunque gravare anche sulle società consorziate. Inoltre, sempre la dottrina, ha messo in luce come non esista una norma che imponga ai consorzi di chiudere in pareggio i loro bilanci, ma il pareg- (17) M. Interdonato, Il ribaltamento obbligatorio, cit., pag. 532. (18) M. Interdonato, Il ribaltamento obbligatorio, cit., pag. 533. (19) P. Ladisa, Il regime tributario, cit., pag. 566. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 21 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite gio di bilancio è la conclusione logica che deriva dallo scopo mutualistico e dal fatto che il consorzio opera per conto dei consorziati. Un eventuale utile maturato in capo al consorzio andrebbe a scapito delle consorziate e, per tale dottrina, non sarebbe confacente con la finalità mutualistica del consorzio (20). Peraltro, si è già evidenziato in precedenza come anche la giurisprudenza della Corte abbia ritenuto il principio di responsabilità solidale dei soci, di cui all’art. 2615 c.c., non applicabile interamente alle società consortili, per cui tale norma non deve necessariamente essere presa come riferimento per sostenere che, poiché la responsabilità grava sui soci, ad essi devono anche essere imputati integralmente costi e ricavi del consorzio, potendo i primi essere coperti anche da utilità prodotte autonomamente dal consorzio in maniera marginale. Per l’attività marginale che il consorzio svolge in proprio, svicolata dalla finalità mutualistica, quindi, secondo la dottrina non può neppure più parlarsi di uno svolgimento di mandato e, conseguentemente, neppure di provvigione (21). Nel caso di attività svolte marginalmente o occasionalmente dal consorzio in autonomia, senza l’impiego delle consorziate, pertanto, ci si troverebbe al di fuori dell’ambito di operatività degli art. 3 e 13 del D.P.R. n. 633/1972, venendo il servizio reso autonomamente dal consorzio (22). Questo dovrebbe comportare il superamento del principio dell’equivalenza tra la prestazione tra mandante e mandatario e quella tra mandatario e terzo, e quindi le norme sul mandato non costituirebbero più un ostacolo all’esistenza di una differenza negli importi fatturati, semplicemente perché per tale parte di attività non si è in presenza di un rapporto di mandato (23). Peraltro, tutto ciò potrebbe spiegare la differenza di importi fatturati sul complesso delle operazioni poste in essere nel corso di una annualità, ma non sulla singola commessa assunta per conto delle consorziate. Per queste, allora, la differenza potrebbe essere ammessa, nell’ambito del mandato, unicamente a titolo di provvigione, quando ne ricorrano i presupposti e a condizione che la stessa sia espressamente evidenziata (24). In realtà, però, la dottrina che ha analizzato specificamente la questione tende sempre più a porre in luce la complessità del rapporto suddetto e la difficile inquadrabilità del rapporto tra società consorziate e consorzio nel mandato, ritenendo che il rapporto debba essere inquadrato autonomamente nella figura che è stata definita (25) “vincolo consortile”, analogo a quello societario; va notato al riguardo che esistono precedenti giurisprudenziali secondo cui mentre l’associazione temporanea di imprese si caratterizza per il rapporto di mandato, la società consortile si caratterizza per l’applicazione delle norme codicistiche consortili e societarie che rafforzano ancora di più il rapporto associativo che il consorzio di per sé comporta, cosicché l’adozione all’interno del fenomeno consortile del modello organizzativo societario comporta necessariamente una scelta sul piano strutturale tra gli istituti di riferimento che sono il contratto di mandato e quello di società, le cui discipline non sono promiscuamente applicabili. Conseguentemente, se anche al consorzio nella sua forma più semplice è possibile applicare il modello giuridico del mandato, al pari dell’associazione temporanea di imprese, nel momento in cui contratta con i terzi quel modello si appalesa impraticabile a fronte della formula societaria prescelta, che con il mandato non ha alcuna affinità (26). (20) P. Ladisa, Il regime tributario, cit., pag. 567. (21) Si veda risoluzione Ministero delle Finanze 30 aprile 1998, n. 31. (22) Peraltro Sez. V, n. 26480 del 17 dicembre 2014, ha ritenuto necessario il ribaltamento integrale anche rispetto a società del consorzio che nell’anno in questione non avevano partecipato all’esecuzione di lavori, e quindi per profitti e costi per lavori estranei alla società consorziata. (23) Si veda anche S. Cerato - G. Popolizio, “La disciplina IVA del mandato senza rappresentanza”, in il fisco, n. 43/2007, pag. 6237. (24) G. Cascardo, “Il ribaltamento di costi e ricavi tra consorzio e consorziate”, in Cooperative e consorzi, n. 12/2011, pag. 13. (25) M. Interdonato, Il regime fiscale dei consorzi, cit., pag. 197. (26) Sez. I, n. 77/2001. 22 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Sezioni Unite Considerazioni conclusive In conclusione, in linea con quanto, in sintesi, affermano le stesse Sezioni Unite, le varie modalità operative del consorzio dovrebbero essere tenute distinte. Per le operazioni che il consorzio effettua in autonomia, per le quali la dottrina ipotizza che il ribaltamento non sia necessario, si deve ritenere che ci si trovi al di fuori di operazioni attinenti al rapporto consorzio\società consorziata. Per i casi in cui invece il consorzio opera per conto delle consorziate, e secondo lo schema più comune del mandato senza rappresentanza, al di là del principio della equivalenza delle prestazioni di cui all’art. 3, D.P.R. n. 633/1972, occorre anche tenere presenti le regole complessive sulla liquidazione e assolvimento dell’imposta per valutare se il meccanismo di mancato ribaltamento non produca qualche risultato diverso da quello che si otterrebbe, invece, con il meccanismo di ribaltamento integrale; si pensi, per esempio, alle regole sulla detraibilità dell’imposta, sulle quali possono esistere delle differenze soggettive tra mandante e mandatario, oppure oggettive. Come è stato messo in luce dalla dottrina, infatti, è ben possibile che il mancato ribaltamento permetta di conseguire un risparmio fiscale indebito (27). Si porta ad esempio il caso in cui il mancato ribaltamento di costi generali coperti attraverso il parziale ribaltamento di (27) M. Interdonato, Il ribaltamento obbligatorio di costi e ricavi, cit., pag. 541. (28) G. Rebecca - E. Zanetti, “Mandato senza rappresentanza: aspetti contabili e fiscali”, in Lex24, n. 10, settembre 2003, pag. 962, circolare Agenzia delle entrate, 18 giugno 2001, n. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 corrispettivi nell’ambito dell’attività mutualistica comporti che il consorzio, anziché le consorziate, detragga l’IVA sugli acquisti afferenti tale attività. Se le consorziate fossero soggette a limiti al diritto alla detrazione, il mancato ribaltamento potrebbe, in assenza di ragioni economiche, costituire un aggiramento degli obblighi di fatturazione e delle norme sul diritto alla detrazione con vantaggio in termini di riduzione del carico tributario. Questo aspetto è stato sviluppato nelle analisi anche con specifico riferimento al rapporto di mandato (28), ritenendosi che le regole sulla indetraibilità oggettiva dell’IVA sugli acquisti, nei casi di cui all’art. 19-bis1 del D.P.R. n. 633/1972, all’interno del rapporto di mandato senza rappresentanza non si applichino al mandatario, per cui sull’acquisto di un bene, mentre il mandatario potrebbe portare in detrazione tutta l’IVA, lo stesso potrebbe non avvenire per il mandante (la società consorziata). Con il meccanismo in questione quindi, si è visto come la dottrina ipotizzi che sulla base del complesso delle regole per la liquidazione dell’imposta vi possono essere situazioni potenziali in cui l’applicazione del meccanismo posto in essere nella specie potrebbe portare a risultati diversi da quelli che si produrrebbero col meccanismo del ribaltamento integrale. Questi elementi dovranno ora essere rivalutati dal giudice del merito sulla base della situazione concreta dei casi oggetto di analisi. 58 (risposta 5.2); risoluzione Agenzia delle entrate, 4 giugno 2002, n. 168; risoluzione Agenzia delle entrate, 28 gennaio 2005, n. 10, in materia di indetraibilità dell’IVA sull’acquisto dei servizi di telefonia mobile. 23 Sinergie Grafiche srl Rassegna Sezioni Unite Rassegna di Cesare Glendi PROCESSO TRIBUTARIO Richiamando i propri precedenti sul punto (Cass., SS.UU., n. 14506, retro, n. 10/2013, pag. 761; Id., n. 15593/2014, retro, n. 2/2015, pag. 109; Id., n. 23835/2015, retro, n. 2/2016, pag. 127), le Sezioni Unite hanno ritenuto sussistere la giurisdizione dell’a.g.o. a fronte di una domanda di risarcimento danni proposta da un contribuente nei confronti di Equitalia per illegittima iscrizione d’ipoteca a suo carico, basata, da una parte, sull’avvenuta estinzione della pretesa impositiva (a seguito, in varia guisa, di già effettuati pagamenti, intervenuto condono, e giudicato tributario anteriormente formatosi) e sull’insussistenza, dall’altra parte, dei presupposti cautelari e sulla “sproporzione della misura cautelare adottata”, anche “in relazione al suo stato patrimoniale e reddituale”, fondando la decisione, sia sull’essere stata la controversia proposta anteriormente “alla riforma introdotta dall’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, che ha ampliato la categoria degli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni tributarie, ad esse devolvendo espressamente anche le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento d’iscrizione di ipoteca sugli immobili, al quale l’Amministrazione finanziaria può ricorrere in sede di riscossione delle imposte sui redditi, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77”, e sia perché, in generale, “qualora la domanda di risarcimento dei danni sia basata su comportamenti illeciti tenuti dall’Amministrazione finanziaria dello Stato o di altri enti impositori, la controversia, avendo ad oggetto una posizione sostanziale di diritto soggettivo del tutto indipendente dal rapporto tributario, è devoluta alla cognizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria, non potendo sussumersi in una delle fattispecie tipizzate che, ai sensi del D.Lgs. n. 546/1992, art. 2, rientrano nella giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie; infatti, anche nel campo tributario, l’attività della P.A. deve svolgersi nei limiti posti, non solo dalla legge, ma anche dalla norma primaria del neminem laedere, per cui è consentito al giudice ordinario - al quale è pur sempre vietato stabilire se il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato - accertare se vi sia stato, da parte dell’Amministrazione, un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo”, così come specificamente statuito dalle stesse Sezioni Unite con la pronuncia n. 15/2007, espressamente ricordata anche nei precedenti ultimamente citati, con l’ulteriore precisazione che, nel caso “invalido è il rigetto della domanda fondato sulla reputata carenza di giurisdizione del giudice ordinario, per essere l’oggetto immediato di quella una pretesa risarcitoria e degradando la pretesa tributaria a mero presupposto della prima, resa oggetto di una questione incidentale di natura pregiudiziale, sulla quale pienamente sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in ragione dell’oggetto della domanda principale e del tempo in cui essa è stata proposta (anteriore alla novella del 2006, dopo la quale, invece, ogni controversia è devoluta al giudice tributario)”. 24 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 GIURISDIZIONE Cass., SS.UU., Sent. 31 maggio 2016 (3 maggio 2016), n. 11379 - Pres. Rordorf - Rel. De Stefano Domanda risarcitoria per illecita iscrizione d’ipoteca - Fattispecie anteriore all’entrata in vigore del D.L. n. 223/2006 - Giurisdizione del giudice ordinario Sussistenza In tema di riscossione tributaria, la domanda risarcitoria proposta verso il concessionario per illecita iscrizione d’ipoteca esattoriale in fattispecie anteriore all’entrata in vigore dell’art. 35, comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006, non può essere respinta dal giudice ordinario a ragione della devoluzione al giudice tributario della pretesa a cautela della quale l’ipoteca è stata iscritta, poiché tale pretesa è solo il presupposto di legittimità della condotta dell’agente della riscossione e riguarda una questione pregiudiziale conoscibile dal giudice ordinario, cui è devoluta la domanda principale risarcitoria. NOTA Sinergie Grafiche srl Rassegna Sezioni Unite IMPUGNAZIONI Cass., SS.UU., Sent. 31 maggio 2016 (24 maggio 2016), n. 11383 - Pres. Canzio - Rel. Giusti Procedimento di cassazione - Comunicazione da parte del cancelliere dei documenti tramite deposito in cancelleria - Trasmissione via pec e fax non andata a buon fine - Necessità Nel procedimento di cassazione, ai sensi degli artt. 136 e 366 c.p.c., in virtù di un’interpretazione orientata all’effettività del diritto di difesa e alla ragionevole durata del processo, il cancelliere può eseguire la comunicazione dei provvedimenti tramite deposito in cancelleria (sempre che il difensore non abbia eletto domicilio in Roma) solo se non è andata a buon fine la trasmissione a mezzo posta elettronica certificata, né quella via fax. Le SS.UU., dopo aver esposto le contrastanti prese di posizione assunte in precedenti pronunce da parte delle Sezioni semplici, hanno ritenuto affetta da nullità la prima comunicazione (mediante deposito in cancelleria), giudicando quindi tempestivamente effettuata la rinnovazione della notifica del ricorso entro il termine prestabilito a decorrere dalla seconda comunicazione (via telefax), sulla base di una compiuta esegesi dei dati normativi vigenti, che, alla stregua degli artt. 366 e 136 c.p.c. nonché dei principi costituzionali, vólti a soddisfare, non solo esigenze di semplificazione e di risparmio per l’Ufficio, ma anche impellenti necessità di migliori garanzie d’informazione per le parti, impongono di “ricorrere, prima alla posta elettronica certificata, poi al telefax, e, infine, alla rimessione del biglietto all’Ufficiale giudiziario per la notifica, la quale avverrà, ove il ricorrente o il controricorrente non abbia eletto domicilio in Roma, con il deposito presso la cancelleria”. GIURISDIZIONE NOTA Benché non riguardi specificamente la materia tributaria, questa pronuncia merita di essere segnalata per aver fornito un importante chiarimento nomofilattico in tema di comunicazioni di atti da parte della Cancelleria della Corte di cassazione, in generale, e quindi anche per gli atti che attengono ai giudizi di legittimità su sentenze tributarie, alla stregua della normativa vigente ratione temporis (prima, cioè, della disciplina introdotta con l’art. 16 del D.L. n. 179/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 221/2012, in vigore dal 15 febbraio 2016, che, tanto per le notificazioni, quanto per le comunicazioni, ha decretato l’obbligatorietà della trasmissione via pec, prevedendo solo per i casi d’impossibilità di siffatto strumento, l’impiego degli artt. 136, 3° comma, e 137 ss. c.p.c., a seconda che l’impossibile accesso alla posta elettronica sia dovuto a cause imputabili o non imputabili al destinatario). La questione, oggetto di contrastanti decisioni a livello di Sezioni semplici, riguardava specificamente l’inammissibilità o meno della rinnovazione della notifica del ricorso, effettuata nel termine fissato con ordinanza interlocutoria, a seconda che detto termine dovesse ritenersi decorrere dalla comunicazione dell’ordinanza mediante deposito presso la Cancelleria della Suprema Corte (secondo quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 366 e 136 c.p.c.) ovvero dalla sua comunicazione successivamente effettuata a mezzo telefax da parte della stessa cancelleria. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Cass., SS.UU., Ord. 8 giugno 2016 (24 maggio 2016), n. 11709 - Pres. Canzio - Rel. Petitti Opposizione avverso ordinanza-ingiunzione dell’Agenzia delle entrate a carico di privato conferente incarico non autorizzato a dipendente pubblico Giurisdizione del giudice ordinario - Sussistenza L’opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione emessa dall’Agenzia delle entrate a carico del privato che abbia conferito un incarico retribuito a un dipendente pubblico, in violazione dell’art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella del giudice tributario, poiché la sanzione, anche se irrogata da un Ufficio finanziario, inerisce al rapporto di pubblico impiego e non ad un rapporto tributario. NOTA A seguito di ordinanza-ingiunzione emessa per sanzioni conseguenti all’accertato conferimento di incarico retribuito a pubblico dipendente senza la previa autorizzazione prescritta dall’art. 53, comma 9, del D.Lgs. n. 156/2001, nel testo vigente ratione temporis, il destinatario ricorreva al giudice di pace, che si riteneva giurisdizionalmente incompetente. La Commissione tributaria, presso la quale la causa veniva tempestivamente riassunta, ritenendosi a sua volta non munita di giurisdizione, ex art. 59 del D.Lgs. n. 69/2009, denunziava il conflitto negativo di giurisdizione, che le SS.UU., con l’ordinanza annotata, han- 25 Sinergie Grafiche srl Rassegna Sezioni Unite Il collegamento con la materia tributaria è meramente occasionale. Ma le importanti enunciazioni fatte circa la natura del giudizio di rinvio dopo la pronuncia della Suprema Corte di cassazione, anche per quanto attiene alla disciplina intertemporale, debbono tenersi in conto pure per il processo tributario. Il caso di specie riguardava l’opposizione ad un atto di precetto per il recupero dell’IVA, oltre che di altri accessori, dovuti a seguito di sentenza di condanna con liquidazione delle relative spese giudiziali. Avverso la decisione dell’adito giudice di pace era stato proposto ricorso per cassazione, a cui aveva fatto poi seguito il giudizio di rinvio davanti ad altro giudice di pace, nel corso del quale era intervenuto (in data 4 luglio 2009, ex artt. 49, comma 2 e 58, comma 2, della legge n. 69/2009) un nuovo regime d’impugnazione (appello), rispetto a quello (cassazione) precedentemente in vigore dal 1° marzo 2006 (ex lege n. 52/2006), per le sentenze in primo grado relative a siffatte opposizioni. Contro la sentenza emessa dal giudice di rinvio, la parte soccombente aveva proposto ulteriore ricorso per cassazione, ma l’altra parte, controricorrente, aveva eccepito l’inammissibilità dell’impugnazione (assumendo che, in base alla normativa sopravvenuta, avrebbe dovuto essere, invece, proposto appello). Rimessa la questione alle SS.UU., queste ultime, con ampia ed articolata motivazione, hanno tuttavia ritenuto perfettamente ammissibile il ricorso per cassazione. A questa conclusione la Corte è pervenuta addentrandosi in un un’approfondita disamina del giudizio di rinvio, nelle sue diverse specie, di rinvio restitutorio (ex art. 383, comma 3, c.p.c.) o prosecutorio (ex art. 384, 2° comma, c.p.c.), affermando che, in quest’ultimo tipo di giudizio di rinvio (denominato anche rinvio “proprio”), la fase del processo non può essere equiparata a quella svoltasi in primo grado, stante l’inframmettenza del principio di diritto emesso dalla Suprema Corte, che instaura “una sorta di dialogo esclusivo” tra la stessa Suprema Corte e il giudice del rinvio, così che detta fase non è configurabile “come un grado del giudizio”, tanto meno come un nuovo primo grado, costituendo, per l’appunto, solo “una fase (rescissoria) del giudizio di cassazione”, così da rendere inapplicabile, nel caso, l’intervenuta modificazione normativa circa il regime d’impugnazione (appello anziché ricorso per cassazione) delle sentenze pronunciate nei giudizi di opposizione all’esecuzione a precetto, rendendo così necessitato e pienamente giustificato il solo rimedio esperibile mediante accesso per cassazione avverso la sentenza del giudice di rinvio. 26 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 no de plano risolto, assegnando la causa al giudice ordinario, in sintonia con quanto statuito con l’ivi richiamata ordinanza n. 3039/2013, retro, n. 7/2013, pag. 570, e con la parimenti richiamata ordinanza n. 14302/2013, retro, n. 10/2013, pag. 760, sulla base di quanto statuito dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 130/2008, che ha dichiarato illegittimo l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, così come sostituito dall’art. 12, comma 2, della legge n. 448/2001, nella parte in cui aveva attribuito alla giurisdizione tributaria le controversie relative a tutte le sanzioni irrogate da Uffici finanziari, quand’anche quando correlate alla violazione di disposizioni non aventi natura fiscale, facendo a tal fine specificamente rilevare che, nel caso, se pur dal citato art. 53, nei commi successivi al comma 9, “si evince che la disciplina in questione è finalizzata anche al controllo dei compensi percepiti dai pubblici dipendenti ai fini dell’assoggettamento degli stessi a imposizione, ciò non di meno la previsione dell’obbligo dell’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza per il conferimento di un incarico retribuito ad un pubblico dipendente inerisce strettamente allo svolgimento del rapporto di pubblico impiego e non è certamente riconducibile ad un rapporto tributario”. IMPUGNAZIONI Cass., SS.UU., Sent. 9 giugno 2016 (5 aprile 2016), n. 11844 - Pres. Rordorf - Rel. Ambrosio Cassazione con rinvio al giudice di primo ed unico grado - Giudizio “prosecutorio” - Sentenza - Ricorribilità per cassazione - Necessità - Modifica, nelle more, del regime di impugnazione della decisione cassata - Irrilevanza Nell’ipotesi di cassazione con rinvio innanzi al giudice di primo ed unico grado, la sentenza del giudice di rinvio (salvo il caso di rinvio cd. restitutorio) è impugnabile in via ordinaria solo con ricorso per cassazione, senza che rilevi l’intervenuta modifica, sopravvenuta nelle more, del regime di impugnabilità della decisione cassata, atteso che il giudizio di rinvio conseguente a cassazione, pur dotato di autonomia, non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario. NOTA Sinergie Grafiche srl Rassegna Sezioni Unite IMPUGNAZIONI Quanto deciso in questa importante, e ben motivata, decisione vale tal quale anche per il processo tributario, pur essendo stato enunciato nell’ambito di una causa civile davanti al giudice ordinario. L’istituto della consunzione (o consumazione) del potere d’impugnazione, espresso dall’art. 358 c.p.c., al quale fa propriamente riferimento la decisione in commento, coincide, infatti, con quello previsto dall’art. 60 del D.Lgs. n. 546/1992 (mancando qui soltanto il richiamo all’improcedibilità del gravame, in quanto non prevista per l’appello delle sentenze delle Commissioni tributarie). La questione che si pone in utroque è dunque questa. Di fronte ad un atto d’appello inammissibile, prima che sia dichiarato tale, è possibile riproporlo emendato dal vizio dell’appello precedentemente proposto. Ma entro quale termine? Entro il termine “breve”, decorrente dalla notifica del primo appello, o anche dopo, nel maggior termine “lungo”, eventualmente disponibile? Le SS.UU. confermano la propria giurisprudenza (sent. n. 21864/2007), ancorché ripetutamente osteggiata dalla dottrina, ribadendo che la rinnovazione dell’appello inammissibile dev’essere comunque fatta entro il termine breve decorrente dalla notifica dell’appello originariamente proposto. Vengono passate diligentemente in rassegna e accuratamente criticate le opinioni dottrinali contrarie, richiamandosi, a livello esegetico, le argomentazioni a sostegno tratte dall’art. 285 (sulla c.d. efficacia bilaterale della notifica della sentenza) e dall’art. 326, 2° comma, c.p.c. (che, per il caso d’impugnazione con- tro una parte scindibile della sentenza prevede per l’impugnativa anche delle altre parti il rispetto dello stesso termine), ma, più in generale, precisandosi (con novità di rilievo) la ragione giustificativa dell’interpretazione seguita (da qualificarsi come “estensiva”, più che “analogica”), circa la portata dell’art. 326, 1° comma, c.p.c. (nel senso di equiparare la notifica dell’appello inammissibile alla notifica delle sentenze alla controparte presso il suo difensore), non tanto nella conoscenza, comunque avvenuta, della sentenza, quanto nell’“impulso acceleratorio, impresso al processo con la proposizione del gravame”, ritenuto (ma non ancora dichiarato) inammissibile, che “innesca una dinamica processuale che fa trascendere il processo in un’orbita impugnatoria, dalla quale non può regredire per rientrare in una fase di stasi meditativa”, essendo già stata espressa, con la proposizione del gravame antecedente, una “volontà di accelerare la fine del processo, scandendo il passaggio irretrattabile alla fase dell’impugnazione, con la conseguenza che la ripetizione dell’atto, ammessa nei limiti di cui all’art. 358 c.p.c., non può che essere temporalmente limitata entro il termine breve”. In tale specifico rilievo è stata anche trovata la ragione dell’altrimenti inspiegabile assunto della viceversa ribadita irrilevanza, ai fini della decorrenza del termine breve, della notifica della sentenza quale titolo esecutivo, dato che, per l’appunto, in quest’ultimo caso, si ha certamente conoscenza della sentenza, ma difetta l’ingresso in ambito impugnatorio, che si ha invece con la notifica dell’appello inammissibile (che, per l’appunto, ripetesi, secondo le SS.UU., costituirebbe la specifica ratio giustificativa del contenimento della rinnovazione dell’appello inammissibile entro il termine breve decorrente dalla notifica dell’appello stesso, escludendo ogni possibilità di rinnovazione dopo tale scadenza, non ostante l’eventuale maggior termine lungo astrattamente ancora praticabile). Nell’ultima parte della decisione, a chiusura del contesto motivazionale, le SS.UU. segnalano la conformità del proprio, così rivisitato, ma nuovamente ribadito, insegnamento nomofilattico ai principi costituzionali (della parità fra le parti, della ragionevole durata del processo e della certezza del diritto), osservando, infine, come la legge processuale, per quanto possibile, debba essere “interpretata con rassicurante costanza, senza scarti innovativi che non siano giustificati da mutamenti del quadro normativo o da evidenze risolutive”, tenuto segnatamente conto dell’esigenza dell’affidamento e del dimensionamento “della coesistenza, necessa- GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 27 Cass., SS.UU., Sent. 13 giugno 2016 (12 gennaio 2016), n. 12084 - Pres. Rordorf - Rel. D’Ascola Appello - Notifica di un secondo appello anteriore alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo - Osservanza del termine breve decorrente dal primo appello - Necessità La notifica dell’appello dimostra la conoscenza legale della sentenza da parte dell’appellante, sicché la notifica da parte sua di un nuovo appello anteriore alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo deve risultare tempestiva in relazione al termine breve decorrente dalla data di notifica del primo appello. NOTA Sinergie Grafiche srl Rassegna Sezioni Unite In questo gruppo di cinque sentenze, tutte riguardanti alcuni dei partecipanti all’ormai celebre “Consorzio Manital”, le SS.UU. della Suprema Corte, di fronte al contrasto manifestatosi all’interno della Sezione tributaria, in specie fra la sentenza n. 13293/2011, favorevole all’Agenzia delle Entrate, e la sentenza n. 24014/2013, favorevole al contribuente, hanno riesaminato a fondo la complessa problematica della natura giuridica dei Consorzi a rilevanza esterna, dei rapporti tra Consorzio, consorziati e terzi committenti, e del ribaltamento o meno, totale o parziale, dei costi del Consorzio sui consorziati, tanto sotto il profilo civilistico, quanto, e soprattutto, ai fini tributari, specie in tema di IVA [tenuto conto di quanto disposto dall’art. 3, comma 3, e dall’art. 13, comma 2, lett. b), del D.P.R. n. 633/1972, nonché dei principi eurounitari, ed in particolare di quanto disposto dall’art. 17, par. 2, della VI direttiva circa la deducibilità dei costi per la determinazione del tributo], giungendo, in linea di massima, a queste principali conclusioni: a) che il fine e l’attività di lucro non sono incompatibili con la natura giuridica e la funzione mutualistica dei consorzi; b) che i rapporti tra consorziati e consorzio possono essere inquadrati in termini di mandato senza rappresentanza, ma possono anche atteggiarsi in forme tutt’affatto diverse, come quelle della vera e propria rappresentanza, ovvero del subappalto; c) che, di conseguenza, anche ai fini del riconoscimento totale o parziale del ribaltamento dei costi occorre scendere nel concreto di ogni singolo caso, con l’esame delle modalità d’esecuzione dei lavori, delle fatturazioni effettuate, delle eventuali differenze tra fatturazioni effettuate dal Consorzio e dai consorziati, e così via. Si fa presente che alcune di queste decisioni hanno già formato oggetto di approfonditi commenti. Così, in particolare, la sentenza n. 12191/2016 è stata pubblicata in Le Società, n. 11/2016, pag. 1193 ss., con nota di M.S. Spolidoro, “Società consortili: disciplina, mutualità spuria e ribaltamento dei costi e dei ricavi”, e in questo stesso numero della Rivista, pag. 15, con il commento di A. Venegoni, “La finalità mutualistica dei consorzi non è incompatibile con il fine di lucro, ma il trattamento fiscale dipende dalla situazione di fatto”. A questi commenti si rinvia per ogni più approfondita trattazione. In via di complemento informativo qui preme ancora far notare come le tre prime sentenze (nn. 12190 - 12191 - 12192), di fronte a pronunce del giudice del merito in cui il rapporto tra Consorzio e società veniva incontestabilmente inquadrato in fatto nell’ambito di un mandato senza rappresentanza, mentre le decisioni in iure erano state nel senso dell’esclusione in radice di qualsiasi ribaltamento dei costi, ai fini IVA, si siano concluse con l’accoglimento dei ricorsi per cassazione proposti dall’Agenzia delle Entrate e nella cassazione con rinvio delle decisioni di merito, mentre, nelle altre due sentenze (nn. 12193 – 12194), le SS.UU. hanno dichiarato inammissibili i ricorsi proposti dall’Agenzia delle Entrate nei confronti delle pronunce dei giudici di merito, in quanto in esse era emerso che il risultato dei calcoli induttivi fatti dall’organo investigativo ai fini delle imposte dirette, “riferito a una massa indistinta di operazioni, non permette la quantificazione delle operazioni in odore di evasione attribuibile ai singoli partecipanti al Consorzio per cui l’assegnazione di maggiori ricavi”, ad un singolo consorziato, “in base alla quota consortile, desunti dalla verifica fiscale alla Manital, non presenta alcun requisito di certezza", e, “d’altro canto, l’Ufficio non ha fornito, 28 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 ria e possibile, con i fattori evolutivi del sistema processuale”, attraverso il sapiente ed oculato utilizzo “della dottrina del c.d. prospective overruling”. CONSORZI PRESTAZIONI DI SERVIZI Cass., SS.UU., Sentt. 14 giugno 2016 (19 aprile 2016), nn. 12190, 12191, 12192, 12193 e 12194 - Pres. Rordorf - Rel. Iacobellis Prestazioni rese da consorzio - Attività commerciale con scopo di lucro - Ammissibilità - Differenza tra quanto fatturato dal consorzio al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato al consorzio - Problematica configurabilità quali ricavi non fatturati Natura dei rapporti tra consorzio e consorziati tra di essi e nei confronti dei committenti - Rilevanza La causa consortile non è ostativa allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività commerciale con scopo di lucro. Costituisce questione di merito l’accertamento in ordine ai rapporti intercorsi tra la società consortile e la consorziata nell’assegnazione dei lavori o servizi ai singoli consorziati e nella esecuzione delle commesse, che debbano essere oggetto di valutazione caso per caso. NOTA Sinergie Grafiche srl Rassegna Sezioni Unite a sostegno dei maggiori ricavi accertati, alcuna prova desumibile dalla contabilità e dalla relativa documentazione del contribuente", così che “l’accertamento dell’Ufficio basato sull’estrapolazione di dati non direttamente e certamente riferibili al ricorrente risulta infondato”. DICHIARAZIONI IMPOSTE SUI REDDITI Cass., SS.UU., Sent. 30 giugno 2016 (7 giugno 2016), n. 13378 - Pres. Rordorf - Rel. Iacobellis Dichiarazione integrativa “a favore” - Termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta successivo - Sussistenza Emendabilità in sede contenziosa non oltre i termini per l’azione accertatrice - Ammissibilità - Rimborso dei versamenti diretti - Termine di decadenza di 48 mesi dalla data di versamento - Sussistenza - Termini e modalità della dichiarazione integrativa - Irrilevanza - Opposizione, in sede contenziosa, della maggiore pretesa tributaria - Ammissibilità La possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito, o, comunque, di un maggior debito d’imposta, o di un minor credito, mediante la dichiarazione integrativa, è esercitabile non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante. La possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi conseguente ad errori od omissioni in grado di determinare un danno per l’Amministrazione finanziaria è esercitabile non oltre i termini stabiliti per l’espletamento dell’azione accertatrice. Il rimborso dei versamenti diretti può essere domandato, invece, entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento, indipendentemente dai termini e dalle modalità della dichiarazione integrativa. Il contribuente, tuttavia, in sede contenziosa può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 NOTA L’intervento delle SS.UU. avrebbe dovuto fornire un plausibile assetto sistematico alla caotica disciplina normativa e alle incertezze giurisprudenziali manifestatesi al vertice circa il concreto operare della riconosciuta emendabilità della dichiarazione fiscale (Cass., SS.UU., n. 15063/2002). In realtà, com’è stato puntualmente rimarcato in dottrina (v. in particolare i commenti di D. Stevanato, in Corr. Trib., nn. 32-33/2016, pag. 2481 e di M. Nussi, in questa Rivista, n.12/2016, pag. 936), l’interpretazione (restrittiva) elargita dalle Sezioni Unite (con questa pronuncia) non può dirsi esemplare, presentando, infatti, vistose lacune, sulle quali, peraltro, non è neppure più il caso d’indugiare, stante la nuova disciplina legislativamente introdotta con l’art. 5 del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016, n. 225, che ormai consente la presentazione integrativa della dichiarazione “a favore” del contribuente entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, mettendo così implicitamente fuori gioco la disciplina di cui all’art. 2, comma 8 bis, del D.P.R. n. 600/1973, sulla quale è per l’appunto incentrata la decisione delle Sezioni Unite in esame. PROCESSO TRIBUTARIO GIURISDIZIONE Cass., SS.UU., Ord. 30 giugno 2016 (7 giugno 2016), n. 13380 - Pres. Rordorf - Rel. Iacobellis Controversie in tema di fermo e iscrizione ipotecaria - Violazioni extrafiscali (violazione del codice della strada o sanzioni per omessi versamenti di contributi previdenziali) - Giurisdizione del giudice ordinario Sussistenza In materia di fermo, la giurisdizione si ripartisce tra giudice ordinario e tributario a seconda della natura del credito azionato, con la conseguenza che, qualora l’impugnativa attenga ad una violazione del Codice della strada o a sanzioni per omesso versamento di contributi previdenziali, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, attesa la natura extratributaria del credito azionato. Tale principio va riafferma- 29 Sinergie Grafiche srl Rassegna Sezioni Unite to anche con riferimento alla iscrizione ipotecaria, stante l’analogo carattere cautelare. NOTA A fronte di un’iscrizione ipotecaria effettuata ex art. 77 del D.P.R. n. 602/1973 dall’agente della riscossione, a seguito di cartella di pagamento per crediti di natura non erariale (multe per infrazione del codice della strada e omessi versamenti di contributi previdenziali), veniva proposta opposizione ex art. 617 c.p.c. davanti al Tribunale, che, tuttavia, declinava la propria giurisdizione, rimettendo quindi la causa davanti alla Commissione tributaria provinciale, la quale, peraltro, ritenendosi, a sua volta, carente di giurisdizione, sollevava conflitto e trasmetteva gli atti alle Sezioni Unite della Suprema Corte, che hanno di bel nuovo rimesso la parti davanti allo stesso Tribunale per la decisione nel merito. Nell’ordinanza vengono segnatamente richiamate le pronunce n. 10147/2012 (retro n. 10/2012, pag. 744) e n. 23113/2015 (retro n. 2/2016, pag. 126). In realtà, sembrerebbero ancor più appropriati i riferimenti alle pronunce n. 641/2015, retro n. 7/2015, pag. 558, per le liti ipotecarie, e alle pronunce n. 14831/2008, retro n. 10/2008, pag. 859, e n. 15425/2014, retro n. 2/2015, pag. 107, per le controversie in tema di fermo di beni mobili registrati ex art. 86 del D.P.R. n. 602/1973. forme dell’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, non può realizzarsi, né dinanzi al giudice amministrativo, mancando l’esercizio di un potere di supremazia in materia di pubblici servizi, né dinanzi al giudice tributario. NOTA Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento d’iscrizione di ipoteca sugli immobili per crediti di natura non tributaria sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di provvedimento preordinato all’espropriazione forzata, in relazione al quale la tutela giurisdizionale, esperibile nelle Giudicando in terzo grado di un giudizio attivato davanti al giudice tributario prima dell’entrata in vigore della legge Bersani - Visco (D. L. n. 223/2006, conv. in L. n. 248/2006) contro un’iscrizione ipotecaria per debiti, solo in parte, fiscali, le SS.UU., dopo aver richiamato il proprio risalente orientamento che all’epoca ravvisava nel giudice ordinario tutte le controversie di questo tipo, individuando nell’iscrizione ipotecaria un “provvedimento preordinato all’espropriazione forzata”, per cui ogni forma di tutela giurisdizionale non si sarebbe potuta che svolgere sub specie di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi affidata all’a.g.o., dovendo comunque ora prendere atto dell’attrazione nell’ambito del processo tributario operata dal legislatore del 2006 per tutte queste controversie, hanno riconosciuto la permanenza della sopravvenuta competenza giurisdizionale dei giudici tributari ex art. 5 c.p.c., quanto alle liti fiscali, assegnando, invece, al giudice ordinario le controversie riguardanti l’iscrizione ipotecaria per crediti extrafiscali (multe per violazione del codice della strada e mancati versamenti contributivi). Nella motivazione della sentenza viene anche definitivamente avallata la più recente giurisprudenza delle Sezioni semplici della Corte regolatrice, che esclude la necessità della previa notifica dell’intimazione di pagamento ex art. 50 del D.P.R. n. 602/1973 ai fini della legittima iscrizione ipotecaria, che può dunque aver luogo a prescindere da siffatta preventiva notificazione pur se sia già decorso un anno dalla notifica della cartella di pagamento, considerando così l’iscrizione ipotecaria, non più un atto prodromico all’esecuzione forzata, “bensì un atto riferito ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria” (Cass., SS.UU., 18 settembre 2014, n. 19667, retro, n. 2/2015, pag. 111). 30 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 GIURISDIZIONE Cass., SS.UU., Sent. 8 luglio 2016 (22 settembre 2015), n. 14038 - Pres. Rovelli - Rel. Greco Controversie sull’iscrizione di ipoteca per crediti non tributari - Giurisdizione del giudice ordinario - Sussistenza Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Imposte indirette Tassazione fissa per il trust autodichiarato Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016 (5 ottobre 2016), n. 21614 - Pres. Chindemi - Rel. Bruschetta Imposte indirette - Imposte ipotecarie e catastali - Istituzione di trust “autodichiarato” - Applicazione delle imposte in misura fissa - Legittimità L’istituzione di un trust c.d. autodichiarato, riguardante immobili e partecipazioni sociali, con durata predeterminata o fino alla morte del disponente-trustee, aventi quali beneficiari i discendenti di quest’ultimo, deve scontare l’imposta ipotecaria e quella catastale in misura fissa e non proporzionale, perché la fattispecie si inquadra in quella di una donazione indiretta, cui è funzionale la segregazione quale effetto naturale del vincolo di destinazione. Da tale segregazione non deriva, dunque, alcun reale trasferimento di beni e arricchimento di persone, i quali dovranno invece realizzarsi a favore dei beneficiari, che saranno pertanto nel caso successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale. Fatto forma dichiarava “l’improcedibilità/inammissibilità del ricorso proposto dal trust (omissis)”. L’Ufficio proponeva ricorso per cassazione affidato a un solo motivo, cui resistevano il notaio e il trust in persona del suo trustee, i quali preliminarmente eccepivano l’inammissibilità dell’impugnazione ex adverso. I contribuenti si avvalevano della facoltà di depositare memoria. Pronunciando sull’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la decisione n. 201/07/12 della Commissione tributaria provinciale di Perugia che aveva annullato l’avviso di liquidazione n. (omissis) con il quale venivano recuperate nei confronti del notaio rogante D.F. imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale con aliquote rispettivamente del 2% e 1% base imponibile euro 624.000,00 relativamente a un atto di costituzione di un trust c.d. autodichiarato denominato “(omissis)” registrato il 17 dicembre 2012 in esenzione d’imposta sulle successioni e donazioni perché rientrante nella “franchigia” - e nel quale erano stati conferiti immobili e quote sociali fino al 31 dicembre 2032 o fino alla morte del disponente e trustee (omissis) con successivo trasferimento ai beneficiati discendenti dello stesso - la Commissione tributaria regionale dell’Umbria con l’impugnata sentenza n. 239/01/14 depositata il 26 febbraio 2014 riteneva conformemente al primo giudice che l’atto dovesse scontare la tassazione in misura fissa poiché “nel caso di specie nessun trasferimento di beni che dovesse essere soggetto alle imposte ipotecarie e catastali era stato ancora posto in essere, anche in considerazione della natura di trust autodichiarato del trust (omissis) nel quale il disponente e il trustee coincidevano con la medesima persona” e mentre invece in parziale ri- 1. Poiché la declaratoria della CTR di “improcedibilità/inammissibilità” del ricorso promosso dal trust (omissis) in persona del suo trustee non è stata impugnata (statuizione peraltro conforme alla giurisprudenza di questa Corte, v. Cass., Sez. trib., n. 25478/2015; Cass., Sez. 1^, n. 3456/2015; che hanno consolidato il principio per cui il trust manca di personalità giuridica poiché trattasi di un “insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee, che è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi non quale legale rappresentante, ma come colui che dispone del diritto”), la stessa è passata in giudicato da rilevarsi d’ufficio in ogni stato e grado (Cass., Sez. I, n. 17261/2013; Cass., Sez. lav., n. 20427/2012), con la conseguenza che sono inammissibili sia il ricorso per cassazione promosso dall’Ufficio nei confronti del ridetto trust e sia il controricorso di quest’ultimo. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 31 Diritto Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità 2. Come anticipato in narrativa del presente, il contribuente notaio ha eccepito l’inammissibilità dell’avversario ricorso per cassazione sia per difetto di autosufficienza perché nello stesso non sarebbero stati riprodotti tutti gli atti e i documenti richiamati e sia perché l’impugnazione sarebbe in realtà intesa a ottenere dalla Corte un proibito “riesame nel merito della questione” circa la definizione del trust “come vincolo di destinazione o meno” e oltreché circa la “valutazione di merito inerente il momento in cui si viene a verificare il trasferimento di beni che deve essere oggetto di tassazione”. Le eccezioni sono entrambe infondate. La prima eccezione deve essere rigettata perché come noto gli atti e i documenti debbono essere indicati e riprodotti nella misura in cui gli stessi siano indispensabili, esigenza che manca invece nella concreta fattispecie in cui i fatti sono inter partes del tutto pacifici anche perché senza contestazioni riportati nell’impugnata sentenza (Cass., Sez. lav., n. 14561/2012; Cass., Sez. 2^, n. 26234/2005). La seconda eccezione è parimenti da rigettarsi perché nella concreta fattispecie i fatti sono incontroversi, in particolare non sono in discussione la caratteristica per es. “autodichiarata” del trust (omissis) o il conferimento di immobili e quote ecc. oppure che i beni debbano essere trasferiti ai discendenti alla morte del disponente-trustee o in alternativa trascorso il più lungo termine previsto, bensì quella che deve essere stabilita è la disciplina fiscale dell’atto costitutivo del ridetto trust (omissis) e quindi soltanto una questione di diritto. 3. Con l’unico motivo di ricorso rubricato “Violazione e falsa applicazione del D.L. n. 262/2006, art. 2, comma 47, 48 e 49, convertito in Legge n. 286/2006, nonché del D.Lgs. n. 347/1990, artt. 2 e 10, e dell’art. 1 Tariffa allegata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, l’Ufficio deduceva che con il D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, art. 2, comma 47 ss., conv. con modif. in Legge 24 novembre 2006, n. 286, era stata “reintrodotta nell’ordinamento giuridico l’imposta sulle successioni e donazioni estendendone l’ambito di applicazione alla costituzione di vincoli di destinazione”, ai quali doveva ricondursi anche la costituzione del trust “autodichiarato” oggetto di controversia atteso che con lo stesso erano stati conferiti beni a titolo gratuito al trustee da immettere in trust con efficacia “segregante”, così come in effetti previsto dal D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 ss., che espressamente assoggettava all’imposta sulle successioni e donazioni ex D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, gli atti di costituzione dei “vincoli di destinazione”, con la conseguenza che la CTR avrebbe errato a ritenere che anche in considerazione del carattere “autodichiarato” del trust (omissis) gli immobili e le quote conferiti nello stesso non erano stati realmente trasferiti in quanto rimasti nella sostanza nella gestione del disponente-trustee e con l’ulteriore errata illazione secondo cui le imposte ipotecaria e catastale avrebbero dovuto essere assolte in misura fissa e non proporzionale. Il motivo è infondato. Quanto prospettato dall’Ufficio segue in buona sostanza il contenuto della circolare n. 48/E del 6 agosto 2007 - nonché quello della circolare n. 3/E del 22 gennaio 2008 - che nel loro “combinato disposto” sono nel senso di affermare che gli “effetti segreganti” del trust “autodichiarato” o meno danno luogo ad un trasferimento dei beni conferiti che deve assoggettarsi a tassazione secondo le regole di cui alla reintrodotta legge sulle successioni e donazioni ex D.Lgs. 31 ottobre 1999, n. 346. E ciò, secondo l’Amministrazione, in ragione del D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 ss., che prevede “l’istituzione” dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni anche “sulla costituzione dei vincoli di destinazione” e nei quali si afferma debbono farsi pacificamente rientrare anche i trust “autodichiarati” o no. Tanto è vero che in assenza di conferimento di beni sono le stesse circolari n. 48/E e n. 3/E cit. a dire che il trust debba scontare soltanto l’imposta di registro in misura fissa atteso che in questo caso è mancante qualsiasi trasferimento di ricchezza, con la conseguenza che l’atto di costituzione del trust non accompagnato da alcun conferimento non andrebbe assoggettato all’imposta di successione e donazione proprio perché quest’ultima non è un’imposta d’atto e bensì un’imposta che tassa il trasferimento di ricchezza liberale. Come noto con numerose ordinanze questa Corte, Sez. 6^ è giunta a diverse più radicali conclusioni appunto disattendendo l’idea dell’Amministrazione appena veduta secondo cui in mancanza di conferimento di beni l’atto di costituzione di trust “autodichiarato” o meno non dovrebbe essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni ex D.Lgs. n. 346 cit., per la ragione che in ipotesi nessuna ricchezza potrebbe dirsi trasferita - ritenendo invece che il D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 ss., abbia istituito un’autonoma generale imposta “sulla costituzione dei vincoli di indisponibilità” la cui disciplina sarebbe stata indicata per relationem nelle regole contenute nel D.Lgs. n. 346 cit., “concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni”. Sarebbe in thesi un tributo che perciò prescinderebbe dal trasferimento di ricchezza discendente dal conferimento di beni e che per tal motivo troverebbe il suo presupposto impositi- 32 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità vo nella semplice costituzione di “vincoli d’indisponibilità” e includendovi tra questi ultimi il trust (Cass., Sez. n. 4482/2016; Cass., Sez. 6^, n. 5322/2015; Cass., Sez. 6^, n. 3886/2015; Cass., Sez. 6^, n. 3737/2015; Cass., Sez. 6^, n. 3735/2015). L’interpretazione in parola è per l’essenziale ricavata in via letterale dal D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47, laddove si stabilisce che è “istituita l’imposta sulle successioni e donazioni” tra l’altro anche “sulla costituzione dei vincoli di destinazione” secondo quelle che erano già le disposizioni dell’abrogato D.Lgs. n. 346 cit., e che sarebbe da leggersi nel senso che oltre alla reintroduzione dell’imposta sulle liberalità sarebbe stata anche ex novo introdotta una nuova autonoma generale imposta “sulla costituzione dei vincoli di destinazione” ed entrambe disciplinate mediante rinvio alle norme di cui al D.Lgs. n. 346 cit. che prima della sua abrogazione dettava esclusivamente la disciplina fiscale sulle successioni e sulle donazioni. Anche a prescindere dalle gravi incertezze cui le due riassunte interpretazioni danno ingresso - per es. non è dalla legge individuato il soggetto passivo d’imposta ecc. - le stesse non appaiono condivisibili. Come invero già evidenziato da questa Corte il tipo di trust “autodichiarato” pervenuto all’esame costituisce una forma di donazione indiretta, nel senso che per suo mezzo il disponente provvederà a beneficiare i suoi discendenti non direttamente e bensì a mezzo del trustee in esecuzione di un diverso programma negoziale (Cass., Sez. trib., n. 25478 cit.). Ed invero la costituzione del trust - come è normale che avvenga per “i vincoli di destinazione” - produce soltanto efficacia “segregante” i beni eventualmente in esso conferiti e questo sia perché degli stessi il trustee non è proprietario bensì amministratore e sia perché i ridetti beni non possono che essere trasferiti ai beneficiari in esecuzione del programma negoziale stabilito per la donazione indiretta (artt. 2 e 11 Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, recepita in Legge 16 ottobre 1989, n. 364). L’appena veduta osservazione è fondamentale perché consente di comprendere l’inconsistenza della censura denunciata dall’Ufficio che - pur riconoscendo anche nelle sue circolari che quella applicabile al trust è l’imposta sulle donazioni e sulle successioni che ha come presupposto l’arricchimento patrimoniale a titolo di liberalità, tanto che la stessa non può applicarsi se il trust è stato costituito senza conferimento, scontando in questo caso soltanto l’imposta fissa di registro - sostiene l’erroneo convincimento che il conferimento di beni nel trust dia luogo a un reale trasferimento imponibile. Un reale trasferimento che è invece all’evidenza impossibile per- ché del tutto contrario al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che come si ripete - prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua “segregazione” fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari. Per l’applicazione dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni manca quindi il presupposto impositivo della liberalità alla quale può dar luogo soltanto un reale arricchimento mediante un reale trasferimento di beni e diritti (D.Lgs. n. 346 cit., art. 1). Nemmeno - come anticipato - può condividersi l’interpretazione letterale del D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 ss., adottata dalle rammentate ordinanze di questa Corte, Sez. 6^ al cui avviso sarebbe stata istituita un’autonoma imposta “sulla costituzione dei vincoli di destinazione” disciplinata merce il rinvio alle regole contenute nel D.Lgs. n. 346 cit., e avente come presupposto la loro mera costituzione. In verità neanche il dato letterale autorizza una tale conclusione, giacché ex art. 12 preleggi, comma 1, “il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” è proprio invece nel diverso senso che l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i “vincoli di destinazione”, con la scontata conseguenza che il presupposto dell’imposta rimane quello stabilito dal D.Lgs. n. 346 cit., art. 1, del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari. Quella che in verità emerge chiara dal D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 e ss., è la preoccupazione - nei più esatti termini di cui all’art. 12, comma 1, prel. sarebbe “l’intenzione del legislatore” - di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e donazioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.Lgs. n. 346 cit. potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di “recente” introduzione come quella dei “vincoli di destinazione” e quindi per niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto “vecchio” D.Lgs. n. 346 cit. Questa sembra essere l’interpretazione non solo logicamente più corretta, ma anche quella che appare essere l’unica costituzionalmente orientata. E ciò atteso che l’art. 53 Cost., non pare poter tollerare un’imposta, a meno che non sia un’imposta semplicemente d’atto come per l’essenziale è per es. quella di registro, senza relazione alcuna con un’idonea capacità contributiva. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 33 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità 4. Il principio di diritto da affermarsi è quindi il seguente: “L’istituzione di un trust c.d. autodichiarato, con conferimento di immobili e partecipazioni sociali, con durata predeterminata o fino alla morte del disponente-trustee, con beneficiari i discendenti di quest’ultimo, deve scontare l’imposta ipotecaria e quella catastale in misura fissa e non proporzionale, perché la fattispecie si inquadra in quella di una donazione indiretta cui è funzionale la ‘segregazione’ quale effetto naturale del vincolo di destinazione, una ‘segregazione’ da cui non deriva quindi alcun reale trasferimento di beni e arricchimento di persone, trasferimento e arricchimento che dovrà invece realizzarsi a favore dei beneficiari, i quali saranno perciò nel caso successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale”. 5. Nell’evidenziato contrasto giurisprudenziale debbono farsi consistere le ragioni che inducono la Corte a compensare integralmente le spese di ogni fase e grado. 6. La soccombente, che è una Pubblica amministrazione, non è tenuta al pagamento dell’ulteriore importo stabilito dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-bis e quater, (Cass., Sez. 6^, n. 1778/2016; Cass., Sez. 3^, n. 5955/2014). P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dall’Ufficio contro il trust, nonché il controricorso di quest’ultimo; rigetta ricorso proposto dall’Ufficio contro il contribuente notaio; compensa integralmente le spese di ogni fase e grado. Il new deal della Suprema Corte sull’imposizione indiretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione? di Dario Stevanato (*) La sentenza della Suprema Corte n. 21614/2016, relativa a un trust autodichiarato, contiene, al di là di alcune imprecisioni, una condivisibile ricostruzione del fenomeno del trust (liberale) quale “donazione indiretta”, in cui l’arricchimento del beneficiario che giustifica l’applicazione delle imposte proporzionali (sulle successioni e donazioni, nonché ipotecarie e catastali) si realizza soltanto con il trasferimento finale del trust fund, e non già all’atto del mero conferimento di beni in trust, integrante il “vincolo di destinazione”. I giudici hanno così finalmente colto l’occasione, recependo le diffuse obiezioni che erano state mosse dalla dottrina, per riconsiderare la posizione, espressa dalla Corte in alcune ordinanze del 2015, sull’imposta sui vincoli di destinazione, rilevandone la contrarietà all’ordinamento e l’incompatibilità con il principio costituzionale di capacità contributiva. La sentenza in esame si segnala anzitutto perché in essa trova ulteriore conferma, presso la Suprema Corte, la visione del trust alla stregua di una “donazione indiretta”, con conseguente postergazione del momento impositivo alla destinazione finale del patrimonio segregato ai beneficiari. Già questo approdo è da salutare con grande soddisfazione, che tuttavia raggiunge l’apice laddove i giudici, operando un atteso revirement, riconoscono l’inesistenza di un’imposta autonoma sui vincoli di destinazione, coglien- done l’impossibilità e la contrarietà all’art. 53 Cost. L’antefatto: l’imposta sui vincoli di destinazione nella precedente giurisprudenza della Sezione tributaria La Corte di cassazione si è come noto espressa, nel corso del 2015, per l’applicabilità dell’imposta proporzionale ad atti di trust autodichiarati o ritenuti addirittura nulli e privi di effetti, risolvendola in senso affermativo sulla base di (*) Professore ordinario di Diritto tributario presso l’Università di Trieste - Avvocato e Dottore commercialista in Venezia 34 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità una assai discutibile premessa: ovvero che l’art. 2, comma 47, del D.L. n. 262/2006 (convertito, con modificazioni, in Legge n. 286/2006) avrebbe istituito un’imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione, autonoma rispetto al tributo sulle successioni e donazioni. In tal modo la Corte era riuscita ad “aggirare” e rendere irrilevanti, nel tentativo di attrarre a tassazione meri fenomeni destinatori, i presupposti indefettibili per l’applicabilità del tributo sugli atti liberali, ovvero il trasferimento di beni o diritti mortis causa o per atto di liberalità tra vivi, e l’arricchimento di una sfera altrui, diversa da quella del testatore o donante. Sennonché, l’imposta (sulla costituzione dei vincoli), così concepita, finiva per risultare insostenibile, alla luce delle basilari logiche della tassazione. Non si comprende infatti come un tributo del genere possa prescindere da un indice di forza economica qualificata; e invero, in mancanza di un trasferimento a terzi e un’espansione dell’altrui sfera patrimoniale (che connota il tributo sugli atti liberali), l’imposta sui vincoli di destinazione avrebbe finito per colpire un “impoverimento”, dato dalla diminuzione del valore dei beni assoggettati al vincolo dal loro proprietario. Inoltre, nella legge che ha reistituito l’imposta sulle successioni e donazioni, manca qualsivoglia indicazione in ordine agli altri elementi fondamentali dell’ipotizzato tributo sui vincoli di destinazione, quali i soggetti passivi, la base imponibile, le aliquote, le regole di territorialità, e così via. In effetti, nelle norme che secondo la Suprema Corte avrebbero dato vita all’imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione con un rinvio alla disciplina del D.Lgs. n. 346/1990, mancano prima di tutto gli obbligati, i soggetti passivi: la legge contempla infatti soltanto gli eredi o i beneficiari di una liberalità, categorie inapplicabili al tributo sui “vincoli”, tanto è vero che la Corte ha in alcune occasioni individuato il soggetto passivo nel disponente, altre volte nel beneficiario finale dell’utilità economica connessa all’istituzione del vincolo, e altre volte ancora ha lasciato la questione in una sfera di indeterminatezza e ambiguità. Il tutto, si ripete, in assenza di una qualsivoglia indicazione normativa (e in una materia che, non è forse superfluo ricordare, è coperta da riserva di legge). Se poi ciò non bastasse, si osservi che non si trovano indicazioni normative, né con riguardo alla base imponibile (che non può certo coincidere con il “valore pieno” dei beni o diritti su cui è apposto il vincolo, e andrebbe semmai riferita al valore del vincolo stesso, tentando un’operazione ermeneutica assai complessa nella sua realizzazione pratica e inevitabilmente arbitraria, nel silenzio della legge), né con riferimento alle aliquote applicabili (nell’imposta disciplinata dal D.L. n. 262/2006 e dal D.Lgs. n. 346/1990, le aliquote sono infatti stabilite in funzione del rapporto di parentela tra il disponente e il beneficiario di una liberalità, mentre nella fantomatica imposta sui vincoli di destinazione manca quella dualità soggettiva che costituisce l’indefettibile presupposto di tutto l’impianto normativo di riferimento). Senza contare, poi, che la Corte ha irragionevolmente individuato l’aliquota applicabile all’apposizione di vincoli in quella più elevata (8%), motivando questa scelta con la sua supposta natura “residuale”, così penalizzando proprio le “attribuzioni” (che in realtà non sono tali, vista la natura non traslativa dei vincoli di cui discute la Corte) in cui è in un certo senso più stretto il rapporto con il disponente, giacché tutto avviene nella sua sfera soggettiva. Appare infatti illogico ipotizzare che una fattispecie con effetti meramente destinatori, attuata nel patrimonio del proprietario e in assenza di trasferimenti a terzi e di liberalità a loro favore, sconti un’aliquota più elevata di quelle riservate alle liberalità all’interno della famiglia. Senza dilungarci ulteriormente su questioni ampiamente esaminate in altre sedi (1), si (1) Cfr. D. Stevanato, “La ‘nuova’ imposta su ‘trust’ e vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione”, in questa Rivista, 2015, pag. 400 ss.; Id., “Imposta sui vincoli di destinazione e giudice-legislatore: errare è umano, perseve- rare diabolico”, in questa Rivista, 2016, pag. 398 ss. Si veda inoltre, tra gli altri, T. Tassani, “Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione”, in il fisco, 2015, pag. 1957 ss.; G. Bizioli, “La creazione, irrazio- GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 35 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità può dunque sul punto sintetizzare come segue: era a tutti abbastanza evidente, nonostante l’improvvida giurisprudenza della Sezione tributaria, che nell’impianto normativo sul tributo successorio e gli atti liberali il riferimento ai “vincoli di destinazione” dovesse essere necessariamente armonizzato con l’oggetto dell’unico tributo disciplinato dalla legge, che intende tassare l’arricchimento ricevuto da un determinato soggetto, per effetto di uno spostamento patrimoniale motivato da intenti liberali, su una base imponibile pari al valore dei beni trasferiti, con aliquote fissate in relazione al rapporto di parentela tra disponente e beneficiario, secondo regole territoriali che combinano la residenza dei soggetti in questione, il luogo di localizzazione dei beni e quello di stipula degli atti donativi. E gli unici vincoli di destinazione assoggettabili all’imposta (all’unica imposta prevista dalla legge) sono quelli che si armonizzano con il contesto testé delineato, ovvero che determinano un concreto ed attuale arricchimento di una sfera patrimoniale diversa da quella del soggetto che appone un vincolo al proprio patrimonio. Nell’interpretazione fornita dalla Suprema Corte nelle ordinanze precedentemente ricordate, invece, l’imposta sui vincoli di destinazione diventava un corpo estraneo rispetto a fondamentali principi della tassazione; si poteva perciò pronosticare che, prima o poi, una tale interpretazione avrebbe originato una “crisi di rigetto” ordinamentale, i cui prodromi si erano già manifestati a livello di commissioni di merito, e che ora è deflagrata presso la stessa giurisprudenza di legittimità con la sentenza che ci si accinge a commentare. Nella pronuncia n. 21614/2016, qui annotata, la Cassazione ha operato l’auspicato revirement rispetto al precedente orientamento, poc’anzi ricordato, che aveva postulato la sussistenza di un’imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione, avente presupposti del tutto autonomi rispetto a quelli del tributo sulle successioni e donazioni. La Corte si è trovata a decidere su un ricorso per cassazione proposto dall’Amministrazione finanziaria in una vicenda concernente un trust autodichiarato, avverso una sentenza di appello che aveva ritenuto non dovute le imposte ipotecarie e catastali, sul rilievo che la natura di trust autodichiarato, in cui disponente e trustee coincidevano nella medesima persona, escludeva ogni ipotesi di trasferimento di beni da assoggettare al tributo proporzionale. Orbene, nel ricorso per cassazione l’Amministrazione finanziaria aveva dedotto proprio a partire dall’art. 2, comma 47, del già citato D.L. n. 262/2006, con il quale era stata “reintrodotta nell’ordinamento giuridico l’imposta sulle successioni e donazioni estendendone l’ambito di applicazione alla costituzione di vincoli di destinazione”, ai quali doveva ricondursi anche la costituzione del trust autodichiarato oggetto della controversia, idoneo a dar luogo agli effetti “segregativi” connessi al conferimento dei beni in trust. L’Amministrazione, in tal modo, aveva dunque per certi aspetti precorso l’indirizzo giurisprudenziale su richiamato, pur senza giungere alle estreme conclusioni delle ordinanze emesse nel 2015, del pari sopra ricordate. La sentenza in esame così si esprime sull’indirizzo precedente: “come noto con numerose ordinanze questa Corte, Sez. VI, è giunta a diverse più radicali conclusioni - appunto disattendendo l’idea dell’Amministrazione appena ve- nalmente estensiva, di un tributo autonomo”, in Dialoghi Tributari, 2015, pag. 108 ss.; A. Contrino, “Sulla nuova (ma in realtà inesistente) imposta sui vincoli di destinazione, ‘creata’ dalla Suprema Corte: osservazioni critiche”, in Rass. trib., 2016, pag. 30 ss.; G. Corasaniti, “Vincoli di destinazione, trust e imposta sulle successioni e donazioni: la (criticabile) tesi interpre- tativa della Corte di cassazione e le conseguenze applicative”, in Dir. prat. trib., 2015, II, pag. 688 ss.; A. Busani - R. A. Papotti, “L’imposizione indiretta dei ‘trust’: luci e ombre delle recenti pronunce della Corte di Cassazione”, in Corr. Trib., 2015, pag. 1203 ss.; Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 1322015/T. 36 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 L’inquadramento del trust come “donazione indiretta” Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità duta secondo cui in mancanza di conferimento di beni l’atto di costituzione di trust autodichiarato o meno non dovrebbe essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni ... per la ragione che in ipotesi nessuna ricchezza potrebbe dirsi trasferita - ritenendo invece che l’art. 2, comma 47, D.L. n. 262 cit., abbia istituito un’autonoma generale imposta ‘sulla costituzione dei vincoli di indisponibilità’ ... Sarebbe in thesi un tributo che perciò prescinderebbe dal trasferimento di ricchezza”. La Corte, a questo punto, dimostrando di aver colto il senso delle critiche della dottrina all’indirizzo giurisprudenziale ricordato (ad esempio la mancanza nella legge di elementi fondamentali del presunto tributo “sui vincoli”, come l’individuazione dei soggetti passivi, un sensato indice di forza economica cui riferire il tributo, e così via), se ne discosta nettamente seguendo un percorso in linea di massima condivisibile (pur con alcune riserve di cui diremo tra breve): da un lato, accogliendo una visione del particolare trust in oggetto in termini di donazione indiretta (si trattava da quel che si comprende di un classico “trust di famiglia”, finalizzato a far giungere ai discendenti del disponente i beni segretati in trust); dall’altro lato, negando cittadinanza alla tesi secondo cui sarebbe stata introdotta dal legislatore un’imposta sui vincoli di destinazione, autonoma e distinta da quella sulle successioni e donazioni. Sotto il primo profilo, la sentenza annotata ribadisce quanto affermato dalla stessa Corte in una precedente occasione. Già con la sentenza n. 25478/2015 (2) la Corte aveva infatti sposato la visione unificante dei diversi trasferimenti sottesi da un trust liberale, considerandolo una particolare ipotesi di donazione indiretta, con il conseguente rinvio della tassazione proporzionale al momento della devoluzione finale dei beni e dell’effettivo arricchimento che lo stesso determina nella sfera patrimoniale dei beneficiari. E con l’ulteriore conseguenza che “la costituzione del vincolo di destinazione non è in grado, in sé, di determinare il presupposto dell’obbligazione tributaria, dovendo l’effetto di trasferimento essere proiettato nella sfera giuridica di un soggetto diverso dal trustee, fin dall’inizio determinato dal disponente, nominatim ovvero in base a un criterio generale di individuazione” (3). A queste stesse conclusioni si è sostanzialmente conformata la sentenza qui annotata, nel rilevare quanto segue: “Come invero già evidenziato da questa Corte il tipo di trust ‘autodichiarato’ pervenuto all’esame costituisce una forma di donazione indiretta, nel senso che per suo mezzo il disponente provvederà a beneficiare i suoi discendenti non direttamente e bensì a mezzo del trustee in esecuzione di un diverso programma negoziale (Cass., Sez. trib., n. 25478 cit.). Ed invero la costituzione del trust - come è normale che avvenga per i vincoli di destinazione - produce soltanto efficacia ‘segregante’ i beni eventualmente in esso conferiti e questo sia perché degli stessi il trustee non è proprietario bensì amministratore e sia perché i ridetti beni non possono che essere trasferiti ai beneficiari in esecuzione del programma negoziale stabilito per la donazione indiretta ... L’appena veduta osservazione è fondamentale perché consente di comprendere l’inconsistenza della censura denunciata dall’Ufficio che ... sostiene l’erroneo convincimento che il conferimento di beni in trust dia luogo a un reale trasferimento imponibile. Un reale trasferimento che è invece impossibile perché del tutto contrario al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che - come si ripete - prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua segregazione fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari. Per l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni manca quindi il presupposto impositivo della liberalità alla quale può dar luogo (2) In Corr. Trib., 2016, pag. 676 ss., con nota di D. Stevanato, “‘Trust’ liberali e imposizione indiretta, uno sguardo al passato rivolto al futuro?”. (3) Concludevano dunque i giudici che “la costituzione di un trust va considerata estranea al presupposto dell’imposta indi- retta sui trasferimenti in misura proporzionale, sia essa l’imposta di registro… sia essa l’imposta ipotecaria o l’imposta catastale, mancando l’elemento fondamentale dell’attribuzione definitiva dei beni al soggetto beneficiario”. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 37 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità soltanto un reale arricchimento mediante un reale trasferimento di beni e diritti (art. 1, D.Lgs. n. 346 cit.). Con riguardo a questa parte della sentenza, occorre formulare alcune riflessioni ulteriori. Appare come detto condivisibile ricondurre il trust (si intende, non tutti, soltanto quelli aventi uno scopo di famiglia, successorio e/o liberale) (4) nell’ambito delle donazioni indirette; non sembra invece altrettanto corretto ritenere che la costituzione del trust produca sempre e soltanto efficacia segregante sui beni conferiti e non anche un trasferimento della proprietà degli stessi (“il trustee non è proprietario bensì amministratore ...”). In realtà, il trustee diventa proprietario dei beni conferiti dal disponente, ancorché tali beni vadano ad alimentare un patrimonio separato da quello del trustee, essendo asserviti al programma negoziale delineato nel trust deed. Nel conferimento di beni in trust, insomma, si verifica sia un trasferimento della proprietà (nei confronti del trustee, che diventa proprietario oltre che “amministratore” dei beni) che un effetto segregativo (i beni entrano a far parte di un patrimonio separato, e sono vincolati nella destinazione). Del resto, atteso che il disponente perde pacificamente la titolarità dei beni che conferisce nel trust, ciò è il segno che questi beni sono stati trasferiti. E il fatto che quella del trustee sia una legal ownership, limitata nelle possibili destinazioni e facoltà di utilizzo dal beneficial interest spettante ai beneficiari del trust, non muta queste conclusioni. La mancanza di effetti traslativi connota invece i trust c.d. autodichiarati, in cui la figura del disponente e quella del trustee coincidono: in questo caso i beni rimangono di proprietà del disponente-trustee, mentre si produce l’effetto segregativo e il vincolo di destinazione, con la creazione di un patrimonio separato in capo al disponente. L’inapplicabilità dell’imposta sulle successioni e donazioni, con riguardo ai beni conferiti in trust, non dipende dunque dalla mancanza di un formale trasferimento a terzi (i beni, con l’eccezione del trust autodichiarato, sono in effetti trasferiti al trustee, sia pure in un regime di segregazione patrimoniale), quanto dall’aver assunto una visione (non già atomistica bensì) unitaria del trust come donazione indiretta, in cui l’arricchimento dei beneficiari finali del trust si realizza soltanto alla fine, col definitivo trasferimento del trust fund a questi ultimi, e non invece con il mero conferimento dei beni in trust e con l’attribuzione della titolarità formale degli stessi al trustee. Sotto questo aspetto, la sentenza è corretta nella sua parte dispositiva (inapplicabilità dell’imposta sulle successioni e donazioni agli atti di dotazione del trust), mentre è più discutibile o comunque problematica nella sua parte motiva, a meno di non riferire le affermazioni ivi contenute ai soli trust autodichiarati, in cui in effetti non si verifica alcun trasferimento dei beni ma soltanto un effetto segregativo nel patrimonio del disponente. Quanto alla inapplicabilità delle imposte ipotecarie e catastali, questa andrebbe affermata non già osservando l’inesistenza di un trasferimento (che invece nei trust non autodichiarati ha luogo), ma semmai accogliendo quelle tesi secondo cui il presupposto dei particolari tributi non è la trascrizione o la voltura catastale, bensì la stessa fattispecie alla base dell’imposta di registro o del tributo sulle successioni e donazioni. Seguendo questa tesi, “parrebbe dunque logico ritenere che l’applicazione delle imposte in considerazione possa essere effettuata, in misura proporzionale, solo all’atto del trasferimento ‘finale’ tramite il quale si realizza il presupposto del tributo. Anche per l’applicazione delle imposte ipotecaria e catastale, infatti, è necessario che il presupposto d’imposta sia manifestativo di capacità contributiva, tal- (4) I trust onerosi o comunque non liberali (di garanzia, d’impresa, costituti per far fronte a esigenze concorsuali, per la ge- stione di situazioni di crisi da sovraindebitamento, ecc.) non sottendono evidentemente alcuna donazione indiretta. 38 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Alcune annotazioni parzialmente critiche sul percorso motivazionale seguito dalla Corte Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità ché si comprende come in ipotesi di trasferimento di beni dal disponente al trustee l’arricchimento, che è presupposto del tributo fin qui considerato e, conseguentemente, anche delle imposte ipotecaria e catastale, difetti e che pertanto non appaia appropriata una imposizione della vicenda traslativa con ricorso ai criteri impositivi in misura proporzionale” (5). Il new deal della Suprema Corte in materia di (non) imposizione dei meri vincoli di destinazione La sentenza in esame affronta poi la spinosa questione dell’autonoma imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione, affermata nelle ordinanze del 2015, giungendo a conclusioni del tutto condivisibili. Secondo la sentenza annotata, in specie, non può condividersi l’interpretazione dell’art. 2, comma 47, cit., secondo cui sarebbe stata istituita un’autonoma imposta sulla “costituzione di vincoli di destinazione”, avente come presupposto la loro mera costituzione. E ciò, in primo luogo, per ragioni letterali (“neanche il dato letterale autorizza una tale conclusione, giacché ... l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche assoggettati i ‘vincoli di destinazione’”), da cui deriva la necessità, ai fini della nascita del presupposto impositivo, “del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari”. I giudici hanno così finalmente colto il presupposto giuridico ed economico del tributo sulle successioni e sugli atti di liberalità tra vivi, e l’inesistenza di un autonomo e diverso tributo sulla mera costituzione di “vincoli di destinazione”, la cui menzione risponde semmai a un’esigenza di completezza della fattispecie rispetto a una figura di recente introduzione (per i giudici emerge “la preoccupazione ... di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e dona- zioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.Lgs. n. 346 cit. potesse dar luogo a nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di recente introduzione come quella dei ‘vincoli di destinazione’ e quindi niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto ‘vecchio’ D.Lgs. n. 346 cit.”). Resta dunque ferma l’irrilevanza dei vincoli di destinazione non traslativi, o che non producono arricchimenti, provocati da un intento liberale del disponente, di altrui sfere patrimoniali. Per la Corte, “questa sembra essere l’interpretazione non solo logicamente più corretta, ma anche quella che appare essere l’unica costituzionalmente orientata. E ciò atteso che l’art. 53 Cost. non pare poter tollerare un’imposta, a meno che non sia un’imposta semplicemente d’atto come per l’essenziale è per es. quella di registro, senza relazione alcuna con un’idonea capacità contributiva”. Si potrebbe peraltro discutere se nell’imposta proporzionale di registro - ancorché “imposta d’atto” - manchi effettivamente un indice di “forza economica”, ben potendo la stessa essere considerata un tributo di stampo patrimoniale applicato al momento del trasferimento di beni e diritti a titolo oneroso, con trasformazione della ricchezza in una ricchezza di altro tipo. Resta però sicuramente vero che nel fantomatico tributo sulla costituzione dei “vincoli di destinazione”, ideato nella pregressa giurisprudenza della Corte, mancavano - a tacer d’altro - i requisiti minimi per la compatibilità con l’art. 53 Cost., giacché l’apposizione di un vincolo su una parte del patrimonio di un soggetto non denota alcuna peculiare forza economica differenziale, essendo anzi il sintomo di un impoverimento, legato alle diminuite potenzialità di utilizzo e sfruttamento del bene sottoposto a vincolo. Semmai, un vincolo di destinazione posto direttamente a favore di terzi rileverebbe positi- (5) Così il Consiglio Nazionale del Notariato, Studio Tributario n. 58-2010/T. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 39 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità vamente nella sfera di questi ultimi, ma per poterli considerare “soggetti passivi” di un tributo sull’arricchimento provocato dal vincolo occorrerebbe che quest’ultimo si concretizzasse nel trasferimento di beni e diritti a loro favore, misurabile economicamente, tornando anche per questa via al tema della compatibilità con l’art. 53 Cost. sotto il profilo dell’attualità ed effettività della capacità contributiva. Non sembra invece che si possa affermare la tassabilità di generiche utilità non idonee a incrementare il patrimonio del beneficiario (ad esempio la possibilità di godere dei servizi di un’abitazione o di un’imbarcazione); altrimenti dovrebbe scontare l’imposta sugli atti liberali anche la concessione di un bene in comodato gratuito, la messa a disposizione di una casa per le vacanze, la facoltà di accedere gratuitamente a un impianto sportivo, e così via, che determinano un risparmio di spesa ma ancora non incrementano il patrimonio del beneficiario. Il punto è che un bene segregato in trust e vincolato al soddisfacimento degli interessi dei beneficiari, se può preludere a un arricchimento che si realizzerà con la devoluzione finale del trust fund (che concretizzerà quel “trasferimento di beni e diritti” richiesto per l’applicazione del tributo sugli atti liberali), non è ancora idoneo a fondare una pretesa impositiva: per tassare tale arricchimento occorrerà appunto attendere che lo stesso produca i suoi effetti nella sfera giuridica dei beneficiari, incrementando il loro patrimonio. Diversamente, la costituzione di un vincolo di destinazione slegato da ogni intento liberale (si pensi alla segregazione di beni in un trust a garanzia dei creditori, o a un trust cui vengano conferite partecipazioni societarie con l’intento “parasociale” di imprimere un indirizzo unitario nel diritto di voto) sarà al di fuori di ogni - ancorché prospettica - possibilità di tassazione, per la non inquadrabilità del fenomeno all’interno del tributo sulle successioni e donazioni o di altri tributi putativi come quello sui “vincoli di destinazione”. La precedente giurisprudenza della Suprema Corte aveva dunque l’insuperabile difetto di postulare un’imposta sulla mera costituzione di vincoli di destinazione, finendo per colpire qualsivoglia ipotesi destinatoria, dunque anche quei vincoli estranei ad un assetto di interessi liberale e comunque, nel caso in questo fosse ravvisabile, non (ancora) espressivi di capacità contributiva, data per l’appunto dall’arricchimento della sfera patrimoniale dei beneficiari. L’insussistenza di un’imposta sulla mera costituzione di vincoli di destinazione appare allora del tutto coerente rispetto alla ricostruzione del trust liberale come particolare ipotesi di donazione indiretta, cioè quale strumento in grado di produrre, con la devoluzione finale dei beni conferiti al trust, il programmato arricchimento dei beneficiari. Si noti che in questo modo la liberalità indiretta non sfugge alla tassazione, essendo soltanto - correttamente - postergata al momento in cui la stessa realizzerà i suoi effetti nella sfera del beneficiario, senza dunque costringere quest’ultimo a una anticipazione di imposte su beni non di sua proprietà, e che potrebbe anche non ricevere mai (si pensi all’ipotesi in cui il trust non abbia ancora dei beneficiari determinati, al perimento dei beni in trust o alla diminuzione del loro valore, all’ipotesi di revoca del trust, e via discorrendo). Appare dunque corretto, ed estensibile ad ogni imposta (non solo quelle ipotecarie e catastali, ma altresì il tributo sulle successioni e donazioni) e ad ogni ipotesi di trust liberale (e non solo a quello autodichiarato), il principio di diritto affermato dalla Corte, secondo cui in occasione degli atti di dotazione non deve trovare applicazione l’imposta proporzionale perché “la fattispecie si inquadra in quella di una donazione indiretta cui è funzionale la ‘segregazione’ quale effetto naturale del vincolo di destinazione, una ‘segregazione’ da cui non deriva quindi alcun reale trasferimento di beni e arricchimento di persone, trasferimento e arricchimento che dovrà invece realizzarsi a favore dei beneficiari, i quali saranno perciò nel caso successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale”. Come si vede, seguendo questa condivisibile prospettazione, non vi è alcuna sottrazione agli 40 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità obblighi tributari insiti negli esiti del programma negoziale del trust liberale, ma soltanto il giusto riconoscimento che le imposte dovranno essere applicate solamente quando si realizzerà in concreto l’arricchimento a favore dei beneficiari finali, all’atto della devoluzione del trust fund. Si spera che, con questa pronuncia, sia davvero calato il sipario sull’ineffabile e incostituzionale imposta sui vincoli di destinazione! GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 41 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Redditi di capitale Presunzione di onerosità per i versamenti socio-società Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016 (12 maggio 2016), n. 17839 - Pres. Cappabianca - Rel. Cricenti Redditi di capitale - Determinazione - Versamenti dei soci alla società - Presunzione di onerosità - Sussistenza - Prova contraria a carico del contribuente - Ammissibilità - Dimostrazione dell’iscrizione in bilancio del versamento a titolo diverso dal mutuo - Necessità I versamenti dei soci alla società si presumono, ex lege, onerosi. In caso di mancato superamento della presunzione legale, gli interessi attivi, al pari di quelli prodotti da qualsiasi finanziamento a terzi, concorrono a formare il reddito prodotto dall’impresa (individuale o collettiva). La presunzione di onerosità del prestito è superabile soltanto nei modi e nelle forme tassativamente stabilite dalla legge, in particolare dimostrando che i bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società contemplano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo. Ritenuto in fatto Motivi della decisione A seguito di verifica presso la società B., la Guardia di Finanza appurava che la società era partecipata da soli due soci, padre e figlio, e amministrata da altro parente; che dal 1994 al 2000 era stato convenuto che i soci non incassassero gli utili realizzati, lasciandoli nella disponibilità della società. Da tale verifica l’Agenzia ha dedotto che la rinuncia alla riscossione degli utili costituisse per i soci un finanziamento a favore della società, che dunque era da presumere avesse corrisposto gli interessi ai finanziatori. Nei confronti di questi ultimi dunque il Fisco ha operato rettifica del reddito e rideterminazione delle imposte. La Commissione provinciale ha accolto il conseguente ricorso dei soci e della società, con decisione confermata dalla Commissione regionale. Su ricorso dell’Agenzia questa Corte con sentenza n. 10031/2009 ha cassato la decisione di appello con rinvio. La Commissione regionale, in diversa composizione, ha dunque nuovamente deciso escludendo che la mancata riscossione degli utili potesse configurare un finanziamento fruttifero a favore della società. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l’Agenzia, proponendo due motivi di censura. Resistono con controricorso la società ed i soci. La decisione impugnata, nell’attenersi al principio di diritto affermato dalla precedente decisione di questa Corte, ha ribadito la presunzione legale (art. 43, ora D.P.R. n. 917/1986, art. 46) di mutualità ed onerosità del lascito a favore della società. Ha ritenuto, però, questa presunzione superata dal fatto che la somma non era iscritta a bilancio come mutuo ricevuto dai soci; che non vi fossero esigenze finanziarie della società, tali da richiedere un mutuo ai soci; che le somme sono state poi reinvestite in obbligazioni fruttifere. 1. - Con il primo motivo l’Agenzia denuncia violazione dell’art. 384 c.p.c. Sostiene che questa Corte aveva cassato la precedente sentenza di merito affermando il principio di diritto per cui l’assenza di indebitamento della società non era da sola sufficiente a smentire la presunzione che quest’ultima avesse ricevuto dai soci un finanziamento. Il motivo è fondato. In sostanza la Corte, con la precedente sentenza, aveva cassato la decisione di appello, ritenendo insufficiente il solo dato dell’assenza di bisogni finanziari della società, elemento che era stato addotto a dimostrazione del fatto che non si trattasse di un finanziamento; ed aveva chiesto ai giudici di rinvio di cercare altri ed ulteriori elementi. A fronte di tale principio di diritto, occorreva addurre elementi sufficienti a smentire la presunzione di legge. 42 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità È infatti regola affermata da questa Corte che i versamenti dei soci alla società si presumono onerosi, e non fa differenza che siano fatti dal socio persona fisica o dal socio imprenditore, “non facendo la norma cenno alcuno ad una pretesa natura di persona solo fisica” dei soci destinatari della presunzione ed essendo tale limitazione, in carenza di qualsivoglia concreto elemento di differenziazione, contraria ad una interpretazione normativa coerente con i precetti dettati dagli artt. 3 e 53 Cost., in quanto finirebbe per trattare diversamente situazioni economiche identiche”. L’onerosità del versamento è dunque presunta: “ne consegue che, in caso di mancato superamento della presunzione legale, gli interessi attivi, al pari di quelli prodotti da qualsiasi finanziamento a terzi, concorrono a formare il reddito prodotto dall’impresa (individuale o collettiva), come espressamente previsto dal D.P.R. n. 917 cit., art. 45, e confermato dall’art. 95, nella parte in cui considera il reddito complessivo delle società quale reddito d’impresa “da qualsiasi fonte provenga” (Sez. 5, n. 12251/2010). Ciò detto, la presunzione di onerosità del prestito non è vincibile con ogni mezzo, “ma soltanto nei modi e nelle forme tassativamente stabilite dalla legge, in particolare dimostrando che i bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società contemplavano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo”. (Sez. 5, n. 16445/2009). Conseguentemente, da un lato è irrilevante, per superare la presunzione, che le somme siano state utilmente investite, circostanza che non può di certo significare che sono state gratuitamente elargite dai soci; dall’altro la presunzione può essere vinta, come si è detto, solo in ragione di precisi elementi, ossia fornendo la dimostrazione richiesta della iscrizione in bilancio del versamento come fatta a titolo diverso dal mutuo. L’accoglimento di questo primo motivo assorbe l’esame di quello successivo. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza cassata con rinvio ad altro collegio della Commissione tributaria che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria di secondo grado di Trento, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese. La Cassazione torna, con piglio creativo, sulla vexata quaestio della presunzione di fruttuosità dei mutui socio/società di Matteo Fanni (*) La Suprema Corte torna, ancora una volta, con sentenza n. 17839/2016, su una tematica già affrontata in numerose occasioni nell’ultimo quinquennio. Dopo una serie di pronunce che, finalmente, sembravano aver “aggiustato il tiro”, la sentenza rievoca una visione distorta del rapporto tra le presunzioni riferite al titolo dei trasferimenti di denaro dal socio alla società e quelle relative all’onerosità dei finanziamenti. A differenza di quanto avvenuto finora, la sentenza non si limita ad affermare - sbagliando - che la presunzione di onerosità del mutuo può essere vinta solo attraverso una espressa indicazione contraria contenuta nei bilanci della mutuataria, ma giunge addirittura a stabilire - senza alcuna base giuridica - che la stessa gratuità dell’erogazione del socio potrebbe essere provata solo dimostrando che la dazione è avvenuta a titolo diverso dal mutuo. La sentenza giunge così ad affermare, implicitamente, che, in presenza di un mutuo, la sua fruttuosità sarebbe assistita da una presunzione assoluta, non superabile dal contribuente. In precedenti occasioni (1), si è già avuto modo di esaminare l’inspiegabile orientamento as- sunto dalla Suprema Corte in merito alle presunzioni relative al titolo del trasferimento di (*) Avvocato in Milano, Bonelli Erede, Managing associate Dottore di ricerca in Diritto tributario presso l’Università di Milano Bicocca (1) Cfr. M. Fanni, “La presunzione legale di onerosità dei mutui tra prova contraria libera (di fonte normativa) e vincolata (di fonte giurisprudenziale)”, in Rass. trib., 2011, pag. 170 ss., “La Cassazione rivaluta i propri precedenti su presunzione di onerosità e ‘transfer pricing’ in una pronuncia sui finanziamenti infragruppo”, in questa Rivista, 2015, pag. 322 ss. e, da ultimo, “Presunzione legale di onerosità dei mutui socio/società: la prova contraria è libera”, in Corr. Trib., 2015, pag. 3902 ss. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 43 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità somme di denaro dal socio in favore della società, alla fruttuosità del mutuo e, infine, al tempo e alla misura degli interessi. L’esame della problematica presuppone un breve richiamo alle norme di riferimento che, come si vedrà, sembrano essere state, ancora una volta, non adeguatamente interpretate dalla Cassazione. Presunzioni relative al trasferimento di denaro dai soci alla società Rileva, in primo luogo, l’art. 46 T.U.I.R., il quale dispone che le somme versate dai soci o partecipanti alle società commerciali e agli enti di cui all’art. 73, comma 1, lett. b), del T.U.I.R. “si considerano date a mutuo se dai bilanci o rendiconti di tali soggetti non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo”. La norma menzionata introduce dunque una presunzione legale relativa al “titolo” del “versamento dei soci” (che si presume essere il mutuo), e prevede che tale presunzione possa essere superata solo fornendo una specifica prova contraria (espressa indicazione, nel bilancio della mutuataria, che il versamento è stato fatto a titolo diverso dal mutuo). La presunzione in esame è riconducibile alla categoria delle c.d. presunzioni legali miste (2) o “a prova contraria vincolata”. La seconda norma da prendere in considerazione è l’art. 1815 c.c., ove si stabilisce che, “salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. Per la determinazione degli interessi si osservano le disposizioni dell’art. 1284 c.c.” (3). La norma civilistica appena citata prevede una presunzione legale relativa di fruttuosità dei mutui. In assenza di diversa indicazione normativa, la prova contraria attraverso cui può essere superata tale presunzione è libera. L’uni(2) Per una distinzione tra le diverse tipologie di presunzione e le modalità di superamento cfr. M. Fanni, “I poteri istruttori e la prova nel processo tributario”, par. 12 “Le presunzioni”, in Tesauro (a cura di), Codice commentato del processo tributario, UTET, 2016, II edizione, pag. 134 ss. (3) Sul versante civilistico, l’art. 1284 c.c. stabilisce - in sintesi - che gli interessi si computano al saggio legale, salvo che le parti abbiano pattuito una diversa misura. Su quello fiscale, con un maggior grado di dettaglio, l’art. 44 co parametro di valutazione, affidato al giudice, è la capacità dimostrativa del mezzo di prova offerto. Infine, per quanto riguarda il momento di percezione degli interessi e la loro misura vigono le presunzioni recate dagli artt. 1284 c.c. e 45 del T.U.I.R., anch’esse a prova contraria libera. Nonostante l’estrema linearità del “menù” e la presenza - tutto sommato - di ingredienti assai semplici, la combinazione di tali ingredienti è stata spesso trasformata dalla Cassazione in una “pietanza” spiacevole per i contribuenti, nella quale si sono persi totalmente il senso e il gusto del “piatto” originario. Ed infatti, in più occasioni, la Corte ha deciso fattispecie incentrate sulla tematica della gratuità/fruttuosità del mutuo verificando se, agli atti, fosse presente il bilancio della società e se quest’ultimo indicasse espressamente la non onerosità del mutuo. Peccato che, come si è visto, tale “prova contraria vincolata” sia prevista dall’art. 46 del T.U.I.R. unicamente al fine di vincere la presunzione inerente al “titolo” della dazione delle somme da parte del socio in favore della società: presunzione, questa, diversa e logicamente antecedente alla presunzione di fruttuosità del mutuo, che può invece essere vinta con prova contraria libera. Tale errore, reiterato dal giudice di legittimità, ha determinato la decisione pro Fisco di numerose controversie, nelle quali, assai spesso, non era neanche in discussione il titolo della erogazione (che le parti individuavano nel mutuo), bensì, unicamente, la fruttuosità/gratuità della stessa. Si è così susseguita una serie di pronunce che confermavano la ripresa a tassazione di presunti interessi attivi in capo al socio mutuante o la mancata applicazione di ritenute su tali interessi da parte della società finanziata, perché la gratuità del mutuo, spesso conferma45 del T.U.I.R. (“Determinazione del reddito di capitale”) stabilisce, al comma 2, che “per i capitali dati a mutuo gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto. Se le scadenze non sono pattuite per iscritto gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta. Se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale”. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità ta da altre evidenze (non ultima la contabilità del mutuante chiamato in giudizio o l’esistenza di lettere commerciali), non risultava espressamente indicata nei bilanci della società mutuataria. O, più semplicemente, perché i bilanci non risultavano prodotti agli atti, sicché non vi era prova dell’eventuale qualificazione del mutuo (4) in tali documenti. L’orientamento suindicato sembrava essere stato superato da alcune recenti pronunce che, ripristinando la corretta interpretazione dei precetti normativi che regolano la materia, riaffermavano la “libertà” di prova contraria - ex art. 1815 c.c. - rispetto alla presunzione di fruttuosità dei mutui. In particolare, la sentenza del 19 dicembre 2014, n. 27087, dopo una lunga sequenza di sentenze contrarie, riconosceva il diritto del mutuante - una società di capitali di fornire adeguata prova contraria - senza limite alcuno - della statuita gratuità del finanziamento erogato alla propria controllata. La suindicata libertà di prova contraria veniva riaffermata, poco dopo, dalla sentenza del 4 febbraio 2015, n. 1976. Partendo dal presupposto, innegabile, dell’esistenza di una presunzione di onerosità del mutuo socio/società, la sentenza osservava che la stessa “può essere superata da una specifica prova da parte del contribuente di una diversa pattuizione tra le parti, nel senso di una gratuità della prestazione”. Nessun riferimento, dunque, ad una “prova contraria vincolata” - come nei precedenti negativi già evocati - ed ai limiti così surrettiziamente imposti ai contribuenti (5). La sentenza in esame, non soltanto ripropone l’indigesta ricetta scaturita dalla non corretta mescolanza delle disposizioni sopra esaminate, ma la “radicalizza” ancor più e la fa inoltre precedere da una velenosa entrée, consistente nell’assimilazione della mancata distribuzione dei dividendi ad un finanziamento. La fattispecie decisa dalla Corte vedeva coinvolta una S.r.l. a ristretta base societaria. Dal “fatto” si evince che i due soci avevano stabilito, di comune accordo, e per un certo numero di anni, di non riscuotere l’utile prodotto affinché fosse reinvestito nella società. Le somme, dunque, restavano nella sfera sociale, senza mai entrare nella disponibilità dei soci. Nonostante non vi fosse alcuna fuoriuscita di somme dalla sfera sociale, l’Agenzia ipotizzava che il patto stipulato tra i soci dissimulasse, di fatto, un finanziamento alla società, da ritenersi - ça va sans dire - fruttifero. Per l’effetto, la società avrebbe dovuto operare delle ritenute ovviamente non effettuate - sul presunto reddito che s’ipotizzava spettante ai soci a titolo d’interessi. A quanto è dato comprendere, il giudice di secondo grado, accettata l’entrée appena descritta, aveva rimandato in cucina il piatto principale, riconoscendo che, nonostante l’astratta applicabilità al caso in esame della presunzione legale inerente al “titolo” (mutuo) e di quella inerente alla fruttuosità dello stesso, quest’ultima poteva ritenersi superata dalla considerazione che la somma non era iscritta nel bilancio della società come mutuo ricevuto dai soci; che non vi fossero esigenze finanziarie della società a corroborare la tesi dell’Ufficio; che le somme erano state effettivamente reinvestite dalla S.r.l. in obbligazioni fruttifere. Al di là dell’esistenza di forti perplessità in ordine al contenuto del motivo di ricorso proposto dall’Avvocatura (che parrebbe, a leggere la sentenza, manifestamente inconferente rispetto al contenuto della decisione di seconde cure come richiamata dalla stessa Corte), la Cassazione accoglie il suindicato ricorso e rimette le parti davanti al giudice di merito sulla base dei seguenti presupposti: i) “è regola affermata da questa Corte che i versamenti dei soci alla società si presumono onerosi, e non fa differenza che siano fatti dal socio persona fisica o dal socio imprenditore”; ii) “l’onerosità del versa- (4) Per una critica più approfondita di tale posizione giurisprudenziale, sia dato rinviare al primo scritto citato alla nota 1. (5) Sono da ascrivere al filone favorevole - perché, in negati- vo, non menzionano la necessità di opporre una “prova contraria vincolata” alla presunzione di fruttuosità del mutuo - anche Cass., 26 giugno 2015, n. 13270 e Id., 7 ottobre 2015, n. 20035. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 45 Presunzione assoluta di fruttuosità dei mutui socio/società? Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità mento è presunta: ne consegue che, in caso di mancato superamento della presunzione legale, gli interessi attivi, al pari di quelli prodotti da qualsiasi finanziamento a terzi, concorrono a formare il reddito prodotto dall’impresa (individuale o collettiva), come espressamente previsto dal D.P.R. n. 917/1986”; iii) “la presunzione di onerosità del prestito non è vincibile con ogni mezzo, ma soltanto nei modi e nelle forme tassativamente stabilite dalla legge, in particolare dimostrando che i bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società contemplavano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo (Sez. 5, n. 16445/2009)”. Come facilmente intuibile, è un crescendo ad esito del quale il contribuente viene sorpreso dall’elaborazione di un nuovo principio di diritto totalmente avulso rispetto alle poche norme che regolano la materia. La Corte conclude, infatti, che “la presunzione [di onerosità, N.d.R.] può essere vinta, come si è detto, solo in ragione di precisi elementi, ossia fornendo la dimostrazione richiesta della iscrizione in bilancio del versamento come fatta a titolo diverso dal mutuo”. La confusione, con la sentenza in commento, sembra avere raggiunto il suo punto più alto. A leggere la terza affermazione riportata (iii), ripresa anche dalla conclusione, l’onerosità del mutuo parrebbe infatti trasformarsi addirittura in una presunzione assoluta (iuris et de iure), “aggirabile” solo dimostrando che le somme stesse sono state trasferite a “titolo” diverso dal finanziamento. Poiché il “titolo” è assistito, come già indicato, da una “presunzione legale mista” (o a “prova contraria vincolata”), seguendo tale impostazione, il risultato finale è che tutti i trasferimenti di denaro da parte del socio in favore della società sarebbero da ritenersi “a titolo di mutuo” e, conseguentemente, “onerosi”, salvo che il bilancio della società che riceve il denaro non indichi che il versamento fu operato a titolo diverso dal mutuo (6) (in via meramente esemplificativa, di aumento di capitale, versamento a fondo perduto etc.). O è mutuo, o non è mutuo. Se è tale, non può che essere fruttifero (!). La sentenza cancella dunque con due affermazioni convergenti, che replicano il concetto - l’ipotesi stessa della esistenza di un mutuo non fruttifero. Niente di più lontano, dunque, dalla semplice esegesi delle norme rilevanti con la quale si è aperto il presente scritto. (6) Le diverse possibili cause giustificative del trasferimento sono dettagliatamente esaminate da Cass., n. 27087/2014, in questa Rivista, n. 4/2015, pag. 322 ss., con commento di M. Fanni. La stessa sentenza individua l’essenza del mutuo nella circostanza che il socio mutuante vanta un diritto soggettivo di credito alla restituzione della somma nei confronti della società, obbligata ad adempiere indipendentemente dalle vicende del rapporto sociale e dallo scioglimento dell’ente collettivo. 46 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Equiparazione della mancata riscossione dei dividendi a un finanziamento La sentenza, a ben vedere, contiene un altro, meno evidente, elemento di rilievo. Il casus belli non nasce, infatti, da un classico finanziamento socio-società, poiché le somme che l’Agenzia delle entrate ha ritenuto produttive di interessi a favore dei soci erano, ab origine, in possesso della società. Si trattava, infatti, di utili societari che, in base a uno specifico accordo, non erano stati riscossi dai due soci della s.r.l. a ristretta base societaria. Nella ricostruzione in “fatto”, la sentenza menziona, dapprima, la circostanza che “dal 1994 al 2000 era stato convenuto che i soci non incassassero gli utili realizzati, lasciandoli nella disponibilità della società”. Nella frase successiva si richiama la deduzione dell’Agenzia in base alla quale “la rinuncia alla riscossione degli utili costituiva per i soci un finanziamento a favore della società”. Sarebbe stato rilevante chiarire se dell’utile prodotto dalla società fosse stata, comunque, anno per anno, deliberata la distribuzione. Solo in questo caso, infatti, l’assimilazione ad un finanziamento - benché discutibile, soprattutto alla luce delle conseguenze che l’Agenzia ne fa discendere - sarebbe - a determinate condizioni - accettabile. L’idea è che le somme di cui si è deliberata la distribuzione “escano” dal patrimonio giuridico della società e che, per mezzo della temporanea rinuncia alla riscossione, vi rientrino sotto forma di finanziamento, con ac- Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità censione - in bilancio - di una voce di debito nei confronti dei soci (7). In assenza di una delibera di distribuzione, al contrario, l’ipotesi di assimilazione diventa giuridicamente insostenibile. L’utile della società resterebbe infatti tale, senza alcun mutamento della titolarità giuridica del sottostante. In quest’ultima ipotesi è impossibile ravvisare un finanziamento socio-società, poiché non si può trasferire qualcosa di cui non si dispone in senso giuridico. Laddove la decisione sia nel senso di non distribuire l’utile sociale e di reinvestirlo, i soci beneficeranno - al più - di un accrescimento del valore della società e, se l’investimento darà i suoi frutti, circostanza nient’affatto scontata, di maggiori utili futuri. Come anticipato, la Corte non chiarisce in dettaglio la ricostruzione del fatto e non consente, dunque, di valutare la legittimità delle premesse (l’entrée) di tale assimilazione. Considerazioni conclusive Si era recentemente salutato, con favore, l’apparente revirement operato dalla Corte in merito alla tematica, più volte trattata, delle presunzioni relative al titolo del trasferimento delle somme socio-società, e alla gratuità-fruttuosità dei finanziamenti tra gli stessi intercorsi. Riletto il testo delle due norme che regolano la materia - l’art. 46 del T.U.I.R. e l’art. 1815 c.c. -, il giudice di legittimità sembrava avere finalmente distinto la presunzione che necessita di una prova contraria vincolata (relativa al “titolo” di dazione delle somme) dalla presun- (7) Diverso sarebbe laddove la rinuncia fosse definitiva. In quel caso mancherebbe, infatti, l’obbligo di restituzione del tantundem e la scelta sarebbe assimilabile - a seconda delle GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 zione che, invece, è superabile con qualsiasi mezzo di prova (relativa alla fruttuosità del mutuo). La sentenza in esame non soltanto ci riporta al periodo in cui la Corte confondeva, inspiegabilmente, quale fosse il reale oggetto della prova contraria vincolata e, per contro, di quella libera, ma giunge addirittura ad affermare - in una sorta di paradosso in cui i “principi di diritto” prescindono dal diritto - che l’unico modo per dimostrare la natura gratuita del finanziamento sarebbe provare che ... non si è in presenza di un finanziamento! Tornando al lessico e all’immaginario culinario già più volte evocati nel presente scritto, la sensazione è che la Corte si comporti, a volte, come uno di quei cuochi molecolari che si compiace nel trasformare la materia prima (in specie il diritto) in qualcosa di irriconoscibile e non necessariamente migliore rispetto agli ingredienti di partenza. L’unica speranza, a questo punto, è che la pronuncia resti isolata. Che il menù, entrée compresa, non sia più riproposto e che la Cassazione - come già, peraltro, precedentemente avvenuto - recuperi il significato letterale delle norme rilevanti - l’art. 46 del T.U.I.R. e l’art. 1815 c.c. - e ne sappia riproporre il significato autentico, lasciando che siano le parti ed i giudici - secondo le prove disponibili ed il loro grado di rilevanza - a decidere se una determinata erogazione, scientemente effettuata a titolo di mutuo, debba ritenersi gratuita od onerosa, con tutti i conseguenti effetti di legge. circostanze - ad un versamento in conto capitale, a fondo perduto, ecc. 47 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Processo tributario Questioni aperte sull’impugnabilità del diniego di autotutela Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016 (6 giugno 2016), n. 16769 - Pres. Bielli - Rel. Tricomi Processo tributario - Atti impugnabili - Diniego di autotutela parziale - Impugnabilità - Sussistenza - Ragioni di rilevante interesse generale prospettate dal ricorrente - Necessità Il diniego di autotutela parziale è impugnabile, ma il relativo giudizio non riguarda la fondatezza della pretesa manifestata con l’atto impositivo divenuto definitivo (nel caso, una cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato), il cui esame deve ritenersi definitivamente precluso, quanto, piuttosto, la legittimità del rifiuto in ragione dell’esistenza di un interesse generale alla rimozione dell’atto che giustifica l’esercizio del potere di autotutela. In particolare, nel giudizio instaurato contro il diniego di sgravio in autotutela, il sindacato giurisdizionale può esercitarsi soltanto sulla legittimità del diniego stesso da parte dell’Amministrazione finanziaria, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale, che vanno specificamente prospettate dal ricorrente. Il testo della sentenza può essere richiesto a [email protected] www.edicolaprofessionale.com/gt Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez. IV, Ord. 1° luglio 2016 (5 aprile 2016), n. 454 - Pres. Marsella - Rel. Gialloreto Processo tributario - Autotutela - Istanza - Obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adozione di un provvedimento amministrativo espresso - Inesistenza - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza - Impugnabilità del silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria - Mancata previsione - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2quater, rubricato “Autotutela”, comma 1, del D.L. n. 564/1994, per contrasto con gli artt. 53, 23, 3, 24, 113 e 97 della Costituzione, nella parte in cui non prevede, né l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento amministrativo espresso sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente, né l’impugnabilità - da parte di questi - del silenzio tacito su tale istanza. È, altresì, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, rubricato “Atti impugnabili e oggetto del ricorso”, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992, per contrasto con gli artt. 24, 113, 53, 23 e 3 Cost., nella parte in cui non prevede l’impugnabilità, da parte del contribuente, del rifiuto tacito dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela proposta dal medesimo. Il testo dell’ordinanza può essere richiesto a [email protected] www.edicolaprofessionale.com/gt 48 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Incertezze sui rimedi esperibili avverso il diniego parziale e tacito di autotutela di Graziella Glendi (*) Con la sentenza n. 16769/2016, la Suprema Corte, riconoscendo l’impugnabilità del diniego parziale di autotutela, si è posta in contrasto con le precedenti pronunce che l’avevano negata. Benché la decisione in commento non ne faccia cenno, va rilevato che il legislatore, con l’art. 11 del D.Lgs. n. 159/2015, è intervenuto sull’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994, in tema di autotutela, inserendovi il comma 1-octies, secondo cui l’annullamento o la revoca parziale dell’atto impositivo disposti in autotutela non sono impugnabili. Inoltre, con l’ordinanza n. 454/2016, la Commissione tributaria provinciale di Chieti ha sollevato questione di legittimità costituzionale del suddetto art. 2-quater, nella parte in cui non prevede l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento espresso, a fronte dell’istanza di autotutela presentata dal contribuente, oltre che del medesimo articolo, unitamente all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in cui essi non prevedono l’impugnabilità del diniego tacito. Permangono, dunque, incertezze in materia, sia con riguardo all’impugnativa del diniego parziale, sia con riguardo all’impugnabilità del diniego di autotutela in generale. Il primo riconoscimento dell’impugnabilità del diniego di autotutela L’itinerario seguito nell’ultimo decennio dalla Suprema Corte sulla questione dell’autonoma impugnabilità o meno del provvedimento di diniego di autotutela in materia tributaria è piuttosto singolare e merita di essere ripercorso, sia per il corollario cui ha dato origine, costituito dalla creazione della categoria degli atti autonomamente impugnabili in via facoltativa, sia per l’individuazione dell’effettiva tutela che il contribuente si possa vedere riconosciuta dall’affermata impugnabilità, alla luce dei principi costituzionali di effettività e proporzionalità del prelievo fiscale, di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, oltre che del diritto di difesa del cittadino. Tenuto conto, sotto quest’ultimo profilo, che, ora, il legislatore delegato, con l’art. 11 del D.Lgs. n. 159/2015, si è chiaramente manifestato per la non impugnabilità dei provvedimenti di annullamento o revoca parziali dell’atto impositivo adottati in autotutela. All’inizio di questo iter evolutivo sta la sentenza, a Sezioni Unite, del 10 agosto 2005, n. 16776 (1), con la quale la Suprema Corte aveva riconosciuto la giurisdizione del giudice tributario anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il diniego, espresso o tacito, dell’Amministrazione di procedere ad autotutela. A fondamento di detta statuizione, le Sezioni Unite avevano assunto che la riforma del 2001, sull’allargamento della giurisdizione tributaria di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 (2), avrebbe “necessariamente comportato” una modifica della lettura dell’art. 19 del medesimo Decreto legislativo, in quanto l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario per ogni controversia avente ad oggetto tributi, avrebbe consentito una interpretazione estensiva dell’elencazione in esso contenuta, proprio al fine di individuare altri atti che il contribuente avrebbe avuto interesse a contestare ai sensi dell’art. 100 c.p.c. (*) Avvocato in Genova (1) Pubblicata in questa Rivista, n. 11/2005, pag. 1005, con commento di F. Cerioni, “Procedimento di autotutela, dovere di riesame e tutela giurisdizionale in ambito tributario”, e in Rass. giur., n. 5/2005, pag. 1732, con nota di S. Donatelli, “Osservazioni critiche in tema di ammissibilità dell’impugnazione del diniego di autotutela innanzi le Commissioni tributarie”. (2) Generalizzazione della giurisdizione tributaria a tutti i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati, effettuata con la modifica dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, tramite l’art. 12, comma 2, della Legge n. 448/2001, e, poi, completata con la Legge n. 248/2005. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 49 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Nonostante sia evidente, come da più Autori rilevato (3), che la questione della giurisdizione, finalizzata a delimitare i confini di operatività della materia tributaria, rispetto a quella amministrativa e ordinaria, fosse, e tutt’ora sia, ben diversa dalla questione relativa alla modalità di accesso al giudice, all’interno della giurisdizione tributaria, strutturata, con l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, tramite la predeterminazione normativa di atti di cui il legislatore si era riservato la valutazione della sussistenza dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., questa decisione delle Sezioni Unite, come è noto, aveva fornito lo spunto per quella che è l’ormai consolidata prospettazione giurisprudenziale di una nuova singolare categoria di atti autonomamente impugnabili, ossia degli atti impugnabili in via facoltativa (4). Per quanto riguarda specificamente l’autotutela, le Sezioni Unite, con la successiva sentenza 27 marzo 2007, n. 7388 (5), avevano riconfermato la giurisdizione del giudice tributario, piuttosto che del giudice amministrativo, allorquando si trattasse di tributi, evidenziando, comunque, come il sindacato sul provvedimento di rigetto in autotutela dovesse riguardare esclusivamente la verifica del corretto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione, nei limiti e nei modi in cui è consentita, non potendo mai il giudice sostituirsi all’Amministrazione medesima, emettendo esso stesso l’atto di autotutela. Si aggiungeva, inoltre, che, qualora il giudice avesse verificato l’illegittimità del rifiuto, confermativo dell’originaria pretesa, l’Amministrazione avrebbe dovuto adeguarvisi e, in difetto, il ricorrente avrebbe potuto esperire il rimedio dell’ottemperanza. Va, peraltro, sottolineato come l’affermata sindaca- bilità e, conseguente, possibile annullamento del diniego di autotutela fossero stati ricostruiti a fronte di un provvedimento espresso. Inoltre, non veniva chiarito, dandolo, piuttosto, per scontato, in quale modo detto atto potesse essere inserito nell’elencazione contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992. Poiché, peraltro, la ricostruzione della categoria degli atti facoltativamente impugnabili era stata definita solo a far data dalla sentenza della Suprema Corte dell’8 ottobre 2007, n. 21045 (6), il sindacato sul provvedimento di diniego di autotutela, riconosciuto mesi prima, non poteva che leggersi nel senso di sindacato su atto impugnabile tipico. A tale proposito, va evidenziato come, in effetti, il provvedimento di diniego di autotutela non abbia nulla a che fare con gli atti autonomamente impugnabili in via facoltativa. Questi ultimi, come ricostruiti dalla Suprema Corte, sono, infatti, caratterizzati dalla circostanza di manifestare al contribuente una ben individuata pretesa tributaria, per cui, secondo la valutazione fattane dal giudice, sorge nel destinatario, fin dal momento della recezione della notizia, l’interesse ex art. 100 c.p.c. a ricorrere in giudizio, senza che sia necessario attendere che la pretesa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti espressamente dichiarati impugnabili dal legislatore. Trattandosi, sempre a dire della Suprema Corte, di una previsione di impugnabilità a favore del contribuente, il mancato esercizio di detta facoltà non dà luogo a preclusione alcuna, per cui il contribuente potrà pur sempre sindacare l’atto autoritativo tipico, di cui quello atipico aveva preannunciato la pretesa, una volta che gli venga notificato. (3) Si rinvia, in proposito, alle pregnanti osservazioni di L. Ferlazzo Natoli, “Considerazioni critiche sull’impugnazione facoltativa”, Postilla allo scritto di G. Ingrao, “Prime riflessioni sull’impugnazione facoltativa nel processo tributario (a proposito di impugnabilità di avvisi di pagamento, comunicazioni di irregolarità, preavvisi di fermo di beni immobili e fatture)”, in Riv. dir. trib., n. 12/2007, segnatamente, a pag. 1114, nonché a C. Glendi, “Impugnazione del diniego di autotutela e oggetto del processo tributario”, in questa Rivista, n. 6/2009, pag. 473. (4) Sulla genesi e sui limiti della ricostruzione della categoria degli atti facoltativamente impugnabili, si rimanda a G. Glendi, “I giudici di merito (e non solo) si ‘ribellano’ alle ‘ultime parole’ delle Sezioni Unite sul contraddittorio”, in Corr. Trib., n. 20/2016, in particolare, alle pagg. 1573 e 1574. (5) Pubblicata in questa Rivista, n. 6/2007, pag. 479, con il commento di A. Vozza, “Il diniego di autotutela può impugnarsi solo per eventi sorti dopo la notifica dell’atto impositivo”, in Giur. it., n. 12/2007, pag. 2883, con nota di M. Turchi, “La problematica impugnabilità del diniego di autotutela in materia tributaria nuovamente all’esame delle Sezioni Unite”, e in Boll. trib., n. 14/2007, pag. 1223, con il commento di F. Cerioni, “Il sindacato sulla legittimità del diniego di autotutela spetta sempre ai giudici tributari”. (6) In questa Rivista, n. 6/2008, pag. 507, con nota critica di G. Tabet, “Verso la fine del principio di tipicità degli atti impugnabili?”. 50 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Il provvedimento di diniego di autotutela, al contrario, non anticipa nulla, ma, anzi, segue la manifestazione della pretesa, già realizzata attraverso la notifica dell’atto impositivo tipico, limitandosi a confermarla, in tutto o in parte, sicché, se sindacabile davanti al giudice, non può che venire inquadrato quale atto impugnabile tipico, non essendo prospettabile altro rimedio alla sua eliminazione. Come rilevato in dottrina, la collocazione nell’ambito dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 poteva, dunque, essere ricondotta alla previsione della lett. i), riguardante “ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle Commissioni tributarie”, traendo dalla disciplina in tema di autotutela tributaria, ovvero dall’art. 2-quater, in particolare, al comma 1-quinquies, del D.L. n. 564/1994, e dalle disposizioni del D.M. n. 37/1997, elementi atti ad indicare una voluntas legis in tal senso (7). Di seguito, nel 2009, sono intervenute altre tre pronunce delle Sezioni Unite, la n. 2870 (8), la n. 3698, e la n. 9669 (9), ingenerando un certo contrasto interpretativo. Pur ribadendo la giurisdizione del giudice tributario, infatti, le prime due avevano ritenuto non esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale nei riguardi del diniego di autotutela, sia per la discrezionalità propria di questa attività, sia perché, diversamente opinando, si sarebbe dato ingresso ad un riesame sulla legittimità di un atto impositivo divenuto definitivo. La terza, invece, aveva dichiarato improponibile la domanda, solo perché il ricorrente non aveva dedotto vizi di legittimità del diniego, ma si era limitato a chiedere l’annullamento degli atti impositivi non impugnati, allineandosi, dunque, al già esaminato percorso intrapreso dalle Sezioni Unite sulla sindacabilità davanti al giudice del diniego di autotutela, tuttavia, esclusivamente circoscritta al profilo della sua legittimità, con riguardo all’interesse pubblico all’annullamento. Quindi, la giurisprudenza della Suprema Corte si era assestata su questa via, ritenendo sindacabile il diniego di autotutela, nei precisi limiti di una censura di profili di illegittimità del diniego stesso, anche in caso di inerzia (10), senza che sia consentito al giudice scendere all’esame del merito sulla fondatezza della pretesa azionata, posto che il giudice non può sostituirsi all’Amministrazione finanziaria nell’esercizio del potere di autotutela, rendendo, così, di fatto, detto strumento scarsamente efficace con riguardo all’atto impositivo in cui la pretesa si era estrinsecata (11). (7) V., al riguardo, C. Glendi, Impugnazione del diniego di autotutela e oggetto del processo tributario, loc. cit., pagg. 476 e 477, e, adesivamente, F. Cerioni, “L’autotutela tra ‘diritto morente’ e ‘diritto vivente”, in questa Rivista, n. 7/2009, alla pag. 592. (8) Pubblicata in questa Rivista, n. 6/2009, pag. 501, con il commento di F. Cerioni, “Il sindacato sull’esercizio del potere di autotutela non può avere effetti sull’atto impositivo divenuto definitivo”, in Corr. Trib., n. 15/2009, pag. 1230, con nota di M. Basilavecchia, “Torna l’incertezza sul diniego di autotutela”; in Dialoghi Trib., n. 2/2009, pag. 154, ed ivi i commenti di R. Lupi, “Autotutela: una motivazione sconcertante per una soluzione corretta” e di D. Stevanato, “Definitività dell’atto impositivo e insindacabilità del potere di autotutela: un nuovo Leviatano?”, nonché in Boll. trib., n. 7/2009, pag. 547, con nota di S. Muscarà, “La Cassazione chiude (apparentemente) le porte alla tutela giurisdizionale in tema di diniego di autotutela”. Va sottolineato che, nella specie, si trattava di diniego di autotutela relativamente ad atto di accertamento impugnato tramite ricorso dichiarato inammissibile dal giudice, con sentenza passata in giudicato, e le Sezioni Unite non avevano considerato che il limite del giudicato, ai fini di escludere l’operatività dell’autotutela, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del D.M. n. 37/1997, è costituito solo dal giudicato sul merito, e non in rito. Il dettato del comma 2, infatti, fa preciso riferimento ai “motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione”, che sottendono, appunto, l’esame del merito da parte del giudice. In tal senso si è chiaramente pronunciata la stessa Amministrazione, con le circolari n. 195/E/1997 e n. 198/S/1998, oltre che la Direzione regionale Entrate della Lombardia, con la nota n. 3/82993/1999, e la Direzione regionale della Toscana, con la Direttiva prot. 72483/99/T1/2000. (9) In G.T. - Riv. giur trib., n. 7/2009, pag. 585, con il commento di F. Cerioni, “L’autotutela tra ‘diritto morente’ e ‘diritto vivente’”, cit. (10) Cass.., Sez. trib., 29 dicembre 2010, n. 26313, per l’appunto, in caso di mancata risposta dell’Amministrazione, come, più di recente, ribadito da Id., 30 ottobre 2015, n. 22253, che ha precisato come l’impugnabilità del diniego di autotutela davanti alle Commissioni tributarie riguardi anche l’eventuale silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza. (11) Va ricordata, in proposito, anche la funzione del Garante del contribuente, che, ai sensi dell’art. 13, comma 6, dello Statuto dei diritti del contribuente, può attivare le procedure di autotutela. Anche questa attribuzione, però, si risolve in un mero invito, non potendo il Garante emettere atti di autotutela in sostituzione dell’ente, come ben rimarcato da S. Capolupo, “Garante del contribuente ed atti degli enti locali”, in il fisco, n. 23/2005, pag. 3467. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 51 L’ambito e i limiti del sindacato sul diniego di autotutela Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Da ultimo, la Suprema Corte si è discostata da questa via e ha intrapreso nuovi itinerari. In particolare, con la sentenza 8 luglio 2015, n. 14243, la Corte di cassazione ha introdotto una prospettazione diversa per ammettere l’impugnabilità del rifiuto di autotutela, fondata sulla pronuncia delle Sezioni Unite n. 1667/2005, che, come sopra si è visto, rappresenta il punto di partenza, sia per il consentito accesso al sindacato del diniego di autotutela davanti al giudice tributario, sia per la ricostruzione della categoria degli atti facoltativamente impugnabili. Si è, infatti, affermato che, in caso di annullamento parziale in autotutela di un atto impositivo, non può essere negato al contribuente di impugnare il diniego, “privandosi altrimenti il contribuente della possibilità di difesa relativamente a tale atto, ancorché riduttivo dell’originaria pretesa”, proprio in forza della “possibilità” di ricorrere avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore “contenenti la manifestazione di una compiuta e definita pretesa tributaria, come nel caso di provvedimento di autotutela”, quali, appunto, sono gli atti facoltativamente impugnabili. Con questa decisione sembrerebbe, allora, che anche il diniego parziale di autotutela venga ricondotto ad atto facoltativamente impugnabile. Tuttavia, la stessa Suprema Corte, allorquando ha riconosciuto, per rafforzarne la ritenuta impugnabilità, che a detto provvedimento non consegue altro atto impositivo, avverso cui il contribuente possa far valere le sue ragioni, pare mostrare una certa confusione circa il discrimen tra gli atti autonomamente impugnabili tipici e quelli in via facoltativa. Infatti, questi ultimi sono, piuttosto, anticipatori della pretesa che verrà, poi, rivestita dell’assetto autoritativo tipico, mentre quelli che, se non impugnati, diventano definitivi, senza che il destinatario possa più esperire alcun rimedio, sono soltanto i primi. Il prospettato inserimento del diniego di autotutela parziale nella categoria degli atti facoltativamente impugnabili, in ragione dell’asserita manifestazione compiuta e definita della pretesa impositiva per la parte che viene confermata, ha, quindi, provocato un ulteriore orientamento, questa volta di segno restrittivo, in termini di non impugnabilità. Con le sentenze 15 aprile 2016, n. 7511 (15) e 6 luglio 2016, n. 13757, infatti, la Corte di cassazione, richiamandosi all’orientamento espresso con le decisioni delle Sezioni Unite n. 2870/2009 e n. 3698/2009, che, come detto, (12) V., in tal senso, Comm. trib. prov. di Savona, Sez. IV, 20 gennaio 2009, n. 4, in questa Rivista, n. 7/2009, pag. 586, con nota di F. Cerioni, “L’autotutela tra ‘diritto morente’ e ‘diritto vivente’“, cit., loc. cit.; Id., Sez. II, 13 giugno 2011, n. 114; Id., Sez. V, 23 marzo 2012, n. 30; Comm. trib. prov. di Taranto, Sez. VI, 25 marzo 2009, n. 144; Comm. trib. II grado TrentinoAlto Adige, Sez. I, 26 febbraio 2015, n. 34; Comm. trib. reg. Sicilia, Sez. XVII, 15 luglio 2015, n. 3177, nella quale si individua specificamente in che termini l’Amministrazione avrebbe dovuto provvedere. (13) Comm. trib. reg. Puglia, Sez. VII, 11 gennaio 2011, n. 11; Comm. trib. prov. di Campobasso, Sez. I, 16 giugno 2014, n. 195; Comm. trib. reg. Lombardia, Sez. XXXVIII, 19 maggio 2015, n. 2088. (14) Cass., Sez. III civ., 3 marzo 2011, n. 5120, in questa Rivista, n. 5/2011, pag. 392, con nota di A. Marcheselli, “Il Fisco che non ritiri in autotutela gli atti illegittimi risarcisce i danni davanti al giudice tributario?”. (15) Pubblicata in il fisco, n. 20/2016, pag. 1978, con commento di A. Borgoglio. 52 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Per parte loro, i giudici tributari di merito avevano tentato di trovare una soluzione operativa a tutela del contribuente, facendo derivare, come conseguenza dell’annullamento del diniego, in presenza di accertati vizi di legittimità, quali, ad esempio, quelli elencati all’art. 2, comma 1, del D.M. n. 37/1997, l’obbligo dell’Amministrazione di riesaminare la richiesta e le ragioni addotte dal contribuente a sostegno dell’istanza (12). Inoltre, sotto diverso profilo, alcune Commissioni tributarie avevano pronunciato la condanna dell’Amministrazione, non solo alle spese di lite, ma al risarcimento ex art. 96, comma 3, c.p.c. (13), mentre alcuni giudici ordinari si erano indotti a disporre il risarcimento dei danni (14), allorquando l’operato dell’ente impositore si era dispiegato in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buon andamento, come, per l’appunto, in caso di ingiustificato ritardo nell’accoglimento dell’istanza e nell’emissione del provvedimento di sgravio. L'inconfigurabilità del diniego di autotutela quale atto facoltativamente impugnabile Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità era stato precedentemente abbandonato, a favore del riconoscimento di una sindacabilità esclusivamente circoscritta al profilo della legittimità del diniego di autotutela, nettamente separato dal merito dell’imposizione, ha espressamente disatteso le conclusioni cui la sentenza n. 14243/2015 era pervenuta focalizzandosi, invece, sulla manifestazione della pretesa. Si è, infatti, rilevato che, in caso di annullamento parziale in autotutela, non vi è manifestazione di alcuna nuova diversa pretesa lesiva degli interessi del contribuente, rispetto a quella già esternata con l’atto autoritativo tipico divenuto definitivo, tale da legittimare l’impugnazione davanti al giudice, essendo stata, anzi, ridotta quella originaria, mentre questo potrebbe verificarsi solo se la pretesa fosse stata accresciuta. Come appare evidente, la ritenuta non impugnabilità del diniego parziale discende, allora, direttamente dall’errata prospettazione dell’impugnazione del diniego in termini di atto facoltativamente impugnabile, ad ulteriore riprova di come questa categoria di atti, elaborata dalla Suprema Corte, sia foriera di ingenerare confusione ed incertezze. Naturalmente, se, invece, il provvedimento di diniego di autotutela viene inquadrato quale atto impugnabile ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, e, segnatamente, nell’ambito della lett. i), in ragione delle disposizioni normative che disciplinano il relativo potere, è del tutto irrilevante che vi sia conferma o meno di parte dell’originaria pretesa, perché quello che rileva, ai fini dell’impugnabilità, sono i vizi relativi all’esercizio di detto potere, che possono ben sussistere, tanto nel caso di diniego totale, quanto nell’ipotesi di diniego parziale. In altri termini, per configurare l’impugnabilità di un diniego dell’Amministrazione di annullare totalmente o parzialmente l’atto impositivo, occorre svincolarsi radicalmente dal sindacato sulla pretesa, che, secondo la Corte di cassazione, giustificherebbe la “facoltà” di impugnare, perché esso, o è riservato al giudizio instaurato avverso l’atto impositivo che l’Amministrazione rifiuti di annullare, o è irrimediabilmente precluso dalla sua subentrata definitività. Con la sentenza in commento, la Suprema Corte è, dunque, ritornata sui suoi passi. Infatti, verificato che il ricorrente aveva impugnato il provvedimento di annullamento parziale della cartella di pagamento, ha cassato la sentenza impugnata perché il giudice di merito non aveva statuito sul provvedimento di diniego, ma era andato ad esaminare il contenuto della richiesta azionata con la cartella di pagamento, valutandone l’infondatezza e pronunciando il diritto allo sgravio totale. Nel contempo la Corte di cassazione ha ribadito l’impugnabilità del diniego parziale sotto il profilo dell’illegittimità del rifiuto, in relazione a rilevanti ragioni di interesse generale alla rimozione dell’atto, che, ai sensi dell’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994, e delle disposizioni del D.M. n. 37/1997, giustificano l’annullamento in autotutela e vanno specificamente prospettate dal ricorrente. Quindi, l’approdo del giudice di legittimità parrebbe, allo stato, quello dell’impugnabilità del diniego di autotutela, sia pure parziale, quale atto impugnabile tipico, nei limiti sopra visti. (16) Il comma 1-quinquies dell’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994 statuisce che la sospensione degli effetti dell’atto impositivo, disposta dall’Amministrazione, nell’esercizio del potere di autotutela, prima della scadenza dei termini per la GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 53 L’intervento del legislatore Sta di fatto che, nel frattempo, è intervenuto il legislatore, il quale, con l’art. 11 del D.Lgs. n. 159/2015, ha aggiunto, all’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994, i commi da 1-sexies a 1-octies, disponendo, con quest’ultimo comma, che “l’annullamento o la revoca parziali non sono impugnabili autonomamente”. Nella Relazione illustrativa si legge che detta previsione deriva dal fatto che l’autotutela parziale costituisce “una rettifica dell’originaria pretesa impositiva” e non si estrinseca, quindi, in un nuovo atto, sostitutivo del precedente annullato, che, invece, risulta impugnabile ai sensi del comma 1-quinquies del medesimo articolo (16). Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Ad un primo esame sorgono diverse questioni. In primo luogo, quale significato dare al fatto che il legislatore menziona solo il diniego parziale e non il diniego tout court, ai fini di escluderne l’impugnabilità? Sicuramente il comma 1-octies va letto in collegamento con i due precedenti, che riguardano la possibilità di definizione agevolata delle sanzioni, proprio in caso di annullamento o revoca parziali dell’atto impositivo, intervenuti quando è pendente il relativo giudizio (17). Tuttavia, se non è ammissibile ricorrere avverso il diniego parziale, in quanto, a differenza dell’autotutela sostitutiva, non vi è alcun nuovo atto, ma la mera parziale conferma di quello già impugnato, o di cui non è ancora scaduto il termine (18), evidentemente, ne deriva che non è ammissibile neppure l’impugnazione avverso il diniego totale di annullamento, perché interamente confermativo dell’atto originario. Inoltre, va evidenziato come, a differenza del precedente comma 1-septies, il comma 1-octies, nell’escludere l’impugnabilità del diniego parziale, non richiama specificatamente la disciplina agevolativa di cui al comma 1-sexies, che, come detto, riguarda l’ipotesi che sia stato proposto ricorso avverso l’atto impositivo o sia possibile proporlo, per cui pare ricomprendere anche il caso in cui il ricorso non sia stato proposto nel termine, e, in definitiva, escludere in radice questo provvedimento dal novero degli atti impugnabili. In secondo luogo, si osserva che, spesso, non è così evidente, proprio in caso di annullamento parziale, individuare quando si tratti di mera rettifica di parte dell’atto o, invece, di una nuova valutazione, che si estrinseca in un nuovo atto, sostitutivo di quello originario, viceversa, impugnabile ai sensi del comma 1 quinquies dell’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994. Tanto è vero che, nella fattispecie esaminata dalla sentenza della Suprema Corte in commento, il giudice di merito aveva ritenuto che il diniego parziale di sgravio della cartella fosse “frutto di una attività cognitiva nuova posta in essere dall’Amministrazione ed intesa a rivalutare gli elementi di fatto e di diritto che avevano dato origine all’emissione dell’atto” (19). Come visto, però, per la giurisprudenza della Suprema Corte, da ultimo confermata con la sentenza in esame, l’impugnabilità del diniego di autotutela non si fonda sul fatto che l’Amministrazione abbia o meno effettuato una nuova valutazione, ovvero, se si sia trattato di una nuova manifestazione di pretesa, piuttosto che di mera rettifica, totale o parziale, di quella già manifestata, bensì sulla sussistenza, e relativa sindacabilità, dei vizi di legittimità del diniego stesso. Sorge, quindi, il dubbio se sia conforme al dettato costituzionale una norma che sottragga al controllo giurisdizionale l’operato dell’Amministrazione, anche solo sotto il limitato profilo della sua legittimità, con riguardo alle disposizioni che ne regolano l’esercizio, e in ragione di un interesse generale alla rimozione dell’atto, in riferimento ai parametri degli art. 3, 53, 97 e 24 e 113 della Costituzione. Soprattutto quando gli artt. 21-octies e 21-nonies della Legge n. 241/1990, prevedono, per i provvedimen- proposizione del ricorso, cessa con l’esercizio della c.d. autotutela sostitutiva, che si estrinseca tramite la notificazione da parte dello stesso ente di un nuovo atto, modificativo o confermativo di quello sospeso, che il contribuente può impugnare, come può impugnare quello originario, unitamente al nuovo. (17) Su cui v., per un primo commento, P. Stella Manfredini, “Autotutela, annullamento parziale e definizione delle sanzioni”, in il fisco, n. 39/2016, pag. 3757. (18) Come ritenuto al punto 19.2.1. della circolare n. 12/E/2016. (19) Anche nel caso sia notificato un nuovo atto, secondo la Suprema Corte, non si è sempre in presenza di autotutela sostitutiva, occorrendo verificare se l’Amministrazione, con quell’atto, non si sia, piuttosto, limitata ad una mera rettifica parziale dell’originaria pretesa. In tal senso si è, infatti, pronunciata la Corte di cassazione, Sez. VI, con la sentenza 8 giugno 2016, n. 11699, disattendendo la censura del contribuente circa la sopravvenuta decadenza dell’Agenzia delle entrate dal potere impositivo, posto che, mentre la notifica del nuovo atto di autotutela sostitutiva deve intervenire entro detto termine, questo non vale per il caso di mera parziale conferma dell’originaria pretesa. Si segnala, in proposito, che secondo la Comm. trib. prov. di Arezzo, 31 marzo 2016, n. 89, vi sarebbe sempre un obbligo dell’Amministrazione di rinotificare l’atto contenete l’intimazione ad adempiere per le somme mantenute in autotutela parziale. Vedila, in il fisco, n. 28/2016, pag. 2784, con commento favorevole di A. Giovannini, pur rilevando l’A. che la decisione non ha tenuto conto delle modifiche apportate all’art. 29, comma 1, lett. a), del D.L. n. 78/2010, con l’art. 7, comma 2, del D.L. n. 70/2011, e in questa Rivista, n. 12/2016, pag. 991, con nota di M. Bruzzone, “Atto impoesattivo ‘secondario’, affidamento in carico e intimazione di pagamento: profili differenziali”, che fa discendere la necessità di notifica dell’atto rideterminativo proprio dall’introdotta non impugnabilità del diniego di autotutela parziale. 54 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità ti amministrativi, l’annullamento, anche d’ufficio, quando siano stati adottati in violazione di legge, o viziati per eccesso di potere o da incompetenza, sussistendone le ragioni di interesse pubblico. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla CTP di Chieti Questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994 e dell’art 19 del D.Lgs. n. 546/1992, sono state, dunque, sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti con l’ordinanza in commento, pur non attenendo direttamente all’impugnabilità del diniego parziale di autotutela, come ora escluso dalla norma, ma al profilo della mancata previsione in capo all’Amministrazione di un obbligo di risposta all’istanza di autotutela e a quello della mancata previsione dell’impugnabilità del diniego tacito. Quanto al primo aspetto, va ricordato come la giurisprudenza del Consiglio di Stato sia ferma nell’escludere qualsivoglia obbligo dell’Amministrazione di attivarsi e riconoscere la sussistenza o meno di un interesse pubblico che giustifichi la rimozione in autotutela di un atto, trattandosi di un potere tipicamente discrezionale (20). Va, però, altresì, ricordato come, in ambito tributario, fin dalla primissima vigenza delle regole sull’autotutela, di cui al D.M. n. 37/1997, il Ministero delle Finanze, con la circolare 5 agosto 1998, n. 198/S, avesse sollecitato gli Uffici a procedere effettivamente nell’esame delle doglianze dei contribuenti, affermando che, “se, a seguito di tale verifica la pretesa tributaria risulta infondata in tutto o in parte, essa va ritirata, ovvero opportunamente ridotta”. Pur rimarcandosi che l’Amministrazione ha il pote(20) Tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, n. 4308/2010; Id., Sez. V, n. 5199/2012. (21) La già citata Direttiva prot. 72483/00/T1/2000 della DRE Toscana parla, infatti, di “potere-dovere” dell’Amministrazione all’esercizio dell’autotutela. (22) Pubblicata in questa Rivista, n. 10/2012, pag. 777, con nota di R. Baboro, “La responsabilità aquiliana dell’A.F. in caso di mancato o ritardato esercizio dell’autotutela che abbia arrecato danno al contribuente”. Nel caso, il risarcimento non era stato riconosciuto per mancanza di prova del danno. Aggiungesi che la già menzionata Comm. trib. di II grado Trentino-Al- GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 re, ma non il dovere giuridico, di ritirare l’atto viziato, si aggiungeva che “l’Ufficio stesso non possiede un potere discrezionale di decidere a suo piacimento se correggere o meno i propri errori”, con rilevanti effetti, in caso contrario, quali la condanna alle spese, se l’atto è sub iudice, e la valutazione dell’attività del funzionario, ai fini di una sua responsabilità disciplinare e professionale (21). La Suprema Corte, poi, con diverse decisioni, pubblicate il 20 aprile 2012, numerate da 6283 (22) a 6292, aveva affermato che non può ritenersi “il carattere facoltativo dello sgravio in sede di autotutela”, perché in contrasto con il “dovere della PA di conformarsi alle regole di imparzialità e, correttezza e buona amministrazione”, riconoscendo la risarcibilità del danno a carico dell’Amministrazione finanziaria, quando dette regole abbia disatteso. Quanto al secondo profilo, invece, va osservato che, a parte la posizione assunta nella sentenza n. 21045/2007, la Suprema Corte, in altre decisioni, anche recenti (23), non ha affatto escluso l’impugnabilità del silenzio-rifiuto, in contrapposizione al diniego espresso, come interpretativamente desumibile ai sensi dell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, che, per altra tipologia di atti impugnabili, la prevede espressamente. Il problema è, se mai, individuare quale sia il vizio di legittimità del silenzio, che, a ben vedere, in tema di autotutela, non può risolversi in altro che nel silenzio stesso, non apparendo conforme ad un buon andamento dell’Amministrazione quello di ignorare l’istanza del contribuente, come evidenziato, sia nella circolare n. 198/S/1998, che nelle summenzionate pronunce della Suprema Corte del 2012. to Adige, n. 34/2015, significativamente ricordando, sia la circolare n. 198/1998, che l’orientamento della Suprema Corte, sulla riconoscibilità di risarcimento danni a carico dell’Amministrazione, quando non si sia attenuta alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, costituzionalmente garantite, aveva annullato il diniego di autotutela, ritenendole, nel caso, non osservate, proprio perché era “configurabile una indubbia lesione dei surrichiamati principi di livello costituzionale”. (23) Sopra ricordate a nota 10. 55 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Se così è, dunque, appare senz’altro interessante e rilevante la prima questione di costituzionalità, circa un qualche obbligo, sotto questo profilo, dell’Amministrazione di fornire la risposta (24). Considerazioni conclusive La Commissione tributaria di Chieti, nella sua ordinanza, mostra, invero, di aver chiara la differenza tra la problematica dell’impugnabilità del silenzio-rifiuto e la diversa, e inconferente, questione della non impugnabilità dell’atto impositivo divenuto definitivo, su cui è ormai preclusa la riapertura del giudizio, aderendo, quindi, alla prospettazione dell’impugnabilità solo sotto la limitata angolatura del vizio di legittimità del silenzio, in riferimento ai parametri normativi propri dell’autotutela tributaria. Tuttavia, l’intervento del legislatore, allorché ha disposto la non impugnabilità del diniego parziale, quindi, espresso, in quanto mera rettifica dell’atto originario, che, per una parte, viene confermato, escludendola tout court, anche in riferimento ad eventuali vizi di legittimità, sembra rilevare anche con riguardo alla stessa impugnabilità del silenzio, che si risolve pur sempre in conferma totale dell’atto. (24) Come rimarcato da C. Glendi, Impugnazione del diniego di autotutela e oggetto del processo tributario, cit., loc. cit., pagg. 477 e 478, nel diritto tributario, il legislatore ha vincolato l’esercizio del potere di autotutela, con l’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994 e con le disposizioni del D.M. n. 37/1997, “ad una serie di parametri predeterminati che ne veicolano l’esercizio lungo un percorso ormai largamente condizionato”, sicché il margine di discrezionalità in capo all’Amministrazione non deve superare il rigoroso rispetto di detti parametri. Ne consegue che, se vengono disattesi, pare non potersi negare la possibilità di un controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’autotutela, come ora, invece, disposto dal comma 1-octies del medesimo art. 2-quater, pena la lesione dei principi costituzionali di effettività e proporzionalità del prelievo fiscale, del buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, e del diritto di difesa del cittadino. A maggior ragione in caso di silenzio, che, di per sé, impedisce il controllo a che i parametri normativi vengano rispettati, e, pertanto, costituisce esso stesso un comportamento dell’Amministrazione ad essi contrario. Va, al proposito, sot- 56 Pertanto, il vero, e principale, dato normativo da sindacare sotto il profilo di non conformità al dettato costituzionale pare proprio quello introdotto dal comma 1-octies dell’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994, di cui, peraltro, la stessa ordinanza di rimessione fa menzione, pur non sollevando specifiche considerazioni in proposito. Certo è, che, comunque, se anche la Corte costituzionale si pronunciasse in senso favorevole alla prospettazione dell’impugnabilità del diniego di autotutela, nei limiti di un esame sui profili di illegittimità dell’operato dell’Amministrazione, rispetto alle regole normativamente imposte per l’esercizio di detto potere, il risultato pratico per il contribuente rimane oltremodo limitato. Infatti, non vi è dubbio che l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Ufficio non sia un mezzo di tutela per il contribuente, sicché, alla fine, la pronuncia del giudice di annullamento del diniego, totale o parziale, espresso o tacito, che sia, non costituendo pronuncia di condanna, suscettibile del giudizio di ottemperanza, sarà solo utile presupposto per azionare una domanda di risarcimento danni, qualora l’Amministrazione non intenda tenerne conto. tolineato che già il legislatore si è in qualche modo indirizzato in tal senso, facendo conseguire al silenzio da parte dell’ente creditore sulla richiesta di cui al procedimento previsto dai commi 537-544 dell’art. 1, Legge n. 228/2012, l’annullamento delle somme iscritte a ruolo o affidate, nei rigorosi limiti delle ragioni previste dal comma 538, come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. a), n. 2, del D.Lgs. n. 159/2015. Nel senso di un vero e proprio obbligo dell’Amministrazione finanziaria di rispondere, stante la specifica disciplina sull’autotutela in ambito tributario, oltre che alla luce dei canoni desumibili dall’art. 2 della Legge n. 241/1990, sul dovere di fornire riscontro motivato alle istanze, v. F. Tundo, “L’Amministrazione finanziaria non può trincerarsi nel silenzio in caso di istanza di autotutela”, in Corr. Trib., n. 16/2012, segnatamente alle pagg. 1211 - 1214, nonché S. Muscarà, “Gli inusuali ambiti dell’autotutela in materia tributaria”, in Riv. dir. trib., I, 2005, pag. 93 e F. Tesauro “Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente”, in Giust. trib., 2008, pag. 17. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 L’AGGIORNAMENTO DIGITALE TI CAMBIA LA VITA UNA SOLA RICERCA, TUTTE LE RISPOSTE Sempre aggiornato con le notizie del giorno, l’anteprima dell’ultimo fascicolo chiuso in redazione, l’archivio storico degli articoli pubblicati nel corso degli anni. 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Puoi navigare tra gli articoli di oltre 70 riviste IPSOA, CEDAM, UTET Giuridica e il fisco e le news di IPSOA Quotidiano. 188310 Oltre 70 riviste Wolters Kluwer sempre con te Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Agevolazioni Incentivi occupazionali: recupero “lungo” per crediti frazionati Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016 (7 luglio 2016), n. 15190 - Pres. Salvago - Rel. Zoso Agevolazioni - Crediti d’imposta - Incentivi per gli investimenti in aree svantaggiate - Recupero di crediti opposti in compensazione inesistenti - Avviso di recupero - Ammissibilità - Scadenza del termine in relazione a periodi pregressi - Irrilevanza L’avviso di recupero, da emanarsi entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (termine prorogato ad otto anni dall’art. 27, commi da 16 a 20, del D.L. n. 185/2008), può essere emesso, non solo per recuperare la somma corrispondente all’utilizzo del credito d’imposta per gli investimenti nelle aree svantaggiate oltre la percentuale consentita, ma anche per il recupero di crediti opposti in compensazione ritenuti inesistenti, quand’anche il termine sia scaduto in relazione a periodi di imposta pregressi ove il credito è stato utilizzato per la percentuale consentita. 1. La societa Sicily by Car s.p.a. impugnava l’avviso di recupero, notificato il 5.4.2007, emesso ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421, con cui era stato recuperato a tassazione un credito d’imposta L. n. 388 del 2000, ex art. 8 maturato nel 2001, indicato nella dichiarazione dei redditi 2002 ed utilizzato in compensazione negli anni 2002 e 2005. La Commissione Tributaria Provinciale di Palermo respingeva il ricorso. Proposto appello da parte della contribuente, la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia lo accoglieva sul rilievo che l’ufficio era incorso in decadenza in quanto aveva notificato l’avviso di recupero il 5 aprile 2007, oltre il termine di quattro anni, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, decorrente dal 31 dicembre 2002, anno in cui il credito era stato esposto in dichiarazione. 2. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate affidato ad un motivo. Resiste con controricorso, illustrato con memoria, la contribuente. 3. Con l’unico motivo la ricorrente deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, al D.L. n. 185 del 2008, art. 27, commi da 16 a 20, convertito dalla L. n. 2 del 2009. Sostiene la ricorrente che il credito recuperato a tassazione era stato esposto anche nella dichiarazione dei redditi presentata nel 2003 per il periodo di imposta 2002 e l’ammontare residuo era stato poi riportato negli anni successivi, compreso il 2005. Ne derivava che i quattro anni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, dovevano essere computati a partire dall’anno di presentazione della dichiarazione in cui era stato indicato il credito indebitamente utilizzato e, nel caso di specie, il credito utilizzato in compensazione a mezzo del modello F 24 del 16 gennaio 2002 era stato indicato nella dichiarazione presentata nell’anno 2003. 4. Osserva la Corte che il ricorso è fondato. Invero in materia di agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate di cui alla L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 8, l’utilizzo dei contributi riconosciuti dallo Stato avviene nella forma di crediti di imposta. La L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 8, comma 5, prevede: “Il credito d’imposta è determinato con riguardo ai nuovi investimenti eseguiti in ciascun periodo di imposta e va indicato nella relativa dichiarazione dei redditi. Esso non concorre alla formazione del reddito della base imponibile dell’imposta regionale sulle attività produttive, non rileva ai fini del rapporto di cui all’art. 63 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ed è utilizzabile esclusivamente in compensazione, ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, a decorrere dalla data di sostenimento dei costi”. Il successivo comma 7 prevede: “Se i beni oggetto dell’agevolazione non entrano in funzione entro il secondo periodo 58 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Esposizione delle ragioni in fatto ed in diritto della decisione Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità d’imposta successivo a quello della loro acquisizione o ultimazione, il credito d’imposta è rideterminato escludendo dagli investimenti agevolati il costo dei beni non entrati in funzione. Se entro il quinto periodo d’imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione i beni sono dismessi, ceduti a terzi, destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ovvero destinati a strutture produttive diverse da quelle che hanno dato diritto all’agevolazione, il credito d’imposta è rideterminato escludendo dagli investimenti agevolati il costo dei beni anzidetti; se nel periodo di imposta in cui si verifica una delle predette ipotesi vengono acquisiti beni della stessa categoria di quelli agevolati, il credito d’imposta è rideterminato escludendo il costo non ammortizzato degli investimenti agevolati per la parte che eccede i costi delle nuove acquisizioni. Per i beni acquisiti in locazione finanziaria le disposizioni precedenti si applicano anche se non viene esercitato il riscatto. Il minore credito d’imposta che deriva dall’applicazione del presente comma è versato entro il termine per il versamento a saldo dell’imposta sui redditi dovuta per il periodo di imposta in cui si verificano le ipotesi ivi indicate”. Ora, l’avviso di recupero, da emanarsi a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (termine prorogato ad otto anni dal D.L. n. 185 del 2008, art. 27, commi da 16 a 20, convertito dalla L. n. 2 del 2009), può essere emesso non solo per recuperare la somma corrispondente all’utilizzo del credito oltre la percentuale consentita ma anche per la ritenuta inesistenza dei crediti opposti in compensazione, anche qualora, in relazione a diverse annualità ove il credito è stato utilizzato, detto controllo non ha avuto luogo. Ciò che assume rilievo ai fini fiscali, invero, è l’utilizzazione del credito da parte del contribuente, che può essere effettuata in tutto od in parte solo in alcuni periodi di imposta a scelta del contribuente medesimo, purché nei limiti della percentuale consentita. Ne deriva che il controllo sulla spettanza del contributo, che l’Amministrazione è tenuta ad effettuare a pena di decadenza entro il termine stabilito, va effettuato in relazione a ciascun periodo di imposta in relazione al quale il contribuente ha utilizzato il credito. Siffatta lettura della norma è supportata dalla lettera delle disposizioni che si sono succedute nel tempo in materia di riscossione dei crediti indebitamente utilizzati, ove la facoltà di controllo degli importi a credito non è limitata al tempo ed alla percentuale di fruibilità, ma si estende all’esistenza stessa del credito. Basti considerare che la L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 421, prevede “... per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17, e successive modificazioni, l’Agenzia delle entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 citato”. E il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, convertito dalla legge numero 2/2009 prevede “... l’ atto di cui alla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 421, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”. Infine il successivo comma 17 prevede “La disposizione di cui al comma 16 si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore della presente legge siano ancora pendenti i termini di cui al primo comma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57”. Va, dunque, affermato il seguente principio di diritto “L’avviso di recupero, da emanarsi a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (termine prorogato ad otto anni dal D.L. n. 185 del 2008, art. 27, commi da 16 a 20, convertito dalla L. n. 2 del 2009), può essere emesso non solo per recuperare la somma corrispondente all’utilizzo del credito oltre la percentuale consentita ma anche per il recupero di crediti opposti in compensazione ritenuti inesistenti, quand’anche il termine sia scaduto in relazione a periodi di imposta pregressi ove il credito è stato utilizzato per la percentuale consentita”. Occorre, poi, precisare che, giusta la L. n. 388 del 2000, art. 8, comma 7, il contribuente che non ponga in funzione i beni entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello della loro acquisizione o ultimazione o dismetta i beni acquisiti entro il quinto periodo d’imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione i beni stessi è tenuto a rideterminare il credito di imposta in relazione agli eventi verificatisi ed a versare l’imposta indebitamente portata in compensazione entro il termine per il versamento a saldo dell’imposta sui redditi dovuta per il periodo in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 59 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità cui si verificano tali ipotesi, termine dal quale decorre il potere accertativo dell’Ufficio relativamente all’adempimento di tale obbligo. Il ricorso va, dunque, accolto e l’impugnata decisione va cassata con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, che, adeguandosi ai principi esposti, procederà alle necessarie verifiche e deciderà nel merito oltre che sulle spese di questo giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia Entrate, cassa l’impugnata decisione e rinvia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia. L’efficacia retroattiva ed ultrannuale degli avvisi di recupero: riflessioni sull’inesistenza dei “crediti da non indebito” di Sarah Eusepi (*) Con la sentenza n. 15190/2016 la Suprema Corte ha ritenuto che l’avviso di recupero dei crediti d’imposta per gli investimenti effettuati nelle aree svantaggiate possa essere emesso, nei casi di utilizzo frazionato, finché i crediti medesimi vengano utilizzati in compensazione dal contribuente, investendo anche annualità in relazione alle quali siano già decorsi gli ordinari termini di decadenza. Ed invero, l’unico limite temporale sarebbe rappresentato, in tali ipotesi, dal termine “lungo” di decadenza introdotto dall’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008. La pronuncia, pur avendo il pregio di fornire delle chiare direttive operative, sopperendo alla lacunosità della disciplina legislativa, ha contribuito ad infittire la trama problematica sottesa all’agevolazione. Aggirate le pressanti problematiche di ordine definitorio connesse al binomio crediti inesistenti-crediti non spettanti, la Suprema Corte ha, infatti, riferito all’avviso di recupero una singolare valenza “retroattiva” ed “ultrannuale”, che solleva nuovi e consistenti interrogativi di ordine sistematico e teorico-generale. Un quadro normativo “mobile” La Legge del 23 dicembre 2000, n. 388 ha istituito una serie di agevolazioni volte a favorire l’occupazione e gli investimenti effettuati nelle aree svantaggiate del territorio nazionale. In particolare, l’art. 8 attribuiva ai titolari di reddito d’impresa (1), che nel periodo compreso tra il 31 dicembre 2000 ed il 31 dicembre 2006 avessero effettuato nuovi investimenti (2) nelle Regioni della Basilicata, Campania, Puglia, Calabria, Sardegna e Sicilia, Abruzzo e Moli(*) Avvocato e Dottore di ricerca in Diritto dell’Economia e dell’Impresa (1) Ad esclusione degli enti non commerciali. (2) Ovvero, avessero acquistato nuovi beni strumentali ex artt. 67 e 68 T.U.I.R., esclusi i mobili e macchine ordinarie di ufficio destinati a strutture produttive già esistenti ovvero impiantate nelle aree territoriali rilevanti per la parte del loro costo complessivo eccedente le cessioni e le dismissioni effettuate nonché gli ammortamenti dedotti nel periodo d’imposta, relativi a beni d’investimento della stessa struttura produttiva. Sono esclusi gli ammortamenti dei beni che formano oggetto dell’investimento agevolato effettuati nel periodo d’imposta della loro entrata in funzione (comma 2, art. 8 cit.). 60 se (3) un credito d’imposta entro la misura massima consentita dalla normativa sovranazionale (4). Il credito, determinato con riguardo al costo sostenuto per i nuovi investimenti eseguiti in ciascun periodo d’imposta, era utilizzabile esclusivamente in compensazione ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997 (5), a decorrere dalla data di sostenimento dei costi. Una volta effettuato l’investimento, l’integrale compensazione del credito era subordinata al rispetto, da parte del beneficiario, delle c.d. (3) Quali aree territoriali individuate dalla Commissione europea come destinatarie degli aiuti a finalità regionale (art. 107, par. 3, T.F.U.E., ex art. 87, par. 3, T.C.E.). (4) Tenuto conto, in particolare, dei criteri e dei limiti d’intensità d’aiuto fissati dalla Commissione europea. (5) La norma, introdotta nel quadro della c.d. semplificazione degli adempimenti tributari, ha introdotto per la prima volta la possibilità - inizialmente riservata ai titolari di partita IVA ed estesa a tutti i contribuenti dal successivo D.Lgs. n. 422/1999 - di utilizzare una nuova modulistica (il Mod. F24, “Modello di pagamento Fisco, INPS, Regioni”) per effettuare, contestualmente, i versamenti fiscali e contributivi dovuti. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità condizioni antielusive, analiticamente individuate dal comma 7 dell’art. 8 cit. (6), al ricorrere delle quali il contribuente avrebbe dovuto procedere autonomamente alla rideterminazione del credito d’imposta e alla restituzione del beneficio fruito in eccedenza entro il termine per il saldo dell’imposta sui redditi relativo all’annualità in cui la condizione antielusiva si era verificata. Negli anni successivi la disciplina è stata oggetto di ripetuti interventi legislativi, che ne hanno profondamente ridisegnato l’ambito di applicazione e le modalità di erogazione. La mobilità del quadro normativo, connotato dalla progressiva stratificazione di discipline transitorie, ha comportato l’emersione ed applicazione di regimi largamente differenziati, ancorché accorpati sotto la comune denominazione di “incentivi per gli investimenti nelle aree svantaggiate”. Particolarmente incisiva la rimodulazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi per la fruizione del beneficio operata, con decorrenza dall’8 luglio 2002, dall’art. 10 del D.L. n. 138/2002 (7). L’individuazione di criteri di ammissione più stringenti è stata assistita, a livello procedimentale, da una coerente formalizzazione delle modalità di fruizione del credito. E così, mentre la disciplina originaria collegava la spettanza dell’agevolazione (e, dunque, la compensazione del credito) alla semplice realizzazione dell’investimento, il D.L. n. 138/ 2002 (8), ne ha successivamente collegato la fruizione (9) alla presentazione in via telematica di un’istanza preventiva al Centro Operativo di Pescara (10). Tale adempimento è stato introdotto al fine di garantire il rispetto del “nuovo” principio generale sancito dall’art. 5 del medesimo D.L. ai sensi del quale i soggetti interessati hanno diritto di fruire dei crediti d’imposta vigenti soltanto fino all’esaurimento delle disponibilità finanziarie appositamente stanziate per ciascuno di essi. (6) Trattasi di comportamenti sintomatici di un utilizzo fittizio, simulato o, comunque, scorretto del credito, la cui attuazione implicava la revoca parziale o totale del credito globale originariamente individuato. In particolare, qualora i beni oggetto dell’agevolazione non fossero entrati in funzione entro il secondo periodo d’imposta successivo a quello della loro acquisizione o ultimazione, il credito d’imposta avrebbe dovuto essere rideterminato escludendo dagli investimenti agevolati il costo dei beni non entrati in funzione. Se entro il quinto periodo d’imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione i beni fossero stati dismessi, ceduti a terzi, destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ovvero destinati a strutture produttive diverse da quelle che hanno dato diritto all’agevolazione, il credito d’imposta avrebbe dovuto essere rideterminato escludendo dagli investimenti agevolati il costo dei beni anzidetti; qualora, infine, nel periodo di imposta in cui si verifica una delle predette ipotesi vengono acquisiti beni della stessa categoria di quelli agevolati, il credito d’imposta avrebbe dovuto essere rideterminato escludendo il costo non ammortizzato degli investimenti agevolati per la parte che eccede i costi delle nuove acquisizioni. Per i beni acquisiti in locazione finanziaria le disposizioni precedenti si applicano an- che se non viene esercitato il riscatto. (7) Convertito dalla Legge n. 178/2002. In particolare, la norma ha esteso ai Comuni del Centro Nord l’ambito territoriale d’operatività dell’agevolazione. La norma ha, contestualmente, ridefinito anche l’ambito soggettivo dei destinatari dell’agevolazione, eliminando l’esclusione degli enti non commerciali ed individuando con maggiore chiarezza i settori di attività agevolati (settori estrattivo e manifatturiero, dei servizi, del turismo, del commercio, delle costruzioni, della produzione e distribuzione di energia elettrica, vapore ed acqua calda e della trasformazione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura). (8) Art. 10 cit. (9) A far data dal 25 luglio 2002. (10) L’istanza doveva recare l’indicazione degli elementi identificativi dell’impresa, dell’ammontare complessivo dei nuovi investimenti e della ripartizione regionale degli stessi, da avviarsi successivamente alla data di presentazione della medesima istanza e comunque entro sei mesi dalla predetta data. Decorsi 30 giorni dalla presentazione senza che l’Agenzia delle Entrate avesse comunicato il proprio diniego, il beneficio avrebbe dovuto intendersi concesso. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 L’assenza di una specifica disciplina dei poteri di controllo Il retroterra normativo del nodo operativo che la Suprema Corte ha inteso sciogliere con la sentenza in commento si connota per la spiccata lacunosità della disciplina dei profili attuativi del beneficio. La Legge n. 388/2000, infatti, nulla stabiliva in ordine ai poteri di controllo dell’Amministrazione finanziaria, all’eventuale recupero dei crediti indebitamente fruiti, né approntava, a tali fini, uno specifico regime sanzionatorio. Il sistema originario risultava integralmente fondato, anche nell’eventuale fase “patologica” (avveramento di una delle condizioni di decadenza) sull’attività di autoliquidazione beneficiario, il quale, al verificarsi di una delle condizioni antielusive, avrebbe dovuto autonomamente procedere alla rideterminazione del cre- 61 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità dito e alla liquidazione delle maggiori imposte conseguentemente dovute. Tali lacune, in parte giustificate dalla natura squisitamente agevolativa del credito d’imposta (infra), sono state gradualmente colmate nel quadro dell’azione di contrasto all’utilizzo elusivo dell’agevolazione. Collateralmente al monitoraggio delle comunicazioni presentate (11) è stata avviata una generalizzata attività di controllo mirato sui soggetti beneficiari dell’agevolazione (12). Nell’ambito di tale iniziativa, si è ritenuto che l’indebito utilizzo del credito d’imposta potesse essere evidenziato attraverso l’emissione dei c.d. atti di recupero introdotti dall’art. 1, comma 421, Legge n. 311/2005, specificamente finalizzati alla “riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione, ai sensi dell’art. 17 del Decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”, da notificarsi al contribuente con le modalità previste dall’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973. Lo strumento, approntato ai fini del recupero di crediti d’imposta di matrice propriamente tributaria (derivanti dalle somme versate in eccedenza dal contribuente mediante ritenute d’acconto, versamenti d’acconto e versamenti diretti) è stato, dunque, estensivamente preposto al recupero di sovvenzioni. Ne è dipesa una unificazione della disciplina dell’accertamento dei crediti d’imposta che, sebbene positivamente valutabile sul piano della semplificazione e dell’economia procedimentale, poggia su un assunto non condivisibile sul piano ideologico e sistematico: la piena assimilazione delle sovvenzioni erogate sotto forma di crediti d’imposta (c.d. crediti da non indebito) (13), fattispecie di ausilio finanziario, ai crediti d’imposta tout court, fattispecie da indebito (14). L’esercizio delle prime, infatti, non incide, contrariamente a quello dei secondi, sull’esistenza del presupposto (e, dunque, sull’an della pretesa), interagendo con il regime impositivo ordinario della fattispecie unicamente sotto il profilo quantitativo, determinando un’attenuazione del debito d’imposta in capo al beneficiario (15). Nel caso di specie, in particolare, poiché il credito d’imposta non concorre, per espressa previsione della legge istitutiva, alla formazione della base imponibile IRES ed IRAP, rilevando unicamente in sede di compensazione, il successivo riscontro dell’inesistenza o della non spettanza del medesimo rileverà unicamente sotto il profilo del corretto adempimento degli obblighi di versamento (omesso o insufficiente versamento conseguente all’indebita compensazione). Oggetto dell’avviso di recupero sarà, pertanto, la constatazione del sopravvenuto avveramento di una condizione antielusiva, ovvero, del carattere puramente fittizio del credito, con contestuale liquidazione dei maggiori importi dovuti in ragione della rideterminazione del credito o della revoca del medesimo. L’atto di recupero costituisce, dunque, al di là delle consonanze formali, un provvedimento sostanzialmente e funzionalmente distinto dall’avviso di accertamento, il quale ha ad oggetto la formulazione della pretesa impositiva conseguente alla rettifica in aumento del reddito dichiarato o alla sua determinazione d’ufficio, ovvero, al disconoscimento di detrazioni od agevolazioni incidenti sull’entità del tributo (art. 42 del D.P.R. n. 600/1973). (11) Al fine di assicurare una corretta applicazione della nuova disciplina e di favorire la prevenzione di comportamenti elusivi, l’art. 1 del D.L. n. 253/2002 ha successivamente individuato ai fini della fruizione dell’agevolazione, due categorie di soggetti: la prima, composta dai soggetti (automaticamente) ammessi al beneficio prima dell’8 luglio 2002, avrebbe dovuto comunicare all’Agenzia delle entrate, a pena di decadenza, i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati con un apposito modello, denominato CVS; la seconda, composta dai soggetti (espressamente) ammessi al beneficio dopo l’8 luglio 2002, una volta conseguito l’assenso dell’Agenzia, avrebbero dovuto effettuare la medesima comunicazione con il modello, denominato CTS. (12) Preconizzata dalla circolare dell’Agenzia delle entrate 14 agosto 2002, n. 72/E. (13) L’efficace denominazione è tratta da Ingrosso, voce “Credito d’imposta”, in Enc. giur. Treccani, Roma, X, pag. 2. Si sostanziano nell’attribuzione ex lege di un diritto di credito in capo al contribuente (credito d’imposta), nel perseguimento di interessi di politica economica costituzionalmente rilevanti. (14) Ingrosso, op. loc. ult. cit. (15) Ingrosso, Il credito d’imposta, Milano, 1984, pag. 84 ss.; La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968, pag. 199 ss. 62 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Nondimeno, tali atti, superate alcune iniziali perplessità (16), sono stati equiparati agli avvisi di accertamento (17). Tale equiparazione, tuttavia, risulta fondata su rilievi di ordine prevalentemente formale ed esigenze di tutela giurisdizionale (identità degli elementi strutturali, necessità di assicurare l’impugnazione del provvedimento dinnanzi agli organi della giustizia tributaria) (18). Di contro, sotto il profilo sostanziale, non può non considerarsi come, mentre l’attività di controllo culminante nell’emissione dell’avviso di recupero abbia ad oggetto un atto tipico della riscossione (il modello di versamento unificato), l’accertamento tributario sia ordinamentalmente deputato al controllo di atti dichiarativi (il modello di dichiarazione) (19). Occorre, inoltre, considerare come tale assimilazione abbia indotto a ritenere la generalizzata operatività dei termini decadenziali previsti ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi (art. 43 del D.P.R. n. 600/1973). Questa impostazione è stata, in seguito, implicitamente confermata dal legislatore, che, con l’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008 (convertito dalla Legge n. 2/2009), ha introdotto uno specifico termine “lungo” di decadenza (otto anni) ai fini dell’emanazione dell’atto di recupero dei crediti inesistenti utilizzati in compensazione. Definitivamente offuscata la matrice sovventiva delle misure in discorso, non sorprende che il nuovo termine di decadenza (20) sia stato ri(16) Era stata inizialmente prospettata una equiparazione dell’atto di recupero alla comunicazione trasmessa all’esito del controllo formale di cui all’art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973 (determinazione dei “crediti d’imposta spettanti in base ai dati risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti richiesti ai contribuenti”). L’impostazione è stata successivamente superata in considerazione del carattere essenzialmente statico dell’attività istruttoria svolta nell’ambito dei controlli formali, circoscritta al raffronto tra i dati dichiarati ed i documenti di supporto attestanti le deduzioni, le detrazioni, le ritenute, i crediti d’imposta. L’emanazione dell’atto di recupero è, al contrario, preceduta da un’attività istruttoria diretta presso il contribuente (accesso breve), che si conclude con la redazione di apposito processo verbale riportante le risultanze dei controlli espletati e con la successiva notifica al contribuente (circolare Agenzia delle entrate 8 luglio 2003, n. 35/E) (17) Per tutte, Cass., 15 febbraio 2013, n. 3838, che ha ritenuto applicabile alle somme richieste tramite avvisi di recupero la disciplina della riscossione frazionata (art. 15, D.P.R. n. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 tenuto pacificamente applicabile ai fini del recupero dei crediti de quo. Il caso concreto La controversia sottoposta all’esame della Suprema Corte aveva ad oggetto un avviso di recupero emesso, nel 2007, per la ripetizione di un credito d’imposta ex art. 8 della Legge n. 388/2000. Il credito, maturato nel 2001, regolarmente indicato nella dichiarazione dei redditi 2002, era stato portato in compensazione dalla Società contribuente, sia in quest’ultima annualità, che nella successiva annualità 2005. Raggiunta dall’avviso ed impugnatolo dinnanzi alla Commissione tributaria competente, la Società deduceva l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di accertamento. L’eccezione, respinta dal Collegio di primo grado, trovava, invece, accoglimento in sede d’appello. Avverso la pronuncia di secondo grado proponeva, quindi, ricorso per Cassazione l’Ufficio soccombente, deducendo la violazione dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, e dell’art. 27, commi 16-20, del D.L. n. 185/2008, convertito dalla Legge n. 2/2009. La Corte, rilevata l’operatività del termine “lungo” di decadenza individuato da tali disposizioni, riteneva che l’eventuale utilizzo “frazionato” del credito da parte del contribuente (espressamente consentito dalla legge istitutiva) trovasse il proprio necessario pendant accertativo nel potere dell’Amministrazione finanziaria di accertare, entro tale termine, la 602/1973), trattandosi di atti che “contribuiscono a definire, attraverso il disconoscimento dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati, l’entità della somma concretamente dovuta dal contribuente, cosicché anche tali avvisi implicano accertamento della debenza del tributo”. (18) Individuata la portata essenziale dell’art. 1, comma 421, cit., nell’individuazione dell’atto di recupero come ulteriore possibile titolo per la successiva riscossione coattiva tale atto è stato assimilato, sotto il profilo dalla impugnabilità, all’avviso di accertamento. (19) Come osservato da Basilavecchia, “Avvisi di recupero per indebite compensazioni e affidamento del contribuente”, in Corr. Trib., n. 30/2012, pag. 2322. (20) Il termine trova applicazione a partire dalle compensazioni con crediti inesistenti effettuati in anni per i quali, alla data di entrata in vigore del medesimo D.L. n. 185/2008, erano pendenti i termini di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, e all’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972. 63 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità non spettanza, ovvero, l’inesistenza del credito e di disporne l’integrale recupero, quand’anche rispetto ad alcune delle annualità interessate dalla compensazione risultassero decorsi gli ordinari termini di decadenza. Una tesi controversa Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte è certamente destinato a produrre conseguenze significative sul piano operativo. Da un lato, infatti, la Corte ha istituito un inedito parallelo tra esercizio “frazionato” del credito ed attività di accertamento degli Uffici, in forza del quale l’esistenza del credito può essere (retroattivamente) revocata in dubbio fintanto che il credito medesimo viene utilizzato in compensazione dal contribuente; dall’altro, ha affermato l’applicabilità del termine “lungo” di decadenza anche rispetto alle ipotesi in cui dalla successiva attività di verifica emerga un mero utilizzo “sopra soglia” del credito d’imposta, equiparato alle ipotesi di inesistenza del credito. Aggirate, sul piano procedurale, le pressanti problematiche di ordine definitorio connesse al binomio crediti inesistenti-crediti non spettanti (21), i giudici di legittimità ne hanno persino ampliato la rilevanza sotto il profilo sostanziale, riferendo all’avviso di recupero una singolare valenza “retroattiva” ed “ultrannuale”, che solleva nuovi e consistenti interrogativi di ordine sistematico e teorico-generale. una indubbia centralità anche sul piano sostanziale. Si è infatti reso necessario chiarire se la totalità delle ipotesi di indebita compensazione possa essere ricondotta alla categoria dei “crediti inesistenti”, ovvero, se da quest’ultima esulino le ipotesi connotate dall’assenza di dolo in capo al contribuente (ad es. utilizzo sopra soglia), da ricondursi alla autonoma categoria dei “crediti non spettanti”. In questo secondo senso depone, tra l’altro, la relazione di accompagnamento al D.L. n. 185/2008, che - nel giustificare l’estensione dei termini decadenziali alla stregua dell’esigenza di contrastare i “comportamenti connotati da aspetti fraudolenti” - induce ad escludere dal novero dei crediti inesistenti, sia le compensazioni eseguite in eccesso rispetto ai limiti massimi annuali di legge, sia quelle aventi ad oggetto crediti più elevati dell’importo risultante dalla dichiarazione (22). Ricorrerebbe, invece, la compensazione di un credito inesistente nelle ipotesi in cui, al verificarsi di una delle condizioni antielusive previste dalla Legge n. 388/2000, il contribuente non abbia dato luogo alla rideterminazione prescritta. L’infittirsi della trama problematica A seguito dell’introduzione del nuovo termine decadenziale “lungo” per l’emanazione degli avvisi di recupero (supra) la distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti, la cui rilevanza era, sino a tale momento, rimasta circoscritta al versante sanzionatorio, ha assunto Il quadro speculativo ed operativo appena descritto è risultato, da ultimo, ulteriormente destabilizzato dall’inedito parallelo tra esercizio “frazionato” del credito ed attività di accertamento degli Uffici istituito dalla pronuncia in commento e dalla conseguente rottura dell’ordinario regime di preclusioni procedimentali. Se è pur vero che, in presenza di un esercizio “frazionato” del credito, non avrebbe pregio, né rigore, sostenere, in relazione ai periodi ancora accertabili, l’impossibilità di riscontrare l’inesistenza del credito compensato e che tale (21) La distinzione tra le due fattispecie, originariamente rilevante nella sola prospettiva sanzionatoria (reato di indebita compensazione), ha acquisito rilievo sul piano sostanziale a seguito dell’introduzione del termine “lungo” di decadenza (infra). Configurano “crediti inesistenti”, sia gli importi artificiosamente rappresentati in sede contabile o di dichiarazione tributaria, sia quelli ritenuti erroneamente esistenti per fatto imputabile, anche a titolo di colpa, all'autore della violazione; confi- gurano, invece, “crediti non spettanti” gli importi effettivamente esistenti, ma non utilizzabili in compensazione. In ordine a tali categorie, si rinvia, per un approfondimento a Logozzo, “Gli incerti confini dell’indebita compensazione dei crediti inesistenti”, in Corr. Trib., n. 33/2011, pag. 2661 ss. (22) L’impostazione sembrerebbe suffragata dalla lettera dell’art. 10-quater della Legge n. 74/2000 (indebita compensazione di “crediti non spettanti o inesistenti”). 64 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Le perplessità irrisolte Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità accertamento, quantomeno sul piano logico, non può non revocare in dubbio la fondatezza delle compensazioni “frazionate” operate in periodi precedenti (ancorché non più accertabili), è altrettanto vero che l’integrale (coerente) ripetizione del credito comporta una sostanziale “riapertura” dei termini di accertamento e la surrettizia rimozione dei limiti giuridici ed operativi sottesi ai termini decadenziali. La potestà dell’Amministrazione finanziaria di procedere ad accertamenti e rettifiche è, infatti, notoriamente soggetta a termini di decadenza, stabiliti, quanto alle imposte sui redditi, dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973. Trovano piena applicazione, a tale livello, i principi sanciti, a livello generale (23), dalle disposizioni del Codice civile ed, in particolare, dall’art. 2966 c.c., ai sensi del quale la decadenza non è impedita se non dal compimento dell’atto previsto dalla legge (24). In tale prospettiva, mentre il recupero “retroattivo” e “ultrannuale” dei crediti inesistenti è espressamente consentito dal comma 16 dell’art. 27 del D.L. n. 185/2008, appare del tutto impropria l’estensione del termine decadenziale lungo fissato dalla norma al recupero dei crediti non spettanti ed, in particolare, al recupero dei crediti utilizzati sopra soglia. L’assimilazione delle due fattispecie (crediti inesistenti-crediti non spettanti) - lungi dal poter essere pianamente dichiarata - avrebbe, dunque, richiesto un ulteriore sforzo esplicativo da parte della Suprema Corte, considerata l’assenza di una nozione normativa e l’esistenza di un ampio retroterra speculativo (supra). Anche con riferimento ai crediti inesistenti, del resto, l’applicazione del termine decadenziale “lungo” - quantunque positivamente sancita - desta alcune perplessità sotto il profilo sistematico. La tesi della funzione accertativa dell’avviso di recupero e la conseguente individuazione di un termine di decadenza ai fini della relativa emissione appaiono, invero, difficilmente coniugabili con la matrice squisitamente sovventiva del credito d’imposta, offuscata dalla successiva stratificazione legislativa. Nel caso considerato, infatti, il successivo disconoscimento dell’agevolazione non comporta un ampliamento (sopravvenuto) della base imponibile del quale si imponga l’accertamento, configurandosi il credito d’imposta come un contributo in conto esercizio (25), irrilevante ai fini IRES ed IRAP (26). Conseguentemente, in caso di successivo disconoscimento, il decremento della voce “altri ricavi e proventi” risulterà neutralizzato dal corrispondente decremento registrato nelle variazioni in diminuzione apportate in sede di dichiarazione dell’utile di esercizio (27). In tale prospettiva, è la stessa previsione di termini di decadenza ad apparire inconciliabile con l’irrilevanza fiscale del contributo. I termini di decadenza sono, infatti, come noto, fissati in relazione all’accertamento del “debito” del contribuente a tutela del relativo interesse alla certezza e stabilità della propria posizione fiscale, non rilevando, invece, ai fini del disconoscimento di eventuali crediti vanta- (23) Nel senso che gli artt. 2964 ss. c.c. contribuiscano all’interpretazione organica delle numerose disposizioni di legge, anche estranee alla materia civilistica, disciplinanti le attività sottoposte a termine, Roselli, voce “Decadenza. I) Diritto civile”, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, pag. 1. (24) Cogliati Dezza, voce “Decadenza. VI) Diritto tributario”, in Enc. giur Treccani, Roma, 1988, pag. 2. (25) Le sovvenzioni pubbliche erogate a favore delle imprese rilevano, dal punto di vista contabile, o come contributi in conto esercizio o come contributi in conto capitale. I contributi in conto esercizio vengono erogati allo scopo di integrare i ricavi dell’azienda ovvero, come nell’ipotesi considerata, di ridurre i costi d’esercizio che le imprese sostengono per esigenze legate all’attività produttiva (costi per l’acquisto di fattori produttivi). A tale livello, il modulo attuativo più ricorrente è divenuto quello della concessione di un credito d’imposta (c.d. bonus fiscale) da utilizzare a riduzione delle imposte dovute dall’impresa. (26) Circolare Agenzia delle entrate 31 gennaio 2001, n. 1/E. La disciplina fiscale relativa ai contributi in conto esercizio è fissata dall’art. 85, comma 1, lett. g) e h), del T.U.I.R., ove si afferma che sono considerati ricavi, rispettivamente: i) i contributi in denaro, o il valore normale dei beni in natura spettanti, sotto qualsiasi denominazione, in base a contratto (quindi, in altri termini, possono rientrare in tale previsione sia i contributi in conto esercizio, sia altre tipologie di contributi, purché risultino contrattualmente dovuti); ii) i contributi spettanti esclusivamente in conto esercizio a norma di legge (prescindendo, quindi, dalla natura del soggetto erogante, che può essere pubblico o privato). (27) Zamaro, “Avvisi di recupero degli incentivi erogati per l’incremento occupazionale”, in Corr. Trib., n. 40/2004, pag. 3150 ss. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 65 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità ti dal medesimo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (28). Pertanto, mentre l’accertamento dell’esistenza di debiti tributari (situazione giuridica attiva dell’Amministrazione) deve essere attuato nel rispetto di precisi termini (di decadenza), l’inesistenza dei crediti opposti in compensazione (situazione giuridica passiva dell’Amministrazione) può essere oggetto di dimostrazione da parte dell’Amministrazione (debitrice) fintanto che il contribuente (creditore) seguiti, attraverso l’utilizzo in compensazione, ad esercitare il proprio diritto. Trattandosi di un diritto, che la stessa Amministrazione ha attribuito al contribuente (in sede di ammissione al beneficio), tale dimostrazione si accompagnerà alla contestuale revoca del credito d’imposta (provvedimento naturalmente retroattivo) (29). Né può trascurarsi come la natura accertativa degli avvisi di recupero, mai espressamente affermata dal legislatore, sia stata solo implicitamente confermata dall’art. 27 cit., la cui emanazione è stata giustificata alla stregua delle difficoltà operative indotte dal disallineamento strategico tra il dato dichiarativo e gli elementi esposti nel Mod. UNICO (infedele) (30). Mentre, dunque, rispetto ai crediti da indebito, l’applicazione del termine di decadenza “lungo” (ed, in generale, di termini di decadenza) risulta coerente, sia con la matrice tributaria della situazione soggettiva vantata dal contribuente, che con l’oggetto della violazione (il credito trae origine, in tal caso, dalla erronea o infedele rappresentazione in sede dichiaritiva) (31), rispetto ai crediti da non indebito, la cui rilevanza fiscale sia, come nel caso di specie, rigidamente circoscritta al momento del versamento, non appare validamente sostenibile, né la natura accertativa dell’avviso, né il relativo assoggettamento a termini di decadenza (“brevi” o “lunghi” che siano). In tali ipotesi, invero, l’avviso di recupero, pur promanando da un soggetto pubblico, appare orientato a contrapporre al diritto di credito esercitato dal contribuente il sopravvenuto riscontro (in sede istruttoria) di circostanze estintive o modificative del credito medesimo, cui consegue la richiesta di restituzione di quanto indebitamente corrisposto (attraverso l’abbattimento fiscale precedentemente accordato). Tale provvedimento assolve, dunque, una funzione ricognitiva della posizione passiva dell’Amministrazione, più che di accertamento della posizione fiscale del contribuente, sicché la relativa emissione dovrebbe ritenersi sottratta alle ordinarie logiche e tempistiche accertative, risultando vincolata al solo rispetto dei termini di prescrizione e del principio del legittimo affidamento (32). (28) . In tale occasione la Corte ha rilevato come il condono elida unicamente il debito fiscale, non investendo in alcun modo i crediti del contribuente (nella specie, un credito IVA), i quali restano soggetti all’eventuale contestazione del Fisco. Cass., 9 giugno 2010, n. 13858, con nota di Basilavecchia, “Credito ‘riportato’ ma inesistente: rilevanza penale dell’utilizzo”, in Corr. Trib., n. 3/2011, pag. 212 ss. (29) Eusepi, “Riconoscimento, revoca, recupero del credito d’imposta: dispiegamento ‘continuato’ della funzione impositiva ed asimmetrie relazionali”, in questa Rivista, n. 4/2016, pag. 289 ss. (30) Cfr. relazione illustrativa. (31) In questi casi l’accertamento dell’inesistenza implica una rideterminazione ‘‘a monte’’ della pretesa tributaria. (32) La diversità del recupero del credito d’imposta rispetto all’azione di accertamento ed il relativo assoggettamento al solo termine ordinario di prescrizione decennale è stata evidenziata in talune occasioni dalla stessa Amministrazione finanziaria. Tale impostazione, tuttavia, non è stata avallata dalla giurisprudenza di legittimità, che muovendo dalla sostanziale equiparazione tra avviso di recupero ed avviso di accertamento ha ritenuto che il potere di recupero del credito di imposta sia soggetto, al pari del potere di accertamento, ad un termine di decadenza (in tal senso, da ultimo, Cass., 22 luglio 2016, n. 15186, la quale peraltro ha adottato, sul punto, un’impostazione divergente rispetto alla sentenza in commento ritenendo applicabile, non il termine “lungo” di decadenza introdotto dall’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008, ma il termine ordinario previsto dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973). 66 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità Imposta di registro La cessione “isolata” di beni funzionali all’esercizio d’impresa è sempre cessione di azienda Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016 (30 giugno 2016), n. 15175 - Pres. Canzio - Rel. Criscuolo Imposta di registro - Applicazione dell’imposta - Causa reale ed effettiva regolamentazione degli interessi Rilevanza - Cessione di beni funzionali all’esercizio dell’impresa - Cessione d’azienda - Configurabilità - Imposta di registro - Applicabilità - Cessione di singoli beni non idonei all’esercizio dell’impresa - IVA - Applicabilità Ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, e di riflesso anche ai fini dell’imposizione IVA, deve attribuirsi rilievo preminente alla causa reale ed alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti. A tal uopo, è legittima la configurazione della cessione di azienda tutte le volte in cui la relativa convenzione negoziale abbia avuto ad oggetto il trasferimento di beni organizzati in un contesto produttivo, anche solo potenziale, dall’imprenditore per l’attività di impresa. Di conseguenza, laddove sussista una cessione di beni strumentali, atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio di impresa, si deve ravvisare una cessione di azienda soggetta ad imposta di registro, mentre la cessione di singoli beni, inidonei di per sé ad integrare la potenzialità produttiva propria dell’impresa, deve essere assoggettata ad IVA. All’esito di una verifica fiscale effettuata nei confronti della Officine R. di R. E. & C. S.n.c., avente ad oggetto una serie di contrati di cessione di beni perfezionati tra la detta società e la M.A.C. Metallurgica Assemblaggi Carpenterie S.p.A., società incorporante la MDM Meccanica S.p.A., l’Agenzia delle entrate di Pontedera, previa riqualificazione dei rapporti contrattuali intercorsi tra le parti in termini di cessione di azienda ovvero di ramo di azienda, emetteva avvisi di accertamento ai fini dell’imposta di registro, ai fini delle imposte dirette ed ai fini IVA nei confronti delle due società, in vista del recupero delle imposte effettivamente dovute, alla luce della nuova qualificazione giuridica dell’operazione intercorsa. Gli avvisi erano impugnati dalle contribuenti, le quali ribadivano che in realtà erano state convenute delle semplici cessioni di beni strumentali, non potendo accedersi alla tesi dell’Ufficio secondo cui l’oggetto della cessione era un’azienda ovvero un ramo d’azienda. La CTP di Pisa con le sentenze nn. 35/02/06 e 36/02/06, relative al ricorso proposto dalle Officine R., e con la sentenza n. 34/02/06, relativa al ricorso proposto dalla MDM, accoglieva le opposizioni ed avverso entrambe le sentenze proponeva appello l’Agenzia delle entrate. La CTR di Firenze, con la sentenza n. 93/18/08 del 27/11/08, riuniti i giudizi, rigettava gli appelli. Osservava in primo luogo che mancava la contestazione nei confronti della MDM, poi trasformata in MAC, dell’annullamento del contratto di vendita in maniera tale da permettere alle Officine R. di avere il diritto al rimborso dell’IVA pagata, ed alla stessa MDM di recuperare l’IVA incassata e versata. Nel merito osservava che nella fattispecie si trattava di un’ipotesi di cessione di macchinari da parte di una società che aveva deciso di cessare la propria attività e che quindi metteva in liquidazione i propri beni. Nel caso concreto le presse e gli altri macchinari acquistati dalla Officine R. erano di così specifico utilizzo da avere una scarsa platea di interessati, in ragione della peculiare attività imprenditoriale alla quale erano preordinati e del loro rilevante prezzo. Inoltre, i beni erano stati inseriti in una preesistente attività dell’acquirente, previa costruzione di un capannone nuovo e di una nuova linea produttiva. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 67 Svolgimento del processo Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità 1. Con il primo motivo di ricorso, corredato anche di quesito di diritto, si denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131/1986, artt. 2, 20, 52 e 53. La sentenza impugnata avrebbe infatti affermato che nel caso concreto non era stata contestata l’invalidità del contratto di vendita in maniera tale da permettere alle due società di recuperare, alle Officine R., l’IVA pagata, ed alla MAC, l’IVA incassata e versata. A detta della ricorrente si tratta di un’affermazione poco comprensibile che non tiene conto del disposto di cui al D.P.R. n. 131/1986, art. 20, che appunto prevede che l’imposta debba essere applicata in ragione dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione. Non occorre quindi alcuna contestazione di annullamento del contratto, vertendosi solo in merito al potere di riqualificazione giuridica della fattispecie ad opera dell’Ufficio. Con il secondo motivo, anche in tal caso corredato di quesito di diritto, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633/1972, art. 2, comma 3, lett. b), e art. 19, del D.P.R. n. 131/1986, art. 40, e dell’art. 2555 c.c. Rileva la ricorrente che la riqualificazione dei rapporti contrattuali intervenuti tra le parti in termini di cessione di ramo d’azienda, anziché come cessione di beni strumentali, trovava il proprio fondamento nella stessa documentazione acquisita, e puntualmente richiamata nell’avviso impugnato. In primo luogo la cessione prevedeva l’acquisto da parte della Officine R., in pane direttamente, ed in pane tramite società di leasing, di presse, macchinari ed attrezzature, per lo svolgimento di attività di stampaggio lamiere, grassaggio, impacchettamento sfridi ed assemblaggio di componenti stampati. Inoltre si prevedeva che l’acquirente avrebbe provveduto alle operazioni di smontaggio, imballo e trasferimento delle presse dallo stabilimento industriale della cedente ai locali siti in (omissis). Ancora, era stato concluso un contratto di fornitura per effetto del quale la MDM, richiamando il preesistente contratto di fornitura concluso con la Piaggio & C. S.p.A. relativo a prodotti realizzati tramite le presse cedute, commissionava alle Officine R. la realizzazione dei prodotti necessari per adempiere al rapporto di fornitura con la Piaggio, secondo le condizioni contrattuali specificamente concordate. La volontà di acquisire il ramo d’azienda da parte della Officine R. trovava conferma anche nel fatto che, in epoca anteriore alla conclusione dei contratti di vendita e di fornitura, la società aveva già trasferito le presse presso il nuovo capannone, ottenuto in leasing, e già in precedenza modificato, con la realizzazione di vasche in c.a., onde accogliere i macchinari acquistati. La cessionaria si era resa altresì acquirente del magazzino delle materie prime e semilavorati, mentre dall’esame del libro matricole emergeva che la detta società aveva assunto alle proprie dipendenze con qualifiche operaie, 14 ex dipendenti della MDM. Assume quindi la ricorrente che, ancorché per effetto di una serie complessa di attività negoziali e di comportamenti, si era data attuazione ad un disegno unitario finalizzato a permettere alle Officine R. di acquisire un ramo d’azienda della cedente, avendo quindi acquisito un complesso organico, anche solo parziale, di beni legati da un rapporto di complementarietà in vista della loro destinazione all’attività produttiva, senza che a ciò sia di ostacolo la mancata inclusione nella cessione anche dell’avviamento, ovvero il fatto che i beni vengano destinati ad altro settore produttivo. A fronte di tali rilievi puntualmente evidenziati sia nei provvedimenti impugnati che nelle deduzioni difensive svolte in primo grado e nei motivi di appello, la CTR nella sentenza impugnata aveva ricondotto la fattispecie ad una semplice cessione di beni strumentali, ritenendo ostativo alla diversa tesi prospettata dall’Ufficio, il fatto che i beni erano stati inseriti 68 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Ancora, era stato trascurato il fatto che la maggior parte dei beni erano stati acquistati in leasing, senza che nella vicenda fosse stata coinvolta anche la società concedente, così che a fronte della detrazione di imposta effettuata nei confronti della Officine R., in considerazione del fatto che la cessione d’azienda è esente dall’IVA, l’altra parte del contratto si era vista mantenere in vita il contratto di leasing con il conseguente pagamento dell’IVA. Pertanto essendo in contestazione solo la vendita di beni del valore di euro 80.000,00, a fronte della concessione in leasing di beni del valore di euro 1.700.000,00, si trattava di una vendita esigua che escludeva la fondatezza della tesi dell’Ufficio. Ha chiesto la cassazione di tale sentenza l’Agenzia delle entrate sulla base di tre motivi. La Officine R. S.p.A. (già Officine R. di R. E. e C. S.n.c.) e la M.A.C. Metallurgica Assemblaggi Carpenterie S.p.A. (incorporante la MDM Meccanica S.p.A.) hanno resistito con controricorso, depositando altresì memorie ex art. 378 c.p.c. Motivi della decisione Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità nella preesistente attività produttiva della cessionaria, previa costruzione di un capannone nuovo e di una nuova linea produttiva. Trattasi di soluzione, a detta dell’Ufficio, che però contravviene ai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di cessione di azienda ovvero di ramo di azienda, occorrendo infatti accedersi, proprio alla luce delle circostanze fattuali emergenti dai documenti contrattuali e dalle altre prove acquisite, alla conclusione che le parti avevano in realtà dato vita ad una vicenda riconducibile alla previsione di cui all’art. 2555 c.c. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta l’insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Ed, infatti riprendendosi gli argomenti già esplicitati nell’illustrazione del secondo motivo di ricorso, così come puntualmente riportati negli avvisi di liquidazione e di accertamento, assume la ricorrente che la CTR si sarebbe soffermata solo sull’inserimento dei beni nel complesso produttivo della cessionaria, senza però esaminare le pattuizioni contrattuali dalle quali invece emergeva che le parti stesse intendevano realizzare un disegno unitario teso a permettere alle Officine Ristori di poter continuare la produzione dei beni che la MDM aveva in ricevuto in commessa dalla Piaggio. A tal fine la cessione non riguardava solo singoli beni, ma un complesso organizzato di beni idoneo a permettere la prosecuzione dell’identica attività produttiva svolta dalla cedente. A fronte di elementi documentali chiaramente idonei a comprovare tale assunto, la decisione impugnata si era fondata su due profili del tutto irrilevanti quali la costruzione di un nuovo capannone e l’inserimento dei beni in una nuova linea produttiva. Così come del pari illogica appare la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha valorizzato il fatto che le presse di maggior valore erano state acquisite dalla cessionaria mediante la conclusione di un contratto di leasing, laddove tale strumento giuridico era stato utilizzato al solo fine di ottenere un finanziamento parziale dell’operazione negoziale, senza però intervenire sulla natura giuridica della medesima. 2. Il primo motivo è inammissibile, in quanto indirizzato nei confronti di una affermazione contenuta nella sentenza impugnata inidonea a configurarsi alla stregua di un’autonoma ratio decidendi, tale da sorreggere la validità della decisione stessa. Ed, infatti, anche la ricorrente dubita che le affermazioni con le quali la CTR ha sostenuto che mancherebbe la contestazione dell’annullamento del contrat- to di vendita, in maniera tale da permettere alle società interessate il rimborso dell’IVA pagata ed il recupero dell’IVA incassata e versata, costituiscano una effettiva ragione della decisione, e tale dubbio appare effettivamente confortato dal fatto che, anche a voler sorvolare circa l’imprecisione della sentenza, nella parte, in luogo di far riferimento alla corretta necessità di addivenire ad una riqualificazione della fattispecie giuridica ai fini fiscali, richiama il diverso istituto dell’annullamento, trattasi in realtà di argomento che mira a ribadire la necessità che, una volta ritenuta la natura di cessione d’azienda per il contratto intercorso tra le parti, se ne sarebbero dovute trarre anche le ulteriori conseguenze in tema di recupero e rimborso dell’IVA, attenendosi non più alla qualificazione operata dalle parti, ma a quella in concreto individuata dall’Ufficio. Dalla lettura della motivazione, emerge che la conferma dell’accoglimento del ricorso delle società si fonda sulla non condivisione della diversa qualificazione giuridica dell’operazione posta in essere, senza che il detto rilievo circa la contestazione dell’annullamento anche ai fini dell’IVA, abbia assunto un’autonoma rilevanza ai fini del decidere. Pertanto trattandosi a ben vedere di argomentazione svolta ad abundantiam, la censura rivolta avverso la stessa è inammissibile per difetto di interesse, in quanto priva di effetti giuridici, e non determina alcuna influenza sul dispositivo della decisione (cfr. Cass., n. 22380/2014; Cass., n. 23635/2010). 3. I restanti due motivi, attesa la loro connessione logica, ed essendo nel complesso mirati a contestare la correttezza della qualificazione giuridica del contratto intercorso tra le parti in termini di cessione di beni, in luogo di quella, auspicata dall’Ufficio, di cessione di ramo d’azienda, devono essere esaminati congiuntamente. Preliminarmente devono essere disattese le contestazioni di parte controricorrente circa la loro ammissibilità formale, occorrendo rilevare che i motivi appaiono corredati, il secondo, del quesito di diritto, ed il terzo, del quesito di sintesi, così come imposto dal dettato dell’art. 366-bis c.p.c., applicabile al procedimento in esame ratione temporis. Del pari va disattesa la deduzione di aspecificità del quesito di diritto, posto che lo stesso evidenzia con precisione quali siano le norme di diritto che si assume essere state violate da parte del giudice di appello, non ostando a tale conclusione la circostanza che nell’estrinsecazione del quesito si faccia riferimento anche a precedenti giurisprudenziali, posto che proprio mediante l’interpretazione giurisprudenziale si GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 69 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità perviene alla corretta interpretazione delle norme di diritto, potendosi per l’effetto trarre anche il contenuto del precetto che si assume violato o malamente applicato dalla sentenza gravata. Così come del pari deve essere disattesa la contestazione circa la corretta formulazione del quesito di sintesi, in relazione al terzo motivo di ricorso, avendo chiaramente evidenziato la ricorrente come il fatto controverso relativamente al quale si contesta il vizio motivazionale, sia rappresentato proprio dalla non corretta valutazione delle intese e degli accordi intervenuti tra le parti, assumendosi che, per escludere la natura di cessione di ramo d’azienda, la CTR avrebbe valorizzato alcuni elementi secondari, trascurando del tutto la reale configurazione dell’operazione giuridico-economica voluta dai contraenti. Reputa il Collegio che i motivi siano fondati e che pertanto debbano essere accolti. A tal fine deve essere ribadito il principio più volte affermato da questa Sezione secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, e di riflesso anche ai fini dell’imposizione IVA, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale ad alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti (Cass., 7 luglio 2003, n. 10660; Cass., 25 febbraio 2002, n. 2713). Particolarmente “in materia di imposta sugli atti”, questa Corte (Cass., 23 novembre 2001, n. 14900) ha precisato (e ribadito nelle successive decisioni n. 11457 del 30 maggio 2005, n. 2713 del 25 febbraio 2002 e n. 10660 del 7 luglio 2003, pure di questa Sezione) che “la scelta legislativa di privilegiare, nella contrapposizione fra ‘la intrinseca natura e gli effetti giuridici’ ed ‘il titolo o la forma apparente’ di essi, il primo termine, unitariamente considerato” assume un “rilievo di fondo” ed implica che “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria” per cui, “anche se non potrà prescindersi dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali (...)”, “nella individuazione della materia imponibile dovrà darsi prominenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare, con conseguente tangibilità, sul piano fiscale, delle forme negoziali”. Il tema dell’indagine non consiste nell’accertare cosa le parti hanno scritto ma cosa le stesse hanno effettivamente realizzato con il regolamento negoziale adottato. In tale prospettiva, ed ai fini che qui rilevano, il carattere precipuo dell’azienda, secondo la nozione civilistica nazionale dell’istituto, è dato dall’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio dell’impresa intesa come opera unificatrice dell’imprenditore funzionale alla realizzazione di un rapporto di complementarietà strumentale tra beni destinati alla produzione per cui (Cass., 28 aprile 1998, n. 4319) è legittima la configurazione, da parte del giudice di merito, della fattispecie della cessione di azienda tutte le volte in cui la relativa convenzione negoziale abbia avuto ad oggetto il trasferimento di beni organizzati in un contesto produttivo (anche solo potenziale) dall’imprenditore per l’attività d’impresa. Di conseguenza ove sussista una cessione di beni strumentali, atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio di impresa, ai deve ravvisare (Cass., n. 897/2002, Cass., n. 11457/2005) una cessione di azienda soggetta ad imposta di registro, mentre la cessione di singoli beni, inidonei di per sé ad integrare la potenzialità produttiva propria dell’impresa, deve essere assoggettata ad IVA. A questi fini, poi, non si richiede che l’esercizio dell’impresa sia attuale, essendo sufficiente l’attitudine potenziale all’utilizzo per un’attività d’impresa, né è esclusa la cessione d’azienda per il fatto che non risultino cedute anche le relazioni finanziarie, commerciali e personali (conf. Cass., n. 11457/2005; Cass., n. 10273/2007; C ass., n . 23857/2007). Né appare ostativa alla configurabilità di una cessione di azienda la circostanza che il trasferimento contestuale sia compiuto attraverso negozi formalmente distinti, laddove i beni siano però idonei nel loro complesso e nella loro interdipendenza all’esercizio dell’impresa (Cass., n. 1405/2013), né rileva (Cass., n. 10740/2013) che per l’esercizio dell’impresa si siano rese delle integrazioni ad opera del cessionario. Come ben illustrato da Cass., n. 1955/2015, la necessità di guardare all’intrinseca natura ed agli effetti giuridici degli atti comporta che, nell’imposizione di un negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale e alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali. Non rileva quindi ciò che le parti hanno scritto, ma cosa esse hanno effettivamente realizzato col complessivo regolamento negoziale adottato, anche indipendentemente dal contenuto delle dichiarazioni rese. Ne discende che l’imposizione deve riferirsi al risultato di un comportamento sostanzialmente unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali. Tonando al caso di specie reputa il Collegio che la decisione impugnata non si sia attenuta ai suddetti principi, avendo pur a fronte di una compiuta serie 70 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità di elementi documentali, attribuito rilevanza, ai fini dell’esclusione della cessione di azienda, a circostanze che, proprio alla luce di quanto sopra esposto, non assumono rilevanza decisiva. Ed, invero, risulta in primo luogo la conclusione di un contratto nel complesso finalizzato all’acquisto delle presse, per le quali si specifica l’attività in vista della quale sono destinate ad essere utilizzate, manifestandosi chiaramente l’intento della cessionaria di ottenere la disponibilità di tutte le presse ivi richiamate negli allegati, sebbene solo per alcune ne fosse previsto l’acquisto diretto, essendosi contemplato il ricorso ad un contratto di leasing per il conseguimento della disponibilità di quelle di cui all’allegato B) del contratto (e precisamente per quelle di valore decisamente superiore rispetto a quelle oggetto di acquisto diretto). Risulta quindi evidente l’intimo collegamento negoziale tra le diverse modalità di acquisizione della disponibilità dei macchinari, di tal ché non potrebbe valutarsi l’acquisto diretto delle presse separatamente dalle vicende del contratto di leasing. Ma ancor più confortante circa la correttezza della riqualificazione della vicenda negoziale, così come operata dall’Ufficio, è la lettura del contratto di fornitura per effetto del quale la Ristori si impegnava a fornire alla MDM i prodotti individuati nell’Allegato A) del contratto, e cioè dei medesimi prodotti che a sua volta la MDM si era impegnata a fornire alla Piaggio & C. S.p.A. per effetto del contratto del 28 maggio 1998. Nella premessa dell’atto in esame, infatti si specifica espressamente che la ragione dell’accordo risiedeva nel fatto che la MDM aveva ceduto a R. “le presse, le attrezzature ed i macchinari necessari per la realizzazione della quasi totalità dei prodotti da consegnare a Piaggio”, aggiungendosi poco dopo che R., anche per effetto della predetta cessione, disporrà in tempo utile delle risorse, del personale e delle conoscenze tecniche e tecnologiche necessarie e sufficienti per provvedere al soddisfacimento delle esigenze di Piaggio & C. S.p.A. La lettura combinata di tali previsioni con l’accordo finalizzato ad assicurare il trasferimento dei macchinari, depone in maniera evidente per la conclusione che le presse e gli altri macchinari venduti apparivano sostanzialmente idonei ad assicurare il trasferimento di un ramo di azienda munito di autonoma potenzialità produttiva, in maniera tale da consentire, una volta trasferiti i macchinari nel capannone fatto predisporre dalla cessionaria allo specifico fine di alloggiare tali manufatti, la prosecuzione dell’attività produttiva già in precedenza svolta dalla MDM, e senza una sostanziale soluzione di continuità (atteso che il trasporto ed il montaggio delle presse risale ad una data anteriore alla formale conclusione dei contratti di vendita). In tal senso non deve trascurarsi, come si evince dalla lettura del contratto, che i diritti di proprietà industriale ed intellettuale sugli stampi forniti in comodato dalla cedente alla cessionaria, così come sugli stessi prodotti, siano appartenenti alla Piaggio (art. 2.5 del contratto di fornitura), di guisa che anche il rapporto intercorso tra la cedente e la committente Piaggio appare riconducibile ad una ipotesi sostanziale di subfornitura, essendo la produzione della prima destinata esclusivamente alla seconda, e realizzata conformemente e rigorosamente attenendosi alle specifiche tecniche dettate da quest’ultima. Trattasi di considerazione che incide anche sull’argomento speso dalle controricorrenti circa la mancata menzione negli accordi intervenuti tra cedente e cessionaria, anche dell’avviamento, essendo evidente che in una situazione connotata da tali modalità di svolgimento del rapporto, il valore dell’avviamento risulta pressoché nullo. A completare il quadro degli elementi fattuali si pone poi l’acquisizione ad opera della R. del magazzino materie prime e semilavorati della MDM, la cui consegna in maniera frazionata avviene contestualmente alla cessione delle presse, nonché l’assunzione da parte della cessionaria di ben 14 ex dipendenti della MDM. In presenza di tale complessivo quadro istruttorio, l’accoglimento del ricorso delle contribuenti risulta effettivamente idoneo a violare le suesposte prescrizioni normative, essendosi del tutto trascurata la nozione di azienda (ovvero di ramo d’azienda), quale evincibile, con specifico riferimento alla materia tributaria, dai precedenti giurisprudenziali sopra riportati, ed essendosi avvalsa la CTR, al fine di contrastare l’operato dell’Ufficio di elementi in parte non significativi o decisivi (come ad esempio la costruzione di un capannone nuovo per alloggiare le presse ed i macchinari, elemento questo che trascura il fatto che non immutano la qualificazione giuridica in termini di cessione di azienda l’eventuale ingerenza del cessionario ovvero le modifiche di carattere secondario apportate all’organizzazione dei mezzi di impresa unitariamente considerati - cfr. in tal senso, ed anche al di fuori della materia tributaria, Cass., n. 27286/2005 - né che il ramo di azienda riceva una diversa localizzazione), ed in parte irrilevanti (come ad esempio la circostanza che l’acquisto della maggior parte delle presse sia avvenuta mediante la coeva conclusione di un contratto di leasing, costituendo il ricorso a tale GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 71 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità strumento giuridico, l’utilizzo di una valida modalità di finanziamento della cessione, onde procurarsi la provvista per far fronte all’obbligo di pagamento del prezzo della cessione). Alla cassazione della sentenza consegue il rinvio per un nuovo esame alla CTR di Firenze in diversa composizione, la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il primo motivo, accoglie i restanti motivi e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della CTR di Firenze, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio. La riqualificazione degli assetti negoziali nella prospettiva dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 di Filippo Dami (*) e Diletta Mazzoni (**) La Corte di cassazione, con sentenza n. 15175/2016, ribadisce che la cessione di beni strumentali che si rivelino idonei, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio dell’impresa deve riqualificarsi ai fini impositivi come una cessione di azienda. Questa conclusione viene raggiunta sullo sfondo di una ricostruzione sistematica che conferma come, ai fini dell’applicazione dell’imposizione indiretta, debba attribuirsi rilievo preminente alla causa reale ed alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti con il loro assetto negoziale, del quale quindi ed in ultima analisi vanno sempre apprezzati i reali effetti giuridici. Se ne trae la conferma nel fatto che l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 non ha nulla a che vedere né con l’elusione, né con l’abuso del diritto. Resta semmai da domandarsi come possano superarsi le difficoltà di apprezzamento di una fattispecie tanto complessa ed articolata come la cessione d’azienda. In questa prospettiva, mancando (ancora?) l’affermazione di un generalizzato principio del contraddittorio preventivo, l’unica forma di efficiente compliance che il contribuente dovrà attentamente valutare è quella sottesa alla presentazione del c.d. interpello qualificatorio previsto dal “nuovo” art. 11 della Legge n. 212/2000. Il caso affrontato nella sentenza in commento muove dalla contestazione (ormai “classica”) di riqualificazione in cessione di ramo d’azienda di una serie di separate pattuizioni negoziali, attraverso le quali una società aveva ceduto ad un’altra alcuni macchinari ed il proprio magazzino, nel contesto di un più ampio accordo funzionale ad assicurarne l’utilizzo in chiave imprenditoriale. Segnatamente, nel caso di specie, i cespiti oggetto di (autonoma e separata) alienazione erano costituiti da “presse, macchinari ed attrezzature, per lo svolgimento di attività di stampaggio lamiere, grassaggio, impacchettamento sfridi ed assemblaggio di componenti stampati” che erano impiegati in un fabbricato industriale già di proprietà dell’acquirente e, a tale ces(*) Professore Aggregato di Diritto Tributario presso l’Università degli Studi di Siena 72 sione, erano conseguiti una serie di ulteriori accordi tra le parti che, di fatto, avevano permesso all’acquirente medesima di proseguire la fornitura dei beni prodotti nei confronti di un primario cliente della cedente, una parte dei cui dipendenti risultavano reimpiegati quale forza lavoro della nuova realtà industriale. All’esito del giudizio di merito, conclusosi in entrambi i gradi a favore della parte privata, l’Agenzia delle entrate aveva proposto ricorso per Cassazione sostenendo, in particolare e per quanto qui interessa, la violazione delle norme di cui agli “artt. 2, comma 3, lett. b) e 19 del D.P.R. n. 633/1972, (...) 40 del D.P.R. 131/1986 e (...) 2555 c.c.”, siccome i concreti effetti verificatisi nel caso di specie sarebbero stati, per l’appunto quelli di una cessione di (**) Avvocato in Empoli GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità azienda e non di singoli beni, con conseguente integrazione dei relativi presupposti ai fini impositivi. La Corte ha, infine, accolto (cassando con rinvio la sentenza impugnata) le doglianze dell’Amministrazione finanziaria richiamando alcuni principi (già) consolidatisi in una serie di sue precedenti pronunce (puntualmente richiamate in quella in commento) secondo i quali: a) “ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro (...) deve attribuirsi rilievo preminente alla causa reale ed alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti”, talché “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscono a semplici elementi della fattispecie tributaria”, per cui “anche se non potrà prescindersi dall’interpretazione della volontà generale secondo i canoni generali”, “nella individuazione della materia imponibile dovrà darsi prominenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare con conseguente tangibilità, sul piano fiscale, delle forme negoziali”. “Il tema dell’indagine non consiste nell’accertare cosa le parti hanno scritto ma cosa le stesse hanno effettivamente realizzato con il regolamento negoziale adottato”; b) deve, quindi, ritenersi configurata una cessione di azienda “tutte le volte in cui la relativa convenzione negoziale abbia avuto ad oggetto il trasferimento di beni organizzati in un contesto produttivo (anche solo potenziale) dall’imprenditore per l’attività di impresa” di talché tale fattispecie ricorre “ove sussista una cessione di beni strumentali atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza all’esercizio dell’impresa” che, invero, e sempre per quanto i giudici indicano, potrebbe anche non essere attuale bastando a tal fine la sussistenza di una mera idoneità per tale utilizzo. Riqualificazione degli assetti negoziali (1) Cfr., anche per ulteriori riferimenti alla dottrina che si è occupata di questo tema, F. Dami, “Conferimento di azienda e cessione delle partecipazioni: siamo alla svolta?”, in questa Rivista, n. 10/2016, pag. 795. (2) Si veda, per maggiore completezza sotto questo profilo, E. Della Valle, “Profili elusivi/abusivi della circolazione indiretta del complesso aziendale”, in il fisco, n. 35/2014, pag. 3409 ss. (3) Cfr., Cass., n. 5877 o, più di recente, n. 1955/2015, che recepiscono il consolidato orientamento dottrinale di impossibilità di riferire natura antiabusiva all’art. 20, D.P.R. n. 131/1986. Si veda sul punto, ad es., G. Marongiu, “L’abuso del diritto nella legge del registro tra principi veri e principi asseriti”, in Dir. prat. trib., n. 1/2013, pag. 361 ss., o G. Tabet, “L’art. 20 della legge di registro e la dottrina della metempsicosi”, in questa Rivista, n. 7/2016, pag. 588. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 La (condivisibile) conclusione ora sintetizzata permette di tornare a riflettere sul tema, mai sopito ed anzi oggetto di costanti spunti di rinnovato interesse, della possibile riqualificazione degli assetti negoziali definiti dai contribuenti ai fini della (corretta) sottoposizione dei medesimi all’imposizione indiretta che, invero, trova nell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 il proprio tradizionale referente normativo (1). La sentenza in commento sembra, peraltro, confermare l’impostazione che vuole ricondotta tale norma al proprio alveo naturale, di previsione che legittima l’Amministrazione finanziaria a tassare gli atti sottoposti a registrazione prescindendo dal loro nomen, ed avendo piuttosto riguardo agli effetti giuridici che l’assetto negoziale infine determina. Si tratta, con ogni evidenza, di una lettura pertinente della volontà legislativa che esprime la necessità di valorizzare, ai fini del tributo in esame, l’assetto reale che con le loro pattuizioni le parti intendevano configurare. Ma proprio considerando tale profilo emerge l’elemento qualificante della pronuncia che ne occupa: se, infatti, il citato art. 20 ha la funzione di indicare il “criterio” di tassazione, la “modalità” con la quale la (corretta) fattispecie imponibile viene individuata non può che essere quella imposta dal riferimento alle ordinarie regole civilistiche in punto di interpretazione dei contratti (i.e., l’art. 1362 c.c.) (2) cui, inevitabilmente, l’Ufficio dovrà quindi far ricorso nella propria attività istruttoria e delle quali dovrà dar conto per motivare adeguatamente gli atti impositivi che, infine, si determini ad emettere. Prende, insomma (e opportunamente), sempre più campo anche in giurisprudenza (3) la tesi per cui l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 non ha nulla a che vedere con l’elusione e con l’abuso 73 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità di diritto, così superandosi il (discutibile precedente) orientamento il quale, nell’attribuirvi siffatta funzione (4), valorizzava detta norma come referente giuridico di rettifiche che, per la fattispecie che qui interessa, qualificavano le cessioni aziendali indirette come operazioni, per l’appunto, abusive (5). Di qui, il correlato ridimensionamento della portata applicativa di tale norma che è da auspicare sia ormai chiaro che può essere impiegata esclusivamente nella valutazione dell’atto sottoposto a registrazione in senso strettamente “cartolare” (6), senza esorbitare al di fuori di esso involgendo operazioni civilistiche e commerciali ivi non rappresentate (7). Cessione (isolata) di beni o (unitaria) di azienda? Sullo sfondo delle condivisibili conclusioni di ordine sistematico cui si è ora fatto riferimento, resta da riflettere brevemente sui parametri per valutare quando una serie di isolate cessioni di beni possa riqualificarsi, nel senso indicato, come una cessione di azienda o, ovviamente (e nello stesso senso), come ramo di essa. Rispetto a tale profilo la sentenza in commento non segna alcun profilo innovativo, limitandosi a richiamare principi che possiamo ritenere del tutto pacifici. Come inizialmente indicato, i giudici di legittimità nel caso di specie, tornano infatti a ricordare tutti quei precedenti nei quali è stato chiarito che, a tal fine, debba guardarsi al risultato finale che la complessiva convenzione negoziale ha determinato, di fatto verificando se quei beni oggetto delle singole cessioni abbiano o meno mantenuto, anche presso il loro acquirente, quel rapporto di combinazione organizzata idonea a supportare l’esercizio di una attività imprenditoriale che, invero, costituisce il cuore della definizione stessa di azienda secondo l’art. 2555 del Codice civile. In tal senso, non sarà quindi sufficiente una mera valutazione astratta, ma la concreta verifica di questa circostanza la quale non potrà prescindere dalle concrete condizioni fattuali nelle quali l’assetto negoziale si è materializzato. Affidandosi ad uno dei tanti possibili esempi, è chiaro che se un imprenditore acquista da un altro alcuni macchinari al solo scopo di completare o rinnovare il proprio apparato produttivo non sta acquistando un’azienda, ma altrettanto chiaro è che, se al contrario tale acquisizione implica (come sembra si fosse verificato nel caso di specie) l’integrazione di una attività pur correlata a quella condotta ma prima non esercitata (o esercitata in termini organizzativi diversi) quanto acquistato è certamente un’azienda. Si tratta, evidentemente, di questioni controverse (e controvertibili) che, invero, scontano l’incertezza tipica della qualificazione in chiave giuridica di fenomeni complessi ed articolati la quale è spesso condizionata dalla sensibilità di chi proceda alla relativa osservazione. Ed invero è questa una delle ipotesi che disvelano la stretta necessità di una adeguata fase contraddittoria nel momento in cui l’istruttoria dell’Ufficio venga avviata. Il confronto con il (4) Cfr., sul punto, Cass., n. 3481/2014 dove si legge che: “in materia tributaria costituisce condotta abusiva l’operazione economica cha abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo elusivo del Fisco, sicché il divieto di siffatte operazioni non opera ove esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta (v. Cass., SS.UU., n. 19234/2012, n. 21782/2011). Peraltro il principio secondo cui, in forza del diritto comunitario, non sono opponibili all’Amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscono abuso del diritto, cioè che si traducono in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale, deve estendersi a tutti i settori dell’ordinamento tributario, e dunque anche all’ambito delle imposte indirette, essendo sufficiente anche la prova presuntiva, come nella specie. Pertanto, incombe sul contribuente la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti con carattere non meramente marginale o teorico, come nel caso in esame (cfr., anche Cass., SS.UU., n. 8772/2008)”. (5) Per maggiore completezza sull’aspetto in argomento, si veda M. Beghin, “La cessione di azienda tra qualificazione giuridica del fatto, interpretazione dell’atto e ridimensionamento dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986”, in Corr. Trib., n. 40/2016, pag. 3037. (6) Come si comprende, in via dirimente, dal passaggio della sentenza in rassegna ove si legge che: “nella individuazione della materia imponibile dovrà darsi prominenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare, con conseguente tangibilità, sul piano fiscale, delle forme negoziali”. (7) L’impostazione appena descritta restituisce d’altra parte coerenza alla norma anche sotto il profilo sistematico essendo la stessa collocata nel contesto di un tributo tradizionalmente qualificato tradizionalmente come “imposta d’atto”. 74 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Legittimità contribuente sembra, infatti, decisivo per la valutazione di elementi che la successiva fase giudiziale (come ci mostra anche il caso sotteso alla decisione in commento) non sembra in grado di riuscire a far affiorare con il dovuto approfondimento. Ma è proprio ragionando su questo profilo che emerge un possibile limite dell’inquadramento sistematico della disciplina di riferimento sulla quale ci si è prima soffermati. Se, infatti, l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 non è una norma antielusiva, è chiaro che la stessa non sconta le garanzie procedimentali (proprio in chiave di preventivo confronto tra Fisco e parte privata) che tipicamente riguardano queste ipotesi e che oggi sono nel nostro ordinamento ribadite nell’assetto definito dall’art. 10-bis della Legge n. 212/2000. Manca d’altra parte - almeno per il momento e nell’attesa che si formi al riguardo un orientamento interpretativo consolidato e condiviso l’affermazione nel nostro ordinamento di un generalizzato diritto (per il contribuente) e dovere (per l’Amministrazione finanziaria) al contraddittorio preventivo che preceda (in via generalizzata) l’emissione dell’atto impositivo (8). Applicazione dell’interpello qualificatorio In questa prospettiva, l’utile forma di compliance al momento “disponibile” è allora (solo) quella che si rinviene nella nuova disciplina degli interpelli attuata con il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156 (9) e che, nella modifica recata all’art. 11 della stessa Legge n. 212/2000, ha previsto che è consentito al contribuente sollecitare l’Amministrazione finanziaria a rendergli (8) Il riferimento è, ovviamente, al noto dibattito suscitato al riguardo dal succedersi delle pronunce delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (prima con la sentenza n. 1869/2014, poi smentita con la successiva sentenza n. 24823/2015) e della remissione della questione riguardante la portata applicativa dell’art. 12, comma 7, della Legge n. 212/2000 alla Corte costituzionale operata dalla Comm. trib. reg. Toscana con l’ordinanza n. 736/1/15. Si tratta di un tema che esula i limiti del presente lavoro e sul quale non è quindi utile (né possibile) soffermarsi se non per ribadire che quella in esame è una della fattispecie che deporrebbe per il ritenere di stretta utilità, in chiave di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa prima ancora che di garanzia del diritto di difesa del contribuente, l’affermazione di un generalizzato obbligo del contraddittorio pre- GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 un parere motivato su un caso concreto e personale, non solo per elidere le obiettive condizioni di incertezza che connotino l’interpretazione di una norma tributaria che egli si trovi ad applicare (c.d. interpello ordinario interpretativo, che ricalca esattamente l’istituto contemplato nel pregresso art. 11 del medesimo Statuto dei diritti del contribuente), ma anche per la qualificazione di una fattispecie la cui (corretta) individuazione sia necessaria per applicare, non applicare o applicare in modo diverso un determinato precetto impositivo. Si tratta, invero, del c.d. interpello ordinario qualificatorio che, secondo le indicazioni della relazione di accompagnamento al provvedimento di riforma, ricorre, tra le altre ipotesi, proprio per valutare la sussistenza di un’azienda nel momento in cui sia dubbio che se ne stia configurando il trasferimento. Ebbene, simile riferimento, se da un lato dimostra una sensibilità del legislatore nel comprendere la delicatezza e l’incertezza che caratterizzano l’ipotesi di cui stiamo trattando, dall’altro dovrà necessariamente sollecitare l’attenzione dei contribuenti, non solo nella prospettiva di assicurarsi (attraverso questo “dialogo” preventivo) la certezza circa la correttezza dei propri comportamenti (quale tratto rilevante allorché si discuta, come in questo caso, di fenomeni di riorganizzazione imprenditoriale), ma anche perché la mancata attivazione di tale (pur facoltativo) strumento potrà poi rivelarsi uno svantaggio nell’eventuale fase accertativa e giudiziale, potendo ingenerare anche un (negativo) apprezzamento verso un contegno di scarsa trasparenza nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria. ventivo. Al riguardo, tra i molti e limitatamente a taluni dei contributi più recenti, cfr. E. De Mita, “Sul contraddittorio le Sezioni unite scelgono una soluzione ‘politica’”, in Dir. prat. trib., 2016, pag. 20241; A. Lovisolo, “Il contraddittorio preventivo tra speranze (deluse), rassegnazione e prospettive”, ivi, 2016, pag. 719; F. Tundo, “La riaffermazione del contraddittorio anteriore al provvedimento accertativo”, in Corr. Trib., 2016, pag. 1878, G. Glendi, “I giudici di merito (e non solo) si ‘ribellano’ alle ‘ultime parole’ delle Sezioni Unite sul contraddittorio”, ivi, 2016, pag. 1569. (9) Sulla quale si vedano, da ultimo, i commenti di G. Glendi in C. Glendi - C. Consolo - A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, IPSOA, 2016, pag. 89 ss. 75 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito Fiscalità internazionale I vizi formali non fanno perdere la qualifica di beneficiario effettivo prevista dalla normativa europea Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I, Sent. 3 novembre 2016 (18 ottobre 2016), n. 8303 - Pres. Roggero - Rel. Chiametti Fiscalità internazionale - Direttive - Direttiva “interessi e canoni’’ - Diritti riconosciuti dalla normativa europea - Soddisfacimento dei requisiti sostanziali - Necessità - Requisiti formali - Irrilevanza I diritti riconosciuti dalla normativa dell’Unione Europea (nel caso in specie, la Direttiva “interessi e canoni”), qualora siano soddisfatti i relativi requisiti sostanziali che consentono di beneficiarne, non possono essere disconosciuti per il mancato rispetto di requisiti puramente formali, non espressamente previsti dalla normativa europea. La società ricorrente A. S.r.l. impugnava l’avviso in epigrafe con ricorso depositato il 27 aprile 2016. La controversia traeva origine dal PVC con il quale l’Ufficio delle entrate contestava alla società ricorrente, l’omessa applicazione di ritenute (12,50%) su interessi corrisposti nel 2010, al socio francese A.E. S.A., in violazione dell’art. 26-quater del D.P.R. n. 600/1973. Dava evidenza che, anche per i periodi d’imposta 2008 e 2009 nei quali erano state sollevate simili contestazioni, in data 16 marzo 2015 era stata depositata al Ministero dell’Economia e della Finanza a Roma, istanza per l’applicazione della procedura amichevole (MAP) secondo l’art. 26 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia. La contestazione sollevata dall’Ufficio atteneva alla inidoneità della documentazione prodotta dalla società, in ordine alta mancanza di una data certa che comprovasse la consegna della documentazione, di cui all’articolo in parola, prima del momento di pagamento degli interessi. La società ricorrente eccepiva che la stessa godeva di tutti i requisiti previsti dal citato art. 26-quater e che, tale circostanza, era stata riconosciuta anche dai verificatori. Dunque la verificata società riteneva che l’avviso in questione era stato spiccato solo per il difetto della data certa sulla documentazione comprovante la sussistenza dei requisiti. All’uopo evidenziava come l’interpretazione della norma in parola fornita dall’Ufficio era erro- nea, infatti, tale norma non comminava la nullità della documentazione per il solo fatto che la stessa non veniva presentata, in ipotesi, oltre il termine previsto. Affermava poi, che l’esenzione da ritenuta spetti in presenza dei requisiti di legge e che tale esenzione non poteva essere disconosciuta per il motivo che la documentazione attestante i requisiti veniva non già omessa, ma solo tardivamente presentata. Sul punto citava la sentenza n. 9819/1/2015 della stessa CTP adita che, in accoglimento delle ragioni del contribuente, statuiva che per la prova della qualifica del beneficiario effettivo, del soggetto percipiente, era sufficiente produrre la certificazione di residenza nello Stato comunitario e che, eventuali oneri aggiuntivi richiesti dall’A.F. non potevano essere ritenuti obbligatori, inclusi la prova della data certa. Citava dell’altra giurisprudenza di merito e di legittimità oltre che documenti di prassi che affermavano che in presenza dei requisiti sostanziali, per la fruizione dell’agevolazione, delle mere carenze formali, quali la data certa mancante non potevano mai portare alla disapplicazione di un regime di favore come quello contemplato dall’art. 26-quater del D.P.R. n. 600/1973. Aggiungeva altresì, che una siffatta interpretazione dell’art. 26-quater del Decreto presidenziale da ultimo citato era in aperto conflitto con la giurisprudenza di matrice Europea laddove indicava che era vietato subordinare il diritto all’esenzione d’imposta al mero rispetto di obblighi formali. Con riferimento al calcolo delle sanzioni evidenzia- 76 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Fatto e diritto Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito va come, a suo dire, l’Ufficio aveva violato l’art. 12 del D.Lgs. n. 472/1997 sul c.d. cumulo giuridico, giacché, trattandosi di violazione di diverse disposizioni di legge la sanzione applicabile sarebbe dovuta essere la minore tra quella risultante dalla somma materiale delle singole violazioni e quella risultante dal calcolo incrementale basato sulla sanzione più grave. Seguitava poi nell’esposizione di calcoli suoi propri e concludeva per la totale illegittimità della sanzione pretesa. Come ultimo motivo di doglianza evidenziava che, nel caso in cui la data certa assumesse valore probante, che l’aliquota applicabile alla ritenuta non era quella del 12,50% come preteso dall’Ufficio, bensì quella del 10%, quale ritenuta convenzionale, così come stabilito all’interno del Trattato contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia, all’art. 11, comma 2. Chiedeva la declaratoria di invalidità dell’avviso di accertamento impugnato. In data 18 luglio 2016, l’Ufficio si costituiva in giudizio. Evidenziava sin da subito che, dalla semplice lettura della norma era perspicuo che la presentazione della dichiarazione, attestante il possesso dei requisiti di legge, da parte del beneficiario effettivo, doveva essere presentata entro la data di pagamento degli interessi passivi. Seguitava nel ritenere, al contrario di quanto affermato da parte avversa che, l’indicazione della data certa aveva natura sostanziale in quanto impediva l’espletamento dell’attività di controllo da parte degli Uffici. Sul punto riteneva pienamente legittimo il proprio operato. Sulla doglianza relativa all’applicazione dell’aliquota convenzionale del 10% in luogo di quella domestica del 12,50%, l’Ufficio, partendo dalla lettura dell’art. 11 della Convenzione contro le doppie imposizioni Italia Francia, concludeva affermando che, visto il comma 6 dell’articolo in questione e la piena operatività dello stesso per la società verificata - il cui capitale era posseduto al 100% dalla francese - qualificava l’italiana al pari di una stabile organizzazione svolgente attività commerciale/industriale e, in quanto tale, non poteva non trovare applicazione l’art. 26 del D.P.R. n. 600/1973 il quale prevede l’aliquota del 12,50% di ritenuta a titolo d’imposta. Sulle sanzioni l’Ufficio rilevava l’esistenza di un errore materiale nel calcolo, pertanto la sanzione corretta da irrogare era pari a euro 201.291,00, ovvero il 150% dell’importo delle ritenute non operate. Concludeva nel resto, specificando la corretta applicazione del cumulo materiale. Chiedeva il rigetto del ricorso. Presenti all’udienza le parti che hanno insistito nelle loro richieste ed eccezioni. Il Collegio giudicante così decide. Sulla problematica dell’esenzione dalle imposte sugli interessi e sui canoni corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unità Europea, questo giudice osserva quanto segue. Nel caso specifico la società si è comportata in modo lineare e in conformità ai requisiti sostanziali richiesti dalla norma con la conseguenza che le contestazioni dell’Ufficio non sono condivise da questo Collegio giudicante. Come già dettagliatamente indicato in parte narrativa, la società ricorrente ha omesso l’effettuazione della ritenuta d’imposta prevista dall’art. 26-quater del D.P.R. n. 600/1973, sugli interessi passivi e canoni che ha corrisposto alla società A.E. SA, a fronte di prestiti ricevuti da quest’ultima. Nel caso de quo, l’Ufficio contestava la non applicazione della ritenuta in quanto la documentazione esibita dalla società, a supporto dell’esenzione non risultava conforme, da un punto di vista formale, a quanto disposto dal comma 6 dell’articolo sopra richiamato. Tuttavia, con riferimento alla qualificazione del beneficiario effettivo, la più recente giurisprudenza ha sostenuto che “il beneficiario effettivo per essere qualificato tale è necessario che: - il reddito venga ad esso imputato secondo la legge fiscale dello stato in cui esso risiede; - il soggetto cui il reddito è imputato non deve avere alcun obbligo, legale o contrattuale, di trasferire il reddito ad altro soggetto, sulla base di una obbligazione originariamente collegata al reddito ricevuto. Va però detto che mentre la prima circostanza può facilmente essere accertata mediante la ricezione del certificato di residenza convenzionale rilasciato dalle autorità fiscali dello stato di residenza del supposto beneficiario effettivo, la seconda circostanza deve essere oggetto di separata verifica che non deve competere al sostituto di imposta ... Deve ritenersi pertanto corretto il comportamento della contribuente che ha assunto la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero che ha dichiarato la sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti per beneficiare di regimi fiscali di favore ...” (Comm. reg. Lombardia, Sez. staccata Brescia, 29 giugno 2015, n. 2897). Quanto precede evidenzia come il requisito sostanziale della residenza ai fini fiscali del soggetto percipiente, caratterizzato dalla soggezione del reddito percepito alla legge fiscale dello stato di residenza, assume rilevanza apicale nella qualificazione del soggetto percipiente, quale beneficiario effettivo di tale reddito. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 77 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito A tal riguardo si ricorda che, secondo la ormai pacifica posizione della giurisprudenza di merito, i certificati emessi dalle autorità fiscali straniere hanno valenza probatoria vincolante (Comm. trib. reg. Abruzzo, Sez. staccata Pescara, sez. X, 2 dicembre 2006, n. 250; Comm. trib. reg. Abruzzo, Sez. staccata Pescara, sez. X, 27 settembre 2007, n. 305; Comm. trib. reg. Abruzzo, Sez. staccata Pescara, sez. IX, 30 giugno 2009, n. 154). In effetti, le certificazioni possono contenere l’attestazione di alcuni fatti ed in parte alcune considerazioni espresse dagli organi fiscali; ebbene quando nelle predette certificazioni, viene confermata la presenza dei requisiti per l’applicazione della Convenzione, “... l’Ufficio non può mettere in discussione l’autenticità dell’attestazione e se intendesse farlo, dovrebbe in primo luogo chiedere chiarimenti al corrispondente organo (del Fisco straniero)” (Comm. trib. reg. Abruzzo, Sez. staccata Pescara, sez. IX, 22 dicembre 2010, n. 228). In senso analogo si sono pronunciati i giudici della Commissione tributaria regionale del Piemonte. Secondo tali giudici “... il soggetto italiano può limitarsi ad assumere la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero quale valido elemento di prova della sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti dalle medesime disposizioni convenzionali per beneficiare di regimi fiscali di favore” (Comm. trib. reg. Piemonte, Sez. XII, 4 maggio 2012, n. 28). L’orientamento delle corti di merito è stato avallato dalla Cassazione la quale, in un caso di presunta esterovestizione di una società olandese, ha sottolineato come il giudice di secondo grado aveva correttamente annullato l’avviso di accertamento basandosi sul certificato emesso dalle autorità fiscali olandesi che attestava la residenza in Olanda della società ed il suo assoggettamento alla locale imposta sulle società (Cass., Sez. trib., 3 febbraio 2012, n. 1553). Altresì, questo Consesso si riporta all’orientamento consolidato della Suprema Corte di Giustizia CE, secondo cui i diritti riconosciuti dalla normativa dell’Unione Europea, qualora siano soddisfatti i relativi requisiti sostanziali, non possono essere disconosciuti per il mancato rispetto dei requisiti puramente formali. Pertanto, quando sia stato assodato che siano stati soddisfatti i requisiti sostanziali, l’Amministrazione finanziaria non può subordinare la fruizione di tali diritti al rispetto di ulteriori requisiti formali. Ebbene, il certificato in esame evidenzia a chiare lettere che la società, per l’anno in esame, vale a dire 2010, possedeva tutti i requisiti sostanziali stabiliti dalla legge. Giustappunto, il requisito formale sollevato dall’Uffi- 78 cio, vale a dire l’assenza di una data certa, non può prevaricare il requisito sostanziale per l’accesso al regime invocato. Quindi è la sostanza che prevale sulla forma. Tenuto conto di ciò, l’operato dell’Ufficio decade tout court. Alla luce di quanto sopra il ricorso viene accolto in toto ed annullato l’atto impugnato. Le spese di lite seguono la soccombenza, come da dispositivo. Il Collegio giudicante P.Q.M. annulla l’atto impugnato. Condanna l’Ufficio alle spese liquidate in euro 3.000,00 oltre esborsi e accessori di legge. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito Il possesso dei requisiti sostanziali previsti dalla Direttiva “interessi e royalties” è condizione necessaria e sufficiente per fruire dei relativi benefici fiscali? di Franco Roccatagliata (*) L’esegesi della norma comunitaria (Direttiva 2003/49/CE) e l’analisi comparata del suo recepimento negli altri Stati membri confermano (pur con qualche eccezione) la stringata motivazione dei giudici della Commissione tributaria provinciale di Milano nella sentenza n. 8303/2016: la qualifica certificata di “beneficiario effettivo”, ai sensi della Direttiva, consente di fruire dell’agevolazione prevista dalla norma europea anche qualora sia acquisita ad avvenuto pagamento degli interessi o canoni. Il procedimento contenzioso in esame trovava origine nella contestazione di un avviso d’accertamento per l’anno 2010, in cui l’Ufficio delle imposte aveva rilevato la violazione delle disposizioni del D.P.R. n. 600/1973, per l’omessa applicazione della ritenuta alla fonte su interessi passivi versati da una controllata italiana alla propria società-madre non-residente, a fronte di prestiti da questa ricevuti. Va rilevato che, nel caso in questione, la madre non era la classica holding finanziaria situa- ta in un Paese a fiscalità agevolata o utilizzata come stepping-stone per indirizzare i flussi finanziari fuori dall’Unione Europea, ma la capo-fila (quotata in Borsa) del ramo chimico di un noto gruppo petrolifero transalpino, proprietaria direttamente o attraverso la controllata italiana - di un importante stabilimento nel polo petrolchimico di Porto Marghera e di altri insediamenti industriali ubicati nel nostro Paese. Nel corso di una verifica fiscale, gli ispettori avevano constatato che le attestazioni, richieste dal comma 6 dell’art. 26-quater del D.P.R. n. 600/1973, per poter fruire dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte sugli interessi corrisposti a soggetti residenti nell’Unione Europea, erano state regolarmente prodotte, ma evidenziavano una data posteriore a quella dell’effettivo pagamento degli interessi alla casa-madre estera. Per l’Amministrazione finanziaria “l’indicazione della data certa aveva natura sostanziale in quanto impediva l’espletamento dell’attività di controllo da parte degli Uffici”. Di conseguenza, attribuita una valenza essenziale a tale requisito formale, aveva ritenuto inapplicabile l’esenzione della ritenuta prevista dall’art. 26quater - la norma con la quale l’ordinamento tributario italiano ha recepito la Direttiva “interessi e royalties”. Inoltre, dato che la società madre era anche il socio unico della società controllata (S.r.l.) (*) Professore a contratto di Diritto tributario europeo al College of Europe, Bruges (Belgio) e membro del Tax Institute dell’Ulg - Università di Liegi (Belgio) (1) Comm. trib. prov. di Milano, Sez. I, 2 dicembre 2015, n. 9819, in questa Rivista, n. 4/2016, pag. 343 ss, con commento di F. Roccatagliata. (2) Direttiva 2003/49/CE del Consiglio del 3 giugno 2003, concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi; in G.U.U.E. n. L 157 del 26 giugno 2003, pag. 49 ss. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 79 Nella sentenza in commento, la Prima sezione della Commissione tributaria provinciale di Milano, si è pronunciata, ancora una volta, sulle modalità applicative delle disposizioni di diritto interno e convenzionali che regolamentano le ritenute alla fonte sui flussi di capitale transfrontalieri. La decisione dei giudici di prima istanza ha, in sostanza, ribadito quanto già affermato in precedenza dalla stessa CTP di Milano (1), e cioè, che l’Amministrazione finanziaria, qualora siano soddisfatti i requisiti sostanziali di legge, non può subordinare la fruizione di diritti riconosciuti da una normativa dell’Unione Europea - nel caso in questione, la Direttiva “interessi e royalties” (2) - al pedissequo rispetto di requisiti puramente formali. La fattispecie e questioni correlative Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito italiana, per l’Amministrazione finanziaria, il suo trattamento fiscale non poteva differire da quello di una stabile organizzazione in Italia della società madre. Di conseguenza - secondo l’interpretazione data dal Fisco della Convenzione italo-francese contro le doppie imposizioni (3) - a fronte del pagamento di interessi transfrontalieri, non sarebbe stato possibile applicare neppure l’aliquota ridotta convenzionale prevista dall’art. 11 della predetta Convenzione bilaterale. Di ben altro parere la Commissione tributaria provinciale di Milano che, ricalcando la motivazione già formulata nella citata decisione del 5 dicembre 2015 (4), ha accolto il ricorso contro l’avviso d’accertamento, annullandolo. Per i giudici di prima istanza, l’elemento rilevante per beneficiare dell’esenzione impositiva è la qualifica del soggetto percipiente quale “beneficiario effettivo’’. Ovverosia, il possesso del requisito sostanziale della residenza fiscale in uno Stato membro dell’Unione e la soggezione del reddito percepito alla legislazione fiscale di tale Stato, in qualità di beneficiario finale. Un requisito accertabile grazie alla certificazione rilasciata dall’Amministrazione fiscale estera. Tale certificazione - almeno per quel che riguarda l’attestazione della residenza fiscale ai fini dell’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni - ha “valenza probatoria vincolante’’: una affermazione che trova solido conforto in una copiosa giurisprudenza di merito (5). Come è stato correttamente osservato (6), sarà, eventualmente, cura dell’Amministrazione finanziaria verificare, attraverso i canali esistenti di cooperazione amministrativa, l’autenticità dell’attestazione. Ai sostituti d’imposta non può essere domandato che di prestare l’ordinaria attenzione richiesta nella prassi commerciale, ma certamente non compete loro appurare la veridicità sostanziale di quanto attestato dal percipiente. Per esempio, non è compito del sostituto d’imposta accertarsi che il soggetto cui il reddito è imputato sia effettivamente il “beneficiario finale” (7), cioè, non abbia “alcun obbligo legale o contrattuale di trasferire il reddito ad altro soggetto” (8). La decisione dei giudici di prima istanza è nella sostanza condivisibile ma, come già osservato in precedenti note (9), alcuni passaggi della sentenza - e in particolare il diritto europeo invocato - proprio perché decisivi nel determinare l’esito del procedimento contenzioso, avrebbero meritato un migliore dettaglio. (3) Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica francese per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire l’evasione e la frode fiscali, con protocollo e scambio di lettere, fatta a Venezia il 5 ottobre 1989; ratificata con Legge 7 gennaio 1992, n. 20, in G.U. 23 gennaio 1992, n. 18. (4) V. nota 1. (5) Comm. trib. reg. Lombardia, Sez. LXV, 29 giugno 2015, n. 2897; Comm. trib. reg. Piemonte, Sez. XII, 4 maggio 2012, n. 28, oltre a Comm. trib. reg. Abruzzo, Sez. IX, 30 giugno 2009, n. 154, già citate nella sentenza in commento. Nel caso in questione, in realtà, non è messa in discussione la valenza probatoria delle attestazioni rilasciate dalle competenti Autorità fiscali estere, per cui il riferimento giurisprudenziale domestico, per quanto interessante, non sembra del tutto appropriato ai fini della corretta risoluzione del litigio. (6) E. A. Palmitessa, “Beneficiario effettivo: la certificazione estera è congrua a qualificarne lo status anche ai fini del diritto interno’’, in DB dirittobancario.it dell’8 febbraio 2016. (7) Direttiva 2003/49/CE, art. 1, comma 4. (8) Comm. trib. reg. Lombardia, 29 giugno 2015, cit. In questo senso anche la sentenza in commento, rifacendosi a pregressa giurisprudenza di merito. (9) F. Roccatagliata, “Nelle transazioni finanziarie ‘cross-border’ l’approccio sostanziale prevale e può operare in favore del contribuente” in questa Rivista, n. 4/2016, pag. 349; nello stesso senso, B. Izzo, “Sul momento di produzione della documentazione necessaria per l’esenzione prevista dalla Direttiva interessi e royalties”, in Riv. dir. trib. - supplemento on line del 24 luglio 2016. (10) Se la giurisprudenza in commento si affermerà come prevalente, non mancheranno in seguito le occasioni per un altro utile approfondimento di diritto europeo: l’esame approfondito di quello che, in sentenza (in fine), è definito un “orientamento consolidato della suprema Corte di Giustizia CE” che, per assicurare una piena fruizione dei diritti accordati dal diritto dell’Unione, attribuirebbe valore prevalente alla sostanza rispetto alla forma. 80 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Tematica europea e normativa italiana Nel presente commento ci si limiterà ad approfondire uno soltanto degli aspetti legati alla tematica europea, tra quelli evocati nel litigio: l’interpretazione delle disposizioni normative italiane di recepimento nel nostro ordinamento tributario della Direttiva “interessi e royalties” alla luce della normativa comunitaria e della sua esegesi (10). L’art. 26-quater del D.P.R. n. 600/1973, la norma che ha recepito la citata normativa comu- Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito nitaria, al comma 6 recita: “Ai fini dell’applicazione dell’esenzione di cui al comma 1 [cioè, sugli interessi e canoni pagati a società non residenti aventi i requisiti previsti dalla normativa in esame] ... deve essere prodotta un’attestazione dalla quale risulti la residenza del beneficiario effettivo ... rilasciata dalle competenti Autorità fiscali dello Stato in cui la società beneficiaria è residente ai fini fiscali ... nonché una dichiarazione dello stesso beneficiario effettivo che attesti la sussistenza dei requisiti indicati nei commi 2 e 4 [cioè - in riferimento al caso in esame e in estrema sintesi - la detenzione per almeno un anno di una partecipazione qualificata nella società che effettua il pagamento; il suo status di beneficiario effettivo finale e l’effettivo assoggettamento alle imposte in uno Stato membro dell’UE]. La suddetta documentazione va presentata ... entro la data del pagamento degli interessi o dei canoni ...”. I giudici di prima istanza, nella sentenza in commento, sembrano aver dato un valore secondario alla disposizione prevista dall’ultimo capoverso della norma sopra citata. È quindi opportuno verificare se la prevalenza dei requisiti sostanziali sul tenore letterale della norma - per il vero, piuttosto chiaro (“la documentazione va presentata entro la data del pagamento”) - trovi giustificazione attraverso un’interpretazione teleologica o sistematica della stessa. Per procedere a tale analisi si comparerà la disposizione dell’ordinamento italiano con la norma comunitaria che ne è all’origine e con i lavori preparatori di quest’ultima. Si cercherà, altresì, di vedere come la stessa norma del diritto dell’Unione Europea sia stata recepita o interpretata nell’ordinamento di altri Stati membri. Com’è noto, in materia di fiscalità diretta, gli interventi armonizzativi dell’UE hanno natura marginale e trovano giustificazione esclusivamente nel caso in cui un ravvicinamento delle disposizioni legislative degli Stati membri si renda necessario per assicurare il buon funzio- namento del Mercato unico e il risultato non sia altrimenti conseguibile (11). È altresì evidente che un recepimento (un’interpretazione o un’applicazione pratica) divergente - in modo ingiustificato - della normativa europea nei singoli Stati membri rischia di vanificare tale processo di ravvicinamento e, in ultima analisi, potrebbe ostacolare il funzionamento dello stesso mercato interno, obiettivo fondamentale dell’Unione Europea. Che cosa prevede la normativa europea in merito ai requisiti e le attestazioni necessarie per poter beneficiare dell’eliminazione della doppia imposizione su interessi e canoni infragruppo? L’art. 1 della Direttiva 2003/49/CE, che delimita l’ambito d’applicazione e la procedura dello strumento armonizzativo comunitario, al comma 11, precisa che uno Stato membro possa esigere “che il soddisfacimento dei requisiti ... sia comprovato da un certificato al momento del pagamento di interessi e canoni”. Si tratterebbe quindi di un requisito formale la cui obbligatorietà sarebbe lasciata all’apprezzamento discrezionale dei singoli Stati membri al momento della trasposizione. La Direttiva prevede inoltre che qualora il soddisfacimento dei requisiti stabiliti dalla norma comunitaria non sia comprovato al momento del pagamento, lo Stato membro “ha facoltà di esigere una ritenuta alla fonte”. Il successivo comma 12 dell’art. 1 della Direttiva prevede anche che l’esenzione dalla ritenuta alla fonte possa essere subordinata “all’emanazione di una decisione” dell’Amministrazione finanziaria competente (che deve comunque essere adottata entro tre mesi dalla richiesta), basata sul predetto certificato e sulle “informazioni a sostegno che lo Stato d’origine può ragionevolmente richiedere” (12). Infine, il comma 13 indica, in dettaglio, le informazioni che il certificato può contenere, qualora richiesto dallo “Stato d’origine”, cioè dallo Stato membro da cui proviene il pagamento. Per comprendere la ratio della disposizione europea, l’inabituale flessibilità concessa agli Sta- (11) Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (T.F.U.E.), art. 115. (12) Direttiva 2003/49/CE, cit., G.U.U.E n. L 157, pag. 50. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 81 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito ti membri in sede di trasposizione e le sue finalità, sia dal punto di vista tecnico che - soprattutto - sul piano politico, occorre contestualizzarla, e fare un lungo passo indietro, fino agli anni ‘90 del secolo scorso. Una Direttiva che contribuisse all’eliminazione della doppia imposizione sui flussi di redditi da capitale tra società collegate - un processo già iniziato nel 1990, con l’adozione della Direttiva “madre-figlia” (13) - era, da tempo, una pressante richiesta di alcuni Paesi dell’Unione Europea, come i Paesi Bassi e il Lussemburgo, sedi abituali di holding e servizi di tesoreria infragruppo di multinazionali europee (14). Nel 1997, gli Stati membri dell’UE raggiunsero un compromesso su un “pacchetto” di proposte fiscali controbilanciate che, da un lato, conteneva misure di natura essenzialmente anti-elusiva come la proposta di Direttiva sulla “tassazione del risparmio” (15) ed il “codice di condotta sulla tassazione delle imprese” (16), ma che, dall’altro - come da richiesta del Consiglio Ecofin nelle sue Conclusioni del 1° dicembre 1997 - includeva altresì una nuova proposta di Direttiva “interessi e royalties” (17), una contropartita ritenuta indispensabile dagli Stati membri meno interessati (per gli orientamenti di politica fiscale assunti nel proprio ordinamento) alla riduzione della c.d. concorrenza fiscale dannosa, per poter dare il loro “via li- bera” alle proposte anti-elusive contenute nel “pacchetto fiscale”. Se però si esamina la proposta presentata dalla Commissione europea nel 1998, si può notare come i commi da 11 a 13 dell’art. 1 della Direttiva (18) non fossero inclusi nel testo originario della proposta. L’obiettivo iniziale della proposta della Commissione era quello di ridurre al minimo gli oneri amministrativi per le imprese. Per tal ragione non era stato previsto di attestare il rientro nel campo d’applicazione della Direttiva attraverso il rilascio di uno specifico certificato (19). Quella parte della vigente Direttiva è apparsa solo più tardi, introdotta da un “testo di compromesso” della Presidenza di turno, a seguito di lunghe discussioni tenutesi in sede di Consiglio dell’Unione Europea (20), e in sincronia con le Conclusioni del Consiglio Ecofin del 25 maggio 1999 (21) che fissavano tutta una serie di questioni chiave inerenti alla proposta. In quell’occasione il Consiglio statuiva che le procedure amministrative nei singoli Stati membri per la riduzione/eliminazione delle ritenute alla fonte, vigenti al momento dell’adozione della normativa comunitaria, dovevano essere comunque rispettate, legittimando in tal modo un’eventuale applicazione asimmetrica della Direttiva per quel che riguarda la procedura di certificazione dei requisiti sostanziali (13) Direttiva del Consiglio 90/435/CEE del 23 luglio 1990, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi; in G.U.C.E. n. L 225 del 20 agosto 1990, pag. 6. (14) Una proposta analoga era già stata presentata alla fine del 1990 (e poi ritirata nel 1994); COM(90)571 del 6 dicembre 1990, in G.U.C.E. n. C 53 del 28 febbraio 1991, pag. 26. Tale proposta - come d’altronde la successiva del 1998 - non conteneva disposizioni sulle certificazioni comprovanti il possesso dei requisiti richiesti per beneficiare dei vantaggi fiscali della normativa. Per un’ampia panoramica delle diverse posizioni assunte in quegli anni dagli Stati membri e dalla Commissione europea sull’imposizione alla fonte degli interessi intragruppo, si rinvia, rispettivamente, a V. Ceriani, “Armonización del tratamiento fiscal de los ingresos provenientes de activos financieros en los países de la Comunidad Europea”, in Monetaria, n. 1/1991, pag. 95 e A. Widow “To Withhold or Not to Withhold: Comments on Mr Boon’s Article”, in European Taxation, n. 9/1994, pag. 293; si veda altresì C. Monfregola, “Regime fiscale europeo interessi e canoni infragruppo”, in Informatore Pirola, n. 5/1991, pag. 466; S. Mayr, “Nuove proposte di Direttive CEE nel campo dell’imposizione diretta”, in Corr. Trib., n. 41/1991, pag. 3051; B. Gangemi, “I progetti di armonizzazione all’esame del Consiglio CEE”, in Riv. dir. trib., n. 7-8/1993, pag. 829; e, infine, l’interessante analisi storica fatta da P. Troiano, “The EU Interest and Royalty Directive: The Italian Perspective”, in Intertax, n. 6-7/2004, pag. 325. (15) Proposta di Direttiva intesa a garantire un’imposizione minima effettiva sui redditi da risparmio sotto forma di interessi all’interno della Comunità; COM(1998)295 del 20 maggio 1998. (16) Risoluzione del Consiglio del 1° dicembre 1997, su un codice di condotta in materia di tassazione delle imprese; in G.U.C.E. n. C 2 del 6 gennaio 1998, pag. 2. (17) Proposta di Direttiva del Consiglio concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di diritti fra società consociate di Stati membri diversi; COM(1998)67 del 4 marzo 1998, in G.U.U.E. n. C 123 del 22 aprile 1998, pag. 9. (18) Relativi - come si è visto sopra - all’attestazione del possesso dei requisiti formali per poter beneficiare dell’esenzione impositiva. (19) Consiglio dell’Unione Europea, “Nota della Presidenza al Gruppo problemi finanziari”; doc. 11841/99 (FISC 215) del 31 ottobre 1999. (20) Nell’ambito delle riunioni in consiglio del Gruppo di lavoro ad alto livello sui problemi fiscali (fiscalità diretta). (21) Consiglio dell’Unione Europea, “Progetto di Conclusioni del Consiglio Ecofin del 25 maggio 1999”; doc. 8085/1/99 (FISC 111) del 21 maggio 1999. 82 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito per beneficiare dell’esenzione impositiva. Inoltre, le Conclusioni sopra citate legavano politicamente - in modo inscindibile - l’adozione della proposta di Direttiva “interessi e royalties” alla simultanea accettazione da parte di tutti gli Stati membri dell’integralità del “pacchetto fiscale” proposto dal Commissario alla fiscalità pro tempore (Mario Monti). Com’è noto, per mere ragioni strategiche forzare alcuni Stati membri a rinunciare al segreto bancario, principale ostacolo all’adozione di un altro importante elemento del “pacchetto”, la Direttiva sulla tassazione del risparmio - la proposta è rimasta a lungo “ostaggio” del veto di alcuni Stati membri (tra cui l’Italia). Inoltre, la consapevolezza delle perdite di gettito erariale che, inevitabilmente, l’eliminazione della doppia imposizione avrebbe comportato, spingeva molti Stati membri a non facilitare eccessivamente la fruizione dei vantaggi fiscali della norma comunitaria, raddoppiando le cautele finalizzate ad evitare gli abusi e lasciandosi ampi margini di applicazione discrezionale qualora i pagamenti fossero effettuati a favore di beneficiari residenti in Stati membri che non applicavano aliquote impositive comparabili a quelle vigenti nello Stato d’origine. In quest’ottica va interpretata sia l’inclusione della procedura di certificazione nella proposta modificata in sede di Consiglio (22), sia, ad esempio, le richieste (accolte nell’art. 6 della Direttiva) di norme transitorie, avanzate da Grecia, Spagna e Portogallo per ragioni di gettito. (22) Non tutti i documenti di lavoro del Consiglio sono integralmente pubblici. Tra quelli resi disponibili si segnalano: la proposta di compromesso della Presidenza tedesca, doc. 7302/99 (FISC 86) del 14 aprile 1999; le osservazioni e riserve su vari aspetti della procedura di certificazione avanzate da Spagna, Austria e Commissione europea; doc. 9383/99 (FISC 145) del 18 giugno 1999; e Italia, doc. 10801/99 (FISC 186) del 14 settembre 1999. (23) Consiglio dell’Unione Europea, “Risultati dei lavori del Gruppo problemi finanziari”; doc. 12561/99 (FISC 239) dell’8 novembre 1999 e “Nota della Presidenza sullo stato dei lavori”, doc. 12876/99 (FISC 251) del 23 novembre 1999. (24) Soprattutto se si tiene conto del fatto che in alcuni Stati membri non sono previste specifiche esigenze certificative e in altri Stati membri l’esenzione è subordinata a una decisione amministrativa. Si veda, ad esempio, per l’Irlanda, Statutory Instruments, n. 721/2003 - European Communities (Abolition of GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Prassi e giurisprudenza di Belgio e Italia a confronto Va poi notato che l’interpretazione (letterale) della norma seguita dalla nostra Amministrazione finanziaria nella sua applicazione non è affatto sorprendente; soprattutto se si tiene conto che è stata proprio l’Italia l’ultima delegazione a esprimere il proprio accordo sull’applicazione soltanto opzionale del comma 11, relativo all’esigenza, da parte dello Stato membro d’origine, di un certificato comprovante il soddisfacimento dei requisiti richiesti dalla Direttiva (23). Passando, infine, a un rapido confronto con la normativa che ha trasposto la Direttiva nell’ordinamento tributario degli altri Stati membri (24), questi sembrerebbe suggerire, anche per l’Italia, un’interpretazione più elastica della disposizione, privilegiando gli aspetti sostanziali su quelli formali, al fine di evitare un’inutile frammentazione del mercato interno. Occorre tuttavia segnalare un’importante eccezione. In Belgio la normativa è, per molti versi, simile a quella italiana (25), anzi, per quel che riguarda il momento in cui occorra ricevere la documentazione attestante il possesso dei requisiti sostanziali, il testo legislativo belga sembra offrire margini interpretativi più ampi di quello italiano (“la renonciation à la perception du précompte mobilier ... est subordonnée à la condition que le débiteur des revenus soit mis en possession d’une attestation par laquelle il est certifié ... que ...’’). Sulla base di un’interpretazione assai elastica della norma, la prassi amministraWithholding Tax on Certain Interest & Royalties) Regulations 2003, che ha introdotto il Chapter 6 nella Part VIII (Annual Payments, Charges and Interest) del Taxes Consolidation Act 1997 (No. 39 of 1997); per il Regno Unito, 2004 No. 2622 Income Tax - The Exemption From Tax For Certain Interest Payments Regulations 2004, in particolare, punto 3 (Request for and issue of an exemption notice) e punto 4 (Information to be provided in the certificate). (25) Arrêté royal del 23 dicembre 2003, modifiant l’AR/CIR 92 en vue de renoncer à la perception du précompte mobilier sur les intérêts et les redevances alloués ou mis en paiement à des sociétés associées, Moniteur belge, 31 dicembre 2003. Sul recepimento della Direttiva in Belgio, v. B. Springael, “Implementation of the Interest and Royalties Directive”, in Derivatives and Financial Instruments, n. 6/2004, pag. 279, in particolare punto 3.8. (Administrative requirements), pag. 287. 83 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito tiva è sempre stata abbastanza generosa e, appurata la presenza dei requisiti sostanziali, non si è soffermata sugli aspetti formali legati alla data della certificazione. Almeno fino a poco tempo fa. Infatti, in una recente decisione emessa dall’Hof van beroep (Corte d’Appello) di Gand (26), tale prassi è stata rigettata. Il giudice d’appello fiammingo ha stabilito che, anche in presenza di un certificato che contenga gli elementi richiesti dalla legge, se tale attestazione è datata posteriormente al momento in cui la ritenuta alla fonte sugli interessi avrebbe dovuto essere effettuata, i vantaggi fiscali della Direttiva “interessi e royalties’’ sono inapplicabili. Come si è detto, la legislazione belga non è precisa quanto quella italiana sul momento in cui l’impresa che effettua il pagamento debba essere in possesso della certificazione. Il giudice, tuttavia, basandosi sul tenore letterale del comma 11 dell’art. 1 della Direttiva, ne deduce che, se il certificato (pur se opzionale) è comunque una condizione essenziale per beneficiare dell’esenzione (o del rimborso della ritenuta eventualmente effettuata), automaticamente, deve esistere già al momento del pagamento degli interessi (27). Occorre sperare che i giudici italiani non trovino una fonte d’ispirazione in quest’ultima decisione belga, che, imponendo al contribuente un’incombenza che non è esplicitamente contenuta nella legislazione interna, pare vada decisamente oltre ogni accettabile formalismo! (26) Hof van beroep te Gent, decisione No.2014/41 (2010/AR/2449) del 18 marzo 2014; per leggere l’intera sentenza (ma, purtroppo … in lingua originale olandese) v. C. Coudron, “Hof van beroep te Gent beslist dat geen terugbetaling van roerende voorheffing op grond van de vrijstelling op grond van de interest- en royaltyrichtlijn mogelijk is …’’, in Tijdschrift voor Fiscaal Recht, n. 10/2014, pag. 789. (27) F. Mortier, “Interest and Royalties Directive (2003/49): Court of Appeal Denies Withholding Tax Refund on Interest Due to Lack of Attestation at Time of Payment”, in European Taxation, n. 9/2014, pag. 404. 84 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito Redditi di lavoro autonomo Deducibile (in parte) il vestiario utilizzato per trasmissioni televisive Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XL, Sent. 22 luglio 2016 (18 luglio 2016), n. 6443 - Pres. e Rel. Fugacci Redditi di lavoro autonomo - Determinazione - Giudizio di inerenza - Svolgimento ex ante - Necessità - Attività artistica - Costi sostenuti per acquisto di abiti e mobilio - Utilizzo promiscuo per esercizio della professione e uso personale - Deducibilità al 50% - Legittimità Il giudizio di inerenza non è influenzato dalla natura dei beni o dei servizi acquistati, ma dal rapporto tra i suddetti acquisti e l’attività economica, in relazione allo scopo perseguito nel momento in cui la spesa è stata sostenuta e con riguardo all’attività economica in concreto esercitata. Il giudizio di inerenza non va pertanto svolto ex post, con riferimento ai risultati (in concreto) ottenuti in termini di produzione del reddito, bensì ex ante. Sono per conseguenza inerenti, e, perciò stesso, deducibili nella misura forfetaria del 50%, i costi che il libero professionista abbia sostenuto in adempimento di puntuali obblighi contrattuali per l’acquisto di beni o servizi i quali, per le loro caratteristiche (nella specie, abiti, vestiti, scarpe, accessori e così via), siano utilizzabili anche a titolo personale, vale a dire al di fuori dell’attività economica. Svolgimento del processo Avverso l’avviso di accertamento n. (...) per l’anno 2010 emesso dall’Agenzia delle entrate Direzione Provinciale 1 di Milano, la sig.ra B.M.R., rappresentata e difesa disgiuntamente dai dott.ri S. R., G. M. C. e G. F., ha presentato tempestivo ricorso chiedendo l’annullamento parziale dell’atto impugnato con l’annullamento totale dei rilievi n. 3, n. 5 nonché del rilievo relativo all’IRAP, con vittoria di spese e onorari di lite. La ricorrente insiste per l’annullamento del rilievo n. 3 relativo alla totale indeducibilità dei costi per il vestiario e gli accessori utilizzati dall’artista per la sua attività professionale, ritenendo gli stessi inerenti all’attività dell’artista e considerandoli deducibili nella misura forfettaria del 50% quali beni ad uso promiscuo. Chiede, inoltre, l’annullamento totale del rilievo n. 5, relativo a spese varie per l’acquisto di mobili destinati all’arredo della casa utilizzata promiscuamente per l’attività professionale e la vita privata, confermando la loro deducibilità nella misura forfettaria del 50%. Infine, insiste per l’annullamento totale del rilievo relativo all’IRAP, sostenendo l’inesistenza dei presupposti oggettivi previsti per l’applica- GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 zione dell’IRAP dichiarando illegittima la pretesa dell’Agenzia, alla luce sia della carenza di motivazione addotte sia dall’inesistenza di una struttura organizzativa autonoma capace di generare un surplus di reddito aggiunto a quello prodotto dal mero lavoro della ricorrente. L’Ufficio preliminarmente rileva che la ricorrente, nel proprio ricorso, si limita a contestare i rilevi: n. 3, n. 5, nonché il rilievo relativo all’IRAP, pertanto, per i rilievi n. 1- sottoconto consulenza; rilievo n. 2 sottoconto costi per corsi; rilievo n. 4, sottoconto parrucchiere e rilievo sottoconto noleggi la ricorrente non solleva alcuna contestazione, prestando quindi acquiescenza. In relazione ai tre rilievi oggetto di contestazione, l’Agenzia, ritenendo di aver legittimamente operato chiede la conferma dei rilievi mossi. Motivazione La Commissione in via preliminare rileva che la ricorrente, nel proprio ricorso, si limita a contestare i rilevi: n. 3, n. 5, nonché il rilievo relativo all’IRAP, pertanto, per i rilievi n. 1- sottoconto consulenza; rilievo n. 2 - sottoconto costi per corsi; rilievo n. 4, sottoconto parrucchiere e rilievo sottoconto noleggi 85 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito la ricorrente non solleva alcuna contestazione, prestando quindi acquiescenza. Valutate le argomentazioni addotte dalle parti in ordine ai tre rilievi contestati, la Commissione ritiene il ricorso parzialmente fondato ed in quanto tale meritevole di parziale accoglimento. A parere del Collegio il concetto di deducibilità di un costo per inerenza riguarda non tanto la natura del bene o del servizio ma il suo rapporto con l’attività professionale, in relazione allo scopo perseguito al momento in cui la spesa è stata sostenuta e con riferimento a tutte le attività tipiche della professione stessa e non semplicemente, ex post in relazione ai risultati ottenuti in termini di produzione del reddito. Non v’è dubbio che vestiario e accessori, in alcuni casi specifici, devono essere considerati inerenti all’attività svolta e, pertanto, il loro costo integralmente deducibile (è il caso della toga per l’avvocato o, in generale, della divisa da indossare durante l’orario di lavoro tanto da parte dell’imprenditore quanto dai dipendenti). In altri casi, in cui il vestiario e gli accessori utilizzati per la propria attività potrebbero avere anche impieghi privati (frac per il direttore d’orchestra), si ritiene opportuno limitarne la deducibilità applicando percentuali forfettarie, così come previsto dal comma 3 dell’art. 54 del T.U.I.R. per l’utilizzo di beni in uso promiscuo, al fine di semplificare il calcolo del reddito applicando una percentuale ragionevole e usualmente impiegata dalla normativa fiscale in tutti quei casi in cui vi è la possibilità che un determinato bene acquistato per l’attività economica svolta possa avere utilità anche nella sfera privata. Gli abiti utilizzati durante le trasmissioni televisive e le interviste sono per la maggior parte dei casi acquistati direttamente dalla ricorrente, come risulta sia nelle dichiarazioni raccolte dalla Polizia Tributaria in sede di verifica (all. 6) sia dai contratti d’ingaggio dell’artista (all. 7). Infatti, come si evince dai contratti allegati, per le trasmissioni televisive è espressamente previsto che l’artista deve usare adeguato vestiario moderno di sua proprietà (abiti, vestiti, scarpe, accessori in genere, trucchi, ecc.). Le società televisive si limitano a fornire solamente particolari abiti o costumi da scena legati a determinate coreografie, sketch che vengono realizzati dalle sartorie delle trasmissioni stesse. Pertanto l’inerenza e la deducibilità forfettaria del 50% di detti costi all’attività professionale è oggettivamente dimostrata dai contratti televisivi prodotti in atti. Anche il rilievo n. 5 deve essere annullato. In effetti l’abitazione della ricorrente nell’annualità di cui si discute veniva utilizzata ad uso promiscuo sia per l’atti- vità professionale che per la vita privata. Di conseguenza è ragionevole che l’acquisto di mobilio per arredare in modo appropriato le stanze dalla stessa utilizzate per rilasciare interviste, scattare foto, realizzare videoclip, ecc. sia deducibile nella misura forfettaria del 50%. Chiaramente, il costo dei mobili e degli arredi deve rientrare in una certa proporzionalità tra costi affrontati per l’acquisto e i ricavi conseguiti, presupposto che nel caso di specie si ritiene rispettato (10.322,98 costi a fronte di 1.267.149,00 ricavi conseguiti). Infine la Commissione ritiene soggetta ad IRAP l’attività svolta dalla ricorrente. Come è noto la Corte di Giustizia Europea con sentenza depositata il 03/10/2006 ha statuito che l’IRAP (che è imposta diversa dall’IVA) non è vietata dall’art. 33 della VI Direttiva del Consiglio 77/388 CEE. La Suprema Corte con le sentenze dal n. 3672 al n. 3682, tutte depositate il 13/02/2007, ha motivatamente e persuasivamente statuito: a) che l’IRAP è applicabile, in via astratta, alla categoria dei professionisti e dei lavoratori autonomi, in quanto colpisce un fatto economico diverso dal reddito, (fatto) costituito dal valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate; b) che l’assoggettabilità all’IRAP degli esercenti arti e professioni deve essere esclusa nel caso concreto in cui la loro attività professionale sia svolta in assenza di elementi di autonoma organizzazione di capitali o lavoro altrui; c) che l’IRAP può escludersi quando il risultato economico trovi ragioni esclusivamente nella autoorganizzazione del professionista o comunque quando l’organizzazione da lui predisposta abbia incidenza marginale e non richieda la necessità di coordinamenti (situazione che si riscontra, in genere, nella disponibilità di pochi arredi di ufficio o strumenti di lavoro, quali, ad esempio, fotocopiatrice, fax, cellulare, materiale di cancelleria, autovettura, eccetera) ovvero quando i mezzi personali e materiali di cui sia avvalso il contribuente costituiscano un mero ausilio alla sua attività, simile a quello di cui abitualmente dispongono anche soggetti esclusi dall’applicazione dell’imposta (collaboratori continuativi e lavoratori dipendenti): - che costituisce onere del contribuente che chiede il rimborso dell’imposta asseritamene non dovuta per difetto del presupposto dell’autonoma organizzazione, proponendo ricorso contro il diniego espresso o tacito di rimborso, fornire la prova dell’assenza delle condizioni che integrano l’autonoma organizzazione, come sopra indicato; 86 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito - che la mancata prova dell’assenza di tali condizioni, comporta la soccombenza in giudizio del contribuente. Esaminando il ricorso in oggetto alla luce di questi principi che la Commissione condivide, sul punto il ricorso va respinto non avendo il contribuente fornito la prova come sopra indicata. In effetti la sig.ra R. ha dedotto costi per consulenza e supporto organizzativo per un importo pari a euro 184.934,00 indicando tale importo nel quadro RE al rigo 12 della dichiarazione dei redditi Modello unico PF 2011 quale compenso corrisposto a terzi per prestazioni direttamente afferenti l’attività professionale ed artistica. L’elevato valore delle consulenze soprattutto quelle riferite a società di management e produzione televisiva pari ad euro 63.813,60, Agenzia di moda e spettacolo pari ad euro 62.500,00 e prestazioni professionali pari a euro 28.125,00 viene ritenuto l’indicatore di una struttura che consente al diretto interessato un surplus di reddito. Inoltre, tra i compensi a terzi, la ricorrente nell’anno di cui si discute ha corrisposto con frequenza mensile euro 2.500,00 oltre accessori fiscali alla sig.ra B.P.B. sulla base di un contratto stipulato nel 2009, con cui l’artista conferiva alla predetta sig.ra l’incarico di intrattenere rapporti con i clienti e fornitori di beni e servizi in proprio nome e conto. La Commissione ritiene, pertanto, che la sig.ra R. per i consistenti compensi erogati per servizi di supporto organizzativo, nonché per le collaborazioni prestate dalla sig.ra B.P.B., sia soggetta ad IRAP. Detti fattori evidenziano di fatto la presenza di una struttura organizzativa che consente all’artista un surplus di reddito e la sottopone all’imposizione IRAP. La soccombenza parziale giustifica la compensazione delle spese di giudizio. P.Q.M. La Commissione in parziale accoglimento del ricorso annulla i rilevi n. 3 e n. 5. Conferma nel resto. Spese compensate. Il giudizio di inerenza tra valutazioni ex ante, valutazioni ex post e obblighi contrattuali di Mauro Beghin (*) Partendo dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano n. 6443/2016 si indugia sul giudizio di inerenza e, segnatamente, sulla sua declinazione cronologica e sostanziale. Si spiegano le ragioni per le quali tale giudizio presenta una connotazione di stampo cartolare e le ragioni per le quali deve essere eseguito ex ante, entro i termini previsti per la presentazione della dichiarazione tributaria. A questa regola sottostanno anche i funzionari dell’Amministrazione finanziaria, i quali dovrebbero operare con il criterio dello storico, non con il criterio del “qui e ora”. Esborsi, costi e consumi La sentenza in esame rappresenta un ottimo punto di partenza per ragionare sulla distinzione tra “costi” e “spese” in vista della determinazione di quella entità monetaria che gli studiosi chiamano “reddito” e sulla quale, da secoli, si applicano le imposte. Sul piano economico, ci è stato insegnato che il reddito è l’incremento del patrimonio prodottosi attraverso l’esercizio di un’attività. È centrale l’idea della “fonte”. Il concetto di reddito presuppone, infatti, che dallo svolgimento di un’attività (la fonte, per l’appunto) scaturiscano ricchezze sotto forma di proventi e che tali ricchezze siano superiori a quelle che sono state impiegate per l’acquisto e per la remunerazione dei fattori produttivi. Da qui l’idea del reddito quale entità differenziale, misurata dalla contrapposizione tra i proventi e le spese (costi) riferibili a un determinato periodo di tempo. (*) Professore ordinario di Diritto tributario nell’Università di Padova GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 87 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito Su queste prime indicazioni si basa l’affermazione secondo cui le imposte sul reddito sono di regola periodiche (1). Ed è per lo stesso motivo che esistono, nella disciplina di tali imposte, regole sull’imputazione a periodo dei proventi e dei costi. Poiché di solito il reddito s’incorpora in un’entità monetaria, nel senso che il contribuente dispone di una certa quantità di denaro, tale entità può essere liberamente impiegata per l’acquisto di beni o servizi che nulla hanno a che vedere con lo svolgimento dell’attività economica e che si riferiscono, per contro, alla sfera personale del contribuente (2). I beni ed i servizi dei quali stiamo parlando possono manifestare una differente consistenza, pur rimanendo estranei all’attività volta alla produzione della ricchezza. In alcuni casi si tratta di spese che declinano in “consumi”, vale a dire in acquisti di beni o servizi nient’affatto durevoli, atti al soddisfacimento di bisogni ben delimitati dal punto di vista della loro funzione e, soprattutto, dal punto di vista cronologico. Ciò accade, ad esempio, quando si acquistano generi alimentari, vestiti, scarpe, accessori, biglietti del cinema o del teatro e così via. In altri casi, si tratta di beni che si definiscono durevoli, perché suscettibili di essere utilizzati in un arco temporale particolarmente ampio, come potrebbe accadere per l’acquisto di un’auto, di un impianto stereo oppure di un quadro. Questa distinzione, tracciata in modo approssimativo, s’accompagna a specifiche ricadute dal punto di vista terminologico. Infatti, nessuno dice “Ho investito nell’acquisto di un chilo di carote” oppure “in una seduta dal pedicure”, mentre molti sono disponibili ad affermare di aver “investito nell’acquisto di una nuova casa di abitazione”. La distinzione tra spese per consumi e spese per investimenti non è sempre agevole, perché al momento della qualificazione di tali fatti economici possono entrare in gioco ulteriori elementi, quali, ad esempio, l’importo dell’esborso. Nel procedere in questa direzione, si potrà dire, ad esempio, che l’acquisto di una penna a sfera dal costo di un euro rappresenta un “consumo”, mentre l’acquisto di una penna di lusso dal costo di mille euro assomiglia più a un “investimento”. Si tratta di distinzioni che possono acquisire rilevanza nei procedimenti di ricostruzione sintetica del reddito complessivo del contribuente. Invero, nell’ambito di questi ultimi procedimenti opera la presunzione basata sulla legge causale secondo cui, di periodo in periodo, la spesa è finanziata dal reddito. È pertanto indispensabile, al fine di osteggiare gli effetti di tale presunzione, ragionare sulla consistenza di quella spesa, perché la ricostruzione di un reddito a partire dai “consumi” è cosa ben diversa divergente rispetto alla ricostruzione del reddito incentrata sugli “investimenti” (3). (1) Di regola, abbiamo detto, perché nel nostro ordinamento proliferano, come funghi nel sottobosco, le fattispecie di tassazione mediante applicazione di imposte sostitutive o di ritenute alla fonte a titolo definitivo. In questi casi, a bene vedere, l’imposta, pur denominata “sul reddito”, finisce per tassare un provento lordo, senza prendere in considerazione i costi di produzione. Il ragionamento ci porterebbe lontano. Ma non è questa la sede adatta. (2) In uno schema di ragionamento puramente teorico, le fasi della “produzione” e dell’“impiego” di reddito si alternano, nel senso che il contribuente dapprima crea la ricchezza e, dipoi, la consuma. Nella realtà, queste fasi si sovrappongono e si confondono, perché la ricchezza può essere spesa a mano a mano che essa è generata. Parimenti, in una determinata annualità si possono consumare le ricchezze prodotte in quella precedente, mentre si procede, di pari passo, alla generazione di altra ricchezza che sarà spesa in futuro. Insomma, le sfere della produzione della ricchezza e dell’impiego della ricchezza non sono impermeabili, cosicché la ricchezza consumata è co- stantemente sostituita, secondo un modello circolare, dalla ricchezza prodotta. Inutile soffermarsi su profili economici che dovrebbero, noi crediamo, essere perfettamente noti al lettore. (3) Nonostante nel 2010 sia stata cancellata, nel corpo dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, la disposizione stando alla quale, in caso di incrementi patrimoniali, la spesa doveva considerarsi finanziata con redditi in parti uguali e in cinque periodi d’imposta, v’è la concreta possibilità che tale regola possa riemergere in sede giurisprudenziale. Chi ha voluto questa abrogazione probabilmente non ricorda che, nella prima formulazione dell’art. 38 cit., la presunzione non c’era e che essa è stata inserita in un secondo momento, allo scopo di recuperare sul piano normativo un dato economico che ci pare insormontabile. Si tratta di quel dato in base al quale, a fronte di investimenti per importi significativi, si può pensare che la spesa sia stata finanziata con il nascondimento di redditi in più annualità. L’equazione “spesa = reddito”, pertanto, può reputarsi, a fronte di spese di una certa consistenza, irragionevole. 88 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito Su di un aspetto, peraltro, credo ci si possa trovare tutti d’accordo. I “costi” sono sopportati per la produzione del reddito, mentre le spese rappresentano impieghi di redditi già prodotti. In entrambi i casi, siamo di fronte a un contribuente che sborsa denaro o che diventa debitore nei confronti di qualcuno. L’esborso o il debito rappresentano un dato comune. Tuttavia non basta dimostrare l’avvenuto pagamento di beni o di servizi per affermare l’esistenza di un costo. È necessario indugiare sulla funzione di quell’esborso, nel senso che è stato qui sopra descritto. Si tratta di affermazioni chiare sul piano teorico, ma foriere di dubbi quando ci si trova di fronte ad alcuni casi concreti, nei quali l’esborso sostenuto dal contribuente è capace di soddisfare, ad un tempo, ambedue le esigenze: da un lato, quella di contribuire la produzione del reddito (nel caso affrontato dalla sentenza, la soubrette o presentatrice televisiva si veste perché deve partecipare a questa o a quella trasmissione); dall’altro, quella di soddisfare esigenze personali del contribuente, che chiunque potrebbe manifestare (nel caso affrontato dalla sentenza, la soubrette si veste perché non può uscire nuda). In modo corretto, la sentenza afferma che, ai fini della verifica dell’inerenza di un determinato esborso, non conta la natura dei beni o dei servizi acquistati, ma il contesto nel quale quell’esborso si è verificato. Pertanto, il costo sopportato per l’acquisto di un biglietto di ingresso al circo equestre dovrà reputarsi privo di inerenza per un professionista che voglia passare due ore in tranquillità, ma sarà perfettamente inerente per un imprenditore che si occupi ad esempio - della promozione di nuove attra- zioni o della vendita di animali ammaestrati. Parimenti, il costo sostenuto per una vacanza alle Bahamas non sarà inerente per un avvocato che abbia voluto dedicarsi un po’ di relax, ma perfettamente inerente qualora si dimostri che, durante il soggiorno in quelle meravigliose isole, si siano svolti meeting fondamentali per l’organizzazione e il futuro svolgimento di un’attività commerciale. Il giudizio di inerenza è perciò dominato dalla riflessione circa il contesto nel quale l’esborso si colloca, non già dalla natura dei beni o dei servizi che sono stati acquistati. Reputiamo l’affermazione condivisibile su di un piano generale. È tuttavia opportuna qualche precisazione, se non altro per rilevare come la natura dei beni o dei servizi acquistati possa talvolta sovrapporsi (o, se vogliamo, avvitarsi) alle considerazioni svolte a proposito del contesto. Ciò che stiamo cercando di dire è che tanto più i beni ed i servizi acquistati esprimono armonia rispetto all’oggetto dell’attività economica, tanto più fluido e lineare sarà il giudizio di inerenza. Qui il costo esprime, infatti, un’elevata compatibilità con le caratteristiche dell’impresa esercitata o con quelle dell’attività professionale svolta. Per conseguenza, il giudizio di inerenza potrà svolgersi senza intoppi e senza particolari difficoltà (4). Movendo in questa direzione, dunque, si potrà dire che l’acquisto di acciaio, gomma e olio è inerente rispetto all’attività di costruzione e commercializzazione di auto. Del pari, l’acquisto di stoffe è inerente rispetto alla attività di confezionamento e vendita di capi d’abbigliamento. L’acquisto di carne, a sua volta, inerente rispetto all’attività di produzione e vendita di insaccati. E l’acquisto di abiti “moderni” (così si legge nella sentenza) inerente rispetto In effetti, nessuno è in grado di predeterminare, sul piano cronologico, la propensione alla spesa dell’evasore. Possono darsi casi di evasori seriali, che sottraggono redditi all’imposizione e che, parallelamente, spendono quei redditi. Qui la presunzione “spesa = reddito” è accettabile. Ma che dire nei casi in cui l’evasore seriale, che sottrae ogni anno ricchezza imponibile, impiega quella ricchezza in una sola annua- lità, attraverso un solo acquisto di importo rilevante? E che dire, ancora, dell’evasore una tantum che spenda un po’ per volta, di periodo in periodo, quella ricchezza non dichiarata, in un’unica annualità, al Fisco? (4) Ci siamo occupati di questo argomento in Beghin, Diritto tributario per l’Università e per la preparazione delle professioni economico-giuridiche, Padova, 2015, pag. 537 ss. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 89 Inerenza e contesto Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito all’attività di soubrette o di presentatrice televisiva. Tanto più il costo si distacca, per la sua natura, dal core dell’attività economica esercitata (non importa se si tratti di un’attività d’impresa oppure di un’attività libero professionale), tanto più stringente sarà il giudizio di inerenza e tanto maggiore la necessità di approfondire il contesto. Ad esempio, l’acquisto di un quadro o di un biglietto per la Scala di Milano da parte di un rivenditore di auto usate può reputarsi, prima facie, lontano dagli ordinari schemi di svolgimento di quest’ultima attività. Ed è qui che si fa strada, come rilevato, il contesto. Attraverso la ricostruzione del contesto, il rivenditore di auto potrà spiegare come e perché gli acquisti sopra indicati hanno a che vedere con lo svolgimento della sua attività. Non è richiesto - e la sentenza lo sottolinea - che, ai fini dell’inerenza, il costo generi un correlato provento. Il costo deve semplicemente incardinarsi nel programma imprenditoriale o professionale, in una valutazione da svolgere ex ante, non ex post (5). Inerenza ex ante e inerenza ex post L’espressione “valutazione ex ante”, riferita al giudizio di inerenza, vuol dire che tale giudizio non viene svolto a distanza di anni dal momento di sostenimento del costo, bensì nel periodo in cui quel costo è stato contabilmente sopportato, vale a dire quando si è proceduto alla classificazione del componente reddituale nei libri o registri dell’imprenditore e del professionista o, al più tardi, in occasione della predisposizione della dichiarazione. Giudizio ex ante, dunque, non già ex post. Le ragioni che sostengono questa affermazione sono evidenti. Poiché il giudizio di inerenza è strumentale alla determinazione del reddito categoriale e, per questa via, strumentale anche alla determina(5) Sul giudizio di inerenza come valutazione ex ante cfr. Tinelli, “Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa”, in Riv. Dir. Trib., 2002, I, pag. 461. Recentemente, 90 zione della base imponibile, entro il termine di presentazione della scheda dichiarativa il contribuente è costretto a prendere una decisione circa la riferibilità dei costi alla propria attività. Non può attendere i periodi d’imposta successivi, perché, quando si verte in tema di IRPEF o IRES, egli deve determinare di anno in anno, per l’appunto, il proprio reddito e la ricchezza da sottoporre a tassazione. Su di un piano generale, ciò significa altresì che il giudizio di inerenza non richiede un’indagine sul campo circa le modalità di concreto impiego di determinati beni o di taluni servizi all’interno dell’impresa o nell’ambito dell’attività professionale. Il contribuente non è tenuto a verificare, in concreto, se il carburante acquistato sia stato interamente destinato al rifornimento del parco automezzi, se i pezzi di ricambio acquistati siano stati di qualche utilità oppure se il materiale di cancelleria sia stato impiegato, e in quale misura, presso gli uffici amministrativi della società. Può darsi che, in concreto, i beni acquistati siano stati impiegati nel processo produttivo nell’anno della loro acquisizione. Può darsi che, sempre su di un piano di concretezza, i beni siano stati impiegati in annualità successive. Tuttavia, ai fini dell’inerenza è sufficiente un’indagine in astratto circa il legame tra costi sopportati e programma dell’attività economica. E tale indagine è svolta avvalendosi essenzialmente della documentazione mediante la quale gli stessi costi sono formalizzati. Il che vuol dire, in termini un po’ più stringenti (ma ci auguriamo chiari), che per stabilire se esista o meno inerenza si debbono interpretare i documenti. Il giudizio di inerenza manifesta, pertanto, una declinazione eminentemente cartolare. Il lettore ci segua nello sviluppo del ragionamento: lo stabilire se un esborso abbia a che vedere con lo svolgimento di un’attività è questione di fatto, non di diritto. Ma il fatto è qui nello stesso senso, Vicini Ronchetti, La clausola dell’inerenza nel reddito d’impresa, Padova, 2017, pag. 236. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito incapsulato nei documenti, nel senso che va dimostrato attraverso la lettura e l’interpretazione di ciò che funge da punto di partenza per la contabilizzazione del costo, non già attraverso indagini sul campo (6). Si tratta pertanto di un giudizio che ha una declinazione spiccatamente cartolare, perché le prime informazioni rilevanti ai fini di stabilire l’esistenza di un collegamento tra esborso e attività si ricavano dalle fatture, dalle ricevute, dai cedolini-paga, dagli estratti-conto bancari, dai contratti e così via. Nel caso affrontato dalla sentenza, i contratti prodotti in giudizio dimostravano che la soubrette era obbligata a dotarsi di “adeguato vestiario moderno di sua proprietà”. La documentazione, dunque, deponeva addirittura nel senso della imprescindibilità di quei costi, perché, in mancanza di abiti dotati di quelle caratteristiche, anche se descritte con formulazione un po’ naïf, si sarebbe potuto configurare un inadempimento contrattuale. Il tutto - come detto - sulla base di un giudizio da svolgere ex ante, non ex post. Queste regole valgono anche per l’Amministrazione finanziaria, quando essa proceda al controllo dell’inerenza di questo o di quel componente negativo di reddito. Il funzionario deputato al controllo non deve attualizzare il giudizio, vale a dire svolgerlo con il criterio del “qui e ora”. Deve comportarsi, invece, come lo storico. Mettersi idealmente al posto del contribuente, in quel contesto, con quei problemi aziendali o professionali e in quel periodo d’imposta nel quale il costo è stato dedotto, e ragionare sulla base della documentazione e delle informazioni che, in quel momento, erano a disposizione dell’imprenditore o del libero professionista. In effetti, l’eventuale abbandono del modello operativo incentrato sulla valutazione dell’ine- renza con il criterio ex ante può determinare un vero e proprio sovvertimento del giudizio, perché, a distanza di anni dal momento in cui le operazioni si sono perfezionate, aumenta inevitabilmente il numero delle informazioni a disposizione. È possibile vedere, ad esempio, che un prodotto sul quale l’imprenditore ha investito non ha avuto successo; che una campagna pubblicitaria non ha determinato l’incremento del fatturato che ci si aspettava; che il manager profumatamente retribuito non ha ben governato l’azienda; che il prestito contratto con una certa banca ha portato alla costruzione di un capannone rimasto inutilizzato. E così via. Ma queste informazioni potevano non trovarsi nella disponibilità del contribuente nel momento in cui quest’ultimo soggetto ha svolto il giudizio di inerenza. Per questa ragione abbiamo scritto che il giudizio di inerenza svolto a distanza di anni dal sostenimento dell’esborso e con il criterio ex post può in qualche misura deformare le regole di determinazione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo. Infatti, tale modalità operativa non solo rischia di introdurre un elemento di attualità in un giudizio che, per le sue caratteristiche, è ammantato di storicità (vedi quanto abbiamo detto sopra a proposito del termine di presentazione della dichiarazione), ma anche perché rischia di conferire carattere decisivo circa la deducibilità del costo ad una semplicistica valutazione in termini di “utilità” dell’esborso sopportato, relegando in secondo piano il mero - e necessariamente meno impegnativo - collegamento tra il citato esborso e il programma economico del contribuente. Si profila insomma, sul fronte metodologico che diviene, però, fronte sostanziale, il pericolo di scordarsi che sono inerenti i costi che possano dirsi semplicemente collegati all’attività (6) Il ruolo delle aziende e della contabilità nella determinazione della ricchezza è ben descritto nel volume di H. Falciani (con A. Mincuzzi), La cassaforte degli evasori, Milano, 2015, pagg. 69-70, dove si legge quanto segue: “L’attenzione dei dipendenti è costantemente spostata dai contenuti ai processi. Per esempio, se il lavoro di un tecnico è quello di classificare dei documenti, non saranno i documenti in sé ad avere impor- tanza per lui ma l’attività che deve svolgere, cioè la classificazione. Questo compito stabilirà quale sarà il suo ruolo nella banca. Dunque il tecnico non cercherà di capire cosa sono o a cosa servono quei documenti, ma solo di classificarli nel modo migliore. E non coglierà il senso delle informazioni che sta riordinando, anche perché ne avrà sempre una visione parziale”. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 91 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito d’impresa o libero professionale esercitata e che, per espletare siffatto giudizio, il contribuente deve rispettare il termine di presentazione della dichiarazione. Quand’anche si volesse condurre il ragionamento sul piano della “necessarietà” o della “utilità” dei costi, si tratterebbe pur sempre di una necessarietà e di una utilità da valutare in astratto, al momento di sostenimento dell’esborso, non in concreto, a distanza di tempo dalla conclusione dei contratti. E non si può certamente sanzionare il contribuente che abbia manifestato scarse (se non addirittura inesistenti) doti di preveggenza. Non stiamo affatto dicendo che i controlli con il criterio del “qui e ora” siano inutili. È vero, invece, il contrario. Si tratta di attività istruttoria di grande utilità nei casi in cui, a fronte di documentazione carente dal punto di vista informativo o non particolarmente chiara, la quale non consenta di stabilire, su base per l’appunto cartolare, se il costo si riferisca o meno all’attività economica, il contribuente abbia ciò nondimeno qualificato il relativo costo come inerente e lo abbia, per conseguenza, dedotto. I controlli a distanza consentono pertanto all’Amministrazione finanziaria di ripercorrere il giudizio di inerenza svolto a suo tempo dal contribuente, avvalendosi però delle sole informazioni non desumibili per via documentale ma che, nel momento in cui il costo è stato sopportato, erano già nella disponibilità del contribuente medesimo. Attraverso i suddetti controlli potrebbero altresì emergere situazioni di vera e propria distrazione dei beni dal circuito dell’attività d’impresa o dell’attività libero professionale. Stiamo dicendo che determinati acquisti, con(7) Rinviamo i lettori maggiormente interessati a Beghin, Diritto tributario, cit., nel paragrafo dedicato alle intestazioni societarie di comodo. Ci riferiamo ai casi nei quali una società, che deve reputarsi perfettamente operativa (ergo, non “di comodo”), acquista questo o quel bene per poi concederlo in uso ai soci, per scopi che nulla abbiano a che vedere con lo svolgimento dell’attività societaria. (8) Il lettore che abbia voglia di ragionare ritorni su quanto abbiamo scritto nella nota n. 2). La domanda, a questo punto, 92 tabilizzati come costi, potrebbero rappresentare, in tutto o in parte, meri consumi (7). Come è avvenuto nel caso affrontato dalla sentenza, nel quale il Fisco ha sostenuto che gli abiti e gli accessori acquistati dalla soubrette o presentatrice televisiva avrebbero potuto essere utilizzati anche al di fuori dell’attività professionale. Impiegati, dunque, in modo promiscuo (8). Acquisti di beni e servizi ad uso promiscuo Arriviamo così al cuore del nostro discorso. Gli esborsi sostenuti per taluni beni possono assumere, ad un tempo, la configurazione del “costo” e del “consumo”, nel senso che abbiamo rilevato all’inizio di questo breve scritto. C’è un “costo” perché gli abiti acquistati dalla soubrette sono uno strumento di esercizio della professione. C’è poi un “consumo”, perché gli stessi abiti possono essere impiegati non già per produrre reddito, ma per soddisfare esigenze personali, come recarsi al parco, andare al cinema o partecipare a una cena privata (il lettore costruisca da solo, e come crede, questa tessera del mosaico). In questi casi, si dovrebbe dire che, in astratto, c’è l’inerenza per la parte di esborso che si riferisce agli impieghi professionali del bene, mentre non c’è per la parte che si riferisce agli impieghi personali. Il giudizio di inerenza dovrebbe pertanto caratterizzarsi anche sul piano quali-quantitativo, dotandosi, a questo punto, di più sofisticati strumenti di misurazione degli utilizzi e degli inutilizzi dei beni (9). Ma di quali strumenti stiamo parlando? La deriva ragioneristico-contabile ci sta forse portando verso l’idea di un registro cronologico riguardante l’utilizzo di questo o di quel vestito, oppure di questo o di quel paio di scarpe? è semplice. C’è differenza tra il caso della soubrette che acquista gli abiti prima della sottoscrizione dei contratti televisivi e la soubrette che procede all’acquisto soltanto dopo che i suddetti contratti siano stati perfezionati? (9) Qui non ci riferiamo alla quantità per segnalare l’esistenza di costi eccessivi o abnormi, ma alla quantità che riguarda i tempi e i modi di impiego del bene. La precisazione non ci sembra superflua. GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito Si capisce che un giudizio di inerenza così strutturato presenterebbe enormi difficoltà di ordine pratico, vale a dire sul piano della sua gestione e dei controlli, e si tradurrebbe in complicazioni per entrambe le parti del rapporto d’imposta. Complicazioni per il contribuente, che, in casi come questo, non può certo contabilizzare i tempi di impiego dei beni strumentali nell’attività economica e al di fuori di questa attività. Complicazioni per l’Amministrazione finanziaria, che sarebbe pur sempre esposta al rischio di trovarsi di fronte a registrazioni costruite ad arte, ingarbugliate o comunque inadatte allo svolgimento di quel tipo di controllo. Ciò che si vuol dire è che la dimostrazione delle modalità di utilizzo dei beni, decisiva per il giudizio di inerenza nei casi di impiego promiscuo, presenta numerosi aspetti di difficoltà. Si tratta di difficoltà che emergono anche nei casi in apparenza più semplici, quando si tratti di dimostrare, ad esempio, che un determinato bene è stato utilizzato “in modo esclusivo” ai fini dell’attività economica. In effetti, possono esistere beni che, sulla carta, sembrano adattarsi ad una sola forma di impiego (per esempio, le autovetture - di particolare conformazione adibite al trasporto funebre), ma che in concreto, con un po’ di fantasia e con una certa dose di umorismo, sono utilizzabili anche per il soddisfacimento di esigenze personali (utilizzo del carro funebre per recarsi, muniti della necessaria attrezzatura, in una nota località sciistica). Per questa ragione, il legislatore talvolta stabilisce che, alla presenza di beni adibiti promiscuamente (o che sono suscettibili, per le loro caratteristiche, di essere adibiti promiscuamente) all’attività generatrice di reddito e al soddisfacimento di bisogni personali, la deduzione avvenga in misura predeterminata. Può trattarsi, a seconda dei casi, di percentuali applicate al costo oppure di limiti determinati applicando altre percentuali al volume d’affari. La regola sulla deduzione forfettizzata ingloba pertanto il giudizio di inerenza, per evidenti ragioni di semplificazione. E siamo all’epilogo. Tutti i professionisti (commercialisti, avvocati, geometri, ingegneri, eccetera) potranno, a questo punto, dedurre in misura forfetaria i costi sostenuti per l’acquisto di abiti e paletot? Riteniamo che ciò non sia possibile e crediamo esista una non trascurabile differenza tra il caso della soubrette, esaminato nella sentenza in rassegna, e quello dei professionisti qui sopra genericamente richiamati. Infatti, la soubrette è obbligata all’acquisto di taluni abiti. Non qualsiasi abito, ma quei capi e quegli accessori che rispondano alle esigenze di spettacolo dedotte nel contratto. Si tratta perciò di beni indispensabili allo svolgimento dell’attività professionale e tale connotazione funzionale è desumibile ex ante sulla base dei documenti contabili (contratti e fatture), senza la necessità di accertamenti in concreto ed ex post. Per gli altri professionisti questo obbligo, di regola, non c’è. Fatta eccezione per talune fattispecie (la toga per l’avvocato; il camice per il medico e così via), si tratta di esborsi che il professionista verosimilmente sosterrebbe anche se svolgesse una attività diversa da quella in concreto esercitata e anche se, in ipotesi, non esercitasse alcuna attività. Si tratta, quindi, di acquisti così generici da risultare sganciati dal programma imprenditoriale o dall’attività professionale. Si potrebbe forse configurare in capo a questi ultimi professionisti un generico dovere di decoro, sanzionabile, per esempio, sul piano deontologico. Siamo tuttavia di fronte ad una situazione ancora incapace di trasformare il “consumo” in “costo”, perché il dovere di decoro declina, ai fini dell’accertamento, in un giudizio di valore: si tratta pertanto di una valutazione generica, dai contorni non chiaramente tratteggiati, certamente avulsa da obblighi contrattuali e per questa ragione inidonea a fornire, sul piano GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 93 Sinergie Grafiche srl Giurisprudenza Merito funzionale, un contributo allo svolgimento dell’attività e alla produzione del reddito. Insomma, “l’abito non fa il monaco”. Ed è arduo sostenere che per rendere una determinata consulenza, per predisporre un pro- getto immobiliare o per redigere una complessa dichiarazione fiscale il professionista “deve” indossare un determinato abito, portare un certo orologio o calzare mocassini di pregio (10). (10) Per i lettori più attenti segnaliamo, a questo punto, il rapporto tra l’entità del costo e lo svolgimento di inerenza. Quando ci si trova di fronte ad acquisti per importi significativi, v’è la possibilità che gli Uffici finanziari recuperino a tassazione il costo in quanto antieconomico. Sul punto, da ultimo, Cass., Sez. trib, 30 novembre 2016, n. 24379, in http://www.rivistadirittotributario.it/2016/12/09/sindacato-dellamministrazione-sulla-congruita-dei-costi/, con nota di Fransoni, “Il sindacato dell’Amministrazione sulla congruità dei costi”. Vedi anche Vicini Ronchetti, La clausola dell’inerenza, cit., pag. 239 ss. 94 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {AAAAA_FISCALE}0105_17-GTRI01/ 00135027_2017_01_0095.3d Indici Indice Cronologico www.edicolaprofessionale.com Sezioni Unite della Corte di cassazione Uno straordinario servizio che arricchisce e completa l’informazione della Rivista offrendo tutti gli articoli pubblicati, un unico motore di ricerca e un sistema di indicizzazione completo ed analitico della dottrina e della documentazione ufficiale commentata. Indice degli Autori Beghin Mauro Il giudizio di inerenza tra valutazioni ex ante, valutazioni ex post e obblighi contrattuali ..................... 87 Comelli Alberto Disconoscimento formale del credito IVA in caso di omessa dichiarazione relativa all’anno d’imposta precedente ..................................................... 9 Dami Filippo La riqualificazione degli assetti negoziali nella prospettiva dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 ........... 72 Eusepi Sarah L’efficacia retroattiva ed ultrannuale degli avvisi di recupero: riflessioni sull’inesistenza dei ‘‘crediti da non indebito’’ ............................................... 60 Cassazione, SS.UU., Sent. 31 maggio 2016, n. 11379 () .................................................... Cassazione, SS.UU., Sent. 31 maggio 2016, n. 11383 () .................................................... Cassazione, SS.UU., Ord. 8 giugno 2016, n. 11709 () ............................................................ Cassazione, SS.UU., Sent. 9 giugno 2016, n. 11844 () ............................................................ Cassazione, SS.UU., Sent. 13 giugno 2016, n. 12084 () .................................................... Cassazione, SS.UU., Sentt. 14 giugno 2016, nn. 12190, 12191, 12192, 12193 e 12194 () ............. Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n. 12191 ........................................................ Cassazione, SS.UU., Sent. 30 giugno 2016, n. 13378 () .................................................... Cassazione, SS.UU., Ord. 30 giugno 2016, n. 13380 () ............................................................ Cassazione, SS.UU., Sent. 8 luglio 2016, n. 14038 () ............................................................ Cassazione, SS.UU., Sent. 8 settembre 2016, n. 17758 ........................................................ Fanni Matteo Corte di cassazione Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15175 ........................................................ Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15190 ........................................................ Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n. 16769 ........................................................ Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n. 17839 ........................................................ Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016, n. 21614 ........................................................ Glendi Graziella Incertezze sui rimedi esperibili avverso il diniego parziale e tacito di autotutela ................................ 49 Mazzoni Diletta La riqualificazione degli assetti negoziali nella prospettiva dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 ........... 25 25 26 27 28 15 29 29 30 5 (*) Nella sezione «Rassegna di giurisprudenza». Il testo delle sentenze si può richiedere alla redazione di GT - Rivista di giurisprudenza tributaria ([email protected]). La Cassazione torna, con piglio creativo, sulla vexata quaestio della presunzione di fruttuosità dei mutui socio/società ............................................... 43 24 67 58 48 42 31 72 Commissione tributaria provinciale Roccatagliata Franco Il possesso dei requisiti sostanziali previsti dalla Direttiva ‘‘interessi e royalties’’ è condizione necessaria e sufficiente per fruire dei relativi benefici fiscali? ....... 79 Stevanato Dario Il new deal della Suprema Corte sull’imposizione indiretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione? ............................................ 34 48 85 76 Repertorio Agevolazioni Venegoni Andrea La finalità mutualistica dei consorzi non è incompatibile con il fine di lucro ma il trattamento fiscale dipende dalla situazione di fatto ........................... Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez. IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454 ............................... Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XL, Sent. 22 luglio 2016, n. 6443 ....................... Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I, Sent. 3 novembre 2016, n. 8303 ....................... Crediti d’imposta 15 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Incentivi per gli investimenti in aree svantaggiate - 95 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {AAAAA_FISCALE}0105_17-GTRI01/ 00135027_2017_01_0095.3d Indici Recupero di crediti opposti in compensazione inesistenti - Avviso di recupero - Ammissibilità - Scadenza del termine in relazione a periodi pregressi - Irrilevanza (Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15190, con commento di S. Eusepi) ................... Successiva emissione della cartella di pagamento Legittimità (Cassazione, SS.UU., Sent. 8 settembre 2016, n. 17758, con commento di A. Comelli) .................. 58 Processo tributario Consorzi Atti impugnabili Prestazioni di servizi Diniego di autotutela parziale - Impugnabilità - Sussistenza - Ragioni di rilevante interesse generale prospettate dal ricorrente - Necessità Prestazioni rese da consorzio - Attività commerciale con scopo di lucro - Ammissibilità - Differenza tra quanto fatturato dal consorzio al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato al consorzio - Problematica configurabilità quali ricavi non fatturati Natura dei rapporti tra consorzio e consorziati tra di essi e nei confronti dei committenti - Rilevanza (Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n. 12191, con commento di A. Venegoni) ................ (Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n. 16769, con commento di G. Glendi) ................... 15 Direttive 76 48 Determinazione Versamenti dei soci alla società - Presunzione di onerosità - Sussistenza - Prova contraria a carico del contribuente - Ammissibilità - Dimostrazione dell’iscrizione in bilancio del versamento a titolo diverso dal mutuo - Necessità (Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n. 17839, con commento di M. Fanni) .................... Applicazione dell’imposta 42 Redditi di lavoro autonomo 67 Imposte indirette Imposte ipotecarie e catastali Istituzione di trust ‘‘autodichiarato’’ - Applicazione delle imposte in misura fissa - Legittimità (Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016, n. 21614, con commento di D. Stevanato) ............... Istanza - Obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adozione di un provvedimento amministrativo espresso - Inesistenza - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza - Impugnabilità del silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria - Mancata previsione - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza (Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez. IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454, con commento di G. Glendi) ....................................................... Redditi di capitale Imposta di registro Causa reale ed effettiva regolamentazione degli interessi - Rilevanza - Cessione di beni funzionali all’esercizio dell’impresa - Cessione d’azienda - Configurabilità - Imposta di registro - Applicabilità - Cessione di singoli beni non idonei all’esercizio dell’impresa IVA - Applicabilità (Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15175, con commento di F. Dami e D. Mazzoni) .... 48 Autotutela Fiscalità internazioale Direttiva ‘‘interessi e canoni - Diritti riconosciuti dalla normativa europea - Soddisfacimento dei requisiti sostanziali - Necessità - Requisiti formali - Irrilevanza (Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I, Sent. 3 novembre 2016, n. 8303, con commento di F. Roccatagliata) ........................................... 5 Determinazione Giudizio di inerenza - Svolgimento ex ante - Necessità - Attività artistica - Costi sostenuti per acquisto di abiti e mobilio - Utilizzo promiscuo per esercizio della professione e uso personale - Deducibilità al 50% - Legittimità (Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XL, Sent. 22 luglio 2016, n. 6443, con commento di M. Beghin) .................................................. 85 31 IVA Sistematico Dichiarazioni R.D. 16 marzo 1942, n. 262 Omessa presentazione della dichiarazione annuale Iscrizione a ruolo dell’imposta detratta - Legittimità - Approvazione del testo del Codice Civile 96 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {AAAAA_FISCALE}0105_17-GTRI01/ 00135027_2017_01_0095.3d Indici Art. 1815 - Interessi riqualificazione degli assetti negoziali presunzione di onerosità dei mutui - Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15175 con commento di F. Dami e D. Mazzoni .............. - Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n. 17839 con commento di M. Fanni .............................. 42 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 Art. 2615 - Responsabilità verso i terzi finalità mutualistica dei consorzi - Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n. 12191 con commento di A. Venegoni .......................... 67 Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi 15 Art. 46 - Versamenti dei soci presunzione di onerosità dei mutui Art. 2615-ter - Società consortili - Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n. 17839 con commento di M. Fanni .............................. finalità mutualistica dei consorzi - Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n. 12191 con commento di A. Venegoni .......................... 15 42 Art. 54 - Determinazione del reddito di lavoro autonomo giudizio di inerenza D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 - Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XL, Sent. 22 luglio 2016, n. 6443 con commento di M. Beghin ............................ Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto 85 Art. 3 - Prestazioni di servizi finalità mutualistica dei consorzi D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 - Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n. 12191 con commento di A. Venegoni .......................... Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 15 Art. 13 - Base imponibile Art. 19 - Atti impugnabili e oggetto del ricorso finalità mutualistica dei consorzi impugnabilità del diniego di autotutela - Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n. 12191 con commento di A. Venegoni .......................... - Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n. 16769 con commento di G. Glendi ............................. - Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez. IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454 con commento di G. Glendi ............................. 15 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi Disposizioni urgenti in materia fiscale agevolazioni per i beneficiari effettivi impugnabilità del diniego di autotutela - Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I, Sent. 3 novembre 2016, n. 8303 con commento di F. Roccatagliata ..................... - Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n. 16769 con commento di G. Glendi ............................. - Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez. IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454 con commento di G. Glendi ............................. D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 Art. 2-quater - Autotutela Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241 Art. 20 - Interpretazione degli atti Norme di semplificazione degli adempimenti dei GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 48 D.L. 30 settembre 1994, n. 564 Art. 26-quater - Esenzione dalle imposte sugli interessi e sui canoni corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unione europea 76 48 48 48 97 ABCompos - 3B2 v. 11.0.3108/W Unicode-x64 (Dec 17 2013) - {AAAAA_FISCALE}0105_17-GTRI01/ 00135027_2017_01_0095.3d Indici D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria Art. 2 - Misure in materia di riscossione Art. 17 - Oggetto imposta indiretta sui trust avvisi di recupero per crediti d’imposta - Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15190 con commento di S. Eusepi ............................. - Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016, n. 21614 con commento di D. Stevanato ......................... 58 31 D.L. 29 novembre 2008, n. 185 Legge 27 luglio 2000, n. 212 Disposizioni in materia di Statuto dei diritti del contribuente Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale Art. 11 - Diritto di interpello Art. 27 - Accertamenti riqualificazione degli assetti negoziali avvisi di recupero per crediti d’imposta - Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15175 con commento di F. Dami e D. Mazzoni .............. - Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15190 con commento di S. Eusepi ............................. 98 67 58 GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017 Nuova Un mondo di contenuti non è mai stato così facile da raggiungere. voluntary disclosure accreditamento concessioni collegio denunce governance sicurezza collegio bilancio fisco sindacale fiscalità fallimento diritto iva internazionale contratti elusione fiscale tasibilancio settore diritto enti studi di settore spesometro interdisciplinare corporate società procedura civile processo accertamento obbligazioni società lavoro revisione procedure di ires processo tributi procedura civile società revisione revisione sindacale enti locali EP.A. processo impresaliterature diritto collegio processo tributario immobili big suite mail legal & economic tributario sindacale unico quotidiano e-learning IPSOA quotidiano codici codici codici IPSOA collegio settore contenzioso codici bilancio aziendale consolidato velocità codicieconomic regime deiIPSOA minimi diritto collegio libri legal & accreditamento libri IPSOA Check up aziendale studi di tributi locali corporate collegio enti locali EP.A. procedure di revisione bilancio obbligazioni diritto news fisco big suite mail velocità legal economic literature lavoro contratti innovazione servizi immobili iva libri fisco abuso del diritto sicurezza denunce iva velocità settore lavoro Legal & economic literature tante news percorsi interattivi diritto libri concessioni big suite iva accreditamento scissione societaria sicurezza accertamento codiciaccessibilitàimu accreditamento quotidiano big suite iva abuso del diritto IPSOA collegio news sindacale contenzioso accreditamento diritto obbligazioni libri lavoro diritto civile velocità online quotidiano lavoro percorsi dottrina interattivi accreditamento contenzioso news IPSOA percorsi interattivi locali e-learning IPSOA diritto civile accreditamento volumi iva società bilancio fisco iva e-learning velocità convenzioni governance libri e-learning bilancio iva fisco iva velocità news moduli news online libri studi di settore imu procedure di revisione lavoro fatturazione elettronica fusione societaria percorsi news interattivi lavoro news libri iva big news suite fisco Check up lavoro procedura civile processo famiglia società moduli reverse charge specialistici e operativi società accreditamento settore lavoro denunce libri iva enti iva governance sicurezza bilancio studi di settore lavoro processo bilancio e-learning bilancio news e-learning online Check up aziendale fisco news obbligazioni online news lavoro servizi denunce unico enti locali EP.A. iva legal & economic literature codici news collegio sicurezza sanzioni reverse bilanci iva lavoro chargeoicnews legislazione denunce triangolazioni libri codici studi di settore lavoro tributi fisco lavoro IPSOA società bilancio accreditamento online società news bilancio e-learning contratti codici news patent box processo interattivi concordato preventivo accreditamento collegio sindacale sicurezza lavoro news libri legal & economic studi di settore collegio L’unica piattaforma online che integra in una libri sola ricerca tutta la ricchezza dei contenuti Wolters Kluwer. e-learning diritto patent box modulistica news società studi di settore interattività diritto • Completa: tutte le aree di interesse per il professionista dalla fiscalità internazionale alla revisione, al societario e al fallimento. • Versatile: contenuti e servizi per ogni tua esigenza, dall’aggiornamento all’approfondimento e alla consulenza. • Autorevole: i commenti, le interpretazioni, le schede operative, sono curati dalle firme più autorevoli. • Efficiente: grazie alle schede di sintesi su adempimenti e attività economiche, ti fa risparmiare tempo. • Sempre aggiornata: con in più in home page le news di IPSOA Quotidiano e le segnalazioni della Redazione. 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