Giurisprudenza di legittimità

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Sommario
Gennaio 2017
1
Giurisprudenza delle Sezioni Unite
IVA
L’omessa dichiarazione IVA non esclude l’iscrizione a ruolo per il recupero
dell’imposta detratta
Cassazione, SS.UU., Sent. 8 settembre 2016, n. 17758
commento di Alberto Comelli
5
9
Consorzi
Ribaltamento dei costi e ricavi tra consorzi e società consorziate
Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n. 12191
commento di Andrea Venegoni
15
15
Rassegna
24
a cura di Cesare Glendi
Giurisprudenza di legittimità
Imposte indirette
Tassazione fissa per il trust autodichiarato
31
34
Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016, n. 21614
commento di Dario Stevanato
Redditi di capitale
Presunzione di onerosità per i versamenti socio-società
Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n. 17839
commento di Matteo Fanni
42
43
Processo tributario
Questioni aperte sull’impugnabilità del diniego di autotutela
Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n. 16769
Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez. IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454
commento di Graziella Glendi
48
48
49
Agevolazioni
Incentivi occupazionali: recupero ‘‘lungo’’ per crediti frazionati
Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15190
commento di Sarah Eusepi
58
60
Imposta di registro
La cessione ‘‘isolata’’ di beni funzionali all’esercizio d’impresa è sempre cessione
di azienda
Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n. 15175
commento di Filippo Dami e Diletta Mazzoni
67
72
Giurisprudenza di merito
Fiscalità internazionale
I vizi formali non fanno perdere la qualifica di beneficiario effettivo prevista dalla normativa europea
Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I, Sent. 3 novembre 2016, n. 8303
commento di Franco Roccatagliata
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
76
79
3
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Sommario
Gennaio 2017
Redditi di lavoro autonomo
Deducibile (in parte) il vestiario utilizzato per trasmissioni televisive
85
87
Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XL, Sent. 22 luglio 2016, n. 6443
commento di Mauro Beghin
Indici
Autori, Cronologico, Repertorio della giurisprudenza per materia e Sistematico
95
Direzione scientifica Cesare Glendi
Editrice Wolters Kluwer Italia s.r.l. - Strada 1, Palazzo F6 - 20090 Milanofiori Assago (MI) - http://www.ipsoa.it
Direttore responsabile Giulietta Lemmi
Redazione Paola Boniardi, Valentina Cazzaniga, Marcello Gervasio
Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 537 del 27 novembre 1993
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Iscritta nel Registro Nazionale della Stampa con il n. 3353 vol. 34 foglio 417 in data
31 luglio 1991
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GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Giurisprudenza
Sezioni Unite
IVA
L’omessa dichiarazione IVA
non esclude l’iscrizione a ruolo
per il recupero dell’imposta detratta
Cassazione, SS.UU., Sent. 8 settembre 2016 (21 giugno 2016), n. 17758 - Pres. Rordorf - Rel.
Cirillo (stralcio)
IVA - Dichiarazioni - Omessa presentazione della dichiarazione annuale - Iscrizione a ruolo dell’imposta detratta - Legittimità - Successiva emissione della cartella di pagamento - Legittimità
Nella fattispecie di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è consentita l’iscrizione
a ruolo dell’imposta detratta e la consequenziale emissione della cartella di pagamento, ben potendo il Fisco operare, con procedure automatizzate, un controllo formale che non tocchi la posizione
sostanziale della parte contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi e da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi in possesso dell’anagrafe tributaria, ai sensi
degli artt. 54-bis e 60, D.P.R. n. 633/1972. Resta salva, nel successivo giudizio di impugnazione della
cartella, l’eventuale dimostrazione, a cura del contribuente, che la deduzione di imposta eseguita
entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto riguardi acquisti fatti da un soggetto passivo di imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili.
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza dell’8 novembre 2011 la Commissione tributaria regionale della Calabria ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate nei confronti del Comune di San Nicola da Crissa e, riformando
la decisione della Commissione tributaria provinciale
di Vibo Valentia, ha confermato la cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato
della dichiarazione IVA per l’anno 2004, dove l’ente
locale aveva esposto un credito d’imposta riportato
dall’annualità precedente, rispetto alla quale, dall’interrogazione dell’anagrafe tributaria, la dichiarazione
IVA risultava essere stata omessa.
2. Il giudice d’appello, premesso che un credito d’imposta non esposto nella dichiarazione annuale IVA
non poteva essere portato in detrazione nella dichiarazione per l’anno successivo dovendo essere invece
richiesto con domanda di rimborso, ha osservato che
il Comune non ha affatto contrastato le risultanze
dell’anagrafe tributaria circa l’omissione della dichiarazione IVA e si è limitato a sostenere la legittimità
del credito d’imposta invocando documentazione in
suo possesso ma nei fatti mai prodotta in giudizio.
Ha, pertanto, concluso per la correttezza dell’iscrizio-
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
ne a ruolo effettuata dal Fisco avvalendosi dei poteri
riconosciutigli dall’art. 54-bis, comma 2, del D.P.R.
26 ottobre 1972, n. 633.
3. Ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi e memorie, l’ente locale; l’Agenzia delle
entrate ha resistito con controricorso mentre l’intimata Equitalia non ha spiegato alcuna attività difensiva. La causa, rimessa all’udienza pubblica a seguito
di ordinanza emessa della Sottosezione tributaria della sesta Sezione civile all’esito dell’adunanza camerale
del 16 aprile 2014, è pervenuta dinanzi alle Sezioni
Unite a seguito di ordinanza interlocutoria della
quinta Sezione civile n. 22902/2014. L’ente locale si
difende con ulteriore memoria.
Considerato in diritto
(Omissis)
Con il quarto e ultimo motivo di ricorso, denunciando vizi motivazionali e plurime violazioni di norme
di diritto (artt. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973,
n. 600, e 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633),
la parte ricorrente formula due censure.
In primo luogo, si duole del fatto che il giudice d’appello ha motivato la propria decisione sul rilievo che
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Giurisprudenza
Sezioni Unite
la somma oggetto della cartella corrispondeva a un
credito d’imposta irritualmente portato in detrazione,
senza però enucleare gli elementi di fatto da cui aveva tratto detto convincimento.
In secondo luogo si duole del fatto che il giudice
d’appello, sul rilievo che la somma oggetto della cartella corrispondeva a un credito d’imposta irritualmente portato in detrazione, abbia trascurato che
quello compiuto dal Fisco non era stato quel mero
controllo cartolare, unico ad essere consentito dall’art. 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, a pena d’illegittimità della procedura adottata.
4.1. Il primo profilo di censura è manifestamente infondato atteso che la Commissione tributaria regionale ha opportunamente considerato che era pacifico
nel dibattito processuale che il fondamento dell’iscrizione a ruolo era dato dall’asserita irritualità della detrazione del credito d’imposta a causa della mancanza
della dichiarazione per l’anno di precedente maturazione.
4.2. Il secondo profilo è, invece, meritevole di approfondimento ed è oggetto dell’ordinanza interlocutoria
n. 22902/2014.
Sul punto osserva la quinta Sezione che nella giurisprudenza tributaria della Corte di cassazione si rinvengono due diversi indirizzi interpretativi. Il primo
orientamento - riferibile in via esemplificativa alle
decisioni del 22 aprile 2009, n. 9564, e del 4 maggio
2010, n. 10674, sui limiti operativi dell’art. 54-bis del
D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 - ritiene che “allorquando il credito portato in detrazione non risulti
dalla dichiarazione annuale, sia perché diverso sia,
più radicalmente, perché la stessa non è stata presentata, è pienamente legittimo il ricorso alla procedura
de qua” (cfr. implicitamente anche Cass., 16 ottobre
2012, n. 17754).
Il secondo orientamento - riferibile, sullo stesso tema,
alla decisione del 3 aprile 2012, n. 5318, nonché a
quella del 15 febbraio 2013, n. 3755 (con rinvii a:
Corte cost., 7 aprile 1988, n. 430; Cass., 27 maggio
2011, n. 11712; Cass., 21 aprile 2011, n. 9224; Cass.,
23 luglio 2010, n. 27396; Cass., 8 maggio 2007, n.
13591) - ritiene che “la negazione della detrazione
nell’anno in verifica di un credito dell’anno precedente, per il quale la dichiarazione è stata omessa,
non può essere ricondotta al mero controllo cartolare, in quanto implica verifiche e valutazioni giuridiche, dovendo ritenersi che il disconoscimento dei
crediti e l’iscrizione della conseguente maggiore imposta dovevano, pertanto, avvenire previa emissione
di motivato avviso di rettifica”.
5. Questo secondo indirizzo, nel delineare il perimetro da assegnare al procedimento di controllo automatizzato nonché ai poteri conferiti al Fisco in seno
ed in esito a questo, rileva che l’iscrizione a ruolo è
consentita soltanto allorquando sia rilevato un errore
materiale o di calcolo manifestamente evidente, ovvero risultino vizi di forma nella compilazione della
dichiarazione o, ancora, emergano indicazioni oggettivamente contraddittorie, qualora, peraltro, tali vizi
ed irregolarità siano intrinseci alla dichiarazione del
contribuente.
5.1. Per l’orientamento in esame non può l’Amministrazione procedere all’iscrizione desumendo aliunde i
parametri della verifica, né può pervenire alla correzione dei vizi o delle irregolarità riscontrate sulla base
di una diversa valutazione qualitativa o quantitativa
del presupposto di imposta.
5.2. La mancanza della dichiarazione annuale concernente l’esercizio in cui il credito d’imposta si assume maturato non consentirebbe di svolgere quel mero riscontro cartolare che la legge richiede. Di qui la
necessità di procedere ad autonomo accertamento,
presidiato dalle ordinarie garanzie difensive; non sarebbe prospettabile, in questo caso, una mera attività
esecutiva con la quale l’Ufficio finanziario si limiti a
dare attuazione alla dichiarazione sottoscritta dal
contribuente, come espressamente stabilito dalla legge allorquando dispone che “i dati contabili risultanti
dalla liquidazione prevista dal presente articolo si
considerano, a tutti gli effetti come dichiarati dal
contribuente e dal sostituto di imposta”.
6. Riguardo al contrapposto e condivisibile primo indirizzo, favorevole alla posizione del Fisco, si osserva
che - sulla base dei dati indicati nella dichiarazione
ovvero in possesso dell’anagrafe tributaria - l’art. 54bis, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, riconosce in capo all’Amministrazione finanziaria il
potere di: a) correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dal dichiarante riguardo alla determinazione del volume d’affari e alla liquidazione dell’imposta; b) correggere gli errori materiali riscontrati nel
riporto delle eccedenze d’imposta derivanti da precedenti dichiarazioni; c) controllare la tempestività dei
versamenti dell’imposta (acconto, conguaglio, liquidazione periodica) e la loro coerenza con le risultanze
della dichiarazione annuale.
Si tratta, dunque, di controllo formale che avviene
attraverso quelle procedure automatizzate che non
comportano alcuna verifica della posizione sostanziale della parte contribuente. Perciò si è detto in dottrina che il controllo formale attraverso procedure
“automatizzate” attiene a questioni liquidative del-
6
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Giurisprudenza
Sezioni Unite
l’imposta sulla scorta di quanto dichiarato dal contribuente, di talché il controllo resta appunto “formale”,
non contrapponendosi una diversa ricostruzione sostanziale dei dati da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Nella giurisprudenza di legittimità si è pure detto
che, nel momento in cui il Fisco procede a una vera
e propria interpretazione e valutazione dei dati indicati in dichiarazione, non si può più parlare di controllo automatizzato della dichiarazione, bensì di autentico accertamento (Cass., 6 agosto 2008, n.
21176; Cass., 26 gennaio 2007, n. 1721; Cass., 16
settembre 2005, n. 18415; Cass., 17 marzo 2000, n.
3119); sicché, in questi casi, la relativa pretesa dell’Amministrazione finanziaria dovrebbe essere fatta
valere con l’emanazione di avviso, quale atto impositivo, e non con la diretta iscrizione a ruolo seguita da
cartella di pagamento.
6.1. In proposito, la Relazione accompagnatoria al
D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, che ha definito il perimetro degli omologhi controlli automatizzati disciplinati dagli artt. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973,
n. 600, e 54-bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633,
chiarisce che si tratta di una procedura che “tende a
rimuovere gli errori e le inesattezze risultanti in modo
obiettivo dalla dichiarazione e che non comportano
giudizi di valutazione ed estimazione delle componenti positive e negative del reddito”.
Orbene entrambe le disposizioni introdotte dal
D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, stabiliscono che, “avvalendosi di procedure automatizzate”, l’Amministrazione provvede “sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni fiscali presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria”.
Il senso di una normativa di tal genere non può che
essere quello di un controllo fatto grazie all’utilizzo di
quei mezzi informatici che consentono di correlare i
dati esposti nelle dichiarazioni e le informazioni sul
contribuente reperibili nell’anagrafe tributaria (regolata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 605 e dal
D.P.R. 2 novembre 1976, n. 784). Si tratta di un sistema informativo nel quale sono immagazzinate
principalmente quelle notizie essenziali risultanti dalle dichiarazioni fiscali. Nella mancata presentazione
di una dichiarazione annuale IVA può ben ravvisarsi
una di quelle notizie che rilevano come mero dato
storico dal quale derivano conseguenze giuridiche.
Sicché non vi sarebbe ragione di non consentire la
lavorazione con procedura automatizzata di un dato
omissivo, dovendo l’Amministrazione provvedere,
appunto, “sulla base dei dati e degli elementi diretta-
mente desumibili dalle dichiarazioni fiscali presentate
e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria”.
6.2. È vero che la Corte costituzionale, nell’ordinanza del 7 aprile 1988, n. 430, afferma che la liquidazione ex art. 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
600, è operata sulla base delle dichiarazioni presentate mediante un mero riscontro cartolare, nei casi eccezionali e tassativamente indicati dalla legge, vertenti su errori materiali e di calcolo immediatamente
rilevabili, senza la necessità quindi di alcuna istruttoria; ma all’epoca di tale pronuncia il testo vigente
dell’art. 36-bis non faceva cenno al potere per l’Amministrazione di provvedere con procedura automatizzata “sulla base dei dati ... in possesso dell’anagrafe
tributaria”.
6.3. Nel caso specifico il controllo automatizzato del
dato della detrazione per pregresso credito d’imposta
inserito nella dichiarazione annuale IVA non può
che essere fatto in correlazione con il dato presente
nell’anagrafe tributaria sulla presentazione o meno
della dichiarazione annuale IVA nell’anno di maturazione del ridetto credito d’imposta ed è uno dei casi
più tipici e semplici di controllo meramente formale,
atteso che esso non tocca la posizione sostanziale della parte contribuente ed è scevro da profili valutativi
e/o estimativi e da atti d’indagine diversi da quel mero raffronto tra la dichiarazione fiscale e l’anagrafe
tributaria esplicitamente consentito dall’art. 54-bis
del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (conf. Cass.,
SS.UU., ud. 21 giugno 2016, Fall. LTS).
6.4. Né rileva che ciò comporta l’applicazione di
norme giuridiche, quali quelle derivanti dal combinato disposto degli artt. 30 e 55 del D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 633.
Il tema dell’applicazione diretta e immediata di norme giuridiche in sede di controllo automatizzato è
stato approfondito dalla Corte di cassazione in materia di oneri, affermandosi - ad esempio - che il recupero degli oneri non contemplati dall’art. 10 del
D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è consentito quando sia desumibile ictu oculi, dal controllo formale della dichiarazione e dell’allegata documentazione, che
il titolo è diverso da quello previsto dalla lettera della
legge, e non anche quando tale indeducibilità sia ricavabile dall’interpretazione di detta documentazione
o della norma giuridica (Cass., 15 giugno 2007, n.
14019; conf. Cass., 8 luglio 1996, n. 6193; Cass., 29
febbraio 2008, n. 5460). Dunque, se manca una diversa valutazione nell’an o nel quantum del presupposto impositivo ovvero una diversa valutazione della
esistenza di crediti o oneri, l’Amministrazione può liquidare quanto rilevato nel controllo formale ed ef-
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Sezioni Unite
fettuare l’iscrizione a ruolo e la notifica della cartella,
senza necessariamente dover emettere un previo avviso di accertamento in rettifica (Cass., 21 aprile
2011, n. 9224).
6.5. Da qui deriva, in materia di IVA (artt. 30 e 55
del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), la correttezza
della tesi giurisprudenziale secondo cui “allorquando
il credito portato in detrazione non risulti dalla dichiarazione annuale, sia perché diverso sia, più radicalmente, perché la stessa non è stata presentata, è
pienamente legittimo il ricorso alla procedura de qua”
(così Cass., 2 aprile 2009, n. 9564).
Si tratta, seguendo la logica dell’indirizzo in esame,
di mera attività esecutiva con la quale l’Ufficio finanziario si limita a dare attuazione al precetto legale rispetto ai dati di dichiarazione, come chiaramente
evidenziato dall’art. 54-bis, comma 4, del D.P.R. 26
ottobre 1972, n. 633, secondo cui “i dati contabili risultanti dalla liquidazione prevista dal presente articolo si considerano, a tutti gli effetti come dichiarati
dal contribuente”. Quest’ultimo, sulla base del principio dell’onere e della prossimità della prova, potrebbe
poi esercitare il proprio diritto di difesa, documentando in giudizio l’avvenuta presentazione della dichiarazione annuale ritenuta omessa dal Fisco sulla scorta
dell’anagrafe tributaria.
6.6. Il procedimento di controllo automatizzato dei
dati è eseguito senza alcun intervento diretto degli Uffici e in forza dell’art. 54-bis può essere attivato nei casi di mancata considerazione dei pagamenti effettuati,
errata o incompleta trasmissione e\o ricezione dei dati
della dichiarazione, errori di compilazione della dichiarazione da parte del contribuente sanabili e facilmente riconoscibili, errata individuazione del contribuente, incoerenza della dichiarazione, eccedenze di
imposta non completamente confermate dal sistema
informativo (circolare n. 100/E e n. 143/E/2000; circolare n. 34/E/2012 e n. 21/E/2013). La procedura si
conclude con un atto liquidatorio ai fini dell’iscrizione
a ruolo a titolo definitivo ai sensi del comma 3 dell’art. 54-bis e del comma 6 dell’art. 60.
6.7. Si tratta, con altre parole, d’intervenire su errori
e/o omissioni del contribuente, con la procedura
automatizzata prevista dall’art. 54-bis che comporta
di per sé stessa lo “scarto” e la “ripresa” delle posizioni fiscali formalmente irregolari alla luce delle risultanze dell’anagrafe tributaria (Cass., SS.UU., ud. 21
giugno 2016, Fall. LTS). Tale procedura può ben costituire innesco iniziale dell’azione del Fisco, restando
in disparte il rilievo che il diritto di detrazione non
può essere negato nel giudizio d’impugnazione della
cartella emessa dal Fisco a seguito di controllo forma-
8
le automatizzato, laddove, pur non avendo il contribuente presentato la dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, sia dimostrato in concreto - ovvero non controverso - che si tratti di acquisti fatti
da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati a IVA
e finalizzati a operazioni imponibili e di deduzione
eseguita entro il termine previsto per la presentazione
della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto (conf. Cass.,
SS.UU., ud. 21 giugno 2016, Fall. LTS). Ciò tuttavia
non rileva nella specie, non essendo tale diversa questione oggetto specifico di alcun motivo di ricorso
(rispetto al negativo accertamento di fatto compiuto
dal giudice d’appello).
6.8. In conclusione, nel rigettare anche la seconda
censura del quarto motivo di ricorso, deve essere
enunciato il seguente principio di diritto: “In fattispecie di omessa presentazione della dichiarazione
annuale IVA, è consentita l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e la consequenziale emissione di
cartella di pagamento, ben potendo il Fisco operare,
con procedure automatizzate, un controllo formale
che non tocchi la posizione sostanziale della parte
contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi e da atti d’indagine diversi da mero raffronto
con dati ed elementi in possesso dell’anagrafe tributaria, ai sensi degli artt. 54-bis e 60 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (fatta salva, nel successivo giudizio
d’impugnazione della cartella, l’eventuale dimostrazione a cura del contribuente che la deduzione d’imposta, eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, riguardi acquisti fatti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati a IVA e finalizzati a operazioni imponibili)”.
7. La complessità e l’incertezza delle questioni giuridiche che hanno richiesto l’intervento nomofilattico
delle Sezioni Unite costituiscono giustificati motivi
per la compensazione delle spese del giudizio di legittimità tra le parti costituite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente
compensate tra le parti costituite le spese del giudizio
di legittimità.
Il testo integrale della sentenza
può essere richiesto a
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Giurisprudenza
Sezioni Unite
Disconoscimento formale del credito IVA
in caso di omessa dichiarazione
relativa all’anno d’imposta precedente
di Alberto Comelli (*)
La sentenza resa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 17758/2016 afferma la legittimità
dell’iscrizione a ruolo e della consequenziale notifica della cartella di pagamento, ai fini dell’IVA,
per effetto del controllo formale automatizzato ed in assenza dell’emissione di un avviso di accertamento, in corrispondenza del credito derivante dall’esercizio del diritto di detrazione, sorto
con riferimento all’anno d’imposta precedente, per il quale la dichiarazione annuale sia stata
omessa. Tuttavia, l’arresto non sembra prendere in considerazione, e, dunque, inspiegabilmente
svaluta, la comunicazione al contribuente dell’esito della liquidazione dell’imposta, al fine di
consentire a quest’ultimo di fornire i chiarimenti necessari all’Ufficio tributario, prima dell’iscrizione a ruolo, entro i trenta giorni successivi al ricevimento della stessa comunicazione.
Procedendo con ordine, l’arresto in esame scaturisce da una vicenda che trae origine dall’impugnazione di una cartella di pagamento, confezionata a seguito di un controllo automatizzato della dichiarazione annuale ai fini dell’IVA,
per l’anno d’imposta 2004, nei confronti di un
Comune che aveva riportato un credito d’imposta dall’annualità precedente, per la quale,
tuttavia, risultava omessa la relativa dichiarazione, sulla base dei dati forniti dall’anagrafe
tributaria.
Secondo quanto si può desumere dalla sintetica descrizione in punto di fatto, contenuta nel-
l’arresto in esame, la Commissione tributaria
provinciale di Vibo Valentia accoglieva il ricorso, in quanto l’iscrizione a ruolo e la confezione della relativa cartella di pagamento si
collocavano al di fuori del perimetro individuato dall’art. 54-bis del D.P.R. n.
633/1972 (1). Questa disposizione, infatti, precisamente individua(va) le ipotesi in relazione
alle quali può essere espletato il controllo automatizzato, circoscritto “ai soli casi di errori materiali o di calcolo ovvero alle ipotesi di omessi
o intempestivi versamenti emergenti dalla stessa dichiarazione fiscale del contribuente”.
Nell’appello, l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate sosteneva che, in presenza di un’omessa dichiarazione annuale, il credito d’imposta non
può essere portato in detrazione nell’anno successivo, ma può essere esclusivamente richiesto
mediante la presentazione di un’istanza di rimborso ed impugnava la sentenza di prime cure
nella parte in cui negava la legittimità dell’espletamento della procedura automatizzata in
assenza, nella specie (secondo il giudice di primo grado), di un errore materiale o di calcolo.
La Commissione tributaria regionale Calabria
accoglieva l’appello e sottolineava, per quanto
qui interessa, “che un credito d’imposta non
esposto nella dichiarazione annuale IVA non
poteva essere portato in detrazione nella dichiarazione per l’anno successivo dovendo es-
(*) Professore di Diritto tributario presso l’Università di Parma
- Avvocato cassazionista con studio in Roma
(1) L’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972 è stato introdotto dall’art. 14, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 241/1997.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
9
La sentenza in esame risolve una questione
particolarmente delicata e controversa nella
stessa giurisprudenza della Corte di cassazione,
laddove si contrapponevano, negli indirizzi interpretativi della quinta Sezione civile, due
orientamenti diametralmente opposti, pur in
presenza degli stessi profili fattuali. La sentenza
in esame, pertanto, è non poco importante, sia
in apicibus, sia sul piano concreto e operativo,
in quanto consente di sciogliere positivamente
alcuni nodi, sotto il profilo interpretativo, pur
con le opportune considerazioni critiche proposte all’attenzione del lettore in questa breve
nota.
I fatti di causa
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Giurisprudenza
Sezioni Unite
sere invece richiesto con domanda di rimborso”. Aggiungeva, inoltre, che il Comune non
aveva contestato l’omissione della presentazione della dichiarazione annuale ai fini dell’IVA
e si era limitato a sostenere la legittimità del
credito d’imposta, pur senza produrre in giudizio la documentazione in suo possesso che potesse giustificare tale assunto. Il giudice del
gravame, pertanto, concludeva nel senso che
l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate aveva operato correttamente iscrivendo a ruolo l’importo
corrispondente al credito d’imposta derivante
dall’anno precedente, in applicazione dei poteri previsti dall’art. 54-bis, comma 2, del D.P.R.
n. 633/1972.
L’ente locale proponeva ricorso per cassazione,
articolato in quattro motivi, al quale replicava
l’Agenzia delle entrate mediante un controricorso, mentre Equitalia, pur intimata, non si
costituiva in giudizio. La Corte giudica tali
censure infondate e rigetta il ricorso, compensando interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Mentre il primo profilo del quarto motivo è
giudicato manifestamente infondato, il secondo profilo dello stesso motivo è quello ritenuto
meritevole di approfondimento, in seguito all’ordinanza interlocutoria della quinta Sezione
civile n. 22902/2014 (2), preceduta dalla pubblica udienza per effetto dell’ordinanza emessa
dalla Sottosezione tributaria della sesta Sezione
civile, all’esito dell’adunanza camerale.
Passando ai motivi dell’arresto, per quanto qui
interessa, la Corte scolpisce alcune argomentazioni, solo parzialmente condivisibili. In primis,
essa “osserva che la detrazione dell’imposta pagata per l’acquisizione di beni o servizi inerenti
all’esercizio dell’impresa è subordinata, in caso
di contestazione da parte dell’Ufficio, alla rela-
tiva prova, che dev’essere fornita dal contribuente mediante la produzione delle fatture e
del registro in cui vanno annotate e delle dichiarazioni periodiche in base ai criteri generali di riparto dell’onere della prova previsti dall’art. 2697 c.c. ed alle specifiche disposizioni
del Decreto IVA e della Sesta Direttiva, che
regolano la materia della deducibilità dell’imposta assolta”. Questa statuizione si colloca nel
solco interpretativo tracciato dalla sentenza
delle medesime Sezioni Unite depositata lo
stesso giorno rispetto a quella che qui si commenta, n. 17757/2016 ed avente lo stesso Presidente (Dott. Rordorf) e lo stesso giudice relatore (Dott. Cirillo) (3).
Passando all’altra tematica, con questa strettamente connessa, la Corte esamina sinteticamente i due diversi orientamenti, emersi nella
giurisprudenza della quinta Sezione civile, che
hanno pienamente giustificato il giudizio delle
Sezioni Unite, suscettibile di uniformare, in
via interpretativa, i futuri arresti in parte qua
dei giudici di merito e della stessa quinta Sezione civile.
Alla stregua del primo orientamento, in caso
di omissione della presentazione della dichiarazione annuale, il credito derivante dalla detrazione dell’IVA, sorto in tale annualità e riportato nella dichiarazione annuale relativa all’anno successivo, consente l’espletamento della
procedura di cui all’art. 54-bis del D.P.R. n.
633/1972, che prevede il controllo automatizzato (4). Secondo un diverso orientamento, invece, il disconoscimento della detrazione dell’imposta, collegato esclusivamente all’omessa
presentazione della dichiarazione annuale (per
l’annualità precedente), non può ricondursi ad
un mero controllo cartolare, laddove presuppone verifiche e valutazioni giuridiche che postulano la necessaria adozione e notificazione di
un avviso di rettifica (5). In virtù di quest’ultimo indirizzo, l’iscrizione a ruolo sarebbe con-
(2) In Corr. Trib., n. 4/2015, pag. 285 ss., con commento di
M. Basilavecchia, “Conseguenze dell’omissione della dichiarazione IVA sul riporto del credito alle annualità successive”, il
quale esprime un giudizio positivo sulla rimessione alle Sezioni
Unite della questione, che richiede, secondo l’Autore, un intervento nomofilattico ai massimi livelli.
(3) La sentenza è pubblicata in Corr. Trib., n. 41/2016, pag.
3133 ss., con nota di P. Centore, “La dichiarazione IVA con efficacia formale e sostanziale”, il quale commenta (a titolo di
confronto e di completamento) anche l’arresto della CGE, 28
luglio 2016, nella causa C-332/15.
(4) Inter alia, Cass., 22 aprile 2009, n. 9564; Id., 4 maggio
2010, n. 10674; Id., 16 ottobre 2012, n. 17754.
(5) In tal senso, tra le tante, cfr. Cass., 3 aprile 2012, n.
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Il contenuto della sentenza
del Giudice di legittimità
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Sezioni Unite
sentita esclusivamente in presenza di un errore
materiale o di calcolo manifestamente evidente, oppure qualora risultino vizi di forma nella
compilazione della dichiarazione, ovvero quest’ultima faccia emergere indicazioni oggettivamente contraddittorie, sempre che questi “vizi
ed irregolarità siano intrinseci alla dichiarazione del contribuente”. Sarebbe da escludere l’iscrizione a ruolo, in virtù del controllo automatizzato, qualora si realizzi la correzione dei
vizi o delle irregolarità riscontrate mediante
una diversa valutazione qualitativa o quantitativa del presupposto dell’imposta. In questa
prospettiva, l’omissione della dichiarazione annuale non consentirebbe di espletare il mero
riscontro cartolare che la legge richiede, dovendosi in tale ipotesi confezionare un autonomo atto impositivo, non surrogabile dalla
(iscrizione a ruolo e dalla) cartella di pagamento (6).
L’arresto che qui si commenta aderisce al primo indirizzo, favorevole ad un orientamento
interpretativo del più volte citato art. 54-bis,
suscettibile di comprendere nel suo alveo anche il controllo automatizzato nella prospettata
fattispecie, senza che sia indispensabile l’emissione e la notificazione di un avviso di rettifica.
La giustificazione di questa scelta (favorevole
all’Agenzia delle entrate), da parte della Corte
di cassazione, scaturisce da un’interpretazione
letterale dell’art. 54-bis, comma 2, dalla quale
emerge che il controllo formale “avviene attraverso quelle procedure automatizzate che non
comportano alcuna verifica della posizione sostanziale della parte contribuente”. In altre parole, “sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria” (7), si tratta di una liquidazione collegata
direttamente ed esclusivamente a quanto dichiarato dal contribuente, senza contrapporre
una diversa ricostruzione di tipo sostanziale, da
parte dell’Ufficio tributario.
Se si realizza questa verifica della posizione sostanziale del contribuente, mediante una diversa interpretazione e/o valutazione dei dati dichiarati, l’attività amministrativa espletata si
colloca al di fuori del perimetro del controllo
automatizzato e postula l’emissione e la notificazione di un avviso di rettifica. In tale fattispecie, sarebbe del tutto illegittima l’iscrizione
a ruolo e la notifica della correlativa cartella di
pagamento e, in caso di (rituale) impugnazione, quest’ultima dovrebbe essere interamente
annullata dal giudice tributario.
In altre parole, l’iter logico-giuridico della sentenza in esame ruota intorno al concetto di
controllo automatizzato del soggetto sottoposto
alla liquidazione dell’imposta dovuta in base
alla dichiarazione, che non modifica in alcun
modo la posizione sostanziale dello stesso. Sono assenti, nel caso di specie, profili di valutazione e/o di estimazione, in relazione ad un raffronto tra le risultanze della dichiarazione annuale ai fini dell’IVA e gli elementi risultanti
dall’anagrafe tributaria, che trova il suo fondamento giuridico nell’art. 54-bis del D.P.R. n.
633/1972.
L’irregolarità riscontrata in sede di controllo
formale, pertanto, deve poter emergere ictu
oculi, a prescindere sia dall’interpretazione della documentazione, ovvero della norma giuridica applicata nel caso concreto, sia da un diverso apprezzamento del presupposto impositivo (nell’an o nel quantum), o dell’esistenza di
crediti (od oneri). E la conclusione del “procedimento di controllo automatizzato”, secondo
tale approccio, non potrebbe essere altro che
l’emissione di “un atto liquidatorio ai fini dell’iscrizione a ruolo a titolo definitivo ai sensi
del terzo comma dell’art. 54-bis e del sesto
comma dell’art. 60” del D.P.R. n. 633/1972.
Aggiunge l’arresto in esame che il contribuente, “sulla base del principio dell’onere della
prova e della prossimità della prova, potrebbe
poi esercitare il proprio diritto di difesa, documentando in giudizio l’avvenuta presentazione
della dichiarazione annuale ritenuta omessa
5318; Id., 31 maggio 2016, n. 11292.
(6) In senso conforme, cfr. Comm. trib. reg. Puglia, Sez.
staccata di Lecce, 13 febbraio 2014, n. 359.
(7) Così dispone l’art. 54-bis, comma 2, del D.P.R. n.
633/1972.
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dal Fisco sulla scorta dell’anagrafe tributaria”.
Nuovamente con una proiezione nella dimensione processuale (8), la sentenza afferma (9)
che (in tale sede) non può essere negato il diritto di detrazione, pur in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale relativa
al periodo in cui è sorto, qualora il contribuente dimostri (ovvero sia non contestato) “che si
tratti di acquisti fatti da un soggetto passivo
d’imposta, assoggettati a IVA e finalizzati a
operazioni imponibili e di deduzione eseguita
entro il termine previsto per la presentazione
della dichiarazione relativa al secondo anno
successivo a quello in cui il diritto è sorto”.
In questa prospettiva ricostruttiva, le Sezioni
Unite giungono ad affermare la piena legittimità dell’applicazione del disposto del più volte citato art. 54-bis, in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale ai fini dell’IVA e di riporto del credito d’imposta sorto in
tale annualità nella dichiarazione presentata
per l’anno successivo. In altre parole, è consentita in tale fattispecie l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e l’emissione e la notificazione della relativa cartella di pagamento, trattandosi di un controllo formale da espletare
mediante una procedura meramente automatizzata, suscettibile di prescindere da profili di tipo valutativo e/o estimativo e dalla posizione
sostanziale del contribuente.
Apprezzamenti valutativi
Se questa è la conclusione alla quale è pervenuta la sentenza che qui si commenta, occorre
formulare alcune considerazioni in parte adesive ed in parte (non poco) critiche. La disciplina che ne occupa prevede la legittimità dell’iscrizione a ruolo, senza previa notifica di un
avviso di rettifica, dell’imposta (o della maggiore imposta) che scaturisce da talune irregolarità, tassativamente predeterminate dall’art.
54-bis e non estensibili in via interpretativa,
(8) Vale a dire, nel giudizio di impugnazione della cartella di
pagamento confezionata in seguito al controllo formale automatizzato, di cui all’art. 54-bis.
(9) Ancora nel solco tracciato dalla sentenza resa dalle Sezioni unite n. 1775/2016, cit.
(10) Cfr. A. Comelli, Poteri e atti nell’imposizione tributaria,
12
direttamente desumibili dalle dichiarazioni
presentate, ovvero da altri elementi in possesso
dell’anagrafe tributaria (10). Si tratta di un
controllo generalizzato e relativamente tempestivo (11) che viene espletato senza alcun pregiudizio rispetto all’ordinaria azione accertatrice, la quale può essere esercitata entro il termine stabilito, a pena di decadenza, ai fini della
notificazione dell’atto impositivo (rectius: impoesattivo). La liquidazione dell’imposta dovuta in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti postula che gli Uffici tributari procedano, con l’ausilio di procedure automatizzate,
ad una rettifica non poco limitata, quanto al
suo grado di intensità ed in relazione esclusivamente ai dati ed agli elementi direttamente desumibili alla stregua delle stesse dichiarazioni,
ovvero dei dati e degli elementi in possesso
dell’anagrafe tributaria. In virtù dell’art. 54-bis,
comma 2, del D.P.R. n. 633/1972, agli Uffici
dell’Agenzia delle entrate è consentito quanto
segue:
a) correggere gli errori materiali o di calcolo
commessi nella determinazione del volume
d’affari e delle imposte o nel riporto delle eccedenze di imposta risultanti dalle precedenti dichiarazioni;
b) controllare la rispondenza con la dichiarazione e la tempestività dei versamenti dell’imposta risultante dalla dichiarazione annuale, a
titolo di acconto e di conguaglio.
I dati contabili che scaturiscono da queste operazioni di liquidazione “si considerano, a tutti
gli effetti, come dichiarati dal contribuente”,
ai sensi dell’art. 54-bis, ultimo comma.
Alla luce della ricostruzione dell’istituto così
operata, è condivisibile la conclusione alla quale
è pervenuta la sentenza in rassegna, sotto il profilo della non necessaria emissione di un avviso
impoesattivo di rettifica, nell’ipotesi ivi esaminata. Tuttavia, lo stesso arresto inspiegabilmente lascia sullo sfondo, anzi sembra totalmente
ignorare, il disposto del comma 3 dell’art. 54-bis,
Padova, 2012, pag. 390 ss. e, in particolare, 391 e 392.
(11) La liquidazione dell’imposta dev’essere espletata dall’Ufficio tributario “entro l’inizio del periodo di presentazione
delle dichiarazioni relative all’anno successivo”, ai sensi dell’art. 54-bis, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972.
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laddove al soggetto sottoposto alla liquidazione
dell’imposta dev’essere comunicato l’esito di
questa, se diverso da quello evidenziato nella dichiarazione presentata, nella prospettiva di “evitare la reiterazione di errori e per consentire la
regolarizzazione degli aspetti formali”.
Il contribuente, entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, può fornire all’Ufficio dell’Agenzia delle entrate “i chiarimenti
necessari”, nell’ottica di consentire a quest’ultimo di considerare “eventuali dati o elementi”
non valutati o erroneamente valutati. Solamente in assenza (in tutto o in parte) di persuasivi “chiarimenti” e/o di “dati o elementi”
in precedenza non considerati, oppure erroneamente valutati, l’Ufficio procede all’iscrizione
a ruolo a titolo definitivo, sempre che il soggetto sottoposto alla liquidazione dell’imposta,
prima della formazione del ruolo, non versi la
somma risultante dalla comunicazione, eventualmente ridotta per effetto dei chiarimenti,
dei dati e/o degli elementi forniti all’Ufficio
stesso. Peraltro, l’invio della comunicazione al
contribuente non è meramente facoltativo e la
sua omissione realizza un vizio che inficia l’intera procedura liquidativa ed è suscettibile di
rendere illegittima sia l’iscrizione a ruolo, sia la
relativa cartella di pagamento, ancorché ritualmente notificata e succintamente motivata.
Alla medesima conclusione, peraltro, si giunge
qualora si consideri il disposto dell’art. 6, comma 5, dello Statuto del contribuente, secondo
il quale “prima di procedere alle iscrizioni a
ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione,
l’Amministrazione finanziaria deve invitare il
contribuente, a mezzo del servizio postale o
con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti
necessari o a produrre i documenti mancanti
entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della ri-
chiesta” (12). E aggiunge l’ultimo periodo del
comma stesso che “sono nulli i provvedimenti
emessi in violazione delle disposizioni del presente comma” (13).
(12) La sussistenza (o meno) del credito d’imposta derivante
dall’esercizio del diritto di detrazione dell’IVA, nell’anno in cui
la dichiarazione annuale è stata omessa e riportato nell’anno
successivo, costituisce certamente un aspetto rilevante della
dichiarazione sottoposta a controllo formale, ai sensi dell’art.
54-bis del D.P.R. n. 633/1972.
(13) È esclusa l’applicazione dell’art. 6, comma 5, dello Sta-
tuto “nell’ipotesi di iscrizione a ruolo di tributi per i quali il contribuente non è tenuto ad effettuare il versamento diretto”, ai
sensi del penultimo periodo del medesimo comma 5.
(14) Cfr. S. Zagà, “Le discipline del contraddittorio nei procedimenti di ‘controllo cartolare’ delle dichiarazioni”, in Dir.
prat. trib., 2015, I, pag. 845 ss.
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Profili critici
Queste osservazioni consentono di mettere in
evidenza che l’impostazione dell’arresto in rassegna è corretta sotto il profilo della non obbligatoria emissione, nel caso di specie, dell’atto impoesattivo di rettifica, ma incontra un
preciso limite laddove omette totalmente di
considerare la necessaria interlocuzione tra
l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate ed il contribuente qualora emerga, in esito al controllo
formale, “un risultato diverso rispetto a quello
indicato nella dichiarazione”. In altre parole,
l’arresto in esame presuppone che il processo
di impugnazione della cartella di pagamento
sia l’unica sede nella quale il contribuente possa dimostrare, “sulla base del principio dell’onere della prova e della prossimità alla prova”,
l’avvenuta presentazione della dichiarazione
(asseritamente omessa), ovvero che l’esercizio
del diritto di detrazione dell’imposta è stato
correttamente esercitato.
Più esattamente, tale diritto dev’essere espletato entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto
è sorto e deve riflettere, inoltre, il triplice requisito secondo cui (a) si deve trattare di acquisti espletati da un soggetto passivo d’imposta, (b) che siano assoggettati ad IVA e (c) siano finalizzati all’effettuazione di operazioni imponibili. Questo riscontro, tuttavia, dovrebbe
essere effettuato (almeno in prima battuta) in
sede amministrativa, per effetto dell’invio della
comunicazione al contribuente, in presenza di
“un risultato diverso rispetto a quello indicato
nella dichiarazione”, in virtù dell’art. 54-bis,
comma 3 (14).
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Sezioni Unite
La motivazione della sentenza in rassegna, pertanto, incontra un preciso limite laddove svaluta questa interlocuzione. Essa, al contrario,
dovrebbe essere uno strumento efficace, in
un’ottica amministrativa, al fine di chiarire la
sussistenza degli elementi che, in concreto, dovrebbero consentire al contribuente che non
abbia presentato la dichiarazione annuale relativa all’anno precedente, di riportare il credito
d’imposta nell’anno immediatamente successivo, in presenza dei tre requisiti sostanziali che
legittimano il soggetto passivo ad esercitare il
diritto di detrazione dell’imposta. Questo vaglio in sede amministrativa dovrebbe rappresentare un efficace filtro preprocessuale rispetto a liti che ben potrebbero essere evitate, a
condizione che esso si svolga concretamente in
modo imparziale e senza pregiudizi.
Se il processo che scaturisce dall’impugnazione
dell’iscrizione a ruolo e della relativa cartella
di pagamento, derivante dal controllo formale
automatizzato, fosse considerato solamente come una mera “valvola di sfogo” di una interlo-
14
cuzione tra l’Ufficio accertatore ed il contribuente che non si è celebrata, ovvero si è svolta in modo formalistico (e, in fondo, apparente), “scaricando” sul giudice il riscontro in
contraddittorio tra le parti che dovrebbe svolgersi più correttamente in sede amministrativa,
si tratterebbe di un abuso della strumentazione
processuale.
In tale ipotesi, dovrebbe essere sanzionata la
parte pubblica, con la condanna alla rifusione
delle spese del giudizio da parte del giudice,
sempre che il contribuente abbia già fornito all’Amministrazione finanziaria, in sede di risposta tempestiva alla comunicazione dell’esito
del controllo automatizzato, tutti gli elementi
suscettibili di dimostrare il corretto e tempestivo esercizio del diritto di detrazione dell’imposta ed abbia, successivamente, prodotto in giudizio nuovamente tutta la relativa documentazione, dalla quale si evinca chiaramente la sussistenza dei tre requisiti previsti per l’esercizio
del diritto di detrazione, ut supra evidenziati.
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Sezioni Unite
Consorzi
Ribaltamento dei costi e ricavi
tra consorzi e società consorziate
Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016 (19 aprile 2016), n. 12191 - Pres. Rordorf - Rel. Iacobellis
Consorzi - Prestazioni di servizi - Prestazioni rese da consorzio - Attività commerciale con scopo di lucro Ammissibilità - Differenza tra quanto fatturato dal consorzio al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato al consorzio - Problematica configurabilità quali ricavi non fatturati - Natura dei rapporti tra consorzio
e consorziati tra di essi e nei confronti dei committenti - Rilevanza
La causa consortile non è ostativa allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività commerciale con scopo di lucro. Costituisce questione di merito l’accertamento in ordine
ai rapporti intercorsi tra la società consortile e la consorziata nell’assegnazione dei lavori o servizi
ai singoli consorziati e nella esecuzione delle commesse, che debbano essere oggetto di valutazione caso per caso.
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La finalità mutualistica dei consorzi
non è incompatibile con il fine di lucro
ma il trattamento fiscale dipende dalla situazione di fatto
di Andrea Venegoni (*)
È sempre più frequente la prassi per cui i consorzi o, meglio ancora, le società consortili, non
trasferiscono più integralmente costi e ricavi delle commesse alle società consorziate (il c.d. ribaltamento), ma trattengono una quota di utili. Tale prassi, che a prima vista potrebbe apparire
in contraddizione con la natura mutualistica dei consorzi, fa anche sorgere dubbi sul trattamento fiscale di tale operazione. Il Supremo Collegio esamina le relative questioni che vengono in rilievo in una serie di sentenze “gemelle” complesse, nn. 12190, 12191, 12192, 12193 e 12194
del 2016, altamente tecniche, nelle quali si affermano alcuni principi di diritto importanti, quale
quello della piena compatibilità tra finalità mutualistica dei consorzi e scopo di lucro, evidenziando, nel contempo, la presa di coscienza delle modalità operative dei grandi consorzi di oggi, che
spesso assumono ed eseguono lavori in proprio, senza il contributo delle imprese consorziate.
La necessità del ribaltamento dei costi e ricavi dipende, allora, anche dalle specifiche modalità
operative del caso concreto, che devono essere esaminate dal giudice di merito, ma, ai fini fiscali, non può prescindere dalla qualificazione del rapporto tra consorzio e consorziate. Solo se
lo stesso si configura in termini di mandato senza rappresentanza, la normativa fiscale sembra
necessariamente richiedere il ribaltamento, a meno che la differenza di importi fatturati non co(*) Magistrato dell’ufficio del Massimario e del Ruolo della
Corte di Cassazione
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Giurisprudenza
Sezioni Unite
stituisca la provvigione. Sorge, allora, un problema di onere della prova sulla qualificazione dell’importo non trasferito.
Con una serie di recenti decisioni (1) le Sezioni Unite della Corte di cassazione si sono occupate di un problema dall’ampia portata pratica e dal rilevante significato giuridico in tema
di rapporti tra consorzi, o meglio società consortili, e società consorziate, ed, in particolare,
dei riflessi fiscali della questione.
In estrema sintesi, il problema, derivante da
una serie di accertamenti, è quello del c.d. ribaltamento dei costi e dei ricavi alle singole
società consorziate.
I casi in questione
Nei casi in questione, tutti riconducibili allo
stesso consorzio, l’Agenzia aveva accertato nei
confronti delle singole consorziate maggiori
operazioni imponibili ed omesso versamento
IVA, in conseguenza dei rapporti tra le stesse
ed il consorzio di cui facevano parte. Quest’ultimo, una società consortile per azioni, operava
sulla base di un mandato senza rappresentanza,
in virtù del quale (art. 1705 c.c.) agiva nell’interesse, e non nel nome, dei consorziati, acquisiva commesse da terzi, le quali venivano poi
eseguite o dai singoli consorziati, o dal consorzio stesso (che aveva una sua autonoma struttura), o in alcuni casi con un sistema misto,
cioè in parte dal consorzio e in parte dai consorziati. Secondo l’Agenzia il consorzio, pur
potendo operare come società commerciale,
non avrebbe dovuto avere scopo di lucro, in
virtù della sua stessa natura mutualistica e sulla
base del principio generale desumibile dall’art.
2602 c.c., per cui avrebbe dovuto “ribaltare” i
componenti attivi e passivi delle operazioni sui
singoli consorziati con obbligo a carico di ciascuna di esse di fatturazione dell’intero importo, naturalmente pro-quota.
Invece, l’importo complessivo fatturato dalle
consorziate al consorzio era inferiore a quello
fatturato da quest’ultimo ai terzi committenti,
cosicché la somma che il consorzio trasferiva
al singolo consorziato, e che quest’ultimo fatturava al consorzio (sulla base di quanto riceveva
effettivamente) non rappresentava l’intero ammontare della propria quota della commessa,
ma una cifra inferiore, trattenendo il consorzio
la differenza (e giustificando ciò prevalentemente a titolo di contributo delle consorziate
ai costi generali di gestione del consorzio, ma
senza che, in tal caso, vi fosse alcuna raffigurazione contabile di tale imputazione degli importi).
Sulla base di questi riscontri a carico del consorzio, l’Amministrazione finanziaria procedeva
conseguentemente all’accertamento anche nei
confronti di queste ultime, non solo ai fini delle imposte dirette, ma anche dell’IVA.
Sia la Commissione tributaria provinciale che
la Commissione tributaria regionale ritenevano, però, legittima la modalità operativa sopra
descritta. Per questo, l’Agenzia ricorreva in
Cassazione.
La questione veniva, poi, rimessa alle Sezioni
Unite perché la Sezione tributaria osservava
che, mentre esiste un filone giurisprudenziale
secondo cui il consorzio deve sempre ribaltare
tutti gli utili e i costi sulle consorziate (Cass.,
n. 13293/2011, n. 13294/2011, n. 13295/2011,
n. 14780/2011, n. 20778/2013) in virtù della
sua funzione mutualistica, dall’altro esiste un
orientamento basato sull’autonoma soggettività
giuridica e fiscale del consorzio rispetto alle
imprese consorziate, per cui lo stesso può svolgere attività commerciale e conseguire utili. In
tale visione, lo scopo di lucro è inteso come
economicità della gestione dell’attività svolta
dal consorzio, e non è in contraddizione con lo
scopo di mutualità, ravvisabile in una migliore
razionalizzazione dei costi generali di gestione
che va a beneficio delle singole imprese consorziate (Cass., n. 24014/2013).
(1) Cass., SS.UU., 19 aprile 2016, nn. 12190, 12191, 12192,
12193 e 12194.
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Sezioni Unite
Va detto subito che la conclusione delle
SS.UU., in linea con quelli che sembrano essere gli orientamenti più recenti della dottrina
che si è occupata specificamente di un argomento così settoriale, afferma l’importante
principio di diritto per cui la causa mutualistica non osta allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività con
scopo di lucro, ed appare poi tenere conto della modernità e complessità di oggi nei rapporti
tra consorzi e società consorziate, tale per cui
la disciplina fiscale non può prescindere da
un’analisi di fatto di ciascuna situazione, e,
proprio per questo, la sentenza rinvia nuovamente gli atti al giudice di merito per un esame della questione sotto tale punto di vista.
Per arrivare a ciò, però, le sentenze danno conto di un percorso a tappe progressive che coinvolge necessariamente una serie di questioni
non solo di diritto tributario.
In particolare, le questioni riguardano:
a) se un consorzio possa ritenersi dotato di propria soggettività ai fini prima civilistici e poi
fiscali;
b) se, ammesso ciò, la finalità mutualistica che
lo caratterizza sia compatibile con lo svolgimento di attività aventi scopo di lucro;
c) come si configuri, nella realtà odierna ed in
termini giuridici, il rapporto tra consorzio e società consortili;
d) quali siano le conseguenze dal punto di vista fiscale.
consortile, figura prevista nel nostro ordinamento a partire dalla Legge 10 maggio 1976,
n. 377 (3) che ha introdotto l’art. 2615-ter
c.c. (4).
La Corte di cassazione, in varie decisioni, ha
più volte ha posto in luce l’autonomia della società consortile rispetto alle società consorziate, e la sua specificità anche rispetto ai consorzi non in forma societaria, autonomia che si riflette nell’enunciazione di alcuni principi in
deroga a quelli generali e dalla quale si può
trarre la conseguenza della soggettività non solo ai fini civilistici, ma anche fiscali. Nella
sentenza n. 18113/2003 (5), in particolare, la
Corte si è occupata per la prima volta del problema, ai fini esclusivamente civilistici, della
responsabilità dei soci (che nella specie erano
a loro volta delle società) verso terzi per obbligazioni assunte dalla società consortile, affermando che la forma societaria prevale sulle
norme che disciplinano la responsabilità dei
consorzi, ed in particolare l’art. 2615 c.c., secondo cui per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati rispondono questi ultimi solidalmente col
fondo consortile. In sostanza, ha affermato la
Suprema Corte, quando il consorzio ha forma
di società di capitali, la responsabilità dei soci
non è regolata dall’art. 2615 c.c., ma prevalgono le regole del tipo societario, per cui i soci
non rispondono in proprio delle obbligazioni
della società consortile di capitali.
Soggettività dei consorzi
Finalità mutualistica e scopo di lucro
Sul primo punto, dopo alcuni dubbi, è certamente ormai acquisito il concetto secondo cui
il consorzio abbia propria personalità civilistica, distinta rispetto alle società consorziate (2).
I dubbi sulla soggettività civilistica e fiscale si
sono, a maggior ragione, diradati dopo l’introduzione della possibilità per i consorzi di assumere forma societaria ed integrare una società
Chiarito, dunque, che la società consortile,
specie se di capitali, ha piena soggettività giuridica, si tratta di compiere un passo ulteriore
nell’analisi. Si tratta, cioè, di valutare se una
società consortile sia sempre caratterizzata da
finalità mutualistica e se, allora, questa sia
compatibile con lo scopo di lucro. Se così non
fosse, infatti, i ricavi ed i costi dell’attività,
(2) Per una panoramica anche storica sull’evoluzione della
soggettività anche tributaria dei consorzi esterni si veda M. Interdonato, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, Milano,
2004, pag. 35 ss.
(3) Che ha modificato anche altre disposizioni in materia di
consorzi; in generale si veda A. Frignani, “Le nuove norme sui
consorzi”, in Giur. Comm., 1976, pag. 587.
(4) Art. 2615-ter c.c.
1. Le società previste nei capi III e seguenti del titolo V possono assumere come oggetto sociale gli scopi indicati nell’art.
2602 c.c.
2. In tal caso l’atto costitutivo può stabilire l’obbligo dei soci
di versare contributi in denaro.
(5) Sez. I, n. 18113/2003, RV 568493 e 568494.
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condotta con causa mutualistica, dovrebbero
essere riferiti direttamente alle singole società
consorziate. Ora, la dottrina commerciale maggioritaria ritiene che la causa consortile, intesa
come finalità sociale ed economica del contratto di consorzio, abbia natura mutualistica (6). La mutualità consortile consisterebbe
nello svolgimento o nella disciplina in comune
di una o più fasi delle imprese consorziate allo
scopo di conseguire direttamente nelle economie di queste ultime un vantaggio di natura
economica il quale potrà normalmente tradursi
in maggiori entrate o minori spese per le consorziate. In base a ciò, la società consortile dovrebbe essere caratterizzata dall’assenza di scopo di lucro. Spesso, gli stessi consorzi, anche in
forma di società consortile, si definiscono nei
propri statuti come enti che non perseguono
scopo di lucro. Tuttavia, le analisi dottrinali
specifiche sull’argomento evidenziano che le
società consortili, proprio in quanto società
anche di capitali, e quindi soggetti che svolgono attività commerciale e dotate di propria
personalità giuridica, svolgono sempre più attività complesse, anche avvalendosi di una propria autonoma struttura, e non limitandosi ad
operare tramite le consorziate. Non si limitano,
così, ad aggiudicarsi appalti che poi distribuiscono per l’esecuzione alle imprese consorziate,
ma, in alcuni casi, entrano in contatto con i
terzi anche in proprio ed a tale titolo eseguono
i lavori anche tramite proprio personale; in altri casi ancora ciò avviene anche congiuntamente alle società consorziate. In tale situazione, la dottrina ritiene che il profitto che deriva
da tali attività possa costituire utile della società consortile (7). Questo pone però il problema
della compatibilità con la finalità mutualistica.
Secondo la stessa dottrina, in realtà proprio
dalla legge può ricavarsi la non incompatibilità
di scopo di lucro e finalità consortile; dal complesso delle disposizioni della Legge 21 maggio
1981, n. 240, ed in particolare dagli artt. 1 e 4,
infatti, si deduce che la normativa concede
agevolazioni alle società consortili i cui statuti
escludano la distribuzione di utili, circostanza
da cui dovrebbe dedursi, a contrario, la possibilità per le società consortili in generale di conseguire e distribuire utili (8).
Scopo di lucro e finalità mutualistica nelle società consortili, in particolare di capitali, tendono quindi oggi a non essere più considerati
incompatibili, in particolare nel momento in
cui si fa riferimento al concetto di “lucro oggettivo” (cioè lo svolgimento di un’attività
commerciale secondo criteri economici) anziché a quello di “lucro soggettivo” (cioè il conseguimento di un’utilità economica personale
in capo ai singoli partecipanti alla persona giuridica) (9). Anche su questo argomento la giurisprudenza della Corte viene in soccorso. A
proposito di società cooperative, per esempio,
la Corte ha generalmente riconosciuto la possibilità di fallimento, proprio perché, nonostante
la finalità mutualistica, le stesse possono svolgere attività commerciale, atteso che per la
qualificazione di un’impresa come commerciale
rileva il perseguimento del lucro oggettivo,
cioè il rispetto dei criteri di economicità della
gestione; la società cooperativa, quindi, può
avere scopo di lucro, ed ugualmente la società
consortile (10).
Piuttosto si può porre un problema di proporzione tra le due finalità, nel senso che in una
(6) Si veda M. Interdonato, Il regime fiscale dei consorzi, cit.,
pag. 172, A. Borgioli, “Consorzi e società consortili”, in Cicu Messineo (diretto da), Trattato di diritto civile e commerciale,
Milano, 1985, pag. 95 ss., G. Volpe Putzolu, “I consorzi per il
coordinamento della produzione e dello scambio”, in Galgano
(diretto da), Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico
economico, Padova, 1981, G. Minervini, “La nuova disciplina
dei consorzi”, in Giur. Comm., 1982, I, pag. 873.
(7) Si veda al riguardo A. Propersi - G. Rossi, “I consorzi”, in
I manuali di Guida al Diritto, Gruppo 24 Ore, 21 a edizione,
2010, pag. 55, nonché G. Cottino, Diritto commerciale, Vol. I,
tomo 2, CEDAM, 1987, pag. 63.
(8) A. Propersi - G. Rossi, cit.; A. Borgioli, Consorzi e società
consortili, Milano, 1985, pag. 137; R. Rordorf, “Finalità consortili e società di capitali”, in Impresa, n. 3/1983, pag. 1202, inve-
ce, la interpreta come norma che conferma la deroga nelle società consortili ai principi generali in materia societaria.
(9) Si veda A. Giovannini, “Impresa commerciale e lucro nelle imposte dirette e nell’IVA”, in Riv. dir. trib., n. 5/2012, pag.
467.
(10) Sez. I, n. 6835 del 24 marzo 2014. Si vedano anche
Sez. I, n. 9513 dell’8 settembre 1999, Sez. V, n. 13423 del 9 ottobre 2000, Sez. V, n. 5839 del 16 maggio 1992, e Sez. V, n.
13854/2004, secondo cui a proposito dell’attività di un consorzio “È appena il caso di sottolineare che, ai fini della commercialità dell’attività, è sufficiente che questa sia svolta secondo
intenti di economicità, cioè che sia diretta all’equilibrio gestionale (a nulla rilevando che non si persegua un profitto o comunque un fine di lucro, in sé non essenziali per l’esercizio di
un’attività commerciale)”.
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Sezioni Unite
società consortile lo scopo di lucro non dovrebbe essere prevalente, ma strumentale rispetto a quello mutualistico (11), sebbene poi
nella pratica possa non essere sempre semplice
stabilire quando una finalità prevalga sull’altra;
la questione, peraltro, non è irrilevante perché
se, infatti, lo scopo di lucro fosse prevalente su
quello mutualistico, non si dovrebbe più parlare di società consortile, ma di società lucrativa
ordinaria che persegue, in via secondaria, anche uno scopo mutualistico, con tutte le conseguenze, per esempio, in termini di norme applicabili alla struttura, organizzazione e gestione della società.
Va anche aggiunto che, naturalmente, la questione della compatibilità della forma di società consortile con lo scopo di lucro va considerata in concreto, analizzando il merito dell’attività posta in essere dalla stessa società, dovendosi valutare il tipo di operazioni che la stessa
realizza.
In conclusione, scopo di lucro e finalità mutualistica non sono tra loro incompatibili.
Qualificazione del rapporto
tra consorzio e consorziate
Posto, quindi, che i consorzi e soprattutto le
società consortili sono dotati di una propria
soggettività anche tributaria, che possono svolgere attività commerciale e che scopo mutualistico e fine di lucro non sono necessariamente
in conflitto e possono coesistere soprattutto in
relazione a determinate modalità operative del
consorzio, si tratta di vedere se ulteriori elementi per l’analisi della questione del ribaltamento dei costi e ricavi possano dedursi dalla
tipologia di rapporto che si instaura tra società
consorziate e società consortile, quando la stessa svolge attività esterna ed assume lavori da
terzi.
In passato si è spesso fatto ricorso ad istituti di
diritto privato per inquadrare tale rapporto,
quali il mandato, la commissione o l’agenzia, il
subappalto.
(11) M. Spolidoro, Le società consortili, Milano, 1984, pag.
130.
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La differenza tra gli importi delle fatturazioni,
infatti, in via teorica, si potrebbe giustificare
anche in quanto provvigione nell’ambito di un
rapporto di mandato, oppure semplicemente
inquadrando il rapporto tra consorzio e consorziate come subappalto, per cui la differenza
rappresenterebbe un ricarico applicato dal subappaltante (il consorzio) nell’affidamento dei
lavori ai subappaltatori (le società).
Se il consorzio operasse quale mandatario con
rappresentanza (art. 1704 c.c.), non solo per
conto, ma anche in nome delle società consorziate, in capo alle quali si verificheranno gli effetti del negozio, le imputazioni civilistiche e
fiscali dovrebbero fare capo direttamente alle
imprese consorziate. Il ribaltamento integrale
dei costi e ricavi è quindi, in tal caso, quasi
una naturale conseguenza dello schema giuridico posto in essere.
Tuttavia, il rapporto tra società consorziate e
consorzio è per lo più inquadrato in termini di
mandato senza rappresentanza, di cui all’art.
1705 c.c., in quanto caratterizzato dalla assunzione diretta da parte del mandatario (la società consortile) del vincolo negoziale nei confronti dei terzi, con esclusione di un rapporto
diretto tra terzi e mandanti (le società consorziate). Tale qualificazione, invece, sulla sola
base dei principi civilistici, non è risolutiva per
stabilire se essa comporti necessariamente il ribaltamento dei costi e ricavi tra il consorzio e
le consorziate.
In merito, poi, all’inquadramento del rapporto
tra consorzio e consorziate come subappalto,
va osservato che quando il consorzio trasferisce
l’onere della esecuzione delle commesse sulle
consorziate, assume le stesse già per conto di
queste ultime, mentre non sembra potersi sostenere che in un rapporto di appalto e subappalto l’appaltatore operi per conto delle subappaltatrici. Del resto la giurisprudenza amministrativa in materia di opere pubbliche ha
espressamente statuito che “gli affidamenti da
parte del consorzio ai consorziati non costituiscono in nessun caso subappalto” (12), mentre
(12) Cons. Stato, Sez. VI, n. 8720 del 24 dicembre 2009.
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Sezioni Unite
non è escluso che il consorzio possa procedere
a subappalti a terzi diversi dai consorziati.
Anche un dato normativo soccorre a sostenere
la tesi della non inquadrabilità del rapporto
nella figura del subappalto, in quanto l’art. 141
del D.P.R. n. 554/1999, in materia di esecuzione di opere pubbliche, afferma espressamente
che “l’affidamento dei lavori da parte dei soggetti di cui all’art. 10, comma 1, lett. b) e c) ai
propri consorziati non costituisce subappalto”,
e i soggetti cui fa riferimento la norma richiamata sono esattamente i consorzi fra società
cooperative di produzione e lavoro, i consorzi
tra imprese artigiane, i consorzi stabili costituiti anche in forma di società consortili ai sensi
dell’art. 2615-ter c.c.
La qualificazione giuridica più frequente, anche se non esclusiva, del rapporto tra consorzio
e consorziate è, quindi, quello del mandato
senza rappresentanza. A questo proposito, un
ulteriore elemento di riflessione sulla questione
deve essere introdotto. Occorre, infatti, verificare la disciplina fiscale del mandato senza rappresentanza, poiché le norme fiscali su questo
tipo di negozio determinano degli interrogativi
sulla possibilità di non ribaltare integralmente
i ricavi. In particolare, si opporrebbero al mancato ribaltamento, in qualità di mandatario
senza rappresentanza, proprio le norme fiscali
sull’IVA, ed in particolare l’art. 3, comma 3,
del D.P.R. n. 633/1972 (13) e l’art. 6, paragrafo
4, della VI Direttiva IVA del Consiglio dell’Unione 77/388 che, in sostanza, prevedono la
stessa base imponibile per la tassazione sia della prestazioni tra mandatario e terzo che di
quella tra mandatario e mandante (14). Ai fini
IVA, cioè, nel mandato senza rappresentanza
una differenza patrimoniale tra le due prestazioni non sarebbe ammissibile, a meno che
non si tratti esplicitamente della provvigione
del mandatario (art. 13, comma 2, D.P.R. n.
633/1972), ma in tal caso la circostanza dovrebbe essere manifestamente dichiarata sin
dall’inizio e trovare riscontro nelle scritture
contabili (15).
Peraltro, al di là dell’aspetto della provvigione,
invece, anche all’analisi del problema specifico
della giustificazione di una differenza di importi fatturati tra consorzio e consorziate nell’ambito del mandato non è estranea la modalità
operativa del consorzio, perché la dottrina che
si è occupata specificamente dell’argomento (16) ha evidenziato che la teoria che sostiene che tra consorzio e consorziate deve sempre
realizzarsi l’integrale ribaltamento dei costi e
profitti non tiene conto della diversità di fattispecie con cui può operare il consorzio ed impone il ribaltamento formale ed integrale anche per quelle situazioni, verificatesi anche nel
consorzio, in cui lo stesso opera in proprio, con
propria organizzazione di mezzi e personale.
Anche in tal caso, quindi, la questione va analizzata alla luce dell’attività concreta posta in
essere dal consorzio ed in particolare tenendo
ben distinte situazioni tra loro diverse.
(13) La disciplina sull’IVA prevede all’art. 3, comma 3, del
D.P.R. 633/1972, che “le prestazioni di servizi rese o ricevute
dal mandatario senza rappresentanza sono considerate prestazioni di servizi anche nei rapporti tra il mandante ed il mandatario”. Ai fini IVA, con una fictio iuris, l’operazione viene duplicata e considerata come se fossero due distinte operazioni:
una tra il mandatario e il terzo, l’altra tra il committente ed il
mandatario. L’art. 13, comma 2, lett. b), del D.P.R. n.
633/1972, prevede che nelle operazioni tra il mandante ed il
mandatario la base imponibile venga quantificata nel prezzo
pattuito dal mandatario con il terzo, aumentato o diminuito
dell’eventuale provvigione spettante al mandatario, e l’art. 3,
comma 4, lett. h), del D.P.R. n. 633/1972, esclude che le prestazioni dei mandatari di cui all’art. 13 possano considerarsi
prestazioni di servizi. Per L. Castaldi, “Le operazioni imponibili”, in Tesauro (diretta da), Giurisprudenza sistematica di diritto
tributario - L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, pag. 63,
tale configurazione metterebbe in rilievo l’esatto inquadramento giuridico dei rapporti tra mandante-mandatario e mandata-
rio-terzo sotto il versante sostanziale, al contempo escludendo
l’autonoma rilevanza impositiva alle prestazioni di servizio rese
dal mandatario. Per un commento all’art. 13, D.P.R. 633/1972
si vedano G. Zizzo, “Art. 13 (Commento)”, in Centore (a cura
di), Codice IVA nazionale ed internazionale, 2010, pag. 447; G.
Stancati, “Art. 13 (Commento)”, in Falsitta - Fantozzi - Marongiu - Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie - IVA e
imposte sui trasferimenti, 2011, IV, pag. 173; G. Mandò - D.
Mandò, Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, 2010, pag.
326-327.
(14) Si veda Sez. V, n. 27321/2014, RV 634120, che richiama
anche CGE, 14 luglio 2011, in causa C-464/10, risoluzione Ministero delle Finanze 27 settembre 1999, n. 146.
(15) Nel senso che la provvigione debba essere esclusa dalla base imponibile IVA si veda risoluzione Agenzia delle entrate, Dir. Centrale Normativa e Contenzioso, 30 luglio 2002, n.
250.
(16) M. Interdonato, Il ribaltamento obbligatorio di costi e ricavi, pag. 523 ss.
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Aspetti fiscali del mandato
senza rappresentanza
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Quando i lavori sono svolti integralmente dalle consorziate che ne sostengono anche i costi,
mentre il consorzio svolge solo opera di coordinamento, lo schema del mandato è compatibile con tale situazione, ed in effetti la normativa IVA, scindendo il rapporto in due prestazioni (tra mandante e mandatario e mandatario e
terzo) ed affermando che la base imponibile
per entrambe le prestazioni è data dal prezzo
della prestazione pattuito tra mandatario e terzo, richiede che tra le stesse vi sia equivalenza,
restando a carico del consorzio solo i costi non
imputabili a commessa, da coprire con il sistema dei contributi dei consorziati. In tale situazione, le singole imprese fattureranno al consorzio, ciascuna per la propria parte, il corrispettivo di quanto eseguito fino a raggiungere
il prezzo finale del contratto tra consorzio e
committente, ed il consorzio addebiterà proquota i costi per l’attività di coordinamento e
fatturerà al terzo committente l’importo dell’appalto.
Anche nel caso in cui il consorzio ponga in essere solo una parte del processo produttivo, è
ancora ravvisabile la compatibilità con lo schema del mandato senza rappresentanza.
Ma sempre più frequentemente si verificano
anche casi in cui alcune commesse sono assunte dal consorzio in proprio, senza alcun legame
con l’attività consortile, e le prestazioni sono
eseguite interamente dal consorzio con propri
mezzi e una propria struttura, senza intervento
delle società consorziate.
In tal caso, diventa difficile inquadrare i rapporti tra società consorziate e società consortile
nei termini del mandato e questo, secondo gli
studiosi, dovrebbe condurre a rivalutare la necessità del ribaltamento integrale.
Oltretutto, osserva la dottrina (17), anche il
dato letterale della legge non sembra richiedere necessariamente tale modalità, poiché gli
artt. 2602 ss. c.c. non imporrebbero necessariamente il ribaltamento tecnico integrale di costi
e ricavi, potendo l’assunzione di rischi da parte
delle consorziate, nei casi in cui il consorzio
svolge l’intera attività, avvenire anche con
compensazioni, purché il risultato economico
emerga nelle economie delle consorziate e si
azzeri o riduca nella stessa misura in capo al
consorzio.
Tale affermazione non è in contrasto col principio, più volte richiamato dalla Cassazione
nelle sentenze in cui ha sancito l’obbligo di ribaltamento, secondo cui la società consortile
per sua natura e funzione, oltre che per scopo,
non ha un proprio interesse economico né produce un reddito proprio. Resta, infatti, incontestabile che l’attività principale del consorzio
(denominata così anche l’ipotesi di società
consortile) non può che essere mutualistica,
escludendo con ciò il perseguimento di un interesse economico/lucrativo in via principale.
Tuttavia, per la dottrina, tale interesse può essere perseguito in via marginale e secondaria.
In questi casi, in cui lo scopo mutualistico è
fortemente attenuato se non assente, la dottrina sostiene che il ribaltamento formale ed integrale dei costi e ricavi sarebbe veramente poco giustificato e oltretutto la sua assenza non
genera di per se’ sola un salto di imposta (18).
Certo, altra dottrina ha messo in luce che, in
relazione all’ipotesi di appalto eseguito interamente dal consorzio, si potrebbero sollevare
dubbi sulla reale attività mutualistica del consorzio, ed anche ipotizzare “una sorta di abuso” (19) dell’utilizzo di tale strumento. In tali
casi, infatti, il consorzio non svolgerebbe un
servizio per conto delle consorziate, ma porrebbe in essere un’attività completa, della quale
sostiene costi e spese, e ciò determinerebbe
l’imputazione in capo solo al consorzio anziché
alle consorziate del risultato economico di
quella specifica attività svolta, concetto che
però, secondo tale dottrina, non appare in linea con il principio di cui all’art. 2615 c.c. secondo cui il rischio di impresa deve comunque
gravare anche sulle società consorziate. Inoltre,
sempre la dottrina, ha messo in luce come non
esista una norma che imponga ai consorzi di
chiudere in pareggio i loro bilanci, ma il pareg-
(17) M. Interdonato, Il ribaltamento obbligatorio, cit., pag.
532.
(18) M. Interdonato, Il ribaltamento obbligatorio, cit., pag.
533.
(19) P. Ladisa, Il regime tributario, cit., pag. 566.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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gio di bilancio è la conclusione logica che deriva dallo scopo mutualistico e dal fatto che il
consorzio opera per conto dei consorziati. Un
eventuale utile maturato in capo al consorzio
andrebbe a scapito delle consorziate e, per tale
dottrina, non sarebbe confacente con la finalità mutualistica del consorzio (20).
Peraltro, si è già evidenziato in precedenza come anche la giurisprudenza della Corte abbia
ritenuto il principio di responsabilità solidale
dei soci, di cui all’art. 2615 c.c., non applicabile interamente alle società consortili, per cui
tale norma non deve necessariamente essere
presa come riferimento per sostenere che, poiché la responsabilità grava sui soci, ad essi devono anche essere imputati integralmente costi
e ricavi del consorzio, potendo i primi essere
coperti anche da utilità prodotte autonomamente dal consorzio in maniera marginale.
Per l’attività marginale che il consorzio svolge
in proprio, svicolata dalla finalità mutualistica,
quindi, secondo la dottrina non può neppure
più parlarsi di uno svolgimento di mandato e,
conseguentemente, neppure di provvigione (21). Nel caso di attività svolte marginalmente o occasionalmente dal consorzio in
autonomia, senza l’impiego delle consorziate,
pertanto, ci si troverebbe al di fuori dell’ambito di operatività degli art. 3 e 13 del D.P.R. n.
633/1972, venendo il servizio reso autonomamente dal consorzio (22).
Questo dovrebbe comportare il superamento
del principio dell’equivalenza tra la prestazione
tra mandante e mandatario e quella tra mandatario e terzo, e quindi le norme sul mandato
non costituirebbero più un ostacolo all’esistenza di una differenza negli importi fatturati,
semplicemente perché per tale parte di attività
non si è in presenza di un rapporto di mandato (23).
Peraltro, tutto ciò potrebbe spiegare la differenza di importi fatturati sul complesso delle
operazioni poste in essere nel corso di una annualità, ma non sulla singola commessa assunta per conto delle consorziate. Per queste, allora, la differenza potrebbe essere ammessa, nell’ambito del mandato, unicamente a titolo di
provvigione, quando ne ricorrano i presupposti
e a condizione che la stessa sia espressamente
evidenziata (24).
In realtà, però, la dottrina che ha analizzato
specificamente la questione tende sempre più a
porre in luce la complessità del rapporto suddetto e la difficile inquadrabilità del rapporto
tra società consorziate e consorzio nel mandato, ritenendo che il rapporto debba essere inquadrato autonomamente nella figura che è
stata definita (25) “vincolo consortile”, analogo a quello societario; va notato al riguardo
che esistono precedenti giurisprudenziali secondo cui mentre l’associazione temporanea di
imprese si caratterizza per il rapporto di mandato, la società consortile si caratterizza per
l’applicazione delle norme codicistiche consortili e societarie che rafforzano ancora di più il
rapporto associativo che il consorzio di per sé
comporta, cosicché l’adozione all’interno del
fenomeno consortile del modello organizzativo
societario comporta necessariamente una scelta
sul piano strutturale tra gli istituti di riferimento che sono il contratto di mandato e quello di
società, le cui discipline non sono promiscuamente applicabili. Conseguentemente, se anche al consorzio nella sua forma più semplice è
possibile applicare il modello giuridico del
mandato, al pari dell’associazione temporanea
di imprese, nel momento in cui contratta con i
terzi quel modello si appalesa impraticabile a
fronte della formula societaria prescelta, che
con il mandato non ha alcuna affinità (26).
(20) P. Ladisa, Il regime tributario, cit., pag. 567.
(21) Si veda risoluzione Ministero delle Finanze 30 aprile
1998, n. 31.
(22) Peraltro Sez. V, n. 26480 del 17 dicembre 2014, ha ritenuto necessario il ribaltamento integrale anche rispetto a società del consorzio che nell’anno in questione non avevano
partecipato all’esecuzione di lavori, e quindi per profitti e costi
per lavori estranei alla società consorziata.
(23) Si veda anche S. Cerato - G. Popolizio, “La disciplina
IVA del mandato senza rappresentanza”, in il fisco, n. 43/2007,
pag. 6237.
(24) G. Cascardo, “Il ribaltamento di costi e ricavi tra consorzio e consorziate”, in Cooperative e consorzi, n. 12/2011, pag.
13.
(25) M. Interdonato, Il regime fiscale dei consorzi, cit., pag.
197.
(26) Sez. I, n. 77/2001.
22
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Giurisprudenza
Sezioni Unite
Considerazioni conclusive
In conclusione, in linea con quanto, in sintesi,
affermano le stesse Sezioni Unite, le varie modalità operative del consorzio dovrebbero essere tenute distinte.
Per le operazioni che il consorzio effettua in
autonomia, per le quali la dottrina ipotizza che
il ribaltamento non sia necessario, si deve ritenere che ci si trovi al di fuori di operazioni attinenti al rapporto consorzio\società consorziata.
Per i casi in cui invece il consorzio opera per
conto delle consorziate, e secondo lo schema
più comune del mandato senza rappresentanza,
al di là del principio della equivalenza delle
prestazioni di cui all’art. 3, D.P.R. n. 633/1972,
occorre anche tenere presenti le regole complessive sulla liquidazione e assolvimento dell’imposta per valutare se il meccanismo di
mancato ribaltamento non produca qualche risultato diverso da quello che si otterrebbe, invece, con il meccanismo di ribaltamento integrale; si pensi, per esempio, alle regole sulla detraibilità dell’imposta, sulle quali possono esistere delle differenze soggettive tra mandante e
mandatario, oppure oggettive.
Come è stato messo in luce dalla dottrina, infatti, è ben possibile che il mancato ribaltamento permetta di conseguire un risparmio fiscale indebito (27). Si porta ad esempio il caso
in cui il mancato ribaltamento di costi generali
coperti attraverso il parziale ribaltamento di
(27) M. Interdonato, Il ribaltamento obbligatorio di costi e ricavi, cit., pag. 541.
(28) G. Rebecca - E. Zanetti, “Mandato senza rappresentanza: aspetti contabili e fiscali”, in Lex24, n. 10, settembre 2003,
pag. 962, circolare Agenzia delle entrate, 18 giugno 2001, n.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
corrispettivi nell’ambito dell’attività mutualistica comporti che il consorzio, anziché le consorziate, detragga l’IVA sugli acquisti afferenti
tale attività. Se le consorziate fossero soggette
a limiti al diritto alla detrazione, il mancato ribaltamento potrebbe, in assenza di ragioni economiche, costituire un aggiramento degli obblighi di fatturazione e delle norme sul diritto
alla detrazione con vantaggio in termini di riduzione del carico tributario. Questo aspetto è
stato sviluppato nelle analisi anche con specifico riferimento al rapporto di mandato (28), ritenendosi che le regole sulla indetraibilità oggettiva dell’IVA sugli acquisti, nei casi di cui
all’art. 19-bis1 del D.P.R. n. 633/1972, all’interno del rapporto di mandato senza rappresentanza non si applichino al mandatario, per cui
sull’acquisto di un bene, mentre il mandatario
potrebbe portare in detrazione tutta l’IVA, lo
stesso potrebbe non avvenire per il mandante
(la società consorziata). Con il meccanismo in
questione quindi, si è visto come la dottrina
ipotizzi che sulla base del complesso delle regole per la liquidazione dell’imposta vi possono
essere situazioni potenziali in cui l’applicazione
del meccanismo posto in essere nella specie
potrebbe portare a risultati diversi da quelli
che si produrrebbero col meccanismo del ribaltamento integrale.
Questi elementi dovranno ora essere rivalutati
dal giudice del merito sulla base della situazione concreta dei casi oggetto di analisi.
58 (risposta 5.2); risoluzione Agenzia delle entrate, 4 giugno
2002, n. 168; risoluzione Agenzia delle entrate, 28 gennaio
2005, n. 10, in materia di indetraibilità dell’IVA sull’acquisto
dei servizi di telefonia mobile.
23
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Rassegna
Sezioni Unite
Rassegna
di Cesare Glendi
PROCESSO TRIBUTARIO
Richiamando i propri precedenti sul punto (Cass.,
SS.UU., n. 14506, retro, n. 10/2013, pag. 761; Id.,
n. 15593/2014, retro, n. 2/2015, pag. 109; Id., n.
23835/2015, retro, n. 2/2016, pag. 127), le Sezioni
Unite hanno ritenuto sussistere la giurisdizione
dell’a.g.o. a fronte di una domanda di risarcimento
danni proposta da un contribuente nei confronti di
Equitalia per illegittima iscrizione d’ipoteca a suo
carico, basata, da una parte, sull’avvenuta estinzione della pretesa impositiva (a seguito, in varia
guisa, di già effettuati pagamenti, intervenuto condono, e giudicato tributario anteriormente formatosi) e sull’insussistenza, dall’altra parte, dei presupposti cautelari e sulla “sproporzione della misura cautelare adottata”, anche “in relazione al suo
stato patrimoniale e reddituale”, fondando la decisione, sia sull’essere stata la controversia proposta
anteriormente “alla riforma introdotta dall’art. 35,
comma 26-quinquies, del D.L. 4 luglio 2006, n.
223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4
agosto 2006, n. 248, che ha ampliato la categoria
degli atti impugnabili dinanzi alle Commissioni tributarie, ad esse devolvendo espressamente anche
le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione
del provvedimento d’iscrizione di ipoteca sugli immobili, al quale l’Amministrazione finanziaria può
ricorrere in sede di riscossione delle imposte sui
redditi, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
602, art. 77”, e sia perché, in generale, “qualora la
domanda di risarcimento dei danni sia basata su
comportamenti illeciti tenuti dall’Amministrazione
finanziaria dello Stato o di altri enti impositori, la
controversia, avendo ad oggetto una posizione sostanziale di diritto soggettivo del tutto indipendente dal rapporto tributario, è devoluta alla cognizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria, non potendo
sussumersi in una delle fattispecie tipizzate che, ai
sensi del D.Lgs. n. 546/1992, art. 2, rientrano nella
giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie; infatti, anche nel campo tributario, l’attività
della P.A. deve svolgersi nei limiti posti, non solo
dalla legge, ma anche dalla norma primaria del neminem laedere, per cui è consentito al giudice ordinario - al quale è pur sempre vietato stabilire se
il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato - accertare se vi sia stato, da
parte dell’Amministrazione, un comportamento
colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un
diritto soggettivo”, così come specificamente statuito dalle stesse Sezioni Unite con la pronuncia n.
15/2007, espressamente ricordata anche nei precedenti ultimamente citati, con l’ulteriore precisazione che, nel caso “invalido è il rigetto della domanda fondato sulla reputata carenza di giurisdizione del giudice ordinario, per essere l’oggetto
immediato di quella una pretesa risarcitoria e degradando la pretesa tributaria a mero presupposto
della prima, resa oggetto di una questione incidentale di natura pregiudiziale, sulla quale pienamente
sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in ragione dell’oggetto della domanda principale e del
tempo in cui essa è stata proposta (anteriore alla
novella del 2006, dopo la quale, invece, ogni controversia è devoluta al giudice tributario)”.
24
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
GIURISDIZIONE
Cass., SS.UU., Sent. 31 maggio 2016 (3 maggio
2016), n. 11379 - Pres. Rordorf - Rel. De Stefano
Domanda risarcitoria per illecita iscrizione d’ipoteca
- Fattispecie anteriore all’entrata in vigore del D.L.
n. 223/2006 - Giurisdizione del giudice ordinario Sussistenza
In tema di riscossione tributaria, la domanda risarcitoria proposta verso il concessionario per illecita iscrizione d’ipoteca esattoriale in fattispecie anteriore all’entrata in vigore dell’art. 35,
comma 26-quinquies, del D.L. n. 223/2006, non
può essere respinta dal giudice ordinario a ragione della devoluzione al giudice tributario della
pretesa a cautela della quale l’ipoteca è stata
iscritta, poiché tale pretesa è solo il presupposto
di legittimità della condotta dell’agente della riscossione e riguarda una questione pregiudiziale
conoscibile dal giudice ordinario, cui è devoluta
la domanda principale risarcitoria.
NOTA
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Rassegna
Sezioni Unite
IMPUGNAZIONI
Cass., SS.UU., Sent. 31 maggio 2016 (24 maggio 2016), n. 11383 - Pres. Canzio - Rel. Giusti
Procedimento di cassazione - Comunicazione da
parte del cancelliere dei documenti tramite deposito
in cancelleria - Trasmissione via pec e fax non andata a buon fine - Necessità
Nel procedimento di cassazione, ai sensi degli
artt. 136 e 366 c.p.c., in virtù di un’interpretazione orientata all’effettività del diritto di difesa e
alla ragionevole durata del processo, il cancelliere può eseguire la comunicazione dei provvedimenti tramite deposito in cancelleria (sempre
che il difensore non abbia eletto domicilio in
Roma) solo se non è andata a buon fine la trasmissione a mezzo posta elettronica certificata,
né quella via fax.
Le SS.UU., dopo aver esposto le contrastanti prese
di posizione assunte in precedenti pronunce da parte delle Sezioni semplici, hanno ritenuto affetta da
nullità la prima comunicazione (mediante deposito
in cancelleria), giudicando quindi tempestivamente
effettuata la rinnovazione della notifica del ricorso
entro il termine prestabilito a decorrere dalla seconda comunicazione (via telefax), sulla base di una
compiuta esegesi dei dati normativi vigenti, che, alla
stregua degli artt. 366 e 136 c.p.c. nonché dei principi costituzionali, vólti a soddisfare, non solo esigenze di semplificazione e di risparmio per l’Ufficio,
ma anche impellenti necessità di migliori garanzie
d’informazione per le parti, impongono di “ricorrere,
prima alla posta elettronica certificata, poi al telefax,
e, infine, alla rimessione del biglietto all’Ufficiale giudiziario per la notifica, la quale avverrà, ove il ricorrente o il controricorrente non abbia eletto domicilio
in Roma, con il deposito presso la cancelleria”.
GIURISDIZIONE
NOTA
Benché non riguardi specificamente la materia tributaria, questa pronuncia merita di essere segnalata per aver fornito un importante chiarimento nomofilattico in tema di comunicazioni di atti da parte
della Cancelleria della Corte di cassazione, in generale, e quindi anche per gli atti che attengono ai
giudizi di legittimità su sentenze tributarie, alla stregua della normativa vigente ratione temporis (prima,
cioè, della disciplina introdotta con l’art. 16 del D.L.
n. 179/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 221/2012, in vigore dal 15 febbraio 2016, che,
tanto per le notificazioni, quanto per le comunicazioni, ha decretato l’obbligatorietà della trasmissione via pec, prevedendo solo per i casi d’impossibilità di siffatto strumento, l’impiego degli artt. 136, 3°
comma, e 137 ss. c.p.c., a seconda che l’impossibile accesso alla posta elettronica sia dovuto a cause
imputabili o non imputabili al destinatario).
La questione, oggetto di contrastanti decisioni a livello di Sezioni semplici, riguardava specificamente l’inammissibilità o meno della rinnovazione della
notifica del ricorso, effettuata nel termine fissato
con ordinanza interlocutoria, a seconda che detto
termine dovesse ritenersi decorrere dalla comunicazione dell’ordinanza mediante deposito presso
la Cancelleria della Suprema Corte (secondo quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 366
e 136 c.p.c.) ovvero dalla sua comunicazione successivamente effettuata a mezzo telefax da parte
della stessa cancelleria.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
Cass., SS.UU., Ord. 8 giugno 2016 (24 maggio
2016), n. 11709 - Pres. Canzio - Rel. Petitti
Opposizione avverso ordinanza-ingiunzione dell’Agenzia delle entrate a carico di privato conferente
incarico non autorizzato a dipendente pubblico Giurisdizione del giudice ordinario - Sussistenza
L’opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione
emessa dall’Agenzia delle entrate a carico del privato che abbia conferito un incarico retribuito a
un dipendente pubblico, in violazione dell’art. 53
del D.Lgs. n. 165/2001, rientra nella giurisdizione
del giudice ordinario e non in quella del giudice
tributario, poiché la sanzione, anche se irrogata
da un Ufficio finanziario, inerisce al rapporto di
pubblico impiego e non ad un rapporto tributario.
NOTA
A seguito di ordinanza-ingiunzione emessa per sanzioni conseguenti all’accertato conferimento di incarico retribuito a pubblico dipendente senza la previa
autorizzazione prescritta dall’art. 53, comma 9, del
D.Lgs. n. 156/2001, nel testo vigente ratione temporis, il destinatario ricorreva al giudice di pace, che si
riteneva giurisdizionalmente incompetente. La Commissione tributaria, presso la quale la causa veniva
tempestivamente riassunta, ritenendosi a sua volta
non munita di giurisdizione, ex art. 59 del D.Lgs. n.
69/2009, denunziava il conflitto negativo di giurisdizione, che le SS.UU., con l’ordinanza annotata, han-
25
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Rassegna
Sezioni Unite
Il collegamento con la materia tributaria è meramente occasionale.
Ma le importanti enunciazioni fatte circa la natura
del giudizio di rinvio dopo la pronuncia della Suprema Corte di cassazione, anche per quanto attiene alla disciplina intertemporale, debbono tenersi in conto pure per il processo tributario.
Il caso di specie riguardava l’opposizione ad un atto
di precetto per il recupero dell’IVA, oltre che di altri
accessori, dovuti a seguito di sentenza di condanna
con liquidazione delle relative spese giudiziali.
Avverso la decisione dell’adito giudice di pace era
stato proposto ricorso per cassazione, a cui aveva
fatto poi seguito il giudizio di rinvio davanti ad altro giudice di pace, nel corso del quale era intervenuto (in data 4 luglio 2009, ex artt. 49, comma 2 e
58, comma 2, della legge n. 69/2009) un nuovo regime d’impugnazione (appello), rispetto a quello
(cassazione) precedentemente in vigore dal 1°
marzo 2006 (ex lege n. 52/2006), per le sentenze in
primo grado relative a siffatte opposizioni. Contro
la sentenza emessa dal giudice di rinvio, la parte
soccombente aveva proposto ulteriore ricorso per
cassazione, ma l’altra parte, controricorrente, aveva eccepito l’inammissibilità dell’impugnazione
(assumendo che, in base alla normativa sopravvenuta, avrebbe dovuto essere, invece, proposto appello). Rimessa la questione alle SS.UU., queste
ultime, con ampia ed articolata motivazione, hanno tuttavia ritenuto perfettamente ammissibile il ricorso per cassazione. A questa conclusione la Corte è pervenuta addentrandosi in un un’approfondita disamina del giudizio di rinvio, nelle sue diverse
specie, di rinvio restitutorio (ex art. 383, comma 3,
c.p.c.) o prosecutorio (ex art. 384, 2° comma,
c.p.c.), affermando che, in quest’ultimo tipo di giudizio di rinvio (denominato anche rinvio “proprio”),
la fase del processo non può essere equiparata a
quella svoltasi in primo grado, stante l’inframmettenza del principio di diritto emesso dalla Suprema
Corte, che instaura “una sorta di dialogo esclusivo” tra la stessa Suprema Corte e il giudice del rinvio, così che detta fase non è configurabile “come
un grado del giudizio”, tanto meno come un nuovo primo grado, costituendo, per l’appunto, solo
“una fase (rescissoria) del giudizio di cassazione”,
così da rendere inapplicabile, nel caso, l’intervenuta modificazione normativa circa il regime d’impugnazione (appello anziché ricorso per cassazione)
delle sentenze pronunciate nei giudizi di opposizione all’esecuzione a precetto, rendendo così necessitato e pienamente giustificato il solo rimedio
esperibile mediante accesso per cassazione avverso la sentenza del giudice di rinvio.
26
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
no de plano risolto, assegnando la causa al giudice
ordinario, in sintonia con quanto statuito con l’ivi richiamata ordinanza n. 3039/2013, retro, n. 7/2013,
pag. 570, e con la parimenti richiamata ordinanza n.
14302/2013, retro, n. 10/2013, pag. 760, sulla base
di quanto statuito dalla Corte costituzionale, con la
sentenza n. 130/2008, che ha dichiarato illegittimo
l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, così come sostituito
dall’art. 12, comma 2, della legge n. 448/2001, nella
parte in cui aveva attribuito alla giurisdizione tributaria le controversie relative a tutte le sanzioni irrogate
da Uffici finanziari, quand’anche quando correlate
alla violazione di disposizioni non aventi natura fiscale, facendo a tal fine specificamente rilevare che, nel
caso, se pur dal citato art. 53, nei commi successivi
al comma 9, “si evince che la disciplina in questione
è finalizzata anche al controllo dei compensi percepiti dai pubblici dipendenti ai fini dell’assoggettamento degli stessi a imposizione, ciò non di meno la
previsione dell’obbligo dell’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza per il conferimento di un
incarico retribuito ad un pubblico dipendente inerisce strettamente allo svolgimento del rapporto di
pubblico impiego e non è certamente riconducibile
ad un rapporto tributario”.
IMPUGNAZIONI
Cass., SS.UU., Sent. 9 giugno 2016 (5 aprile
2016), n. 11844 - Pres. Rordorf - Rel. Ambrosio
Cassazione con rinvio al giudice di primo ed unico
grado - Giudizio “prosecutorio” - Sentenza - Ricorribilità per cassazione - Necessità - Modifica, nelle
more, del regime di impugnazione della decisione
cassata - Irrilevanza
Nell’ipotesi di cassazione con rinvio innanzi al
giudice di primo ed unico grado, la sentenza del
giudice di rinvio (salvo il caso di rinvio cd. restitutorio) è impugnabile in via ordinaria solo con
ricorso per cassazione, senza che rilevi l’intervenuta modifica, sopravvenuta nelle more, del
regime di impugnabilità della decisione cassata,
atteso che il giudizio di rinvio conseguente a
cassazione, pur dotato di autonomia, non dà
luogo ad un nuovo procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario.
NOTA
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Sezioni Unite
IMPUGNAZIONI
Quanto deciso in questa importante, e ben motivata, decisione vale tal quale anche per il processo
tributario, pur essendo stato enunciato nell’ambito
di una causa civile davanti al giudice ordinario.
L’istituto della consunzione (o consumazione) del
potere d’impugnazione, espresso dall’art. 358
c.p.c., al quale fa propriamente riferimento la decisione in commento, coincide, infatti, con quello
previsto dall’art. 60 del D.Lgs. n. 546/1992 (mancando qui soltanto il richiamo all’improcedibilità
del gravame, in quanto non prevista per l’appello
delle sentenze delle Commissioni tributarie).
La questione che si pone in utroque è dunque questa.
Di fronte ad un atto d’appello inammissibile, prima
che sia dichiarato tale, è possibile riproporlo
emendato dal vizio dell’appello precedentemente
proposto. Ma entro quale termine? Entro il termine
“breve”, decorrente dalla notifica del primo appello, o anche dopo, nel maggior termine “lungo”,
eventualmente disponibile?
Le SS.UU. confermano la propria giurisprudenza
(sent. n. 21864/2007), ancorché ripetutamente
osteggiata dalla dottrina, ribadendo che la rinnovazione dell’appello inammissibile dev’essere comunque fatta entro il termine breve decorrente dalla notifica dell’appello originariamente proposto. Vengono passate diligentemente in rassegna e accuratamente criticate le opinioni dottrinali contrarie, richiamandosi, a livello esegetico, le argomentazioni a sostegno tratte dall’art. 285 (sulla c.d. efficacia bilaterale della notifica della sentenza) e dall’art. 326, 2°
comma, c.p.c. (che, per il caso d’impugnazione con-
tro una parte scindibile della sentenza prevede per
l’impugnativa anche delle altre parti il rispetto dello
stesso termine), ma, più in generale, precisandosi
(con novità di rilievo) la ragione giustificativa dell’interpretazione seguita (da qualificarsi come “estensiva”, più che “analogica”), circa la portata dell’art.
326, 1° comma, c.p.c. (nel senso di equiparare la
notifica dell’appello inammissibile alla notifica delle
sentenze alla controparte presso il suo difensore),
non tanto nella conoscenza, comunque avvenuta,
della sentenza, quanto nell’“impulso acceleratorio,
impresso al processo con la proposizione del gravame”, ritenuto (ma non ancora dichiarato) inammissibile, che “innesca una dinamica processuale che fa
trascendere il processo in un’orbita impugnatoria,
dalla quale non può regredire per rientrare in una fase di stasi meditativa”, essendo già stata espressa,
con la proposizione del gravame antecedente, una
“volontà di accelerare la fine del processo, scandendo il passaggio irretrattabile alla fase dell’impugnazione, con la conseguenza che la ripetizione dell’atto, ammessa nei limiti di cui all’art. 358 c.p.c., non
può che essere temporalmente limitata entro il termine breve”.
In tale specifico rilievo è stata anche trovata la ragione dell’altrimenti inspiegabile assunto della viceversa ribadita irrilevanza, ai fini della decorrenza
del termine breve, della notifica della sentenza
quale titolo esecutivo, dato che, per l’appunto, in
quest’ultimo caso, si ha certamente conoscenza
della sentenza, ma difetta l’ingresso in ambito impugnatorio, che si ha invece con la notifica dell’appello inammissibile (che, per l’appunto, ripetesi,
secondo le SS.UU., costituirebbe la specifica ratio
giustificativa del contenimento della rinnovazione
dell’appello inammissibile entro il termine breve
decorrente dalla notifica dell’appello stesso, escludendo ogni possibilità di rinnovazione dopo tale
scadenza, non ostante l’eventuale maggior termine lungo astrattamente ancora praticabile).
Nell’ultima parte della decisione, a chiusura del
contesto motivazionale, le SS.UU. segnalano la
conformità del proprio, così rivisitato, ma nuovamente ribadito, insegnamento nomofilattico ai principi costituzionali (della parità fra le parti, della ragionevole durata del processo e della certezza del
diritto), osservando, infine, come la legge processuale, per quanto possibile, debba essere “interpretata con rassicurante costanza, senza scarti innovativi che non siano giustificati da mutamenti del quadro normativo o da evidenze risolutive”, tenuto segnatamente conto dell’esigenza dell’affidamento e
del dimensionamento “della coesistenza, necessa-
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
27
Cass., SS.UU., Sent. 13 giugno 2016 (12 gennaio 2016), n. 12084 - Pres. Rordorf - Rel. D’Ascola
Appello - Notifica di un secondo appello anteriore
alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità
del primo - Osservanza del termine breve decorrente dal primo appello - Necessità
La notifica dell’appello dimostra la conoscenza
legale della sentenza da parte dell’appellante,
sicché la notifica da parte sua di un nuovo appello anteriore alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo deve risultare
tempestiva in relazione al termine breve decorrente dalla data di notifica del primo appello.
NOTA
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Sezioni Unite
In questo gruppo di cinque sentenze, tutte riguardanti alcuni dei partecipanti all’ormai celebre “Consorzio Manital”, le SS.UU. della Suprema Corte, di
fronte al contrasto manifestatosi all’interno della
Sezione tributaria, in specie fra la sentenza n.
13293/2011, favorevole all’Agenzia delle Entrate, e
la sentenza n. 24014/2013, favorevole al contribuente, hanno riesaminato a fondo la complessa
problematica della natura giuridica dei Consorzi a
rilevanza esterna, dei rapporti tra Consorzio, consorziati e terzi committenti, e del ribaltamento o
meno, totale o parziale, dei costi del Consorzio sui
consorziati, tanto sotto il profilo civilistico, quanto,
e soprattutto, ai fini tributari, specie in tema di IVA
[tenuto conto di quanto disposto dall’art. 3, comma
3, e dall’art. 13, comma 2, lett. b), del D.P.R. n.
633/1972, nonché dei principi eurounitari, ed in particolare di quanto disposto dall’art. 17, par. 2, della
VI direttiva circa la deducibilità dei costi per la determinazione del tributo], giungendo, in linea di
massima, a queste principali conclusioni: a) che il fine e l’attività di lucro non sono incompatibili con la
natura giuridica e la funzione mutualistica dei consorzi; b) che i rapporti tra consorziati e consorzio
possono essere inquadrati in termini di mandato
senza rappresentanza, ma possono anche atteggiarsi in forme tutt’affatto diverse, come quelle della vera e propria rappresentanza, ovvero del subappalto; c) che, di conseguenza, anche ai fini del riconoscimento totale o parziale del ribaltamento dei
costi occorre scendere nel concreto di ogni singolo
caso, con l’esame delle modalità d’esecuzione dei
lavori, delle fatturazioni effettuate, delle eventuali
differenze tra fatturazioni effettuate dal Consorzio e
dai consorziati, e così via.
Si fa presente che alcune di queste decisioni hanno già formato oggetto di approfonditi commenti.
Così, in particolare, la sentenza n. 12191/2016 è
stata pubblicata in Le Società, n. 11/2016, pag.
1193 ss., con nota di M.S. Spolidoro, “Società
consortili: disciplina, mutualità spuria e ribaltamento dei costi e dei ricavi”, e in questo stesso
numero della Rivista, pag. 15, con il commento di
A. Venegoni, “La finalità mutualistica dei consorzi
non è incompatibile con il fine di lucro, ma il trattamento fiscale dipende dalla situazione di fatto”. A
questi commenti si rinvia per ogni più approfondita trattazione. In via di complemento informativo
qui preme ancora far notare come le tre prime
sentenze (nn. 12190 - 12191 - 12192), di fronte a
pronunce del giudice del merito in cui il rapporto
tra Consorzio e società veniva incontestabilmente
inquadrato in fatto nell’ambito di un mandato senza rappresentanza, mentre le decisioni in iure erano state nel senso dell’esclusione in radice di qualsiasi ribaltamento dei costi, ai fini IVA, si siano
concluse con l’accoglimento dei ricorsi per cassazione proposti dall’Agenzia delle Entrate e nella
cassazione con rinvio delle decisioni di merito,
mentre, nelle altre due sentenze (nn. 12193 –
12194), le SS.UU. hanno dichiarato inammissibili i
ricorsi proposti dall’Agenzia delle Entrate nei confronti delle pronunce dei giudici di merito, in quanto in esse era emerso che il risultato dei calcoli induttivi fatti dall’organo investigativo ai fini delle imposte dirette, “riferito a una massa indistinta di
operazioni, non permette la quantificazione delle
operazioni in odore di evasione attribuibile ai singoli partecipanti al Consorzio per cui l’assegnazione di maggiori ricavi”, ad un singolo consorziato,
“in base alla quota consortile, desunti dalla verifica
fiscale alla Manital, non presenta alcun requisito di
certezza", e, “d’altro canto, l’Ufficio non ha fornito,
28
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
ria e possibile, con i fattori evolutivi del sistema processuale”, attraverso il sapiente ed oculato utilizzo
“della dottrina del c.d. prospective overruling”.
CONSORZI
PRESTAZIONI DI SERVIZI
Cass., SS.UU., Sentt. 14 giugno 2016 (19 aprile
2016), nn. 12190, 12191, 12192, 12193 e
12194 - Pres. Rordorf - Rel. Iacobellis
Prestazioni rese da consorzio - Attività commerciale
con scopo di lucro - Ammissibilità - Differenza tra
quanto fatturato dal consorzio al terzo committente
e quanto fatturato dal consorziato al consorzio - Problematica configurabilità quali ricavi non fatturati Natura dei rapporti tra consorzio e consorziati tra di
essi e nei confronti dei committenti - Rilevanza
La causa consortile non è ostativa allo svolgimento, da parte della società consortile, di una
distinta attività commerciale con scopo di lucro. Costituisce questione di merito l’accertamento in ordine ai rapporti intercorsi tra la società consortile e la consorziata nell’assegnazione dei lavori o servizi ai singoli consorziati e
nella esecuzione delle commesse, che debbano
essere oggetto di valutazione caso per caso.
NOTA
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Rassegna
Sezioni Unite
a sostegno dei maggiori ricavi accertati, alcuna
prova desumibile dalla contabilità e dalla relativa
documentazione del contribuente", così che “l’accertamento dell’Ufficio basato sull’estrapolazione
di dati non direttamente e certamente riferibili al ricorrente risulta infondato”.
DICHIARAZIONI
IMPOSTE SUI REDDITI
Cass., SS.UU., Sent. 30 giugno 2016 (7 giugno
2016), n. 13378 - Pres. Rordorf - Rel. Iacobellis
Dichiarazione integrativa “a favore” - Termine di
presentazione della dichiarazione dei redditi relativa
al periodo d’imposta successivo - Sussistenza Emendabilità in sede contenziosa non oltre i termini
per l’azione accertatrice - Ammissibilità - Rimborso
dei versamenti diretti - Termine di decadenza di 48
mesi dalla data di versamento - Sussistenza - Termini e modalità della dichiarazione integrativa - Irrilevanza - Opposizione, in sede contenziosa, della
maggiore pretesa tributaria - Ammissibilità
La possibilità di emendare la dichiarazione dei
redditi, per correggere errori od omissioni che
abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito, o, comunque, di un maggior debito d’imposta, o di un minor credito, mediante la
dichiarazione integrativa, è esercitabile non oltre il termine prescritto per la presentazione
della dichiarazione relativa al periodo d’imposta
successivo, con compensazione del credito
eventualmente risultante. La possibilità di
emendare la dichiarazione dei redditi conseguente ad errori od omissioni in grado di determinare un danno per l’Amministrazione finanziaria è esercitabile non oltre i termini stabiliti
per l’espletamento dell’azione accertatrice. Il
rimborso dei versamenti diretti può essere domandato, invece, entro il termine di decadenza
di quarantotto mesi dalla data del versamento,
indipendentemente dai termini e dalle modalità
della dichiarazione integrativa. Il contribuente,
tuttavia, in sede contenziosa può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria, allegando errori, di
fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
NOTA
L’intervento delle SS.UU. avrebbe dovuto fornire
un plausibile assetto sistematico alla caotica disciplina normativa e alle incertezze giurisprudenziali
manifestatesi al vertice circa il concreto operare
della riconosciuta emendabilità della dichiarazione
fiscale (Cass., SS.UU., n. 15063/2002). In realtà,
com’è stato puntualmente rimarcato in dottrina (v.
in particolare i commenti di D. Stevanato, in Corr.
Trib., nn. 32-33/2016, pag. 2481 e di M. Nussi, in
questa Rivista, n.12/2016, pag. 936), l’interpretazione (restrittiva) elargita dalle Sezioni Unite (con
questa pronuncia) non può dirsi esemplare, presentando, infatti, vistose lacune, sulle quali, peraltro, non è neppure più il caso d’indugiare, stante
la nuova disciplina legislativamente introdotta con
l’art. 5 del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, convertito,
con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2016,
n. 225, che ormai consente la presentazione integrativa della dichiarazione “a favore” del contribuente entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, mettendo così implicitamente
fuori gioco la disciplina di cui all’art. 2, comma 8
bis, del D.P.R. n. 600/1973, sulla quale è per l’appunto incentrata la decisione delle Sezioni Unite in
esame.
PROCESSO TRIBUTARIO
GIURISDIZIONE
Cass., SS.UU., Ord. 30 giugno 2016 (7 giugno
2016), n. 13380 - Pres. Rordorf - Rel. Iacobellis
Controversie in tema di fermo e iscrizione ipotecaria
- Violazioni extrafiscali (violazione del codice della
strada o sanzioni per omessi versamenti di contributi
previdenziali) - Giurisdizione del giudice ordinario Sussistenza
In materia di fermo, la giurisdizione si ripartisce
tra giudice ordinario e tributario a seconda della natura del credito azionato, con la conseguenza che, qualora l’impugnativa attenga ad
una violazione del Codice della strada o a sanzioni per omesso versamento di contributi previdenziali, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, attesa la natura extratributaria
del credito azionato. Tale principio va riafferma-
29
Sinergie Grafiche srl
Rassegna
Sezioni Unite
to anche con riferimento alla iscrizione ipotecaria, stante l’analogo carattere cautelare.
NOTA
A fronte di un’iscrizione ipotecaria effettuata ex
art. 77 del D.P.R. n. 602/1973 dall’agente della riscossione, a seguito di cartella di pagamento per
crediti di natura non erariale (multe per infrazione
del codice della strada e omessi versamenti di
contributi previdenziali), veniva proposta opposizione ex art. 617 c.p.c. davanti al Tribunale, che,
tuttavia, declinava la propria giurisdizione, rimettendo quindi la causa davanti alla Commissione
tributaria provinciale, la quale, peraltro, ritenendosi, a sua volta, carente di giurisdizione, sollevava
conflitto e trasmetteva gli atti alle Sezioni Unite
della Suprema Corte, che hanno di bel nuovo rimesso la parti davanti allo stesso Tribunale per la
decisione nel merito. Nell’ordinanza vengono segnatamente richiamate le pronunce n. 10147/2012
(retro n. 10/2012, pag. 744) e n. 23113/2015 (retro
n. 2/2016, pag. 126). In realtà, sembrerebbero ancor più appropriati i riferimenti alle pronunce n.
641/2015, retro n. 7/2015, pag. 558, per le liti ipotecarie, e alle pronunce n. 14831/2008, retro n.
10/2008, pag. 859, e n. 15425/2014, retro n.
2/2015, pag. 107, per le controversie in tema di
fermo di beni mobili registrati ex art. 86 del D.P.R.
n. 602/1973.
forme dell’opposizione all’esecuzione o agli atti
esecutivi, non può realizzarsi, né dinanzi al giudice amministrativo, mancando l’esercizio di un
potere di supremazia in materia di pubblici servizi, né dinanzi al giudice tributario.
NOTA
Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento d’iscrizione di ipoteca sugli immobili per crediti di natura non tributaria
sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di provvedimento preordinato all’espropriazione forzata, in relazione al
quale la tutela giurisdizionale, esperibile nelle
Giudicando in terzo grado di un giudizio attivato
davanti al giudice tributario prima dell’entrata in vigore della legge Bersani - Visco (D. L. n. 223/2006,
conv. in L. n. 248/2006) contro un’iscrizione ipotecaria per debiti, solo in parte, fiscali, le SS.UU., dopo aver richiamato il proprio risalente orientamento che all’epoca ravvisava nel giudice ordinario tutte le controversie di questo tipo, individuando nell’iscrizione ipotecaria un “provvedimento preordinato all’espropriazione forzata”, per cui ogni forma
di tutela giurisdizionale non si sarebbe potuta che
svolgere sub specie di opposizione all’esecuzione
o agli atti esecutivi affidata all’a.g.o., dovendo comunque ora prendere atto dell’attrazione nell’ambito del processo tributario operata dal legislatore
del 2006 per tutte queste controversie, hanno riconosciuto la permanenza della sopravvenuta competenza giurisdizionale dei giudici tributari ex art. 5
c.p.c., quanto alle liti fiscali, assegnando, invece,
al giudice ordinario le controversie riguardanti l’iscrizione ipotecaria per crediti extrafiscali (multe
per violazione del codice della strada e mancati
versamenti contributivi).
Nella motivazione della sentenza viene anche definitivamente avallata la più recente giurisprudenza
delle Sezioni semplici della Corte regolatrice, che
esclude la necessità della previa notifica dell’intimazione di pagamento ex art. 50 del D.P.R. n.
602/1973 ai fini della legittima iscrizione ipotecaria, che può dunque aver luogo a prescindere da
siffatta preventiva notificazione pur se sia già decorso un anno dalla notifica della cartella di pagamento, considerando così l’iscrizione ipotecaria,
non più un atto prodromico all’esecuzione forzata,
“bensì un atto riferito ad una procedura alternativa
all’esecuzione forzata vera e propria” (Cass.,
SS.UU., 18 settembre 2014, n. 19667, retro, n.
2/2015, pag. 111).
30
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
GIURISDIZIONE
Cass., SS.UU., Sent. 8 luglio 2016 (22 settembre 2015), n. 14038 - Pres. Rovelli - Rel. Greco
Controversie sull’iscrizione di ipoteca per crediti non
tributari - Giurisdizione del giudice ordinario - Sussistenza
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Giurisprudenza
Legittimità
Imposte indirette
Tassazione fissa
per il trust autodichiarato
Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016 (5 ottobre 2016), n. 21614 - Pres. Chindemi - Rel.
Bruschetta
Imposte indirette - Imposte ipotecarie e catastali - Istituzione di trust “autodichiarato” - Applicazione delle
imposte in misura fissa - Legittimità
L’istituzione di un trust c.d. autodichiarato, riguardante immobili e partecipazioni sociali, con durata predeterminata o fino alla morte del disponente-trustee, aventi quali beneficiari i discendenti di
quest’ultimo, deve scontare l’imposta ipotecaria e quella catastale in misura fissa e non proporzionale, perché la fattispecie si inquadra in quella di una donazione indiretta, cui è funzionale la segregazione quale effetto naturale del vincolo di destinazione. Da tale segregazione non deriva, dunque, alcun reale trasferimento di beni e arricchimento di persone, i quali dovranno invece realizzarsi a favore dei beneficiari, che saranno pertanto nel caso successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale.
Fatto
forma dichiarava “l’improcedibilità/inammissibilità
del ricorso proposto dal trust (omissis)”.
L’Ufficio proponeva ricorso per cassazione affidato a
un solo motivo, cui resistevano il notaio e il trust in
persona del suo trustee, i quali preliminarmente eccepivano l’inammissibilità dell’impugnazione ex adverso.
I contribuenti si avvalevano della facoltà di depositare memoria.
Pronunciando sull’appello proposto dall’Agenzia delle
entrate avverso la decisione n. 201/07/12 della Commissione tributaria provinciale di Perugia che aveva
annullato l’avviso di liquidazione n. (omissis) con il
quale venivano recuperate nei confronti del notaio
rogante D.F. imposte ipotecaria e catastale in misura
proporzionale con aliquote rispettivamente del 2% e
1% base imponibile euro 624.000,00 relativamente a
un atto di costituzione di un trust c.d. autodichiarato
denominato “(omissis)” registrato il 17 dicembre 2012
in esenzione d’imposta sulle successioni e donazioni
perché rientrante nella “franchigia” - e nel quale erano stati conferiti immobili e quote sociali fino al 31
dicembre 2032 o fino alla morte del disponente e trustee (omissis) con successivo trasferimento ai beneficiati discendenti dello stesso - la Commissione tributaria regionale dell’Umbria con l’impugnata sentenza
n. 239/01/14 depositata il 26 febbraio 2014 riteneva
conformemente al primo giudice che l’atto dovesse
scontare la tassazione in misura fissa poiché “nel caso
di specie nessun trasferimento di beni che dovesse essere soggetto alle imposte ipotecarie e catastali era
stato ancora posto in essere, anche in considerazione
della natura di trust autodichiarato del trust (omissis)
nel quale il disponente e il trustee coincidevano con
la medesima persona” e mentre invece in parziale ri-
1. Poiché la declaratoria della CTR di “improcedibilità/inammissibilità” del ricorso promosso dal trust
(omissis) in persona del suo trustee non è stata impugnata (statuizione peraltro conforme alla giurisprudenza di questa Corte, v. Cass., Sez. trib., n.
25478/2015; Cass., Sez. 1^, n. 3456/2015; che hanno
consolidato il principio per cui il trust manca di personalità giuridica poiché trattasi di un “insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee, che è l’unico soggetto
di riferimento nei rapporti con i terzi non quale legale rappresentante, ma come colui che dispone del diritto”), la stessa è passata in giudicato da rilevarsi
d’ufficio in ogni stato e grado (Cass., Sez. I, n.
17261/2013; Cass., Sez. lav., n. 20427/2012), con la
conseguenza che sono inammissibili sia il ricorso per
cassazione promosso dall’Ufficio nei confronti del ridetto trust e sia il controricorso di quest’ultimo.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
31
Diritto
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Giurisprudenza
Legittimità
2. Come anticipato in narrativa del presente, il contribuente notaio ha eccepito l’inammissibilità dell’avversario ricorso per cassazione sia per difetto di autosufficienza perché nello stesso non sarebbero stati riprodotti tutti gli atti e i documenti richiamati e sia
perché l’impugnazione sarebbe in realtà intesa a ottenere dalla Corte un proibito “riesame nel merito della questione” circa la definizione del trust “come vincolo di destinazione o meno” e oltreché circa la “valutazione di merito inerente il momento in cui si viene a verificare il trasferimento di beni che deve essere oggetto di tassazione”.
Le eccezioni sono entrambe infondate.
La prima eccezione deve essere rigettata perché come
noto gli atti e i documenti debbono essere indicati e
riprodotti nella misura in cui gli stessi siano indispensabili, esigenza che manca invece nella concreta fattispecie in cui i fatti sono inter partes del tutto pacifici
anche perché senza contestazioni riportati nell’impugnata sentenza (Cass., Sez. lav., n. 14561/2012; Cass.,
Sez. 2^, n. 26234/2005). La seconda eccezione è parimenti da rigettarsi perché nella concreta fattispecie i
fatti sono incontroversi, in particolare non sono in
discussione la caratteristica per es. “autodichiarata”
del trust (omissis) o il conferimento di immobili e
quote ecc. oppure che i beni debbano essere trasferiti
ai discendenti alla morte del disponente-trustee o in
alternativa trascorso il più lungo termine previsto,
bensì quella che deve essere stabilita è la disciplina
fiscale dell’atto costitutivo del ridetto trust (omissis) e
quindi soltanto una questione di diritto.
3. Con l’unico motivo di ricorso rubricato “Violazione e falsa applicazione del D.L. n. 262/2006, art. 2,
comma 47, 48 e 49, convertito in Legge n. 286/2006,
nonché del D.Lgs. n. 347/1990, artt. 2 e 10, e dell’art. 1 Tariffa allegata, in relazione all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3)”, l’Ufficio deduceva che con il D.L. 3
ottobre 2006, n. 262, art. 2, comma 47 ss., conv. con
modif. in Legge 24 novembre 2006, n. 286, era stata
“reintrodotta nell’ordinamento giuridico l’imposta
sulle successioni e donazioni estendendone l’ambito
di applicazione alla costituzione di vincoli di destinazione”, ai quali doveva ricondursi anche la costituzione del trust “autodichiarato” oggetto di controversia
atteso che con lo stesso erano stati conferiti beni a titolo gratuito al trustee da immettere in trust con efficacia “segregante”, così come in effetti previsto dal
D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 ss., che espressamente assoggettava all’imposta sulle successioni e donazioni ex D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, gli atti di
costituzione dei “vincoli di destinazione”, con la conseguenza che la CTR avrebbe errato a ritenere che
anche in considerazione del carattere “autodichiarato” del trust (omissis) gli immobili e le quote conferiti
nello stesso non erano stati realmente trasferiti in
quanto rimasti nella sostanza nella gestione del disponente-trustee e con l’ulteriore errata illazione secondo
cui le imposte ipotecaria e catastale avrebbero dovuto
essere assolte in misura fissa e non proporzionale.
Il motivo è infondato.
Quanto prospettato dall’Ufficio segue in buona sostanza il contenuto della circolare n. 48/E del 6 agosto 2007 - nonché quello della circolare n. 3/E del 22
gennaio 2008 - che nel loro “combinato disposto” sono nel senso di affermare che gli “effetti segreganti”
del trust “autodichiarato” o meno danno luogo ad un
trasferimento dei beni conferiti che deve assoggettarsi
a tassazione secondo le regole di cui alla reintrodotta
legge sulle successioni e donazioni ex D.Lgs. 31 ottobre 1999, n. 346. E ciò, secondo l’Amministrazione,
in ragione del D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 ss.,
che prevede “l’istituzione” dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni anche “sulla costituzione dei
vincoli di destinazione” e nei quali si afferma debbono farsi pacificamente rientrare anche i trust “autodichiarati” o no. Tanto è vero che in assenza di conferimento di beni sono le stesse circolari n. 48/E e n.
3/E cit. a dire che il trust debba scontare soltanto
l’imposta di registro in misura fissa atteso che in questo caso è mancante qualsiasi trasferimento di ricchezza, con la conseguenza che l’atto di costituzione
del trust non accompagnato da alcun conferimento
non andrebbe assoggettato all’imposta di successione
e donazione proprio perché quest’ultima non è un’imposta d’atto e bensì un’imposta che tassa il trasferimento di ricchezza liberale.
Come noto con numerose ordinanze questa Corte,
Sez. 6^ è giunta a diverse più radicali conclusioni appunto disattendendo l’idea dell’Amministrazione
appena veduta secondo cui in mancanza di conferimento di beni l’atto di costituzione di trust “autodichiarato” o meno non dovrebbe essere assoggettato
all’imposta sulle successioni e donazioni ex D.Lgs. n.
346 cit., per la ragione che in ipotesi nessuna ricchezza potrebbe dirsi trasferita - ritenendo invece che il
D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47 ss., abbia istituito
un’autonoma generale imposta “sulla costituzione dei
vincoli di indisponibilità” la cui disciplina sarebbe
stata indicata per relationem nelle regole contenute
nel D.Lgs. n. 346 cit., “concernenti l’imposta sulle
successioni e donazioni”. Sarebbe in thesi un tributo
che perciò prescinderebbe dal trasferimento di ricchezza discendente dal conferimento di beni e che
per tal motivo troverebbe il suo presupposto impositi-
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GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Giurisprudenza
Legittimità
vo nella semplice costituzione di “vincoli d’indisponibilità” e includendovi tra questi ultimi il trust (Cass.,
Sez. n. 4482/2016; Cass., Sez. 6^, n. 5322/2015;
Cass., Sez. 6^, n. 3886/2015; Cass., Sez. 6^, n.
3737/2015; Cass., Sez. 6^, n. 3735/2015). L’interpretazione in parola è per l’essenziale ricavata in via letterale dal D.L. n. 262 cit., art. 2, comma 47, laddove
si stabilisce che è “istituita l’imposta sulle successioni
e donazioni” tra l’altro anche “sulla costituzione dei
vincoli di destinazione” secondo quelle che erano già
le disposizioni dell’abrogato D.Lgs. n. 346 cit., e che
sarebbe da leggersi nel senso che oltre alla reintroduzione dell’imposta sulle liberalità sarebbe stata anche
ex novo introdotta una nuova autonoma generale imposta “sulla costituzione dei vincoli di destinazione”
ed entrambe disciplinate mediante rinvio alle norme
di cui al D.Lgs. n. 346 cit. che prima della sua abrogazione dettava esclusivamente la disciplina fiscale
sulle successioni e sulle donazioni.
Anche a prescindere dalle gravi incertezze cui le due
riassunte interpretazioni danno ingresso - per es. non
è dalla legge individuato il soggetto passivo d’imposta
ecc. - le stesse non appaiono condivisibili.
Come invero già evidenziato da questa Corte il tipo
di trust “autodichiarato” pervenuto all’esame costituisce una forma di donazione indiretta, nel senso che
per suo mezzo il disponente provvederà a beneficiare
i suoi discendenti non direttamente e bensì a mezzo
del trustee in esecuzione di un diverso programma negoziale (Cass., Sez. trib., n. 25478 cit.). Ed invero la
costituzione del trust - come è normale che avvenga
per “i vincoli di destinazione” - produce soltanto efficacia “segregante” i beni eventualmente in esso conferiti e questo sia perché degli stessi il trustee non è
proprietario bensì amministratore e sia perché i ridetti beni non possono che essere trasferiti ai beneficiari
in esecuzione del programma negoziale stabilito per
la donazione indiretta (artt. 2 e 11 Convenzione de
L’Aja del 1° luglio 1985, recepita in Legge 16 ottobre
1989, n. 364). L’appena veduta osservazione è fondamentale perché consente di comprendere l’inconsistenza della censura denunciata dall’Ufficio che - pur
riconoscendo anche nelle sue circolari che quella applicabile al trust è l’imposta sulle donazioni e sulle
successioni che ha come presupposto l’arricchimento
patrimoniale a titolo di liberalità, tanto che la stessa
non può applicarsi se il trust è stato costituito senza
conferimento, scontando in questo caso soltanto
l’imposta fissa di registro - sostiene l’erroneo convincimento che il conferimento di beni nel trust dia luogo a un reale trasferimento imponibile. Un reale trasferimento che è invece all’evidenza impossibile per-
ché del tutto contrario al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che come si ripete - prevede la temporanea preservazione
del patrimonio a mezzo della sua “segregazione” fino
al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari. Per l’applicazione dell’imposta sulle successioni e
sulle donazioni manca quindi il presupposto impositivo della liberalità alla quale può dar luogo soltanto
un reale arricchimento mediante un reale trasferimento di beni e diritti (D.Lgs. n. 346 cit., art. 1).
Nemmeno - come anticipato - può condividersi l’interpretazione letterale del D.L. n. 262 cit., art. 2,
comma 47 ss., adottata dalle rammentate ordinanze
di questa Corte, Sez. 6^ al cui avviso sarebbe stata
istituita un’autonoma imposta “sulla costituzione dei
vincoli di destinazione” disciplinata merce il rinvio
alle regole contenute nel D.Lgs. n. 346 cit., e avente
come presupposto la loro mera costituzione. In verità
neanche il dato letterale autorizza una tale conclusione, giacché ex art. 12 preleggi, comma 1, “il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” è proprio invece nel diverso senso che l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta
imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale
per ulteriore espressa disposizione debbono andare
anche assoggettati i “vincoli di destinazione”, con la
scontata conseguenza che il presupposto dell’imposta
rimane quello stabilito dal D.Lgs. n. 346 cit., art. 1,
del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del
reale arricchimento dei beneficiari. Quella che in verità emerge chiara dal D.L. n. 262 cit., art. 2, comma
47 e ss., è la preoccupazione - nei più esatti termini
di cui all’art. 12, comma 1, prel. sarebbe “l’intenzione
del legislatore” - di evitare che un’interpretazione restrittiva della istituita nuova legge sulle successioni e
donazioni disciplinata mediante richiamo al già abrogato D.Lgs. n. 346 cit. potesse dar luogo a nessuna
imposizione anche in caso di reale trasferimento di
beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di una fattispecie tutto sommato di “recente” introduzione come quella dei “vincoli di destinazione” e quindi per niente affatto presa
in diretta considerazione dal ridetto “vecchio” D.Lgs.
n. 346 cit. Questa sembra essere l’interpretazione
non solo logicamente più corretta, ma anche quella
che appare essere l’unica costituzionalmente orientata. E ciò atteso che l’art. 53 Cost., non pare poter tollerare un’imposta, a meno che non sia un’imposta
semplicemente d’atto come per l’essenziale è per es.
quella di registro, senza relazione alcuna con un’idonea capacità contributiva.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Legittimità
4. Il principio di diritto da affermarsi è quindi il seguente: “L’istituzione di un trust c.d. autodichiarato,
con conferimento di immobili e partecipazioni sociali, con durata predeterminata o fino alla morte del disponente-trustee, con beneficiari i discendenti di quest’ultimo, deve scontare l’imposta ipotecaria e quella
catastale in misura fissa e non proporzionale, perché
la fattispecie si inquadra in quella di una donazione
indiretta cui è funzionale la ‘segregazione’ quale effetto naturale del vincolo di destinazione, una ‘segregazione’ da cui non deriva quindi alcun reale trasferimento di beni e arricchimento di persone, trasferimento e arricchimento che dovrà invece realizzarsi a
favore dei beneficiari, i quali saranno perciò nel caso
successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in
misura proporzionale”.
5. Nell’evidenziato contrasto giurisprudenziale debbono farsi consistere le ragioni che inducono la Corte
a compensare integralmente le spese di ogni fase e
grado.
6. La soccombente, che è una Pubblica amministrazione, non è tenuta al pagamento dell’ulteriore importo stabilito dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,
art. 13, comma 1-bis e quater, (Cass., Sez. 6^, n.
1778/2016; Cass., Sez. 3^, n. 5955/2014).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto
dall’Ufficio contro il trust, nonché il controricorso di
quest’ultimo; rigetta ricorso proposto dall’Ufficio
contro il contribuente notaio; compensa integralmente le spese di ogni fase e grado.
Il new deal della Suprema Corte
sull’imposizione indiretta del trust:
giù il sipario sull’imposta sui vincoli di destinazione?
di Dario Stevanato (*)
La sentenza della Suprema Corte n. 21614/2016, relativa a un trust autodichiarato, contiene, al
di là di alcune imprecisioni, una condivisibile ricostruzione del fenomeno del trust (liberale) quale
“donazione indiretta”, in cui l’arricchimento del beneficiario che giustifica l’applicazione delle
imposte proporzionali (sulle successioni e donazioni, nonché ipotecarie e catastali) si realizza
soltanto con il trasferimento finale del trust fund, e non già all’atto del mero conferimento di beni in trust, integrante il “vincolo di destinazione”. I giudici hanno così finalmente colto l’occasione, recependo le diffuse obiezioni che erano state mosse dalla dottrina, per riconsiderare la posizione, espressa dalla Corte in alcune ordinanze del 2015, sull’imposta sui vincoli di destinazione, rilevandone la contrarietà all’ordinamento e l’incompatibilità con il principio costituzionale di
capacità contributiva.
La sentenza in esame si segnala anzitutto perché in essa trova ulteriore conferma, presso la
Suprema Corte, la visione del trust alla stregua
di una “donazione indiretta”, con conseguente
postergazione del momento impositivo alla destinazione finale del patrimonio segregato ai
beneficiari.
Già questo approdo è da salutare con grande
soddisfazione, che tuttavia raggiunge l’apice
laddove i giudici, operando un atteso revirement, riconoscono l’inesistenza di un’imposta
autonoma sui vincoli di destinazione, coglien-
done l’impossibilità e la contrarietà all’art. 53
Cost.
L’antefatto: l’imposta sui vincoli
di destinazione nella precedente
giurisprudenza della Sezione tributaria
La Corte di cassazione si è come noto espressa,
nel corso del 2015, per l’applicabilità dell’imposta proporzionale ad atti di trust autodichiarati o ritenuti addirittura nulli e privi di effetti,
risolvendola in senso affermativo sulla base di
(*) Professore ordinario di Diritto tributario presso l’Università
di Trieste - Avvocato e Dottore commercialista in Venezia
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una assai discutibile premessa: ovvero che l’art.
2, comma 47, del D.L. n. 262/2006 (convertito, con modificazioni, in Legge n. 286/2006)
avrebbe istituito un’imposta sulla costituzione
di vincoli di destinazione, autonoma rispetto al
tributo sulle successioni e donazioni.
In tal modo la Corte era riuscita ad “aggirare”
e rendere irrilevanti, nel tentativo di attrarre a
tassazione meri fenomeni destinatori, i presupposti indefettibili per l’applicabilità del tributo
sugli atti liberali, ovvero il trasferimento di beni o diritti mortis causa o per atto di liberalità
tra vivi, e l’arricchimento di una sfera altrui,
diversa da quella del testatore o donante.
Sennonché, l’imposta (sulla costituzione dei
vincoli), così concepita, finiva per risultare insostenibile, alla luce delle basilari logiche della
tassazione. Non si comprende infatti come un
tributo del genere possa prescindere da un indice di forza economica qualificata; e invero,
in mancanza di un trasferimento a terzi e un’espansione dell’altrui sfera patrimoniale (che
connota il tributo sugli atti liberali), l’imposta
sui vincoli di destinazione avrebbe finito per
colpire un “impoverimento”, dato dalla diminuzione del valore dei beni assoggettati al vincolo dal loro proprietario.
Inoltre, nella legge che ha reistituito l’imposta
sulle successioni e donazioni, manca qualsivoglia indicazione in ordine agli altri elementi
fondamentali dell’ipotizzato tributo sui vincoli
di destinazione, quali i soggetti passivi, la base
imponibile, le aliquote, le regole di territorialità, e così via.
In effetti, nelle norme che secondo la Suprema
Corte avrebbero dato vita all’imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione con un rinvio alla disciplina del D.Lgs. n. 346/1990, mancano prima di tutto gli obbligati, i soggetti passivi: la legge contempla infatti soltanto gli eredi
o i beneficiari di una liberalità, categorie inapplicabili al tributo sui “vincoli”, tanto è vero
che la Corte ha in alcune occasioni individuato
il soggetto passivo nel disponente, altre volte
nel beneficiario finale dell’utilità economica
connessa all’istituzione del vincolo, e altre volte
ancora ha lasciato la questione in una sfera di
indeterminatezza e ambiguità. Il tutto, si ripete,
in assenza di una qualsivoglia indicazione normativa (e in una materia che, non è forse superfluo ricordare, è coperta da riserva di legge).
Se poi ciò non bastasse, si osservi che non si
trovano indicazioni normative, né con riguardo alla base imponibile (che non può certo
coincidere con il “valore pieno” dei beni o diritti su cui è apposto il vincolo, e andrebbe
semmai riferita al valore del vincolo stesso,
tentando un’operazione ermeneutica assai
complessa nella sua realizzazione pratica e inevitabilmente arbitraria, nel silenzio della legge), né con riferimento alle aliquote applicabili
(nell’imposta disciplinata dal D.L. n. 262/2006
e dal D.Lgs. n. 346/1990, le aliquote sono infatti stabilite in funzione del rapporto di parentela tra il disponente e il beneficiario di una liberalità, mentre nella fantomatica imposta sui
vincoli di destinazione manca quella dualità
soggettiva che costituisce l’indefettibile presupposto di tutto l’impianto normativo di riferimento).
Senza contare, poi, che la Corte ha irragionevolmente individuato l’aliquota applicabile all’apposizione di vincoli in quella più elevata
(8%), motivando questa scelta con la sua supposta natura “residuale”, così penalizzando proprio le “attribuzioni” (che in realtà non sono tali, vista la natura non traslativa dei vincoli di
cui discute la Corte) in cui è in un certo senso
più stretto il rapporto con il disponente, giacché tutto avviene nella sua sfera soggettiva.
Appare infatti illogico ipotizzare che una fattispecie con effetti meramente destinatori, attuata nel patrimonio del proprietario e in assenza
di trasferimenti a terzi e di liberalità a loro favore, sconti un’aliquota più elevata di quelle riservate alle liberalità all’interno della famiglia.
Senza dilungarci ulteriormente su questioni
ampiamente esaminate in altre sedi (1), si
(1) Cfr. D. Stevanato, “La ‘nuova’ imposta su ‘trust’ e vincoli
di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione”,
in questa Rivista, 2015, pag. 400 ss.; Id., “Imposta sui vincoli
di destinazione e giudice-legislatore: errare è umano, perseve-
rare diabolico”, in questa Rivista, 2016, pag. 398 ss. Si veda
inoltre, tra gli altri, T. Tassani, “Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione”,
in il fisco, 2015, pag. 1957 ss.; G. Bizioli, “La creazione, irrazio-
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può dunque sul punto sintetizzare come segue: era a tutti abbastanza evidente, nonostante l’improvvida giurisprudenza della Sezione tributaria, che nell’impianto normativo
sul tributo successorio e gli atti liberali il riferimento ai “vincoli di destinazione” dovesse essere necessariamente armonizzato con
l’oggetto dell’unico tributo disciplinato dalla
legge, che intende tassare l’arricchimento ricevuto da un determinato soggetto, per effetto di uno spostamento patrimoniale motivato
da intenti liberali, su una base imponibile
pari al valore dei beni trasferiti, con aliquote
fissate in relazione al rapporto di parentela
tra disponente e beneficiario, secondo regole
territoriali che combinano la residenza dei
soggetti in questione, il luogo di localizzazione dei beni e quello di stipula degli atti donativi.
E gli unici vincoli di destinazione assoggettabili all’imposta (all’unica imposta prevista dalla
legge) sono quelli che si armonizzano con il
contesto testé delineato, ovvero che determinano un concreto ed attuale arricchimento di
una sfera patrimoniale diversa da quella del
soggetto che appone un vincolo al proprio patrimonio.
Nell’interpretazione fornita dalla Suprema
Corte nelle ordinanze precedentemente ricordate, invece, l’imposta sui vincoli di destinazione diventava un corpo estraneo rispetto a fondamentali principi della tassazione; si poteva perciò pronosticare che, prima
o poi, una tale interpretazione avrebbe originato una “crisi di rigetto” ordinamentale, i
cui prodromi si erano già manifestati a livello
di commissioni di merito, e che ora è deflagrata presso la stessa giurisprudenza di legittimità con la sentenza che ci si accinge a commentare.
Nella pronuncia n. 21614/2016, qui annotata,
la Cassazione ha operato l’auspicato revirement
rispetto al precedente orientamento, poc’anzi
ricordato, che aveva postulato la sussistenza di
un’imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione, avente presupposti del tutto autonomi rispetto a quelli del tributo sulle successioni e donazioni.
La Corte si è trovata a decidere su un ricorso
per cassazione proposto dall’Amministrazione
finanziaria in una vicenda concernente un trust
autodichiarato, avverso una sentenza di appello che aveva ritenuto non dovute le imposte
ipotecarie e catastali, sul rilievo che la natura
di trust autodichiarato, in cui disponente e trustee coincidevano nella medesima persona,
escludeva ogni ipotesi di trasferimento di beni
da assoggettare al tributo proporzionale.
Orbene, nel ricorso per cassazione l’Amministrazione finanziaria aveva dedotto proprio a
partire dall’art. 2, comma 47, del già citato
D.L. n. 262/2006, con il quale era stata “reintrodotta nell’ordinamento giuridico l’imposta
sulle successioni e donazioni estendendone
l’ambito di applicazione alla costituzione di
vincoli di destinazione”, ai quali doveva ricondursi anche la costituzione del trust autodichiarato oggetto della controversia, idoneo a dar
luogo agli effetti “segregativi” connessi al conferimento dei beni in trust.
L’Amministrazione, in tal modo, aveva dunque
per certi aspetti precorso l’indirizzo giurisprudenziale su richiamato, pur senza giungere alle
estreme conclusioni delle ordinanze emesse nel
2015, del pari sopra ricordate.
La sentenza in esame così si esprime sull’indirizzo precedente: “come noto con numerose ordinanze questa Corte, Sez. VI, è giunta a diverse più radicali conclusioni - appunto disattendendo l’idea dell’Amministrazione appena ve-
nalmente estensiva, di un tributo autonomo”, in Dialoghi Tributari, 2015, pag. 108 ss.; A. Contrino, “Sulla nuova (ma in realtà
inesistente) imposta sui vincoli di destinazione, ‘creata’ dalla
Suprema Corte: osservazioni critiche”, in Rass. trib., 2016,
pag. 30 ss.; G. Corasaniti, “Vincoli di destinazione, trust e imposta sulle successioni e donazioni: la (criticabile) tesi interpre-
tativa della Corte di cassazione e le conseguenze applicative”,
in Dir. prat. trib., 2015, II, pag. 688 ss.; A. Busani - R. A. Papotti, “L’imposizione indiretta dei ‘trust’: luci e ombre delle recenti
pronunce della Corte di Cassazione”, in Corr. Trib., 2015, pag.
1203 ss.; Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 1322015/T.
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L’inquadramento del trust
come “donazione indiretta”
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duta secondo cui in mancanza di conferimento
di beni l’atto di costituzione di trust autodichiarato o meno non dovrebbe essere assoggettato all’imposta sulle successioni e donazioni ...
per la ragione che in ipotesi nessuna ricchezza
potrebbe dirsi trasferita - ritenendo invece che
l’art. 2, comma 47, D.L. n. 262 cit., abbia istituito un’autonoma generale imposta ‘sulla costituzione dei vincoli di indisponibilità’ ... Sarebbe in thesi un tributo che perciò prescinderebbe dal trasferimento di ricchezza”.
La Corte, a questo punto, dimostrando di aver
colto il senso delle critiche della dottrina all’indirizzo giurisprudenziale ricordato (ad esempio la mancanza nella legge di elementi fondamentali del presunto tributo “sui vincoli”, come l’individuazione dei soggetti passivi, un
sensato indice di forza economica cui riferire il
tributo, e così via), se ne discosta nettamente
seguendo un percorso in linea di massima condivisibile (pur con alcune riserve di cui diremo
tra breve): da un lato, accogliendo una visione
del particolare trust in oggetto in termini di
donazione indiretta (si trattava da quel che si
comprende di un classico “trust di famiglia”, finalizzato a far giungere ai discendenti del disponente i beni segretati in trust); dall’altro lato, negando cittadinanza alla tesi secondo cui
sarebbe stata introdotta dal legislatore un’imposta sui vincoli di destinazione, autonoma e
distinta da quella sulle successioni e donazioni.
Sotto il primo profilo, la sentenza annotata ribadisce quanto affermato dalla stessa Corte in
una precedente occasione. Già con la sentenza
n. 25478/2015 (2) la Corte aveva infatti sposato la visione unificante dei diversi trasferimenti sottesi da un trust liberale, considerandolo
una particolare ipotesi di donazione indiretta,
con il conseguente rinvio della tassazione proporzionale al momento della devoluzione finale
dei beni e dell’effettivo arricchimento che lo
stesso determina nella sfera patrimoniale dei
beneficiari. E con l’ulteriore conseguenza che
“la costituzione del vincolo di destinazione
non è in grado, in sé, di determinare il presupposto dell’obbligazione tributaria, dovendo l’effetto di trasferimento essere proiettato nella
sfera giuridica di un soggetto diverso dal trustee, fin dall’inizio determinato dal disponente,
nominatim ovvero in base a un criterio generale
di individuazione” (3).
A queste stesse conclusioni si è sostanzialmente conformata la sentenza qui annotata, nel rilevare quanto segue: “Come invero già evidenziato da questa Corte il tipo di trust ‘autodichiarato’ pervenuto all’esame costituisce una
forma di donazione indiretta, nel senso che per
suo mezzo il disponente provvederà a beneficiare i suoi discendenti non direttamente e
bensì a mezzo del trustee in esecuzione di un
diverso programma negoziale (Cass., Sez. trib.,
n. 25478 cit.). Ed invero la costituzione del
trust - come è normale che avvenga per i vincoli di destinazione - produce soltanto efficacia
‘segregante’ i beni eventualmente in esso conferiti e questo sia perché degli stessi il trustee
non è proprietario bensì amministratore e sia
perché i ridetti beni non possono che essere
trasferiti ai beneficiari in esecuzione del programma negoziale stabilito per la donazione indiretta ... L’appena veduta osservazione è fondamentale perché consente di comprendere
l’inconsistenza della censura denunciata dall’Ufficio che ... sostiene l’erroneo convincimento che il conferimento di beni in trust dia
luogo a un reale trasferimento imponibile. Un
reale trasferimento che è invece impossibile
perché del tutto contrario al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che - come si ripete - prevede la
temporanea preservazione del patrimonio a
mezzo della sua segregazione fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari.
Per l’applicazione dell’imposta sulle successioni
e donazioni manca quindi il presupposto impositivo della liberalità alla quale può dar luogo
(2) In Corr. Trib., 2016, pag. 676 ss., con nota di D. Stevanato, “‘Trust’ liberali e imposizione indiretta, uno sguardo al passato rivolto al futuro?”.
(3) Concludevano dunque i giudici che “la costituzione di un
trust va considerata estranea al presupposto dell’imposta indi-
retta sui trasferimenti in misura proporzionale, sia essa l’imposta di registro… sia essa l’imposta ipotecaria o l’imposta catastale, mancando l’elemento fondamentale dell’attribuzione definitiva dei beni al soggetto beneficiario”.
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soltanto un reale arricchimento mediante un
reale trasferimento di beni e diritti (art. 1,
D.Lgs. n. 346 cit.).
Con riguardo a questa parte della sentenza, occorre formulare alcune riflessioni ulteriori.
Appare come detto condivisibile ricondurre il
trust (si intende, non tutti, soltanto quelli
aventi uno scopo di famiglia, successorio e/o liberale) (4) nell’ambito delle donazioni indirette; non sembra invece altrettanto corretto ritenere che la costituzione del trust produca sempre e soltanto efficacia segregante sui beni conferiti e non anche un trasferimento della proprietà degli stessi (“il trustee non è proprietario
bensì amministratore ...”). In realtà, il trustee
diventa proprietario dei beni conferiti dal disponente, ancorché tali beni vadano ad alimentare un patrimonio separato da quello del
trustee, essendo asserviti al programma negoziale delineato nel trust deed. Nel conferimento di
beni in trust, insomma, si verifica sia un trasferimento della proprietà (nei confronti del trustee, che diventa proprietario oltre che “amministratore” dei beni) che un effetto segregativo
(i beni entrano a far parte di un patrimonio separato, e sono vincolati nella destinazione).
Del resto, atteso che il disponente perde pacificamente la titolarità dei beni che conferisce
nel trust, ciò è il segno che questi beni sono
stati trasferiti. E il fatto che quella del trustee
sia una legal ownership, limitata nelle possibili
destinazioni e facoltà di utilizzo dal beneficial
interest spettante ai beneficiari del trust, non
muta queste conclusioni.
La mancanza di effetti traslativi connota invece i trust c.d. autodichiarati, in cui la figura del
disponente e quella del trustee coincidono: in
questo caso i beni rimangono di proprietà del
disponente-trustee, mentre si produce l’effetto
segregativo e il vincolo di destinazione, con la
creazione di un patrimonio separato in capo al
disponente.
L’inapplicabilità dell’imposta sulle successioni
e donazioni, con riguardo ai beni conferiti in
trust, non dipende dunque dalla mancanza di
un formale trasferimento a terzi (i beni, con
l’eccezione del trust autodichiarato, sono in effetti trasferiti al trustee, sia pure in un regime
di segregazione patrimoniale), quanto dall’aver
assunto una visione (non già atomistica bensì)
unitaria del trust come donazione indiretta, in
cui l’arricchimento dei beneficiari finali del
trust si realizza soltanto alla fine, col definitivo
trasferimento del trust fund a questi ultimi, e
non invece con il mero conferimento dei beni
in trust e con l’attribuzione della titolarità formale degli stessi al trustee.
Sotto questo aspetto, la sentenza è corretta
nella sua parte dispositiva (inapplicabilità dell’imposta sulle successioni e donazioni agli atti
di dotazione del trust), mentre è più discutibile
o comunque problematica nella sua parte motiva, a meno di non riferire le affermazioni ivi
contenute ai soli trust autodichiarati, in cui in
effetti non si verifica alcun trasferimento dei
beni ma soltanto un effetto segregativo nel patrimonio del disponente.
Quanto alla inapplicabilità delle imposte ipotecarie e catastali, questa andrebbe affermata
non già osservando l’inesistenza di un trasferimento (che invece nei trust non autodichiarati
ha luogo), ma semmai accogliendo quelle tesi
secondo cui il presupposto dei particolari tributi non è la trascrizione o la voltura catastale,
bensì la stessa fattispecie alla base dell’imposta
di registro o del tributo sulle successioni e donazioni. Seguendo questa tesi, “parrebbe dunque logico ritenere che l’applicazione delle imposte in considerazione possa essere effettuata,
in misura proporzionale, solo all’atto del trasferimento ‘finale’ tramite il quale si realizza il
presupposto del tributo. Anche per l’applicazione delle imposte ipotecaria e catastale, infatti, è necessario che il presupposto d’imposta
sia manifestativo di capacità contributiva, tal-
(4) I trust onerosi o comunque non liberali (di garanzia, d’impresa, costituti per far fronte a esigenze concorsuali, per la ge-
stione di situazioni di crisi da sovraindebitamento, ecc.) non
sottendono evidentemente alcuna donazione indiretta.
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Alcune annotazioni parzialmente critiche
sul percorso motivazionale
seguito dalla Corte
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ché si comprende come in ipotesi di trasferimento di beni dal disponente al trustee l’arricchimento, che è presupposto del tributo fin qui
considerato e, conseguentemente, anche delle
imposte ipotecaria e catastale, difetti e che
pertanto non appaia appropriata una imposizione della vicenda traslativa con ricorso ai criteri impositivi in misura proporzionale” (5).
Il new deal della Suprema Corte
in materia di (non) imposizione
dei meri vincoli di destinazione
La sentenza in esame affronta poi la spinosa
questione dell’autonoma imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione, affermata nelle
ordinanze del 2015, giungendo a conclusioni
del tutto condivisibili.
Secondo la sentenza annotata, in specie, non
può condividersi l’interpretazione dell’art. 2,
comma 47, cit., secondo cui sarebbe stata istituita un’autonoma imposta sulla “costituzione
di vincoli di destinazione”, avente come presupposto la loro mera costituzione. E ciò, in
primo luogo, per ragioni letterali (“neanche il
dato letterale autorizza una tale conclusione,
giacché ... l’unica imposta espressamente istituita è stata la reintrodotta imposta sulle successioni e sulle donazioni alla quale per ulteriore espressa disposizione debbono andare anche
assoggettati i ‘vincoli di destinazione’”), da cui
deriva la necessità, ai fini della nascita del presupposto impositivo, “del reale trasferimento di
beni o diritti e quindi del reale arricchimento
dei beneficiari”.
I giudici hanno così finalmente colto il presupposto giuridico ed economico del tributo sulle
successioni e sugli atti di liberalità tra vivi, e
l’inesistenza di un autonomo e diverso tributo
sulla mera costituzione di “vincoli di destinazione”, la cui menzione risponde semmai a
un’esigenza di completezza della fattispecie rispetto a una figura di recente introduzione
(per i giudici emerge “la preoccupazione ... di
evitare che un’interpretazione restrittiva della
istituita nuova legge sulle successioni e dona-
zioni disciplinata mediante richiamo al già
abrogato D.Lgs. n. 346 cit. potesse dar luogo a
nessuna imposizione anche in caso di reale trasferimento di beni e diritti ai beneficiari quando lo stesso fosse stato collocato all’interno di
una fattispecie tutto sommato di recente introduzione come quella dei ‘vincoli di destinazione’ e quindi niente affatto presa in diretta considerazione dal ridetto ‘vecchio’ D.Lgs. n. 346
cit.”). Resta dunque ferma l’irrilevanza dei vincoli di destinazione non traslativi, o che non
producono arricchimenti, provocati da un intento liberale del disponente, di altrui sfere patrimoniali.
Per la Corte, “questa sembra essere l’interpretazione non solo logicamente più corretta, ma
anche quella che appare essere l’unica costituzionalmente orientata. E ciò atteso che l’art.
53 Cost. non pare poter tollerare un’imposta, a
meno che non sia un’imposta semplicemente
d’atto come per l’essenziale è per es. quella di
registro, senza relazione alcuna con un’idonea
capacità contributiva”.
Si potrebbe peraltro discutere se nell’imposta
proporzionale di registro - ancorché “imposta
d’atto” - manchi effettivamente un indice di
“forza economica”, ben potendo la stessa essere
considerata un tributo di stampo patrimoniale
applicato al momento del trasferimento di beni
e diritti a titolo oneroso, con trasformazione
della ricchezza in una ricchezza di altro tipo.
Resta però sicuramente vero che nel fantomatico tributo sulla costituzione dei “vincoli di
destinazione”, ideato nella pregressa giurisprudenza della Corte, mancavano - a tacer d’altro
- i requisiti minimi per la compatibilità con
l’art. 53 Cost., giacché l’apposizione di un vincolo su una parte del patrimonio di un soggetto non denota alcuna peculiare forza economica differenziale, essendo anzi il sintomo di un
impoverimento, legato alle diminuite potenzialità di utilizzo e sfruttamento del bene sottoposto a vincolo.
Semmai, un vincolo di destinazione posto direttamente a favore di terzi rileverebbe positi-
(5) Così il Consiglio Nazionale del Notariato, Studio Tributario n. 58-2010/T.
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vamente nella sfera di questi ultimi, ma per
poterli considerare “soggetti passivi” di un tributo sull’arricchimento provocato dal vincolo
occorrerebbe che quest’ultimo si concretizzasse
nel trasferimento di beni e diritti a loro favore,
misurabile economicamente, tornando anche
per questa via al tema della compatibilità con
l’art. 53 Cost. sotto il profilo dell’attualità ed
effettività della capacità contributiva. Non
sembra invece che si possa affermare la tassabilità di generiche utilità non idonee a incrementare il patrimonio del beneficiario (ad
esempio la possibilità di godere dei servizi di
un’abitazione o di un’imbarcazione); altrimenti
dovrebbe scontare l’imposta sugli atti liberali
anche la concessione di un bene in comodato
gratuito, la messa a disposizione di una casa
per le vacanze, la facoltà di accedere gratuitamente a un impianto sportivo, e così via, che
determinano un risparmio di spesa ma ancora
non incrementano il patrimonio del beneficiario.
Il punto è che un bene segregato in trust e vincolato al soddisfacimento degli interessi dei beneficiari, se può preludere a un arricchimento
che si realizzerà con la devoluzione finale del
trust fund (che concretizzerà quel “trasferimento di beni e diritti” richiesto per l’applicazione
del tributo sugli atti liberali), non è ancora
idoneo a fondare una pretesa impositiva: per
tassare tale arricchimento occorrerà appunto
attendere che lo stesso produca i suoi effetti
nella sfera giuridica dei beneficiari, incrementando il loro patrimonio.
Diversamente, la costituzione di un vincolo di
destinazione slegato da ogni intento liberale
(si pensi alla segregazione di beni in un trust a
garanzia dei creditori, o a un trust cui vengano
conferite partecipazioni societarie con l’intento
“parasociale” di imprimere un indirizzo unitario
nel diritto di voto) sarà al di fuori di ogni - ancorché prospettica - possibilità di tassazione,
per la non inquadrabilità del fenomeno all’interno del tributo sulle successioni e donazioni
o di altri tributi putativi come quello sui “vincoli di destinazione”.
La precedente giurisprudenza della Suprema
Corte aveva dunque l’insuperabile difetto di
postulare un’imposta sulla mera costituzione di
vincoli di destinazione, finendo per colpire
qualsivoglia ipotesi destinatoria, dunque anche
quei vincoli estranei ad un assetto di interessi
liberale e comunque, nel caso in questo fosse
ravvisabile, non (ancora) espressivi di capacità
contributiva, data per l’appunto dall’arricchimento della sfera patrimoniale dei beneficiari.
L’insussistenza di un’imposta sulla mera costituzione di vincoli di destinazione appare allora
del tutto coerente rispetto alla ricostruzione
del trust liberale come particolare ipotesi di donazione indiretta, cioè quale strumento in grado di produrre, con la devoluzione finale dei
beni conferiti al trust, il programmato arricchimento dei beneficiari. Si noti che in questo
modo la liberalità indiretta non sfugge alla tassazione, essendo soltanto - correttamente - postergata al momento in cui la stessa realizzerà i
suoi effetti nella sfera del beneficiario, senza
dunque costringere quest’ultimo a una anticipazione di imposte su beni non di sua proprietà, e che potrebbe anche non ricevere mai (si
pensi all’ipotesi in cui il trust non abbia ancora
dei beneficiari determinati, al perimento dei
beni in trust o alla diminuzione del loro valore,
all’ipotesi di revoca del trust, e via discorrendo).
Appare dunque corretto, ed estensibile ad ogni
imposta (non solo quelle ipotecarie e catastali,
ma altresì il tributo sulle successioni e donazioni) e ad ogni ipotesi di trust liberale (e non solo a quello autodichiarato), il principio di diritto affermato dalla Corte, secondo cui in occasione degli atti di dotazione non deve trovare applicazione l’imposta proporzionale perché
“la fattispecie si inquadra in quella di una donazione indiretta cui è funzionale la ‘segregazione’ quale effetto naturale del vincolo di destinazione, una ‘segregazione’ da cui non deriva
quindi alcun reale trasferimento di beni e arricchimento di persone, trasferimento e arricchimento che dovrà invece realizzarsi a favore
dei beneficiari, i quali saranno perciò nel caso
successivamente tenuti al pagamento dell’imposta in misura proporzionale”.
Come si vede, seguendo questa condivisibile
prospettazione, non vi è alcuna sottrazione agli
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obblighi tributari insiti negli esiti del programma negoziale del trust liberale, ma soltanto il
giusto riconoscimento che le imposte dovranno essere applicate solamente quando si realizzerà in concreto l’arricchimento a favore dei
beneficiari finali, all’atto della devoluzione del
trust fund.
Si spera che, con questa pronuncia, sia davvero
calato il sipario sull’ineffabile e incostituzionale imposta sui vincoli di destinazione!
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Redditi di capitale
Presunzione di onerosità
per i versamenti socio-società
Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016 (12 maggio 2016), n. 17839 - Pres. Cappabianca
- Rel. Cricenti
Redditi di capitale - Determinazione - Versamenti dei soci alla società - Presunzione di onerosità - Sussistenza - Prova contraria a carico del contribuente - Ammissibilità - Dimostrazione dell’iscrizione in bilancio del
versamento a titolo diverso dal mutuo - Necessità
I versamenti dei soci alla società si presumono, ex lege, onerosi. In caso di mancato superamento
della presunzione legale, gli interessi attivi, al pari di quelli prodotti da qualsiasi finanziamento a
terzi, concorrono a formare il reddito prodotto dall’impresa (individuale o collettiva). La presunzione di onerosità del prestito è superabile soltanto nei modi e nelle forme tassativamente stabilite
dalla legge, in particolare dimostrando che i bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società contemplano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo.
Ritenuto in fatto
Motivi della decisione
A seguito di verifica presso la società B., la Guardia
di Finanza appurava che la società era partecipata da
soli due soci, padre e figlio, e amministrata da altro
parente; che dal 1994 al 2000 era stato convenuto
che i soci non incassassero gli utili realizzati, lasciandoli nella disponibilità della società.
Da tale verifica l’Agenzia ha dedotto che la rinuncia
alla riscossione degli utili costituisse per i soci un finanziamento a favore della società, che dunque era
da presumere avesse corrisposto gli interessi ai finanziatori.
Nei confronti di questi ultimi dunque il Fisco ha operato rettifica del reddito e rideterminazione delle imposte.
La Commissione provinciale ha accolto il conseguente ricorso dei soci e della società, con decisione confermata dalla Commissione regionale.
Su ricorso dell’Agenzia questa Corte con sentenza n.
10031/2009 ha cassato la decisione di appello con
rinvio.
La Commissione regionale, in diversa composizione,
ha dunque nuovamente deciso escludendo che la
mancata riscossione degli utili potesse configurare un
finanziamento fruttifero a favore della società.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione
l’Agenzia, proponendo due motivi di censura.
Resistono con controricorso la società ed i soci.
La decisione impugnata, nell’attenersi al principio di
diritto affermato dalla precedente decisione di questa
Corte, ha ribadito la presunzione legale (art. 43, ora
D.P.R. n. 917/1986, art. 46) di mutualità ed onerosità
del lascito a favore della società. Ha ritenuto, però,
questa presunzione superata dal fatto che la somma
non era iscritta a bilancio come mutuo ricevuto dai
soci; che non vi fossero esigenze finanziarie della società, tali da richiedere un mutuo ai soci; che le somme sono state poi reinvestite in obbligazioni fruttifere.
1. - Con il primo motivo l’Agenzia denuncia violazione dell’art. 384 c.p.c. Sostiene che questa Corte
aveva cassato la precedente sentenza di merito affermando il principio di diritto per cui l’assenza di indebitamento della società non era da sola sufficiente a
smentire la presunzione che quest’ultima avesse ricevuto dai soci un finanziamento.
Il motivo è fondato.
In sostanza la Corte, con la precedente sentenza, aveva cassato la decisione di appello, ritenendo insufficiente il solo dato dell’assenza di bisogni finanziari
della società, elemento che era stato addotto a dimostrazione del fatto che non si trattasse di un finanziamento; ed aveva chiesto ai giudici di rinvio di cercare altri ed ulteriori elementi.
A fronte di tale principio di diritto, occorreva addurre elementi sufficienti a smentire la presunzione di
legge.
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Legittimità
È infatti regola affermata da questa Corte che i versamenti dei soci alla società si presumono onerosi, e
non fa differenza che siano fatti dal socio persona fisica o dal socio imprenditore, “non facendo la norma
cenno alcuno ad una pretesa natura di persona solo
fisica” dei soci destinatari della presunzione ed essendo tale limitazione, in carenza di qualsivoglia concreto elemento di differenziazione, contraria ad una interpretazione normativa coerente con i precetti dettati dagli artt. 3 e 53 Cost., in quanto finirebbe per
trattare diversamente situazioni economiche identiche”. L’onerosità del versamento è dunque presunta:
“ne consegue che, in caso di mancato superamento
della presunzione legale, gli interessi attivi, al pari di
quelli prodotti da qualsiasi finanziamento a terzi,
concorrono a formare il reddito prodotto dall’impresa
(individuale o collettiva), come espressamente previsto dal D.P.R. n. 917 cit., art. 45, e confermato dall’art. 95, nella parte in cui considera il reddito complessivo delle società quale reddito d’impresa “da
qualsiasi fonte provenga” (Sez. 5, n. 12251/2010).
Ciò detto, la presunzione di onerosità del prestito
non è vincibile con ogni mezzo, “ma soltanto nei modi e nelle forme tassativamente stabilite dalla legge,
in particolare dimostrando che i bilanci allegati alle
dichiarazioni dei redditi della società contemplavano
un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo”.
(Sez. 5, n. 16445/2009).
Conseguentemente, da un lato è irrilevante, per superare la presunzione, che le somme siano state utilmente investite, circostanza che non può di certo significare che sono state gratuitamente elargite dai soci; dall’altro la presunzione può essere vinta, come si
è detto, solo in ragione di precisi elementi, ossia fornendo la dimostrazione richiesta della iscrizione in
bilancio del versamento come fatta a titolo diverso
dal mutuo.
L’accoglimento di questo primo motivo assorbe l’esame di quello successivo. Il ricorso va pertanto accolto
e la sentenza cassata con rinvio ad altro collegio della
Commissione tributaria che si atterrà al principio di
diritto sopra enunciato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria di secondo
grado di Trento, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese.
La Cassazione torna, con piglio creativo, sulla vexata quaestio
della presunzione di fruttuosità dei mutui socio/società
di Matteo Fanni (*)
La Suprema Corte torna, ancora una volta, con sentenza n. 17839/2016, su una tematica già affrontata in numerose occasioni nell’ultimo quinquennio. Dopo una serie di pronunce che, finalmente, sembravano aver “aggiustato il tiro”, la sentenza rievoca una visione distorta del rapporto tra le presunzioni riferite al titolo dei trasferimenti di denaro dal socio alla società e quelle relative all’onerosità dei finanziamenti. A differenza di quanto avvenuto finora, la sentenza non si
limita ad affermare - sbagliando - che la presunzione di onerosità del mutuo può essere vinta solo attraverso una espressa indicazione contraria contenuta nei bilanci della mutuataria, ma giunge addirittura a stabilire - senza alcuna base giuridica - che la stessa gratuità dell’erogazione del
socio potrebbe essere provata solo dimostrando che la dazione è avvenuta a titolo diverso dal
mutuo. La sentenza giunge così ad affermare, implicitamente, che, in presenza di un mutuo, la
sua fruttuosità sarebbe assistita da una presunzione assoluta, non superabile dal contribuente.
In precedenti occasioni (1), si è già avuto modo di esaminare l’inspiegabile orientamento as-
sunto dalla Suprema Corte in merito alle presunzioni relative al titolo del trasferimento di
(*) Avvocato in Milano, Bonelli Erede, Managing associate Dottore di ricerca in Diritto tributario presso l’Università di Milano Bicocca
(1) Cfr. M. Fanni, “La presunzione legale di onerosità dei
mutui tra prova contraria libera (di fonte normativa) e vincolata
(di fonte giurisprudenziale)”, in Rass. trib., 2011, pag. 170 ss.,
“La Cassazione rivaluta i propri precedenti su presunzione di
onerosità e ‘transfer pricing’ in una pronuncia sui finanziamenti infragruppo”, in questa Rivista, 2015, pag. 322 ss. e, da ultimo, “Presunzione legale di onerosità dei mutui socio/società:
la prova contraria è libera”, in Corr. Trib., 2015, pag. 3902 ss.
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somme di denaro dal socio in favore della società, alla fruttuosità del mutuo e, infine, al
tempo e alla misura degli interessi.
L’esame della problematica presuppone un breve richiamo alle norme di riferimento che, come si vedrà, sembrano essere state, ancora una
volta, non adeguatamente interpretate dalla
Cassazione.
Presunzioni relative al trasferimento
di denaro dai soci alla società
Rileva, in primo luogo, l’art. 46 T.U.I.R., il
quale dispone che le somme versate dai soci o
partecipanti alle società commerciali e agli enti di cui all’art. 73, comma 1, lett. b), del
T.U.I.R. “si considerano date a mutuo se dai
bilanci o rendiconti di tali soggetti non risulta
che il versamento è stato fatto ad altro titolo”.
La norma menzionata introduce dunque una
presunzione legale relativa al “titolo” del “versamento dei soci” (che si presume essere il mutuo), e prevede che tale presunzione possa essere superata solo fornendo una specifica prova
contraria (espressa indicazione, nel bilancio
della mutuataria, che il versamento è stato fatto a titolo diverso dal mutuo). La presunzione
in esame è riconducibile alla categoria delle
c.d. presunzioni legali miste (2) o “a prova
contraria vincolata”.
La seconda norma da prendere in considerazione è l’art. 1815 c.c., ove si stabilisce che, “salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario
deve corrispondere gli interessi al mutuante.
Per la determinazione degli interessi si osservano le disposizioni dell’art. 1284 c.c.” (3). La
norma civilistica appena citata prevede una
presunzione legale relativa di fruttuosità dei
mutui. In assenza di diversa indicazione normativa, la prova contraria attraverso cui può
essere superata tale presunzione è libera. L’uni(2) Per una distinzione tra le diverse tipologie di presunzione
e le modalità di superamento cfr. M. Fanni, “I poteri istruttori e
la prova nel processo tributario”, par. 12 “Le presunzioni”, in
Tesauro (a cura di), Codice commentato del processo tributario,
UTET, 2016, II edizione, pag. 134 ss.
(3) Sul versante civilistico, l’art. 1284 c.c. stabilisce - in sintesi - che gli interessi si computano al saggio legale, salvo che
le parti abbiano pattuito una diversa misura.
Su quello fiscale, con un maggior grado di dettaglio, l’art.
44
co parametro di valutazione, affidato al giudice, è la capacità dimostrativa del mezzo di prova offerto.
Infine, per quanto riguarda il momento di percezione degli interessi e la loro misura vigono
le presunzioni recate dagli artt. 1284 c.c. e 45
del T.U.I.R., anch’esse a prova contraria libera.
Nonostante l’estrema linearità del “menù” e la
presenza - tutto sommato - di ingredienti assai
semplici, la combinazione di tali ingredienti è
stata spesso trasformata dalla Cassazione in
una “pietanza” spiacevole per i contribuenti,
nella quale si sono persi totalmente il senso e
il gusto del “piatto” originario. Ed infatti, in
più occasioni, la Corte ha deciso fattispecie incentrate sulla tematica della gratuità/fruttuosità del mutuo verificando se, agli atti, fosse presente il bilancio della società e se quest’ultimo
indicasse espressamente la non onerosità del
mutuo. Peccato che, come si è visto, tale “prova contraria vincolata” sia prevista dall’art. 46
del T.U.I.R. unicamente al fine di vincere la
presunzione inerente al “titolo” della dazione
delle somme da parte del socio in favore della
società: presunzione, questa, diversa e logicamente antecedente alla presunzione di fruttuosità del mutuo, che può invece essere vinta
con prova contraria libera.
Tale errore, reiterato dal giudice di legittimità,
ha determinato la decisione pro Fisco di numerose controversie, nelle quali, assai spesso, non
era neanche in discussione il titolo della erogazione (che le parti individuavano nel mutuo),
bensì, unicamente, la fruttuosità/gratuità della
stessa. Si è così susseguita una serie di pronunce che confermavano la ripresa a tassazione di
presunti interessi attivi in capo al socio mutuante o la mancata applicazione di ritenute su
tali interessi da parte della società finanziata,
perché la gratuità del mutuo, spesso conferma45 del T.U.I.R. (“Determinazione del reddito di capitale”) stabilisce, al comma 2, che “per i capitali dati a mutuo gli interessi,
salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e
nella misura pattuite per iscritto. Se le scadenze non sono pattuite per iscritto gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta. Se la misura non è
determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale”.
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ta da altre evidenze (non ultima la contabilità
del mutuante chiamato in giudizio o l’esistenza
di lettere commerciali), non risultava espressamente indicata nei bilanci della società mutuataria. O, più semplicemente, perché i bilanci
non risultavano prodotti agli atti, sicché non
vi era prova dell’eventuale qualificazione del
mutuo (4) in tali documenti.
L’orientamento suindicato sembrava essere stato superato da alcune recenti pronunce che, ripristinando la corretta interpretazione dei precetti normativi che regolano la materia, riaffermavano la “libertà” di prova contraria - ex art.
1815 c.c. - rispetto alla presunzione di fruttuosità dei mutui. In particolare, la sentenza del
19 dicembre 2014, n. 27087, dopo una lunga
sequenza di sentenze contrarie, riconosceva il
diritto del mutuante - una società di capitali di fornire adeguata prova contraria - senza limite alcuno - della statuita gratuità del finanziamento erogato alla propria controllata.
La suindicata libertà di prova contraria veniva
riaffermata, poco dopo, dalla sentenza del 4
febbraio 2015, n. 1976. Partendo dal presupposto, innegabile, dell’esistenza di una presunzione di onerosità del mutuo socio/società, la sentenza osservava che la stessa “può essere superata da una specifica prova da parte del contribuente di una diversa pattuizione tra le parti,
nel senso di una gratuità della prestazione”.
Nessun riferimento, dunque, ad una “prova
contraria vincolata” - come nei precedenti negativi già evocati - ed ai limiti così surrettiziamente imposti ai contribuenti (5).
La sentenza in esame, non soltanto ripropone
l’indigesta ricetta scaturita dalla non corretta
mescolanza delle disposizioni sopra esaminate,
ma la “radicalizza” ancor più e la fa inoltre precedere da una velenosa entrée, consistente nell’assimilazione della mancata distribuzione dei
dividendi ad un finanziamento.
La fattispecie decisa dalla Corte vedeva coinvolta una S.r.l. a ristretta base societaria. Dal
“fatto” si evince che i due soci avevano stabilito, di comune accordo, e per un certo numero
di anni, di non riscuotere l’utile prodotto affinché fosse reinvestito nella società. Le somme,
dunque, restavano nella sfera sociale, senza
mai entrare nella disponibilità dei soci.
Nonostante non vi fosse alcuna fuoriuscita di
somme dalla sfera sociale, l’Agenzia ipotizzava
che il patto stipulato tra i soci dissimulasse, di
fatto, un finanziamento alla società, da ritenersi - ça va sans dire - fruttifero. Per l’effetto, la
società avrebbe dovuto operare delle ritenute ovviamente non effettuate - sul presunto reddito che s’ipotizzava spettante ai soci a titolo
d’interessi.
A quanto è dato comprendere, il giudice di secondo grado, accettata l’entrée appena descritta, aveva rimandato in cucina il piatto principale, riconoscendo che, nonostante l’astratta
applicabilità al caso in esame della presunzione
legale inerente al “titolo” (mutuo) e di quella
inerente alla fruttuosità dello stesso, quest’ultima poteva ritenersi superata dalla considerazione che la somma non era iscritta nel bilancio
della società come mutuo ricevuto dai soci;
che non vi fossero esigenze finanziarie della società a corroborare la tesi dell’Ufficio; che le
somme erano state effettivamente reinvestite
dalla S.r.l. in obbligazioni fruttifere.
Al di là dell’esistenza di forti perplessità in ordine al contenuto del motivo di ricorso proposto dall’Avvocatura (che parrebbe, a leggere la
sentenza, manifestamente inconferente rispetto
al contenuto della decisione di seconde cure
come richiamata dalla stessa Corte), la Cassazione accoglie il suindicato ricorso e rimette le
parti davanti al giudice di merito sulla base dei
seguenti presupposti: i) “è regola affermata da
questa Corte che i versamenti dei soci alla società si presumono onerosi, e non fa differenza
che siano fatti dal socio persona fisica o dal socio imprenditore”; ii) “l’onerosità del versa-
(4) Per una critica più approfondita di tale posizione giurisprudenziale, sia dato rinviare al primo scritto citato alla nota
1.
(5) Sono da ascrivere al filone favorevole - perché, in negati-
vo, non menzionano la necessità di opporre una “prova contraria vincolata” alla presunzione di fruttuosità del mutuo - anche Cass., 26 giugno 2015, n. 13270 e Id., 7 ottobre 2015, n.
20035.
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Presunzione assoluta di fruttuosità
dei mutui socio/società?
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mento è presunta: ne consegue che, in caso di
mancato superamento della presunzione legale,
gli interessi attivi, al pari di quelli prodotti da
qualsiasi finanziamento a terzi, concorrono a
formare il reddito prodotto dall’impresa (individuale o collettiva), come espressamente previsto dal D.P.R. n. 917/1986”; iii) “la presunzione di onerosità del prestito non è vincibile
con ogni mezzo, ma soltanto nei modi e nelle
forme tassativamente stabilite dalla legge, in
particolare dimostrando che i bilanci allegati
alle dichiarazioni dei redditi della società contemplavano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo (Sez. 5, n. 16445/2009)”.
Come facilmente intuibile, è un crescendo ad
esito del quale il contribuente viene sorpreso
dall’elaborazione di un nuovo principio di diritto totalmente avulso rispetto alle poche norme che regolano la materia. La Corte conclude, infatti, che “la presunzione [di onerosità,
N.d.R.] può essere vinta, come si è detto, solo
in ragione di precisi elementi, ossia fornendo
la dimostrazione richiesta della iscrizione in bilancio del versamento come fatta a titolo diverso dal mutuo”.
La confusione, con la sentenza in commento,
sembra avere raggiunto il suo punto più alto.
A leggere la terza affermazione riportata (iii),
ripresa anche dalla conclusione, l’onerosità del
mutuo parrebbe infatti trasformarsi addirittura
in una presunzione assoluta (iuris et de iure),
“aggirabile” solo dimostrando che le somme
stesse sono state trasferite a “titolo” diverso dal
finanziamento.
Poiché il “titolo” è assistito, come già indicato,
da una “presunzione legale mista” (o a “prova
contraria vincolata”), seguendo tale impostazione, il risultato finale è che tutti i trasferimenti di denaro da parte del socio in favore
della società sarebbero da ritenersi “a titolo di
mutuo” e, conseguentemente, “onerosi”, salvo
che il bilancio della società che riceve il denaro non indichi che il versamento fu operato a
titolo diverso dal mutuo (6) (in via meramente
esemplificativa, di aumento di capitale, versamento a fondo perduto etc.). O è mutuo, o
non è mutuo. Se è tale, non può che essere
fruttifero (!). La sentenza cancella dunque con due affermazioni convergenti, che replicano il concetto - l’ipotesi stessa della esistenza
di un mutuo non fruttifero.
Niente di più lontano, dunque, dalla semplice
esegesi delle norme rilevanti con la quale si è
aperto il presente scritto.
(6) Le diverse possibili cause giustificative del trasferimento
sono dettagliatamente esaminate da Cass., n. 27087/2014, in
questa Rivista, n. 4/2015, pag. 322 ss., con commento di M.
Fanni. La stessa sentenza individua l’essenza del mutuo nella
circostanza che il socio mutuante vanta un diritto soggettivo di
credito alla restituzione della somma nei confronti della società, obbligata ad adempiere indipendentemente dalle vicende
del rapporto sociale e dallo scioglimento dell’ente collettivo.
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Equiparazione della mancata riscossione
dei dividendi a un finanziamento
La sentenza, a ben vedere, contiene un altro,
meno evidente, elemento di rilievo.
Il casus belli non nasce, infatti, da un classico
finanziamento socio-società, poiché le somme
che l’Agenzia delle entrate ha ritenuto produttive di interessi a favore dei soci erano, ab origine, in possesso della società. Si trattava, infatti, di utili societari che, in base a uno specifico accordo, non erano stati riscossi dai due
soci della s.r.l. a ristretta base societaria.
Nella ricostruzione in “fatto”, la sentenza menziona, dapprima, la circostanza che “dal 1994
al 2000 era stato convenuto che i soci non incassassero gli utili realizzati, lasciandoli nella
disponibilità della società”. Nella frase successiva si richiama la deduzione dell’Agenzia in
base alla quale “la rinuncia alla riscossione degli utili costituiva per i soci un finanziamento
a favore della società”.
Sarebbe stato rilevante chiarire se dell’utile
prodotto dalla società fosse stata, comunque,
anno per anno, deliberata la distribuzione. Solo in questo caso, infatti, l’assimilazione ad un
finanziamento - benché discutibile, soprattutto
alla luce delle conseguenze che l’Agenzia ne fa
discendere - sarebbe - a determinate condizioni
- accettabile. L’idea è che le somme di cui si è
deliberata la distribuzione “escano” dal patrimonio giuridico della società e che, per mezzo
della temporanea rinuncia alla riscossione, vi
rientrino sotto forma di finanziamento, con ac-
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censione - in bilancio - di una voce di debito
nei confronti dei soci (7).
In assenza di una delibera di distribuzione, al
contrario, l’ipotesi di assimilazione diventa giuridicamente insostenibile. L’utile della società
resterebbe infatti tale, senza alcun mutamento
della titolarità giuridica del sottostante. In
quest’ultima ipotesi è impossibile ravvisare un
finanziamento socio-società, poiché non si può
trasferire qualcosa di cui non si dispone in senso giuridico. Laddove la decisione sia nel senso
di non distribuire l’utile sociale e di reinvestirlo, i soci beneficeranno - al più - di un accrescimento del valore della società e, se l’investimento darà i suoi frutti, circostanza nient’affatto scontata, di maggiori utili futuri.
Come anticipato, la Corte non chiarisce in
dettaglio la ricostruzione del fatto e non consente, dunque, di valutare la legittimità delle
premesse (l’entrée) di tale assimilazione.
Considerazioni conclusive
Si era recentemente salutato, con favore, l’apparente revirement operato dalla Corte in merito alla tematica, più volte trattata, delle presunzioni relative al titolo del trasferimento delle somme socio-società, e alla gratuità-fruttuosità dei finanziamenti tra gli stessi intercorsi.
Riletto il testo delle due norme che regolano
la materia - l’art. 46 del T.U.I.R. e l’art. 1815
c.c. -, il giudice di legittimità sembrava avere
finalmente distinto la presunzione che necessita di una prova contraria vincolata (relativa al
“titolo” di dazione delle somme) dalla presun-
(7) Diverso sarebbe laddove la rinuncia fosse definitiva. In
quel caso mancherebbe, infatti, l’obbligo di restituzione del
tantundem e la scelta sarebbe assimilabile - a seconda delle
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zione che, invece, è superabile con qualsiasi
mezzo di prova (relativa alla fruttuosità del
mutuo). La sentenza in esame non soltanto ci
riporta al periodo in cui la Corte confondeva,
inspiegabilmente, quale fosse il reale oggetto
della prova contraria vincolata e, per contro, di
quella libera, ma giunge addirittura ad affermare - in una sorta di paradosso in cui i “principi
di diritto” prescindono dal diritto - che l’unico
modo per dimostrare la natura gratuita del finanziamento sarebbe provare che ... non si è
in presenza di un finanziamento!
Tornando al lessico e all’immaginario culinario
già più volte evocati nel presente scritto, la
sensazione è che la Corte si comporti, a volte,
come uno di quei cuochi molecolari che si
compiace nel trasformare la materia prima (in
specie il diritto) in qualcosa di irriconoscibile
e non necessariamente migliore rispetto agli
ingredienti di partenza.
L’unica speranza, a questo punto, è che la pronuncia resti isolata. Che il menù, entrée compresa, non sia più riproposto e che la Cassazione - come già, peraltro, precedentemente avvenuto - recuperi il significato letterale delle norme rilevanti - l’art. 46 del T.U.I.R. e l’art.
1815 c.c. - e ne sappia riproporre il significato
autentico, lasciando che siano le parti ed i giudici - secondo le prove disponibili ed il loro
grado di rilevanza - a decidere se una determinata erogazione, scientemente effettuata a titolo di mutuo, debba ritenersi gratuita od onerosa, con tutti i conseguenti effetti di legge.
circostanze - ad un versamento in conto capitale, a fondo perduto, ecc.
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Processo tributario
Questioni aperte sull’impugnabilità
del diniego di autotutela
Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016 (6 giugno 2016), n. 16769 - Pres. Bielli - Rel. Tricomi
Processo tributario - Atti impugnabili - Diniego di autotutela parziale - Impugnabilità - Sussistenza - Ragioni
di rilevante interesse generale prospettate dal ricorrente - Necessità
Il diniego di autotutela parziale è impugnabile, ma il relativo giudizio non riguarda la fondatezza
della pretesa manifestata con l’atto impositivo divenuto definitivo (nel caso, una cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato), il cui esame deve ritenersi definitivamente
precluso, quanto, piuttosto, la legittimità del rifiuto in ragione dell’esistenza di un interesse generale alla rimozione dell’atto che giustifica l’esercizio del potere di autotutela. In particolare, nel giudizio instaurato contro il diniego di sgravio in autotutela, il sindacato giurisdizionale può esercitarsi
soltanto sulla legittimità del diniego stesso da parte dell’Amministrazione finanziaria, in relazione
alle ragioni di rilevante interesse generale, che vanno specificamente prospettate dal ricorrente.
Il testo della sentenza
può essere richiesto a
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Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez. IV, Ord. 1° luglio 2016 (5 aprile 2016), n. 454
- Pres. Marsella - Rel. Gialloreto
Processo tributario - Autotutela - Istanza - Obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adozione di un provvedimento amministrativo espresso - Inesistenza - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza - Impugnabilità del silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria - Mancata previsione
- Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2quater, rubricato “Autotutela”, comma 1, del D.L. n. 564/1994, per contrasto con gli artt. 53, 23, 3,
24, 113 e 97 della Costituzione, nella parte in cui non prevede, né l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento amministrativo espresso sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente, né l’impugnabilità - da parte di questi - del silenzio tacito su tale istanza. È, altresì, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
19, rubricato “Atti impugnabili e oggetto del ricorso”, comma 1, del D.Lgs. n. 546/1992, per contrasto con gli artt. 24, 113, 53, 23 e 3 Cost., nella parte in cui non prevede l’impugnabilità, da parte del
contribuente, del rifiuto tacito dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela proposta
dal medesimo.
Il testo dell’ordinanza
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Incertezze sui rimedi esperibili
avverso il diniego parziale e tacito di autotutela
di Graziella Glendi (*)
Con la sentenza n. 16769/2016, la Suprema Corte, riconoscendo l’impugnabilità del diniego parziale di autotutela, si è posta in contrasto con le precedenti pronunce che l’avevano negata.
Benché la decisione in commento non ne faccia cenno, va rilevato che il legislatore, con l’art.
11 del D.Lgs. n. 159/2015, è intervenuto sull’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994, in tema di autotutela, inserendovi il comma 1-octies, secondo cui l’annullamento o la revoca parziale dell’atto
impositivo disposti in autotutela non sono impugnabili. Inoltre, con l’ordinanza n. 454/2016, la
Commissione tributaria provinciale di Chieti ha sollevato questione di legittimità costituzionale
del suddetto art. 2-quater, nella parte in cui non prevede l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento espresso, a fronte dell’istanza di autotutela presentata dal contribuente, oltre che del medesimo articolo, unitamente all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, nella
parte in cui essi non prevedono l’impugnabilità del diniego tacito. Permangono, dunque, incertezze in materia, sia con riguardo all’impugnativa del diniego parziale, sia con riguardo all’impugnabilità del diniego di autotutela in generale.
Il primo riconoscimento dell’impugnabilità
del diniego di autotutela
L’itinerario seguito nell’ultimo decennio dalla Suprema Corte sulla questione dell’autonoma impugnabilità o meno del provvedimento di diniego di autotutela in materia tributaria è piuttosto singolare e merita di essere ripercorso, sia per il corollario cui ha dato
origine, costituito dalla creazione della categoria degli atti autonomamente impugnabili
in via facoltativa, sia per l’individuazione
dell’effettiva tutela che il contribuente si possa vedere riconosciuta dall’affermata impugnabilità, alla luce dei principi costituzionali
di effettività e proporzionalità del prelievo fiscale, di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, oltre che del diritto di difesa del cittadino. Tenuto conto, sotto quest’ultimo profilo, che, ora, il legislatore delegato, con l’art. 11 del D.Lgs. n. 159/2015, si è
chiaramente manifestato per la non impugnabilità dei provvedimenti di annullamento o
revoca parziali dell’atto impositivo adottati
in autotutela.
All’inizio di questo iter evolutivo sta la sentenza, a Sezioni Unite, del 10 agosto 2005, n.
16776 (1), con la quale la Suprema Corte aveva riconosciuto la giurisdizione del giudice tributario anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il diniego, espresso o tacito, dell’Amministrazione di procedere ad autotutela.
A fondamento di detta statuizione, le Sezioni
Unite avevano assunto che la riforma del
2001, sull’allargamento della giurisdizione tributaria di cui all’art. 2 del D.Lgs. n.
546/1992 (2), avrebbe “necessariamente comportato” una modifica della lettura dell’art. 19
del medesimo Decreto legislativo, in quanto
l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario per ogni controversia avente ad oggetto
tributi, avrebbe consentito una interpretazione
estensiva dell’elencazione in esso contenuta,
proprio al fine di individuare altri atti che il
contribuente avrebbe avuto interesse a contestare ai sensi dell’art. 100 c.p.c.
(*) Avvocato in Genova
(1) Pubblicata in questa Rivista, n. 11/2005, pag. 1005, con
commento di F. Cerioni, “Procedimento di autotutela, dovere
di riesame e tutela giurisdizionale in ambito tributario”, e in
Rass. giur., n. 5/2005, pag. 1732, con nota di S. Donatelli, “Osservazioni critiche in tema di ammissibilità dell’impugnazione
del diniego di autotutela innanzi le Commissioni tributarie”.
(2) Generalizzazione della giurisdizione tributaria a tutti i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati, effettuata
con la modifica dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, tramite l’art.
12, comma 2, della Legge n. 448/2001, e, poi, completata con
la Legge n. 248/2005.
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Nonostante sia evidente, come da più Autori
rilevato (3), che la questione della giurisdizione, finalizzata a delimitare i confini di operatività della materia tributaria, rispetto a quella
amministrativa e ordinaria, fosse, e tutt’ora sia,
ben diversa dalla questione relativa alla modalità di accesso al giudice, all’interno della giurisdizione tributaria, strutturata, con l’art. 19 del
D.Lgs. n. 546/1992, tramite la predeterminazione normativa di atti di cui il legislatore si
era riservato la valutazione della sussistenza
dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., questa
decisione delle Sezioni Unite, come è noto,
aveva fornito lo spunto per quella che è l’ormai consolidata prospettazione giurisprudenziale di una nuova singolare categoria di atti
autonomamente impugnabili, ossia degli atti
impugnabili in via facoltativa (4).
Per quanto riguarda specificamente l’autotutela, le Sezioni Unite, con la successiva sentenza
27 marzo 2007, n. 7388 (5), avevano riconfermato la giurisdizione del giudice tributario,
piuttosto che del giudice amministrativo, allorquando si trattasse di tributi, evidenziando, comunque, come il sindacato sul provvedimento
di rigetto in autotutela dovesse riguardare
esclusivamente la verifica del corretto esercizio
del potere discrezionale dell’Amministrazione,
nei limiti e nei modi in cui è consentita, non
potendo mai il giudice sostituirsi all’Amministrazione medesima, emettendo esso stesso l’atto di autotutela. Si aggiungeva, inoltre, che,
qualora il giudice avesse verificato l’illegittimità del rifiuto, confermativo dell’originaria pretesa, l’Amministrazione avrebbe dovuto adeguarvisi e, in difetto, il ricorrente avrebbe potuto esperire il rimedio dell’ottemperanza. Va,
peraltro, sottolineato come l’affermata sindaca-
bilità e, conseguente, possibile annullamento
del diniego di autotutela fossero stati ricostruiti
a fronte di un provvedimento espresso. Inoltre,
non veniva chiarito, dandolo, piuttosto, per
scontato, in quale modo detto atto potesse essere inserito nell’elencazione contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992.
Poiché, peraltro, la ricostruzione della categoria degli atti facoltativamente impugnabili era
stata definita solo a far data dalla sentenza della Suprema Corte dell’8 ottobre 2007, n.
21045 (6), il sindacato sul provvedimento di
diniego di autotutela, riconosciuto mesi prima,
non poteva che leggersi nel senso di sindacato
su atto impugnabile tipico.
A tale proposito, va evidenziato come, in effetti, il provvedimento di diniego di autotutela
non abbia nulla a che fare con gli atti autonomamente impugnabili in via facoltativa. Questi ultimi, come ricostruiti dalla Suprema Corte, sono, infatti, caratterizzati dalla circostanza
di manifestare al contribuente una ben individuata pretesa tributaria, per cui, secondo la valutazione fattane dal giudice, sorge nel destinatario, fin dal momento della recezione della
notizia, l’interesse ex art. 100 c.p.c. a ricorrere
in giudizio, senza che sia necessario attendere
che la pretesa si vesta della forma autoritativa
di uno degli atti espressamente dichiarati impugnabili dal legislatore. Trattandosi, sempre a
dire della Suprema Corte, di una previsione di
impugnabilità a favore del contribuente, il
mancato esercizio di detta facoltà non dà luogo
a preclusione alcuna, per cui il contribuente
potrà pur sempre sindacare l’atto autoritativo
tipico, di cui quello atipico aveva preannunciato la pretesa, una volta che gli venga notificato.
(3) Si rinvia, in proposito, alle pregnanti osservazioni di L.
Ferlazzo Natoli, “Considerazioni critiche sull’impugnazione facoltativa”, Postilla allo scritto di G. Ingrao, “Prime riflessioni
sull’impugnazione facoltativa nel processo tributario (a proposito di impugnabilità di avvisi di pagamento, comunicazioni di
irregolarità, preavvisi di fermo di beni immobili e fatture)”, in
Riv. dir. trib., n. 12/2007, segnatamente, a pag. 1114, nonché
a C. Glendi, “Impugnazione del diniego di autotutela e oggetto
del processo tributario”, in questa Rivista, n. 6/2009, pag. 473.
(4) Sulla genesi e sui limiti della ricostruzione della categoria
degli atti facoltativamente impugnabili, si rimanda a G. Glendi,
“I giudici di merito (e non solo) si ‘ribellano’ alle ‘ultime parole’
delle Sezioni Unite sul contraddittorio”, in Corr. Trib., n.
20/2016, in particolare, alle pagg. 1573 e 1574.
(5) Pubblicata in questa Rivista, n. 6/2007, pag. 479, con il
commento di A. Vozza, “Il diniego di autotutela può impugnarsi solo per eventi sorti dopo la notifica dell’atto impositivo”, in
Giur. it., n. 12/2007, pag. 2883, con nota di M. Turchi, “La problematica impugnabilità del diniego di autotutela in materia tributaria nuovamente all’esame delle Sezioni Unite”, e in Boll.
trib., n. 14/2007, pag. 1223, con il commento di F. Cerioni, “Il
sindacato sulla legittimità del diniego di autotutela spetta sempre ai giudici tributari”.
(6) In questa Rivista, n. 6/2008, pag. 507, con nota critica di
G. Tabet, “Verso la fine del principio di tipicità degli atti impugnabili?”.
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Legittimità
Il provvedimento di diniego di autotutela, al
contrario, non anticipa nulla, ma, anzi, segue
la manifestazione della pretesa, già realizzata
attraverso la notifica dell’atto impositivo tipico, limitandosi a confermarla, in tutto o in
parte, sicché, se sindacabile davanti al giudice,
non può che venire inquadrato quale atto impugnabile tipico, non essendo prospettabile altro rimedio alla sua eliminazione.
Come rilevato in dottrina, la collocazione nell’ambito dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 poteva, dunque, essere ricondotta alla previsione
della lett. i), riguardante “ogni altro atto per il
quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle Commissioni tributarie”,
traendo dalla disciplina in tema di autotutela
tributaria, ovvero dall’art. 2-quater, in particolare, al comma 1-quinquies, del D.L. n.
564/1994, e dalle disposizioni del D.M. n.
37/1997, elementi atti ad indicare una voluntas
legis in tal senso (7).
Di seguito, nel 2009, sono intervenute altre tre
pronunce delle Sezioni Unite, la n. 2870 (8),
la n. 3698, e la n. 9669 (9), ingenerando un
certo contrasto interpretativo. Pur ribadendo
la giurisdizione del giudice tributario, infatti, le
prime due avevano ritenuto non esperibile
un’autonoma tutela giurisdizionale nei riguardi
del diniego di autotutela, sia per la discrezionalità propria di questa attività, sia perché, diversamente opinando, si sarebbe dato ingresso ad
un riesame sulla legittimità di un atto impositivo divenuto definitivo. La terza, invece, aveva
dichiarato improponibile la domanda, solo perché il ricorrente non aveva dedotto vizi di legittimità del diniego, ma si era limitato a chiedere l’annullamento degli atti impositivi non
impugnati, allineandosi, dunque, al già esaminato percorso intrapreso dalle Sezioni Unite
sulla sindacabilità davanti al giudice del diniego di autotutela, tuttavia, esclusivamente circoscritta al profilo della sua legittimità, con riguardo all’interesse pubblico all’annullamento.
Quindi, la giurisprudenza della Suprema Corte
si era assestata su questa via, ritenendo sindacabile il diniego di autotutela, nei precisi limiti
di una censura di profili di illegittimità del diniego stesso, anche in caso di inerzia (10), senza che sia consentito al giudice scendere all’esame del merito sulla fondatezza della pretesa
azionata, posto che il giudice non può sostituirsi all’Amministrazione finanziaria nell’esercizio del potere di autotutela, rendendo, così,
di fatto, detto strumento scarsamente efficace
con riguardo all’atto impositivo in cui la pretesa si era estrinsecata (11).
(7) V., al riguardo, C. Glendi, Impugnazione del diniego di
autotutela e oggetto del processo tributario, loc. cit., pagg. 476
e 477, e, adesivamente, F. Cerioni, “L’autotutela tra ‘diritto
morente’ e ‘diritto vivente”, in questa Rivista, n. 7/2009, alla
pag. 592.
(8) Pubblicata in questa Rivista, n. 6/2009, pag. 501, con il
commento di F. Cerioni, “Il sindacato sull’esercizio del potere
di autotutela non può avere effetti sull’atto impositivo divenuto
definitivo”, in Corr. Trib., n. 15/2009, pag. 1230, con nota di M.
Basilavecchia, “Torna l’incertezza sul diniego di autotutela”; in
Dialoghi Trib., n. 2/2009, pag. 154, ed ivi i commenti di R. Lupi,
“Autotutela: una motivazione sconcertante per una soluzione
corretta” e di D. Stevanato, “Definitività dell’atto impositivo e
insindacabilità del potere di autotutela: un nuovo Leviatano?”,
nonché in Boll. trib., n. 7/2009, pag. 547, con nota di S. Muscarà, “La Cassazione chiude (apparentemente) le porte alla
tutela giurisdizionale in tema di diniego di autotutela”. Va sottolineato che, nella specie, si trattava di diniego di autotutela
relativamente ad atto di accertamento impugnato tramite ricorso dichiarato inammissibile dal giudice, con sentenza passata in giudicato, e le Sezioni Unite non avevano considerato
che il limite del giudicato, ai fini di escludere l’operatività dell’autotutela, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del D.M. n. 37/1997,
è costituito solo dal giudicato sul merito, e non in rito. Il dettato del comma 2, infatti, fa preciso riferimento ai “motivi sui
quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole
all’amministrazione”, che sottendono, appunto, l’esame del
merito da parte del giudice. In tal senso si è chiaramente pronunciata la stessa Amministrazione, con le circolari n.
195/E/1997 e n. 198/S/1998, oltre che la Direzione regionale
Entrate della Lombardia, con la nota n. 3/82993/1999, e la Direzione regionale della Toscana, con la Direttiva prot.
72483/99/T1/2000.
(9) In G.T. - Riv. giur trib., n. 7/2009, pag. 585, con il commento di F. Cerioni, “L’autotutela tra ‘diritto morente’ e ‘diritto
vivente’”, cit.
(10) Cass.., Sez. trib., 29 dicembre 2010, n. 26313, per l’appunto, in caso di mancata risposta dell’Amministrazione, come, più di recente, ribadito da Id., 30 ottobre 2015, n. 22253,
che ha precisato come l’impugnabilità del diniego di autotutela
davanti alle Commissioni tributarie riguardi anche l’eventuale
silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza.
(11) Va ricordata, in proposito, anche la funzione del Garante del contribuente, che, ai sensi dell’art. 13, comma 6, dello
Statuto dei diritti del contribuente, può attivare le procedure di
autotutela. Anche questa attribuzione, però, si risolve in un
mero invito, non potendo il Garante emettere atti di autotutela
in sostituzione dell’ente, come ben rimarcato da S. Capolupo,
“Garante del contribuente ed atti degli enti locali”, in il fisco, n.
23/2005, pag. 3467.
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51
L’ambito e i limiti del sindacato
sul diniego di autotutela
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Da ultimo, la Suprema Corte si è discostata da
questa via e ha intrapreso nuovi itinerari. In
particolare, con la sentenza 8 luglio 2015, n.
14243, la Corte di cassazione ha introdotto
una prospettazione diversa per ammettere l’impugnabilità del rifiuto di autotutela, fondata
sulla pronuncia delle Sezioni Unite n.
1667/2005, che, come sopra si è visto, rappresenta il punto di partenza, sia per il consentito
accesso al sindacato del diniego di autotutela
davanti al giudice tributario, sia per la ricostruzione della categoria degli atti facoltativamente impugnabili. Si è, infatti, affermato che, in
caso di annullamento parziale in autotutela di
un atto impositivo, non può essere negato al
contribuente di impugnare il diniego, “privandosi altrimenti il contribuente della possibilità
di difesa relativamente a tale atto, ancorché riduttivo dell’originaria pretesa”, proprio in forza
della “possibilità” di ricorrere avverso tutti gli
atti adottati dall’ente impositore “contenenti
la manifestazione di una compiuta e definita
pretesa tributaria, come nel caso di provvedimento di autotutela”, quali, appunto, sono gli
atti facoltativamente impugnabili. Con questa
decisione sembrerebbe, allora, che anche il diniego parziale di autotutela venga ricondotto
ad atto facoltativamente impugnabile. Tuttavia, la stessa Suprema Corte, allorquando ha
riconosciuto, per rafforzarne la ritenuta impugnabilità, che a detto provvedimento non consegue altro atto impositivo, avverso cui il contribuente possa far valere le sue ragioni, pare
mostrare una certa confusione circa il discrimen
tra gli atti autonomamente impugnabili tipici
e quelli in via facoltativa. Infatti, questi ultimi
sono, piuttosto, anticipatori della pretesa che
verrà, poi, rivestita dell’assetto autoritativo tipico, mentre quelli che, se non impugnati, diventano definitivi, senza che il destinatario
possa più esperire alcun rimedio, sono soltanto
i primi.
Il prospettato inserimento del diniego di autotutela parziale nella categoria degli atti facoltativamente impugnabili, in ragione dell’asserita
manifestazione compiuta e definita della pretesa impositiva per la parte che viene confermata, ha, quindi, provocato un ulteriore orientamento, questa volta di segno restrittivo, in termini di non impugnabilità.
Con le sentenze 15 aprile 2016, n. 7511 (15) e
6 luglio 2016, n. 13757, infatti, la Corte di
cassazione, richiamandosi all’orientamento
espresso con le decisioni delle Sezioni Unite n.
2870/2009 e n. 3698/2009, che, come detto,
(12) V., in tal senso, Comm. trib. prov. di Savona, Sez. IV, 20
gennaio 2009, n. 4, in questa Rivista, n. 7/2009, pag. 586, con
nota di F. Cerioni, “L’autotutela tra ‘diritto morente’ e ‘diritto
vivente’“, cit., loc. cit.; Id., Sez. II, 13 giugno 2011, n. 114; Id.,
Sez. V, 23 marzo 2012, n. 30; Comm. trib. prov. di Taranto,
Sez. VI, 25 marzo 2009, n. 144; Comm. trib. II grado TrentinoAlto Adige, Sez. I, 26 febbraio 2015, n. 34; Comm. trib. reg. Sicilia, Sez. XVII, 15 luglio 2015, n. 3177, nella quale si individua
specificamente in che termini l’Amministrazione avrebbe dovuto provvedere.
(13) Comm. trib. reg. Puglia, Sez. VII, 11 gennaio 2011, n.
11; Comm. trib. prov. di Campobasso, Sez. I, 16 giugno 2014,
n. 195; Comm. trib. reg. Lombardia, Sez. XXXVIII, 19 maggio
2015, n. 2088.
(14) Cass., Sez. III civ., 3 marzo 2011, n. 5120, in questa Rivista, n. 5/2011, pag. 392, con nota di A. Marcheselli, “Il Fisco
che non ritiri in autotutela gli atti illegittimi risarcisce i danni
davanti al giudice tributario?”.
(15) Pubblicata in il fisco, n. 20/2016, pag. 1978, con commento di A. Borgoglio.
52
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
Per parte loro, i giudici tributari di merito avevano tentato di trovare una soluzione operativa a tutela del contribuente, facendo derivare,
come conseguenza dell’annullamento del diniego, in presenza di accertati vizi di legittimità, quali, ad esempio, quelli elencati all’art. 2,
comma 1, del D.M. n. 37/1997, l’obbligo dell’Amministrazione di riesaminare la richiesta e
le ragioni addotte dal contribuente a sostegno
dell’istanza (12). Inoltre, sotto diverso profilo,
alcune Commissioni tributarie avevano pronunciato la condanna dell’Amministrazione,
non solo alle spese di lite, ma al risarcimento
ex art. 96, comma 3, c.p.c. (13), mentre alcuni
giudici ordinari si erano indotti a disporre il risarcimento dei danni (14), allorquando l’operato dell’ente impositore si era dispiegato in violazione delle regole di imparzialità, correttezza
e buon andamento, come, per l’appunto, in caso di ingiustificato ritardo nell’accoglimento
dell’istanza e nell’emissione del provvedimento
di sgravio.
L'inconfigurabilità del diniego di autotutela
quale atto facoltativamente impugnabile
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era stato precedentemente abbandonato, a favore del riconoscimento di una sindacabilità
esclusivamente circoscritta al profilo della legittimità del diniego di autotutela, nettamente
separato dal merito dell’imposizione, ha espressamente disatteso le conclusioni cui la sentenza n. 14243/2015 era pervenuta focalizzandosi,
invece, sulla manifestazione della pretesa. Si è,
infatti, rilevato che, in caso di annullamento
parziale in autotutela, non vi è manifestazione
di alcuna nuova diversa pretesa lesiva degli interessi del contribuente, rispetto a quella già
esternata con l’atto autoritativo tipico divenuto definitivo, tale da legittimare l’impugnazione davanti al giudice, essendo stata, anzi, ridotta quella originaria, mentre questo potrebbe
verificarsi solo se la pretesa fosse stata accresciuta.
Come appare evidente, la ritenuta non impugnabilità del diniego parziale discende, allora,
direttamente dall’errata prospettazione dell’impugnazione del diniego in termini di atto facoltativamente impugnabile, ad ulteriore riprova di come questa categoria di atti, elaborata
dalla Suprema Corte, sia foriera di ingenerare
confusione ed incertezze.
Naturalmente, se, invece, il provvedimento di
diniego di autotutela viene inquadrato quale
atto impugnabile ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs.
n. 546/1992, e, segnatamente, nell’ambito della lett. i), in ragione delle disposizioni normative che disciplinano il relativo potere, è del
tutto irrilevante che vi sia conferma o meno di
parte dell’originaria pretesa, perché quello che
rileva, ai fini dell’impugnabilità, sono i vizi relativi all’esercizio di detto potere, che possono
ben sussistere, tanto nel caso di diniego totale,
quanto nell’ipotesi di diniego parziale. In altri
termini, per configurare l’impugnabilità di un
diniego dell’Amministrazione di annullare totalmente o parzialmente l’atto impositivo, occorre svincolarsi radicalmente dal sindacato
sulla pretesa, che, secondo la Corte di cassazione, giustificherebbe la “facoltà” di impugnare,
perché esso, o è riservato al giudizio instaurato
avverso l’atto impositivo che l’Amministrazione rifiuti di annullare, o è irrimediabilmente
precluso dalla sua subentrata definitività.
Con la sentenza in commento, la Suprema
Corte è, dunque, ritornata sui suoi passi. Infatti, verificato che il ricorrente aveva impugnato
il provvedimento di annullamento parziale della cartella di pagamento, ha cassato la sentenza
impugnata perché il giudice di merito non aveva statuito sul provvedimento di diniego, ma
era andato ad esaminare il contenuto della richiesta azionata con la cartella di pagamento,
valutandone l’infondatezza e pronunciando il
diritto allo sgravio totale. Nel contempo la
Corte di cassazione ha ribadito l’impugnabilità
del diniego parziale sotto il profilo dell’illegittimità del rifiuto, in relazione a rilevanti ragioni
di interesse generale alla rimozione dell’atto,
che, ai sensi dell’art. 2-quater del D.L. n.
564/1994, e delle disposizioni del D.M. n.
37/1997, giustificano l’annullamento in autotutela e vanno specificamente prospettate dal
ricorrente.
Quindi, l’approdo del giudice di legittimità
parrebbe, allo stato, quello dell’impugnabilità
del diniego di autotutela, sia pure parziale, quale atto impugnabile tipico, nei limiti sopra visti.
(16) Il comma 1-quinquies dell’art. 2-quater del D.L. n.
564/1994 statuisce che la sospensione degli effetti dell’atto
impositivo, disposta dall’Amministrazione, nell’esercizio del
potere di autotutela, prima della scadenza dei termini per la
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53
L’intervento del legislatore
Sta di fatto che, nel frattempo, è intervenuto
il legislatore, il quale, con l’art. 11 del D.Lgs.
n. 159/2015, ha aggiunto, all’art. 2-quater del
D.L. n. 564/1994, i commi da 1-sexies a 1-octies, disponendo, con quest’ultimo comma, che
“l’annullamento o la revoca parziali non sono
impugnabili autonomamente”.
Nella Relazione illustrativa si legge che detta
previsione deriva dal fatto che l’autotutela parziale costituisce “una rettifica dell’originaria
pretesa impositiva” e non si estrinseca, quindi,
in un nuovo atto, sostitutivo del precedente
annullato, che, invece, risulta impugnabile ai
sensi del comma 1-quinquies del medesimo articolo (16).
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Legittimità
Ad un primo esame sorgono diverse questioni.
In primo luogo, quale significato dare al fatto
che il legislatore menziona solo il diniego parziale e non il diniego tout court, ai fini di escluderne l’impugnabilità?
Sicuramente il comma 1-octies va letto in collegamento con i due precedenti, che riguardano la possibilità di definizione agevolata delle
sanzioni, proprio in caso di annullamento o revoca parziali dell’atto impositivo, intervenuti
quando è pendente il relativo giudizio (17).
Tuttavia, se non è ammissibile ricorrere avverso il diniego parziale, in quanto, a differenza
dell’autotutela sostitutiva, non vi è alcun nuovo atto, ma la mera parziale conferma di quello
già impugnato, o di cui non è ancora scaduto
il termine (18), evidentemente, ne deriva che
non è ammissibile neppure l’impugnazione avverso il diniego totale di annullamento, perché
interamente confermativo dell’atto originario.
Inoltre, va evidenziato come, a differenza del
precedente comma 1-septies, il comma 1-octies,
nell’escludere l’impugnabilità del diniego parziale, non richiama specificatamente la disciplina agevolativa di cui al comma 1-sexies,
che, come detto, riguarda l’ipotesi che sia stato
proposto ricorso avverso l’atto impositivo o sia
possibile proporlo, per cui pare ricomprendere
anche il caso in cui il ricorso non sia stato proposto nel termine, e, in definitiva, escludere in
radice questo provvedimento dal novero degli
atti impugnabili.
In secondo luogo, si osserva che, spesso, non è
così evidente, proprio in caso di annullamento
parziale, individuare quando si tratti di mera
rettifica di parte dell’atto o, invece, di una
nuova valutazione, che si estrinseca in un nuovo atto, sostitutivo di quello originario, viceversa, impugnabile ai sensi del comma 1 quinquies dell’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994.
Tanto è vero che, nella fattispecie esaminata
dalla sentenza della Suprema Corte in commento, il giudice di merito aveva ritenuto che
il diniego parziale di sgravio della cartella fosse
“frutto di una attività cognitiva nuova posta in
essere dall’Amministrazione ed intesa a rivalutare gli elementi di fatto e di diritto che avevano dato origine all’emissione dell’atto” (19).
Come visto, però, per la giurisprudenza della
Suprema Corte, da ultimo confermata con la
sentenza in esame, l’impugnabilità del diniego
di autotutela non si fonda sul fatto che l’Amministrazione abbia o meno effettuato una
nuova valutazione, ovvero, se si sia trattato di
una nuova manifestazione di pretesa, piuttosto
che di mera rettifica, totale o parziale, di quella
già manifestata, bensì sulla sussistenza, e relativa sindacabilità, dei vizi di legittimità del diniego stesso.
Sorge, quindi, il dubbio se sia conforme al dettato costituzionale una norma che sottragga al
controllo giurisdizionale l’operato dell’Amministrazione, anche solo sotto il limitato profilo
della sua legittimità, con riguardo alle disposizioni che ne regolano l’esercizio, e in ragione
di un interesse generale alla rimozione dell’atto, in riferimento ai parametri degli art. 3, 53,
97 e 24 e 113 della Costituzione. Soprattutto
quando gli artt. 21-octies e 21-nonies della Legge n. 241/1990, prevedono, per i provvedimen-
proposizione del ricorso, cessa con l’esercizio della c.d. autotutela sostitutiva, che si estrinseca tramite la notificazione da
parte dello stesso ente di un nuovo atto, modificativo o confermativo di quello sospeso, che il contribuente può impugnare,
come può impugnare quello originario, unitamente al nuovo.
(17) Su cui v., per un primo commento, P. Stella Manfredini,
“Autotutela, annullamento parziale e definizione delle sanzioni”, in il fisco, n. 39/2016, pag. 3757.
(18) Come ritenuto al punto 19.2.1. della circolare n.
12/E/2016.
(19) Anche nel caso sia notificato un nuovo atto, secondo la
Suprema Corte, non si è sempre in presenza di autotutela sostitutiva, occorrendo verificare se l’Amministrazione, con quell’atto, non si sia, piuttosto, limitata ad una mera rettifica parziale dell’originaria pretesa. In tal senso si è, infatti, pronunciata la Corte di cassazione, Sez. VI, con la sentenza 8 giugno
2016, n. 11699, disattendendo la censura del contribuente circa la sopravvenuta decadenza dell’Agenzia delle entrate dal
potere impositivo, posto che, mentre la notifica del nuovo atto
di autotutela sostitutiva deve intervenire entro detto termine,
questo non vale per il caso di mera parziale conferma dell’originaria pretesa. Si segnala, in proposito, che secondo la
Comm. trib. prov. di Arezzo, 31 marzo 2016, n. 89, vi sarebbe
sempre un obbligo dell’Amministrazione di rinotificare l’atto
contenete l’intimazione ad adempiere per le somme mantenute in autotutela parziale. Vedila, in il fisco, n. 28/2016, pag.
2784, con commento favorevole di A. Giovannini, pur rilevando l’A. che la decisione non ha tenuto conto delle modifiche
apportate all’art. 29, comma 1, lett. a), del D.L. n. 78/2010,
con l’art. 7, comma 2, del D.L. n. 70/2011, e in questa Rivista,
n. 12/2016, pag. 991, con nota di M. Bruzzone, “Atto impoesattivo ‘secondario’, affidamento in carico e intimazione di pagamento: profili differenziali”, che fa discendere la necessità di
notifica dell’atto rideterminativo proprio dall’introdotta non impugnabilità del diniego di autotutela parziale.
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Legittimità
ti amministrativi, l’annullamento, anche d’ufficio, quando siano stati adottati in violazione di
legge, o viziati per eccesso di potere o da incompetenza, sussistendone le ragioni di interesse pubblico.
Le questioni di legittimità costituzionale
sollevate dalla CTP di Chieti
Questioni di legittimità costituzionale dell’art.
2-quater del D.L. n. 564/1994 e dell’art 19 del
D.Lgs. n. 546/1992, sono state, dunque, sollevate dalla Commissione tributaria provinciale
di Chieti con l’ordinanza in commento, pur
non attenendo direttamente all’impugnabilità
del diniego parziale di autotutela, come ora
escluso dalla norma, ma al profilo della mancata previsione in capo all’Amministrazione di
un obbligo di risposta all’istanza di autotutela e
a quello della mancata previsione dell’impugnabilità del diniego tacito.
Quanto al primo aspetto, va ricordato come la
giurisprudenza del Consiglio di Stato sia ferma
nell’escludere qualsivoglia obbligo dell’Amministrazione di attivarsi e riconoscere la sussistenza o meno di un interesse pubblico che
giustifichi la rimozione in autotutela di un atto, trattandosi di un potere tipicamente discrezionale (20).
Va, però, altresì, ricordato come, in ambito tributario, fin dalla primissima vigenza delle regole sull’autotutela, di cui al D.M. n. 37/1997, il
Ministero delle Finanze, con la circolare 5 agosto 1998, n. 198/S, avesse sollecitato gli Uffici
a procedere effettivamente nell’esame delle doglianze dei contribuenti, affermando che, “se, a
seguito di tale verifica la pretesa tributaria risulta infondata in tutto o in parte, essa va ritirata, ovvero opportunamente ridotta”. Pur rimarcandosi che l’Amministrazione ha il pote(20) Tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, n. 4308/2010; Id.,
Sez. V, n. 5199/2012.
(21) La già citata Direttiva prot. 72483/00/T1/2000 della DRE
Toscana parla, infatti, di “potere-dovere” dell’Amministrazione
all’esercizio dell’autotutela.
(22) Pubblicata in questa Rivista, n. 10/2012, pag. 777, con
nota di R. Baboro, “La responsabilità aquiliana dell’A.F. in caso
di mancato o ritardato esercizio dell’autotutela che abbia arrecato danno al contribuente”. Nel caso, il risarcimento non era
stato riconosciuto per mancanza di prova del danno. Aggiungesi che la già menzionata Comm. trib. di II grado Trentino-Al-
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re, ma non il dovere giuridico, di ritirare l’atto
viziato, si aggiungeva che “l’Ufficio stesso non
possiede un potere discrezionale di decidere a
suo piacimento se correggere o meno i propri
errori”, con rilevanti effetti, in caso contrario,
quali la condanna alle spese, se l’atto è sub iudice, e la valutazione dell’attività del funzionario, ai fini di una sua responsabilità disciplinare
e professionale (21).
La Suprema Corte, poi, con diverse decisioni,
pubblicate il 20 aprile 2012, numerate da
6283 (22) a 6292, aveva affermato che non
può ritenersi “il carattere facoltativo dello sgravio in sede di autotutela”, perché in contrasto
con il “dovere della PA di conformarsi alle regole di imparzialità e, correttezza e buona amministrazione”, riconoscendo la risarcibilità del
danno a carico dell’Amministrazione finanziaria, quando dette regole abbia disatteso.
Quanto al secondo profilo, invece, va osservato che, a parte la posizione assunta nella sentenza n. 21045/2007, la Suprema Corte, in altre decisioni, anche recenti (23), non ha affatto escluso l’impugnabilità del silenzio-rifiuto,
in contrapposizione al diniego espresso, come
interpretativamente desumibile ai sensi dell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, che, per altra tipologia di atti impugnabili, la prevede espressamente.
Il problema è, se mai, individuare quale sia il
vizio di legittimità del silenzio, che, a ben vedere, in tema di autotutela, non può risolversi
in altro che nel silenzio stesso, non apparendo
conforme ad un buon andamento dell’Amministrazione quello di ignorare l’istanza del contribuente, come evidenziato, sia nella circolare
n. 198/S/1998, che nelle summenzionate pronunce della Suprema Corte del 2012.
to Adige, n. 34/2015, significativamente ricordando, sia la circolare n. 198/1998, che l’orientamento della Suprema Corte,
sulla riconoscibilità di risarcimento danni a carico dell’Amministrazione, quando non si sia attenuta alle regole di imparzialità,
correttezza e buona amministrazione, costituzionalmente garantite, aveva annullato il diniego di autotutela, ritenendole,
nel caso, non osservate, proprio perché era “configurabile una
indubbia lesione dei surrichiamati principi di livello costituzionale”.
(23) Sopra ricordate a nota 10.
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Legittimità
Se così è, dunque, appare senz’altro interessante e rilevante la prima questione di costituzionalità, circa un qualche obbligo, sotto questo
profilo, dell’Amministrazione di fornire la risposta (24).
Considerazioni conclusive
La Commissione tributaria di Chieti, nella sua
ordinanza, mostra, invero, di aver chiara la differenza tra la problematica dell’impugnabilità
del silenzio-rifiuto e la diversa, e inconferente,
questione della non impugnabilità dell’atto impositivo divenuto definitivo, su cui è ormai
preclusa la riapertura del giudizio, aderendo,
quindi, alla prospettazione dell’impugnabilità
solo sotto la limitata angolatura del vizio di legittimità del silenzio, in riferimento ai parametri normativi propri dell’autotutela tributaria.
Tuttavia, l’intervento del legislatore, allorché
ha disposto la non impugnabilità del diniego
parziale, quindi, espresso, in quanto mera rettifica dell’atto originario, che, per una parte,
viene confermato, escludendola tout court, anche in riferimento ad eventuali vizi di legittimità, sembra rilevare anche con riguardo alla
stessa impugnabilità del silenzio, che si risolve
pur sempre in conferma totale dell’atto.
(24) Come rimarcato da C. Glendi, Impugnazione del diniego
di autotutela e oggetto del processo tributario, cit., loc. cit.,
pagg. 477 e 478, nel diritto tributario, il legislatore ha vincolato
l’esercizio del potere di autotutela, con l’art. 2-quater del D.L.
n. 564/1994 e con le disposizioni del D.M. n. 37/1997, “ad una
serie di parametri predeterminati che ne veicolano l’esercizio
lungo un percorso ormai largamente condizionato”, sicché il
margine di discrezionalità in capo all’Amministrazione non deve superare il rigoroso rispetto di detti parametri. Ne consegue
che, se vengono disattesi, pare non potersi negare la possibilità di un controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’autotutela,
come ora, invece, disposto dal comma 1-octies del medesimo
art. 2-quater, pena la lesione dei principi costituzionali di effettività e proporzionalità del prelievo fiscale, del buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, e del diritto di difesa del
cittadino. A maggior ragione in caso di silenzio, che, di per sé,
impedisce il controllo a che i parametri normativi vengano rispettati, e, pertanto, costituisce esso stesso un comportamento dell’Amministrazione ad essi contrario. Va, al proposito, sot-
56
Pertanto, il vero, e principale, dato normativo
da sindacare sotto il profilo di non conformità
al dettato costituzionale pare proprio quello introdotto dal comma 1-octies dell’art. 2-quater
del D.L. n. 564/1994, di cui, peraltro, la stessa
ordinanza di rimessione fa menzione, pur non
sollevando specifiche considerazioni in proposito.
Certo è, che, comunque, se anche la Corte costituzionale si pronunciasse in senso favorevole
alla prospettazione dell’impugnabilità del diniego di autotutela, nei limiti di un esame sui
profili di illegittimità dell’operato dell’Amministrazione, rispetto alle regole normativamente imposte per l’esercizio di detto potere, il risultato pratico per il contribuente rimane oltremodo limitato. Infatti, non vi è dubbio che
l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Ufficio non sia un mezzo di tutela per il contribuente, sicché, alla fine, la pronuncia del
giudice di annullamento del diniego, totale o
parziale, espresso o tacito, che sia, non costituendo pronuncia di condanna, suscettibile del
giudizio di ottemperanza, sarà solo utile presupposto per azionare una domanda di risarcimento danni, qualora l’Amministrazione non intenda tenerne conto.
tolineato che già il legislatore si è in qualche modo indirizzato
in tal senso, facendo conseguire al silenzio da parte dell’ente
creditore sulla richiesta di cui al procedimento previsto dai
commi 537-544 dell’art. 1, Legge n. 228/2012, l’annullamento
delle somme iscritte a ruolo o affidate, nei rigorosi limiti delle
ragioni previste dal comma 538, come modificato dall’art. 1,
comma 1, lett. a), n. 2, del D.Lgs. n. 159/2015. Nel senso di un
vero e proprio obbligo dell’Amministrazione finanziaria di rispondere, stante la specifica disciplina sull’autotutela in ambito tributario, oltre che alla luce dei canoni desumibili dall’art. 2
della Legge n. 241/1990, sul dovere di fornire riscontro motivato alle istanze, v. F. Tundo, “L’Amministrazione finanziaria non
può trincerarsi nel silenzio in caso di istanza di autotutela”, in
Corr. Trib., n. 16/2012, segnatamente alle pagg. 1211 - 1214,
nonché S. Muscarà, “Gli inusuali ambiti dell’autotutela in materia tributaria”, in Riv. dir. trib., I, 2005, pag. 93 e F. Tesauro
“Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente”, in
Giust. trib., 2008, pag. 17.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Giurisprudenza
Legittimità
Agevolazioni
Incentivi occupazionali:
recupero “lungo” per crediti frazionati
Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016 (7 luglio 2016), n. 15190 - Pres. Salvago - Rel. Zoso
Agevolazioni - Crediti d’imposta - Incentivi per gli investimenti in aree svantaggiate - Recupero di crediti opposti in compensazione inesistenti - Avviso di recupero - Ammissibilità - Scadenza del termine in relazione a
periodi pregressi - Irrilevanza
L’avviso di recupero, da emanarsi entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è
stata presentata la dichiarazione (termine prorogato ad otto anni dall’art. 27, commi da 16 a 20, del
D.L. n. 185/2008), può essere emesso, non solo per recuperare la somma corrispondente all’utilizzo
del credito d’imposta per gli investimenti nelle aree svantaggiate oltre la percentuale consentita,
ma anche per il recupero di crediti opposti in compensazione ritenuti inesistenti, quand’anche il
termine sia scaduto in relazione a periodi di imposta pregressi ove il credito è stato utilizzato per
la percentuale consentita.
1. La societa Sicily by Car s.p.a. impugnava l’avviso
di recupero, notificato il 5.4.2007, emesso ai sensi
della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421, con cui
era stato recuperato a tassazione un credito d’imposta
L. n. 388 del 2000, ex art. 8 maturato nel 2001, indicato nella dichiarazione dei redditi 2002 ed utilizzato
in compensazione negli anni 2002 e 2005. La Commissione Tributaria Provinciale di Palermo respingeva il ricorso. Proposto appello da parte della contribuente, la Commissione Tributaria Regionale della
Sicilia lo accoglieva sul rilievo che l’ufficio era incorso in decadenza in quanto aveva notificato l’avviso
di recupero il 5 aprile 2007, oltre il termine di quattro anni, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43,
decorrente dal 31 dicembre 2002, anno in cui il credito era stato esposto in dichiarazione.
2. Avverso la sentenza della CTR propone ricorso
per cassazione l’Agenzia delle entrate affidato ad un
motivo. Resiste con controricorso, illustrato con memoria, la contribuente.
3. Con l’unico motivo la ricorrente deduce violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43,
comma 1, al D.L. n. 185 del 2008, art. 27, commi da
16 a 20, convertito dalla L. n. 2 del 2009. Sostiene la
ricorrente che il credito recuperato a tassazione era
stato esposto anche nella dichiarazione dei redditi
presentata nel 2003 per il periodo di imposta 2002 e
l’ammontare residuo era stato poi riportato negli anni
successivi, compreso il 2005. Ne derivava che i quattro anni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43,
comma 1, dovevano essere computati a partire dall’anno di presentazione della dichiarazione in cui era
stato indicato il credito indebitamente utilizzato e,
nel caso di specie, il credito utilizzato in compensazione a mezzo del modello F 24 del 16 gennaio 2002
era stato indicato nella dichiarazione presentata nell’anno 2003.
4. Osserva la Corte che il ricorso è fondato. Invero
in materia di agevolazioni per gli investimenti nelle
aree svantaggiate di cui alla L. 23 dicembre 2000, n.
388, art. 8, l’utilizzo dei contributi riconosciuti dallo
Stato avviene nella forma di crediti di imposta. La L.
23 dicembre 2000, n. 388, art. 8, comma 5, prevede:
“Il credito d’imposta è determinato con riguardo ai
nuovi investimenti eseguiti in ciascun periodo di imposta e va indicato nella relativa dichiarazione dei
redditi. Esso non concorre alla formazione del reddito
della base imponibile dell’imposta regionale sulle attività produttive, non rileva ai fini del rapporto di
cui all’art. 63 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917,
ed è utilizzabile esclusivamente in compensazione, ai
sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, a decorrere
dalla data di sostenimento dei costi”. Il successivo
comma 7 prevede: “Se i beni oggetto dell’agevolazione non entrano in funzione entro il secondo periodo
58
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
Esposizione delle ragioni in fatto ed in diritto
della decisione
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Legittimità
d’imposta successivo a quello della loro acquisizione
o ultimazione, il credito d’imposta è rideterminato
escludendo dagli investimenti agevolati il costo dei
beni non entrati in funzione. Se entro il quinto periodo d’imposta successivo a quello nel quale sono
entrati in funzione i beni sono dismessi, ceduti a terzi, destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ovvero destinati a strutture produttive diverse da
quelle che hanno dato diritto all’agevolazione, il credito d’imposta è rideterminato escludendo dagli investimenti agevolati il costo dei beni anzidetti; se nel
periodo di imposta in cui si verifica una delle predette ipotesi vengono acquisiti beni della stessa categoria di quelli agevolati, il credito d’imposta è rideterminato escludendo il costo non ammortizzato degli
investimenti agevolati per la parte che eccede i costi
delle nuove acquisizioni. Per i beni acquisiti in locazione finanziaria le disposizioni precedenti si applicano anche se non viene esercitato il riscatto. Il minore
credito d’imposta che deriva dall’applicazione del
presente comma è versato entro il termine per il versamento a saldo dell’imposta sui redditi dovuta per il
periodo di imposta in cui si verificano le ipotesi ivi
indicate”.
Ora, l’avviso di recupero, da emanarsi a norma del
D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 entro il 31 dicembre
del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (termine prorogato ad otto
anni dal D.L. n. 185 del 2008, art. 27, commi da 16
a 20, convertito dalla L. n. 2 del 2009), può essere
emesso non solo per recuperare la somma corrispondente all’utilizzo del credito oltre la percentuale consentita ma anche per la ritenuta inesistenza dei crediti opposti in compensazione, anche qualora, in relazione a diverse annualità ove il credito è stato utilizzato, detto controllo non ha avuto luogo. Ciò che assume rilievo ai fini fiscali, invero, è l’utilizzazione del
credito da parte del contribuente, che può essere effettuata in tutto od in parte solo in alcuni periodi di
imposta a scelta del contribuente medesimo, purché
nei limiti della percentuale consentita. Ne deriva che
il controllo sulla spettanza del contributo, che l’Amministrazione è tenuta ad effettuare a pena di decadenza entro il termine stabilito, va effettuato in relazione a ciascun periodo di imposta in relazione al
quale il contribuente ha utilizzato il credito.
Siffatta lettura della norma è supportata dalla lettera
delle disposizioni che si sono succedute nel tempo in
materia di riscossione dei crediti indebitamente utilizzati, ove la facoltà di controllo degli importi a credito non è limitata al tempo ed alla percentuale di
fruibilità, ma si estende all’esistenza stessa del credito.
Basti considerare che la L. 30 dicembre 2004, n. 311,
art. 1, comma 421, prevede “... per la riscossione dei
crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte,
anche in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio
1997, n. 241, art. 17, e successive modificazioni, l’Agenzia delle entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le
modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60
citato”. E il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16,
convertito dalla legge numero 2/2009 prevede “... l’
atto di cui alla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1,
comma 421, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati
in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n.
241, art. 17, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”. Infine il successivo
comma 17 prevede “La disposizione di cui al comma
16 si applica a decorrere dalla data di presentazione
del modello di pagamento unificato nel quale sono
indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione
in anni con riferimento ai quali alla data di entrata
in vigore della presente legge siano ancora pendenti i
termini di cui al primo comma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, e del D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 633, art. 57”.
Va, dunque, affermato il seguente principio di diritto
“L’avviso di recupero, da emanarsi a norma del
D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, entro il 31 dicembre
del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (termine prorogato ad otto
anni dal D.L. n. 185 del 2008, art. 27, commi da 16
a 20, convertito dalla L. n. 2 del 2009), può essere
emesso non solo per recuperare la somma corrispondente all’utilizzo del credito oltre la percentuale consentita ma anche per il recupero di crediti opposti in
compensazione ritenuti inesistenti, quand’anche il
termine sia scaduto in relazione a periodi di imposta
pregressi ove il credito è stato utilizzato per la percentuale consentita”.
Occorre, poi, precisare che, giusta la L. n. 388 del
2000, art. 8, comma 7, il contribuente che non ponga
in funzione i beni entro il secondo periodo d’imposta
successivo a quello della loro acquisizione o ultimazione o dismetta i beni acquisiti entro il quinto periodo d’imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione i beni stessi è tenuto a rideterminare
il credito di imposta in relazione agli eventi verificatisi ed a versare l’imposta indebitamente portata in
compensazione entro il termine per il versamento a
saldo dell’imposta sui redditi dovuta per il periodo in
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Legittimità
cui si verificano tali ipotesi, termine dal quale decorre il potere accertativo dell’Ufficio relativamente all’adempimento di tale obbligo.
Il ricorso va, dunque, accolto e l’impugnata decisione
va cassata con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, che, adeguandosi ai principi esposti, procederà alle necessarie
verifiche e deciderà nel merito oltre che sulle spese
di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia Entrate, cassa l’impugnata decisione e rinvia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia.
L’efficacia retroattiva ed ultrannuale degli avvisi di recupero:
riflessioni sull’inesistenza dei “crediti da non indebito”
di Sarah Eusepi (*)
Con la sentenza n. 15190/2016 la Suprema Corte ha ritenuto che l’avviso di recupero dei crediti
d’imposta per gli investimenti effettuati nelle aree svantaggiate possa essere emesso, nei casi
di utilizzo frazionato, finché i crediti medesimi vengano utilizzati in compensazione dal contribuente, investendo anche annualità in relazione alle quali siano già decorsi gli ordinari termini di
decadenza. Ed invero, l’unico limite temporale sarebbe rappresentato, in tali ipotesi, dal termine
“lungo” di decadenza introdotto dall’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008. La pronuncia, pur
avendo il pregio di fornire delle chiare direttive operative, sopperendo alla lacunosità della disciplina legislativa, ha contribuito ad infittire la trama problematica sottesa all’agevolazione. Aggirate le pressanti problematiche di ordine definitorio connesse al binomio crediti inesistenti-crediti non spettanti, la Suprema Corte ha, infatti, riferito all’avviso di recupero una singolare valenza
“retroattiva” ed “ultrannuale”, che solleva nuovi e consistenti interrogativi di ordine sistematico
e teorico-generale.
Un quadro normativo “mobile”
La Legge del 23 dicembre 2000, n. 388 ha istituito una serie di agevolazioni volte a favorire
l’occupazione e gli investimenti effettuati nelle
aree svantaggiate del territorio nazionale. In
particolare, l’art. 8 attribuiva ai titolari di reddito d’impresa (1), che nel periodo compreso
tra il 31 dicembre 2000 ed il 31 dicembre 2006
avessero effettuato nuovi investimenti (2) nelle
Regioni della Basilicata, Campania, Puglia,
Calabria, Sardegna e Sicilia, Abruzzo e Moli(*) Avvocato e Dottore di ricerca in Diritto dell’Economia e
dell’Impresa
(1) Ad esclusione degli enti non commerciali.
(2) Ovvero, avessero acquistato nuovi beni strumentali ex
artt. 67 e 68 T.U.I.R., esclusi i mobili e macchine ordinarie di
ufficio destinati a strutture produttive già esistenti ovvero impiantate nelle aree territoriali rilevanti per la parte del loro costo complessivo eccedente le cessioni e le dismissioni effettuate nonché gli ammortamenti dedotti nel periodo d’imposta,
relativi a beni d’investimento della stessa struttura produttiva.
Sono esclusi gli ammortamenti dei beni che formano oggetto
dell’investimento agevolato effettuati nel periodo d’imposta
della loro entrata in funzione (comma 2, art. 8 cit.).
60
se (3) un credito d’imposta entro la misura
massima consentita dalla normativa sovranazionale (4).
Il credito, determinato con riguardo al costo
sostenuto per i nuovi investimenti eseguiti in
ciascun periodo d’imposta, era utilizzabile
esclusivamente in compensazione ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997 (5), a decorrere
dalla data di sostenimento dei costi.
Una volta effettuato l’investimento, l’integrale
compensazione del credito era subordinata al
rispetto, da parte del beneficiario, delle c.d.
(3) Quali aree territoriali individuate dalla Commissione europea come destinatarie degli aiuti a finalità regionale (art.
107, par. 3, T.F.U.E., ex art. 87, par. 3, T.C.E.).
(4) Tenuto conto, in particolare, dei criteri e dei limiti d’intensità d’aiuto fissati dalla Commissione europea.
(5) La norma, introdotta nel quadro della c.d. semplificazione degli adempimenti tributari, ha introdotto per la prima volta
la possibilità - inizialmente riservata ai titolari di partita IVA ed
estesa a tutti i contribuenti dal successivo D.Lgs. n. 422/1999
- di utilizzare una nuova modulistica (il Mod. F24, “Modello di
pagamento Fisco, INPS, Regioni”) per effettuare, contestualmente, i versamenti fiscali e contributivi dovuti.
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condizioni antielusive, analiticamente individuate dal comma 7 dell’art. 8 cit. (6), al ricorrere delle quali il contribuente avrebbe dovuto
procedere autonomamente alla rideterminazione del credito d’imposta e alla restituzione del
beneficio fruito in eccedenza entro il termine
per il saldo dell’imposta sui redditi relativo all’annualità in cui la condizione antielusiva si
era verificata.
Negli anni successivi la disciplina è stata oggetto di ripetuti interventi legislativi, che ne
hanno profondamente ridisegnato l’ambito di
applicazione e le modalità di erogazione. La
mobilità del quadro normativo, connotato dalla progressiva stratificazione di discipline transitorie, ha comportato l’emersione ed applicazione di regimi largamente differenziati, ancorché accorpati sotto la comune denominazione
di “incentivi per gli investimenti nelle aree
svantaggiate”.
Particolarmente incisiva la rimodulazione dei
requisiti soggettivi ed oggettivi per la fruizione
del beneficio operata, con decorrenza dall’8 luglio 2002, dall’art. 10 del D.L. n. 138/2002 (7).
L’individuazione di criteri di ammissione più
stringenti è stata assistita, a livello procedimentale, da una coerente formalizzazione delle
modalità di fruizione del credito.
E così, mentre la disciplina originaria collegava
la spettanza dell’agevolazione (e, dunque, la
compensazione del credito) alla semplice realizzazione dell’investimento, il D.L. n. 138/
2002 (8), ne ha successivamente collegato la
fruizione (9) alla presentazione in via telematica di un’istanza preventiva al Centro Operativo di Pescara (10).
Tale adempimento è stato introdotto al fine di
garantire il rispetto del “nuovo” principio generale sancito dall’art. 5 del medesimo D.L. ai
sensi del quale i soggetti interessati hanno diritto di fruire dei crediti d’imposta vigenti soltanto
fino all’esaurimento delle disponibilità finanziarie appositamente stanziate per ciascuno di essi.
(6) Trattasi di comportamenti sintomatici di un utilizzo fittizio, simulato o, comunque, scorretto del credito, la cui attuazione implicava la revoca parziale o totale del credito globale
originariamente individuato. In particolare, qualora i beni oggetto dell’agevolazione non fossero entrati in funzione entro il
secondo periodo d’imposta successivo a quello della loro acquisizione o ultimazione, il credito d’imposta avrebbe dovuto
essere rideterminato escludendo dagli investimenti agevolati il
costo dei beni non entrati in funzione. Se entro il quinto periodo d’imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione i beni fossero stati dismessi, ceduti a terzi, destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ovvero destinati a
strutture produttive diverse da quelle che hanno dato diritto all’agevolazione, il credito d’imposta avrebbe dovuto essere rideterminato escludendo dagli investimenti agevolati il costo
dei beni anzidetti; qualora, infine, nel periodo di imposta in cui
si verifica una delle predette ipotesi vengono acquisiti beni della stessa categoria di quelli agevolati, il credito d’imposta
avrebbe dovuto essere rideterminato escludendo il costo non
ammortizzato degli investimenti agevolati per la parte che eccede i costi delle nuove acquisizioni. Per i beni acquisiti in locazione finanziaria le disposizioni precedenti si applicano an-
che se non viene esercitato il riscatto.
(7) Convertito dalla Legge n. 178/2002. In particolare, la
norma ha esteso ai Comuni del Centro Nord l’ambito territoriale d’operatività dell’agevolazione. La norma ha, contestualmente, ridefinito anche l’ambito soggettivo dei destinatari dell’agevolazione, eliminando l’esclusione degli enti non commerciali ed individuando con maggiore chiarezza i settori di attività
agevolati (settori estrattivo e manifatturiero, dei servizi, del turismo, del commercio, delle costruzioni, della produzione e distribuzione di energia elettrica, vapore ed acqua calda e della
trasformazione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura).
(8) Art. 10 cit.
(9) A far data dal 25 luglio 2002.
(10) L’istanza doveva recare l’indicazione degli elementi
identificativi dell’impresa, dell’ammontare complessivo dei
nuovi investimenti e della ripartizione regionale degli stessi, da
avviarsi successivamente alla data di presentazione della medesima istanza e comunque entro sei mesi dalla predetta data.
Decorsi 30 giorni dalla presentazione senza che l’Agenzia delle
Entrate avesse comunicato il proprio diniego, il beneficio
avrebbe dovuto intendersi concesso.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
L’assenza di una specifica disciplina
dei poteri di controllo
Il retroterra normativo del nodo operativo che
la Suprema Corte ha inteso sciogliere con la
sentenza in commento si connota per la spiccata lacunosità della disciplina dei profili attuativi del beneficio.
La Legge n. 388/2000, infatti, nulla stabiliva in
ordine ai poteri di controllo dell’Amministrazione finanziaria, all’eventuale recupero dei
crediti indebitamente fruiti, né approntava, a
tali fini, uno specifico regime sanzionatorio. Il
sistema originario risultava integralmente fondato, anche nell’eventuale fase “patologica”
(avveramento di una delle condizioni di decadenza) sull’attività di autoliquidazione beneficiario, il quale, al verificarsi di una delle condizioni antielusive, avrebbe dovuto autonomamente procedere alla rideterminazione del cre-
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Legittimità
dito e alla liquidazione delle maggiori imposte
conseguentemente dovute.
Tali lacune, in parte giustificate dalla natura
squisitamente agevolativa del credito d’imposta
(infra), sono state gradualmente colmate nel
quadro dell’azione di contrasto all’utilizzo elusivo dell’agevolazione.
Collateralmente al monitoraggio delle comunicazioni presentate (11) è stata avviata una generalizzata attività di controllo mirato sui soggetti beneficiari dell’agevolazione (12).
Nell’ambito di tale iniziativa, si è ritenuto che
l’indebito utilizzo del credito d’imposta potesse
essere evidenziato attraverso l’emissione dei
c.d. atti di recupero introdotti dall’art. 1, comma 421, Legge n. 311/2005, specificamente finalizzati alla “riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in
compensazione, ai sensi dell’art. 17 del Decreto
legislativo 9 luglio 1997, n. 241”, da notificarsi
al contribuente con le modalità previste dall’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973.
Lo strumento, approntato ai fini del recupero
di crediti d’imposta di matrice propriamente
tributaria (derivanti dalle somme versate in eccedenza dal contribuente mediante ritenute
d’acconto, versamenti d’acconto e versamenti
diretti) è stato, dunque, estensivamente preposto al recupero di sovvenzioni.
Ne è dipesa una unificazione della disciplina
dell’accertamento dei crediti d’imposta che, sebbene positivamente valutabile sul piano della
semplificazione e dell’economia procedimentale,
poggia su un assunto non condivisibile sul piano
ideologico e sistematico: la piena assimilazione
delle sovvenzioni erogate sotto forma di crediti
d’imposta (c.d. crediti da non indebito) (13),
fattispecie di ausilio finanziario, ai crediti d’imposta tout court, fattispecie da indebito (14).
L’esercizio delle prime, infatti, non incide,
contrariamente a quello dei secondi, sull’esistenza del presupposto (e, dunque, sull’an della
pretesa), interagendo con il regime impositivo
ordinario della fattispecie unicamente sotto il
profilo quantitativo, determinando un’attenuazione del debito d’imposta in capo al beneficiario (15).
Nel caso di specie, in particolare, poiché il credito d’imposta non concorre, per espressa previsione della legge istitutiva, alla formazione
della base imponibile IRES ed IRAP, rilevando
unicamente in sede di compensazione, il successivo riscontro dell’inesistenza o della non
spettanza del medesimo rileverà unicamente
sotto il profilo del corretto adempimento degli
obblighi di versamento (omesso o insufficiente
versamento conseguente all’indebita compensazione). Oggetto dell’avviso di recupero sarà,
pertanto, la constatazione del sopravvenuto
avveramento di una condizione antielusiva,
ovvero, del carattere puramente fittizio del credito, con contestuale liquidazione dei maggiori
importi dovuti in ragione della rideterminazione del credito o della revoca del medesimo.
L’atto di recupero costituisce, dunque, al di là
delle consonanze formali, un provvedimento
sostanzialmente e funzionalmente distinto dall’avviso di accertamento, il quale ha ad oggetto
la formulazione della pretesa impositiva conseguente alla rettifica in aumento del reddito dichiarato o alla sua determinazione d’ufficio,
ovvero, al disconoscimento di detrazioni od
agevolazioni incidenti sull’entità del tributo
(art. 42 del D.P.R. n. 600/1973).
(11) Al fine di assicurare una corretta applicazione della
nuova disciplina e di favorire la prevenzione di comportamenti
elusivi, l’art. 1 del D.L. n. 253/2002 ha successivamente individuato ai fini della fruizione dell’agevolazione, due categorie di
soggetti: la prima, composta dai soggetti (automaticamente)
ammessi al beneficio prima dell’8 luglio 2002, avrebbe dovuto
comunicare all’Agenzia delle entrate, a pena di decadenza, i
dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati
con un apposito modello, denominato CVS; la seconda, composta dai soggetti (espressamente) ammessi al beneficio dopo
l’8 luglio 2002, una volta conseguito l’assenso dell’Agenzia,
avrebbero dovuto effettuare la medesima comunicazione con
il modello, denominato CTS.
(12) Preconizzata dalla circolare dell’Agenzia delle entrate
14 agosto 2002, n. 72/E.
(13) L’efficace denominazione è tratta da Ingrosso, voce
“Credito d’imposta”, in Enc. giur. Treccani, Roma, X, pag. 2. Si
sostanziano nell’attribuzione ex lege di un diritto di credito in
capo al contribuente (credito d’imposta), nel perseguimento di
interessi di politica economica costituzionalmente rilevanti.
(14) Ingrosso, op. loc. ult. cit.
(15) Ingrosso, Il credito d’imposta, Milano, 1984, pag. 84
ss.; La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano,
1968, pag. 199 ss.
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Nondimeno, tali atti, superate alcune iniziali
perplessità (16), sono stati equiparati agli avvisi di accertamento (17). Tale equiparazione,
tuttavia, risulta fondata su rilievi di ordine prevalentemente formale ed esigenze di tutela giurisdizionale (identità degli elementi strutturali,
necessità di assicurare l’impugnazione del provvedimento dinnanzi agli organi della giustizia
tributaria) (18). Di contro, sotto il profilo sostanziale, non può non considerarsi come,
mentre l’attività di controllo culminante nell’emissione dell’avviso di recupero abbia ad oggetto un atto tipico della riscossione (il modello di versamento unificato), l’accertamento tributario sia ordinamentalmente deputato al
controllo di atti dichiarativi (il modello di dichiarazione) (19).
Occorre, inoltre, considerare come tale assimilazione abbia indotto a ritenere la generalizzata
operatività dei termini decadenziali previsti ai
fini dell’accertamento delle imposte sui redditi
(art. 43 del D.P.R. n. 600/1973).
Questa impostazione è stata, in seguito, implicitamente confermata dal legislatore, che, con
l’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008
(convertito dalla Legge n. 2/2009), ha introdotto uno specifico termine “lungo” di decadenza (otto anni) ai fini dell’emanazione dell’atto di recupero dei crediti inesistenti utilizzati in compensazione.
Definitivamente offuscata la matrice sovventiva delle misure in discorso, non sorprende che
il nuovo termine di decadenza (20) sia stato ri(16) Era stata inizialmente prospettata una equiparazione
dell’atto di recupero alla comunicazione trasmessa all’esito del
controllo formale di cui all’art. 36-ter del D.P.R. n. 600/1973
(determinazione dei “crediti d’imposta spettanti in base ai dati
risultanti dalle dichiarazioni e ai documenti richiesti ai contribuenti”). L’impostazione è stata successivamente superata in
considerazione del carattere essenzialmente statico dell’attività
istruttoria svolta nell’ambito dei controlli formali, circoscritta al
raffronto tra i dati dichiarati ed i documenti di supporto attestanti le deduzioni, le detrazioni, le ritenute, i crediti d’imposta.
L’emanazione dell’atto di recupero è, al contrario, preceduta
da un’attività istruttoria diretta presso il contribuente (accesso
breve), che si conclude con la redazione di apposito processo
verbale riportante le risultanze dei controlli espletati e con la
successiva notifica al contribuente (circolare Agenzia delle entrate 8 luglio 2003, n. 35/E)
(17) Per tutte, Cass., 15 febbraio 2013, n. 3838, che ha ritenuto applicabile alle somme richieste tramite avvisi di recupero la disciplina della riscossione frazionata (art. 15, D.P.R. n.
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tenuto pacificamente applicabile ai fini del recupero dei crediti de quo.
Il caso concreto
La controversia sottoposta all’esame della Suprema Corte aveva ad oggetto un avviso di recupero emesso, nel 2007, per la ripetizione di
un credito d’imposta ex art. 8 della Legge n.
388/2000. Il credito, maturato nel 2001, regolarmente indicato nella dichiarazione dei redditi 2002, era stato portato in compensazione
dalla Società contribuente, sia in quest’ultima
annualità, che nella successiva annualità 2005.
Raggiunta dall’avviso ed impugnatolo dinnanzi
alla Commissione tributaria competente, la
Società deduceva l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di accertamento. L’eccezione, respinta dal Collegio di primo grado, trovava, invece, accoglimento in sede d’appello.
Avverso la pronuncia di secondo grado proponeva, quindi, ricorso per Cassazione l’Ufficio
soccombente, deducendo la violazione dell’art.
43 del D.P.R. n. 600/1973, e dell’art. 27, commi 16-20, del D.L. n. 185/2008, convertito dalla Legge n. 2/2009.
La Corte, rilevata l’operatività del termine
“lungo” di decadenza individuato da tali disposizioni, riteneva che l’eventuale utilizzo “frazionato” del credito da parte del contribuente
(espressamente consentito dalla legge istitutiva) trovasse il proprio necessario pendant accertativo nel potere dell’Amministrazione finanziaria di accertare, entro tale termine, la
602/1973), trattandosi di atti che “contribuiscono a definire, attraverso il disconoscimento dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati, l’entità della somma concretamente dovuta dal
contribuente, cosicché anche tali avvisi implicano accertamento della debenza del tributo”.
(18) Individuata la portata essenziale dell’art. 1, comma 421,
cit., nell’individuazione dell’atto di recupero come ulteriore
possibile titolo per la successiva riscossione coattiva tale atto
è stato assimilato, sotto il profilo dalla impugnabilità, all’avviso
di accertamento.
(19) Come osservato da Basilavecchia, “Avvisi di recupero
per indebite compensazioni e affidamento del contribuente”,
in Corr. Trib., n. 30/2012, pag. 2322.
(20) Il termine trova applicazione a partire dalle compensazioni con crediti inesistenti effettuati in anni per i quali, alla data di entrata in vigore del medesimo D.L. n. 185/2008, erano
pendenti i termini di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973, e all’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972.
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non spettanza, ovvero, l’inesistenza del credito
e di disporne l’integrale recupero, quand’anche
rispetto ad alcune delle annualità interessate
dalla compensazione risultassero decorsi gli ordinari termini di decadenza.
Una tesi controversa
Il principio di diritto enunciato dalla Suprema
Corte è certamente destinato a produrre conseguenze significative sul piano operativo. Da un
lato, infatti, la Corte ha istituito un inedito
parallelo tra esercizio “frazionato” del credito
ed attività di accertamento degli Uffici, in forza del quale l’esistenza del credito può essere
(retroattivamente) revocata in dubbio fintanto
che il credito medesimo viene utilizzato in
compensazione dal contribuente; dall’altro, ha
affermato l’applicabilità del termine “lungo” di
decadenza anche rispetto alle ipotesi in cui
dalla successiva attività di verifica emerga un
mero utilizzo “sopra soglia” del credito d’imposta, equiparato alle ipotesi di inesistenza del
credito.
Aggirate, sul piano procedurale, le pressanti
problematiche di ordine definitorio connesse
al binomio crediti inesistenti-crediti non spettanti (21), i giudici di legittimità ne hanno
persino ampliato la rilevanza sotto il profilo sostanziale, riferendo all’avviso di recupero una
singolare valenza “retroattiva” ed “ultrannuale”, che solleva nuovi e consistenti interrogativi di ordine sistematico e teorico-generale.
una indubbia centralità anche sul piano sostanziale.
Si è infatti reso necessario chiarire se la totalità delle ipotesi di indebita compensazione possa essere ricondotta alla categoria dei “crediti
inesistenti”, ovvero, se da quest’ultima esulino
le ipotesi connotate dall’assenza di dolo in capo al contribuente (ad es. utilizzo sopra soglia),
da ricondursi alla autonoma categoria dei “crediti non spettanti”. In questo secondo senso
depone, tra l’altro, la relazione di accompagnamento al D.L. n. 185/2008, che - nel giustificare l’estensione dei termini decadenziali alla
stregua dell’esigenza di contrastare i “comportamenti connotati da aspetti fraudolenti” - induce ad escludere dal novero dei crediti inesistenti, sia le compensazioni eseguite in eccesso
rispetto ai limiti massimi annuali di legge, sia
quelle aventi ad oggetto crediti più elevati dell’importo risultante dalla dichiarazione (22).
Ricorrerebbe, invece, la compensazione di un
credito inesistente nelle ipotesi in cui, al verificarsi di una delle condizioni antielusive previste dalla Legge n. 388/2000, il contribuente
non abbia dato luogo alla rideterminazione
prescritta.
L’infittirsi della trama problematica
A seguito dell’introduzione del nuovo termine
decadenziale “lungo” per l’emanazione degli
avvisi di recupero (supra) la distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti, la cui rilevanza era, sino a tale momento, rimasta circoscritta al versante sanzionatorio, ha assunto
Il quadro speculativo ed operativo appena descritto è risultato, da ultimo, ulteriormente destabilizzato dall’inedito parallelo tra esercizio
“frazionato” del credito ed attività di accertamento degli Uffici istituito dalla pronuncia in
commento e dalla conseguente rottura dell’ordinario regime di preclusioni procedimentali.
Se è pur vero che, in presenza di un esercizio
“frazionato” del credito, non avrebbe pregio,
né rigore, sostenere, in relazione ai periodi ancora accertabili, l’impossibilità di riscontrare
l’inesistenza del credito compensato e che tale
(21) La distinzione tra le due fattispecie, originariamente rilevante nella sola prospettiva sanzionatoria (reato di indebita
compensazione), ha acquisito rilievo sul piano sostanziale a seguito dell’introduzione del termine “lungo” di decadenza (infra). Configurano “crediti inesistenti”, sia gli importi artificiosamente rappresentati in sede contabile o di dichiarazione tributaria, sia quelli ritenuti erroneamente esistenti per fatto imputabile, anche a titolo di colpa, all'autore della violazione; confi-
gurano, invece, “crediti non spettanti” gli importi effettivamente esistenti, ma non utilizzabili in compensazione. In ordine a
tali categorie, si rinvia, per un approfondimento a Logozzo,
“Gli incerti confini dell’indebita compensazione dei crediti inesistenti”, in Corr. Trib., n. 33/2011, pag. 2661 ss.
(22) L’impostazione sembrerebbe suffragata dalla lettera
dell’art. 10-quater della Legge n. 74/2000 (indebita compensazione di “crediti non spettanti o inesistenti”).
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Le perplessità irrisolte
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accertamento, quantomeno sul piano logico,
non può non revocare in dubbio la fondatezza
delle compensazioni “frazionate” operate in periodi precedenti (ancorché non più accertabili), è altrettanto vero che l’integrale (coerente)
ripetizione del credito comporta una sostanziale “riapertura” dei termini di accertamento e la
surrettizia rimozione dei limiti giuridici ed operativi sottesi ai termini decadenziali.
La potestà dell’Amministrazione finanziaria di
procedere ad accertamenti e rettifiche è, infatti, notoriamente soggetta a termini di decadenza, stabiliti, quanto alle imposte sui redditi,
dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973. Trovano
piena applicazione, a tale livello, i principi
sanciti, a livello generale (23), dalle disposizioni del Codice civile ed, in particolare, dall’art.
2966 c.c., ai sensi del quale la decadenza non è
impedita se non dal compimento dell’atto previsto dalla legge (24).
In tale prospettiva, mentre il recupero “retroattivo” e “ultrannuale” dei crediti inesistenti è
espressamente consentito dal comma 16 dell’art. 27 del D.L. n. 185/2008, appare del tutto
impropria l’estensione del termine decadenziale lungo fissato dalla norma al recupero dei
crediti non spettanti ed, in particolare, al recupero dei crediti utilizzati sopra soglia.
L’assimilazione delle due fattispecie (crediti
inesistenti-crediti non spettanti) - lungi dal
poter essere pianamente dichiarata - avrebbe,
dunque, richiesto un ulteriore sforzo esplicativo da parte della Suprema Corte, considerata
l’assenza di una nozione normativa e l’esistenza
di un ampio retroterra speculativo (supra).
Anche con riferimento ai crediti inesistenti,
del resto, l’applicazione del termine decadenziale “lungo” - quantunque positivamente sancita - desta alcune perplessità sotto il profilo sistematico.
La tesi della funzione accertativa dell’avviso di
recupero e la conseguente individuazione di un
termine di decadenza ai fini della relativa
emissione appaiono, invero, difficilmente coniugabili con la matrice squisitamente sovventiva del credito d’imposta, offuscata dalla successiva stratificazione legislativa.
Nel caso considerato, infatti, il successivo disconoscimento dell’agevolazione non comporta
un ampliamento (sopravvenuto) della base imponibile del quale si imponga l’accertamento,
configurandosi il credito d’imposta come un
contributo in conto esercizio (25), irrilevante
ai fini IRES ed IRAP (26). Conseguentemente,
in caso di successivo disconoscimento, il decremento della voce “altri ricavi e proventi” risulterà neutralizzato dal corrispondente decremento registrato nelle variazioni in diminuzione apportate in sede di dichiarazione dell’utile
di esercizio (27).
In tale prospettiva, è la stessa previsione di termini di decadenza ad apparire inconciliabile
con l’irrilevanza fiscale del contributo.
I termini di decadenza sono, infatti, come noto, fissati in relazione all’accertamento del “debito” del contribuente a tutela del relativo interesse alla certezza e stabilità della propria posizione fiscale, non rilevando, invece, ai fini
del disconoscimento di eventuali crediti vanta-
(23) Nel senso che gli artt. 2964 ss. c.c. contribuiscano all’interpretazione organica delle numerose disposizioni di legge,
anche estranee alla materia civilistica, disciplinanti le attività
sottoposte a termine, Roselli, voce “Decadenza. I) Diritto civile”, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, pag. 1.
(24) Cogliati Dezza, voce “Decadenza. VI) Diritto tributario”,
in Enc. giur Treccani, Roma, 1988, pag. 2.
(25) Le sovvenzioni pubbliche erogate a favore delle imprese rilevano, dal punto di vista contabile, o come contributi in
conto esercizio o come contributi in conto capitale. I contributi
in conto esercizio vengono erogati allo scopo di integrare i ricavi dell’azienda ovvero, come nell’ipotesi considerata, di ridurre i costi d’esercizio che le imprese sostengono per esigenze legate all’attività produttiva (costi per l’acquisto di fattori
produttivi). A tale livello, il modulo attuativo più ricorrente è divenuto quello della concessione di un credito d’imposta (c.d.
bonus fiscale) da utilizzare a riduzione delle imposte dovute
dall’impresa.
(26) Circolare Agenzia delle entrate 31 gennaio 2001, n. 1/E.
La disciplina fiscale relativa ai contributi in conto esercizio è
fissata dall’art. 85, comma 1, lett. g) e h), del T.U.I.R., ove si afferma che sono considerati ricavi, rispettivamente: i) i contributi in denaro, o il valore normale dei beni in natura spettanti,
sotto qualsiasi denominazione, in base a contratto (quindi, in
altri termini, possono rientrare in tale previsione sia i contributi
in conto esercizio, sia altre tipologie di contributi, purché risultino contrattualmente dovuti); ii) i contributi spettanti esclusivamente in conto esercizio a norma di legge (prescindendo,
quindi, dalla natura del soggetto erogante, che può essere
pubblico o privato).
(27) Zamaro, “Avvisi di recupero degli incentivi erogati per
l’incremento occupazionale”, in Corr. Trib., n. 40/2004, pag.
3150 ss.
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ti dal medesimo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (28).
Pertanto, mentre l’accertamento dell’esistenza
di debiti tributari (situazione giuridica attiva
dell’Amministrazione) deve essere attuato nel
rispetto di precisi termini (di decadenza), l’inesistenza dei crediti opposti in compensazione
(situazione giuridica passiva dell’Amministrazione) può essere oggetto di dimostrazione da
parte dell’Amministrazione (debitrice) fintanto
che il contribuente (creditore) seguiti, attraverso l’utilizzo in compensazione, ad esercitare
il proprio diritto. Trattandosi di un diritto, che
la stessa Amministrazione ha attribuito al contribuente (in sede di ammissione al beneficio),
tale dimostrazione si accompagnerà alla contestuale revoca del credito d’imposta (provvedimento naturalmente retroattivo) (29).
Né può trascurarsi come la natura accertativa
degli avvisi di recupero, mai espressamente affermata dal legislatore, sia stata solo implicitamente confermata dall’art. 27 cit., la cui emanazione è stata giustificata alla stregua delle
difficoltà operative indotte dal disallineamento
strategico tra il dato dichiarativo e gli elementi
esposti nel Mod. UNICO (infedele) (30).
Mentre, dunque, rispetto ai crediti da indebito,
l’applicazione del termine di decadenza “lungo”
(ed, in generale, di termini di decadenza) risulta coerente, sia con la matrice tributaria della
situazione soggettiva vantata dal contribuente,
che con l’oggetto della violazione (il credito
trae origine, in tal caso, dalla erronea o infedele rappresentazione in sede dichiaritiva) (31),
rispetto ai crediti da non indebito, la cui rilevanza fiscale sia, come nel caso di specie, rigidamente circoscritta al momento del versamento, non appare validamente sostenibile, né
la natura accertativa dell’avviso, né il relativo
assoggettamento a termini di decadenza (“brevi” o “lunghi” che siano).
In tali ipotesi, invero, l’avviso di recupero, pur
promanando da un soggetto pubblico, appare
orientato a contrapporre al diritto di credito
esercitato dal contribuente il sopravvenuto riscontro (in sede istruttoria) di circostanze
estintive o modificative del credito medesimo,
cui consegue la richiesta di restituzione di
quanto indebitamente corrisposto (attraverso
l’abbattimento fiscale precedentemente accordato). Tale provvedimento assolve, dunque,
una funzione ricognitiva della posizione passiva
dell’Amministrazione, più che di accertamento
della posizione fiscale del contribuente, sicché
la relativa emissione dovrebbe ritenersi sottratta alle ordinarie logiche e tempistiche accertative, risultando vincolata al solo rispetto dei
termini di prescrizione e del principio del legittimo affidamento (32).
(28) . In tale occasione la Corte ha rilevato come il condono
elida unicamente il debito fiscale, non investendo in alcun modo i crediti del contribuente (nella specie, un credito IVA), i
quali restano soggetti all’eventuale contestazione del Fisco.
Cass., 9 giugno 2010, n. 13858, con nota di Basilavecchia,
“Credito ‘riportato’ ma inesistente: rilevanza penale dell’utilizzo”, in Corr. Trib., n. 3/2011, pag. 212 ss.
(29) Eusepi, “Riconoscimento, revoca, recupero del credito
d’imposta: dispiegamento ‘continuato’ della funzione impositiva ed asimmetrie relazionali”, in questa Rivista, n. 4/2016, pag.
289 ss.
(30) Cfr. relazione illustrativa.
(31) In questi casi l’accertamento dell’inesistenza implica
una rideterminazione ‘‘a monte’’ della pretesa tributaria.
(32) La diversità del recupero del credito d’imposta rispetto
all’azione di accertamento ed il relativo assoggettamento al
solo termine ordinario di prescrizione decennale è stata evidenziata in talune occasioni dalla stessa Amministrazione finanziaria. Tale impostazione, tuttavia, non è stata avallata dalla
giurisprudenza di legittimità, che muovendo dalla sostanziale
equiparazione tra avviso di recupero ed avviso di accertamento ha ritenuto che il potere di recupero del credito di imposta
sia soggetto, al pari del potere di accertamento, ad un termine
di decadenza (in tal senso, da ultimo, Cass., 22 luglio 2016, n.
15186, la quale peraltro ha adottato, sul punto, un’impostazione divergente rispetto alla sentenza in commento ritenendo
applicabile, non il termine “lungo” di decadenza introdotto dall’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008, ma il termine ordinario previsto dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973).
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Imposta di registro
La cessione “isolata” di beni
funzionali all’esercizio d’impresa
è sempre cessione di azienda
Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016 (30 giugno 2016), n. 15175 - Pres. Canzio - Rel. Criscuolo
Imposta di registro - Applicazione dell’imposta - Causa reale ed effettiva regolamentazione degli interessi Rilevanza - Cessione di beni funzionali all’esercizio dell’impresa - Cessione d’azienda - Configurabilità - Imposta di registro - Applicabilità - Cessione di singoli beni non idonei all’esercizio dell’impresa - IVA - Applicabilità
Ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, e di riflesso anche ai fini dell’imposizione IVA, deve
attribuirsi rilievo preminente alla causa reale ed alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti. A tal uopo, è legittima la configurazione della cessione di azienda
tutte le volte in cui la relativa convenzione negoziale abbia avuto ad oggetto il trasferimento di beni organizzati in un contesto produttivo, anche solo potenziale, dall’imprenditore per l’attività di
impresa. Di conseguenza, laddove sussista una cessione di beni strumentali, atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio di impresa, si deve ravvisare una cessione di azienda
soggetta ad imposta di registro, mentre la cessione di singoli beni, inidonei di per sé ad integrare
la potenzialità produttiva propria dell’impresa, deve essere assoggettata ad IVA.
All’esito di una verifica fiscale effettuata nei confronti della Officine R. di R. E. & C. S.n.c., avente ad
oggetto una serie di contrati di cessione di beni perfezionati tra la detta società e la M.A.C. Metallurgica
Assemblaggi Carpenterie S.p.A., società incorporante
la MDM Meccanica S.p.A., l’Agenzia delle entrate
di Pontedera, previa riqualificazione dei rapporti contrattuali intercorsi tra le parti in termini di cessione
di azienda ovvero di ramo di azienda, emetteva avvisi
di accertamento ai fini dell’imposta di registro, ai fini
delle imposte dirette ed ai fini IVA nei confronti delle due società, in vista del recupero delle imposte effettivamente dovute, alla luce della nuova qualificazione giuridica dell’operazione intercorsa.
Gli avvisi erano impugnati dalle contribuenti, le quali ribadivano che in realtà erano state convenute delle semplici cessioni di beni strumentali, non potendo
accedersi alla tesi dell’Ufficio secondo cui l’oggetto
della cessione era un’azienda ovvero un ramo d’azienda.
La CTP di Pisa con le sentenze nn. 35/02/06 e
36/02/06, relative al ricorso proposto dalle Officine
R., e con la sentenza n. 34/02/06, relativa al ricorso
proposto dalla MDM, accoglieva le opposizioni ed
avverso entrambe le sentenze proponeva appello l’Agenzia delle entrate.
La CTR di Firenze, con la sentenza n. 93/18/08 del
27/11/08, riuniti i giudizi, rigettava gli appelli.
Osservava in primo luogo che mancava la contestazione nei confronti della MDM, poi trasformata in
MAC, dell’annullamento del contratto di vendita in
maniera tale da permettere alle Officine R. di avere
il diritto al rimborso dell’IVA pagata, ed alla stessa
MDM di recuperare l’IVA incassata e versata.
Nel merito osservava che nella fattispecie si trattava
di un’ipotesi di cessione di macchinari da parte di una
società che aveva deciso di cessare la propria attività e
che quindi metteva in liquidazione i propri beni.
Nel caso concreto le presse e gli altri macchinari acquistati dalla Officine R. erano di così specifico utilizzo da avere una scarsa platea di interessati, in ragione della peculiare attività imprenditoriale alla
quale erano preordinati e del loro rilevante prezzo.
Inoltre, i beni erano stati inseriti in una preesistente
attività dell’acquirente, previa costruzione di un capannone nuovo e di una nuova linea produttiva.
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Svolgimento del processo
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1. Con il primo motivo di ricorso, corredato anche
di quesito di diritto, si denunzia la violazione e falsa
applicazione del D.P.R. n. 131/1986, artt. 2, 20, 52 e
53.
La sentenza impugnata avrebbe infatti affermato che
nel caso concreto non era stata contestata l’invalidità
del contratto di vendita in maniera tale da permettere alle due società di recuperare, alle Officine R., l’IVA pagata, ed alla MAC, l’IVA incassata e versata.
A detta della ricorrente si tratta di un’affermazione
poco comprensibile che non tiene conto del disposto
di cui al D.P.R. n. 131/1986, art. 20, che appunto
prevede che l’imposta debba essere applicata in ragione dell’intrinseca natura e degli effetti giuridici degli
atti presentati alla registrazione.
Non occorre quindi alcuna contestazione di annullamento del contratto, vertendosi solo in merito al potere di riqualificazione giuridica della fattispecie ad
opera dell’Ufficio.
Con il secondo motivo, anche in tal caso corredato
di quesito di diritto, si lamenta la violazione e falsa
applicazione del D.P.R. n. 633/1972, art. 2, comma
3, lett. b), e art. 19, del D.P.R. n. 131/1986, art. 40,
e dell’art. 2555 c.c.
Rileva la ricorrente che la riqualificazione dei rapporti contrattuali intervenuti tra le parti in termini di
cessione di ramo d’azienda, anziché come cessione di
beni strumentali, trovava il proprio fondamento nella
stessa documentazione acquisita, e puntualmente richiamata nell’avviso impugnato.
In primo luogo la cessione prevedeva l’acquisto da
parte della Officine R., in pane direttamente, ed in
pane tramite società di leasing, di presse, macchinari
ed attrezzature, per lo svolgimento di attività di stampaggio lamiere, grassaggio, impacchettamento sfridi
ed assemblaggio di componenti stampati. Inoltre si
prevedeva che l’acquirente avrebbe provveduto alle
operazioni di smontaggio, imballo e trasferimento
delle presse dallo stabilimento industriale della cedente ai locali siti in (omissis).
Ancora, era stato concluso un contratto di fornitura
per effetto del quale la MDM, richiamando il preesistente contratto di fornitura concluso con la Piaggio
& C. S.p.A. relativo a prodotti realizzati tramite le
presse cedute, commissionava alle Officine R. la realizzazione dei prodotti necessari per adempiere al rapporto di fornitura con la Piaggio, secondo le condizioni contrattuali specificamente concordate.
La volontà di acquisire il ramo d’azienda da parte della Officine R. trovava conferma anche nel fatto che,
in epoca anteriore alla conclusione dei contratti di
vendita e di fornitura, la società aveva già trasferito
le presse presso il nuovo capannone, ottenuto in leasing, e già in precedenza modificato, con la realizzazione di vasche in c.a., onde accogliere i macchinari
acquistati.
La cessionaria si era resa altresì acquirente del magazzino delle materie prime e semilavorati, mentre dall’esame del libro matricole emergeva che la detta società aveva assunto alle proprie dipendenze con qualifiche operaie, 14 ex dipendenti della MDM. Assume
quindi la ricorrente che, ancorché per effetto di una
serie complessa di attività negoziali e di comportamenti, si era data attuazione ad un disegno unitario
finalizzato a permettere alle Officine R. di acquisire
un ramo d’azienda della cedente, avendo quindi acquisito un complesso organico, anche solo parziale, di
beni legati da un rapporto di complementarietà in vista della loro destinazione all’attività produttiva, senza che a ciò sia di ostacolo la mancata inclusione nella cessione anche dell’avviamento, ovvero il fatto
che i beni vengano destinati ad altro settore produttivo.
A fronte di tali rilievi puntualmente evidenziati sia
nei provvedimenti impugnati che nelle deduzioni difensive svolte in primo grado e nei motivi di appello,
la CTR nella sentenza impugnata aveva ricondotto
la fattispecie ad una semplice cessione di beni strumentali, ritenendo ostativo alla diversa tesi prospettata dall’Ufficio, il fatto che i beni erano stati inseriti
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Ancora, era stato trascurato il fatto che la maggior
parte dei beni erano stati acquistati in leasing, senza
che nella vicenda fosse stata coinvolta anche la società concedente, così che a fronte della detrazione
di imposta effettuata nei confronti della Officine R.,
in considerazione del fatto che la cessione d’azienda
è esente dall’IVA, l’altra parte del contratto si era vista mantenere in vita il contratto di leasing con il
conseguente pagamento dell’IVA. Pertanto essendo
in contestazione solo la vendita di beni del valore di
euro 80.000,00, a fronte della concessione in leasing
di beni del valore di euro 1.700.000,00, si trattava di
una vendita esigua che escludeva la fondatezza della
tesi dell’Ufficio.
Ha chiesto la cassazione di tale sentenza l’Agenzia
delle entrate sulla base di tre motivi.
La Officine R. S.p.A. (già Officine R. di R. E. e C.
S.n.c.) e la M.A.C. Metallurgica Assemblaggi Carpenterie S.p.A. (incorporante la MDM Meccanica
S.p.A.) hanno resistito con controricorso, depositando altresì memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
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nella preesistente attività produttiva della cessionaria, previa costruzione di un capannone nuovo e di
una nuova linea produttiva.
Trattasi di soluzione, a detta dell’Ufficio, che però
contravviene ai consolidati principi elaborati dalla
giurisprudenza in tema di cessione di azienda ovvero
di ramo di azienda, occorrendo infatti accedersi, proprio alla luce delle circostanze fattuali emergenti dai
documenti contrattuali e dalle altre prove acquisite,
alla conclusione che le parti avevano in realtà dato
vita ad una vicenda riconducibile alla previsione di
cui all’art. 2555 c.c.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta l’insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo
per il giudizio.
Ed, infatti riprendendosi gli argomenti già esplicitati
nell’illustrazione del secondo motivo di ricorso, così
come puntualmente riportati negli avvisi di liquidazione e di accertamento, assume la ricorrente che la
CTR si sarebbe soffermata solo sull’inserimento dei
beni nel complesso produttivo della cessionaria, senza
però esaminare le pattuizioni contrattuali dalle quali
invece emergeva che le parti stesse intendevano realizzare un disegno unitario teso a permettere alle Officine Ristori di poter continuare la produzione dei beni che la MDM aveva in ricevuto in commessa dalla
Piaggio. A tal fine la cessione non riguardava solo
singoli beni, ma un complesso organizzato di beni
idoneo a permettere la prosecuzione dell’identica attività produttiva svolta dalla cedente.
A fronte di elementi documentali chiaramente idonei a comprovare tale assunto, la decisione impugnata si era fondata su due profili del tutto irrilevanti
quali la costruzione di un nuovo capannone e l’inserimento dei beni in una nuova linea produttiva.
Così come del pari illogica appare la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha valorizzato il fatto che le presse di maggior valore erano state
acquisite dalla cessionaria mediante la conclusione di
un contratto di leasing, laddove tale strumento giuridico era stato utilizzato al solo fine di ottenere un finanziamento parziale dell’operazione negoziale, senza
però intervenire sulla natura giuridica della medesima.
2. Il primo motivo è inammissibile, in quanto indirizzato nei confronti di una affermazione contenuta nella sentenza impugnata inidonea a configurarsi alla
stregua di un’autonoma ratio decidendi, tale da sorreggere la validità della decisione stessa.
Ed, infatti, anche la ricorrente dubita che le affermazioni con le quali la CTR ha sostenuto che mancherebbe la contestazione dell’annullamento del contrat-
to di vendita, in maniera tale da permettere alle società interessate il rimborso dell’IVA pagata ed il recupero dell’IVA incassata e versata, costituiscano
una effettiva ragione della decisione, e tale dubbio
appare effettivamente confortato dal fatto che, anche
a voler sorvolare circa l’imprecisione della sentenza,
nella parte, in luogo di far riferimento alla corretta
necessità di addivenire ad una riqualificazione della
fattispecie giuridica ai fini fiscali, richiama il diverso
istituto dell’annullamento, trattasi in realtà di argomento che mira a ribadire la necessità che, una volta
ritenuta la natura di cessione d’azienda per il contratto intercorso tra le parti, se ne sarebbero dovute trarre anche le ulteriori conseguenze in tema di recupero
e rimborso dell’IVA, attenendosi non più alla qualificazione operata dalle parti, ma a quella in concreto
individuata dall’Ufficio.
Dalla lettura della motivazione, emerge che la conferma dell’accoglimento del ricorso delle società si
fonda sulla non condivisione della diversa qualificazione giuridica dell’operazione posta in essere, senza
che il detto rilievo circa la contestazione dell’annullamento anche ai fini dell’IVA, abbia assunto un’autonoma rilevanza ai fini del decidere.
Pertanto trattandosi a ben vedere di argomentazione
svolta ad abundantiam, la censura rivolta avverso la
stessa è inammissibile per difetto di interesse, in
quanto priva di effetti giuridici, e non determina alcuna influenza sul dispositivo della decisione (cfr.
Cass., n. 22380/2014; Cass., n. 23635/2010).
3. I restanti due motivi, attesa la loro connessione logica, ed essendo nel complesso mirati a contestare la
correttezza della qualificazione giuridica del contratto
intercorso tra le parti in termini di cessione di beni,
in luogo di quella, auspicata dall’Ufficio, di cessione
di ramo d’azienda, devono essere esaminati congiuntamente.
Preliminarmente devono essere disattese le contestazioni di parte controricorrente circa la loro ammissibilità formale, occorrendo rilevare che i motivi appaiono corredati, il secondo, del quesito di diritto, ed
il terzo, del quesito di sintesi, così come imposto dal
dettato dell’art. 366-bis c.p.c., applicabile al procedimento in esame ratione temporis.
Del pari va disattesa la deduzione di aspecificità del
quesito di diritto, posto che lo stesso evidenzia con
precisione quali siano le norme di diritto che si assume essere state violate da parte del giudice di appello,
non ostando a tale conclusione la circostanza che
nell’estrinsecazione del quesito si faccia riferimento
anche a precedenti giurisprudenziali, posto che proprio mediante l’interpretazione giurisprudenziale si
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perviene alla corretta interpretazione delle norme di
diritto, potendosi per l’effetto trarre anche il contenuto del precetto che si assume violato o malamente
applicato dalla sentenza gravata.
Così come del pari deve essere disattesa la contestazione circa la corretta formulazione del quesito di sintesi, in relazione al terzo motivo di ricorso, avendo
chiaramente evidenziato la ricorrente come il fatto
controverso relativamente al quale si contesta il vizio
motivazionale, sia rappresentato proprio dalla non
corretta valutazione delle intese e degli accordi intervenuti tra le parti, assumendosi che, per escludere la
natura di cessione di ramo d’azienda, la CTR avrebbe
valorizzato alcuni elementi secondari, trascurando del
tutto la reale configurazione dell’operazione giuridico-economica voluta dai contraenti.
Reputa il Collegio che i motivi siano fondati e che
pertanto debbano essere accolti.
A tal fine deve essere ribadito il principio più volte
affermato da questa Sezione secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, e di riflesso anche ai fini dell’imposizione IVA, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale ad alla effettiva
regolamentazione degli interessi realmente perseguita
dai contraenti (Cass., 7 luglio 2003, n. 10660; Cass.,
25 febbraio 2002, n. 2713). Particolarmente “in materia di imposta sugli atti”, questa Corte (Cass., 23
novembre 2001, n. 14900) ha precisato (e ribadito
nelle successive decisioni n. 11457 del 30 maggio
2005, n. 2713 del 25 febbraio 2002 e n. 10660 del 7
luglio 2003, pure di questa Sezione) che “la scelta legislativa di privilegiare, nella contrapposizione fra ‘la
intrinseca natura e gli effetti giuridici’ ed ‘il titolo o
la forma apparente’ di essi, il primo termine, unitariamente considerato” assume un “rilievo di fondo” ed
implica che “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi
della fattispecie tributaria” per cui, “anche se non potrà prescindersi dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali (...)”, “nella individuazione della materia imponibile dovrà darsi prominenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare,
con conseguente tangibilità, sul piano fiscale, delle
forme negoziali”.
Il tema dell’indagine non consiste nell’accertare cosa
le parti hanno scritto ma cosa le stesse hanno effettivamente realizzato con il regolamento negoziale adottato.
In tale prospettiva, ed ai fini che qui rilevano, il carattere precipuo dell’azienda, secondo la nozione civilistica nazionale dell’istituto, è dato dall’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio dell’impresa intesa
come opera unificatrice dell’imprenditore funzionale
alla realizzazione di un rapporto di complementarietà
strumentale tra beni destinati alla produzione per cui
(Cass., 28 aprile 1998, n. 4319) è legittima la configurazione, da parte del giudice di merito, della fattispecie della cessione di azienda tutte le volte in cui
la relativa convenzione negoziale abbia avuto ad oggetto il trasferimento di beni organizzati in un contesto produttivo (anche solo potenziale) dall’imprenditore per l’attività d’impresa. Di conseguenza ove sussista una cessione di beni strumentali, atti, nel loro
complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio
di impresa, ai deve ravvisare (Cass., n. 897/2002,
Cass., n. 11457/2005) una cessione di azienda soggetta ad imposta di registro, mentre la cessione di singoli
beni, inidonei di per sé ad integrare la potenzialità
produttiva propria dell’impresa, deve essere assoggettata ad IVA. A questi fini, poi, non si richiede che
l’esercizio dell’impresa sia attuale, essendo sufficiente
l’attitudine potenziale all’utilizzo per un’attività d’impresa, né è esclusa la cessione d’azienda per il fatto
che non risultino cedute anche le relazioni finanziarie, commerciali e personali (conf. Cass., n.
11457/2005; Cass., n. 10273/2007; C ass., n .
23857/2007).
Né appare ostativa alla configurabilità di una cessione di azienda la circostanza che il trasferimento contestuale sia compiuto attraverso negozi formalmente
distinti, laddove i beni siano però idonei nel loro
complesso e nella loro interdipendenza all’esercizio
dell’impresa (Cass., n. 1405/2013), né rileva (Cass.,
n. 10740/2013) che per l’esercizio dell’impresa si siano rese delle integrazioni ad opera del cessionario.
Come ben illustrato da Cass., n. 1955/2015, la necessità di guardare all’intrinseca natura ed agli effetti
giuridici degli atti comporta che, nell’imposizione di
un negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla
sua causa reale e alla regolamentazione degli interessi
effettivamente perseguita dai contraenti, anche se
mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali.
Non rileva quindi ciò che le parti hanno scritto, ma
cosa esse hanno effettivamente realizzato col complessivo regolamento negoziale adottato, anche indipendentemente dal contenuto delle dichiarazioni rese.
Ne discende che l’imposizione deve riferirsi al risultato di un comportamento sostanzialmente unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali.
Tonando al caso di specie reputa il Collegio che la
decisione impugnata non si sia attenuta ai suddetti
principi, avendo pur a fronte di una compiuta serie
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di elementi documentali, attribuito rilevanza, ai fini
dell’esclusione della cessione di azienda, a circostanze
che, proprio alla luce di quanto sopra esposto, non
assumono rilevanza decisiva.
Ed, invero, risulta in primo luogo la conclusione di
un contratto nel complesso finalizzato all’acquisto
delle presse, per le quali si specifica l’attività in vista
della quale sono destinate ad essere utilizzate, manifestandosi chiaramente l’intento della cessionaria di ottenere la disponibilità di tutte le presse ivi richiamate
negli allegati, sebbene solo per alcune ne fosse previsto l’acquisto diretto, essendosi contemplato il ricorso
ad un contratto di leasing per il conseguimento della
disponibilità di quelle di cui all’allegato B) del contratto (e precisamente per quelle di valore decisamente superiore rispetto a quelle oggetto di acquisto
diretto).
Risulta quindi evidente l’intimo collegamento negoziale tra le diverse modalità di acquisizione della disponibilità dei macchinari, di tal ché non potrebbe
valutarsi l’acquisto diretto delle presse separatamente
dalle vicende del contratto di leasing. Ma ancor più
confortante circa la correttezza della riqualificazione
della vicenda negoziale, così come operata dall’Ufficio, è la lettura del contratto di fornitura per effetto
del quale la Ristori si impegnava a fornire alla MDM
i prodotti individuati nell’Allegato A) del contratto,
e cioè dei medesimi prodotti che a sua volta la MDM
si era impegnata a fornire alla Piaggio & C. S.p.A.
per effetto del contratto del 28 maggio 1998.
Nella premessa dell’atto in esame, infatti si specifica
espressamente che la ragione dell’accordo risiedeva
nel fatto che la MDM aveva ceduto a R. “le presse,
le attrezzature ed i macchinari necessari per la realizzazione della quasi totalità dei prodotti da consegnare
a Piaggio”, aggiungendosi poco dopo che R., anche
per effetto della predetta cessione, disporrà in tempo
utile delle risorse, del personale e delle conoscenze
tecniche e tecnologiche necessarie e sufficienti per
provvedere al soddisfacimento delle esigenze di Piaggio & C. S.p.A.
La lettura combinata di tali previsioni con l’accordo
finalizzato ad assicurare il trasferimento dei macchinari, depone in maniera evidente per la conclusione
che le presse e gli altri macchinari venduti apparivano sostanzialmente idonei ad assicurare il trasferimento di un ramo di azienda munito di autonoma
potenzialità produttiva, in maniera tale da consentire, una volta trasferiti i macchinari nel capannone
fatto predisporre dalla cessionaria allo specifico fine
di alloggiare tali manufatti, la prosecuzione dell’attività produttiva già in precedenza svolta dalla MDM,
e senza una sostanziale soluzione di continuità (atteso
che il trasporto ed il montaggio delle presse risale ad
una data anteriore alla formale conclusione dei contratti di vendita).
In tal senso non deve trascurarsi, come si evince dalla lettura del contratto, che i diritti di proprietà industriale ed intellettuale sugli stampi forniti in comodato dalla cedente alla cessionaria, così come sugli stessi prodotti, siano appartenenti alla Piaggio (art. 2.5
del contratto di fornitura), di guisa che anche il rapporto intercorso tra la cedente e la committente
Piaggio appare riconducibile ad una ipotesi sostanziale di subfornitura, essendo la produzione della prima
destinata esclusivamente alla seconda, e realizzata
conformemente e rigorosamente attenendosi alle specifiche tecniche dettate da quest’ultima.
Trattasi di considerazione che incide anche sull’argomento speso dalle controricorrenti circa la mancata
menzione negli accordi intervenuti tra cedente e cessionaria, anche dell’avviamento, essendo evidente
che in una situazione connotata da tali modalità di
svolgimento del rapporto, il valore dell’avviamento
risulta pressoché nullo.
A completare il quadro degli elementi fattuali si pone
poi l’acquisizione ad opera della R. del magazzino materie prime e semilavorati della MDM, la cui consegna in maniera frazionata avviene contestualmente
alla cessione delle presse, nonché l’assunzione da parte della cessionaria di ben 14 ex dipendenti della
MDM. In presenza di tale complessivo quadro istruttorio, l’accoglimento del ricorso delle contribuenti risulta effettivamente idoneo a violare le suesposte prescrizioni normative, essendosi del tutto trascurata la
nozione di azienda (ovvero di ramo d’azienda), quale
evincibile, con specifico riferimento alla materia tributaria, dai precedenti giurisprudenziali sopra riportati, ed essendosi avvalsa la CTR, al fine di contrastare
l’operato dell’Ufficio di elementi in parte non significativi o decisivi (come ad esempio la costruzione di
un capannone nuovo per alloggiare le presse ed i
macchinari, elemento questo che trascura il fatto che
non immutano la qualificazione giuridica in termini
di cessione di azienda l’eventuale ingerenza del cessionario ovvero le modifiche di carattere secondario
apportate all’organizzazione dei mezzi di impresa unitariamente considerati - cfr. in tal senso, ed anche al
di fuori della materia tributaria, Cass., n. 27286/2005
- né che il ramo di azienda riceva una diversa localizzazione), ed in parte irrilevanti (come ad esempio la
circostanza che l’acquisto della maggior parte delle
presse sia avvenuta mediante la coeva conclusione di
un contratto di leasing, costituendo il ricorso a tale
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strumento giuridico, l’utilizzo di una valida modalità
di finanziamento della cessione, onde procurarsi la
provvista per far fronte all’obbligo di pagamento del
prezzo della cessione).
Alla cassazione della sentenza consegue il rinvio per
un nuovo esame alla CTR di Firenze in diversa composizione, la quale provvederà anche sulle spese del
presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo, accoglie i restanti motivi e cassa la sentenza impugnata
con rinvio ad altra Sezione della CTR di Firenze, che
provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
La riqualificazione degli assetti negoziali
nella prospettiva dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986
di Filippo Dami (*) e Diletta Mazzoni (**)
La Corte di cassazione, con sentenza n. 15175/2016, ribadisce che la cessione di beni strumentali che si rivelino idonei, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio dell’impresa deve riqualificarsi ai fini impositivi come una cessione di azienda. Questa conclusione viene
raggiunta sullo sfondo di una ricostruzione sistematica che conferma come, ai fini dell’applicazione dell’imposizione indiretta, debba attribuirsi rilievo preminente alla causa reale ed alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti con il loro assetto negoziale, del quale quindi ed in ultima analisi vanno sempre apprezzati i reali effetti giuridici. Se
ne trae la conferma nel fatto che l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 non ha nulla a che vedere né
con l’elusione, né con l’abuso del diritto. Resta semmai da domandarsi come possano superarsi
le difficoltà di apprezzamento di una fattispecie tanto complessa ed articolata come la cessione
d’azienda. In questa prospettiva, mancando (ancora?) l’affermazione di un generalizzato principio del contraddittorio preventivo, l’unica forma di efficiente compliance che il contribuente dovrà attentamente valutare è quella sottesa alla presentazione del c.d. interpello qualificatorio
previsto dal “nuovo” art. 11 della Legge n. 212/2000.
Il caso affrontato nella sentenza in commento
muove dalla contestazione (ormai “classica”)
di riqualificazione in cessione di ramo d’azienda di una serie di separate pattuizioni negoziali,
attraverso le quali una società aveva ceduto ad
un’altra alcuni macchinari ed il proprio magazzino, nel contesto di un più ampio accordo
funzionale ad assicurarne l’utilizzo in chiave
imprenditoriale.
Segnatamente, nel caso di specie, i cespiti oggetto di (autonoma e separata) alienazione erano costituiti da “presse, macchinari ed attrezzature, per lo svolgimento di attività di stampaggio lamiere, grassaggio, impacchettamento sfridi ed assemblaggio di componenti stampati”
che erano impiegati in un fabbricato industriale già di proprietà dell’acquirente e, a tale ces(*) Professore Aggregato di Diritto Tributario presso l’Università degli Studi di Siena
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sione, erano conseguiti una serie di ulteriori
accordi tra le parti che, di fatto, avevano permesso all’acquirente medesima di proseguire la
fornitura dei beni prodotti nei confronti di un
primario cliente della cedente, una parte dei
cui dipendenti risultavano reimpiegati quale
forza lavoro della nuova realtà industriale.
All’esito del giudizio di merito, conclusosi in
entrambi i gradi a favore della parte privata,
l’Agenzia delle entrate aveva proposto ricorso
per Cassazione sostenendo, in particolare e per
quanto qui interessa, la violazione delle norme
di cui agli “artt. 2, comma 3, lett. b) e 19 del
D.P.R. n. 633/1972, (...) 40 del D.P.R.
131/1986 e (...) 2555 c.c.”, siccome i concreti
effetti verificatisi nel caso di specie sarebbero
stati, per l’appunto quelli di una cessione di
(**) Avvocato in Empoli
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azienda e non di singoli beni, con conseguente
integrazione dei relativi presupposti ai fini impositivi.
La Corte ha, infine, accolto (cassando con rinvio la sentenza impugnata) le doglianze dell’Amministrazione finanziaria richiamando alcuni principi (già) consolidatisi in una serie di
sue precedenti pronunce (puntualmente richiamate in quella in commento) secondo i quali:
a) “ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro (...) deve attribuirsi rilievo preminente
alla causa reale ed alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai
contraenti”, talché “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscono a
semplici elementi della fattispecie tributaria”,
per cui “anche se non potrà prescindersi dall’interpretazione della volontà generale secondo i canoni generali”, “nella individuazione
della materia imponibile dovrà darsi prominenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare
con conseguente tangibilità, sul piano fiscale,
delle forme negoziali”. “Il tema dell’indagine
non consiste nell’accertare cosa le parti hanno
scritto ma cosa le stesse hanno effettivamente
realizzato con il regolamento negoziale adottato”;
b) deve, quindi, ritenersi configurata una cessione di azienda “tutte le volte in cui la relativa convenzione negoziale abbia avuto ad oggetto il trasferimento di beni organizzati in un
contesto produttivo (anche solo potenziale)
dall’imprenditore per l’attività di impresa” di
talché tale fattispecie ricorre “ove sussista una
cessione di beni strumentali atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza all’esercizio
dell’impresa” che, invero, e sempre per quanto
i giudici indicano, potrebbe anche non essere
attuale bastando a tal fine la sussistenza di una
mera idoneità per tale utilizzo.
Riqualificazione degli assetti negoziali
(1) Cfr., anche per ulteriori riferimenti alla dottrina che si è
occupata di questo tema, F. Dami, “Conferimento di azienda e
cessione delle partecipazioni: siamo alla svolta?”, in questa Rivista, n. 10/2016, pag. 795.
(2) Si veda, per maggiore completezza sotto questo profilo,
E. Della Valle, “Profili elusivi/abusivi della circolazione indiretta
del complesso aziendale”, in il fisco, n. 35/2014, pag. 3409 ss.
(3) Cfr., Cass., n. 5877 o, più di recente, n. 1955/2015, che
recepiscono il consolidato orientamento dottrinale di impossibilità di riferire natura antiabusiva all’art. 20, D.P.R. n.
131/1986. Si veda sul punto, ad es., G. Marongiu, “L’abuso
del diritto nella legge del registro tra principi veri e principi asseriti”, in Dir. prat. trib., n. 1/2013, pag. 361 ss., o G. Tabet,
“L’art. 20 della legge di registro e la dottrina della metempsicosi”, in questa Rivista, n. 7/2016, pag. 588.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
La (condivisibile) conclusione ora sintetizzata
permette di tornare a riflettere sul tema, mai
sopito ed anzi oggetto di costanti spunti di rinnovato interesse, della possibile riqualificazione degli assetti negoziali definiti dai contribuenti ai fini della (corretta) sottoposizione
dei medesimi all’imposizione indiretta che, invero, trova nell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986
il proprio tradizionale referente normativo (1).
La sentenza in commento sembra, peraltro,
confermare l’impostazione che vuole ricondotta tale norma al proprio alveo naturale, di previsione che legittima l’Amministrazione finanziaria a tassare gli atti sottoposti a registrazione
prescindendo dal loro nomen, ed avendo piuttosto riguardo agli effetti giuridici che l’assetto
negoziale infine determina. Si tratta, con ogni
evidenza, di una lettura pertinente della volontà legislativa che esprime la necessità di valorizzare, ai fini del tributo in esame, l’assetto
reale che con le loro pattuizioni le parti intendevano configurare.
Ma proprio considerando tale profilo emerge
l’elemento qualificante della pronuncia che ne
occupa: se, infatti, il citato art. 20 ha la funzione di indicare il “criterio” di tassazione, la
“modalità” con la quale la (corretta) fattispecie
imponibile viene individuata non può che essere quella imposta dal riferimento alle ordinarie regole civilistiche in punto di interpretazione dei contratti (i.e., l’art. 1362 c.c.) (2) cui,
inevitabilmente, l’Ufficio dovrà quindi far ricorso nella propria attività istruttoria e delle
quali dovrà dar conto per motivare adeguatamente gli atti impositivi che, infine, si determini ad emettere.
Prende, insomma (e opportunamente), sempre
più campo anche in giurisprudenza (3) la tesi
per cui l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 non ha
nulla a che vedere con l’elusione e con l’abuso
73
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Giurisprudenza
Legittimità
di diritto, così superandosi il (discutibile precedente) orientamento il quale, nell’attribuirvi
siffatta funzione (4), valorizzava detta norma
come referente giuridico di rettifiche che, per
la fattispecie che qui interessa, qualificavano le
cessioni aziendali indirette come operazioni,
per l’appunto, abusive (5).
Di qui, il correlato ridimensionamento della
portata applicativa di tale norma che è da auspicare sia ormai chiaro che può essere impiegata esclusivamente nella valutazione dell’atto
sottoposto a registrazione in senso strettamente
“cartolare” (6), senza esorbitare al di fuori di
esso involgendo operazioni civilistiche e commerciali ivi non rappresentate (7).
Cessione (isolata) di beni
o (unitaria) di azienda?
Sullo sfondo delle condivisibili conclusioni di
ordine sistematico cui si è ora fatto riferimento, resta da riflettere brevemente sui parametri
per valutare quando una serie di isolate cessioni di beni possa riqualificarsi, nel senso indicato, come una cessione di azienda o, ovviamente (e nello stesso senso), come ramo di essa.
Rispetto a tale profilo la sentenza in commento non segna alcun profilo innovativo, limitandosi a richiamare principi che possiamo ritenere del tutto pacifici. Come inizialmente indicato, i giudici di legittimità nel caso di specie,
tornano infatti a ricordare tutti quei precedenti
nei quali è stato chiarito che, a tal fine, debba
guardarsi al risultato finale che la complessiva
convenzione negoziale ha determinato, di fatto
verificando se quei beni oggetto delle singole
cessioni abbiano o meno mantenuto, anche
presso il loro acquirente, quel rapporto di combinazione organizzata idonea a supportare l’esercizio di una attività imprenditoriale che, invero, costituisce il cuore della definizione stessa di azienda secondo l’art. 2555 del Codice civile.
In tal senso, non sarà quindi sufficiente una
mera valutazione astratta, ma la concreta verifica di questa circostanza la quale non potrà
prescindere dalle concrete condizioni fattuali
nelle quali l’assetto negoziale si è materializzato.
Affidandosi ad uno dei tanti possibili esempi, è
chiaro che se un imprenditore acquista da un
altro alcuni macchinari al solo scopo di completare o rinnovare il proprio apparato produttivo non sta acquistando un’azienda, ma altrettanto chiaro è che, se al contrario tale acquisizione implica (come sembra si fosse verificato
nel caso di specie) l’integrazione di una attività
pur correlata a quella condotta ma prima non
esercitata (o esercitata in termini organizzativi
diversi) quanto acquistato è certamente un’azienda.
Si tratta, evidentemente, di questioni controverse (e controvertibili) che, invero, scontano
l’incertezza tipica della qualificazione in chiave
giuridica di fenomeni complessi ed articolati la
quale è spesso condizionata dalla sensibilità di
chi proceda alla relativa osservazione. Ed invero è questa una delle ipotesi che disvelano la
stretta necessità di una adeguata fase contraddittoria nel momento in cui l’istruttoria dell’Ufficio venga avviata. Il confronto con il
(4) Cfr., sul punto, Cass., n. 3481/2014 dove si legge che:
“in materia tributaria costituisce condotta abusiva l’operazione
economica cha abbia quale suo elemento predominante ed
assorbente lo scopo elusivo del Fisco, sicché il divieto di siffatte operazioni non opera ove esse possano spiegarsi altrimenti
che con il mero conseguimento di risparmi di imposta (v.
Cass., SS.UU., n. 19234/2012, n. 21782/2011). Peraltro il principio secondo cui, in forza del diritto comunitario, non sono
opponibili all’Amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscono abuso del diritto, cioè
che si traducono in operazioni compiute essenzialmente per il
conseguimento di un vantaggio fiscale, deve estendersi a tutti
i settori dell’ordinamento tributario, e dunque anche all’ambito
delle imposte indirette, essendo sufficiente anche la prova presuntiva, come nella specie. Pertanto, incombe sul contribuente
la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o
concorrenti con carattere non meramente marginale o teorico,
come nel caso in esame (cfr., anche Cass., SS.UU., n.
8772/2008)”.
(5) Per maggiore completezza sull’aspetto in argomento, si
veda M. Beghin, “La cessione di azienda tra qualificazione giuridica del fatto, interpretazione dell’atto e ridimensionamento
dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986”, in Corr. Trib., n. 40/2016,
pag. 3037.
(6) Come si comprende, in via dirimente, dal passaggio della sentenza in rassegna ove si legge che: “nella individuazione
della materia imponibile dovrà darsi prominenza assoluta alla
causa reale sull’assetto cartolare, con conseguente tangibilità,
sul piano fiscale, delle forme negoziali”.
(7) L’impostazione appena descritta restituisce d’altra parte
coerenza alla norma anche sotto il profilo sistematico essendo
la stessa collocata nel contesto di un tributo tradizionalmente
qualificato tradizionalmente come “imposta d’atto”.
74
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Legittimità
contribuente sembra, infatti, decisivo per la
valutazione di elementi che la successiva fase
giudiziale (come ci mostra anche il caso sotteso
alla decisione in commento) non sembra in
grado di riuscire a far affiorare con il dovuto
approfondimento.
Ma è proprio ragionando su questo profilo che
emerge un possibile limite dell’inquadramento
sistematico della disciplina di riferimento sulla
quale ci si è prima soffermati. Se, infatti, l’art.
20 del D.P.R. n. 131/1986 non è una norma
antielusiva, è chiaro che la stessa non sconta
le garanzie procedimentali (proprio in chiave
di preventivo confronto tra Fisco e parte privata) che tipicamente riguardano queste ipotesi e
che oggi sono nel nostro ordinamento ribadite
nell’assetto definito dall’art. 10-bis della Legge
n. 212/2000.
Manca d’altra parte - almeno per il momento e
nell’attesa che si formi al riguardo un orientamento interpretativo consolidato e condiviso l’affermazione nel nostro ordinamento di un
generalizzato diritto (per il contribuente) e dovere (per l’Amministrazione finanziaria) al
contraddittorio preventivo che preceda (in via
generalizzata) l’emissione dell’atto impositivo (8).
Applicazione dell’interpello qualificatorio
In questa prospettiva, l’utile forma di compliance al momento “disponibile” è allora (solo)
quella che si rinviene nella nuova disciplina
degli interpelli attuata con il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156 (9) e che, nella modifica recata all’art. 11 della stessa Legge n. 212/2000, ha
previsto che è consentito al contribuente sollecitare l’Amministrazione finanziaria a rendergli
(8) Il riferimento è, ovviamente, al noto dibattito suscitato al
riguardo dal succedersi delle pronunce delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (prima con la sentenza n. 1869/2014,
poi smentita con la successiva sentenza n. 24823/2015) e della
remissione della questione riguardante la portata applicativa
dell’art. 12, comma 7, della Legge n. 212/2000 alla Corte costituzionale operata dalla Comm. trib. reg. Toscana con l’ordinanza n. 736/1/15. Si tratta di un tema che esula i limiti del presente lavoro e sul quale non è quindi utile (né possibile) soffermarsi se non per ribadire che quella in esame è una della fattispecie che deporrebbe per il ritenere di stretta utilità, in chiave
di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa prima ancora che di garanzia del diritto di difesa del contribuente, l’affermazione di un generalizzato obbligo del contraddittorio pre-
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
un parere motivato su un caso concreto e personale, non solo per elidere le obiettive condizioni di incertezza che connotino l’interpretazione di una norma tributaria che egli si trovi
ad applicare (c.d. interpello ordinario interpretativo, che ricalca esattamente l’istituto contemplato nel pregresso art. 11 del medesimo
Statuto dei diritti del contribuente), ma anche
per la qualificazione di una fattispecie la cui
(corretta) individuazione sia necessaria per applicare, non applicare o applicare in modo diverso un determinato precetto impositivo. Si
tratta, invero, del c.d. interpello ordinario qualificatorio che, secondo le indicazioni della relazione di accompagnamento al provvedimento
di riforma, ricorre, tra le altre ipotesi, proprio
per valutare la sussistenza di un’azienda nel
momento in cui sia dubbio che se ne stia configurando il trasferimento.
Ebbene, simile riferimento, se da un lato dimostra una sensibilità del legislatore nel comprendere la delicatezza e l’incertezza che caratterizzano l’ipotesi di cui stiamo trattando, dall’altro
dovrà necessariamente sollecitare l’attenzione
dei contribuenti, non solo nella prospettiva di
assicurarsi (attraverso questo “dialogo” preventivo) la certezza circa la correttezza dei propri
comportamenti (quale tratto rilevante allorché
si discuta, come in questo caso, di fenomeni di
riorganizzazione imprenditoriale), ma anche
perché la mancata attivazione di tale (pur facoltativo) strumento potrà poi rivelarsi uno
svantaggio nell’eventuale fase accertativa e
giudiziale, potendo ingenerare anche un (negativo) apprezzamento verso un contegno di scarsa trasparenza nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria.
ventivo. Al riguardo, tra i molti e limitatamente a taluni dei
contributi più recenti, cfr. E. De Mita, “Sul contraddittorio le
Sezioni unite scelgono una soluzione ‘politica’”, in Dir. prat.
trib., 2016, pag. 20241; A. Lovisolo, “Il contraddittorio preventivo tra speranze (deluse), rassegnazione e prospettive”, ivi,
2016, pag. 719; F. Tundo, “La riaffermazione del contraddittorio anteriore al provvedimento accertativo”, in Corr. Trib.,
2016, pag. 1878, G. Glendi, “I giudici di merito (e non solo) si
‘ribellano’ alle ‘ultime parole’ delle Sezioni Unite sul contraddittorio”, ivi, 2016, pag. 1569.
(9) Sulla quale si vedano, da ultimo, i commenti di G. Glendi
in C. Glendi - C. Consolo - A. Contrino, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, IPSOA, 2016, pag. 89 ss.
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Merito
Fiscalità internazionale
I vizi formali non fanno perdere
la qualifica di beneficiario effettivo
prevista dalla normativa europea
Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I, Sent. 3 novembre 2016 (18 ottobre
2016), n. 8303 - Pres. Roggero - Rel. Chiametti
Fiscalità internazionale - Direttive - Direttiva “interessi e canoni’’ - Diritti riconosciuti dalla normativa europea
- Soddisfacimento dei requisiti sostanziali - Necessità - Requisiti formali - Irrilevanza
I diritti riconosciuti dalla normativa dell’Unione Europea (nel caso in specie, la Direttiva “interessi e
canoni”), qualora siano soddisfatti i relativi requisiti sostanziali che consentono di beneficiarne,
non possono essere disconosciuti per il mancato rispetto di requisiti puramente formali, non
espressamente previsti dalla normativa europea.
La società ricorrente A. S.r.l. impugnava l’avviso in
epigrafe con ricorso depositato il 27 aprile 2016. La
controversia traeva origine dal PVC con il quale
l’Ufficio delle entrate contestava alla società ricorrente, l’omessa applicazione di ritenute (12,50%) su
interessi corrisposti nel 2010, al socio francese A.E.
S.A., in violazione dell’art. 26-quater del D.P.R. n.
600/1973. Dava evidenza che, anche per i periodi
d’imposta 2008 e 2009 nei quali erano state sollevate
simili contestazioni, in data 16 marzo 2015 era stata
depositata al Ministero dell’Economia e della Finanza
a Roma, istanza per l’applicazione della procedura
amichevole (MAP) secondo l’art. 26 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia.
La contestazione sollevata dall’Ufficio atteneva alla
inidoneità della documentazione prodotta dalla società, in ordine alta mancanza di una data certa che
comprovasse la consegna della documentazione, di
cui all’articolo in parola, prima del momento di pagamento degli interessi. La società ricorrente eccepiva che la stessa godeva di tutti i requisiti previsti dal
citato art. 26-quater e che, tale circostanza, era stata
riconosciuta anche dai verificatori. Dunque la verificata società riteneva che l’avviso in questione era
stato spiccato solo per il difetto della data certa sulla
documentazione comprovante la sussistenza dei requisiti. All’uopo evidenziava come l’interpretazione
della norma in parola fornita dall’Ufficio era erro-
nea, infatti, tale norma non comminava la nullità
della documentazione per il solo fatto che la stessa
non veniva presentata, in ipotesi, oltre il termine
previsto. Affermava poi, che l’esenzione da ritenuta
spetti in presenza dei requisiti di legge e che tale
esenzione non poteva essere disconosciuta per il motivo che la documentazione attestante i requisiti veniva non già omessa, ma solo tardivamente presentata. Sul punto citava la sentenza n. 9819/1/2015
della stessa CTP adita che, in accoglimento delle ragioni del contribuente, statuiva che per la prova
della qualifica del beneficiario effettivo, del soggetto
percipiente, era sufficiente produrre la certificazione
di residenza nello Stato comunitario e che, eventuali oneri aggiuntivi richiesti dall’A.F. non potevano
essere ritenuti obbligatori, inclusi la prova della data
certa. Citava dell’altra giurisprudenza di merito e di
legittimità oltre che documenti di prassi che affermavano che in presenza dei requisiti sostanziali, per
la fruizione dell’agevolazione, delle mere carenze
formali, quali la data certa mancante non potevano
mai portare alla disapplicazione di un regime di favore come quello contemplato dall’art. 26-quater del
D.P.R. n. 600/1973. Aggiungeva altresì, che una siffatta interpretazione dell’art. 26-quater del Decreto
presidenziale da ultimo citato era in aperto conflitto
con la giurisprudenza di matrice Europea laddove indicava che era vietato subordinare il diritto all’esenzione d’imposta al mero rispetto di obblighi formali.
Con riferimento al calcolo delle sanzioni evidenzia-
76
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
Fatto e diritto
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Merito
va come, a suo dire, l’Ufficio aveva violato l’art. 12
del D.Lgs. n. 472/1997 sul c.d. cumulo giuridico,
giacché, trattandosi di violazione di diverse disposizioni di legge la sanzione applicabile sarebbe dovuta
essere la minore tra quella risultante dalla somma
materiale delle singole violazioni e quella risultante
dal calcolo incrementale basato sulla sanzione più
grave. Seguitava poi nell’esposizione di calcoli suoi
propri e concludeva per la totale illegittimità della
sanzione pretesa. Come ultimo motivo di doglianza
evidenziava che, nel caso in cui la data certa assumesse valore probante, che l’aliquota applicabile alla ritenuta non era quella del 12,50% come preteso
dall’Ufficio, bensì quella del 10%, quale ritenuta
convenzionale, così come stabilito all’interno del
Trattato contro le doppie imposizioni tra Italia e
Francia, all’art. 11, comma 2. Chiedeva la declaratoria di invalidità dell’avviso di accertamento impugnato. In data 18 luglio 2016, l’Ufficio si costituiva
in giudizio. Evidenziava sin da subito che, dalla semplice lettura della norma era perspicuo che la presentazione della dichiarazione, attestante il possesso
dei requisiti di legge, da parte del beneficiario effettivo, doveva essere presentata entro la data di pagamento degli interessi passivi. Seguitava nel ritenere,
al contrario di quanto affermato da parte avversa
che, l’indicazione della data certa aveva natura sostanziale in quanto impediva l’espletamento dell’attività di controllo da parte degli Uffici. Sul punto riteneva pienamente legittimo il proprio operato. Sulla doglianza relativa all’applicazione dell’aliquota
convenzionale del 10% in luogo di quella domestica
del 12,50%, l’Ufficio, partendo dalla lettura dell’art.
11 della Convenzione contro le doppie imposizioni
Italia Francia, concludeva affermando che, visto il
comma 6 dell’articolo in questione e la piena operatività dello stesso per la società verificata - il cui capitale era posseduto al 100% dalla francese - qualificava l’italiana al pari di una stabile organizzazione
svolgente attività commerciale/industriale e, in
quanto tale, non poteva non trovare applicazione
l’art. 26 del D.P.R. n. 600/1973 il quale prevede l’aliquota del 12,50% di ritenuta a titolo d’imposta.
Sulle sanzioni l’Ufficio rilevava l’esistenza di un errore materiale nel calcolo, pertanto la sanzione corretta da irrogare era pari a euro 201.291,00, ovvero
il 150% dell’importo delle ritenute non operate.
Concludeva nel resto, specificando la corretta applicazione del cumulo materiale. Chiedeva il rigetto
del ricorso.
Presenti all’udienza le parti che hanno insistito nelle
loro richieste ed eccezioni.
Il Collegio giudicante così decide.
Sulla problematica dell’esenzione dalle imposte sugli
interessi e sui canoni corrisposti a soggetti residenti
in Stati membri dell’Unità Europea, questo giudice
osserva quanto segue. Nel caso specifico la società si
è comportata in modo lineare e in conformità ai requisiti sostanziali richiesti dalla norma con la conseguenza che le contestazioni dell’Ufficio non sono
condivise da questo Collegio giudicante.
Come già dettagliatamente indicato in parte narrativa, la società ricorrente ha omesso l’effettuazione della ritenuta d’imposta prevista dall’art. 26-quater del
D.P.R. n. 600/1973, sugli interessi passivi e canoni
che ha corrisposto alla società A.E. SA, a fronte di
prestiti ricevuti da quest’ultima.
Nel caso de quo, l’Ufficio contestava la non applicazione della ritenuta in quanto la documentazione esibita dalla società, a supporto dell’esenzione non risultava conforme, da un punto di vista formale, a quanto disposto dal comma 6 dell’articolo sopra richiamato.
Tuttavia, con riferimento alla qualificazione del beneficiario effettivo, la più recente giurisprudenza ha
sostenuto che “il beneficiario effettivo per essere qualificato tale è necessario che:
- il reddito venga ad esso imputato secondo la legge
fiscale dello stato in cui esso risiede;
- il soggetto cui il reddito è imputato non deve avere
alcun obbligo, legale o contrattuale, di trasferire il
reddito ad altro soggetto, sulla base di una obbligazione originariamente collegata al reddito ricevuto.
Va però detto che mentre la prima circostanza può
facilmente essere accertata mediante la ricezione del
certificato di residenza convenzionale rilasciato dalle autorità fiscali dello stato di residenza del supposto beneficiario effettivo, la seconda circostanza deve essere oggetto di separata verifica che non deve
competere al sostituto di imposta ... Deve ritenersi
pertanto corretto il comportamento della contribuente che ha assunto la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero che ha dichiarato la sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti
per beneficiare di regimi fiscali di favore ...”
(Comm. reg. Lombardia, Sez. staccata Brescia, 29
giugno 2015, n. 2897).
Quanto precede evidenzia come il requisito sostanziale della residenza ai fini fiscali del soggetto percipiente, caratterizzato dalla soggezione del reddito percepito alla legge fiscale dello stato di residenza, assume rilevanza apicale nella qualificazione del soggetto percipiente, quale beneficiario effettivo di tale reddito.
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Merito
A tal riguardo si ricorda che, secondo la ormai pacifica posizione della giurisprudenza di merito, i certificati emessi dalle autorità fiscali straniere hanno valenza probatoria vincolante (Comm. trib. reg. Abruzzo, Sez. staccata Pescara, sez. X, 2 dicembre 2006, n.
250; Comm. trib. reg. Abruzzo, Sez. staccata Pescara,
sez. X, 27 settembre 2007, n. 305; Comm. trib. reg.
Abruzzo, Sez. staccata Pescara, sez. IX, 30 giugno
2009, n. 154).
In effetti, le certificazioni possono contenere l’attestazione di alcuni fatti ed in parte alcune considerazioni espresse dagli organi fiscali; ebbene quando nelle predette certificazioni, viene confermata la presenza dei requisiti per l’applicazione della Convenzione,
“... l’Ufficio non può mettere in discussione l’autenticità dell’attestazione e se intendesse farlo, dovrebbe
in primo luogo chiedere chiarimenti al corrispondente organo (del Fisco straniero)” (Comm. trib. reg.
Abruzzo, Sez. staccata Pescara, sez. IX, 22 dicembre
2010, n. 228).
In senso analogo si sono pronunciati i giudici della
Commissione tributaria regionale del Piemonte. Secondo tali giudici “... il soggetto italiano può limitarsi
ad assumere la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero quale valido elemento di prova della sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti
dalle medesime disposizioni convenzionali per beneficiare di regimi fiscali di favore” (Comm. trib. reg.
Piemonte, Sez. XII, 4 maggio 2012, n. 28).
L’orientamento delle corti di merito è stato avallato
dalla Cassazione la quale, in un caso di presunta esterovestizione di una società olandese, ha sottolineato
come il giudice di secondo grado aveva correttamente annullato l’avviso di accertamento basandosi sul
certificato emesso dalle autorità fiscali olandesi che
attestava la residenza in Olanda della società ed il
suo assoggettamento alla locale imposta sulle società
(Cass., Sez. trib., 3 febbraio 2012, n. 1553).
Altresì, questo Consesso si riporta all’orientamento
consolidato della Suprema Corte di Giustizia CE, secondo cui i diritti riconosciuti dalla normativa dell’Unione Europea, qualora siano soddisfatti i relativi
requisiti sostanziali, non possono essere disconosciuti
per il mancato rispetto dei requisiti puramente formali. Pertanto, quando sia stato assodato che siano stati
soddisfatti i requisiti sostanziali, l’Amministrazione finanziaria non può subordinare la fruizione di tali diritti al rispetto di ulteriori requisiti formali. Ebbene,
il certificato in esame evidenzia a chiare lettere che
la società, per l’anno in esame, vale a dire 2010, possedeva tutti i requisiti sostanziali stabiliti dalla legge.
Giustappunto, il requisito formale sollevato dall’Uffi-
78
cio, vale a dire l’assenza di una data certa, non può
prevaricare il requisito sostanziale per l’accesso al regime invocato. Quindi è la sostanza che prevale sulla
forma. Tenuto conto di ciò, l’operato dell’Ufficio decade tout court.
Alla luce di quanto sopra il ricorso viene accolto in
toto ed annullato l’atto impugnato. Le spese di lite seguono la soccombenza, come da dispositivo.
Il Collegio giudicante
P.Q.M.
annulla l’atto impugnato. Condanna l’Ufficio alle
spese liquidate in euro 3.000,00 oltre esborsi e accessori di legge.
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Il possesso dei requisiti sostanziali previsti dalla Direttiva
“interessi e royalties” è condizione necessaria e sufficiente
per fruire dei relativi benefici fiscali?
di Franco Roccatagliata (*)
L’esegesi della norma comunitaria (Direttiva 2003/49/CE) e l’analisi comparata del suo recepimento negli altri Stati membri confermano (pur con qualche eccezione) la stringata motivazione
dei giudici della Commissione tributaria provinciale di Milano nella sentenza n. 8303/2016: la
qualifica certificata di “beneficiario effettivo”, ai sensi della Direttiva, consente di fruire dell’agevolazione prevista dalla norma europea anche qualora sia acquisita ad avvenuto pagamento degli interessi o canoni.
Il procedimento contenzioso in esame trovava
origine nella contestazione di un avviso d’accertamento per l’anno 2010, in cui l’Ufficio
delle imposte aveva rilevato la violazione delle
disposizioni del D.P.R. n. 600/1973, per l’omessa applicazione della ritenuta alla fonte su
interessi passivi versati da una controllata italiana alla propria società-madre non-residente,
a fronte di prestiti da questa ricevuti.
Va rilevato che, nel caso in questione, la madre non era la classica holding finanziaria situa-
ta in un Paese a fiscalità agevolata o utilizzata
come stepping-stone per indirizzare i flussi finanziari fuori dall’Unione Europea, ma la capo-fila
(quotata in Borsa) del ramo chimico di un noto gruppo petrolifero transalpino, proprietaria direttamente o attraverso la controllata italiana - di un importante stabilimento nel polo
petrolchimico di Porto Marghera e di altri insediamenti industriali ubicati nel nostro Paese.
Nel corso di una verifica fiscale, gli ispettori
avevano constatato che le attestazioni, richieste dal comma 6 dell’art. 26-quater del D.P.R.
n. 600/1973, per poter fruire dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte sugli interessi corrisposti
a soggetti residenti nell’Unione Europea, erano
state regolarmente prodotte, ma evidenziavano
una data posteriore a quella dell’effettivo pagamento degli interessi alla casa-madre estera.
Per l’Amministrazione finanziaria “l’indicazione della data certa aveva natura sostanziale in
quanto impediva l’espletamento dell’attività di
controllo da parte degli Uffici”. Di conseguenza, attribuita una valenza essenziale a tale requisito formale, aveva ritenuto inapplicabile
l’esenzione della ritenuta prevista dall’art. 26quater - la norma con la quale l’ordinamento
tributario italiano ha recepito la Direttiva “interessi e royalties”.
Inoltre, dato che la società madre era anche il
socio unico della società controllata (S.r.l.)
(*) Professore a contratto di Diritto tributario europeo al College of Europe, Bruges (Belgio) e membro del Tax Institute dell’Ulg - Università di Liegi (Belgio)
(1) Comm. trib. prov. di Milano, Sez. I, 2 dicembre 2015, n.
9819, in questa Rivista, n. 4/2016, pag. 343 ss, con commento
di F. Roccatagliata.
(2) Direttiva 2003/49/CE del Consiglio del 3 giugno 2003,
concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti
di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri
diversi; in G.U.U.E. n. L 157 del 26 giugno 2003, pag. 49 ss.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Nella sentenza in commento, la Prima sezione
della Commissione tributaria provinciale di
Milano, si è pronunciata, ancora una volta,
sulle modalità applicative delle disposizioni di
diritto interno e convenzionali che regolamentano le ritenute alla fonte sui flussi di capitale
transfrontalieri. La decisione dei giudici di prima istanza ha, in sostanza, ribadito quanto già
affermato in precedenza dalla stessa CTP di
Milano (1), e cioè, che l’Amministrazione finanziaria, qualora siano soddisfatti i requisiti
sostanziali di legge, non può subordinare la
fruizione di diritti riconosciuti da una normativa dell’Unione Europea - nel caso in questione, la Direttiva “interessi e royalties” (2) - al
pedissequo rispetto di requisiti puramente formali.
La fattispecie e questioni correlative
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italiana, per l’Amministrazione finanziaria, il
suo trattamento fiscale non poteva differire da
quello di una stabile organizzazione in Italia
della società madre. Di conseguenza - secondo
l’interpretazione data dal Fisco della Convenzione italo-francese contro le doppie imposizioni (3) - a fronte del pagamento di interessi
transfrontalieri, non sarebbe stato possibile applicare neppure l’aliquota ridotta convenzionale prevista dall’art. 11 della predetta Convenzione bilaterale.
Di ben altro parere la Commissione tributaria
provinciale di Milano che, ricalcando la motivazione già formulata nella citata decisione del
5 dicembre 2015 (4), ha accolto il ricorso contro l’avviso d’accertamento, annullandolo. Per
i giudici di prima istanza, l’elemento rilevante
per beneficiare dell’esenzione impositiva è la
qualifica del soggetto percipiente quale “beneficiario effettivo’’. Ovverosia, il possesso del requisito sostanziale della residenza fiscale in
uno Stato membro dell’Unione e la soggezione
del reddito percepito alla legislazione fiscale di
tale Stato, in qualità di beneficiario finale. Un
requisito accertabile grazie alla certificazione
rilasciata dall’Amministrazione fiscale estera.
Tale certificazione - almeno per quel che riguarda l’attestazione della residenza fiscale ai
fini dell’applicazione delle convenzioni contro
le doppie imposizioni - ha “valenza probatoria
vincolante’’: una affermazione che trova solido
conforto in una copiosa giurisprudenza di merito (5).
Come è stato correttamente osservato (6), sarà,
eventualmente, cura dell’Amministrazione finanziaria verificare, attraverso i canali esistenti
di cooperazione amministrativa, l’autenticità
dell’attestazione. Ai sostituti d’imposta non
può essere domandato che di prestare l’ordinaria attenzione richiesta nella prassi commerciale, ma certamente non compete loro appurare
la veridicità sostanziale di quanto attestato dal
percipiente. Per esempio, non è compito del
sostituto d’imposta accertarsi che il soggetto
cui il reddito è imputato sia effettivamente il
“beneficiario finale” (7), cioè, non abbia “alcun
obbligo legale o contrattuale di trasferire il reddito ad altro soggetto” (8).
La decisione dei giudici di prima istanza è nella sostanza condivisibile ma, come già osservato in precedenti note (9), alcuni passaggi della
sentenza - e in particolare il diritto europeo invocato - proprio perché decisivi nel determinare l’esito del procedimento contenzioso, avrebbero meritato un migliore dettaglio.
(3) Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana ed il
Governo della Repubblica francese per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per
prevenire l’evasione e la frode fiscali, con protocollo e scambio
di lettere, fatta a Venezia il 5 ottobre 1989; ratificata con Legge
7 gennaio 1992, n. 20, in G.U. 23 gennaio 1992, n. 18.
(4) V. nota 1.
(5) Comm. trib. reg. Lombardia, Sez. LXV, 29 giugno 2015,
n. 2897; Comm. trib. reg. Piemonte, Sez. XII, 4 maggio 2012,
n. 28, oltre a Comm. trib. reg. Abruzzo, Sez. IX, 30 giugno
2009, n. 154, già citate nella sentenza in commento. Nel caso
in questione, in realtà, non è messa in discussione la valenza
probatoria delle attestazioni rilasciate dalle competenti Autorità fiscali estere, per cui il riferimento giurisprudenziale domestico, per quanto interessante, non sembra del tutto appropriato ai fini della corretta risoluzione del litigio.
(6) E. A. Palmitessa, “Beneficiario effettivo: la certificazione
estera è congrua a qualificarne lo status anche ai fini del diritto
interno’’, in DB dirittobancario.it dell’8 febbraio 2016.
(7) Direttiva 2003/49/CE, art. 1, comma 4.
(8) Comm. trib. reg. Lombardia, 29 giugno 2015, cit. In questo senso anche la sentenza in commento, rifacendosi a pregressa giurisprudenza di merito.
(9) F. Roccatagliata, “Nelle transazioni finanziarie ‘cross-border’ l’approccio sostanziale prevale e può operare in favore del
contribuente” in questa Rivista, n. 4/2016, pag. 349; nello stesso senso, B. Izzo, “Sul momento di produzione della documentazione necessaria per l’esenzione prevista dalla Direttiva interessi e royalties”, in Riv. dir. trib. - supplemento on line del 24
luglio 2016.
(10) Se la giurisprudenza in commento si affermerà come
prevalente, non mancheranno in seguito le occasioni per un altro utile approfondimento di diritto europeo: l’esame approfondito di quello che, in sentenza (in fine), è definito un “orientamento consolidato della suprema Corte di Giustizia CE” che,
per assicurare una piena fruizione dei diritti accordati dal diritto dell’Unione, attribuirebbe valore prevalente alla sostanza rispetto alla forma.
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Tematica europea e normativa italiana
Nel presente commento ci si limiterà ad approfondire uno soltanto degli aspetti legati alla tematica europea, tra quelli evocati nel litigio:
l’interpretazione delle disposizioni normative
italiane di recepimento nel nostro ordinamento tributario della Direttiva “interessi e royalties” alla luce della normativa comunitaria e
della sua esegesi (10).
L’art. 26-quater del D.P.R. n. 600/1973, la norma che ha recepito la citata normativa comu-
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nitaria, al comma 6 recita: “Ai fini dell’applicazione dell’esenzione di cui al comma 1 [cioè,
sugli interessi e canoni pagati a società non residenti aventi i requisiti previsti dalla normativa in esame] ... deve essere prodotta un’attestazione dalla quale risulti la residenza del beneficiario effettivo ... rilasciata dalle competenti
Autorità fiscali dello Stato in cui la società beneficiaria è residente ai fini fiscali ... nonché
una dichiarazione dello stesso beneficiario effettivo che attesti la sussistenza dei requisiti indicati nei commi 2 e 4 [cioè - in riferimento al
caso in esame e in estrema sintesi - la detenzione per almeno un anno di una partecipazione qualificata nella società che effettua il pagamento; il suo status di beneficiario effettivo finale e l’effettivo assoggettamento alle imposte
in uno Stato membro dell’UE]. La suddetta documentazione va presentata ... entro la data
del pagamento degli interessi o dei canoni ...”.
I giudici di prima istanza, nella sentenza in
commento, sembrano aver dato un valore secondario alla disposizione prevista dall’ultimo
capoverso della norma sopra citata. È quindi
opportuno verificare se la prevalenza dei requisiti sostanziali sul tenore letterale della norma
- per il vero, piuttosto chiaro (“la documentazione va presentata entro la data del pagamento”) - trovi giustificazione attraverso un’interpretazione teleologica o sistematica della stessa.
Per procedere a tale analisi si comparerà la disposizione dell’ordinamento italiano con la
norma comunitaria che ne è all’origine e con i
lavori preparatori di quest’ultima. Si cercherà,
altresì, di vedere come la stessa norma del diritto dell’Unione Europea sia stata recepita o
interpretata nell’ordinamento di altri Stati
membri.
Com’è noto, in materia di fiscalità diretta, gli
interventi armonizzativi dell’UE hanno natura
marginale e trovano giustificazione esclusivamente nel caso in cui un ravvicinamento delle
disposizioni legislative degli Stati membri si
renda necessario per assicurare il buon funzio-
namento del Mercato unico e il risultato non
sia altrimenti conseguibile (11). È altresì evidente che un recepimento (un’interpretazione
o un’applicazione pratica) divergente - in modo ingiustificato - della normativa europea nei
singoli Stati membri rischia di vanificare tale
processo di ravvicinamento e, in ultima analisi,
potrebbe ostacolare il funzionamento dello
stesso mercato interno, obiettivo fondamentale
dell’Unione Europea.
Che cosa prevede la normativa europea in merito ai requisiti e le attestazioni necessarie per
poter beneficiare dell’eliminazione della doppia
imposizione su interessi e canoni infragruppo?
L’art. 1 della Direttiva 2003/49/CE, che delimita l’ambito d’applicazione e la procedura
dello strumento armonizzativo comunitario, al
comma 11, precisa che uno Stato membro possa esigere “che il soddisfacimento dei requisiti
... sia comprovato da un certificato al momento del pagamento di interessi e canoni”. Si
tratterebbe quindi di un requisito formale la
cui obbligatorietà sarebbe lasciata all’apprezzamento discrezionale dei singoli Stati membri al
momento della trasposizione.
La Direttiva prevede inoltre che qualora il soddisfacimento dei requisiti stabiliti dalla norma
comunitaria non sia comprovato al momento
del pagamento, lo Stato membro “ha facoltà di
esigere una ritenuta alla fonte”. Il successivo
comma 12 dell’art. 1 della Direttiva prevede
anche che l’esenzione dalla ritenuta alla fonte
possa essere subordinata “all’emanazione di
una decisione” dell’Amministrazione finanziaria competente (che deve comunque essere
adottata entro tre mesi dalla richiesta), basata
sul predetto certificato e sulle “informazioni a
sostegno che lo Stato d’origine può ragionevolmente richiedere” (12). Infine, il comma 13
indica, in dettaglio, le informazioni che il certificato può contenere, qualora richiesto dallo
“Stato d’origine”, cioè dallo Stato membro da
cui proviene il pagamento.
Per comprendere la ratio della disposizione europea, l’inabituale flessibilità concessa agli Sta-
(11) Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea
(T.F.U.E.), art. 115.
(12) Direttiva 2003/49/CE, cit., G.U.U.E n. L 157, pag. 50.
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ti membri in sede di trasposizione e le sue finalità, sia dal punto di vista tecnico che - soprattutto - sul piano politico, occorre contestualizzarla, e fare un lungo passo indietro, fino agli
anni ‘90 del secolo scorso.
Una Direttiva che contribuisse all’eliminazione
della doppia imposizione sui flussi di redditi da
capitale tra società collegate - un processo già
iniziato nel 1990, con l’adozione della Direttiva “madre-figlia” (13) - era, da tempo, una
pressante richiesta di alcuni Paesi dell’Unione
Europea, come i Paesi Bassi e il Lussemburgo,
sedi abituali di holding e servizi di tesoreria infragruppo di multinazionali europee (14).
Nel 1997, gli Stati membri dell’UE raggiunsero
un compromesso su un “pacchetto” di proposte
fiscali controbilanciate che, da un lato, conteneva misure di natura essenzialmente anti-elusiva come la proposta di Direttiva sulla “tassazione del risparmio” (15) ed il “codice di condotta sulla tassazione delle imprese” (16), ma
che, dall’altro - come da richiesta del Consiglio Ecofin nelle sue Conclusioni del 1° dicembre 1997 - includeva altresì una nuova proposta di Direttiva “interessi e royalties” (17), una
contropartita ritenuta indispensabile dagli Stati membri meno interessati (per gli orientamenti di politica fiscale assunti nel proprio ordinamento) alla riduzione della c.d. concorrenza fiscale dannosa, per poter dare il loro “via li-
bera” alle proposte anti-elusive contenute nel
“pacchetto fiscale”.
Se però si esamina la proposta presentata dalla
Commissione europea nel 1998, si può notare
come i commi da 11 a 13 dell’art. 1 della Direttiva (18) non fossero inclusi nel testo originario della proposta. L’obiettivo iniziale della
proposta della Commissione era quello di ridurre al minimo gli oneri amministrativi per le
imprese. Per tal ragione non era stato previsto
di attestare il rientro nel campo d’applicazione
della Direttiva attraverso il rilascio di uno specifico certificato (19).
Quella parte della vigente Direttiva è apparsa
solo più tardi, introdotta da un “testo di compromesso” della Presidenza di turno, a seguito
di lunghe discussioni tenutesi in sede di Consiglio dell’Unione Europea (20), e in sincronia
con le Conclusioni del Consiglio Ecofin del 25
maggio 1999 (21) che fissavano tutta una serie
di questioni chiave inerenti alla proposta. In
quell’occasione il Consiglio statuiva che le
procedure amministrative nei singoli Stati
membri per la riduzione/eliminazione delle ritenute alla fonte, vigenti al momento dell’adozione della normativa comunitaria, dovevano
essere comunque rispettate, legittimando in tal
modo un’eventuale applicazione asimmetrica
della Direttiva per quel che riguarda la procedura di certificazione dei requisiti sostanziali
(13) Direttiva del Consiglio 90/435/CEE del 23 luglio 1990,
concernente il regime fiscale comune applicabile alle società
madri e figlie di Stati membri diversi; in G.U.C.E. n. L 225 del
20 agosto 1990, pag. 6.
(14) Una proposta analoga era già stata presentata alla fine
del 1990 (e poi ritirata nel 1994); COM(90)571 del 6 dicembre
1990, in G.U.C.E. n. C 53 del 28 febbraio 1991, pag. 26. Tale
proposta - come d’altronde la successiva del 1998 - non conteneva disposizioni sulle certificazioni comprovanti il possesso
dei requisiti richiesti per beneficiare dei vantaggi fiscali della
normativa. Per un’ampia panoramica delle diverse posizioni
assunte in quegli anni dagli Stati membri e dalla Commissione
europea sull’imposizione alla fonte degli interessi intragruppo,
si rinvia, rispettivamente, a V. Ceriani, “Armonización del tratamiento fiscal de los ingresos provenientes de activos financieros
en los países de la Comunidad Europea”, in Monetaria, n.
1/1991, pag. 95 e A. Widow “To Withhold or Not to Withhold:
Comments on Mr Boon’s Article”, in European Taxation, n.
9/1994, pag. 293; si veda altresì C. Monfregola, “Regime fiscale europeo interessi e canoni infragruppo”, in Informatore Pirola, n. 5/1991, pag. 466; S. Mayr, “Nuove proposte di Direttive
CEE nel campo dell’imposizione diretta”, in Corr. Trib., n.
41/1991, pag. 3051; B. Gangemi, “I progetti di armonizzazione
all’esame del Consiglio CEE”, in Riv. dir. trib., n. 7-8/1993, pag.
829; e, infine, l’interessante analisi storica fatta da P. Troiano,
“The EU Interest and Royalty Directive: The Italian Perspective”,
in Intertax, n. 6-7/2004, pag. 325.
(15) Proposta di Direttiva intesa a garantire un’imposizione
minima effettiva sui redditi da risparmio sotto forma di interessi all’interno della Comunità; COM(1998)295 del 20 maggio
1998.
(16) Risoluzione del Consiglio del 1° dicembre 1997, su un
codice di condotta in materia di tassazione delle imprese; in
G.U.C.E. n. C 2 del 6 gennaio 1998, pag. 2.
(17) Proposta di Direttiva del Consiglio concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di diritti fra società consociate di Stati membri diversi;
COM(1998)67 del 4 marzo 1998, in G.U.U.E. n. C 123 del 22
aprile 1998, pag. 9.
(18) Relativi - come si è visto sopra - all’attestazione del possesso dei requisiti formali per poter beneficiare dell’esenzione
impositiva.
(19) Consiglio dell’Unione Europea, “Nota della Presidenza
al Gruppo problemi finanziari”; doc. 11841/99 (FISC 215) del
31 ottobre 1999.
(20) Nell’ambito delle riunioni in consiglio del Gruppo di lavoro ad alto livello sui problemi fiscali (fiscalità diretta).
(21) Consiglio dell’Unione Europea, “Progetto di Conclusioni
del Consiglio Ecofin del 25 maggio 1999”; doc. 8085/1/99
(FISC 111) del 21 maggio 1999.
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per beneficiare dell’esenzione impositiva. Inoltre, le Conclusioni sopra citate legavano politicamente - in modo inscindibile - l’adozione
della proposta di Direttiva “interessi e royalties”
alla simultanea accettazione da parte di tutti
gli Stati membri dell’integralità del “pacchetto
fiscale” proposto dal Commissario alla fiscalità
pro tempore (Mario Monti).
Com’è noto, per mere ragioni strategiche forzare alcuni Stati membri a rinunciare al segreto bancario, principale ostacolo all’adozione di un altro importante elemento del “pacchetto”, la Direttiva sulla tassazione del risparmio - la proposta è rimasta a lungo “ostaggio” del veto di alcuni Stati membri (tra cui
l’Italia). Inoltre, la consapevolezza delle perdite di gettito erariale che, inevitabilmente, l’eliminazione della doppia imposizione avrebbe
comportato, spingeva molti Stati membri a
non facilitare eccessivamente la fruizione dei
vantaggi fiscali della norma comunitaria, raddoppiando le cautele finalizzate ad evitare gli
abusi e lasciandosi ampi margini di applicazione discrezionale qualora i pagamenti fossero
effettuati a favore di beneficiari residenti in
Stati membri che non applicavano aliquote
impositive comparabili a quelle vigenti nello
Stato d’origine. In quest’ottica va interpretata
sia l’inclusione della procedura di certificazione nella proposta modificata in sede di Consiglio (22), sia, ad esempio, le richieste (accolte
nell’art. 6 della Direttiva) di norme transitorie, avanzate da Grecia, Spagna e Portogallo
per ragioni di gettito.
(22) Non tutti i documenti di lavoro del Consiglio sono integralmente pubblici. Tra quelli resi disponibili si segnalano: la
proposta di compromesso della Presidenza tedesca, doc.
7302/99 (FISC 86) del 14 aprile 1999; le osservazioni e riserve
su vari aspetti della procedura di certificazione avanzate da
Spagna, Austria e Commissione europea; doc. 9383/99 (FISC
145) del 18 giugno 1999; e Italia, doc. 10801/99 (FISC 186) del
14 settembre 1999.
(23) Consiglio dell’Unione Europea, “Risultati dei lavori del
Gruppo problemi finanziari”; doc. 12561/99 (FISC 239) dell’8
novembre 1999 e “Nota della Presidenza sullo stato dei lavori”, doc. 12876/99 (FISC 251) del 23 novembre 1999.
(24) Soprattutto se si tiene conto del fatto che in alcuni Stati
membri non sono previste specifiche esigenze certificative e in
altri Stati membri l’esenzione è subordinata a una decisione
amministrativa. Si veda, ad esempio, per l’Irlanda, Statutory Instruments, n. 721/2003 - European Communities (Abolition of
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Prassi e giurisprudenza di Belgio e Italia
a confronto
Va poi notato che l’interpretazione (letterale)
della norma seguita dalla nostra Amministrazione finanziaria nella sua applicazione non è
affatto sorprendente; soprattutto se si tiene
conto che è stata proprio l’Italia l’ultima delegazione a esprimere il proprio accordo sull’applicazione soltanto opzionale del comma 11,
relativo all’esigenza, da parte dello Stato membro d’origine, di un certificato comprovante il
soddisfacimento dei requisiti richiesti dalla Direttiva (23).
Passando, infine, a un rapido confronto con la
normativa che ha trasposto la Direttiva nell’ordinamento tributario degli altri Stati membri (24), questi sembrerebbe suggerire, anche
per l’Italia, un’interpretazione più elastica della
disposizione, privilegiando gli aspetti sostanziali su quelli formali, al fine di evitare un’inutile
frammentazione del mercato interno.
Occorre tuttavia segnalare un’importante eccezione.
In Belgio la normativa è, per molti versi, simile a quella italiana (25), anzi, per quel che riguarda il momento in cui occorra ricevere la
documentazione attestante il possesso dei requisiti sostanziali, il testo legislativo belga sembra offrire margini interpretativi più ampi di
quello italiano (“la renonciation à la perception
du précompte mobilier ... est subordonnée à la
condition que le débiteur des revenus soit mis en
possession d’une attestation par laquelle il est certifié ... que ...’’). Sulla base di un’interpretazione
assai elastica della norma, la prassi amministraWithholding Tax on Certain Interest & Royalties) Regulations
2003, che ha introdotto il Chapter 6 nella Part VIII (Annual Payments, Charges and Interest) del Taxes Consolidation Act 1997
(No. 39 of 1997); per il Regno Unito, 2004 No. 2622 Income
Tax - The Exemption From Tax For Certain Interest Payments
Regulations 2004, in particolare, punto 3 (Request for and issue
of an exemption notice) e punto 4 (Information to be provided in
the certificate).
(25) Arrêté royal del 23 dicembre 2003, modifiant l’AR/CIR
92 en vue de renoncer à la perception du précompte mobilier
sur les intérêts et les redevances alloués ou mis en paiement à
des sociétés associées, Moniteur belge, 31 dicembre 2003. Sul
recepimento della Direttiva in Belgio, v. B. Springael, “Implementation of the Interest and Royalties Directive”, in Derivatives
and Financial Instruments, n. 6/2004, pag. 279, in particolare
punto 3.8. (Administrative requirements), pag. 287.
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tiva è sempre stata abbastanza generosa e, appurata la presenza dei requisiti sostanziali, non
si è soffermata sugli aspetti formali legati alla
data della certificazione. Almeno fino a poco
tempo fa. Infatti, in una recente decisione
emessa dall’Hof van beroep (Corte d’Appello)
di Gand (26), tale prassi è stata rigettata.
Il giudice d’appello fiammingo ha stabilito che,
anche in presenza di un certificato che contenga gli elementi richiesti dalla legge, se tale attestazione è datata posteriormente al momento
in cui la ritenuta alla fonte sugli interessi
avrebbe dovuto essere effettuata, i vantaggi fiscali della Direttiva “interessi e royalties’’ sono
inapplicabili. Come si è detto, la legislazione
belga non è precisa quanto quella italiana sul
momento in cui l’impresa che effettua il pagamento debba essere in possesso della certificazione. Il giudice, tuttavia, basandosi sul tenore
letterale del comma 11 dell’art. 1 della Direttiva, ne deduce che, se il certificato (pur se opzionale) è comunque una condizione essenziale
per beneficiare dell’esenzione (o del rimborso
della ritenuta eventualmente effettuata), automaticamente, deve esistere già al momento del
pagamento degli interessi (27).
Occorre sperare che i giudici italiani non trovino una fonte d’ispirazione in quest’ultima decisione belga, che, imponendo al contribuente
un’incombenza che non è esplicitamente contenuta nella legislazione interna, pare vada decisamente oltre ogni accettabile formalismo!
(26) Hof van beroep te Gent, decisione No.2014/41
(2010/AR/2449) del 18 marzo 2014; per leggere l’intera sentenza (ma, purtroppo … in lingua originale olandese) v. C. Coudron, “Hof van beroep te Gent beslist dat geen terugbetaling
van roerende voorheffing op grond van de vrijstelling op grond
van de interest- en royaltyrichtlijn mogelijk is …’’, in Tijdschrift
voor Fiscaal Recht, n. 10/2014, pag. 789.
(27) F. Mortier, “Interest and Royalties Directive (2003/49):
Court of Appeal Denies Withholding Tax Refund on Interest Due
to Lack of Attestation at Time of Payment”, in European Taxation, n. 9/2014, pag. 404.
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Redditi di lavoro autonomo
Deducibile (in parte)
il vestiario utilizzato
per trasmissioni televisive
Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. XL, Sent. 22 luglio 2016 (18 luglio 2016), n.
6443 - Pres. e Rel. Fugacci
Redditi di lavoro autonomo - Determinazione - Giudizio di inerenza - Svolgimento ex ante - Necessità - Attività artistica - Costi sostenuti per acquisto di abiti e mobilio - Utilizzo promiscuo per esercizio della professione e uso personale - Deducibilità al 50% - Legittimità
Il giudizio di inerenza non è influenzato dalla natura dei beni o dei servizi acquistati, ma dal rapporto tra i suddetti acquisti e l’attività economica, in relazione allo scopo perseguito nel momento in
cui la spesa è stata sostenuta e con riguardo all’attività economica in concreto esercitata. Il giudizio di inerenza non va pertanto svolto ex post, con riferimento ai risultati (in concreto) ottenuti in
termini di produzione del reddito, bensì ex ante. Sono per conseguenza inerenti, e, perciò stesso,
deducibili nella misura forfetaria del 50%, i costi che il libero professionista abbia sostenuto in
adempimento di puntuali obblighi contrattuali per l’acquisto di beni o servizi i quali, per le loro caratteristiche (nella specie, abiti, vestiti, scarpe, accessori e così via), siano utilizzabili anche a titolo
personale, vale a dire al di fuori dell’attività economica.
Svolgimento del processo
Avverso l’avviso di accertamento n. (...) per l’anno
2010 emesso dall’Agenzia delle entrate Direzione
Provinciale 1 di Milano, la sig.ra B.M.R., rappresentata e difesa disgiuntamente dai dott.ri S. R., G. M.
C. e G. F., ha presentato tempestivo ricorso chiedendo l’annullamento parziale dell’atto impugnato con
l’annullamento totale dei rilievi n. 3, n. 5 nonché
del rilievo relativo all’IRAP, con vittoria di spese e
onorari di lite.
La ricorrente insiste per l’annullamento del rilievo n.
3 relativo alla totale indeducibilità dei costi per il vestiario e gli accessori utilizzati dall’artista per la sua
attività professionale, ritenendo gli stessi inerenti all’attività dell’artista e considerandoli deducibili nella
misura forfettaria del 50% quali beni ad uso promiscuo. Chiede, inoltre, l’annullamento totale del rilievo n. 5, relativo a spese varie per l’acquisto di mobili
destinati all’arredo della casa utilizzata promiscuamente per l’attività professionale e la vita privata,
confermando la loro deducibilità nella misura forfettaria del 50%. Infine, insiste per l’annullamento totale del rilievo relativo all’IRAP, sostenendo l’inesistenza dei presupposti oggettivi previsti per l’applica-
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zione dell’IRAP dichiarando illegittima la pretesa
dell’Agenzia, alla luce sia della carenza di motivazione addotte sia dall’inesistenza di una struttura organizzativa autonoma capace di generare un surplus di
reddito aggiunto a quello prodotto dal mero lavoro
della ricorrente.
L’Ufficio preliminarmente rileva che la ricorrente,
nel proprio ricorso, si limita a contestare i rilevi: n.
3, n. 5, nonché il rilievo relativo all’IRAP, pertanto,
per i rilievi n. 1- sottoconto consulenza; rilievo n. 2 sottoconto costi per corsi; rilievo n. 4, sottoconto
parrucchiere e rilievo sottoconto noleggi la ricorrente
non solleva alcuna contestazione, prestando quindi
acquiescenza. In relazione ai tre rilievi oggetto di
contestazione, l’Agenzia, ritenendo di aver legittimamente operato chiede la conferma dei rilievi mossi.
Motivazione
La Commissione in via preliminare rileva che la ricorrente, nel proprio ricorso, si limita a contestare i
rilevi: n. 3, n. 5, nonché il rilievo relativo all’IRAP,
pertanto, per i rilievi n. 1- sottoconto consulenza; rilievo n. 2 - sottoconto costi per corsi; rilievo n. 4,
sottoconto parrucchiere e rilievo sottoconto noleggi
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la ricorrente non solleva alcuna contestazione, prestando quindi acquiescenza.
Valutate le argomentazioni addotte dalle parti in ordine ai tre rilievi contestati, la Commissione ritiene
il ricorso parzialmente fondato ed in quanto tale meritevole di parziale accoglimento.
A parere del Collegio il concetto di deducibilità di
un costo per inerenza riguarda non tanto la natura
del bene o del servizio ma il suo rapporto con l’attività professionale, in relazione allo scopo perseguito al
momento in cui la spesa è stata sostenuta e con riferimento a tutte le attività tipiche della professione
stessa e non semplicemente, ex post in relazione ai risultati ottenuti in termini di produzione del reddito.
Non v’è dubbio che vestiario e accessori, in alcuni
casi specifici, devono essere considerati inerenti all’attività svolta e, pertanto, il loro costo integralmente deducibile (è il caso della toga per l’avvocato o, in
generale, della divisa da indossare durante l’orario di
lavoro tanto da parte dell’imprenditore quanto dai dipendenti). In altri casi, in cui il vestiario e gli accessori utilizzati per la propria attività potrebbero avere
anche impieghi privati (frac per il direttore d’orchestra), si ritiene opportuno limitarne la deducibilità
applicando percentuali forfettarie, così come previsto
dal comma 3 dell’art. 54 del T.U.I.R. per l’utilizzo di
beni in uso promiscuo, al fine di semplificare il calcolo del reddito applicando una percentuale ragionevole e usualmente impiegata dalla normativa fiscale in
tutti quei casi in cui vi è la possibilità che un determinato bene acquistato per l’attività economica svolta possa avere utilità anche nella sfera privata.
Gli abiti utilizzati durante le trasmissioni televisive e
le interviste sono per la maggior parte dei casi acquistati direttamente dalla ricorrente, come risulta sia
nelle dichiarazioni raccolte dalla Polizia Tributaria in
sede di verifica (all. 6) sia dai contratti d’ingaggio
dell’artista (all. 7). Infatti, come si evince dai contratti allegati, per le trasmissioni televisive è espressamente previsto che l’artista deve usare adeguato vestiario moderno di sua proprietà (abiti, vestiti, scarpe,
accessori in genere, trucchi, ecc.). Le società televisive si limitano a fornire solamente particolari abiti o
costumi da scena legati a determinate coreografie,
sketch che vengono realizzati dalle sartorie delle trasmissioni stesse. Pertanto l’inerenza e la deducibilità
forfettaria del 50% di detti costi all’attività professionale è oggettivamente dimostrata dai contratti televisivi prodotti in atti.
Anche il rilievo n. 5 deve essere annullato. In effetti
l’abitazione della ricorrente nell’annualità di cui si discute veniva utilizzata ad uso promiscuo sia per l’atti-
vità professionale che per la vita privata. Di conseguenza è ragionevole che l’acquisto di mobilio per arredare in modo appropriato le stanze dalla stessa utilizzate per rilasciare interviste, scattare foto, realizzare
videoclip, ecc. sia deducibile nella misura forfettaria
del 50%. Chiaramente, il costo dei mobili e degli arredi deve rientrare in una certa proporzionalità tra
costi affrontati per l’acquisto e i ricavi conseguiti,
presupposto che nel caso di specie si ritiene rispettato
(10.322,98 costi a fronte di 1.267.149,00 ricavi conseguiti).
Infine la Commissione ritiene soggetta ad IRAP l’attività svolta dalla ricorrente.
Come è noto la Corte di Giustizia Europea con sentenza depositata il 03/10/2006 ha statuito che l’IRAP
(che è imposta diversa dall’IVA) non è vietata dall’art. 33 della VI Direttiva del Consiglio 77/388 CEE.
La Suprema Corte con le sentenze dal n. 3672 al n.
3682, tutte depositate il 13/02/2007, ha motivatamente e persuasivamente statuito:
a) che l’IRAP è applicabile, in via astratta, alla categoria dei professionisti e dei lavoratori autonomi, in
quanto colpisce un fatto economico diverso dal reddito, (fatto) costituito dal valore aggiunto prodotto
dalle attività autonomamente organizzate;
b) che l’assoggettabilità all’IRAP degli esercenti arti
e professioni deve essere esclusa nel caso concreto in
cui la loro attività professionale sia svolta in assenza
di elementi di autonoma organizzazione di capitali o
lavoro altrui;
c) che l’IRAP può escludersi quando il risultato economico trovi ragioni esclusivamente nella autoorganizzazione del professionista o comunque quando l’organizzazione da lui predisposta abbia incidenza marginale e non richieda la necessità di coordinamenti (situazione che si riscontra, in genere, nella disponibilità di pochi arredi di ufficio o strumenti di lavoro,
quali, ad esempio, fotocopiatrice, fax, cellulare, materiale di cancelleria, autovettura, eccetera) ovvero
quando i mezzi personali e materiali di cui sia avvalso
il contribuente costituiscano un mero ausilio alla sua
attività, simile a quello di cui abitualmente dispongono anche soggetti esclusi dall’applicazione dell’imposta (collaboratori continuativi e lavoratori dipendenti):
- che costituisce onere del contribuente che chiede il
rimborso dell’imposta asseritamene non dovuta per
difetto del presupposto dell’autonoma organizzazione,
proponendo ricorso contro il diniego espresso o tacito
di rimborso, fornire la prova dell’assenza delle condizioni che integrano l’autonoma organizzazione, come
sopra indicato;
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Giurisprudenza
Merito
- che la mancata prova dell’assenza di tali condizioni,
comporta la soccombenza in giudizio del contribuente.
Esaminando il ricorso in oggetto alla luce di questi
principi che la Commissione condivide, sul punto il
ricorso va respinto non avendo il contribuente fornito la prova come sopra indicata.
In effetti la sig.ra R. ha dedotto costi per consulenza
e supporto organizzativo per un importo pari a euro
184.934,00 indicando tale importo nel quadro RE al
rigo 12 della dichiarazione dei redditi Modello unico
PF 2011 quale compenso corrisposto a terzi per prestazioni direttamente afferenti l’attività professionale
ed artistica. L’elevato valore delle consulenze soprattutto quelle riferite a società di management e produzione televisiva pari ad euro 63.813,60, Agenzia di
moda e spettacolo pari ad euro 62.500,00 e prestazioni professionali pari a euro 28.125,00 viene ritenuto
l’indicatore di una struttura che consente al diretto
interessato un surplus di reddito. Inoltre, tra i compensi a terzi, la ricorrente nell’anno di cui si discute
ha corrisposto con frequenza mensile euro 2.500,00
oltre accessori fiscali alla sig.ra B.P.B. sulla base di un
contratto stipulato nel 2009, con cui l’artista conferiva alla predetta sig.ra l’incarico di intrattenere rapporti con i clienti e fornitori di beni e servizi in proprio nome e conto. La Commissione ritiene, pertanto, che la sig.ra R. per i consistenti compensi erogati
per servizi di supporto organizzativo, nonché per le
collaborazioni prestate dalla sig.ra B.P.B., sia soggetta
ad IRAP. Detti fattori evidenziano di fatto la presenza di una struttura organizzativa che consente all’artista un surplus di reddito e la sottopone all’imposizione IRAP.
La soccombenza parziale giustifica la compensazione
delle spese di giudizio.
P.Q.M.
La Commissione in parziale accoglimento del ricorso
annulla i rilevi n. 3 e n. 5. Conferma nel resto. Spese
compensate.
Il giudizio di inerenza tra valutazioni ex ante,
valutazioni ex post e obblighi contrattuali
di Mauro Beghin (*)
Partendo dalla sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano n. 6443/2016 si indugia
sul giudizio di inerenza e, segnatamente, sulla sua declinazione cronologica e sostanziale. Si spiegano le ragioni per le quali tale giudizio presenta una connotazione di stampo cartolare e le ragioni
per le quali deve essere eseguito ex ante, entro i termini previsti per la presentazione della dichiarazione tributaria. A questa regola sottostanno anche i funzionari dell’Amministrazione finanziaria, i
quali dovrebbero operare con il criterio dello storico, non con il criterio del “qui e ora”.
Esborsi, costi e consumi
La sentenza in esame rappresenta un ottimo
punto di partenza per ragionare sulla distinzione tra “costi” e “spese” in vista della determinazione di quella entità monetaria che gli studiosi chiamano “reddito” e sulla quale, da secoli, si applicano le imposte.
Sul piano economico, ci è stato insegnato che
il reddito è l’incremento del patrimonio prodottosi attraverso l’esercizio di un’attività. È
centrale l’idea della “fonte”. Il concetto di reddito presuppone, infatti, che dallo svolgimento
di un’attività (la fonte, per l’appunto) scaturiscano ricchezze sotto forma di proventi e che
tali ricchezze siano superiori a quelle che sono
state impiegate per l’acquisto e per la remunerazione dei fattori produttivi. Da qui l’idea del
reddito quale entità differenziale, misurata dalla contrapposizione tra i proventi e le spese
(costi) riferibili a un determinato periodo di
tempo.
(*) Professore ordinario di Diritto tributario nell’Università di
Padova
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Merito
Su queste prime indicazioni si basa l’affermazione secondo cui le imposte sul reddito sono
di regola periodiche (1). Ed è per lo stesso motivo che esistono, nella disciplina di tali imposte, regole sull’imputazione a periodo dei proventi e dei costi.
Poiché di solito il reddito s’incorpora in un’entità monetaria, nel senso che il contribuente
dispone di una certa quantità di denaro, tale
entità può essere liberamente impiegata per
l’acquisto di beni o servizi che nulla hanno a
che vedere con lo svolgimento dell’attività
economica e che si riferiscono, per contro, alla
sfera personale del contribuente (2).
I beni ed i servizi dei quali stiamo parlando
possono manifestare una differente consistenza,
pur rimanendo estranei all’attività volta alla
produzione della ricchezza.
In alcuni casi si tratta di spese che declinano
in “consumi”, vale a dire in acquisti di beni o
servizi nient’affatto durevoli, atti al soddisfacimento di bisogni ben delimitati dal punto di
vista della loro funzione e, soprattutto, dal
punto di vista cronologico. Ciò accade, ad
esempio, quando si acquistano generi alimentari, vestiti, scarpe, accessori, biglietti del cinema o del teatro e così via.
In altri casi, si tratta di beni che si definiscono
durevoli, perché suscettibili di essere utilizzati
in un arco temporale particolarmente ampio,
come potrebbe accadere per l’acquisto di
un’auto, di un impianto stereo oppure di un
quadro.
Questa distinzione, tracciata in modo approssimativo, s’accompagna a specifiche ricadute dal
punto di vista terminologico. Infatti, nessuno
dice “Ho investito nell’acquisto di un chilo di
carote” oppure “in una seduta dal pedicure”,
mentre molti sono disponibili ad affermare di
aver “investito nell’acquisto di una nuova casa
di abitazione”.
La distinzione tra spese per consumi e spese
per investimenti non è sempre agevole, perché
al momento della qualificazione di tali fatti
economici possono entrare in gioco ulteriori
elementi, quali, ad esempio, l’importo dell’esborso. Nel procedere in questa direzione, si
potrà dire, ad esempio, che l’acquisto di una
penna a sfera dal costo di un euro rappresenta
un “consumo”, mentre l’acquisto di una penna
di lusso dal costo di mille euro assomiglia più a
un “investimento”.
Si tratta di distinzioni che possono acquisire rilevanza nei procedimenti di ricostruzione sintetica del reddito complessivo del contribuente. Invero, nell’ambito di questi ultimi procedimenti opera la presunzione basata sulla legge
causale secondo cui, di periodo in periodo, la
spesa è finanziata dal reddito. È pertanto indispensabile, al fine di osteggiare gli effetti di tale presunzione, ragionare sulla consistenza di
quella spesa, perché la ricostruzione di un reddito a partire dai “consumi” è cosa ben diversa
divergente rispetto alla ricostruzione del reddito incentrata sugli “investimenti” (3).
(1) Di regola, abbiamo detto, perché nel nostro ordinamento
proliferano, come funghi nel sottobosco, le fattispecie di tassazione mediante applicazione di imposte sostitutive o di ritenute
alla fonte a titolo definitivo. In questi casi, a bene vedere, l’imposta, pur denominata “sul reddito”, finisce per tassare un
provento lordo, senza prendere in considerazione i costi di produzione. Il ragionamento ci porterebbe lontano. Ma non è questa la sede adatta.
(2) In uno schema di ragionamento puramente teorico, le fasi della “produzione” e dell’“impiego” di reddito si alternano,
nel senso che il contribuente dapprima crea la ricchezza e, dipoi, la consuma. Nella realtà, queste fasi si sovrappongono e
si confondono, perché la ricchezza può essere spesa a mano a
mano che essa è generata. Parimenti, in una determinata annualità si possono consumare le ricchezze prodotte in quella
precedente, mentre si procede, di pari passo, alla generazione
di altra ricchezza che sarà spesa in futuro. Insomma, le sfere
della produzione della ricchezza e dell’impiego della ricchezza
non sono impermeabili, cosicché la ricchezza consumata è co-
stantemente sostituita, secondo un modello circolare, dalla ricchezza prodotta. Inutile soffermarsi su profili economici che
dovrebbero, noi crediamo, essere perfettamente noti al lettore.
(3) Nonostante nel 2010 sia stata cancellata, nel corpo dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, la disposizione stando alla
quale, in caso di incrementi patrimoniali, la spesa doveva considerarsi finanziata con redditi in parti uguali e in cinque periodi d’imposta, v’è la concreta possibilità che tale regola possa
riemergere in sede giurisprudenziale.
Chi ha voluto questa abrogazione probabilmente non ricorda che, nella prima formulazione dell’art. 38 cit., la presunzione non c’era e che essa è stata inserita in un secondo momento, allo scopo di recuperare sul piano normativo un dato economico che ci pare insormontabile. Si tratta di quel dato in base al quale, a fronte di investimenti per importi significativi, si
può pensare che la spesa sia stata finanziata con il nascondimento di redditi in più annualità.
L’equazione “spesa = reddito”, pertanto, può reputarsi, a
fronte di spese di una certa consistenza, irragionevole.
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Merito
Su di un aspetto, peraltro, credo ci si possa trovare tutti d’accordo.
I “costi” sono sopportati per la produzione del
reddito, mentre le spese rappresentano impieghi di redditi già prodotti. In entrambi i casi,
siamo di fronte a un contribuente che sborsa
denaro o che diventa debitore nei confronti di
qualcuno. L’esborso o il debito rappresentano
un dato comune. Tuttavia non basta dimostrare l’avvenuto pagamento di beni o di servizi
per affermare l’esistenza di un costo. È necessario indugiare sulla funzione di quell’esborso,
nel senso che è stato qui sopra descritto.
Si tratta di affermazioni chiare sul piano teorico, ma foriere di dubbi quando ci si trova di
fronte ad alcuni casi concreti, nei quali l’esborso sostenuto dal contribuente è capace di soddisfare, ad un tempo, ambedue le esigenze: da
un lato, quella di contribuire la produzione del
reddito (nel caso affrontato dalla sentenza, la
soubrette o presentatrice televisiva si veste perché deve partecipare a questa o a quella trasmissione); dall’altro, quella di soddisfare esigenze personali del contribuente, che chiunque
potrebbe manifestare (nel caso affrontato dalla
sentenza, la soubrette si veste perché non può
uscire nuda).
In modo corretto, la sentenza afferma che, ai
fini della verifica dell’inerenza di un determinato esborso, non conta la natura dei beni o
dei servizi acquistati, ma il contesto nel quale
quell’esborso si è verificato. Pertanto, il costo
sopportato per l’acquisto di un biglietto di ingresso al circo equestre dovrà reputarsi privo di
inerenza per un professionista che voglia passare due ore in tranquillità, ma sarà perfettamente inerente per un imprenditore che si occupi ad esempio - della promozione di nuove attra-
zioni o della vendita di animali ammaestrati.
Parimenti, il costo sostenuto per una vacanza
alle Bahamas non sarà inerente per un avvocato che abbia voluto dedicarsi un po’ di relax,
ma perfettamente inerente qualora si dimostri
che, durante il soggiorno in quelle meravigliose isole, si siano svolti meeting fondamentali
per l’organizzazione e il futuro svolgimento di
un’attività commerciale.
Il giudizio di inerenza è perciò dominato dalla
riflessione circa il contesto nel quale l’esborso
si colloca, non già dalla natura dei beni o dei
servizi che sono stati acquistati.
Reputiamo l’affermazione condivisibile su di
un piano generale. È tuttavia opportuna qualche precisazione, se non altro per rilevare come la natura dei beni o dei servizi acquistati
possa talvolta sovrapporsi (o, se vogliamo, avvitarsi) alle considerazioni svolte a proposito
del contesto.
Ciò che stiamo cercando di dire è che tanto
più i beni ed i servizi acquistati esprimono armonia rispetto all’oggetto dell’attività economica, tanto più fluido e lineare sarà il giudizio
di inerenza. Qui il costo esprime, infatti, un’elevata compatibilità con le caratteristiche dell’impresa esercitata o con quelle dell’attività
professionale svolta. Per conseguenza, il giudizio di inerenza potrà svolgersi senza intoppi e
senza particolari difficoltà (4).
Movendo in questa direzione, dunque, si potrà
dire che l’acquisto di acciaio, gomma e olio è
inerente rispetto all’attività di costruzione e
commercializzazione di auto. Del pari, l’acquisto di stoffe è inerente rispetto alla attività di
confezionamento e vendita di capi d’abbigliamento. L’acquisto di carne, a sua volta, inerente rispetto all’attività di produzione e vendita
di insaccati. E l’acquisto di abiti “moderni”
(così si legge nella sentenza) inerente rispetto
In effetti, nessuno è in grado di predeterminare, sul piano
cronologico, la propensione alla spesa dell’evasore.
Possono darsi casi di evasori seriali, che sottraggono redditi
all’imposizione e che, parallelamente, spendono quei redditi.
Qui la presunzione “spesa = reddito” è accettabile. Ma che dire nei casi in cui l’evasore seriale, che sottrae ogni anno ricchezza imponibile, impiega quella ricchezza in una sola annua-
lità, attraverso un solo acquisto di importo rilevante? E che dire, ancora, dell’evasore una tantum che spenda un po’ per volta, di periodo in periodo, quella ricchezza non dichiarata, in
un’unica annualità, al Fisco?
(4) Ci siamo occupati di questo argomento in Beghin, Diritto
tributario per l’Università e per la preparazione delle professioni
economico-giuridiche, Padova, 2015, pag. 537 ss.
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Inerenza e contesto
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Merito
all’attività di soubrette o di presentatrice televisiva.
Tanto più il costo si distacca, per la sua natura,
dal core dell’attività economica esercitata (non
importa se si tratti di un’attività d’impresa oppure di un’attività libero professionale), tanto
più stringente sarà il giudizio di inerenza e tanto maggiore la necessità di approfondire il contesto.
Ad esempio, l’acquisto di un quadro o di un biglietto per la Scala di Milano da parte di un rivenditore di auto usate può reputarsi, prima facie, lontano dagli ordinari schemi di svolgimento di quest’ultima attività. Ed è qui che si
fa strada, come rilevato, il contesto. Attraverso
la ricostruzione del contesto, il rivenditore di
auto potrà spiegare come e perché gli acquisti
sopra indicati hanno a che vedere con lo svolgimento della sua attività. Non è richiesto - e
la sentenza lo sottolinea - che, ai fini dell’inerenza, il costo generi un correlato provento. Il
costo deve semplicemente incardinarsi nel programma imprenditoriale o professionale, in
una valutazione da svolgere ex ante, non ex
post (5).
Inerenza ex ante e inerenza ex post
L’espressione “valutazione ex ante”, riferita al
giudizio di inerenza, vuol dire che tale giudizio
non viene svolto a distanza di anni dal momento di sostenimento del costo, bensì nel periodo in cui quel costo è stato contabilmente
sopportato, vale a dire quando si è proceduto
alla classificazione del componente reddituale
nei libri o registri dell’imprenditore e del professionista o, al più tardi, in occasione della
predisposizione della dichiarazione. Giudizio ex
ante, dunque, non già ex post.
Le ragioni che sostengono questa affermazione
sono evidenti.
Poiché il giudizio di inerenza è strumentale alla determinazione del reddito categoriale e, per
questa via, strumentale anche alla determina(5) Sul giudizio di inerenza come valutazione ex ante cfr. Tinelli, “Il principio di inerenza nella determinazione del reddito
d’impresa”, in Riv. Dir. Trib., 2002, I, pag. 461. Recentemente,
90
zione della base imponibile, entro il termine di
presentazione della scheda dichiarativa il contribuente è costretto a prendere una decisione
circa la riferibilità dei costi alla propria attività. Non può attendere i periodi d’imposta successivi, perché, quando si verte in tema di IRPEF o IRES, egli deve determinare di anno in
anno, per l’appunto, il proprio reddito e la ricchezza da sottoporre a tassazione.
Su di un piano generale, ciò significa altresì
che il giudizio di inerenza non richiede un’indagine sul campo circa le modalità di concreto
impiego di determinati beni o di taluni servizi
all’interno dell’impresa o nell’ambito dell’attività professionale.
Il contribuente non è tenuto a verificare, in
concreto, se il carburante acquistato sia stato
interamente destinato al rifornimento del parco automezzi, se i pezzi di ricambio acquistati
siano stati di qualche utilità oppure se il materiale di cancelleria sia stato impiegato, e in
quale misura, presso gli uffici amministrativi
della società. Può darsi che, in concreto, i beni
acquistati siano stati impiegati nel processo
produttivo nell’anno della loro acquisizione.
Può darsi che, sempre su di un piano di concretezza, i beni siano stati impiegati in annualità successive. Tuttavia, ai fini dell’inerenza è
sufficiente un’indagine in astratto circa il legame tra costi sopportati e programma dell’attività economica. E tale indagine è svolta avvalendosi essenzialmente della documentazione
mediante la quale gli stessi costi sono formalizzati. Il che vuol dire, in termini un po’ più
stringenti (ma ci auguriamo chiari), che per
stabilire se esista o meno inerenza si debbono
interpretare i documenti. Il giudizio di inerenza
manifesta, pertanto, una declinazione eminentemente cartolare.
Il lettore ci segua nello sviluppo del ragionamento: lo stabilire se un esborso abbia a che
vedere con lo svolgimento di un’attività è questione di fatto, non di diritto. Ma il fatto è qui
nello stesso senso, Vicini Ronchetti, La clausola dell’inerenza
nel reddito d’impresa, Padova, 2017, pag. 236.
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Merito
incapsulato nei documenti, nel senso che va
dimostrato attraverso la lettura e l’interpretazione di ciò che funge da punto di partenza per
la contabilizzazione del costo, non già attraverso indagini sul campo (6).
Si tratta pertanto di un giudizio che ha una declinazione spiccatamente cartolare, perché le
prime informazioni rilevanti ai fini di stabilire
l’esistenza di un collegamento tra esborso e attività si ricavano dalle fatture, dalle ricevute,
dai cedolini-paga, dagli estratti-conto bancari,
dai contratti e così via.
Nel caso affrontato dalla sentenza, i contratti
prodotti in giudizio dimostravano che la soubrette era obbligata a dotarsi di “adeguato vestiario moderno di sua proprietà”. La documentazione, dunque, deponeva addirittura nel senso della imprescindibilità di quei costi, perché,
in mancanza di abiti dotati di quelle caratteristiche, anche se descritte con formulazione un
po’ naïf, si sarebbe potuto configurare un inadempimento contrattuale. Il tutto - come detto
- sulla base di un giudizio da svolgere ex ante,
non ex post.
Queste regole valgono anche per l’Amministrazione finanziaria, quando essa proceda al
controllo dell’inerenza di questo o di quel
componente negativo di reddito.
Il funzionario deputato al controllo non deve
attualizzare il giudizio, vale a dire svolgerlo con
il criterio del “qui e ora”. Deve comportarsi,
invece, come lo storico. Mettersi idealmente al
posto del contribuente, in quel contesto, con
quei problemi aziendali o professionali e in
quel periodo d’imposta nel quale il costo è stato dedotto, e ragionare sulla base della documentazione e delle informazioni che, in quel
momento, erano a disposizione dell’imprenditore o del libero professionista.
In effetti, l’eventuale abbandono del modello
operativo incentrato sulla valutazione dell’ine-
renza con il criterio ex ante può determinare
un vero e proprio sovvertimento del giudizio,
perché, a distanza di anni dal momento in cui
le operazioni si sono perfezionate, aumenta
inevitabilmente il numero delle informazioni a
disposizione. È possibile vedere, ad esempio,
che un prodotto sul quale l’imprenditore ha investito non ha avuto successo; che una campagna pubblicitaria non ha determinato l’incremento del fatturato che ci si aspettava; che il
manager profumatamente retribuito non ha
ben governato l’azienda; che il prestito contratto con una certa banca ha portato alla costruzione di un capannone rimasto inutilizzato.
E così via. Ma queste informazioni potevano
non trovarsi nella disponibilità del contribuente nel momento in cui quest’ultimo soggetto
ha svolto il giudizio di inerenza.
Per questa ragione abbiamo scritto che il giudizio di inerenza svolto a distanza di anni dal
sostenimento dell’esborso e con il criterio ex
post può in qualche misura deformare le regole
di determinazione del reddito d’impresa o di
lavoro autonomo. Infatti, tale modalità operativa non solo rischia di introdurre un elemento di attualità in un giudizio che, per le sue
caratteristiche, è ammantato di storicità (vedi
quanto abbiamo detto sopra a proposito del
termine di presentazione della dichiarazione),
ma anche perché rischia di conferire carattere
decisivo circa la deducibilità del costo ad una
semplicistica valutazione in termini di “utilità” dell’esborso sopportato, relegando in secondo piano il mero - e necessariamente meno impegnativo - collegamento tra il citato
esborso e il programma economico del contribuente.
Si profila insomma, sul fronte metodologico
che diviene, però, fronte sostanziale, il pericolo
di scordarsi che sono inerenti i costi che possano dirsi semplicemente collegati all’attività
(6) Il ruolo delle aziende e della contabilità nella determinazione della ricchezza è ben descritto nel volume di H. Falciani
(con A. Mincuzzi), La cassaforte degli evasori, Milano, 2015,
pagg. 69-70, dove si legge quanto segue: “L’attenzione dei dipendenti è costantemente spostata dai contenuti ai processi.
Per esempio, se il lavoro di un tecnico è quello di classificare
dei documenti, non saranno i documenti in sé ad avere impor-
tanza per lui ma l’attività che deve svolgere, cioè la classificazione. Questo compito stabilirà quale sarà il suo ruolo nella
banca. Dunque il tecnico non cercherà di capire cosa sono o a
cosa servono quei documenti, ma solo di classificarli nel modo
migliore. E non coglierà il senso delle informazioni che sta riordinando, anche perché ne avrà sempre una visione parziale”.
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d’impresa o libero professionale esercitata e
che, per espletare siffatto giudizio, il contribuente deve rispettare il termine di presentazione della dichiarazione.
Quand’anche si volesse condurre il ragionamento sul piano della “necessarietà” o della
“utilità” dei costi, si tratterebbe pur sempre di
una necessarietà e di una utilità da valutare in
astratto, al momento di sostenimento dell’esborso, non in concreto, a distanza di tempo
dalla conclusione dei contratti. E non si può
certamente sanzionare il contribuente che abbia manifestato scarse (se non addirittura inesistenti) doti di preveggenza.
Non stiamo affatto dicendo che i controlli con
il criterio del “qui e ora” siano inutili. È vero,
invece, il contrario. Si tratta di attività istruttoria di grande utilità nei casi in cui, a fronte
di documentazione carente dal punto di vista
informativo o non particolarmente chiara, la
quale non consenta di stabilire, su base per
l’appunto cartolare, se il costo si riferisca o meno all’attività economica, il contribuente abbia
ciò nondimeno qualificato il relativo costo come inerente e lo abbia, per conseguenza, dedotto.
I controlli a distanza consentono pertanto all’Amministrazione finanziaria di ripercorrere il
giudizio di inerenza svolto a suo tempo dal
contribuente, avvalendosi però delle sole informazioni non desumibili per via documentale
ma che, nel momento in cui il costo è stato
sopportato, erano già nella disponibilità del
contribuente medesimo.
Attraverso i suddetti controlli potrebbero altresì emergere situazioni di vera e propria distrazione dei beni dal circuito dell’attività
d’impresa o dell’attività libero professionale.
Stiamo dicendo che determinati acquisti, con(7) Rinviamo i lettori maggiormente interessati a Beghin, Diritto tributario, cit., nel paragrafo dedicato alle intestazioni societarie di comodo. Ci riferiamo ai casi nei quali una società,
che deve reputarsi perfettamente operativa (ergo, non “di comodo”), acquista questo o quel bene per poi concederlo in
uso ai soci, per scopi che nulla abbiano a che vedere con lo
svolgimento dell’attività societaria.
(8) Il lettore che abbia voglia di ragionare ritorni su quanto
abbiamo scritto nella nota n. 2). La domanda, a questo punto,
92
tabilizzati come costi, potrebbero rappresentare, in tutto o in parte, meri consumi (7). Come
è avvenuto nel caso affrontato dalla sentenza,
nel quale il Fisco ha sostenuto che gli abiti e
gli accessori acquistati dalla soubrette o presentatrice televisiva avrebbero potuto essere utilizzati anche al di fuori dell’attività professionale.
Impiegati, dunque, in modo promiscuo (8).
Acquisti di beni e servizi
ad uso promiscuo
Arriviamo così al cuore del nostro discorso.
Gli esborsi sostenuti per taluni beni possono
assumere, ad un tempo, la configurazione del
“costo” e del “consumo”, nel senso che abbiamo rilevato all’inizio di questo breve scritto.
C’è un “costo” perché gli abiti acquistati dalla
soubrette sono uno strumento di esercizio della
professione. C’è poi un “consumo”, perché gli
stessi abiti possono essere impiegati non già
per produrre reddito, ma per soddisfare esigenze personali, come recarsi al parco, andare al
cinema o partecipare a una cena privata (il lettore costruisca da solo, e come crede, questa
tessera del mosaico).
In questi casi, si dovrebbe dire che, in astratto,
c’è l’inerenza per la parte di esborso che si riferisce agli impieghi professionali del bene, mentre non c’è per la parte che si riferisce agli impieghi personali. Il giudizio di inerenza dovrebbe pertanto caratterizzarsi anche sul piano quali-quantitativo, dotandosi, a questo punto, di
più sofisticati strumenti di misurazione degli
utilizzi e degli inutilizzi dei beni (9).
Ma di quali strumenti stiamo parlando? La deriva ragioneristico-contabile ci sta forse portando verso l’idea di un registro cronologico riguardante l’utilizzo di questo o di quel vestito,
oppure di questo o di quel paio di scarpe?
è semplice. C’è differenza tra il caso della soubrette che acquista gli abiti prima della sottoscrizione dei contratti televisivi e
la soubrette che procede all’acquisto soltanto dopo che i suddetti contratti siano stati perfezionati?
(9) Qui non ci riferiamo alla quantità per segnalare l’esistenza di costi eccessivi o abnormi, ma alla quantità che riguarda i
tempi e i modi di impiego del bene. La precisazione non ci
sembra superflua.
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Sinergie Grafiche srl
Giurisprudenza
Merito
Si capisce che un giudizio di inerenza così
strutturato presenterebbe enormi difficoltà di
ordine pratico, vale a dire sul piano della sua
gestione e dei controlli, e si tradurrebbe in
complicazioni per entrambe le parti del rapporto d’imposta.
Complicazioni per il contribuente, che, in casi
come questo, non può certo contabilizzare i
tempi di impiego dei beni strumentali nell’attività economica e al di fuori di questa attività.
Complicazioni per l’Amministrazione finanziaria, che sarebbe pur sempre esposta al rischio
di trovarsi di fronte a registrazioni costruite ad
arte, ingarbugliate o comunque inadatte allo
svolgimento di quel tipo di controllo.
Ciò che si vuol dire è che la dimostrazione delle modalità di utilizzo dei beni, decisiva per il
giudizio di inerenza nei casi di impiego promiscuo, presenta numerosi aspetti di difficoltà. Si
tratta di difficoltà che emergono anche nei casi
in apparenza più semplici, quando si tratti di
dimostrare, ad esempio, che un determinato
bene è stato utilizzato “in modo esclusivo” ai
fini dell’attività economica. In effetti, possono
esistere beni che, sulla carta, sembrano adattarsi ad una sola forma di impiego (per esempio,
le autovetture - di particolare conformazione adibite al trasporto funebre), ma che in concreto, con un po’ di fantasia e con una certa
dose di umorismo, sono utilizzabili anche per il
soddisfacimento di esigenze personali (utilizzo
del carro funebre per recarsi, muniti della necessaria attrezzatura, in una nota località sciistica).
Per questa ragione, il legislatore talvolta stabilisce che, alla presenza di beni adibiti promiscuamente (o che sono suscettibili, per le loro
caratteristiche, di essere adibiti promiscuamente) all’attività generatrice di reddito e al soddisfacimento di bisogni personali, la deduzione
avvenga in misura predeterminata. Può trattarsi, a seconda dei casi, di percentuali applicate
al costo oppure di limiti determinati applicando altre percentuali al volume d’affari. La regola sulla deduzione forfettizzata ingloba pertanto
il giudizio di inerenza, per evidenti ragioni di
semplificazione.
E siamo all’epilogo.
Tutti i professionisti (commercialisti, avvocati,
geometri, ingegneri, eccetera) potranno, a questo punto, dedurre in misura forfetaria i costi
sostenuti per l’acquisto di abiti e paletot?
Riteniamo che ciò non sia possibile e crediamo
esista una non trascurabile differenza tra il caso
della soubrette, esaminato nella sentenza in rassegna, e quello dei professionisti qui sopra genericamente richiamati.
Infatti, la soubrette è obbligata all’acquisto di
taluni abiti. Non qualsiasi abito, ma quei capi
e quegli accessori che rispondano alle esigenze
di spettacolo dedotte nel contratto. Si tratta
perciò di beni indispensabili allo svolgimento
dell’attività professionale e tale connotazione
funzionale è desumibile ex ante sulla base dei
documenti contabili (contratti e fatture), senza
la necessità di accertamenti in concreto ed ex
post.
Per gli altri professionisti questo obbligo, di regola, non c’è.
Fatta eccezione per talune fattispecie (la toga
per l’avvocato; il camice per il medico e così
via), si tratta di esborsi che il professionista verosimilmente sosterrebbe anche se svolgesse
una attività diversa da quella in concreto esercitata e anche se, in ipotesi, non esercitasse alcuna attività. Si tratta, quindi, di acquisti così
generici da risultare sganciati dal programma
imprenditoriale o dall’attività professionale.
Si potrebbe forse configurare in capo a questi
ultimi professionisti un generico dovere di decoro, sanzionabile, per esempio, sul piano
deontologico.
Siamo tuttavia di fronte ad una situazione ancora incapace di trasformare il “consumo” in
“costo”, perché il dovere di decoro declina, ai
fini dell’accertamento, in un giudizio di valore:
si tratta pertanto di una valutazione generica,
dai contorni non chiaramente tratteggiati, certamente avulsa da obblighi contrattuali e per
questa ragione inidonea a fornire, sul piano
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
93
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Giurisprudenza
Merito
funzionale, un contributo allo svolgimento dell’attività e alla produzione del reddito.
Insomma, “l’abito non fa il monaco”.
Ed è arduo sostenere che per rendere una determinata consulenza, per predisporre un pro-
getto immobiliare o per redigere una complessa
dichiarazione fiscale il professionista “deve” indossare un determinato abito, portare un certo
orologio o calzare mocassini di pregio (10).
(10) Per i lettori più attenti segnaliamo, a questo punto, il
rapporto tra l’entità del costo e lo svolgimento di inerenza.
Quando ci si trova di fronte ad acquisti per importi significativi,
v’è la possibilità che gli Uffici finanziari recuperino a tassazione
il costo in quanto antieconomico. Sul punto, da ultimo, Cass.,
Sez. trib, 30 novembre 2016, n. 24379, in http://www.rivistadirittotributario.it/2016/12/09/sindacato-dellamministrazione-sulla-congruita-dei-costi/, con nota di Fransoni, “Il sindacato dell’Amministrazione sulla congruità dei costi”. Vedi anche Vicini
Ronchetti, La clausola dell’inerenza, cit., pag. 239 ss.
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GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
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Indici
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Indice degli Autori
Beghin Mauro
Il giudizio di inerenza tra valutazioni ex ante, valutazioni ex post e obblighi contrattuali .....................
87
Comelli Alberto
Disconoscimento formale del credito IVA in caso di
omessa dichiarazione relativa all’anno d’imposta precedente .....................................................
9
Dami Filippo
La riqualificazione degli assetti negoziali nella prospettiva dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 ...........
72
Eusepi Sarah
L’efficacia retroattiva ed ultrannuale degli avvisi di
recupero: riflessioni sull’inesistenza dei ‘‘crediti da
non indebito’’ ...............................................
60
Cassazione, SS.UU., Sent. 31 maggio 2016, n.
11379 () ....................................................
Cassazione, SS.UU., Sent. 31 maggio 2016, n.
11383 () ....................................................
Cassazione, SS.UU., Ord. 8 giugno 2016, n. 11709
() ............................................................
Cassazione, SS.UU., Sent. 9 giugno 2016, n. 11844
() ............................................................
Cassazione, SS.UU., Sent. 13 giugno 2016, n.
12084 () ....................................................
Cassazione, SS.UU., Sentt. 14 giugno 2016, nn.
12190, 12191, 12192, 12193 e 12194 () .............
Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n.
12191 ........................................................
Cassazione, SS.UU., Sent. 30 giugno 2016, n.
13378 () ....................................................
Cassazione, SS.UU., Ord. 30 giugno 2016, n. 13380
() ............................................................
Cassazione, SS.UU., Sent. 8 luglio 2016, n. 14038
() ............................................................
Cassazione, SS.UU., Sent. 8 settembre 2016, n.
17758 ........................................................
Fanni Matteo
Corte di cassazione
Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n.
15175 ........................................................
Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n.
15190 ........................................................
Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n.
16769 ........................................................
Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n.
17839 ........................................................
Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016, n.
21614 ........................................................
Glendi Graziella
Incertezze sui rimedi esperibili avverso il diniego parziale e tacito di autotutela ................................
49
Mazzoni Diletta
La riqualificazione degli assetti negoziali nella prospettiva dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 ...........
25
25
26
27
28
15
29
29
30
5
(*) Nella sezione «Rassegna di giurisprudenza».
Il testo delle sentenze si può richiedere alla redazione di
GT - Rivista di giurisprudenza tributaria
([email protected]).
La Cassazione torna, con piglio creativo, sulla vexata
quaestio della presunzione di fruttuosità dei mutui
socio/società ...............................................
43
24
67
58
48
42
31
72
Commissione tributaria provinciale
Roccatagliata Franco
Il possesso dei requisiti sostanziali previsti dalla Direttiva ‘‘interessi e royalties’’ è condizione necessaria e
sufficiente per fruire dei relativi benefici fiscali? .......
79
Stevanato Dario
Il new deal della Suprema Corte sull’imposizione indiretta del trust: giù il sipario sull’imposta sui vincoli
di destinazione? ............................................
34
48
85
76
Repertorio
Agevolazioni
Venegoni Andrea
La finalità mutualistica dei consorzi non è incompatibile con il fine di lucro ma il trattamento fiscale dipende dalla situazione di fatto ...........................
Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez. IV,
Ord. 18 luglio 2016, n. 454 ...............................
Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez.
XL, Sent. 22 luglio 2016, n. 6443 .......................
Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I,
Sent. 3 novembre 2016, n. 8303 .......................
Crediti d’imposta
15
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Incentivi per gli investimenti in aree svantaggiate -
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Indici
Recupero di crediti opposti in compensazione inesistenti - Avviso di recupero - Ammissibilità - Scadenza del termine in relazione a periodi pregressi - Irrilevanza
(Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n.
15190, con commento di S. Eusepi) ...................
Successiva emissione della cartella di pagamento Legittimità
(Cassazione, SS.UU., Sent. 8 settembre 2016, n.
17758, con commento di A. Comelli) ..................
58
Processo tributario
Consorzi
Atti impugnabili
Prestazioni di servizi
Diniego di autotutela parziale - Impugnabilità - Sussistenza - Ragioni di rilevante interesse generale prospettate dal ricorrente - Necessità
Prestazioni rese da consorzio - Attività commerciale
con scopo di lucro - Ammissibilità - Differenza tra
quanto fatturato dal consorzio al terzo committente
e quanto fatturato dal consorziato al consorzio - Problematica configurabilità quali ricavi non fatturati Natura dei rapporti tra consorzio e consorziati tra di
essi e nei confronti dei committenti - Rilevanza
(Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n.
12191, con commento di A. Venegoni) ................
(Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n.
16769, con commento di G. Glendi) ...................
15
Direttive
76
48
Determinazione
Versamenti dei soci alla società - Presunzione di
onerosità - Sussistenza - Prova contraria a carico del
contribuente - Ammissibilità - Dimostrazione dell’iscrizione in bilancio del versamento a titolo diverso
dal mutuo - Necessità
(Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n.
17839, con commento di M. Fanni) ....................
Applicazione dell’imposta
42
Redditi di lavoro autonomo
67
Imposte indirette
Imposte ipotecarie e catastali
Istituzione di trust ‘‘autodichiarato’’ - Applicazione
delle imposte in misura fissa - Legittimità
(Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016, n.
21614, con commento di D. Stevanato) ...............
Istanza - Obbligo dell’Amministrazione finanziaria di
adozione di un provvedimento amministrativo
espresso - Inesistenza - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza
- Impugnabilità del silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria - Mancata previsione - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta
infondatezza
(Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez.
IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454, con commento di G.
Glendi) .......................................................
Redditi di capitale
Imposta di registro
Causa reale ed effettiva regolamentazione degli interessi - Rilevanza - Cessione di beni funzionali all’esercizio dell’impresa - Cessione d’azienda - Configurabilità - Imposta di registro - Applicabilità - Cessione
di singoli beni non idonei all’esercizio dell’impresa IVA - Applicabilità
(Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n.
15175, con commento di F. Dami e D. Mazzoni) ....
48
Autotutela
Fiscalità internazioale
Direttiva ‘‘interessi e canoni - Diritti riconosciuti dalla
normativa europea - Soddisfacimento dei requisiti
sostanziali - Necessità - Requisiti formali - Irrilevanza
(Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez. I,
Sent. 3 novembre 2016, n. 8303, con commento di
F. Roccatagliata) ...........................................
5
Determinazione
Giudizio di inerenza - Svolgimento ex ante - Necessità - Attività artistica - Costi sostenuti per acquisto di
abiti e mobilio - Utilizzo promiscuo per esercizio della professione e uso personale - Deducibilità al 50%
- Legittimità
(Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez.
XL, Sent. 22 luglio 2016, n. 6443, con commento di
M. Beghin) ..................................................
85
31
IVA
Sistematico
Dichiarazioni
R.D. 16 marzo 1942, n. 262
Omessa presentazione della dichiarazione annuale Iscrizione a ruolo dell’imposta detratta - Legittimità -
Approvazione del testo del Codice Civile
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Indici
Art. 1815 - Interessi
riqualificazione degli assetti negoziali
presunzione di onerosità dei mutui
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n.
15175
con commento di F. Dami e D. Mazzoni ..............
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n.
17839
con commento di M. Fanni ..............................
42
D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917
Art. 2615 - Responsabilità verso i terzi
finalità mutualistica dei consorzi
- Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n.
12191
con commento di A. Venegoni ..........................
67
Approvazione del testo unico delle imposte sui
redditi
15
Art. 46 - Versamenti dei soci
presunzione di onerosità dei mutui
Art. 2615-ter - Società consortili
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 settembre 2016, n.
17839
con commento di M. Fanni ..............................
finalità mutualistica dei consorzi
- Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n.
12191
con commento di A. Venegoni ..........................
15
42
Art. 54 - Determinazione del reddito di lavoro
autonomo
giudizio di inerenza
D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633
- Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez.
XL, Sent. 22 luglio 2016, n. 6443
con commento di M. Beghin ............................
Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore
aggiunto
85
Art. 3 - Prestazioni di servizi
finalità mutualistica dei consorzi
D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546
- Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n.
12191
con commento di A. Venegoni ..........................
Disposizioni sul processo tributario in attuazione
della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della
legge 30 dicembre 1991, n. 413
15
Art. 13 - Base imponibile
Art. 19 - Atti impugnabili e oggetto del ricorso
finalità mutualistica dei consorzi
impugnabilità del diniego di autotutela
- Cassazione, SS.UU., Sent. 14 giugno 2016, n.
12191
con commento di A. Venegoni ..........................
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n.
16769
con commento di G. Glendi .............................
- Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez.
IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454
con commento di G. Glendi .............................
15
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600
Disposizioni comuni in materia di accertamento delle
imposte sui redditi
Disposizioni urgenti in materia fiscale
agevolazioni per i beneficiari effettivi
impugnabilità del diniego di autotutela
- Commissione tributaria provinciale di Milano, Sez.
I, Sent. 3 novembre 2016, n. 8303
con commento di F. Roccatagliata .....................
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 9 agosto 2016, n.
16769
con commento di G. Glendi .............................
- Commissione tributaria provinciale di Chieti, Sez.
IV, Ord. 18 luglio 2016, n. 454
con commento di G. Glendi .............................
D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131
Art. 2-quater - Autotutela
Approvazione del testo unico delle disposizioni
concernenti l’imposta di registro
D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241
Art. 20 - Interpretazione degli atti
Norme di semplificazione degli adempimenti dei
GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria 1/2017
48
D.L. 30 settembre 1994, n. 564
Art. 26-quater - Esenzione dalle imposte sugli
interessi e sui canoni corrisposti a soggetti residenti
in Stati membri dell’Unione europea
76
48
48
48
97
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Indici
D.L. 3 ottobre 2006, n. 262
contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e
dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di
modernizzazione del sistema di gestione delle
dichiarazioni
Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria
Art. 2 - Misure in materia di riscossione
Art. 17 - Oggetto
imposta indiretta sui trust
avvisi di recupero per crediti d’imposta
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n.
15190
con commento di S. Eusepi .............................
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 26 ottobre 2016, n.
21614
con commento di D. Stevanato .........................
58
31
D.L. 29 novembre 2008, n. 185
Legge 27 luglio 2000, n. 212
Disposizioni in materia di Statuto dei diritti del
contribuente
Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro,
occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione
anti-crisi il quadro strategico nazionale
Art. 11 - Diritto di interpello
Art. 27 - Accertamenti
riqualificazione degli assetti negoziali
avvisi di recupero per crediti d’imposta
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n.
15175
con commento di F. Dami e D. Mazzoni ..............
- Cassazione, Sez. trib., Sent. 22 luglio 2016, n.
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con commento di S. Eusepi .............................
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