S
e non vuoi un uomo infelice per motivi politici,
non presentargli mai i due aspetti di un problema, o lo tormenterai; dagliene uno solo; meglio
ancora, non proporgliene nessuno. Fa’ che dimentichi
che esiste una cosa come la guerra. … Offri al popolo
gare che si possano vincere ricordando le parole di
canzoni molto popolari, o il nome delle capitali dei
vari Stati dell’Unione o la quantità di grano che lo
Iowa ha prodotto l’anno passato. Riempi i loro crani
di dati non combustibili, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma
sicuri di essere “veramente bene informati”. Dopo di
che avranno la certezza di pensare, la sensazione del
movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere
sono sempre gli stessi.
ISSN 2037-4240
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXXI (2011)
n. 8
Claudio Fontanari
L’ATTUALITÀ DI
CLAUDIO
BAGLIETTO
Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (1951)
Mattia Coser
Romano Prodi
UN MINIMO
DI PROFEZIA
Silvio Mengotto
Periodico mensile - Anno XXXI, n. 8, ottobre 2011 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue.
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LA
STAFFETTA DI
SAN VITTORE
IGNACIO
ELLACURÍA:
LA FILOSOFIA
DELLA STORIA
COME
FONDAMENTO
DELLA TEOLOGIA
POLITICA
Emanuele Curzel
LE CAUSE
DEL CEMENTO
IL MARGINE
8
OTTOBRE 2011
Romano Prodi
3
Un minimo di profezia
Silvio Mengotto
10
La staffetta di San Vittore.
Suor Enrichetta Alfieri (1891-1951)
Claudio Fontanari
20
L’attualità di Claudio Baglietto
Mattia Coser
25
Ignacio Ellacuría:
la filosofia della storia
come fondamento della teologia politica
Emanuele Curzel
33
Le cause del cemento
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Taglia le ali alle armi
IL MARGINE
«Anche se il Governo tiene bloccata da tempo (almeno dalla fine 2009)
la decisione definitiva, l’Italia a breve potrebbe perfezionare l’acquisto di
oltre 130 cacciabombardieri d’attacco Joint Strike Fighter F-35: un programma che ad oggi ci è costato già 1,5 miliardi di euro ne costerà almeno
altri 15, solo per l’acquisto dei velivoli, arrivando ad un impatto di 20 miliardi nei prossimi anni. Senza contare il mantenimento successivo di tali
velivoli. Siamo quindi in gioco, come partner privilegiato, nel più grande
progetto aeronautico militare della storia, costellato di problemi, sprechi e
budget sempre in crescita, mentre diversi altri paesi partecipanti – tra cui
Gran Bretagna, Norvegia, Olanda, Danimarca e gli stessi Stati Uniti capofila! – hanno sollevato dubbi e rivisto la propria partecipazione. In questo
periodo di crisi e di mancanza di risorse per tutti i settori della nostra società, diviene perciò importante effettuare pressione sul Governo italiano affinché decida di rivedere la propria intenzione verso l’acquisto degli F-35, scegliendo altre strade più necessarie ed efficaci sia nell’utilizzo dei fondi (verso investimenti sociali) sia nella costruzione di un nuovo modello di difesa.
L’esempio del programma Joint Strike Fighter deve quindi servire come
emblema degli alti sprechi legati alle spese militari e della necessità di un
forte taglio delle stesse verso nuovi investimenti più giusti, sensati, produttivi» (http://www.disarmo.org/nof35).
mensile dell’associazione
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Vicepresidente: Leonardo Paris
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Editoriale
Un minimo di profezia
ROMANO PRODI
(sintesi redazionale di PIERGIORGIO CATTANI)
«N
oi viviamo in un unico mondo, ma non dobbiamo avere un unico
modello. Il colonialismo era bastato su questo principio: esiste un
modello unico ed è il nostro. Ci sono diritti fondamentali, certamente, ma
non possiamo metterci nell’ottica del “noi insegniamo, voi imparate”. Per
convivere nel mondo abbiamo bisogno di un minimo di profezia, non solo di
diplomazia». Con questo invito programmatico si è concluso l’intervento
che Romano Prodi ha svolto nel corso della trentunesima Scuola di formazione della Rosa Bianca, che da anni è il momento estivo di incontro per i
cattolici democratici. Come presidente della Fondazione per la Collaborazione tra i popoli, Prodi ha parlato sul tema «I Sud e le porte del mondo»,
affrontando i principali problemi della politica internazionale con uno
sguardo “lungo” e rivolto al futuro: dalla guerra in Libia alle conseguenze
della crisi economica, dalla possibilità di uno sviluppo in Africa alla necessità di istituire organismi sovranazionali fino alla nuova grande potenza
globale, la Cina.
Il passaggio del testimone
Il discorso prodiano torna molto spesso sullo straordinario processo di
crescita del Celeste Impero («è un fantastico Rinascimento – afferma il professore – e non uso per caso questo termine, richiamato sempre dagli stessi
cinesi: è una parola tutta italiana e sentire richiamare questi aspetti per rafforzare la propria identità dà una certa sensazione positiva»), evidenziando il
significato epocale della trasformazione in atto. «Dopo che per anni gli Stati
Uniti hanno bacchettato la Cina sulla concorrenza, sui diritti umani, sul Tibet, oggi il vicepresidente americano va in visita dicendo che Taiwan è un
affare interno al Paese. Queste dichiarazioni, passate sotto silenzio dai media italiani, non avvengono mai per caso, ma testimoniano che il mondo è
3
cambiato, che gli equilibri si sono modificati. In agosto le previsioni sul
quadro economico sono completamente mutate in una direzione pessimistica». Questa seconda ondata della crisi economica «ha accorciato di qualche
anno il passaggio di testimone dagli Stati Uniti alla Cina. Viviamo in un
mondo in grandissima trasformazione in cui il Nord sta passando il testimone della gara: sarà un passaggio lento, non certo immediato ma il fatto è che
se non cambiano alcuni valori di riferimento ciò avverrà inevitabilmente».
Prodi conosce bene il gigante asiatico e oggi, come professore di Dialogo sino-europeo presso il CEIBS (China Europe International Business
School) di Shanghai, è un testimone privilegiato della nuova mentalità cinese. «Io sono convinto da 25 anni che bisogna avere un rapporto forte con la
Cina e mi aspetto che cresca in modo cooperativo con l’Occidente senza per
forza seguire il nostro stile. I ragazzi cinesi sono capaci di tutto, come poteva essere in Italia negli anni Sessanta, hanno un grande entusiasmo, posseggono un’alta formazione, avviano attività imprenditoriali innovative. Loro
hanno la consapevolezza di migliorare. E tra consapevolezza e arroganza il
passo è breve. Ho un’esperienza limitata, ma là tutto sembra possibile, è un
momento storico per loro, anche se questa corsa ha costi sociali elevatissimi».
Se queste sono impressioni soggettive, la realtà del passaggio di testimone dagli Stati Uniti alla Cina, cioè dall’occidente all’Asia, si fonda su
dati quantitativi. Prima di tutto, sottolinea Prodi, la demografia: «In 100
anni l’Europa passerà dal rappresentare il 20% della popolazione all’8%, la
Cina rallenterà la sua spinta e probabilmente l’India la supererà, ma insieme
parliamo di circa 3 miliardi e mezzo di persone (su una popolazione globale
di 9 miliardi di abitanti); questo fa la differenza. Se poi pensiamo che queste
persone vivevano in condizioni miserevoli, ai margini dell’umanità, e che
ora hanno fatto un salto qualitativo, ci accorgiamo di essere di fronte a un
fenomeno incredibile. La popolazione continua a crescere nei Paesi musulmani e nell’Africa: oggi l’Africa e l’Europa hanno gli stessi abitanti della
Cina, domani basterà l’Africa: dovremo vedere se accanto a un Rinascimento asiatico ci sarà anche un Rinascimento africano». Se passiamo alle cifre
che riguardano lo sviluppo economico, incontriamo cambiamenti ancora
più veloci: «Per 17 secoli e mezzo la Cina ha avuto il reddito pro capite più
alto del mondo, raggiunto nel Rinascimento soltanto dalla Toscana. Alcuni
dati economici: nel 1950 gli Stati Uniti detenevano il 50% del prodotto interno lordo globale, oggi hanno il 20% (l’Europa un po’ di più); il blocco
occidentale è passato nello spazio di due generazioni dal 68% al 42%. Gli
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Stati Uniti però mantengono ancora il 50% delle spese militari globali, un
fardello insostenibile come è la presenza di 400.000 soldati americani
all’estero. E non è affatto vero che questi Paesi emergenti vadano avanti soltanto copiando da noi: ci sono alcuni centri di ricerca in Cina e in India enormi, che noi neppure immaginiamo. Ci sono istituzioni scolastiche molto
più efficaci. Questo implica un cambiamento totale che incide sul nostro
quotidiano: se non lo capiamo subito saremo tagliati fuori e basta. La nostra
interpretazione dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo va completamente
riscritta, perché il mondo si restringe dal punto di vista geografico e non solo».
Le disuguaglianze aumentano
Nel contempo gli ultimi decenni ci dicono che le disuguaglianze sociali
tra ricchi e poveri sono aumentate. Quaranta anni fa, ricorda Prodi, «noi
avevamo il grande augurio che i Paesi si sviluppassero e che tutto il mondo
progredisse; ma adesso che ciò sta accadendo davvero sembra una catastrofe. Questo consolante sviluppo è avvenuto però attraverso modalità che condannavamo. Fino agli anni Ottanta c’era stato un leggero miglioramento della condizione dei poveri, grazie al welfare state che aveva giocato un ruolo
estremamente positivo nell’arginare certi effetti negativi della crescita: ma
l’appesantimento dello Stato e l’inefficienza delle strutture pubbliche hanno
cambiato la visione”. Perché è accaduto questo? Ci sono ragioni economiche ma soprattutto politiche. «Quando crescono i valori economici, i prezzi
degli immobili e dei beni di consumo, ovviamente aumenta la differenza tra
chi li possiede e chi no. Una famiglia, di pari reddito rispetto a un’altra, ma
che possiede una casa che raddoppia il suo valore è ovvio che sarà avvantaggiata rispetto all’altra e le differenze di condizione economica si accentueranno. Secondo: quasi ovunque, con un consenso generale in quasi tutti i
Paesi, sono state abolite le imposte di eredità che avevano aiutato la ridistribuzione della ricchezza (come hanno dimostrato numerosi studi soprattutto
francesi). Non sono fenomeni piovuti dal cielo, intendiamoci, ma sono frutto
di precise scelte. Terzo: la riduzione delle aliquote fiscali, come per esempio
negli Stati Uniti dove si è passati dal 60% al 36% per i redditi più alti. Questo vuol dire meno soldi allo Stato, al sistema sanitario, a quello scolastico...
anche questo con l’approvazione quasi unanime. Quarto: l’ampliarsi della
gamma delle differenze tra le retribuzioni e tra i salari; anche questo viene
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tranquillamente accettato dall’opinione pubblica. Non c’è più uno sdegno
verso queste sperequazioni ma c’è una corale accettazione delle disuguaglianze. Per me questo è inaccettabile. Non ci si indigna più neppure di fronte all’evasione fiscale».
La debolezza e l’assenza della politica
Prodi insiste sulla centralità della politica, la cui mancanza di
leadership e di progettualità ha in un certo senso determinato la crisi e ora
impedisce di trovare soluzioni. Il grande fatto nuovo che corrode la nostra
democrazia sta tutto nell’assenza della politica, detronizzata dall’economia
o meglio dalle strutture finanziarie internazionali, capaci di una rapidità
nelle decisioni e di una forza quantitativa impossibili per le politiche dei
singoli Stati. «Oltre il 70% delle vendite dei titoli in borsa avvenute in queste settimane sono state automatiche; sono i computer che gestiscono la situazione ragionando secondo schemi statistici: è un sistema certamente fuori
da ogni tipo di controllo politico. Se lo spread aumenta, si reagisce vendendo il nostro portafoglio di titoli. Questo è inevitabile. Ma c’è qualcosa di più
profondo». E qui Prodi non nasconde la sua preoccupazione. «La realtà economica internazionale ha una capacità di adattamento e di reazione molto
più rapida rispetto a quella della politica. Questo è il grande problema della
nostra democrazia. Non possiamo pensare né aspettare che il mondo si autocorregga. Sono pessimista, non vedo soluzioni vicine. Vedo una mancanza
di leadership, lo sguardo solamente rivolto al breve periodo, la necessità di
risultati immediati. E non vale soltanto per noi: per esempio Obama va al
Cairo e fa un bellissimo discorso di apertura, poco dopo il Congresso americano tributa 27 applausi alle parole del primo ministro israeliano Netanyahu;
e così il problema del riconoscimento dello stato palestinese è rimandato a
data da destinarsi... i politici sono sempre messi davanti al dilemma di rischiare il posto oppure di cedere alla demagogia. Oggi Degasperi finirebbe a
fare il bibliotecario!».
La crisi dell’Europa
L’assenza della politica non è solo un problema italiano, ma investe
l’occidente, l’Unione Europea il cui rafforzamento sarebbe la nostra unica
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ancora di salvezza. «Tutto questo – continua il professore – è aumentato nel
periodo di tempo che io chiamo decennio della paura. In Europa siamo passati dai grandi successi dell’adozione dell’euro, dell’allargamento, dei nuovi
trattati, all’epoca della paura: della Cina, della globalizzazione, degli immigrati, delle cose che ci vengono in casa e di quelle che scappano. Invece di
rispondere a questo unendoci di più si reagisce dividendosi e frammentandosi. I vertici franco-tedeschi sono la negazione dello spirito europeo: tutti li
aspettano come risolutivi ma poi finiscono con un rinvio. Gli altri 25 Paesi
si arrabbiano, ma non hanno la forza di contrastare questa tendenza. Alla
fine non si possono prendere decisioni efficaci. Avremo bisogno di un cambiamento della struttura decisionale. In politica devi fare iniziative rischiando, rischiando in prima persona.
Vi racconto un aneddoto cinese. Parlavo con il responsabile degli esteri
del partito comunista cinese, un uomo di grande conoscenza, raffinato, sapeva benissimo l’italiano e conosceva pure il Partito Democratico. Diceva:
“io non capisco più gli europei, voi non pensate mai al domani, siete sempre
sotto elezioni e, idea che abbiamo condiviso ragionando insieme, ogni elezione è diventata di importanza radicale. Come fate a gestire un Paese o un
continente se non pensate mai al domani?” E ha concluso: “sono molto preoccupato per il futuro della vostra democrazia”. Il prete non era quello giusto, ma la predica era sensata!»
C’è un fortissimo legame tra la nostra situazione politica e l’aumento
delle diseguaglianze. «La questione dell’azione delle istituzioni finanziarie
internazionali interessa sempre più concretamente la nostra vita quotidiana.
Occorrerebbe fare grandi riforme a livello globale, ma sappiamo quanto è
difficile. Per esempio: io sono stato sempre favorevole alla Tobin tax, quella
sulle transazioni finanziarie, però come economista devo dire che devono
adottare tutti questa tassa, altrimenti diviene un gioco che alimenta ulteriormente gli squilibri. Perché chi non impone questa tassa e possiede gli ingranaggi economici più veloci finisce per essere avvantaggiato. Venendo al
quadro italiano, per esempio io sarei prudente, anzi sarei istintivamente contrario, a costituzionalizzare il pareggio di bilancio. Certamente mi pongo il
problema, come hanno dimostrato gli anni in cui sono stato al governo, nei
quali il debito pubblico è diminuito sensibilmente; ma l’economia non è fatta di formule matematiche e queste regole non possono essere applicate in
senso astratto. La politica invece deve interpretare i problemi, affrontare le
necessità: per questo deve avere un suo posto e uno spazio di azione. Oppure ci vorrebbe la riforma del sistema monetario internazionale, ma la Cina
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non vuole accettarla adesso perché sa che tra alcuni anni potrà imporre lei le
sue regole; l’Europa è divisa e ogni giorno si inventa qualcosa di nuovo. Si
fa presto a dire che servono organismi sovranazionali per gestire l’economia
globale, ma poi in pratica nessuno si muove in questa direzione. Ma è proprio ciò di cui avremmo bisogno, non solo per quanto riguarda la politica.
Sono le istituzioni regionali e sovranazionali che ci potrebbero salvare. Esse
sono sempre più necessarie ovunque: in Africa per esempio l’autorità del
bacino del Nilo svolge un ruolo fondamentale».
Uno sguardo all’Africa
Arriviamo così a un’altra questione dirimente per il nostro futuro: quale sarà il destino del continente nero? «L’Africa è un continente che avrebbe le potenzialità di muoversi, non certo in virtù dei governi ma per fatti
nuovi che stanno avendo un contagio positivo e per dati oggettivi, come per
esempio per l’aumento dei prezzi delle materie prime, dell’energia e anche
del cibo. Ciò potrebbe favorire e mettere al centro dell’interesse del mondo
le uniche due aree che posseggono riserve di cibo, cioè l’Africa e il Sudamerica. L’approvvigionamento del cibo diventa quindi la grande questione – e
il grande dramma – del secolo». Ma anche qui subentra la politica, in un
contesto dove permangono focolai di guerra e di instabilità: «In questo
momento pensiamo alla Libia, ma anche l’Egitto vive una situazione molto
difficile: il Paese viene da sette anni di vacche grasse, per citare l’immagine
della Bibbia, con uno sviluppo fortissimo guidato però dall’esercito; la rivolta è opera di un centro sociale che si è inserito in questo nuovo assetto, ma
che non ha potuto goderne dal punto di vista dell’occupazione e del miglioramento delle condizioni economiche reali; le esportazioni hanno difficoltà;
il turismo è in crisi; degli imprenditori, un terzo è in galera, un terzo è scappato e un terzo aspetta di vedere dove investire; i Fratelli musulmani stanno
diventando gli interlocutori privilegiati dell’esercito. Ma noi che cosa stiamo
facendo a fronte di questa situazione?».
Un cambio di mentalità
A fronte di questi repentini cambiamenti che di certo sfuggono al nostro controllo e che sono più grandi di noi, l’unica azione necessaria e pos-
8
Testimoni
sibile, attuabile da individui e comunità, incrocia il mutamento del nostro
orizzonte valoriale. «Non servono gesti simbolici o eclatanti, ci vuole un
cambio di sensibilità, un ripensamento personale e collettivo. Noi non pensiamo ancora a un mondo diverso. Tutta la nostra analisi va completamente
riscritta: o noi ci rendiamo conto anche nella vita quotidiana del cambiamento in atto e del modo in cui affrontarlo, altrimenti siamo tagliati fuori. Occorre rispettare le culture, come fece Matteo Ricci, che è l’unico italiano dopo Marco Polo ricordato in Cina perché ha rispettato, perché ha capito di
avere di fronte una cultura forte, una dignità, qualcosa di profondo». E questo vale per tutti i popoli del mondo.
La staffetta di San Vittore
Suor Enrichetta Alfieri (1891-1951)
SILVIO MENGOTTO
l 26 giugno 2011 in piazza Duomo a Milano si è svolta la cerimonia di
beatificazione per don Serafino Morazzone, padre Clemente Vismara e
suor Enrichetta Alfieri. Le seguenti note si concentrano sulla figura di suor
Enrichetta Alfieri e sono precedute da un ricordo della mia infanzia. Negli
anni cinquanta suor Palmira, suor Lorenzina, suor Severina e suor Angela
erano le quattro suore che ricordo nella mia esperienza di scuola materna. Le
religiose gestivano questo servizio offerto ai parrocchiani del quartiere e appartenevano alla congregazione delle Suore della Carità di Santa Giovanna
Antida Thouret, ordine al quale apparteneva la stessa suor Enrichetta Alfieri.
Di loro ho ancora molti ricordi che, nel trascorrere del tempo, sono stati
propedeutici alla voglia di conoscere la figura di suor Enrichetta Alfieri.
L’asilo aveva un ampio cortile con un pezzo di orto coltivato dalle stesse
suore e la riproduzione della grotta di Lourdes dove ci radunavano per la
preghiera. Ancora oggi la grotta è presente nel nuovo asilo gestito da laiche
della parrocchia. La lunga gonna indossata dalle suore prima del Concilio
Vaticano II mi incuriosiva. Quando morì il cardinale Idelfonso Schuster, che
conobbe personalmente suor Enrichetta Alfieri salvandola dalla fucilazione
dei nazisti, alcune suore vennero a casa mia per poter vedere alla televisione
le immagini del funerale. Nel salone principale dell’asilo troneggiava il quadro della fondatrice dell’ordine, Giovanna Antida Thouret che nel secolo
XIX iniziò la missione di carità sul difficile terreno del carcere dove trovò
un ambiente disumanizzante e bisognoso di carità e umanità per agevolare e
incentivare il cammino verso il difficile reinserimento sociale. Di fronte a
tanta desolazione e miseria la caratteristica di suor Enrichetta Alfieri nel
carcere di San Vittore a Milano è stata un’avventura quotidiana di sofferta,
quanto generosa, consolazione. A suo modo, una feriale umanizzazione in
un contesto dove si respirava la disperazione. Farne memoria ci aiuta a scrivere una scheggia di storia dei poveri e delle povertà che ancora manca nella
I
EMERGENCY SULLA SITUAZIONE A LAMPEDUSA
(da http://www.emergency.it)
Quello che sta succedendo a Lampedusa è figlio di una politica criminale che da
molti anni i governi di questo Paese stanno attuando nei confronti dei migranti. Migranti che, oltre a essere privati dei più elementari diritti umani, vengono deliberatamente usati per esasperare gli animi, costruire “diversi” e “nemici”, alimentare guerre tra poveri. La tensione e la violenza delle ultime ore, a Lampedusa come a Pozzallo, sono l’inevitabile conseguenza della politica di un governo che tratta gli stranieri
come criminali, come problema di ordine pubblico, come bestie. Il sovraffollamento
delle strutture, la carenza di assistenza di base, la privazione dei diritti fondamentali,
oltre a essere una vergogna per un Paese che si vuole definire civile, comportano inevitabilmente l’inasprirsi del disagio e della violenza. Grave è anche la mancanza di
un progetto di accoglienza: migliaia di persone vengono lasciate marcire in condizioni disumane, senza prospettive, senza speranze, senza sapere cosa succederà di
loro. A fare le spese di questa situazione, insieme ai migranti, sono ovviamente i cittadini italiani, lasciati pressoché soli a gestire tutti i problemi che una politica miope
e disumana ha creato. Disumana, nella maggior parte dei casi, è anche la situazione
dei migranti che visitiamo ogni giorno nel sud Italia, presso le cliniche mobili di
Emergency: lavoratori trattati come schiavi, senza accesso all’acqua potabile, senza
una casa, senza assistenza medica, senza diritti. Confidiamo che i cittadini italiani
abbiamo la ragionevolezza e l’umanità che finora è mancata al governo,
quell’umanità che permette di capire che gli “stranieri”, i “clandestini”, i “migranti
stagionali” sono, prima che qualsiasi altra cosa, semplicemente “persone”, esseri
umani. E come tali devono essere trattati. Ci rifiutiamo di cadere, anche a Lampedusa, nella logica della guerra: ci rifiutiamo di partecipare alla lotta di “quelli che stanno male” contro “quelli che stanno peggio”. Siamo dalla parte dei diritti: dei diritti
degli italiani e degli stranieri, contro chi ostinatamente li nega.
9
10
cultura contemporanea e universale. Per storia dei poveri, o delle povertà,
intendo quella scritta quotidianamente dai ceti o persone sconosciute, a volte
taciute. Si tratta della storia di quotidiana emarginazione: prostitute, barboni,
religiosi, rom, detenuti, giovani, disoccupati, carcerati, bambini abbandonati, separati. Tre i cammini di lettura che propongo sulla figura di suor Enrichetta Alfieri: la staffetta di San Vittore, donna della profezia, donna contempla-attiva.
La staffetta di San Vittore
Nella storia contemporanea le suore sono doppiamente censurate e discriminate, come donne e come religiose. Tante le prospettive storiche che
hanno studiato la Resistenza: la più dimenticata è stata quella dell’aiuto e
del contributo offerto dalle religiose. Un ruolo che non fu mai di secondaria
importanza e si concretizzò senza mai abbracciare un’arma se non quella
della carità, del coraggio, di una resistenza civile all’oppressione e alla violenza. Per questo nascosero nei loro conventi ebrei, sfollati, ricercati, sbandati, renitenti alla leva, perseguitati politici, feriti e anche partigiani. «Nei
libri di storia contemporanea – dice Giorgio Vecchio – le suore non esistono. Né sono citate nei testi più specifici dedicati alla seconda guerra mondiale e alla Resistenza»1.
È utile un generale accenno al contributo delle religiose italiane durante
la Resistenza. Con la caduta del fascismo (8 settembre 1943) in molte località del Paese si registrarono gesti significativi nei conventi e negli istituti religiosi femminili che esprimevano l’intento di contenere la violenza, assistere in varie forme la popolazione e i partigiani militanti in clandestinità. Le
religiose si fanno carico del destino di estranei, sconosciuti, ebrei, sfamando
e proteggendo, nascondendo persone messe a rischio dalla guerra. Un autentico maternage. Suor Grazia Loparco – docente della Pontificia Facoltà di
Scienze dell’Educazione Auxilium di Roma – ha pubblicato uno studio
sull’assistenza prestata dalle religiose di Roma agli ebrei durante la seconda
guerra mondiale dove, per la prima volta, si documenta che nella capitale
furono più di 4.000 gli ebrei salvati in 200 istituti religiosi nella città: di
questi 133 erano femminili, preservati dalle incursioni naziste da appositi
1
Le suore e la Resistenza, a cura di G. Vecchio, In dialogo – Ambrosianeum, Milano,
2010.
11
cartelli della Santa Sede2. Barbara Garavaglia, nell’articolo Una storia che
nessuno dimenticherà3, documenta una scheggia di storia sconosciuta. Ad
Assisi ebrei in fuga, soldati allo sbando, sfollati, partigiani, perseguitati politici trovarono rifugio nei sotterranei delle clarisse di San Quirico. Nel diario
del convento è registrato il nome del campione di ciclismo Gino Bartali che,
nel telaio della propria bicicletta, portava a Firenze – altra città che si distinse per l’aiuto prestato agli ebrei, grazie al cardinal Elia Dalla Costa – le fotografie dei clandestini, e riportava a San Quirico documenti falsi.
L’attività di soccorso e protezione a sbandati, sfollati ed ebrei in particolare coinvolse la Chiesa italiana a macchia di leopardo. Nella Chiesa toscana il cardinal Elia Dalla Costa svolse un ruolo centrale nella copertura e
nella promozione delle iniziative di soccorso. Le diocesi più direttamente
coinvolte furono Firenze, Lucca, Siena, Pescia, Arezzo. A Firenze vennero
coinvolti 41 tra conventi, istituti e parrocchie e 12 conventi o monasteri
femminili.
Suor Albarosa Bassani documenta gli atti di coraggio, di aiuto alla popolazione, agli sbandati, ai partigiani svolti dalle suore Dorotee in Veneto. A
Venezia, nella casa San Filippo in sestiere Dorsoduro, le suore avevano un
laboratorio di ricamo dove «suor Pier Damiana Cadorin accolse e nascose
tre signore ebree, inserendole tra le donne sordomute del laboratorio». Presso le carceri di San Biagio di Vicenza suor Demetria Strapazzon era chiamata l’angelo di San Biagio e la mamma dei detenuti perché vigilava «sulle
donne, preparava alla morte i condannati alla fucilazione, raccoglieva i loro
desideri per trasmetterli alla famiglia. Ai detenuti partigiani che ritornavano
torturati, fra questi qualche sacerdote, lei preparava un caffè o un calmante,
medicava loro le piaghe e li incoraggiava»4.
A Milano operarono nel nascondimento religiose sconosciute come
suor Teresa Scalpellini e suor Giovanna Mosna, che prestarono servizio come infermiere all’Ospedale Maggiore di Niguarda. Tramite una rete clandestina di partigiani e antifascisti le suore collaboravano con medici e infermiere con lo scopo di assistere i detenuti politici, organizzare la loro fuga,
raccogliere materiale sanitario per partigiani ed ebrei. Madre Donata Castrezzati, superiora delle Poverelle dell’Istituto Palazzolo di Milano, è
2
G. Loparco, Gli Ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943 – 1944) dall’arrivo alla partenza, in “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, 58 (2004), pp. 107-140.
3
B. Garavaglia, Una storia che nessuno dimenticherà, in “Segno”, (2009), n. 1, p. 25.
4
A. I. Bassani, Le suore dorotee durante la seconda guerra mondiale, Accademia Olimpica, Vicenza, estratto da “Odeo Olimpico”, 25 (2002-2004).
12
un’altra figura di religiosa sconosciuta. Sotto la sua guida, con il tacito consenso delle autorità ecclesiastiche, il Palazzolo di Milano divenne il soggiorno obbligato degli ebrei che transitavano da Milano avviati clandestinamente in Svizzera. Madre Donata Castrezzati venne scoperta e incarcerata a
San Vittore dove conobbe suor Enrichetta. A Milano, nell’istituto Casa di
Nazareth, nel massimo segreto gli ebrei venivano seguiti da una suora strettamente legata al segreto con tutti. In qualche circostanza, collaborando con
sacerdoti, fu possibile accompagnare gli ebrei oltre confine. Non mancarono
episodi di segno contrario, ma per suor Grazia Loparco la presenza delle religiose nella guerra fu
«un’esperienza concreta della carità di donne che si sono chinate sulle povertà, sulle
debolezze e sulle infermità di persone bisognose di aiuto. Quasi mai le religiose, per
quanto ne sappiamo ed è documentato, agirono per motivi politici. Erano piuttosto
spinte dalla carità, che imponeva in tempi di emergenza di aiutare chiunque ne avesse bisogno. Per questo si trovarono talvolta sotto lo stesso tetto renitenti alla leva,
ricercati per motivi politici, ebrei, sfollati, orfani... in alcuni casi offrirono una base
di appoggio ai partigiani. Dinanzi alle ingiustizie palesi del nazifascismo e alla durezza della guerra diedero un contributo di umanità, superando antichi steccati. Basti pensare agli ebrei: dal punto di vista religioso non c’era dialogo, ma prevalse il
buon senso di rischiare insieme per persone che forse non si sarebbero salutate per
strada».
Tra queste storie quella di suor Enrichetta Alfieri è particolare perché
operava direttamente nel carcere milanese di San Vittore dove tutti la chiamavano l’Angelo e la Mamma di San Vittore. Dopo la caduta del fascismo
nel 1943 e la nascita al Nord della Repubblica Sociale Italiana molte cose
cambiarono nel carcere di San Vittore che, sotto il Comando Tedesco, si
riempì di detenuti politici, antifascisti ed ebrei. Con il sostegno del cardinale
Idelfonso Schuster e delle consorelle nel carcere suor Enrichetta diventa una
ribelle per amore e misericordia. Senza abbracciare armi di fatto, come altre
donne non consacrate, diventò una staffetta per far filtrare, dall’esterno e
dall’interno del carcere, informazioni preziose. In molte situazioni in pericolo era la vita dei familiari, parenti e amici dei detenuti. Lo stesso don Giovanni Barbareschi ricorda che suor Enrichetta Alfieri veniva chiamata anche
la staffetta del carcere. Tra i reclusi più noti, che testimoniarono per la causa
di beatificazione, anche Mike Bongiorno e Indro Montanelli. In un video
allegato ad un libro di Paolo Damosso5, lo stesso Mike Bongiorno testimo5
P. Damosso, E lei, invece, sorride. Suor Enrichetta Alfieri, San Paolo, Milano 2011.
13
nia che grazie a suor Enrichetta Alfieri riusciva per pochi minuti ad incontrare sua madre rinchiusa nella sezione femminile del carcere. L’infermeria
maschile del carcere si era trasformata nel centro di smistamento degli aiuti.
Informazioni, bigliettini, medicinali, soldi, vestiti, venivano nascosti nel pettorale bianco o sotto le lunghe gonne del vestito delle suore. Un giorno uno
dei tanti bigliettini cadde nelle mani del Comando Tedesco, che ordinò immediatamente l’arresto di suor Enrichetta Alfieri con la grave accusa di
spionaggio. I nazisti non scherzano, vogliono sapere tutto. Un reato del genere prevede la fucilazione anche immediata. La prima notte dopo l’arresto
suor Enrichetta viene rinchiusa in una tana sotterranea della quale misconosceva l’esistenza. È singolare il fatto che proprio nella prima notte di detenzione, nel buio completo e nella disperazione, la prima preoccupazione di
suor Enrichetta è quella di distruggere i bigliettini e messaggi che ancora
nasconde nel pettorale. Nelle sue memorie annota:
«Un’invocazione alla Madonna mi diede la forza di cui abbisognavo. Tesi
l’orecchio, il silenzio era tombale. Con tutta la premura mi misi a sbriciolare minutissimamente l’imbottitura di scritti che mi portavo nella pettorina del vestito. Erano
comunicazioni varie di detenuti e di parenti, di domande e di risposte, di richieste e
di informazioni di membri di comitati, ecc. ecc. Cose proibitissime dal Comando
germanico, ma di tanto aiuto e conforto ai poveri nostri fratelli. Non erano là per
questo le Suore?»6.
Nella cella suor Enrichetta si muove a malapena, curva perché le è impossibile rimanere ritta. In quella situazione vive le stesse ansie e paure che
vivono i carcerati. Un’esperienza che la suora definisce uno
«schiacciante incubo! Quante volte io avevo pianto e sentito il cuore lacerarsi per la
partenza di tanti infelici, cari ospiti!... Ora toccava a me. Essi colpevoli di amare la
patria; io di avere amato loro e la patria. Per tanta marea di ingiustizie,
d’oppressioni e di dolori, Signore abbi pietà del povero mondo, di questa nostra carissima, distrutta Patria e fa che dalle sue macerie intrise di lagrime e di sangue …
purificata risorga presto più bella, più laboriosa e forte, più onorata e soprattutto più
cristiana e virtuosa»7.
6
G. Saibene – W. Clerici, Suor Enrichetta Alfieri. La Mamma di San Vittore. Memorie,
Elledici, Torino 1995, p. 25.
7
Saibene – Clerici, Suor Enrichetta Alfieri, pp. 45-46.
14
La notizia dell’arresto di suor Enrichetta fa scalpore nel carcere come
in tutta la città di Milano. Nelle memorie di suor Enrichetta si apprende che
un commando partigiano era pronto per intervenire con una operazione di
forza finalizzata alla sua liberazione.
In quel periodo i rapporti tra cattolici ed ebrei non erano affatto idilliaci
eppure la sensibilità verso la vita porta suor Enrichetta a un atteggiamento di
difesa e aiuto verso gli ebrei. Quasi fosse un miracolo la suora riesce a salvare la vita di una donna ebrea incinta e destinata alla deportazione in Germania. Quando nel carcere entrò una donna ebrea suor Enrichetta le dice:
«io prego secondo la mia fede, lei secondo la sua fede, Dio ci ascolterà». La
pratica di salvare ebrei organizzando la loro fuga clandestina verso la Svizzera era diffusa in alcuni istituti religiosi della città e in Lombardia. Lo stesso don Giovanni Barbareschi, insieme ad altri sacerdoti, aveva dato vita
all’organizzazione “Oscar” con lo scopo di organizzare il trasporto in Svizzera di ebrei o sbandati. Nell’estate del 1944, con l’accusa di aver protetto
ebrei aiutandoli ad espatriare in Svizzera, nel carcere di San Vittore vengono
arrestate tre suore delle Poverelle: madre Donata Castrezzati, madre Chiara
e suor Simplicia, che conobbero personalmente suor Enrichetta. Furono le
stesse che, dopo sei mesi, a loro volta accolsero suor Enrichetta nell’esilio
forzato di Grumello. L’incontro viene ricordato da suor Enrichetta.
«Vi erano già da due mesi madre Donata, madre Chiara, suor Simplicia, suore delle
Poverelle (state prima mie ospiti a San Vittore per 18 giorni). Ci accolsero con festosa cordialità, con gioia. Le tre summenzionate erano in casa propria e anch’io mi
sentii presto come una di loro. Madre Donata era superiora della Casa ed anche la
mia. Quanto fu buona! Quante delicatezze mi usò e quanta buona compagnia mi
tenne»8.
In questa esperienza di resistenza al male suor Enrichetta riesce a sviluppare la
«capacità di cogliere il valore di ogni persona umana e di sapersi mettere al suo servizio, in nome della carità e della giustizia. Difatti alcuni perseguitati politici o ebrei
che suor Enrichetta ha aiutato, rischiando in prima persona e con piena consapevolezza, dicono una sensibilità grande verso ogni persona al di là della religione, del
credo politico e delle idee su cui si poteva dissentire. Mi parla di una religiosa che
ha saputo cogliere in ciascuno la figura e la persona di Gesù Cristo e ha saputo servirlo senza risparmiare nulla di sé, operando per creare legami umani»9.
Donna della profezia
Per Davide Maria Turoldo «il profeta non è colui che legge il futuro
nella sfera di cristallo, ma chi denuncia il presente». In altri termini è colui,
o colei, che legge i segni dei tempi. Suor Enrichetta leggeva i segni nel carcere del suo tempo, un luogo dove il detenuto scontava la propria colpa ma
poteva anche sperimentare la detenzione come luogo, cammino, di una conversione non scontata ma possibile. Per fare questo bisognava cambiare la
relazione con i detenuti stessi. Il carcere, come tanti altri luoghi, è lo spazio
più reale, forse l’icona, dell’inferno per la mancanza di libertà, amore, affetti, speranza, desiderio di futuro. Può diventare anche spazio di riscatto se ci
si apre al soffio dello Spirito Santo che soffia oltre le sbarre di una cella.
Suor Enrichetta non zittiva la disperazione dei detenuti ma sapeva ascoltarla.
Per suor Grazia Loparco suor Enrichetta è
«una religiosa che non ha vissuto in modo intimistico e misurato la preghiera e la
carità, ma che ha saputo leggere i segni dei tempi e l’appello che dagli eventi il Signore le rivolgeva. Quindi nella preghiera, come attestano le fonti, ha saputo trovare
anche la forza per affrontare tante difficoltà che l’hanno portata in situazioni in alcuni momenti anche estreme»10.
Dopo la nomina a superiora nella sezione femminile del carcere suor
Enrichetta intuisce la necessità di umanizzare la relazione con le detenute.
Con straordinario anticipo riesce ad introdurre nel carcere grosse novità per
l’epoca. Riesce ad «ottenere uno spazio dedicato al nido, ove permettere alle
mamme di avere un rapporto affettivo ed educativo più adeguato con i loro
bambini. L’ambiente fu allestito in modo accogliente, con una sala giochi
dai colori vivaci, per vincere il grigiore delle celle»11. Con la collaborazione
esterna di Maria Calchi Novati introdusse nel carcere dei laboratori di ricamo e di cucito per le detenute. Ottenne anche il permesso di costruire nel
9
8
S. Mengotto, Un angelo a San Vittore. Suor Enrichetta Alfieri, In dialogo, Milano 2011,
p. 38.
10
Mengotto, Un angelo a San Vittore, pp. 37-38.
11
Mengotto, Un angelo a San Vittore, p. 14.
C. Sartori, La mamma di San Vittore. Memorie di Madre Enrichetta Maria Alfieri, La
Scuola, Brescia 1952, pp. 93-94.
15
16
carcere uno spazio per la preghiera che si svolgeva davanti alla riproduzione
della grotta di Lourdes. Al termine della recita del rosario si apriva lo spazio
della reciproca relazione confidenziale, sia tra le detenute, sia con suor Enrichetta Alfieri. Suor Wandamaria Clerici – perito storico e notaio nel processo di canonizzazione – dice: «suor Enrichetta è profetica perché, pur essendo in una condizione di reale reclusione, ha saputo incarnare un nuovo stile
di vita religiosa, aperto, libero, compromesso con la storia, usando le armi
della preghiera e delle virtù cristiane della fede, speranza, carità»12.
Questa nuova sensibilità si diffonde nel carcere sino al punto che gli
stessi detenuti la chiameranno “Mamma” e “Angelo” di San Vittore. Sarebbe sbagliato interpretare questa definizione come venata di romanticismo: in
realtà porta il segno tangibile che suor Enrichetta era riuscita, con la preghiera e l’azione, a costruire un cammino nuovo, non nuovista, nelle relazioni con i detenuti. Per don Primo Mazzolari «c’è casa quando qualcuno ti
aspetta». Tutti i detenuti aspettavano sempre la visita di suor Enrichetta nella loro cella. Per quasi trent’anni suor Enrichetta vive e muore nel carcere di
San Vittore perché di fatto era diventata la sua casa.
Quando suor Enrichetta viene scarcerata, grazie alla mediazione tempestiva del cardinale Idelfonso Schuster e di don Bicchierai con il Comando
Tedesco, all’uscita dal carcere trova una catena di solidarietà inaspettata.
Nelle sue memorie scrive
«Ed ecco ben alta e distinta la voce: “3209 scarcerata”. I cari fratelli dell’Ufficio
Matricola avevano ricevuto la telefonata dal Comando e tutti fuori per il piano la ripetevano, perché me ne giungesse più presto l’annuncio. Fu un attimo. Salirono l’un
dopo l’altro: Nuvoloni, Di Rienzo, Ravinale, Clarioni, disputandosi tra di loro il mio
bagaglio, che tutti volevano portare. Appena misi piede sulla balconata, vidi al piano sottostante molte guardie e detenuti, mi salutavano agitando le mani ed i più lontani i fazzoletti. Scesi le scale, si avvicinarono e m’accompagnarono fin giù dallo
scalone di ingresso, tutti gli addetti all’Ufficio Matricola, dimenticando pure il pericolo che correvano avventurandosi fino a quel punto. La mia emozione fu grande ed
accrebbe ancora quando, fatti pochi passi nell’androne d’uscita, vidi sbucare tutte le
suore dalla Sezione Femminile. Ci scambiammo in fretta un abbraccio e un bacio
bagnato di lagrime, in silenzio… fiduciose di poter dar sfogo al nostro affetto nello
stesso giorno, in Casa del Policlinico. Ora non si poteva fare di più; vi era sulla soglia del Comando il Maresciallo Klimser che ci teneva d’occhio»13.
12
13
Mengotto, Un angelo a San Vittore, p. 5.
Saibene – Clerici, Suor Enrichetta Alfieri, pp. 60-61.
Dopo l’esilio forzato nell’istituto Palazzolo di Grumello in provincia di
Bergamo, a guerra conclusa furono gli stessi partigiani a volerla accompagnare in macchina a San Vittore per continuare la sua opera di misericordia,
di consolazione e speranza. La stessa Rina Fort, che nel 1946 aveva assassinato la moglie e i figli del suo amante, si converte per la bontà di suor Enrichetta, della quale disse «era un angelo consolatore che ispirava fiducia. Ci
si poteva aprire a qualunque».
Donna “contempla-attiva”
Suor Enrichetta Alfieri è sempre stata una donna che quotidianamente
pregava con intensità e contemporaneamente aveva uno spirito di azione,
come se la preghiera agisse nella ferialità con ritmi e cadenze diverse ma
continuative. Dalla contemplazione (preghiera) passava all’azione recuperando l’antica tradizione orante della cultura e preghiera ebraica. In ebraico
dabar, cioè parola-preghiera, significa contemporaneamente parola-fatto. Se
proclamiamo, o aspiriamo, alla liberazione dei prigionieri e degli schiavi,
alla solidarietà con i poveri, alla giustizia verso gli stranieri e la vedova, occorre tradurre la proclamazione, l’invocazione, la preghiera in azione nella
quotidianità, in scelte pastorali per la comunità e il comportamento personale. Per il cardinale Dionigi Tettamanzi significa «spendersi per gli altri con
amore, prendendo sul serio il vissuto quotidiano»14.
Era anche lo stile della preghiera nel comportamento feriale nel carcere
di suor Enrichetta Alfieri, proclamata beata non solo per i gesti eroici compiuti «ma per l’attenzione – dice mons. Carlo Maria Redaelli – quotidiana al
Vangelo. Suor Enrichetta non solo ha vissuto i giorni della sua prigionia o
qualche gesto di carità più rilevante rispetto ad altri, ma per aver vissuto ogni giorno nella normalità il suo carisma di suora della Carità facendo la volontà del Signore». Impressiona il tempo dedicato alla preghiera. In questa
scelta, continua mons. Redaelli, si concentra « il vero segreto della sua fedeltà al Signore e della dedizione incondizionata agli altri giorno per giorno,
nei giorni belli, tristi e grigi». Nelle memorie di suor Enrichetta non solo
troviamo la conferma di quanto tempo dedicasse alla preghiera, dove trovava anche conforto, ma la dinamica dei fatti descritti porta dentro ad una logica – usando un neologismo – di una preghiera che dinamicamente con14
17
L. Rosoli, Gioia e fedeltà, lo stile dei santi, in “Avvenire”, 26 giugno 2011.
18
Filosofia
templa e si attiva. Usando l’espressione di don Tonino Bello era una intercessione, o preghiera, «contempla-attiva». Mentre nel buco di una cella sotterranea suor Enrichetta aspettava di essere interrogata dal Comando tedesco
scrive «A qualunque ora avrebbero potuto chiamarmi per l’interrogatorio.
Ma…e la Santa Comunione?! Oh! L’attendevo ora con crescente desiderio,
con ansia… Gesù, in me, doveva tornare davanti ai giudici, non per essere
Lui giudicato, ma per darmi lume e forza»15. Un pensiero illuminante di
questa dinamica che contempla e si attiva nel cuore e nella coscienza di suor
Enrichetta Alfieri.
L’attualità di Claudio Baglietto
CLAUDIO FONTANARI
N
el corso del mese di agosto, i più diffusi quotidiani italiani hanno ospitato un appassionato dibattito sul pensiero filosofico contemporaneo e
sulle sue implicazioni politiche, inaugurato da Maurizio Ferraris, proseguito
poi con un dialogo fra lo stesso Ferraris e Gianni Vattimo e quindi arricchito
da numerosi altri interventi. La descrizione più suggestiva dello scenario di
riferimento è forse quella tratteggiata da Paolo Flores d’Arcais (la Repubblica, 26 agosto 2011): un «forsennato vaticinare ha colonizzato la cultura democratica in Italia fin dall’inizio degli anni Sessanta, sia in versione neoteologica, sia ermeneutica (fratelli coltelli, ma entrambi heideggeriani antiilluministi perinde ac cadaver), ristabilendo una egemonia spiritualisticoidealistica sulla filosofia che invece era stata finalmente mandata in frantumi» dopo la caduta del fascismo (fra i diversi nomi citati da Flores d’Arcais,
basti qui ricordare l’indimenticabile figura di Norberto Bobbio). Sullo sfondo di questo panorama nebbioso e provinciale, Ferraris (la Repubblica, 8
agosto 2011) saluta dunque con entusiasmo lo «spettro» di un «nuovo realismo» che attualmente «si aggira per l’Europa». Di che cosa si tratta, in parole semplici?
«È chiaro che per sapere che l’acqua è H2O ho bisogno di linguaggio, di schemi e di
categorie. Ma l’acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che io non lo
sappia, indipendentemente da linguaggi e da categorie. A un certo punto c’è qualcosa che ci resiste. È quello che chiamo "inemendabilità", il carattere saliente del reale. Che può essere certo una limitazione ma che, al tempo stesso, ci fornisce proprio
quel punto d’appoggio che permette di distinguere il sogno dalla realtà e la scienza
dalla magia. (...) Nel realismo è incorporata la critica, all’irrealismo è connaturata
l’acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché prendano sonno. (...)
L’Illuminismo, come diceva Kant, è osare sapere ed è l’uscita dell’uomo dalla sua
infanzia».
15
Saibene – Clerici, Suor Enrichetta Alfieri, p. 56.
19
20
staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su due punti convenivamo facilmente
perché ci eravamo diretti ad essi già in un lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano; il metodo gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva, strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee,
le scrivemmo facendo circolare i dattiloscritti, cominciando quell’uso di diffondere
pagine dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo
clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni periodiche
in una camera della stessa Normale dove io abitavo come segretario e Baglietto era
perfezionando e poi assistente di filosofìa di Armando Carlini. (...) Armando Carlini
diceva al Gentile, nelle visite che questi faceva alla Normale, un gran bene del valore filosofico di Baglietto, e Gentile procurò al mio amico una borsa di studio per recarsi a Friburgo di Germania dove insegnava Heidegger. Cosi nel 1932 accompagnammo Baglietto alla stazione, e restammo in corrispondenza. All’Estero egli continuò le riflessioni sulla nonviolenza, giunse alla persuasione dell’obbiezione di coscienza nei riguardi del servizio militare, e scrisse che non sarebbe più tornato in Italia, e si trasferì a Basilea come esule, per non usufruire più della borsa. Gentile ne
fu indignatissimo, non tanto per l’opinione mostrata dal Baglietto, quanto per la
seccatura che aveva dall’aver garantito per lui presso le autorità militari che avevano dovuto concedere il nulla osta per il passaporto. Ricordo che il Gentile, sapendomi scrupoloso moralista, voleva convincermi che quello era un atto scorretto, ma
non ebbe da me alcun consenso. Il Gentile non sentiva il valore del farsi «esule», e
di perdere tante cose. (...) Baglietto dalla Germania era passato in Svizzera a Basilea, e lì viveva studiando e dando lezioni. Si occupò della «Giovane Europa» e di teorie economiche, fu visitato da Bruno Buozzi. Era molto stimato, un esule italiano
così preciso, colto, rigoroso. Morì nel 1940 (...) Egli è sepolto nel cimitero di Basilea».
Le evidenti ripercussioni politiche di un simile atteggiamento realista
vengono così esemplificate dallo stesso Ferraris in dialogo con Vattimo (la
Repubblica, 19 agosto 2011):
«Personalmente sono convinto che proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero
che il lupo sta a monte e l’agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l’acqua,
sia la base per ristabilire la giustizia. (...) se il potere è menzogna e sortilegio (“un
milione di posti di lavoro”, “mai le mani nelle tasche degli italiani” ecc.), il realismo
è contropotere: “il milione di posti di lavoro non si è visto”, “le mani nelle tasche
degli italiani sono state messe eccome”».
Le conseguenze estreme di una posizione coerentemente ermeneutica
sono invece illustrate con altrettanta efficacia dall’immediata replica di Vattimo:
«Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale.
Devo sempre domandare “chi lo dice”, e non fidarmi della “informazione” sia essa
giornalistico-televisiva o anche “clandestina”, sia essa “scientifica” (non c’ è mai La
scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che alle volte hanno interessi in gioco).
Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di
costruire una rete di “compagni” – sì, lo dico senza pudore – con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c’è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per
Gaza, i sindacati anti-Marchionne. So che non è un verosimile programma politico,
e nemmeno una posizione filosofica “presentabile” in congressi e convegni. Ma ormai sono “emerito”».
Come contributo a questa recente manifestazione pubblica dell’annoso
dibattito filosofico-politico fra realisti e anti-realisti, intendo qui condividere
anche con un pubblico di non specialisti una selezione significativa di uno
scritto illuminante (datato 1931, ma pubblicato postumo nel 1950)
dell’antifascista Claudio Baglietto (1908-1940), che vi svolge un serrato
confronto fra Kant e Beethoven da un lato, Hegel e Goethe dall’altro. Per
presentare un essenziale profilo biografico della figura di Baglietto, oggi poco nota all’infuori di una ristretta cerchia di eruditi, converrà lasciare direttamente la parola ad Aldo Capitini e alle pagine 20-34 del suo mirabile affresco Antifascismo tra i giovani (Trapani, 1966):
Al fine di mettere in risalto la penetrante profondità del pensiero politico di Claudio Baglietto, mi pare opportuno riportare anche questa eloquente
dichiarazione del suo fascistissimo maestro Armando Carlini, che alle pagine 95-96 del suo saggio retrospettivo Alla ricerca di me stesso (Firenze
1951, cortesemente segnalatomi da Adriano Fabris), ancora pontifica con
leggerezza:
«Non dovrebb’essere necessario, ma è bene dichiararlo: io sono stato fascista come
tanti e tanti, persuaso che esserlo fosse semplicemente un dovere per ogni buon italiano (chi non lo era, se era uomo degno di stima, era vittima di un malinteso, secondo noi). Non posso, quindi, pentirmene, così come non posso pentirmi di essere
stato mazziniano. Quando, fatto più maturo, mi accorsi che nel partito repubblicano,
a cui ero iscritto, si faceva troppa retorica, pian piano me ne ritrassi (...) Oggi mi
trovo in posizione simile riguardo al fascismo: per me, oggi, è stato anch’esso una
«Baglietto era nato a Varazze nel 1908, figlio di persone del popolo: era una mente
limpida e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con un’evidentissima
sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di riforma religiosa, egli era già
21
22
retorica, l’ultimo sogno risorgimentale di un’Italia che si illudeva di potersi porre,
con le sue sole forze, alla pari delle grandi potenze che reggono il corso della storia
mondiale. Eppure parevano così giuste le aspirazioni a tale mèta! Storia passata in
ogni modo»
tà che certamente in qualche senso più o meno grosso c’è sempre in chi vince, non
possa essere molto superiore e la sola degna di essere sostenuta la parte di chi esteriormente e per allora ha perduto. Da questo atteggiamento spirituale è nata in parte
anche la famosa satira hegeliana del dover essere fichtiano e kantiano. (...) Con lo
stesso errore della mentalità che egli combatte, e portato dall’equivoco insito nella
parola stessa, egli vede la realtà dell’idea sullo stesso piano della realtà
dell’empirico, e interessandogli di più questo, finisce per negare l’altra. Così restava
incompresa la dignità propria dell’ideale, diversa da quella della realtà ma non già
per questo inferiore, e con essa restava incompresa in gran parte o non aveva il posto che le spettava la sostanza migliore dell’età moderna e anche dell’illuminismo,
quel senso non solo sempre più forte ma anche sempre più puro dell’ideale che si
esprime in tante forme diverse e apparentemente indipendenti, tanti modi diversi in
cui si è affermato in età moderna lo spirito cristiano: la subordinazione
dell’individuo, di ogni individuo, alla legge universale, l’uguaglianza di ogni individuo come persona, quel rispetto infinito della persona che è d’altra parte umiltà e
abnegazione dinanzi all’opera da compiere, sacrificio di sé all’idea. Tutto questo lo
storicista Hegel, pur vivendone e pur celebrandolo in parte teoricamente, non l’ha
sentito così profondamente che non gli prendesse la mano il gusto un po’ torbido del
reale, e quindi la soddisfazione intellettuale di fare quasi lo smaliziato, l’uomo positivo, che bada alla realtà effettuale, e guarda un po’ dall’alto quegli ingenui che si
perdevano dietro alle nuvole del dover essere» (pp. 127-128).
Ecco finalmente l’antologia promessa, tratta da Il cammino della filosofia tedesca dell’Ottocento, “Annali della Scuola Normale di Pisa” XIX,
1950, pp. 113-142:
«Il Kant, nonostante quel tantino di pedanteria senile e quegli schematismi scolastici
che saltano all’occhio, ha un rispetto insuperabile per l’esperienza nella sua forma
genuina, e segue con una meravigliosa larghezza di comprensione tutti i problemi,
anche quelli che sembrerebbero più lontani dalla sua mentalità, e sono realmente i
più estranei alla sfera dei suoi interessi spirituali più immediati. Meravigliosa è appunto l’intensità di vita propria che egli riesce a mantenere alle più varie esperienze
spirituali, pur traducendole tutte nelle formulazioni più strettamente razionali, nella
medesima lingua dell’intelletto. Perché uno degli elementi essenziali della grandezza del suo pensiero e della forza sicura e conscia di sé che in esso si esprime è quella rigorosa serietà di lavoro scientifico che era stato il portato migliore
dell’Illuminismo tedesco, quel bisogno di chiarezza mentale e di precisione razionale a cui i pensatori più vivi dell’età moderna sono stati educati anche, in gran parte,
dalle scienze matematiche, e soprattutto quel senso acuto della realtà dell’esperienza
e quell’abito di onestà e integrità intellettuale che si è formato sulle scienze naturali
e in generale sulla ricerca positiva. (...) Egli sente sempre vivissimo il bisogno di
rendersi conto di tutto ciò che dice, di darsi ben ragione di ogni passo che fa, e, pur
avendo un senso largo del valore di tutte le esigenze, anche opposte, e cercando di
soddisfarle, cerca quanto può di non fare compromessi momentanei, di non lasciare
possibilità di equivoci: dove gli pare di veder chiaro, taglia netto». (p. 115)
«Quando venga poi la necessità di agire, viene pure in luce la sterilità di quel modo
di sentire la vita, la mancanza di fede nell’ideale che in esso a poco a poco si matura, e che abitua a seguire non l’idea ma la realtà, cioè il novanta per cento, semplicemente la via più comoda a noi stessi. E così, lasciando da parte le generazioni
formatesi all’idealismo, si può vedere già negl’idealisti stessi, specialmente in quelli
più romantici ed umanisti, come di fronte alla realtà pratica dimostrassero spesso
tutt’altro che fede pura nell’idea, ma invece fiacchezza di carattere, e strappi e incoerenze forti, e per lo meno mancanza di elevatezza morale. È, in generale,
l’inferiorità morale dello spirito goethiano allo spirito kantiano. Dietro agli uomini
Goethe e Hegel, noi vediamo sopravanzare, tanto più alti, il Kant e se mai il Beethoven: ma questi, proprio perché tanto più alti, rimanevano rispetto a quelli moralmente senza seguito. E quel che è peggio, e che forse avrà più conseguenze nello
svolgimento posteriore della cultura nazionale, non è il fatto di per sé che agli idealistici romantici l’elevatezza morale mancasse nella pratica della vita, ma il fatto che
anche nella loro filosofia mancasse un punto d’attacco a ciò: con quelle celebrazioni
del trionfo dell’Idea manca poi il senso della necessità di tenerle fede ferma
nell’umile realtà quotidiana» (p. 131).
«In questo spirito intimo, che è nel modo di sentire la vita e tutti i valori spirituali,
nella finezza e profondità e solidità del modo di filosofare e quindi di vedere la realtà, noi sentiamo la maggiore perdita e la maggiore angustia degli idealisti rispetto al
Kant, nonostante tutta la grandiosità e lo splendore esterno dei loro sistemi: essi
hanno guadagnato molto, ma hanno perduto tutti, come si vedrà, ciò che più importa
ed è insostituibile, la purezza della spiritualità». (p. 119)
«Molti temperamenti contemplativi, anche grandi letterati o filosofi o storici o studiosi d’altro genere, ma senza un senso morale molto saldo, non avendo ragioni personali si lasciano a volte dominare più o meno ingenuamente dall’ammirazione per
un personaggio politico che almeno esteriormente faccia azioni rumorose, e sono
spesso più o meno consciamente come ogni filisteo grandi ammiratori di chi onestamente o disonestamente vince. Essi non si chiedono poi, giacché non interessa al
loro atteggiamento contemplativo, se con tutto questo e nonostante quella superiori-
23
24
Teologia
Ignacio Ellacuría:
la filosofia della storia
come fondamento
della teologia politica
MATTIA COSER
I
gnacio Ellacuría, filosofo e teologo gesuita spagnolo brutalmente assassinato in El Salvador il 16 novembre 1989, era stato allievo del filosofo
spagnolo Xavier Zubiri; fu instancabile collaboratore dell’arcivescovo Oscar
Romero e sviluppò nel corso del proprio itinerario filosofico un concetto di
storia che ebbe importanti ripercussioni sul suo modo di concepire la teologia della liberazione. I suoi principi filosofici e teologici lo portarono ad essere osservatore critico ed attento della scena politica di El Salvador, di cui
fu un protagonista attivo e scomodo, al punto da venire assassinato per ordine dell’oligarchia salvadoregna, ostile al rinnovamento per cui Ellacuría si
batteva. Visto il ruolo centrale svolto dalla filosofia della storia nella fondazione della teologia della liberazione ellacuríana e considerando la coerenza
con cui il gesuita visse ispirandosi ai propri principi filosofico-teologici, il
seguente contributo sarà suddiviso in tre parti: nella prima verranno offerti
alcuni cenni biografici, nella seconda verrà presentata la filosofia della storia
elaborata da Ellacuría e nella terza verrà analizzata la teologia della liberazione ispirata a tale filosofia della storia.
Cenni biografici
Ignacio Ellacuría nacque il 9 novembre 1930 a Portugalete, una cittadina situata nella provincia di Biscaglia, nella Spagna settentrionale. All’età di
diciotto anni venne mandato a Santa Tecla, in El Salvador, per completare il
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proprio noviziato nella Compagnia di Gesù. Qui divenne docente di filosofia
e di latino presso il seminario di San José de la Montaña. Nel 1965 ritornò a
Portugalete, dove fece professione solenne nella Compagnia di Gesù e seguì
un dottorato di ricerca in filosofia sotto la guida di Xavier Zubiri, la cui influenza fu molto importante nello sviluppo della filosofia della storia ellacuríana.
Terminato il dottorato, Ellacuría fece ritorno nel 1967 in El Salvador,
dove trovò impiego come docente presso l’Università Centroamericana José
Simeón Cañas, meglio nota con l’acronimo UCA, e presso cui cinque anni
più tardi divenne direttore dell’istituto di filosofia. Nel 1974 fondò un centro
per la riflessione teologica, disciplina che nel frattempo era venuta ottenendo un ruolo sempre più decisivo nella meditazione del gesuita. A questi anni
risale la sua intensa collaborazione con l’arcivescovo Oscar Romero, la quale durò fino all’omicidio di quest’ultimo nel 1980. Sempre durante questo
lasso temporale Ellacuría fondò, in collaborazione con Jon Sobrino, la Revista Latinoamericana de Teología ed elaborò una presentazione sistematica
della teologia della liberazione che venne pubblicata postuma – come quasi
tutti gli scritti di Ellacuría – col titolo Mysterium Liberationis1.
Ellacuría concretizzò il suo interesse per la politica salvadoregna attraverso gli scritti comparsi sulla rivista Estudios Centro Americanos, di cui fu
direttore a partire dal 1976. In questo periodo il filosofo e teologo, convinto
che l’università dovesse essere un luogo di liberazione, si impegnò
all’interno dell’UCA con l’intento di renderla la coscienza critica della società salvadoregna. Tale impegno gli valse, nel 1979, la nomina a rettore
dell’UCA stessa. Nello stesso anno l’Università prese ufficialmente una posizione politica appoggiando la giunta rivoluzionaria di governo militare e
civile, nella speranza che essa potesse favorire un cambiamento in senso riformista nella conduzione del Paese. Tali attese vennero disilluse e
l’aumento della violenza repressiva in risposta a tale giunta condusse rapidamente alla guerra civile. In questo frangente non venne risparmiata nemmeno la Chiesa Cattolica, nei confronti della quale vennero perpetrati degli
atti di violenza che culminarono con l’uccisione dell’arcivescovo Oscar
Romero e di fronte ai quali Ellacuría si vide costretto alla fuga in esilio. Tale
esilio ebbe però durata breve. Il gesuita fece infatti presto ritorno in El Sal1
Di tale testo è disponibile la traduzione italiana, di cui vengono riportati gli estremi bibliografici: Ignacio Ellacuría, Jon Sobrino (a cura di), Mysterium Liberationis. I concetti fondamentali della teologia della liberazione, Borla, Roma, 1992. La pubblicazione dell’originale spagnolo ad opera delle edizioni UCA risale all’anno precedente.
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vador e riprese immediatamente il proprio impegno politico, convinto della
necessità di trovare al più presto un accordo che mettesse fine al sanguinoso
conflitto.
Negli anni Ottanta Ellacuría lavorò intensamente per il raggiungimento
della pace sociale e questo suo impegno lo vide vittima di frequenti minacce
di morte, alle quali egli non diede peso, convinto che la sua morte potesse
risultare problematica e scomoda per gli Stati Uniti, che giocavano un ruolo
determinante nelle vicende di El Salvador e dell’America Latina più in generale. Tale convinzione si rivelò purtroppo erronea. Il timore di un successo del fronte di liberazione nazionale, di cui Ellacuría era sostenitore, spinse
infatti l’oligarchia salvadoregna a decretare la morte del padre gesuita e dei
suoi collaboratori all’UCA. Il 16 novembre 1989 questa sentenza di morte
venne eseguita. Un battaglione dell’esercito fece irruzione nell’Università e
massacrò Ellacuría, altri cinque padri gesuiti e due donne, madre e figlia,
che lavoravano presso di loro2.
La filosofia della storia ellacuríana
Le domande sulla realtà e sul senso della storia sono d’importanza fondamentale per il pensiero di Ellacuría, il quale ha dedicato a questo tema il
testo, postumo anch’esso, Filosofía de la Realidad Histórica3. Lasciandosi
influenzare dalla struttura metafisica del suo maestro Zubiri, Ellacuría pone
la realtà storica come concetto fondamentale e fondante del proprio pensiero. Egli sostiene che, poiché l’intera realtà forma una sola unità, la quale
comunemente viene chiamata storia, autentico oggetto della filosofia può
essere solo la realtà storica, la cui analisi filosofica è la sola che possa fondare una concreta teologia della liberazione capace di risolvere i problemi
del popolo latinoamericano.
Ellacuría osserva che nella storia giungono alla loro completa manifestazione tutto il dinamismo e tutta la vitalità della realtà, la quale viene concepita dal gesuita come una totalità dinamica strutturata in diversi livelli.
2
I nomi delle sette persone che persero la vita insieme ad Ellacuría in quella che viene
ricordata come la strage dell’UCA sono Ignacio Martín Baró, Segundo Montes, Juán
Ramón Moreno, Amando López, Joaquín López y López, Elba e Celina Ramos. Ai
martiri dell’UCA è dedicata una pagina nel sito internet dell’Università stessa:
http://www.uca.edu.sv/martires/new/indice.htm.
3
Ignacio Ellacuría, Filosofía de la Realidad Histórica, UCA, San Salvador, 1990.
27
Seguendo questi diversi livelli si può constatare un progressivo incremento
qualitativo, vale a dire un’evoluzione nella quale la realtà superiore non viene mai separata dalle realtà inferiori, le quali, al contrario, sono sempre costitutivamente presenti in essa. Il livello più alto di tale dinamismo è ciò che
viene chiamato storia. Tale livello comprende e realizza tutti i precedenti, al
punto che Ellacuría giunge a parlare della realtà storica come della realtà
tutta intera così come la si può intendere nell’àmbito della libertà, àmbito in
cui la realtà stessa mostra le proprie potenzialità più elevate. Grazie a tali
potenzialità l’uomo ha la possibilità, secondo Ellacuría, di autodeterminarsi
e di giungere alla propria completa realizzazione.
Tali osservazioni spingono il filosofo e teologo all’idea che la realtà
storica debba essere caratterizzata dalla prassi. Ciò significa che la storia per
Ellacuría non viene retta o governata né da un intelletto, né da un proprio
telos interiore e nemmeno da qualsivoglia altro astratto principio regolatore;
al contrario, essa viene determinata solo dalla prassi storica. Non esiste dunque alcun intelletto a priori della storia, ma solo un concreto dinamismo che
viene determinato dall’agire umano.
Proprio perché la storia è qualcosa di concreto e dinamico, la filosofia
che la ha per oggetto deve occuparsi della concretezza della realtà. Ciò significa che la filosofia deve essere per Ellacuría una meditazione sulla prassi
storica. Egli, ben lungi dalle posizioni hegeliane o della sinistra e della destra hegeliane in merito alla storia, sostiene che essa, in virtù della propria
concretezza e del proprio dinamismo, il quale viene determinato dalla prassi
umana, non è riconducibile né alla natura, né ad un intelletto né allo spirito.
La storia non ha un fine predeterminato; in essa non sussiste alcuna necessità. La storia è per Ellacuría una totalità aperta che non ha né forme né contenuti predeterminati e che come proprio fondamento ammette solo la prassi
umana. Tale prassi consiste nell’appropriazione delle potenzialità che in un
determinato momento si trovano a disposizione dell’uomo e nella loro messa in pratica, nella misura concessa dall’abilità umana. In questo modo la
prassi viene a coincidere con il processo storico e viene conosciuta come
qualcosa che ha a che fare con la produzione e la trasformazione della realtà.
Detto altrimenti, la prassi storica coincide con il processo di incremento
qualitativo della realtà. Poiché si fonda su un processo di sviluppo qualitativo determinato dalla prassi umana, Ellacuría sostiene che la storia è una realtà aperta che non conosce né ammette assoluti e che giunge alla propria
completa realizzazione solo attraverso una prassi liberatrice. La prassi storica viene ora descritta con l’aggettivo «liberatrice» perché grazie alla propria
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intelligenza senziente – termine, questo, che Ellacuría attinge dalla filosofia
di Zubiri4 – l’uomo non viene influenzato da istanze predeterministiche che
ne influenzino la libertà. L’uomo è pertanto assolutamente libero e ciò permette ad Ellacuría di interpretare la prassi storica come una creazione liberatrice ad opera dell’uomo, la quale consiste nella realizzazione di un plus
qualitativo nella realtà storica attraverso la progressiva liberazione della potenzialità della realtà stessa.
La liberazione come telos della prassi storica5 significa che l’uomo deve intendersi e costituirsi come rappresentante, attore ed autore del proprio
processo storico e che attraverso tale prassi si devono creare le condizioni
favorevoli al libero sviluppo umano, cosicché l’uomo possa infine giungere
alla propria completa realizzazione.
Secondo Ellacuría la storia non è solamente il luogo della realizzazione
dell’uomo, bensì il luogo della realizzazione della realtà tutta intera. A tal
proposito il filosofo e teologo afferma che, poiché la realtà si realizza nel
processo storico, la storia può essere considerata come la Rivelazione in atto. L’uomo scopre ciò che la realtà veramente è solo in virtù della sua realizzazione storica e, d’altro canto, ciò che viene rivelato è la realtà stessa
nella propria realizzazione storica. Detto altrimenti, Ellacuría sostiene la
coincidenza di Rivelazione e storia, spianando in questo modo la strada alla
parte teologica della propria meditazione sulla storia.
4
Il concetto di intelligenza senziente viene elaborato da Zubiri per indicare il rapporto che
lega l’apprensione umana alla realtà appresa. La realtà rappresenta per Zubiri il prius
dell’apprensione, la quale consiste di due momenti che nell’uomo sono inscindibilmente connessi. Infatti, la realtà è per l’uomo la formalità della cosa appresa come reale mediante l’intellezione ed al medesimo tempo lo stimolo che l’uomo avverte impressivamente a partire dalla realtà stessa. Ciò significa che la relazione dell’uomo con
la realtà è al contempo un’intellezione ed un sentire, di qui la denominazione zubiriana
di intelligenza senziente. Cfr. Xavier Zubiri, Inteligencia sentiente/Inteligencia y
realidad, Alianza Editorial – Fundación Xavier Zubiri, Madrid, 1980.
5
Anche se Ellacuría non utilizza mai il termine telos in riferimento alla prassi storica e
rifiuta decisamente di poterne attribuire uno alla storia in generale, questo lemma viene qui impiegato perché le riflessioni ellacuríane sulla libertà come acme della storia e
sull’autentica prassi storica come prassi di liberazione mostrano una certa affinità con
le parole del filosofo italiano Norberto Bobbio, allorché egli sostiene che «la storia ha
la libertà come telos, perché ha la libertà come principio motore» (Norberto Bobbio,
Eguaglianza e libertà, Einaudi, Torino, 1995, p. 73). Non bisogna infatti scordare che
principio motore della storia per Ellacuría è la prassi e che quest’ultima, per essere autentica prassi storica, deve assolutamente essere una prassi liberatrice.
29
Incidenza della filosofia della storia
sulla teologia della liberazione ellacuríana
La parte teologica di questo contributo può prendere le mosse da due
domande che mirano alla soluzione del problema della relazione tra salvezza
cristiana e liberazione politica: che cosa si può apprendere oggi dal Vangelo? Che significato ha la Rivelazione alla luce della concezione della storia
appena descritta?
Si deve innanzi tutto notare che la teologia della liberazione non si lascia isolare dalla storia. La principale caratteristica di questa branca della
teologia è, infatti, il suo impegno per i poveri e la sua attenzione per la situazione concreta in cui essi vivono, nella ferma convinzione che la liberazione politica non possa essere isolata dal pensiero del regno di Dio.
In quanto teologo della liberazione Ellacuría condivide appieno questa
posizione ed afferma che non è possibile parlare di concetti astratti, come ad
esempio la Rivelazione, senza un riferimento alla storia. Ciò permette di
comprendere meglio quanto affermato alla fine della parte dello scritto dedicata alla filosofia della storia, ovvero che la storia è la Rivelazione. Infatti,
la realtà secondo Ellacuría è aperta alla trascendenza e la trascendenza è la
storia stessa. Per lui non esiste alcun orizzonte astorico e ciò implica che la
meditazione sulla trascendenza non deve assolutamente condurre
all’abbandono del mondo. Trascendenza e storia – il che equivale a dire trascendenza e mondo – sono infatti inscindibilmente connessi. L’accento posto sul legame tra la trascendenza e la storia conduce Ellacuría alla conclusione che l’uomo può incontrare Dio proprio nella storia. Infatti, alla luce
delle meditazioni teologiche fin qui analizzate, il gesuita giunge a concepire
la storia come il campo dell’agire divino. Dio agisce personalmente nella
storia ed essa è la Sua Rivelazione. La teologia della liberazione ellacuríana
assume a questo punto il carattere di un’indagine sulla realtà divina nella
concretezza della realtà storica.
Ellacuría espone questa idea rifacendosi al problema sulla doppia natura di Cristo, problema che egli risolve per via storica. Egli è infatti del parere che il Cristo trascendentale, vale a dire il Cristo della fede, sia accessibile
solo attraverso il Cristo storico, concreto, personale. Come Gesù ha potuto
raggiungere la trascendenza cristica solo attraverso la propria vita concreta,
vale a dire solo attraverso la propria esistenza storica, allo stesso modo
30
l’uomo potrà aderire a tale trascendenza solo attraverso la storia materiale di
Gesù così come essa viene narrata nei Vangeli6.
La conseguenza che Ellacuría trae da questa modalità di adesione alla
trascendenza è che la vita cristiana stessa deve avere una connotazione politica. La pienezza della salvezza e della redenzione si offre, infatti, nella dimensione concreta della storia ed è raggiungibile per mezzo della politica.
Con ciò il gesuita opera una vera e propria politicizzazione della fede, la
quale porta con sé un’opzione preferenziale in favore dei poveri. Dio e
l’uomo in questo modo non vengono separati e la prassi storica e politica
viene considerata come prassi trascendentale. Grazie a quest’unità duale che
lega tra loro Dio e l’uomo, Ellacuría può scorgere nell’agire umano la manifestazione dell’agire divino ed affermare che non esiste alcuna base per parlare di un agire divino che si ponga al di là di quello umano. Ciò implica che
anche la profezia deve essere storicamente situata.
La conseguenza che il gesuita trae da tali riflessioni consiste in una soteriologia storica nella quale la redenzione assume il significato della liberazione dal peccato inteso innanzi tutto come peccato materiale7. La liberazione prospettata da Ellacuría assume il carattere di una conversione nella sfera
privata e di un rinnovamento, se non addirittura di una rivoluzione, nella
sfera storica. La capacità che il gesuita riconosce ai poveri di spingere le potenzialità della realtà nella direzione di un simile cambiamento gli permette
ora di rivolgersi ad essi chiamandoli liberatori e redentori.
In tale contesto Ellacuría elabora anche una particolare ecclesiologia,
capace di corrispondere all’opzione fondamentale per i poveri che sta alla
base della sua meditazione teologica. Egli è del parere che la Chiesa non sia
un’istituzione, bensì la semplice manifestazione visibile della fede, e descri6
È significativo a questo proposito rilevare come per Ellacuría la Sacra Scrittura sia storicamente valida ancor oggi. Egli ritiene, infatti, che la sua lettura storica non sia una
mera ripetizione di accadimenti passati. Al contrario, in una determinata situazione
storica una lettura del genere può giocare un ruolo fondamentale nella ricerca di un
senso e nell’orientamento della prassi umana. Il dinamismo della storia fa sì che, in relazione al momento in cui ci si trova, alcuni brani della Sacra Scrittura possano assumere temporaneamente un valore superiore rispetto ad altri, che potranno ricoprire un
ruolo preponderante successivamente o che lo hanno ricoperto precedentemente.
7
Non bisogna scordare che la teologia della liberazione, molto attenta alle concrete condizioni di vita dei poveri, ha introdotto nel proprio lessico il termine di peccato strutturale per indicare l’esistenza concreta di istituzioni e situazioni che spingono l’uomo
a peccare e dalle quali l’uomo deve essere liberato per poter essere anche libero dal
peccato.
31
ve una Chiesa dei poveri che non vanno intesi come poveri di spirito, ma al
contrario come poveri con spirito. Questi poveri, infatti, assumono su di sé
nel loro ruolo di liberatori e redentori l’intero potenziale della vita cristiana
e lo sviluppano nella direzione di una soteriologia storica che assume al contempo ed inevitabilmente il carattere di una liberazione politica.
I poveri assumono dunque un triplice significato nella teologia della liberazione proposta da Ellacuría. Essi svolgono un ruolo ecclesiologico
(Chiesa dei poveri), un ruolo soteriologico (battaglia per la liberazione e la
redenzione) ed un ruolo cristologico (il problema dei poveri è lo stesso problema di Gesù).
Nell’ecclesiologia ellacuríana il sacramento stesso assume il carattere
di una divinizzazione dell’uomo, per mezzo del quale Dio agisce nel mondo.
L’autentico significato del sacramento si pone al di là delle forme e dei rituali in cui esso viene conferito e consiste nel fatto che per suo mezzo
l’uomo è aperto al nuovo ed all’universalità dello Spirito.
Il contesto dell’ecclesiologia ellacuríana permette ora di porre
un’ulteriore domanda, con la risposta alla quale si concluderà questa breve
presentazione della filosofia della storia elaborata dal gesuita e della sua importanza nel contesto della teologia della liberazione proposta dallo stesso.
Considerando la Chiesa come Chiesa dei poveri, la storicizzazione della soteriologia in chiave politica e l’assunzione da parte dei sacramenti di un senso che va ben al di là dei rituali e delle forme ad esso connessi, che significato conferisce Ellacuría al culto? Egli sostiene che non c’è alcuna concorrenza o rivalità tra culto e liberazione. Al contrario, la liberazione fa sempre
riferimento al culto ed il culto ha sempre un aspetto liberatorio. Laddove il
culto non sia vòlto alla liberazione e non conduca ad essa, allora si potrebbe
sostenere che esso ha perso la propria autenticità e che è divenuto, detto
marxisticamente, oppio del popolo.
32
Libri
Le cause del cemento
EMANUELE CURZEL
uarant’anni fa Adriano Celentano raccontava del ragazzo della via
QGluck
e dell’albero di trenta piani. L’ondata grigia non si è affatto fermata, anzi continua a crescere, ma non trova più chi la contesti sul piano generale, quasi che farlo sia diventato roba da radical-chic, da contestatori a
prescindere, da miopi oppositori del progresso. Qualche situazione può anche richiedere mobilitazioni e attenzione, in difesa di un parco o di un paesaggio, ma in generale? C’è bisogno di infrastrutture! E poi cosa c’è di meglio di un incentivo all’edilizia per rilanciare l’economia, o di un investimento immobiliare per garantire solidità a un patrimonio? E poi stiamo parlando delle case in cui abitiamo, delle strade che percorriamo...
Il rumore dell’ondata è così diventato parte del rumore di fondo. È inevitabile, “naturale”, che i comuni facciano cassa con le concessioni edilizie
che antropizzano e urbanizzano aree sempre più ampie del territorio. E così
in tutta Italia il processo di cementificazione va avanti con un ritmo del tutto
sproporzionato rispetto alla crescita economica e demografica, spesso nel
totale disinteresse per quanto riguarda le parti comuni, che si tratti delle dimensioni delle strade o della presenza (o meglio l’assenza) dei marciapiedi.
Spessissimo secondo logiche urbanistiche che sembrano fatte apposta per
favorire alcuni, pochissimi, imprenditori, e forse lo sono.
Non sono certo un esperto in materia: mi permetto però di segnalare un
libretto che ha l’indubbio merito di porre all’attenzione dell’opinione pubblica la “macchina” che funziona da qualche anno in Italia. Una macchina
che trafora montagne e letti fluviali, brucia di tutto per trasformare la materia prima, impone scelte urbanistiche al di là di ogni ragionevolezza, ignora
le esternalità negative (non solo ambientali) e le impone alla collettività, indirizza gli investimenti mettendo i potenti sui troni e rimandando i poveri a
mani vuote, distorce i processi tecnico-giuridici, condiziona i luoghi della
decisione politica, influenza i meccanismi dell’informazione. Una macchina
che facilmente sfugge alla vista, quando si guarda una sola vicenda, ma che
33
può venire alla luce nel momento in cui si mettono assieme tante storie diverse, segnate da uno stesso denominatore.
Questa “messa in luce” la dobbiamo a Luca Martinelli. Di origini toscane, vive e lavora a Milano; laureato in scienze politiche, è stato volontario di “Mani Tese” dal 1999 al 2010. Lavora dal 2006 per il mensile “Altreconomia” (sulla pagina web di quest’ultimo è ospitato anche il suo blog:
www.altreconomia.it/leconseguenzedelcemento). Nelle sue inchieste ha più
volte incontrato luoghi e persone che cercano di arginare l’ondata grigia. Ha
scritto il volumetto Le conseguenze del cemento (Altreconomia 2011, 14 euro) cercando di dargli la struttura del giallo: da questo punto di vista non è
molto riuscito, dal momento che il colpevole appare fin dalle primissime
pagine (anche il titolo non è felicissimo, dato che non si tratta tanto delle
conseguenze, quanto delle cause dell’ondata cementificatrice). Il libro è
un’inchiesta coraggiosa e interessante che rivela essenzialmente due dati,
fondamentali per qualunque cittadino che voglia partecipare con consapevolezza alla vita collettiva.
Da un lato, Martinelli segnala il rischio che viene dalla distruzione di
una risorsa che inesauribile non è (il territorio, appunto); un tema sul quale
l’allarme sociale e l’attenzione politica sono ancora troppo limitati.
Dall’altro ci mette in guardia nei confronti di una colossale bolla speculativa, nata dal fatto che tutti coloro che sono portatori di interessi economici
tendono a considerare l’investimento in edilizia non come un costo ma come
una partecipazione ad una ricchezza che cresce. Per questo anche l’edificio
più inutile, il capannone più abbandonato, l’infrastruttura più desolata sono
da mettere a bilancio tra gli attivi; se quella voce mancasse o se si fosse costretti a svalutarla, quel portatore di interessi economici si ritroverebbe
all’improvviso con un buco nei bilanci. E così si va avanti, rendendo sempre
più grande una bolla che si autoalimenta e che quando scoppierà (e scoppierà, come tutte le bolle) lascerà cemento sulle campagne, squilibri nei settori
produttivi, impoverimento generalizzato.
Chi viene a conoscenza di questa realtà non può che attivarsi per imporre alla “macchina del cemento” una progressiva ma rapida frenata, prima
che la bolla scoppi (esiste un interessante luogo di raccolta di varie iniziative
locali interessate al tema: www.stopalconsumoditerritorio.it). E, come si è
visto anche recentemente con le vicende referendarie, per rendere il mondo
migliore l’informazione è fondamentale.
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