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PRIMO PIANO
Martedì 23 Febbraio 2016
Si battè contro l’Europa unita quando questo progetto scintillava ed era lodato da tutti
Ida Magli, contro i luoghi comuni
E vide per prima i pericoli dell’immigrazione islamica
DI
GIANFRANCO MORRA
C
iò che più stupiva nella produzione di Ida
Magli, a metà fra antropologia culturale e
psicologia sociale, era non solo
la compresenza, ma anche l’interdipendenza di due atteggiamenti di solito separati: la
rigorosa scientificità delle sue
ricerche e la battaglia all’ultimo sangue contro le banalità e
i luoghi comuni del «politicamente corretto».
Da un lato, l’antropologa,
una studiosa di rara autenticità, che ci ha lasciato opere di
forte spessore, come Gli uomini della penitenza (1982), affresco sulla civiltà medioevale
tra attesa escatologica, pauperismo e ordini mendicanti; o
come Gesù di Nazareth: tabu
e trasgressione (1982). Dall’altro la spietata demolitrice di
tutti i miti di noi civilizzati, che hanno sostituito, ma
anche banalizzato quelli dei
«selvaggi» (Alla scoperta di
noi selvaggi, 1981).
Aveva innalzato presto la
bandiera della Controcorrente. Prima a sinistra, negli anni
Ottanta, penna apprezzata di
«Repubblica» e dell’«Espresso», aveva smascherato il cristianesimo conformista e i furbetti della democristianeria
padrona. Ma ben presto passò
Ida Magli
dall’altra parte, con una scelta
che, in lei, non poteva essere
politica, ma antropologica.
L’Italia aveva capovolto
i parametri tradizionali,
si era liberata dei vecchi miti
religiosi e sociali, ma aveva cominciato anche un cammino
di degenerazione e sfacelo.
E la esperta musicologa
applicò ancora una volta le
note per difendere l’uomo e la
nazione, questa volta sul crinale della destra, divenendo
una delle più importanti firme
del «Giornale». Dove imbastì
la sue liberatorie, ma anche
sconcertanti polemiche. Con
una violenza che l’hanno fatta
paragonare alla Fallaci.
La sua scienza antropologica le aveva fatto capire il
processo distruttivo dell’uomo
e delle sue relazioni nella nostra società.
Del calcio e della sua guerra criminale, come anche
dell’Aids, sostenuti da potenti
interessi economici, fu interprete e giudice spietato.
Del femminismo, che aveva
cercato di leggere come liberazione, capì subito l’imitazione
ritardata del potere maschile,
col pericolo di una perdita di
quanto la donna deve avere
di specifico. Anche il femminismo è divenuto una nuova
forma de La violenza sulle
donne (1993): «Ho passato una
vita per difenderle, ma ora ho
capito che non sanno fare politica, sono incapaci di avere
una sola idea nuova».
Già all’inizio degli anni
Novanta, caduto il comunismo sovietico, aveva intuito
che il più grande pericolo per
l’Occidente arrivava dal mondo islamico, del tutto chiuso e
nemico delle nostre libertà.
Fu tra i primi a chiedere di
bloccare l’immigrazione, doppiamente nociva per chi viene
e per noi che li riceviamo. Ma
penetrò ancora più a fondo il
dramma attuale della nostra
civiltà.
I suoi scritti sull’Europa
(Contro l’Europa: tutto quello
che non vi hanno detto di Maastricht, 1997; La dittatura europea, 2012; Dopo l’Occidente,
2010) esprimono, anzi gridano
la convinzione che ciò che bisogna difendere contro l’invasione islamica non è l’Europa,
questo ente artificiale, ma la
specificità delle differenti nazioni europee.
L’Unione Europea si è rivelata una istituzione falsa
e nociva, non è stata un fallimento, ma un progetto pensato e realizzato per Distruggere
l’Occidente (2006), «al fine di
favorire la vittoria dell’Oriente islamico contro l’America».
Ciò che invece dovremmo fare è Difendere l’Italia
(2013). Che significa uscire
dall’Unione Europea. Ma
come farlo, quando un Prodi
ci regala la moneta unica eu-
ropea, strumento creato dal
nulla della distruzione della politica e della dittatura
economica? o quando Mario
Monti accetta con nonchalance la sudditanza del nostro paese ai teutonici?
Le aggressioni degli islamici contro le donne di Colonia
l’avevano sconvolta e ancor
più l’impotenza dell’Unione
Europea a difenderle, il loro
abbandono è stato mistificato
come filantropia: «L’Europa
non progredisce agli occhi di
nessuno, il suo potere politico
è quasi nullo malgrado le immense ricchezze profuse a tal
scopo, malgrado l’imposizione
della moneta unica, malgrado
le regole imposte da Bruxelles per far diventare uguali,
se non gli uomini, almeno le
zucchine e la curvatura delle
banane, i recinti per le galline
e, al colmo del grottesco, anche
i sedili dei mezzi di trasporto
pubblici, cui i tedeschi si sono
opposti perché i loro sederi
sono più grossi».
Esagerazioni, unilateralità, paradossi. Senza dubbio anche questo. Ma retto da
una amore per la schiettezza
e la sincerità in una battaglia
contro l’ovvietà e l’industria
della democrazia egalitaria
e totalitaria, questa tomba
dell’uomo.
© Riproduzione riservata
IN CONTROLUCE
Umberto Eco abitò in Linus, una testata di fumetti che educò
un’intera generazione di lettori bassi alla cultura alta e viceversa
DI
O
DIEGO GABUTTI
ttantaquattrenne, romanziere e saggista, Umberto Eco è morto venerdì
scorso a Milano. Negli
ultimi cinquant’anni era stato il
campione (anzi l’«epitome», il sommario vivente) dell’intellettuale
pre e post sessantottesco. Magari
non fu lui a scoprire per primo che
c’era più d’un ponte sull’abisso che
separa la cultura bassa da quella
alta, l’apocalittico dall’integrato,
la critica kantiana della ragion
pura dai fumetti di Flash Gordon,
dalle satire fantascientifiche degli
anni cinquanta, dalla fenomenologia di Mike Bongiorno. C’erano
arrivati prima i surrealisti, per
limitarci a loro.
Ma fu lui, col suo Apocalittici
e integrati, un classico del 1964,
subito tradotto in tutte le lingue,
a dare per primo dignità formale a
questa speciale avventura dell’intellighenzia occidentale (la sola
che resti ancora in piedi, tra tante
che sono collassate): l’idea cioè che
l’evasione (le canzonette, i romanzetti gialli e d’amore, i Peanuts di
Charles Schulz, Isaac Asimov e
i Fantastici Quattro) valga quanto l’engagement, e ne sia anzi una
delle forme più radicali.
Se Apocalittici e integrati (il cui
cinquantenario è stato festeggiato
qualche tempo fa dall’uscita di 50
anni dopo «Apocalittici e integrati» di Eco, una bella e importante
antologia di saggi edita da Derive
Approdi) era Il Capitale di questa
rivoluzione, il mensile di fumetti e
varia umanità Linus ne fu la Pravda, come devo avere già scritto
tempo fa (invecchio e mi ripeto):
una testata di fumetti che educò
una generazione di lettori «bassi»
alla cultura alta, e viceversa. Eco
fu una delle colonne intellettuali di
Linus insieme a Giovanni Gandini (che lo fondò nel 1965 e diresse
fino al 1972, quando la testata fu
ceduta a Rizzoli ed ebbe come direttore Oreste Del Buono, altro
tifoso della cultura «bassa»).
Linus mise in pratica le lezioni teoriche della «semiotica»
d’Umberto Eco. Linus, le cui prime
annate conservano intatta tutta
la loro freschezza, fu uno dei fi li
d’Arianna che soccorrevano i coraggiosi decisi ad addentrarsi nel
labirinto dei «segni» e dei «significati» — dove dietro ogni metafora
fumettistica e categoria filosofi ca
si nascondevano Minotauri e Unicorni, come nei miti e nelle fiabe.
Applicando la lezione che impartiva ai lettori dei suoi saggi e agli
studenti del Dams bolognese, dove
insegnava, Eco scrisse due romanzi
eccezionali, che come Apocalittici e
integrati furono best seller internazionali:
Nel nome della rosa e Il pendolo
di Foucault (gli altri suoi romanzi
sono tutti da dimenticare, in particolare gli ultimi tre, di cui non sto
neanche a citare il titolo). Ex Azione cattolica, comunista in quota Pci
salottiero, Eco era tuttavia anche
un intellettuale post (oltre che pre)
sessantottesco e aveva dunque le
sue idee fisse e bislacche riguardo
alla superiorità antropologica della
sinistra sulla destra, per definizione «truzza» e fascistoide.
Negli anni settanta, aneddoto che non mi stanco mai di
raccontare, diede del «Dostoevskij da strapazzo» ad Aleksandr
Solženicyn (che aveva vinto da
poco il Premio Nobel e che, insieme
a tutti i suoi parenti e amici, era in
balia del Kgb, che ne minacciava le
vite). Nel 1971 fu uno degli ottocento firmatari del famigerato appello
contro la repressione che suonò come
un Wanted Dead Or Alive contro il
Commissario Luigi Calabresi (che
la sinistra parlamentare ed extra,
delirando sapendo di delirare, indicava come assassino dell’anarchico
Giuseppe Pinelli, precipitato da
una finestra della questura milanese dopo la strage di Piazza Fontana,
nel dicembre del 1969). Più tardi fu
esageratamente antiberlusconiano
— forse nemmeno Solženicyn fu
altrettanto antisovietico, benchè
Leonid Il’ič Brežnev fosse ben
altro tiranno, diciamolo, che Papi
d’Arcore con le sue Girl. Minacciò,
senza mantenere la promessa, di
lasciare l’Italia se mai Silvio Berlusconi gli avesse fatto il torto di
vincere vinto le elezioni (mentre
Solženicyn, alla fine, lasciò davvero l’Unione sovietica, accompagnato dal centrodestra bolscevico alla
frontiera).
Ma queste sono quisquiglie —
ideologia e politica. Di Eco, un
grande vecchio della cultura planetaria, erudito e filosofo, resterà
una gigantesca lezione intellettuale, quella d’Apocalittici e integrati, quella delle prime leggendarie
annate di Linus, quelle dei grandi
romanzi. Ci ricorderemo ancora di
Guglielmo da Baskerville e della sua inchiesta nei regni oscuri
dell’eresia e della tomistica medievale quando avremo completamente dimenticato le Feste dell’Unità e
le «serate eleganti» dei leader della
rivoluzione liberale di massa. Eco
è tra i pochi italiani memorabili.
© Riproduzione riservata
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