ATTI GECO 2011

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ATTI DEL CONVEGNO
ATTI GECO 2011
Sommario
Giovedì 13 gennaio 2011
Apertura dei lavori
Luca Bernareggi
Pag. 3
Prima sessione
Il lavoro nell’impresa cooperativa: produttività e diritti
Franco Tumino
Giuliano Giubilei
Presentazione dello studio di Fondazione Nord Est: “La qualità del
lavoro nell’impresa cooperativa” a cura di Daniele Marini
Susanna Camusso
Giuliano Poletti
Carlo Dell’Aringa
Pag. 12
Pag. 13
Pag. 14
Seconda sessione
Le cooperative di comunità:un’opportunità per territori e persone
Giorgio Gemelli
Dario Di Vico
Franco Iseppi
Edoardo Patriarca
Pag. 26
Pag. 28
Pag. 29
Pag. 31
Consegna dei premi Quadro Fedele 2010
Pag. 38
Terza sessione
A che punto siamo della crisi: nuovi orizzonti e prospettive per il
futuro
Giorgio Bertinelli
Carlo Zini
Andrea Cabrini
Alessandra Lanza
Fiorella Kostoris
Gian Maria Gros-Pietro
Pag. 39
Pag. 39
Pag. 41
Pag. 41
Pag. 47
Pag. 50
Quarta sessione
La legalità e la libertà di fare impresa
Giuliano Poletti
Fabio Tamburini
Maurizio De Lucia
Ivanohe Lo Bello
Livia Pomodoro
Roberto Maroni
Pag. 60
Pag. 62
Pag. 63
Pag. 65
Pag. 68
Pag. 77
Pag. 5
Pag. 7
Pag. 8
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
1
Venerdì 14 gennaio 2011
Quinta sessione
Il ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari per la
crescita delle imprese italiane
Caterina Parise
Aldo Soldi
Pierluigi Stefanini
Giuseppe Mussari
Pag. 82
Pag. 82
Pag. 85
Pag. 87
Sesta sessione
Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione
Marco Sodano
Phillip Blond
Roberto Formigoni
Aldo Bonomi
Luca Bernareggi
Pag. 94
Pag. 94
Pag. 97
Pag. 101
Pag. 104
Settima sessione
Giorgio Gemelli
Michael Spence
Lectio Magistralis
Prospettive di crescita e sfide per l’economia dei paesi avanzati ed
emergenti
Giovanni Floris
Giuliano Poletti
Pag. 106
Pag. 107
Pag. 114
Pag. 119
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
2
ATTI GECO 2011
Sommario
Giovedì 13 gennaio 2011
Apertura dei lavori
Luca Bernareggi
Pag. 3
Prima sessione
Il lavoro nell’impresa cooperativa: produttività e diritti
Franco Tumino
Giuliano Giubilei
Presentazione dello studio di Fondazione Nord Est: “La qualità del
lavoro nell’impresa cooperativa” a cura di Daniele Marini
Susanna Camusso
Giuliano Poletti
Carlo Dell’Aringa
Pag. 12
Pag. 13
Pag. 14
Seconda sessione
Le cooperative di comunità:un’opportunità per territori e persone
Giorgio Gemelli
Dario Di Vico
Franco Iseppi
Edoardo Patriarca
Pag. 26
Pag. 28
Pag. 29
Pag. 31
Consegna dei premi Quadro Fedele 2010
Pag. 38
Terza sessione
A che punto siamo della crisi: nuovi orizzonti e prospettive per il
futuro
Giorgio Bertinelli
Carlo Zini
Andrea Cabrini
Alessandra Lanza
Fiorella Kostoris
Gian Maria Gros-Pietro
Pag. 39
Pag. 39
Pag. 41
Pag. 41
Pag. 47
Pag. 50
Quarta sessione
La legalità e la libertà di fare impresa
Giuliano Poletti
Fabio Tamburini
Maurizio De Lucia
Ivanohe Lo Bello
Livia Pomodoro
Roberto Maroni
Pag. 60
Pag. 62
Pag. 63
Pag. 65
Pag. 68
Pag. 77
Pag. 5
Pag. 7
Pag. 8
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
1
Venerdì 14 gennaio 2011
Quinta sessione
Il ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari per la
crescita delle imprese italiane
Caterina Parise
Aldo Soldi
Pierluigi Stefanini
Giuseppe Mussari
Pag. 82
Pag. 82
Pag. 85
Pag. 87
Sesta sessione
Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione
Marco Sodano
Phillip Blond
Roberto Formigoni
Aldo Bonomi
Luca Bernareggi
Pag. 94
Pag. 94
Pag. 98
Pag. 101
Pag. 104
Settima sessione
Giorgio Gemelli
Michael Spence
Lectio Magistralis
Prospettive di crescita e sfide per l’economia dei paesi avanzati ed
emergenti
Giovanni Floris
Giuliano Poletti
Pag. 106
Pag. 107
Pag. 114
Pag. 119
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
2
GIOVEDÌ 13 GENNAIO 2011
Apertura dei lavori
LUCA BERNAREGGI
Presidente Legacoop Lombardia
Diamo il via alla seconda edizione delle Giornate dell’Economia Cooperativa promossa
da Legacoop. Volevo brevemente descrivervi il senso di questa seconda edizione e fare
alcune considerazioni sui prestigiosi ospiti che avremo. È un’edizione che si presenta
ricca di spunti e di momenti di riflessione, oltre che appunto di presenze autorevoli che
hanno accolto il nostro invito e che desidero ringraziare. A partire dagli ospiti di rilievo
internazionale come il Premio Nobel Michael Spence, che parlerà domani, e il direttore
di ResPublica Phillip Blond, permettetemi anche di ringraziare il presidente dell’ABI
Mussari, il presidente Formigoni, il ministro Maroni - che sarà con noi questo pomeriggio
- e mi scuso di non citare tutti gli altri amici ospiti del mondo accademico e del mondo
dell’economia. Consentitemi di rivolgere un ringraziamento particolarmente affettuoso,
immaginando anche di interpretare il sentimento e il pensiero di tutti voi, alla segretaria
generale della CGIL Susanna Camusso, alla quale confermiamo i nostri auguri per il suo
incarico molto delicato e impegnativo e sulle cui spalle pesano scelte particolarmente
importanti e difficili per la sua organizzazione, oltre che per l’intera società italiana.
La presenza prevista di alcuni ospiti purtroppo non sarà confermata: Enrico Giovannini,
presidente dell’ISTAT, assente per motivi di salute, il sindaco Sergio Chiamparino,
impegnato nella Direzione Nazionale del PD, e l’onorevole Cazzola, che per ragioni di
convocazione della Commissione Lavoro non potrà essere presente. Abbiamo cercato di
predisporre un programma denso di idee, di proposte, di lavoro, che anche questa volta
è stato reso possibile grazie alla Presidenza Nazionale di Legacoop e al fatto che diversi
soggetti del mondo cooperativo - sono gli sponsor il cui elenco vedete alle mie spalle hanno condiviso il significato di questo appuntamento, decidendo di contribuire a
sostenerne generosamente i costi. Il programma è stato reso possibile da un eccellente
gruppo di persone e di colleghi che in larga misura tutti conoscete. Volevo anche
ringraziare Il Sole24Ore per l’ospitalità che ci ha confermato e per il supporto fornito.
Per iniziare, desideravo fare velocemente alcune considerazioni: questo Paese sta
vivendo un passaggio molto delicato della sua vita politica e istituzionale; Legacoop, nel
suo percorso di avvicinamento al prossimo appuntamento congressuale, ha voluto
confermare queste giornate proprio per rafforzare ancora di più il suo essere un
soggetto attivo della società italiana, l’essere, oltre che un’associazione di imprese, uno
strumento utile per il benessere delle nostre comunità e dei nostri concittadini. Non sarà
una due giorni di dibattito fine a se stesso, ma un appuntamento nel quale concentrare
ricerche, riflessioni, spunti, idee e proposte di lavoro su alcuni problemi che sono a
nostro avviso molto importanti, perché riguardano la vita delle persone e delle imprese
e la loro voglia di crescere con spirito di intraprendenza e di fiducia per un futuro che
possa essere migliore per tutti. Intendiamo cogliere fino in fondo il valore di questo
appuntamento, grazie anche alla presenza dei nostri interlocutori, al fine di
comprendere meglio il ruolo che un’associazione come la nostra e le cooperative che
rappresentiamo possono avere su alcuni di questi temi: il lavoro, il suo valore e il suo
futuro; la crisi economica e i modelli d’impresa che cambiano; l’accesso a servizi
finanziari sempre più decisivi per la difesa e la crescita dello stesso sistema
imprenditoriale; la vita delle persone nelle comunità e nei territori; la legalità come
strumento di emancipazione per fare economia sana; i beni comuni e la loro evoluzione
in una prospettiva ormai prossima di riforma in senso federalista dello Stato.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
3
Su questi temi il mondo della cooperazione italiana è già al lavoro. Le associazioni di
settore, numerose cooperative grandi e piccole, gli strumenti e i soggetti imprenditoriali
cui hanno dato vita stanno già vivendo sulla loro pelle gli effetti di un cambiamento
strutturale che, come qualcuno si azzarda a dire, non lascerà nulla come prima. Anche
per questo abbiamo pensato e cominciato a estendere e a valorizzare il senso di queste
giornate, introducendo questa novità, che abbiamo voluto chiamare “Fuori Geco”:
abbiamo iniziato ieri all’Università Cattolica di Milano, discutendo di cooperazione allo
sviluppo e del senso che dovrebbe avere Expo Milano 2015 “Nutrire il Pianeta, Energia
per la Vita”. È stato sorprendentemente positivo constatare come i nostri interlocutori,
anche la stessa Università, fossero meravigliati nel vedere quante cose realizzano le
cooperative in giro per il mondo, attraverso iniziative di responsabilità sociale,
imprenditoriale e ambientale. “Fuori Geco” proseguirà ancora stasera, in una discussione
con un centinaio di giovani che vogliono misurarsi con nuove idee e nuove iniziative
imprenditoriali e quindi domani pomeriggio all’Università Statale di Milano, presso la
Libreria Coop, discutendo con Giovanni Floris del suo libro che si misura con i problemi
del futuro di questo Paese. In questi appuntamenti - che se, come pensiamo,
raggiungeranno il loro scopo vorremmo ulteriormente allargare - i protagonisti veri
saranno le cooperative, con le loro molteplici attività e le persone che le dirigono.
A nome di tutti i cooperatori di Legacoop Lombardia voglio quindi dare il benvenuto ai
colleghi e alle colleghe che vengono dalle altre regioni, sia da quelle più vicine sia dalle
più lontane. A loro voglio dire semplicemente che qui, in una delle zone e delle società
più ricche, dinamiche e pluralistiche del Paese, troveranno sempre, come peraltro è
nostra tradizione, disponibilità e ascolto alle loro molteplici esigenze. Vogliamo
interpretare il ruolo di rappresentanti della cooperazione, cercando così di dialogare in
modo coerente con i nostri interlocutori istituzionali, ai quali chiediamo di essere
giudicati dai fatti e dal merito delle nostre proposte e del nostro lavoro.
Benvenuti dunque a Milano, buon soggiorno a tutti e speriamo che questi due giorni di
inizio anno siano di buon auspicio per il lavoro che ci aspetta e per gli impegni e le
responsabilità che la società italiana ha già affidato all’intero mondo della cooperazione.
A questo punto chiederei a Franco Tumino, a cui cedo volentieri la parola, di salire sul
podio. Grazie e buon lavoro a tutti.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
4
Prima Sessione
Il lavoro nell'impresa cooperativa: produttività e diritti
FRANCO TUMINO
Responsabile del progetto Legacoop – Qualità del lavoro
Buongiorno a tutti. Con il rapporto di ricerca affidato alla Fondazione Nord Est, che sarà
successivamente illustrato dal prof. Marini - colgo l’occasione di ringraziare, insieme al
prof. Marini, Aris Accornero, che è stato responsabile scientifico della ricerca, e i
collaboratori di Marini e Accornero per la qualità e la quantità dell’impegno profuso - si è
voluto indagare sulla reazione delle cooperative alla crisi economico-finanziaria esplosa
a livello mondiale nell’autunno 2008. Questo è stato fatto attraverso una raccolta di dati
presso le cooperative e attraverso interviste approfondite a figure apicali di un
campione qualitativo di cooperative associate appartenenti a tutti i settori di attività
della nostra organizzazione. In questo modo abbiamo voluto attualizzare, alla luce della
crisi del 2008, un punto del programma di lavoro previsto dal documento conclusivo,
che abbiamo chiamato “Documento di mandato”, approvato dall’ultimo Congresso
Legacoop nel marzo 2007, quando neanche noi avevamo ipotizzato che potesse
esplodere una tale crisi economica, perlomeno nella dimensione che poi ha avuto.
Il “Documento di mandato” che citavo indicava tra gli obiettivi prioritari da perseguire,
affidati al gruppo dirigente eletto dal Congresso, il tema della qualità del lavoro nella
cooperazione aderente all’organizzazione. Più esattamente recitava: “la qualità del
lavoro è, insieme al rispetto delle regole, un carattere identitario forte della buona
cooperazione, carattere identitario che va sostenuto, incrementato e più ampiamente
reso noto. Le cooperative aderenti a Legacoop hanno sviluppato, nei diversi settori,
diffusi esempi di positive sperimentazioni; la conoscenza e la diffusione di queste buone
pratiche va promossa e sostenuta con idonee iniziative, sia a livello settoriale sia
territoriale, anche sviluppando il confronto con le organizzazioni sindacali”.
Abbiamo affrontato questo impegnativo compito affidatoci dal documento conclusivo
del Congresso con un gruppo di lavoro che mi ha affiancato - e ringrazio la Presidenza di
Legacoop per avermi a suo tempo affidato questo incarico di coordinamento del lavoro composto da colleghi, designati dalle associazioni con maggiore presenza di
occupazione e da Legacoop Emilia Romagna che, come organizzazione territoriale,
aveva deciso di produrre uno sforzo analogo all’interno del progetto nazionale.
Consentitemi di citare questi colleghi, che hanno svolto un lavoro molto impegnativo:
Barzali, Genitoni e successivamente Casanova, Minetti, Monti, Piscopo e Verri, coadiuvati
dai colleghi della struttura confederale, Algieri e Marignani, con l’ausilio periodico dei
colleghi Iurilli e Conti. All’interno di questo gruppo di lavoro si era in realtà deciso, per
non condurre un’analisi autoreferenziale, di svolgere l’indagine sulle buone pratiche
delle cooperative intervistando direttamente i lavoratori soci e non soci - non quindi i
gruppi dirigenti - e affidando la realizzazione di questa indagine a un organismo
indipendente, individuato appunto nella Fondazione Nord Est. Di fronte all’esplodere
della crisi economica, abbiamo però poi deciso di rinviare l’indagine al momento
dell’uscita dalla crisi - uscita che ancora non c’è stata - nel timore soprattutto che la
percezione dei lavoratori fosse influenzata dalla situazione e quindi che gli intervistati si
trovassero in un atteggiamento scarsamente critico verso la qualità del lavoro, in quanto
concentrati sulla garanzia del posto di lavoro. Inoltre avevamo intenzione di produrre
questa ricerca con cadenza periodica, per ottenere non solo una fotografia, ma anche
delle tendenze da approfondire; tuttavia anche qui il rischio era di esaminare tendenze
riferite a contesti differenti. Abbiamo quindi deciso di modificare, rinviandola nel tempo,
questa indagine presso i lavoratori e di convertire invece la ricerca - alla luce dell’evento
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
5
più eclatante, seppur in negativo, registrato dall’ultimo Congresso ad oggi, cioè quello
della crisi economica esplosa a livello mondiale e dei suoi effetti nel nostro paese - nella
direzione che oggi sarà presentata dal prof. Marini e cioè come hanno reagito le
cooperative alla crisi economica.
Tuttavia, pur avendo modificato l’obiettivo della ricerca, gli elementi riferiti alla qualità
del lavoro in cooperativa hanno fatto parte dell’indagine. Oggi non viene diffusa; è un
corposo documento di 180 pagine che sarà diffuso nei prossimi giorni e in cui si potrà
vedere che al tema della qualità del lavoro in cooperativa è dedicata un’intera sezione, la
sezione 6. C’è poi un punto centrale, anche all’interno del paragrafo 8.3, che è dedicato
appunto alla reazione delle cooperative alla crisi.
Ci possiamo quindi concentrare sugli elementi che sono scaturiti dalla ricerca, che
saranno illustrati dal prof. Marini e vorrei anticipare qualche valutazione, pur con la
prudenza necessaria per affermazioni e risultati che non provengono direttamente dai
lavoratori e che appartengono a un campione di cooperative che non pretende di essere
rappresentativo dell’universo delle imprese aderenti. A tal proposito, in riferimento al
tema del lavoro, la Fondazione Nord Est ha definito in autonomia - naturalmente
condivisa - una griglia di analisi. Cito testualmente: “vari elementi contribuiscono a
definire quello che può essere chiamato un buon posto di lavoro: il tipo di contratto,
l’orario, la retribuzione, la sicurezza ambientale, la valorizzazione del rapporto
individuale, la formazione, i rapporti all’interno della cooperativa, il clima aziendale”.
Venendo a quanto emerso dalla ricerca, sulla base di questa griglia, spiccano a mio
avviso con chiarezza alcuni elementi che ci caratterizzano in modo distintivo. Sono sei
elementi che leggo rapidamente:
1)
il ridotto numero di rapporti di lavoro cosiddetti “atipici”, che hanno, come
sappiamo, minori tutele rispetto ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Approfitto
per ricordare che la nostra organizzazione ha costantemente e da anni richiesto che
siano equiparate la contribuzione obbligatoria e le tutele del rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato e quelle dei contratti atipici. Abbiamo anzi
sostenuto che a una maggiore flessibilità del lavoro debba corrispondere un maggior
costo del lavoro per le imprese, in modo da contrastare utilizzazioni improprie;
2)
il costante sforzo di contenere l’uso di contratti precari a un tempo ristretto e di
trasformarli comunque, appena possibile, in rapporti stabili e a tempo indeterminato;
3)
un forte impegno sulla sicurezza dei lavoratori, in misura significativamente
superiore alla media dei competitor;
4)
un impegno che accompagna un’utile e necessaria flessibilità alla ricerca della
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; la ricerca ha registrato, cito testualmente,
“disponibilità ad andare incontro alle esigenze dei lavoratori con orari di lavoro che
tengono conto, dove possibile, della conciliazione con i tempi e gli impegni personali e
familiari, fino in alcuni casi a esperienze praticate di autogestione da parte dei
lavoratori”. Un impegno quindi alla conciliazione e all’adozione di scelte nella direzione
delle pari opportunità, in particolare per favorire lo sviluppo dell’occupazione femminile.
Emerge tuttavia con chiarezza - lo dobbiamo dire con autocritica - un dato, che peraltro
già conoscevamo, sul grande spazio di miglioramento esistente per l’aumento della
presenza femminile nei vertici aziendali e tra gli amministratori delle cooperative;
5)
un’ampiezza e ricchezza qualitativa di sforzi di coinvolgimento e partecipazione
nei confronti dei soci lavoratori, con un’informazione sostanzialmente aperta a tutti i
lavoratori, anche non soci, pur emergendo nell’indagine la necessità di un ulteriore forte
miglioramento;
6)
uno sforzo nella direzione della formazione e dell’aggiornamento dei lavoratori
ampiamente superiore, in genere, a quello della gran parte, se non della totalità, dei
competitor privati.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Per ultimo, anche nel fronteggiare la crisi, emerge dal rapporto l’attenzione alla tutela
dei lavoratori. Cito testualmente: “Del resto, come quasi tutti gli intervistati sottolineano,
l’obiettivo della cooperativa anche in tempi di crisi, a differenza di un’azienda di capitali,
è quello di offrire condizioni dignitose di lavoro, non solo ai soci ma anche a tutti i
lavoratori che collaborano nella cooperativa stessa, di mantenere i posti di lavoro, di
tutelare i lavoratori, di investire sulle risorse umane, di creare ricchezza per le
generazioni future”. A questo proposito alcuni intervistati hanno sottolineato il fatto che
i lavoratori sono stati informati delle scelte effettuate a causa della crisi o dei riflessi della
crisi sulle imprese e in qualche caso i lavoratori hanno deciso loro stessi quali delle
alternative proposte praticare. Questo, senza dubbio, afferma il rapporto, “rappresenta
uno degli aspetti distintivi su cui si basa la politica del lavoro del modello cooperativo,
come si ha avuto modo di dire anche in altre parti del presente rapporto”.
Insomma, la ricerca effettuata dalla Fondazione Nord Est contiene, a mio avviso,
informazioni incoraggianti per chi come noi crede fortemente che avremmo un Paese
migliore e più competitivo se avessimo nel tessuto produttivo una maggior incidenza di
cooperative.
Grazie dell’attenzione. Cedo la parola al dott. Giuliano Giubilei, nostro moderatore.
GIULIANO GIUBILEI
Vice direttore TG3
Prima di tradurre telegraficamente l’argomento della nostra discussione, vorrei pregare
gli ospiti che parteciperanno al dibattito di salire sul palco. Prima di tutti Susanna
Camusso, segretario della CGIL, che naturalmente ringraziamo per essere venuta e alla
quale farei anche un applauso per l’impegno non facile di questi giorni; il presidente di
Legacoop Giuliano Poletti; il prof. Carlo Dell’Aringa dell’Università Cattolica di Milano.
Insieme cercheremo di capire il tema del dibattito - ne abbiamo già un po’ parlato - che
è il lavoro nell’impresa cooperativa; poi ci sono i “due punti” e i concetti importanti
arrivano dopo i due punti, ovvero produttività e diritti. Questo è un tema che
ovviamente non riguarda solo l’impresa cooperativa ma è soprattutto di grandissima e
anche per certi aspetti drammatica attualità. Ricordo soltanto - ma lo sapete tutti meglio
di me - che da questa sera si vota il referendum a Mirafiori. Tuttavia il tema produttività,
diritti, lavoro, etc. non riguarda ovviamente soltanto la Fiat, anche se a guardare i
giornali di questi giorni e le televisioni sembra che esista solo Fiat. Noi giornalisti siamo
un po’ così: assolutizziamo tutto. In realtà è un problema che riguarda l’intero sistema
produttivo, perché su questi argomenti ci si interroga in tutte le aziende italiane, e
riguarda anche il mondo della cooperazione, che è una parte molto importante - lo è
sempre di più - del sistema produttivo italiano.
Ricordava prima Poletti - nell’intervista con gli altri colleghi - che i lavoratori delle società
cooperative sono un milione e centomila; i soci, se non sbaglio, sono otto-nove milioni;
le cooperative, a differenza di altre aziende italiane, non delocalizzano. Insomma ci sono
tanti aspetti da valutare, comunque il tema della produttività e dei diritti è sentito anche
nel mondo della cooperazione. Naturalmente parleremo di questo anche con i nostri
relatori.
Intanto invito a salire sul palco il prof. Daniele Marini dell’Università degli Studi di
Padova che presenta lo studio della Fondazione Nord Est, già in parte introdotto prima,
sulla qualità del lavoro nell’impresa cooperativa.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
7
DANIELE MARINI
Direttore scientifico Fondazione Nord Est
Grazie e buongiorno a tutti. Naturalmente un ringraziamento anche da parte mia alla
Presidenza, a Legacoop e al dott. Tumino, che ci ha seguiti operativamente in questo
percorso di ricerca, ha già ampiamente dissodato il terreno e ha spiegato il tipo di lavoro
realizzato che, ricordo, è un’indagine di tipo qualitativo. Sostanzialmente abbiamo
cercato di studiare, per così dire, le “lepri” delle cooperative, cioè quelle che di fronte alla
crisi hanno saputo reagire in modo migliore, per studiarne le cosiddette “buone
pratiche”, sia dal punto di vista delle strategie imprenditoriali sia dal punto di vista delle
politiche del lavoro. Un po’ di cose sono già state dette, vorrei partire però da questa
immagine, (slide 4): non è ovviamente un tema nuovo, non sono dati nuovi, ma serve a
ricordarci che la fase critica che stiamo vivendo - che per quello che è dato di sapere
durerà ancora per diversi anni - segna un punto di svolta fondamentale nei nostri sistemi
produttivi. Siamo di fronte a una crisi globale planetaria che cambierà e sta già
cambiando gli assetti geo-economici del nostro pianeta e dello sviluppo e quindi con
questo scenario alle spalle dobbiamo fare i conti. Per comprendere però come il sistema
della cooperazione affronta la crisi, dobbiamo provare a domandarci come si arriva alla
crisi. Se mi concedete la metafora, proviamo a immaginarci una persona che deve
scalare una montagna, oppure deve fare un giro in bicicletta, e si trova davanti una salita
impervia. Ecco, a questo punto vi sono due possibilità: se questa persona arriva allenata
e adeguatamente preparata alla salita, a costo di un po’ di fatica e di sudore ha buone
probabilità di riuscire a superare lo scoglio; se invece non è allenata, né adeguatamente
preparata dal punto di vista tecnico, il rischio di essere stroncata a fronte della salita è
molto elevato.
Cosa abbiamo dunque fatto con i responsabili, le figure apicali delle cooperative che
abbiamo interpellato? Abbiamo cercato di capire come si erano comportati nella fase
precedente all’arrivo di questa crisi e questi sono i risultati delle interviste che abbiamo
potuto realizzare. Innanzitutto c’è un primo aspetto di carattere valoriale, fondativo della
cooperazione e delle cooperative e cioè che il centro è costituito dal lavoro, inteso
secondo due aspetti fondamentali (slide 6): da un lato una dimensione che potremmo
definire “mercatista”, cioè il lavoro inteso come promozione, riscatto sociale,
occupazione, competitività per l’impresa, quindi una dimensione del lavoro legata al
mercato; dall’altro invece una dimensione legata alla persona, che vede il lavoro come
inclusione sociale, come sviluppo del capitale umano.
Oltre a questo ovviamente c’è il tema della mutualità, che sta in sottofondo, e infine, non
ultimo per importanza, il radicamento nel territorio. Ora, non sono elementi nuovi del
sistema e dei valori di fondo del sistema produttivo cooperativo, ma è bene ricordarli,
perché spiegano poi il modo in cui le cooperative hanno reagito alla crisi stessa.
Provando a studiare e a capire quali sono le soluzioni strategiche che il mondo della
cooperazione ha attivato nella fase di pre-crisi, possiamo riassumerle attraverso quattro
punti (slide 7): il primo è, in linea di massima ovviamente, la tensione verso una
progressiva crescita dimensionale delle strutture cooperative, in modo da realizzare una
maggiore strutturazione e quindi, di conseguenza - secondo punto - l’acquisizione di
capitali; non un’acquisizione fine a sé stessa, ma finalizzata all’accrescimento
dimensionale delle strutture cooperative. Terzo punto: è stato messo in campo un mix di
strategie che puntano ad ampliare l’offerta di prodotti e di servizi per i propri clienti e
utenti, ma soprattutto si concentrano su quella che possiamo definire la produzione
“immateriale”. Cosa vuol dire? Significa non solo prodotti, ma rivestire questi prodotti di
brand, di comunicazione, di idea. Questo perché ci si è resi conto che nell’attività
produttiva è sempre più centrale l’attenzione al cliente. Bisogna avere la capacità di
cogliere i segnali che vengono dal mercato e dal cliente e per fare questo è
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
8
fondamentale gestire in maniera sempre più sistemica e integrata la propria filiera
produttiva. Al quarto punto si può elencare una progressiva, ma per così dire cauta,
apertura ai mercati internazionali.
Bene, a questo punto abbiamo provato a mettere a confronto queste strategie
imprenditoriali, attuate dalle cooperative, con un soggetto particolare, che in questi anni
è emerso nel nostro sistema produttivo come leader del cambiamento industriale: la
media impresa. Non sto qui a elencarvi le strategie delle medie imprese raffrontate con
quelle del mondo cooperativo. Tuttavia, se ci fate caso, sono più gli elementi di
comunanza che quelli di differenza: mondo della cooperazione e mondo industriale
hanno molte più similitudini, dal punto di vista delle strategie aziendali, di quanto non
sia pensabile.
Ora, l’aspetto peculiare che è già stato qui introdotto prima - la centralità che il lavoro
assume nel mondo della cooperazione - può essere riassunto in questi punti (slide 8). Il
primo punto è il tema della stabilità: uno degli obiettivi fondamentali è offrire stabilità ai
propri soci lavoratori; i contratti a tempo indeterminato sono di gran lunga prevalenti
rispetto al lavoro flessibile, anche se si dice che il mercato ci chiede di essere sempre più
flessibili. Non sono quindi eliminabili, ma si cerca di limitarne al massimo il numero.
Quanto questo possa poi avere riflessi, successivamente alla crisi, in termini di
produttività, resta un interrogativo. Il secondo punto è quello della coesione nei
confronti del mondo del lavoro, dei lavoratori, dei soci lavoratori. Qui è già stato detto
che, ancora in fase pre-crisi, le cooperative mettono in atto una pluralità di sistemi di
gestione degli orari di lavoro, di coinvolgimento e informazione nei confronti dei propri
lavoratori e soci, di valorizzazione delle pari opportunità e di conciliazione dei tempi:
tutti strumenti che possiamo riunire sotto l’egida della coesione dei lavoratori. Al terzo
punto c’è il tema molto interessante della professionalità e del merito: in 35 delle 47
cooperative che abbiamo intervistato si sono introdotti da diversi anni elementi di
meritocrazia e di retribuzione variabile rispetto agli obiettivi. Come dire che a fianco di
un’ottica di coesione solidaristica ci sono tuttavia anche elementi di valorizzazione del
merito e questo dice molto delle trasformazioni che sono in corso all’interno del mondo
delle cooperative.
Per concludere, infine, su questa parte, quali sono i fattori di forza sui quali le
cooperative hanno agito in fase pre-crisi? (slide 9)
1)
il tema della reputazione, costituita dai diversi elementi elencati;
2)
una grande capacità di organizzazione del lavoro e di revisione organizzativa
rispetto alle esigenze del mercato;
3)
l’aver puntato sulla professionalità dei propri lavoratori e dei propri soci
attraverso diversi aspetti;
4)
il radicamento sul territorio.
A questi punti di forza corrispondono però anche alcuni punti di debolezza, inutile
negarlo (slide 10). Il primo ha a che fare proprio con il territorio, cioè con il fatto che
l’esperienza cooperativa non abbia una presenza così omogenea e diffusa su tutto
l’ambito nazionale. Secondo punto, l’organizzazione è un aspetto positivo, come
abbiamo visto prima, ma nello stesso tempo ha un lato B, per così dire, che è dato dal
fatto che l’organizzazione, soprattutto quando diventa sempre più grande, pone
problemi di competitività, di vischiosità dell’informazione, di tempi decisionali, di
processi democratici decisionali all’interno delle cooperative, quando invece il mercato
corre a una velocità ormai impressionante. Terzo punto di debolezza è il rapporto con la
committenza, in particolare per quei soggetti lavorativi che lavorano con il pubblico, per
i noti problemi di scarsezza di risorse, da cui deriva l’allungamento dei tempi di
pagamento e così via.
Bene, tutto questo è quanto, in estrema sintesi, è stato fatto nel periodo pre-crisi.
Veniamo adesso al periodo della crisi (slide 12). La ricerca non ci consente di dare una
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
9
misura effettiva del peso che la crisi ha avuto sulle cooperative; ci basiamo su queste
“lepri”, così come le ho definite prima. Se ci fate caso, poco più della metà delle imprese
che abbiamo interpellato ha denunciato un peso accentuato della crisi, mentre le altre
dichiarano di avere subito un effetto contenuto, o addirittura nullo. Se tuttavia
togliessimo le cooperative del settore sociale, che in questo caso sono 8, perché
dipendono strettamente dai rapporti con il mondo pubblico, vedete che gli effetti
sarebbero molto più mitigati dal punto di vista quantitativo. Allora, quali sono le
eccezioni, cioè le cooperative che di fronte alla crisi hanno conosciuto un impatto
minore? In primo luogo le cooperative che operano su più tipologie di servizi; poi quelle
che operano in territori non esclusivamente domestici, come la provincia o la regione,
ma al contrario si muovono in ambito nazionale o internazionale; chi ha realizzato
prodotti innovativi e ha diversificato i prodotti; infine due settori, il settore
agroalimentare, che per definizione è anticiclico, e soprattutto la grande distribuzione,
che hanno potuto realizzare quelle economie di scala che le cooperative più piccole
invece non riescono a raggiungere.
Che sia così provo a dimostrarvelo mediante un confronto delle variazioni percentuali
dei diversi indicatori congiunturali fra il sistema industriale italiano e il sistema delle
cooperative di produzione e lavoro appartenente a Legacoop (slide 13). Nella variazione
tra il 2008 e il 2009, potete vedere come tutti presentano segno negativo. Ma il sistema
della cooperazione sembra reggere molto meglio rispetto alla media del sistema
industriale a livello nazionale. Qualcuno dice: “mal comune mezzo gaudio”, è però
comunque un dato sicuramente significativo.
Sul tema del lavoro, elenco solo brevemente tre cose: nella maggioranza delle
cooperative interpellate sono stati utilizzati tutti gli strumenti messi a disposizione legati
agli ammortizzatori sociali, sono state svolte molte iniziative anche legate alla
formazione e al personale in cassa integrazione, c’è stato un maggior coinvolgimento
dei lavoratori e dei soci nelle scelte - così come già accennato dal dott. Tumino - e infine
è stato avviato un processo di riorganizzazione dal punto di vista produttivo e dei servizi.
Alcune hanno anche assunto nuovo personale, nonostante la crisi, e sono state le
cooperative che in fase pre-crisi avevanoo saputo gestire il personale in modo oculato
(slide 15).
Quindi, tre buone pratiche da segnalare a tutti per affrontare e per convivere con questa
crisi (slide 14). Primo: innovare e diversificare; chi ha già fatto queste scelte in fase precrisi oggi riesce a veleggiare meglio all’interno di questa situazione. Secondo:
concentrarsi sul proprio core business, cioè avere la capacità di vedere quali sono i
settori o i prodotti che non vanno e concentrarsi meglio su ciò che si sa fare. Terzo:
accorciare la filiera, cioè rendere più integrato il sistema produttivo con il quale si lavora
per arrivare il più vicino possibile al cliente finale, per coglierne immediatamente i
bisogni.
Infine, quali sono i caratteri distintivi del mondo cooperativo? Abbiamo visto che,
rispetto alle strategie, le medie imprese e le imprese cooperative perseguono
sostanzialmente le stesse direzioni, tuttavia la cooperazione presenta almeno due tratti
distintivi e peculiari (slide 19). Il primo ha a che fare, e non è una novità, con il tema del
capitale umano e della sua gestione. È ontologico, è implicito che nella cooperativa le
due sfere, la sfera dell’interesse individuale e quella dell’interesse dell’impresa, si
sommino, poiché i soci sono essi stessi fondamento della cooperativa e quindi c’è in
questo processo una sovrapposizione di interessi che non può venire meno e che
coinvolge direttamente i lavoratori nella gestione e nel buon profitto della propria
impresa. Quindi, il tema della partecipazione dei lavoratori è un tema che, in particolare
oggi, diventa di grande interesse e attualità.
Il secondo elemento ha a che fare con il tema della capitalizzazione: se guardiamo cosa è
successo nel sistema produttivo italiano in questi anni e guardiamo la domanda interna,
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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che sappiamo essere in calo, osserviamo che in realtà il calo è dato non solo e non tanto
dai consumi delle famiglie o da una minore capacità della spesa pubblica, ma
soprattutto da un mancato investimento da parte del sistema delle imprese negli
investimenti fissi lordi. Questo è un aspetto problematico, perché se facciamo una
comparazione a livello internazionale vediamo che il nostro Paese è messo meno bene
rispetto agli altri. Al contrario, dalle interviste realizzate abbiamo rilevato che le
cooperative hanno fortemente capitalizzato negli anni, si sono patrimonializzate. Questo
consente, da un lato, una maggior strutturazione della propria impresa, dall’altro, di
presentarsi al mondo del credito in modo più trasparente, infine garantisce quella che
possiamo definire la continuità di impresa, cioè il fatto che la cooperativa possa
sopravvivere rispetto ai propri soci fondatori. Termino con alcune indicazioni per il
futuro del modello cooperativo così come ci viene riconsegnato dai nostri interpellati e
lo faccio in modo un po’ provocatorio, per polarizzazioni tra la tradizione e l’innovazione,
tra ciò che è la cooperativa quando nasce e quelle che sono invece le sfide che ha
davanti a sé (slide 25).
Il primo aspetto riguarda il tema della partecipazione e quello che possiamo definire il
“solidarismo egualitario” che caratterizza la nascita dell’esperienza cooperativa. Oggi c’è
al contrario il problema di decidere velocemente e di introdurre elementi che qui
definisco di “meritocrazia solidale”, in risposta a un mercato che si sta muovendo in
modo più rapido, più veloce e che richiede quindi l’individuazione di un nuovo
equilibrio. Secondo: radicamento territoriale sì, ma anche internazionalizzazione, perché
a fronte di una domanda interna che è così bassa, è solo l’apertura ai mercati
internazionali che ci consente di acquisire nuove capacità, nuove potenzialità. Terzo: c’è
tutto il tema dei valori cooperativi e della loro trasmissione: oggi è sempre più
complicato, in particolare nei confronti delle nuove generazioni, anche perché la
trasmissione di questi valori non è più implicita nell’esperienza cooperativa. Quarto:
passare dalla logica del fare alla logica del comunicare e del rappresentare, così come ci
consegnava l’introduzione di questa mattina. Ovvero non è più sufficiente fare bene un
prodotto, ma bisogna saperlo anche comunicare e soprattutto rappresentare, quindi il
mondo della cooperazione deve cominciare a far parlare di sé all’esterno. Infine c’è il
tema dell’autonomia della cooperazione: ogni singola cooperativa si percepisce in
termini autonomi, ma un eccesso di autonomia porta all’autonomismo e all’isolamento e
quindi oggi si chiede all’associazione, a Legacoop, di funzionare di più con una
progettualità associativa forte, per aiutare le imprese cooperative a vivere in questo
mondo globalizzato.
Grazie.
GIULIANO GIUBILEI
Grazie professore, ci sono moltissimi spunti interessanti in questo studio della
Fondazione Nord Est, che magari approfondiremo. Però, visto che abbiamo qui il
segretario della CGIL, non mi posso esimere dal fare il giornalista, anche perché non è
una questione solo di attualità, ma davvero forse sono in gioco, in questi giorni, anche i
destini di buona parte delle dinamiche, delle prospettive di sviluppo per il mondo del
lavoro. Sappiamo di cosa stiamo parlando: sul tema produttività e diritti, oggi, tra poche
ore, comincia la grande scommessa del referendum a Mirafiori. Mi pare che, rispetto a
qualche giorno fa, in queste ultime ore ci sia più incertezza rispetto all’esito del
referendum e anche l’iniziativa di ieri della Fiat di promuovere assemblee dentro ai
reparti forse ne è un segnale. Comunque, al di là del risultato che ancora non possiamo
conoscere, che cosa si gioca il sindacato, in tema di produttività e soprattutto di diritti, in
questa partita?
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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SUSANNA CAMUSSO
Segretario Generale CGIL
Noi abbiamo una regola nel sistema elettorale, ovvero che nelle ultime ventiquattr’ore
prima del voto si spengono i microfoni. Forse anche i lavoratori di Mirafiori hanno diritto
a questo, a non essere sottoposti a ogni pressione possibile e immaginabile, perché una
delle tante ingiustizie di questa vertenza è che si sta caricando su dei lavoratori non solo
il tema del loro destino e della loro condizione di lavoro, ma anche una teorica,
ideologica partita, tutta simbolica, come se da lì passassero i destini del Paese. Mi
verrebbe da dire che se fosse davvero così, forse il Governo non se ne sarebbe potuto
accorgere all’ultimo minuto, schierandosi in campo il giorno prima. Se stessimo proprio
parlando del futuro dell’industrializzazione, il Governo avrebbe dovuto essere il
soggetto che definiva quegli investimenti, le loro caratteristiche e le prospettive.
C’è poi un’altra vicenda, sempre più simbolica, rispetto all’accordo Mirafiori, che è quella
che sostiene che “questa è la strada della produttività” e teorizza, pratica e scrive che c’è
un’alternativa tra il cercare produttività nello stabilimento e negare ai lavoratori la loro
libertà di opinione - di rappresentanza, di sciopero - perché per carità anche questa è
una libertà fondamentale. È una tesi che noi non condividiamo, ma devo dire che qui
siamo in una sede in cui discutiamo di realtà che non hanno mai posto un tema di
questo tipo. In più vorrei che si cominciasse a ragionare di produttività non come
problema che è risolto dall’intensificazione della prestazione produttiva dei lavoratori.
Per affermazione della Fiat, il costo del lavoro e l’attività dei lavoratori valgono sulla
produzione automobilistica l’8%; l’intensificazione dei ritmi, la riduzione delle pause,
probabilmente fanno un 2% di quell’ 8%. Lo spostamento dal trasporto su gomma al
trasposto ferroviario della produzione probabilmente determina un risparmio molto più
alto e non peggiora le condizioni di nessuno; forse migliora le condizioni di molti,
compresi di quelli che devono stare in coda in autostrada o in attesa dei carichi.
Bisognerebbe ragionare davvero su quale è il risultato dello sforzo che si chiede ai
lavoratori, perché poi quando parliamo di cooperative abbiamo un risultato che io
giudico molto importante per i lavoratori e cioè che si è affrontata la crisi senza ridurre il
personale. Però non è che quando si attua una riduzione degli orari di lavoro in settori
come le imprese di servizi non si facciano dei sacrifici, non è che la scelta che si è dovuta
fare di non avere gli stessi strumenti di ammortizzazione di altri settori non si sia tradotta
in difficoltà. Ma una cosa è proporre e realizzare sacrifici, e incontrare difficoltà rispetto
agli strumenti e alla crisi, avendo una scelta o una prospettiva, altro è l’idea “io gioco una
scommessa, non so se rimarrò, non so per quanto tempo, non so se investirò davvero in
questo paese, ma intanto sui lavoratori carico tutte le aspettative e le scommesse per
rimanere o no”. Il termine che mi viene più vicino è quello di una profonda ingiustizia e
dell’assenza di una responsabilità delle imprese rispetto al territorio e al Paese in cui
operano; è un aspetto che un Governo dovrebbe evidenziare, mentre invece dice
l’opposto.
GIULIANO GIUBILEI
Poletti, rispetto a queste tematiche il mondo della cooperazione naturalmente ha da
dire la sua. Che cosa dice?
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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GIULIANO POLETTI
Presidente Legacoop
Noi da un certo punto di vista finiamo per far la parte di quelli che dimostrano che si può
fare in un’altra maniera. Prendiamo il tema “o così o ce ne andiamo”: le cooperative non
se ne possono andare e quindi per noi l’alternativa teoricamente diventa “o così o
morte”. Se l’alternativa per quell’altro è “per non morire me ne vado”, per noi che non ce
ne possiamo andare l’alternativa è “o così o morire”. E qualcuno dovrà pure fermarsi un
attimo e dire: ma sapete che in Italia c’è un “branco di matti”, un milione e centomila
lavoratori che stanno in imprese che hanno la simpatica caratteristica di non potersi
porre questo tipo di domanda, ma che debbono affrontare il problema da un altro lato,
cioè come riuscire a costruire un’impresa, salvaguardando la sua efficienza ed efficacia, e
attraverso quale dinamica realizzarlo. Credo che questo sia un tema che va discusso; il
che non vuol dire che non esista il problema della produttività del lavoro, del come dare
più efficienza all’impresa, come competere nei mercati globali, ma che può essere solo
una parte della discussione. Perché c’è tutto il tema dell’efficacia del Paese, e
dell’efficienza e dell’efficacia dell’uso dei capitali e quindi degli investimenti.
Di fronte a tutte queste problematiche, noi affrontiamo le cose, come anche lo studio
visto prima ha ribadito, a partire da una logica di responsabilità e di compartecipazione;
allora, questi temi possono essere affrontati su un versante tutto contrattuale, più
partecipativo e cooperativo. Noi - Susanna Camusso lo sa - non è che siamo convinti che
i contratti di lavoro così come sono fatti vadano benissimo, siano perfetti e non ci sia
niente da cambiare. Siamo convinti che ci sono delle cose da cambiare e siamo pronti a
discutere come cambiarle perché il problema dei problemi - checché se ne dica - sta nel
fatto che il costo del lavoro in Italia è alto e il reddito dei lavoratori è basso. E se teniamo
questi due perni come assolutamente immodificabili, alla fine facciamo sempre a botte,
perché non ce n’è per nessuno: per l’impresa c’è il problema dell’alto costo, per il
lavoratore c’è il problema del basso reddito. Allora dobbiamo prendere un po’ di
coraggio, entrare dentro a questa dinamica, ragionare sulle forme e sulle modalità che
consentono anche di modificare qualcosa lungo la nostra storia. Perché i nostri contratti
sono anche un po’ la stratificazione storica di un impianto in cui, a ogni rinnovo,
abbiamo aggiunto qualche norma in più, qualche vincolo in più e non abbiamo mai
tolto niente di quello che storicamente avevamo messo.
Se allora affrontiamo questa dinamica in una logica di cambiamento contrattato e
possibilmente condiviso, probabilmente facciamo una cosa un po’ più utile che una
“guerra santa”, il nuovo contro il vecchio, chi è con il passato e chi con il futuro, quando
poi alla fine la sostanza rimane quella da cui siamo partiti, cioè che il lavoro costa tanto e
i lavoratori guadagnano poco. Noi cerchiamo di stare dentro a questa forbice non
assumendola come un dato assoluto e immodificabile e proviamo pian piano a
scardinarla.
GIULIANO GIUBILEI
Bene, grazie, intanto cominciamo anche a entrare nei temi della cooperazione. Ecco
professore, prima dicevo che a leggere i giornali e guardare la televisione sembra che in
questi giorni esista soltanto la Fiat. Invece questo tema del lavoro, della produttività e
dei diritti naturalmente riguarda l’intero sistema industriale italiano. Quindi, nella sua
ottica, come si affronta questa tematica in termini più generali?
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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CARLO DELL’ARINGA
Università Cattolica di Milano
È stato accennato anche dal Presidente questo tema della tenaglia tra costo del lavoro e
busta paga netta. Vero, c’è un discorso fiscale da fare e mi sembra che sia uno degli
ambiti su cui le parti sociali hanno iniziato un lavoro di collaborazione. Ecco, ogni tanto
bisognerebbe anche ricordare i terreni su cui si è avviato un lavoro proficuo, che si può
sperare vada avanti e porti a qualche risultato, perché è forse uno dei pochi tavoli
esistenti nel nostro Paese che si propone di affrontare il problema nella sua generalità
per individuare vie d’uscita valide per tutti. Anche perché non è stato ricordato un
elemento che è fin troppo banale ribadire, ma che purtroppo da economista in queste
occasioni devo sempre ricordare: che questa tenaglia stringe particolarmente in un
Paese che da dieci/quindici anni non si sviluppa. Allora, quando non c’è niente da
distribuire si scatena la lotta tra i poveri o fra le fazioni, fra i gruppi che rischiano di
diventare fazioni proprio per difendere le proprie posizioni. Fa piacere sentire le
considerazioni di Marini sul mondo delle cooperative. Anch’io sto facendo alcune
riflessioni e un po’ di studio, nell’ambito dell’attività di Legacoop Emilia Romagna,
proprio su questi temi e mi fa piacere che venga ricordato come la grande sfida anche
del mondo cooperativo sia quella: si parla di innovazione, di internazionalizzazione - non
certamente per scappare via ma per integrarsi - si parla di capitalizzazione. Queste sono
le sfide. Mi sembra che il mondo cooperativo le abbia già affrontate, anche con casi di
successo, e certamente c’è da andare avanti.
C’è però un punto che forse vale la pena riprendere e che permette di legare un po’ le
cose che abbiamo sentito sulle cooperative e quelle in cui il segretario Camusso è
completamente coinvolta. Il mondo delle cooperative deve affrontare queste sfide
facendo però salva l’ispirazione di fondo, che è quella dello scambio mutualistico basato
sulla solidarietà e sulla partecipazione, e che permette di raggiungere risultati pregevoli
anche in un periodo di crisi come questo. Ci sono problemi, messi in luce anche dalla
ricerca, derivanti dalla necessità di affrontare la sfida della competizione, che anche le
imprese cooperative, essendo inserite nel mercato dei prodotti e dei servizi come tutte
le altre, devono affrontare, facendo salvo però tutto un sistema che si basa sulla
partecipazione, sulla solidarietà e sullo scambio mutualistico. Non è una sfida da poco.
Non è, da come mi sembra di aver capito, una sfida vinta una volta per tutte, bensì una
scommessa che vi tiene impegnati. Devo dire che mi affascina molto anche come
studioso, perché ci sono questi due valori messi in gioco: la produttività e la solidarietà e
qualità dei posti di lavoro. Mi piacerebbe capire, addirittura esserci dentro e vedere
come alla fine si riesce a mettere insieme queste due cose. Perché se ci riescono le
cooperative è chiaro che il mondo privato potrebbe avere in un certo senso dei
suggerimenti, delle pratiche a cui fare riferimento.
Devo dire che in questa attività di studio sono rimasto sorpreso come ci sia pochissimo
contatto fra questo nodo della partecipazione - che mi sembra voi cominciate a porvi
perché, diventando grandi, diventando più efficienti, come Marini ha messo in luce,
avete un problema di governance, di far partecipare migliaia di soci nelle imprese anche
più espansive e innovative - e i problemi che ci sono anche nel mondo privato, perché si
parla di partecipazione anche lì. Sono due mondi che in questo momento si parlano
poco, mi sembra di aver capito. Perché è chiaro che le une sono le imprese profit e le
altre sono le imprese non profit; sono due mondi rimasti anche separati, ma guardate
che le sfide ormai sono comuni e quindi - questo è anche un mio invito - forse una
capacità maggiore di dialogo può essere utile. Dopodiché per lo sviluppo da cui dipende
un po’ tutto - la creazione di ricchezza che può dar luogo a salari più elevati, risanare il
debito pubblico, capitalizzarci - non c’è la ricetta magica, ma una lista di cose comincia a
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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esserci. Se non altro una: che le mancanze non sono dell’industria o di qualche settore
dell’auto.
Certo, qualcuno ha problemi più grandi di altri, ma si tratta di nodi di sistema,
certamente non facili da affrontare e da risolvere. Ma quando parliamo di innovazione,
di incentivi, di investimenti nella ricerca, nella qualità dei servizi pubblici, nelle
infrastrutture, nella cultura industriale, nel rispetto dei diritti di proprietà, nella lotta
all’evasione, nella lotta alla corruzione… insomma, quando si domanda ai grandi
manager delle multinazionali perché non vengono in Italia, loro in genere rispondono in
modo abbastanza rozzo e vi si può anche fare un po’ di tara. Però a volte è anche
l’impressione che conta, è la reputazione del Paese che si crea in un certo ambiente e
loro mettono in fila queste cose per spiegare perché non vengono a fare investimenti.
Poi ci lamentiamo che la Fiat è da sola, è l’unica grande impresa ed è un caso isolato. Può
darsi sia vero, come dicono i sindacati - tutti, mi sembra - che in tante altre realtà
aziendali si riescono a fare gli accordi e che sono molto più quelli che si fanno di quelli
che non si fanno, ma sembra esserci solo la Fiat. Attenzione però, perché la Fiat sarà
anche un caso isolato, ma potrebbe rappresentare un universo di casi che
sfortunatamente non abbiamo in Italia. E quindi creare anche condizioni favorevoli
perché quei casi di grandi imprese che investono in Italia aumentino e la Fiat smetta di
essere un caso isolato, potrebbe essere cosa da augurarsi.
GIULIANO GIUBILEI
Grazie professore. Allora, questo tema che mi sembra molto importante lo giro subito a
Susanna Camusso. Abbiamo detto che non c’è solo la Fiat. Però se la Fiat può diventare
un esempio, smettere di essere un caso isolato e se quel modello che vuole imporre in
Italia non possa servire magari ad altri investitori stranieri per stimolarli a investire in
Italia, allora a questo punto la lotta del sindacato potrebbe rendere più difficile questa
prospettiva.
SUSANNA CAMUSSO
Intanto partirei però dalla necessità di descrivere il nostro Paese ogni tanto per quello
che è e non per come viene rappresentato, perché c’è questa idea che la Fiat è l’unico
investitore e per questo bisogna darle campo libero, in quanto esempio per il mondo.
Abbiamo alle spalle due anni e mezzo di crisi. Molto si è parlato - giustamente lo hanno
fatto anche le associazioni di Rete Italia l’altro giorno - del punto cui è tornato il livello
dei consumi; si sta ragionando su come sta cambiando il risparmio delle famiglie, che è
sempre stato la caratteristica fondamentale di questo Paese, di quanto se ne è
consumato. Poco invece si è ragionato su come sono mancati gli investimenti e come
gran parte anche della nostra stagnazione continui a essere dovuta anche al fatto che
non sono ripartiti gli investimenti. Grande attenzione ai consumi, scarsa attenzione
invece alla struttura e al suo rilancio. Eppure si potrebbe fare questo ragionamento con
molta comodità, perché basta prendere regolarmente i dati della produzione industriale
e guardare ciò che è destinato a beni durevoli e a beni di investimento rispetto a ciò che
va a consumo.
Possiamo dire con serenità che questo Governo non ha fatto nulla per incentivare gli
investimenti, o l’innovazione, avendo magari un’idea di Paese in prospettiva e non
limitandosi ad accompagnare o a non gestire la crisi. Ma se guardiamo quei dati e
guardiamo chi ha investito, oltre a trovare una parte del mondo produttivo cooperativo,
troviamo la media impresa di questo Paese che ha continuato a investire, che spesso è
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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produttore di tecnologie d’innovazione, che continua a essere presente nel nostro
territorio e ad avere processi di internazionalizzazione progressiva, che applica i
contratti, che fa gli accordi sindacali, che ha le retribuzioni mediamente migliori di quelle
delle grandi imprese dell’auto e così via.
Allora, perché non parliamo dei modelli positivi e ci immaginiamo ogni volta che
bisogna partire dal fatto che c’è un colpevole e chi ha comunque ragione? Possiamo
discutere serenamente sul fatto che in questo momento la Fiat sta perdendo quote di
mercato e i suoi competitori europei le stanno acquisendo perché hanno presentato
durante la crisi nuovi modelli, mentre noi non sappiamo ancora se ci sono nuovi modelli
Fiat? Ogni tanto bisognerebbe parlare non delle colpe dei lavoratori, che non si capisce
perché diventino il punto fondamentale… Ma se Fiat non vende le macchine, forse c’è
qualcosa che non sta nella responsabilità dei dieci minuti di pausa, ma nella scelta che
ha fatto o non fatto di investire e di porsi in concorrenza con gli altri, avendo anche il
coraggio di fare investimenti in mezzo alla crisi. Queste mi paiono le domande vere,
perché se si dice che chi sta sopravvivendo alla crisi è chi ha investito prima, chi ha
innovato, chi ha continuato a pensare ai prodotti che metteva sul mercato nonostante la
crisi, bene, la sfida è questa. E lo è per un’azienda nazionale, come per un’azienda
multinazionale. E vorrei anche dire che ci sono molte imprese, anche grandi, nel nostro
Paese che hanno continuato a investire e nessuna di queste ci ha chiesto di cambiare le
regole della democrazia in azienda e le condizioni di lavoro. Forse quando si parla dei
paradigmi bisognerebbe parlarne con un’attenzione un po’ diversa e anche senza dare
per scontato che c’è chi è comunque bravissimo e ha fatto tutto e chi ha la colpa delle
situazioni. Diceva giustamente il Presidente Poletti, poco fa, cose assolutamente
evidenti: noi sui contratti dobbiamo ragionare. Bisogna semplificarli, bisogna cambiare il
sistema fiscale di questo Paese, perché è un sistema ormai sempre più esplicitamente
favorevole alla rendita e alla finanza e sfavorevole al lavoro e all’impresa. Tutte queste
cose vanno fatte, però forse bisogna ogni tanto porsi la domanda se quello che urla di
più ha ragione oppure se anche lui deve misurarsi con qualche errore di strategia e
qualche problema che non si può poi scaricare sul Paese.
GIULIANO GIUBILEI
Tra l’altro lo stesso Presidente della Repubblica ha ricordato a Marchionne che la
produttività non dipende soltanto dal lavoro degli operai, che ci sono tante altre
componenti che la determinano…
SUSANNA CAMUSSO
È lo sforzo che stiamo facendo al tavolo delle parti sociali, che anche il Presidente
conosce bene. È un tavolo anche un po’ complicato, perché le associazioni d’impresa
sono un numero infinito e i sindacati sono pluralisti pure loro, e avere tutti la stessa
lettura di quello che sta succedendo è una fatica. Quando però abbiamo iniziato a
discutere anche di quale agenda stabilire sulla produttività, per vedere come affrontarla,
è immediatamente emerso che c’è una relazione tra la produttività del sistema e ciò che
si può fare dentro all’impresa, ma c’è anche una responsabilità delle imprese. Poi
ovviamente bisogna parlare anche del lavoro, ma se un’impresa non fa ricerca, non
innova, non ha nuovi prodotti, la sua quota di responsabilità rispetto alla produttività
non viene esercitata. Non si può sempre trovare un solo punto.
Questo mi pare il grande tema, che appunto il sistema delle imprese e il sistema della
rappresentanza sindacale stanno provando ad affrontare, con tutta la fatica che questo
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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richiede, ma non mi pare invece che lo affronti il Paese e, mi si permetta, non lo affronta
un’informazione che si accorge del lavoro solo quando lo può trasformare in un ring. Se
c’è il ring sul lavoro, allora si parla tutti i giorni del lavoro, di come è fatto questo Paese,
della sua quotidianità e delle sue difficoltà. Altrimenti invece non si riesce mai a parlarne.
GIULIANO GIUBILEI
Si, questo è il limite dell’informazione, perché stavo proprio dicendo che effettivamente
anche noi rappresentiamo la vicenda Fiat solo dalla parte del lavoro, della divisione tra la
Fiom e la CGIL. Però è una divisione che in effetti esiste in questi giorni ai cancelli di
Mirafiori, vi sono stati anche momenti poco edificanti. Però pochi giornali, nel complesso
del sistema dell’informazione, si sono chiesti perché la Fiat non vende più le sue auto.
Quando c’è da fare l’autocritica sulla stampa io ci sto sempre, perché effettivamente
semplifichiamo e banalizziamo sempre tutto. Invece, volevo chiedere a Poletti: la
Camusso parlava di modelli positivi che ci sono nel mondo delle imprese e questa
ricerca della Fondazione Nord Est ci dice, in pratica, che le aziende cooperative
naturalmente finiscono per rispondere alle regole di mercato e quindi per assomigliare
alle altre aziende, perlomeno alle medie aziende. Allora, quale è ancora la caratteristica
distintiva del modello cooperativo rispetto al modello aziendale per così dire normale?
GIULIANO POLETTI
È del tutto evidente che il nostro tratto distintivo è la responsabilità del socio lavoratore,
del socio utente che dentro all’azienda cooperativa ha la possibilità di esercitare il
proprio ruolo in una maniera attiva diversa da quella che può essere esercitata in
un’altra condizione. Su questo, non è che il mondo cooperativo possa in qualche modo
sentirsi fuori dalla discussione, perché anche la ricerca ci dice che alcuni dei
fondamentali su cui si è costruita la storia dell’impresa cooperativa entrano in tensione
quando cambiano i mercati, quando cambiano i tempi della decisione, quando
cambiano i modelli organizzativi, quando cambiano le dimensioni. E il rischio è - questo
è un grande problema - che ci sia una monocultura. Noi da anni stiamo battendo il
chiodo, e continueremo a farlo con forza, sul tema del valore positivo del pluralismo
delle forme d’impresa. Perché se si afferma l’idea del pluralismo delle forme d’impresa si
afferma anche l’idea di un pluralismo delle modalità d’essere delle relazioni industriali,
del ruolo del lavoratore nell’impresa, della relazione tra l’impresa, il contesto e il
territorio. Perché le ricette non ci sono, non c’è l’impresa grande che va bene e la piccola
che va male. Adesso siamo di fronte a dei processi di deindustrializzazione più forti di
quelli che abbiamo conosciuto in molte altre fasi, perché le crisi in questi tre anni ci sono
state, ci sono dei pezzi di Italia dove ci sono chilometri quadrati di capannoni vuoti. Cosa
ce ne facciamo? Domanda: c’è qualcuno che pensa che le ragioni per le quali le imprese
che stavano in quei capannoni hanno chiuso o se ne sono andate saranno ragioni
sufficienti perché nessuno venga a rioccupare o reindustrializzare quei capannoni? Ma
se è così, cosa dobbiamo fare, allargare le braccia e dire “ormai così è andata e non si
può fare niente”?
C’è una grande questione di democrazia, una grande questione di partecipazione, di
rappresentanza. Lo dico a Susanna Camusso che lo sa meglio di me. Quando un
lavoratore, per far valere il rischio che corre di perdere il posto di lavoro, ha come ultima
alternativa l’andare in cima ad una gru, ci dobbiamo chiedere che cosa è successo. Dieci
anni fa non andava in cima alla gru. Dieci, vent’anni fa trovava altri cento lavoratori che
come lui avevano quel problema e insieme si organizzavano sul piano sociale per
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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cercare di combattere quella situazione e trovare una risposta. Adesso, se non
drammatizzi la sofferenza non ottieni niente e alla fine il posto te lo danno perché sei
andato in televisione, non perché hai diritto ad avere un posto di lavoro perché hai
organizzato una società che produce i posti di lavoro; ti sei salvato perché sei andato
all’Asinara e sei stato chiuso quattordici mesi dentro al carcere dell’Asinara. Ma c’è
qualcuno che pensa che possiamo prendere i 500, 600, 700mila lavoratori che hanno
perso un posto in questi 24 mesi e chiuderli tutti all’Asinara? C’è qualcuno che comincia
a pensare cosa diavolo è capitato?
Qui c’è un problema di democrazia, c’è un problema di rappresentanza, quindi è un
problema anche per noi, per le organizzazioni che rappresentano le imprese e i
lavoratori. Dobbiamo ricostruire delle logiche, delle modalità per cui un lavoratore che
sta dentro un’organizzazione si senta effettivamente rappresentato. È una questione
complicata, ma abbiamo bisogno di rappresentarla, perché se non la affrontiamo vuol
dire che ognuno si sentirà da solo. Se si sente da solo, si arrende - nella logica del “non ci
si può fare niente” - oppure si tira su le maniche e ci prova in qualche modo. E fioriscono
le partite iva e qualcuno dice “bene che fioriscano le partite iva”, ma io dico “occhio agli
scogli”: una parte importante di quelle partite iva sono lavoratori a cui l’impresa ha detto
“il lavoro per te non ce l’ho più, magari ce l’ho per tre giorni alla settimana o per due, fai
una cosa, prenditi la partita iva, io ti faccio lavorare due giorni e poi tu, con la tua partita
iva, provi ad andare a lavorare un altro giorno da un’altra parte”. Siamo sicuri che è una
gran bella cosa rispetto al fatto che quel signore dodici mesi prima aveva un posto di
lavoro normale?
Io non lo drammatizzo, né lo considero un disastro, però lo leggo per quello che è: faccio
fatica a dire che è una grande voglia di fare impresa, perché quelli che vogliono fare
impresa, secondo me, in genere non ci arrivano per quella strada. Ritengo che quello
della “disperazione”, di chi si arrampica sulla gru, sia un tema rivolto a tutti quanti: al
sistema della rappresentanza, a partire dalla politica per finire al sindacato, passando
dalle organizzazioni di rappresentanza, che devono immaginare modalità efficaci in
forza delle quali si possano costruire percorsi dove siano individuabili i passaggi di
responsabilità, gli obiettivi e la ricerca dei risultati. Non è semplice, mi rendo conto, ma
se ci arrendiamo a questo passaggio probabilmente andiamo incontro a giorni molto
brutti. Il mondo cooperativo questo tema lo sente in maniera particolarmente rilevante,
perché parte dalla responsabilità del soggetto, dell’individuo, del lavoratore, dentro
all’azienda cooperativa, come uno dei suoi punti di forza e se viene “assoggettato a crisi”
perde una delle sue leve fondamentali.
Ritengo che noi dobbiamo avere questa consapevolezza, avere la disponibilità a
metterci in discussione, ma non partire dall’idea che dal momento che siamo
cooperativa va tutto bene; al contrario, abbiamo di fronte delle sfide persino più
complicate di altri e in più abbiamo il problema di tenere insieme l’eccellenza
imprenditoriale con la buona qualità cooperativa e questo vale anche durante la crisi.
Perché la crisi non ci fa lo sconto, né possiamo accettare l’idea che siccome c’è la crisi
possiamo essere un po’ meno democratici, un po’ meno partecipati, un po’ meno
trasparenti. Noi non siamo un Marchionne un po’ più educato, siamo un’altra cosa;
dobbiamo continuare a pensare che realizziamo una dinamica che parte da un altro
punto di partenza e che probabilmente arriverà da un’altra parte. Questa è la
scommessa e il professore fa una precisazione a mio avviso molto importante: noi
abbiamo bisogno di costruire un dialogo tra posizioni diverse, proprio perché non
possiamo copiare gli altri, o ridurci a essere quelli che prendono “il modello Marchionne”
- per usare lo stereotipo del giorno - e gli danno una riverniciatina democratica
cooperativa. Noi dobbiamo costruirci le nostre dinamiche, la nostra cultura e
confrontarla; dobbiamo competere con gli altri modelli di impresa. C’è il modello
cooperativo e c’ è quello dell’impresa di capitali; stanno sul mercato e vengono scelti per
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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la loro efficienza, la loro efficacia, la loro capacità di competere. Se la mettiamo in questi
termini, probabilmente siamo un valore per questa Nazione: credo che questo tema della partecipazione e del lavoro - sia per l’impresa cooperativa uno dei terreni dove si
misura la sua specificità e il suo valore sul piano nazionale.
GIULIANO GIUBILEI
Eppure, prof. Marini, dall’inchiesta, dal vostro studio, al di là di tanti aspetti interessanti, è
venuto fuori che comunque le imprese cooperative nel complesso hanno retto meglio di
altre alla crisi. Se però, come diceva Poletti, non è perché che le cooperative hanno avuto
sconti, allora come hanno fatto, che cosa hanno messo in campo per reggere meglio alle
sfide della crisi?
DANIELE MARINI
Al di là dell’aspetto della gestione del personale, dove, come abbiamo visto ed è noto,
hanno saputo reggere meglio l’occupazione, l’elemento a mio modo di vedere cruciale è
legato alla questione della capitalizzazione delle imprese cooperative, alla loro
patrimonializzazione, cioè la loro solidità economica. Perché se un soggetto ha
accumulato nel tempo una sorta di salvagente, è chiaro che quando la situazione
diventa critica può utilizzare quel salvagente per affrontare meglio la crisi. Questo, unito
alle strategie delle imprese così come le abbiamo viste, molto simili a quelle delle medie
imprese, che sono i driver dello sviluppo, è quell’elemento in più che può aver
consentito al sistema cooperativo di reggere meglio.
Volevo però su questo dare alcune sollecitazioni rispetto a quanto è stato detto, che mi
trova molto d’accordo. Primo: mi piacerebbe che passasse il messaggio che quello che
stiamo vivendo è una fase di cambiamento epocale. Questo significa che dobbiamo
assumere schemi cognitivi e interpretativi diversi da prima, cioè che non c’è più il bianco
e il nero, non c’è più uno sviluppo lineare in un senso o nell’altro. Dovremmo, invece,
assumere l’ottica, l’occhio, le lenti, diciamo così, del molteplice, o del paradossale, se
volete. Non si può mettere in contrapposizione la localizzazione territoriale con
l’internazionalizzazione, perché questo dipende dai settori, dalle imprese. La crisi cosa
fa? Mette appunto in crisi le vecchie categorie, la contrapposizione tra piccola e grande
impresa, la distinzione tra settori più produttivi di altri. Richiede cioè anche un
aggiornamento dei linguaggi, dei codici e del modo in cui vediamo le cose.
Sono assolutamente d’accordo con la Camusso che - per riprendere un vecchio detto
indiano - noi siamo attenti all’albero che cade ma non vediamo l’erba che cresce”. L’erba
che cresce in realtà, se la mettiamo insieme, è molto più grande dell’albero che cade.
Allora, tutte le buone pratiche che esistono, a diversi livelli, in diversi settori, nelle medie
imprese che sono state citate - ma penso per esempio anche all’area “nordestina” del
sistema delle imprese, che è fatta prevalentemente da piccole imprese, dove nasce tutto
il sistema della bilateralità fra lavoratori e associazioni delle imprese, che ha dato grandi
frutti e grandi sviluppi negli anni precedenti - tutte queste altre esperienze, e altri modi
di vedere vanno assunti, presi in considerazione. Cioè, in altri termini, bisogna sviluppare
quello che i formatori chiamano il pensiero laterale. Cioè, di fronte a un problema non si
può continuare a sbattervi contro soltanto da quel punto di vista, bisogna guardare
anche le altre soluzioni.
Termino con l’ultima indicazione: qui il problema vero è che dobbiamo imparare a
sviluppare un pensiero complesso della progettazione dello sviluppo. La produttività
non è soltanto dentro all’impresa, ma sta anche fuori dall’impresa, e una delle cose che ci
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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raccontano le imprese, sia le cooperative sia anche quelle private del mondo industriale,
è che i problemi cominciano fuori dai cancelli: lo stato delle infrastrutture, il rapporto
con il sistema della formazione, il supporto alle imprese nell’internazionalizzazione, il
livello della domanda interna.
Un’ultima considerazione: facendo l’analisi congiunturale trimestrale sulle imprese, negli
ultimi due anni, dal 2008 all’ultimo trimestre, il portafoglio ordini delle imprese, della
metà delle imprese, risulta non più lungo di un mese. Nell’ultimo trimestre questo dato
tende un po’ a scendere e arriva intorno al 40%. Allora, se un’impresa, un sistema
produttivo, ha una prospettiva che non supera il mese, è difficile fare investimenti, fare
occupazione o innovazione, perché non so cosa mi succederà il prossimo mese. Se a
questo uniamo un contesto politico - nel senso generale del termine di sistema Paese che è sostanzialmente bloccato, voi capite bene che solo azioni di sistema possono
aiutare a riprendere lo sviluppo economico.
GIULIANO GIUBILEI
Grazie. prof. Dell’Aringa, prima vedevo che Lei annuiva mentre Poletti parlava del
dialogo tra modelli di imprese, diciamo tra il modello di impresa “normale” e quello
cooperativo. Ritornando al tema del nostro dibattito - produttività e diritti - c’è un
problema di diritti anche nel mondo della cooperazione? Poletti diceva che la crisi non fa
sconti, ma invece ci può essere un approccio diverso, proprio perché il lavoratore spesso
è socio, perché poi le cooperative si muovono in ambiti diciamo economici complessi, ci
può essere uno sconto invece sul tema dei diritti che genera la necessità di una
riflessione, di una discussione?
CARLO DELL’ARINGA
E se invece di diritti parlassimo di sacrifici? Qui lo scambio mutualistico è nel bene e nel
male, come nel matrimonio. Non è un caso: quando si dice che si è resistito alla crisi è
perché, oltre agli istituti che nel nostro paese funzionano bene come in altri - che hanno
permesso di reggere sul fronte del lavoro alla crisi, anche grazie all’impegno delle parti
sociali e delle Regioni, oltre che del Governo - le cooperative, soprattutto quelle di lavoro
ma non solo, hanno avuto al loro interno degli ammortizzatori fortissimi. È la solidarietà,
che si manifesta soprattutto nei momenti di difficoltà, è la condivisione. Nelle imprese
capitalistiche si chiamerebbe capitalismo un po’ più condiviso, un po’ più partecipato.
Ecco perché loro hanno una sfida ancora più forte, come ha detto anche il presidente.
Perché gli obiettivi sono ancora più ambiziosi. E quello che io non credo è quello che
qualcuno potrebbe dire, cioè “siamo due mondi diversi, là c’è il profit e qui non c’è il
profit”, perché le sfide dei mercati sono uguali e l’esigenza dei valori della
rappresentanza, della democrazia, della solidarietà non sono da una parte e non invece
dall’altra. È per questo che credo che il mondo cooperativo sia un osservatorio, una
palestra interessantissima: nelle grandi cooperative di consumo non c’è un problema di
partecipazione dei lavoratori? E lo stanno affrontando. Come lo stanno affrontando?
Rappresenta una cartina di tornasole del successo del modello in questi momenti e lì
bisogna guardare secondo me. Non voglio fare una difesa d’ufficio di questo mondo, ma
lo vedo molto stressato, con qualche indizio talvolta di lacerazione, ma con una forte
capacità di reazione radicata nella storia che si vuole preservare.
Quindi, Lei mi chiede se hanno dovuto rinunciare a dei diritti. Non credo, ma quasi per
definizione, perché quelli sono l’ultima, proprio l’ultima cosa cui si può rinunciare,
perché prima c’è tutto il resto, non c’è nemmeno la discussione su questo. Poi bisogna
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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vedere se sono stati lesi i diritti in casa Fiat, ma non sono io a dirlo fra gli
interlocutori…Ma, posso dire solo una cosa?
Io non faccio parte, lo si sa, di quella corrente, che fra l’altro si sta ingrossando, di chi dice
che l’Italia va male perché il mercato del lavoro è rigido e le relazioni industriali non
funzionano. È chiaro, lo dico sempre: manteniamo distinte le cose. La ricerca e
l’innovazione non dipendono dai sindacati dei lavoratori - per rimanere all’interno
dell’impresa - ma è soprattutto quello che manca all’esterno che condiziona anche
questo. Il segretario Camusso sa bene che anche se il lavoro conta il 5% quando è
compenetrato con il capitale nei turni, nelle pause, nell’orario di lavoro, quando non
funziona uno non funziona neanche l’altro o non funziona secondo le aspettative di chi
deve investire. Ci sono delle complementarietà che non vanno dimenticate, dopodiché è
chiaro che tutto l’aspetto della ricerca e dell’innovazione rimane in capo soprattutto a
chi ha la responsabilità imprenditoriale, di questo non c’è dubbio. Bisogna anche
riconoscere che, da qualche anno a questa parte, esistono divisioni nel sistema delle
relazioni industriali, soprattutto all’interno di quelli che dovrebbero essere i gruppi
contrapposti. Perché anche dalla parte degli imprenditori ci sono visioni diverse; talvolta
non emergono allo scoperto, perché loro sono più in grado di mantenere i dibattiti al
loro interno, ma ci sono diverse opinioni anche a proposito di quello che sta
succedendo.
Ora, c’è un ricompattamento che deve essere realizzato all’interno: riprendere le fila da
quello che era il 2008, da un accordo che si era cominciato a fare all’interno del
sindacato. Perché quando si dice che il caso Marchionne non è isolato, lo è anche per
questo aspetto, perché in qualche misura è frutto anche di un sistema di relazioni
industriali che ha visto un contratto dei metalmeccanici una volta firmato e una volta
non firmato, un accordo sulle regole contrattuali dei contratti collettivi firmato da
qualcuno e non dall’altro, si doveva fare l’accordo sulla rappresentanza e poi non si è
fatto. Poi l’incidente può succedere, quando il contesto è di questo tipo, ed è successo
un incidente grosso.
Allora, il mio invito è, guardando cosa succede nel mondo cooperativo, anche dagli
incidenti - manifesto la mia origine cattolica - la Provvidenza potrebbe spingere a
trovare qualche soluzione che altrimenti forse non si sarebbe trovata, per atteggiamento
e comportamento un po’ tradizionalista delle parti in gioco.
GIULIANO GIUBILEI
Camusso, giro questa riflessione del professore che tocca anche i temi della
rappresentanza e del dopo referendum, se vogliamo guardare a dopodomani, quando
usciranno i risultati. Che cosa pensa di fare il sindacato su questo?
SUSANNA CAMUSSO
Questi poveri lavoratori di Mirafiori bisogna proprio sempre metterli in mezzo… Io credo
che in realtà la domanda che dobbiamo farci è un po’ più complicata. Poi le soluzioni
non sono difficili, se si ragiona su qual è l’origine del problema. Intanto, in questi due
anni e mezzo sono successe nel mondo delle cose straordinarie, e il termine
straordinario non ha di per sé un’accezione positiva. La crisi avrebbe potuto produrre
una grandissima discussione sulla trasformazione dei sistemi; continuiamo a dirci che
siamo di fronte a un cambiamento epocale. Io sostengo che, mentre ci domandiamo
qual è il cambiamento epocale, c’è chi sta rimettendo le cose esattamente come prima.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Questa è una prima domanda che bisogna farsi, perché se si rimettono le cose come
prima, ritengo che vi sia un bene straordinario che si chiama democrazia che viene
ridotto da questa scelta. La Grecia è lì a dimostrarcelo: se l’idea è che finanza e
speculazione sono i motori che determinano tutto, i cittadini greci sono stati privati di
una cosa fondamentale, cioè del diritto di decidere delle politiche del loro Governo,
perché le ha decise la comunità senza nessuna dinamica democratica. Non vorrei che il
sistema produttivo diventasse la stessa cosa e che il tema non fosse più che cosa fai,
come lo fai, quanto lavori e così via, ma che per far funzionare quel modello tu sia come
una caserma. Una caserma non è un luogo plurale, come è noto, non è una comunità di
persone. Il mondo democratico deve essere un luogo “plurale”, non perché puoi
lavorare in 27 modi diversi alla catena di montaggio, per carità, è chiaro che ci sono delle
regole, ma avrai il diritto di mantenere una tua opinione differente, avrai il diritto, nel
momento in cui non ce la fai più, di dire che bisogna cambiare. Avremo il diritto di dire
che se c’è questa così pesante compenetrazione tra le condizioni di lavoro e le scelte che
si fanno, forse a quelle scelte bisognerebbe partecipare.
Sono tutte grandi domande di democrazia e non è banale il contesto che c’è intorno,
perché l’idea che tutto debba essere deciso in cinque minuti… Si chiede ai lavoratori di
decidere in cinque minuti delle loro condizioni, però, quando poi interessa, si tratta per
due mesi l’acquisizione della Opel, senza riuscirci. Ci sono perennemente due metri e
due misure, degli argomenti che vengono utilizzati per ridurre il tasso di partecipazione,
di democrazia. Il tempo della decisione non può diventare la variabile più importante del
processo democratico di decisione, perché altrimenti non ci saranno più le
organizzazioni di massa. Ma se non ci sono le organizzazioni di massa e di
rappresentanza, c’è una lesione democratica, non c’è qualcosa che funziona meglio.
Io credo che questo sia importante e il nostro sistema questa domanda deve porsela:
perché non a caso nel 2009 noi abbiamo detto - lo abbiamo detto anche a Poletti - che
non è la stessa cosa un contratto, un accordo separato o un sistema di regole separato.
Perché se si strappa sulle regole non c’è più il fondamento dei comportamenti reciproci.
Ed è così vero che una parte del sistema, a partire da quello cooperativo, non ha poi dato
seguito a un modello separato di relazioni; ha provato a dire “va bene, c’è quella roba lì e
proviamo a fare delle altre cose”. E gran parte delle categorie industriali hanno fatto
esattamente la stessa operazione. Perché lì è il vulnus, perché se sei un sistema plurale,
un sistema plurale deve trovare come funzionare. Se non lo fa non è più efficiente; è
meno democratico ed è anche un po’ meno efficiente, perché moltiplica gli strappi e
invece di discutere di cose positive deve inseguirsi rispetto alle questioni negative.
Il tema è davvero di grande spessore e la rappresentanza sindacale non è l’ubbia di
qualche dirigente delle organizzazioni; è sapere che anche nei luoghi di lavoro funziona
una democrazia e la democrazia funziona se il lavoratore può scegliere, perché se non
può scegliere, se sceglie l’imprenditore per lui, credo che ci sia un vulnus democratico.
Di questo stiamo in realtà parlando e discutendo, ed è ingiusto scaricare tutto questo su
5.000 lavoratori che contemporaneamente hanno anche il dubbio che quella scelta
determini che abbiano un lavoro o meno, è il segno di un Paese che si sta facendo
rotolare e non prova a ragionare di sé. L’esperienza cooperativa, ma anche l’esperienza
che noi abbiamo fatto nel settore dove si sono fatti i contratti - quella dialettica che
appare tutta in casa sindacale e che invece c’è esattamente anche da tutti gli altri - pone
questa domanda: c’è una necessità per cui bisogna ridurre il tasso di libertà e di
democrazia delle persone? C’è maggiore efficienza del capitalismo se c’è un tasso
ridotto di democrazia e di partecipazione? Credo che non sia così, che sia possibile un
altro modello. Mi pare che il mondo abbia ricominciato a tornare alla finanziarizzazione,
alla svalorizzazione del lavoro, senza colpo ferire e senza dichiararlo, ma il tema è che se
pensiamo che bisogna avere un modello di sviluppo diverso, questo passa non dalle
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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decisioni autoritarie ma dall’attenzione ai processi di opinione collettivi e dal fatto che si
sviluppi maggiore partecipazione.
La discussione in questa casa ovviamente è difficile, ma i consumi della distribuzione
cooperativa e quelli della distribuzione privata sono gli stessi? Credo che non siano
esattamente gli stessi. E allora, perché non si provano a fare un po’ di ragionamenti?
Sarebbe proprio opportuno, perché la sovrapposizione e la stratificazione sociale sono
sempre più complesse, non solo perché bisogna andare sulle gru, all’Asinara o così via,
ma perché le persone di fronte a una crisi così profonda si danno delle risposte e
cambiano i comportamenti. Se la rappresentanza non è in grado di leggerli, se il
Governo di un Paese ignora tutto questo, perché in altro affaccendato - insisto - il vero
tema è quello del vulnus democratico che si sta verificando. E io resto convinta - credo
che sia in realtà il tema che poneva anche il presidente Poletti prima - che le caserme
non siano più efficienti, anzi. Se poi parliamo di questo Paese, potremmo scoprire che
sono anche molto poco efficienti, perché rinunciano alla cosa fondamentale, che è il
contributo delle persone, il poter partecipare, è quella cosa che il lavoro cooperativo, ma
anche il lavoro privato di questo Paese, conosce bene: che la grande industria
manifatturiera e la grande industria di produzione nascono, certo, dalle scelte fatte, ma
anche dalle competenze dei lavoratori progressivamente introiettati dentro la
progettazione, l’innovazione e la ricerca. Esattamente l’opposto di una caserma dove
devi irrigidire tutto.
GIULIANO GIUBILEI
Poletti, in conclusione, la ricerca indicava tre o quattro obiettivi per il futuro delle
cooperative: la scommessa, la velocità decisionale e la meritocrazia - che forse è un
valore, diciamo, non secondario - l’internazionalizzazione, il ricambio generazionale e
altre cose. Ecco, rispetto a quei capannoni vuoti di cui parlava prima, la capacità del
movimento cooperativo di stare sul territorio, di affrontare le sfide, può essere in grado
di fare ritornare a lavorare, non dico tutti, ma almeno alcuni di quei capannoni?
GIULIANO POLETTI
Tutti no, qualcuno sì, anche per una condizione che ritengo vada considerata con molta
attenzione. Questa crisi ha questa caratteristica generale, cioè stavolta non abbiamo
pescato un settore che è andato in crisi. In passato eravamo abituati a crisi più o meno
cicliche e più o meno settoriali, per cui entrava in crisi il settore dell’edilizia, ma la
metalmeccanica, l’elettronica, i servizi, il resto, insomma, funzionava. Era un’economia
che aveva una dinamica che segnava il passo su un certo punto, ma se tu eri un
lavoratore, un imprenditore di quel settore guardavi il resto e dicevi “adesso passa e ci
riattacchiamo alla ripresa”. Adesso ti guardi in giro e quelli di fianco stanno come te o
peggio di te. Quindi l’idea “qui non ne veniamo fuori e quindi non c’è niente da fare” è
un rischio molto forte; è il tema del portafoglio dell’impresa a quaranta giorni, è il tema
del “non investo perché non so cosa succederà”. Ma se non investi sei dentro al ciclo che
tende a rendere peggiore la situazione.
Bene, io credo che oggi il mondo cooperativo possa essere una - certamente non l’unica
e probabilmente neanche la più importante - delle leve, uno dei motori che possono
pian piano ricostruire nuove opportunità di lavoro, nuove possibilità. Teniamo conto che
chi ha costruito, ad esempio, le prime cooperative tra consumatori non erano quelli che
avevano i soldi per fare la spesa, erano quelli che i soldi non ce li avevano. Siamo cioè
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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partiti da dei bisogni che non erano domanda, perché la gente non aveva i soldi per
avere domanda; il mercato risponde alla domanda, non ai bisogni.
Noi storicamente siamo riusciti a prendere dei bisogni, metterli insieme, organizzarli,
farli diventare domanda e, dopo che sono diventati domanda, anche costruire la
risposta: la cooperazione tra consumatori, ma anche la cooperazione tra lavoratori, la
cooperazione tra artigiani, tra commercianti, tutto questo tipo di risposte. Io credo che
siamo di nuovo lì: abbiamo bisogno di fare un lavoro, anche molto sofisticato da un
certo punto di vista, molto quotidiano, molto faticoso, di andare a scavare all’interno
delle pieghe della società e dell’economia, per tirar fuori tutti quei pezzi di lavoro, di
economia, di impresa che non riescono a emergere, per farli diventare mestieri, lavoro,
impresa e aiutare questa ripresa. Saranno piccoli? Sì, saranno piccoli. Ma - lo dicevamo
prima - se l’azienda che stava in quel capannone ha chiuso, non ne arriverà una dal cielo
che va lì a fare le stesse cose. Quindi bisogna inventarsene un’altra, bisogna assumere
un’altra logica. E questo può accadere soprattutto se il cittadino utente, o il cittadino
lavoratore, decide di mettersi sulle spalle questa responsabilità e comincia a costruire, o
a ricostruire, questa dinamica. Bene, credo che questo sia un tema importante per il
mondo cooperativo, che è fatto quindi da due grandi pezzi: la cooperazione che c’è, che
deve innovare, nazionalizzarsi, crescere, essere competitiva, ma c’è anche la
cooperazione che non c’è, quella che bisogna costruire, che bisogna far nascere.
Noi parliamo della gente che ha perso un posto di lavoro. Ma qualcuno ha fatto il conto
di quanti giovani neolaureati in questi tre anni hanno finito l’università e non sanno
dove sbattere la testa, perché il mercato del lavoro è un muro che non si scala? Bene, noi
abbiamo cominciato a costruire le cooperative che abbiamo definito “del sapere”, le
cooperative tra professionisti. Perché? Perché fino a ieri avevamo la cooperativa degli
architetti, la cooperativa degli ingegneri, la cooperativa dei giornalisti, la cooperativa dei
medici; oggi proviamo a costruire una cooperativa multi-professionale, dove
l’integrazione delle professioni dà un prodotto nuovo. Ieri l’architetto ci dava il disegno
dell’architetto, l’ingegnere la progettazione dell’ingegnere; domani, la cooperativa
multidisciplinare darà un prodotto complesso a un’impresa e a una società che hanno
bisogno di quello.
Bisogna avere la voglia, la pazienza, di continuare a costruire, questo è quanto, secondo
me, bisogna fare. E da questo punto di vista, noi andremo al Congresso tra un paio di
mesi. Abbiamo preparato un manifesto che recita “Cooperativa Italia, l’impresa in
armonia con il futuro”. Qualcuno ci ha guardato e ha detto “ma siete diventati matti? C’è
Fabbrica Italia, c’è il Partito Italia…” Ebbene, sì: noi abbiamo la pretesa di dire che, così
come c’è Impresa Italia, sarebbe bene che ci fosse Cooperativa Italia, perché c’è bisogno
di più cooperazione in questa Italia. Questo è il tema di fondo: noi ci mettiamo la faccia,
ci proviamo. Faremo un metro, tre metri, cinque metri, non lo so, ma non rinunciamo a
provarci. Questo è quello che vogliamo dire, dalle giornate che stiamo facendo e dalle
cose che faremo nei prossimi mesi, proprio con questa idea molto chiara in testa: questo
Paese ha bisogno di cooperazione, da tutti i punti di vista. Ha bisogno non solo di
cooperative, ma di cooperazione.
GIULIANO GIUBILEI
Ecco, a questo proposito voi farete una cosa storica, diciamo: unirete le “cooperative
rosse” - per dirla sinteticamente - e le “cooperative bianche”…
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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GIULIANO POLETTI
Sì, dopo novant’anni di divisione, il 27 gennaio, ci sarà l’atto formale di sottoscrizione
dell’accordo per la costruzione dell’Alleanza delle cooperative italiane, che vede AGCI,
Confcooperative e Legacoop costituire un coordinamento stabile della propria attività di
rappresentanza.
Credo che sia un segno di quella cooperazione che è necessaria; intanto cominciamo a
cooperare dove possiamo decidere noi. Perché l’Italia è un Paese simpatico: sono tutti in
grado di spiegare agli altri cosa debbono fare, ma mai che ci sia qualcuno che dice “io
faccio così”. Noi abbiamo deciso di fare il contrario. Non chiederemo niente a nessuno,
ma diremo “noi abbiamo intenzione di fare questo per il lavoro, questo per la
cooperazione in questo Paese”. Perché pensiamo che in questo momento serva dire
quello che si fa, qual è la responsabilità che ci si assume, cosa si propone agli altri. Perchè
fare la lista dei guai altrui, elencare quello che dovrebbero fare, insegnare il mestiere agli
altri… è uno sport particolarmente diffuso e, se ci impegniamo, siamo capaci anche noi.
GIULIANO GIUBILEI
Va bene, grazie Poletti, grazie Susanna Camusso, grazie prof. Dell’Aringa e prof. Marini. Si
chiude questa prima sessione di questa giornata. Subito dopo ne inizierà una seconda
che è molto importante, a proposito di legami con il territorio e il titolo è “Le cooperative
di comunità: un’opportunità per territori e persone”. Grazie e buon proseguimento dei
lavori.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Seconda Sessione
Le cooperative di comunità: un'opportunità per territori e persone
LUCA BERNAREGGI
Diamo inizio alla seconda sessione, che sarà introdotta dall’amico Giorgio Gemelli, uno
dei vice presidenti di Legacoop Nazionale nonché responsabile dei progetti speciali di
Legacoop Nazionale, che conosciamo e stimiamo tutti molto bene. Giorgio Gemelli
introdurrà il prossimo tema: “Le cooperative di comunità: un’opportunità per territori e
persone”. Prego, Giorgio.
GIORGIO GEMELLI
Vice presidente Legacoop
Buongiorno. L’argomento che brevemente introduco vuole sottolineare l’impegno di
Legacoop su un tema emergente che riguarda, come ricordava Bernareggi, la vita di
alcune comunità, delle persone, dei loro bisogni, della qualità della loro vita. Mi limiterò
a esporre le ragioni del nostro impegno e darò alcune indicazioni a proposito del
percorso.
Ovviamente le ragioni profonde - se ne è discusso poco fa - risalgono all’esplodere della
crisi, alle difficoltà incontrate all’interno dei diversi sistema Paese, nel fronteggiarne le
conseguenze, che hanno però posto in evidenza alcune questioni di ordine strutturale,
in particolare quella relativa al modello di crescita impostato sulla centralità esclusiva del
soggetto pubblico o del soggetto privato, per dare risposte all’altezza dei processi
imposti dai cambiamenti in corso nella società e nell’economia. In particolare accade che
una domanda sempre più forte di protezione, di sicurezza, viene rivolta al soggetto
pubblico, che però non è in grado di fornire risposte onnicomprensive, a causa dei
processi di forte restringimento dei propri margini di operatività e della riduzione delle
risorse finanziarie a disposizione. Sono messi in discussione i ruoli di chi, seppure in una
dinamica di confronto virtuoso, sembrava garantire certezze ed emerge dunque la
necessità che il soggetto pubblico ridefinisca una nuova governance per la gestione di
vecchie e nuove domande. In questo scenario, come sappiamo, si stanno alimentando
un dibattito e una ricerca assai interessanti, caratterizzati e diversificati a seconda dei
diversi luoghi e sistemi politici. Elemento unificante, che noi condividiamo, è l’intento di
agevolare l’ingresso in campo e l’acquisizione di responsabilità da parte delle comunità
locali, delle associazioni tra cittadini, delle forme di impresa senza fini di lucro, secondo
un principio di sussidiarietà orizzontale che permetta di offrire risposte più efficaci e
tempestive rispetto ai bisogni e alle domande emergenti e in grado di determinare il
rafforzarsi e l’emergere di spazi democratici di partecipazione e di autogoverno. Fare
insomma risaltare la cittadinanza attiva come valore per fare avanzare una nuova
frontiera di rapporti tra settore pubblico e settore privato, con un settore pubblico che
accentui la capacità di programmazione e di controllo, un privato che accentui
l’attenzione a favore degli interessi più generali e un privato sociale, a forte vocazione
comunitaria, che affondi le sue radici nella consolidata tradizione mutualistica e
cooperativa. Riscoprire il senso di comunità, di appartenenza locale - che soprattutto a
livello territoriale caratterizza ancora parte della società italiana - può contribuire ad
alimentare un processo virtuoso di coesione sociale, attraverso iniziative di inclusione e
di sviluppo locale, per rendere sostenibile la globalizzazione. Riscoprire il concetto di
comunità significa recuperare uno spazio inteso non solo in senso relazionale ma anche
fisico, attraverso la valorizzazione delle caratteristiche culturali e vocazionali del
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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territorio, che è il luogo privilegiato di interazione tra i cittadini, un punto dove la
persona partecipa attivamente allo sviluppo della propria comunità e di conseguenza
della società nel suo complesso. Proprio dalla riproposizione dell’esperienza cooperativa
italiana muove la nostra riflessione, per dare un contributo al fine di invertire alcune
tendenze in atto, tra cui l’affievolimento di diritti soggettivi, la disgregazione dei sistemi
relazionali e, in particolare, ma non solo, il crescente isolamento di pezzi del territorio
posti ai margini dei processi economici. Dall’esperienza quotidiana della cooperazione,
dalla sua capacità di rispondere ai nuovi bisogni, emergono stimoli e indicazioni di
percorso utili per una società che deve ripensare il rapporto tra bene comune e azione
collettiva. Utilizzare la forma cooperativa è una possibile risposta imprenditoriale per
organizzare forme di auto-aiuto delle comunità in cui prevale la centralità della persona
nella produzione di beni relazionali e per assicurare la soddisfazione di bisogni in tutte le
parti del Paese.
Stiamo lavorando, pertanto, su un progetto economico e di coesione sociale su cui
Legacoop vuole puntare per contribuire a mantenere e sviluppare i sistemi di protezione
sociale e civile costruiti nel corso del XX secolo e messi in discussione dalla crisi della
finanza pubblica e da inefficienze, ineguaglianze e anche da discriminazioni. La
cooperazione ha in sé le peculiarità tipiche per misurarsi su questi temi, su cui rilancia e
rinnova la sua missione e le sue caratteristiche distintive. Le comunità possono trovare
nella cooperazione una strutturazione utile per realizzare in forma organizzata beni e
servizi che rispondano ai bisogni di uno specifico territorio e che riguardino non solo i
tradizionali settori del welfare, ma anche la valorizzazione delle risorse umane e materiali
dei territori. In questo contesto, la cooperazione assume in sé la dimensione economica
imprenditoriale, che connota efficacia e durata nel tempo, e la dimensione sociale,
garantendo la mutualità e la partecipazione alle persone e ai gruppi interessati alle
attività. Il progetto di Legacoop è avvalorato e legittimato anche dalla rilevazione della
presenza nelle associate, in tutto il Paese, di un congruo numero di cooperative - in
questo senso ascolterete delle interviste - con le caratteristiche, prima descritte, di
mantenimento delle comunità locali; cooperative nate per far fronte al venir meno dei
servizi fondamentali come scuole, negozi, servizi; altre per motivazioni ambientali, di
valorizzazione delle tradizioni.
Tutto ciò ha saputo, tra l’altro, anche dare risposte a crisi occupazionali e, in alcuni casi,
ha creato occasioni di lavoro, trattenendo i giovani nelle loro comunità. Queste
esperienze evidenziano come la forma cooperativa sia uno strumento efficace a
disposizione dei cittadini che lo vogliono utilizzare per reagire positivamente, in
particolare nelle condizioni di isolamento territoriale, dove esiste il rischio di
spopolamento, in particolare se pensiamo all’elevato numero di comuni di piccola e
piccolissima dimensione demografica esistenti in Italia, dislocati soprattutto in aree
montane dell’Appennino italiano. Ovviamente, le caratteristiche attuali delle forme
cooperative già esistenti sono tarate sulle piccole comunità, ma pensiamo che queste
iniziative possano svilupparsi anche nelle realtà urbane in forte espansione con quartieri
a rischio di emarginazione, ma anche per la gestione di settori economici e di servizi,
quali la produzione di energia, lavori di manutenzione boschiva e agricola, il trasporto di
persone, la vigilanza, mentre è assai importante l’ipotesi di gestione cooperativa di beni
pubblici non utilizzati e che possono essere affidati alle comunità di riferimento
interessate a un progetto di recupero.
Dunque, è ampia l’area dei bisogni e delle opportunità su cui i cittadini possono
associarsi in cooperative di comunità, al fine di rafforzare in modo economicamente
vantaggioso una serie di iniziative, promuovendo la massa critica necessaria per tendere
all’equilibrio economico di gestione, che potrebbe individuare, in alcuni casi, una
possibile, seppure parziale, soluzione mediante il finanziamento da parte di soggetti
istituzionali che trovino convenienti delle forme diverse e indirette per garantire servizi.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Queste forme cooperative sono contraddistinte da un approccio di carattere
multidimensionale ed evolutivo dei bisogni, che individua la necessità di fornire risposte
attraendo e combinando risorse di natura diversa, grazie all’auspicabile coinvolgimento
e integrazione di più soggetti: da una parte mettendo a valore la dimensione
comunitaria, dall’altra svolgendo funzione di cerniera con la sfera istituzionale. Il
progetto che abbiamo attivato si pone dunque l’obiettivo di promuovere e sostenere la
crescita di una rete diffusa di comunità cooperative, stimolando la voglia di reazione, di
creatività e di autonoma organizzazione dei cittadini. Per queste ragioni mettiamo in
campo le nostre strutture, i nostri strumenti tecnici e finanziari per fornire,
all’aggregazione dei cittadini, informazioni, orientamento, assistenza e supporto, per
consolidare le realtà già operanti e per individuare e selezionare opportunità che
possono favorire la nascita di nuove cooperative. Ovviamente, riteniamo che un
progetto di questo spessore possa trovare attenzione e collaborazione soprattutto da
parte dei soggetti pubblici, delle associazioni e dei comuni, ma anche di associazioni
private che ne condividono le finalità, ne riconoscono il valore e si rendono disponibili a
costruire le condizioni di operatività. In particolare, se i servizi da erogare appartengono
alla sfera pubblica, si pone il problema di costruire una cornice di compatibilità in merito
agli strumenti giuridici da considerare: le concessioni, le convenzioni, gli appalti pubblici
di servizi. Oppure, se è possibile, prevedere corsie preferenziali per i progetti supportati
da comunità con finalità sociale, pensando anche alla possibilità di voucher per facilitare
e agevolare gli investimenti necessari. C’è bisogno, a nostro avviso, di concertare più
azioni con molteplici soggetti; abbiamo per questo sperimentato percorsi comuni con il
WWF, con Legambiente, con l’Associazione dei Borghi Autentici d’Italia, mentre oggi
stesso nel pomeriggio, sarà firmato il protocollo di collaborazione con FederlegnoArredo, associazione settoriale di Confindustria, che raggruppa le imprese operanti nel
settore del legno sui temi che riguardano la tutela ambientale delle comunità
interessate.
Siamo dunque disponibili, anzi sollecitiamo intese e collaborazioni che possano
implementare il nostro impegno, coscienti che c’è bisogno di mettere in campo una
serie di azioni positive per creare condizioni di contesto che agevolino l’impegno delle
comunità. Siamo convinti tra l’altro che questa azione possa contribuire a dare
contenuti, sostanza, forma e continuità imprenditoriale al principio della sussidiarietà
orizzontale, inserito nell’articolo 118 della nostra Costituzione, al fine di valorizzare
l’autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale.
Grazie, io ho terminato e cedo la parola, per coordinare questa seconda sessione, al dott.
Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera.
DARIO DI VICO
Editorialista Corriere della Sera
Allora, io chiamerei i relatori di questa sessione: il dott. Franco Iseppi, presidente del
Touring Club Italiano e il dott. Edoardo Patriarca del CNEL e inviterei a una replica del
presidente Giuliano Poletti. C’è un video, se non sbaglio. Quindi seguiamo il video e poi
avviamo la conversazione con questi signori.
Seguiamo la prima parte del video Le cooperative di comunità. Un’opportunità per territori
e persone.
Partiamo subito dalla discussione. Desidero fare una riflessione sulla parola comunità;
badate che è una parola calda e noi abbiamo bisogno di cose calde perché, come dire,
abbiamo chiaro che nel futuro i freddi saranno superiori ai caldi… E comunità è una
parola calda. È una parola in cui si incrociano culture diverse: comunità, per esempio, a
me immediatamente fa venire in mente Adriano Olivetti, quindi una tradizione
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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imprenditoriale, anche se di un certo tipo, minoritaria, ma comunque di un’impresa che
si apre, che è inclusiva.
È chiaro che a un cattolico, comunità evoca altri tipi di riflessioni, altre ascendenze
profonde. Il fatto che qui venga evocata questa parola - dove “comunità” e
“cooperazione” hanno anche lessicalmente una partenza comune, e non è cosa di poco
conto - testimonia in qualche maniera che quando le culture si confrontano sui problemi
e sulle soluzioni, non dico che arrivino a un punto di sintesi unica, ma… Dirò anche forse
una bestemmia in questo contesto, ma la parola comunità piace anche al mondo
leghista, che certo poi la declina secondo altri codici, ma piace ed è ricorrente anche lì.
Allora, noi facciamo una discussione più che altro di “cuciture” e quindi proviamo un po’
con i rispettivi ruoli, ma anche con le rispettive sensibilità politico-culturali, a capire, dal
filmato e da questo impegno di Legacoop a favore delle cooperative di comunità, che
cosa si può costruire dal basso per questo Paese nel quale dobbiamo vivere noi e anche i
nostri figli, etc.
Comincio dal dott. Iseppi, che qui rappresenta il Touring Club. È evidentemente una
definizione per difetto, perché nella sua vita professionale ha fatto tantissime cose e ha
avuto modo di maturare molte esperienze ed è anche alla luce di queste, e non solo a
nome della sigla che oggi rappresenta, che gli cedo la parola.
FRANCO ISEPPI
Presidente Touring Club Italiano
Grazie. Ho qualche attenuante perché è solo da luglio che faccio il presidente del
Touring Club Italiano e la parola comunità, che è lo stimolo da cui partire, per me si
identifica con la parola associazione. Noi siamo un’associazione, siamo uno degli attori di
questo universo e il rapporto che c’è tra associazionismo e cooperative, o cooperazione,
è un po’ lo stesso che c’è nella relazione tra genere e specie. Cioè l’associazionismo è un
genere e la cooperazione è una specie, con però comunanze di tipo infinito. Che tipo di
associazione è il Touring (per rispondere alla domanda su che senso ha e come si
definisce la comunità)? È stato un gruppo di cicloamatori e quindi di persone che 117
anni fa utilizzavano il mezzo di comunicazione tra i più moderni che esistevano, al punto
che questa associazione ha cominciato a occuparsi di far pagare loro meno tasse
possibili, perché si pagavano le tasse come sulle automobili e in realtà erano il simbolo
della modernità. È stata messa in piedi da una borghesia milanese estremamente
illuminata e laica; adesso questo marchio è ancora di grande attualità perché la bicicletta
è diventata il segno di uno stile di vita. Allora questa associazione come si colloca? Non è
un’associazione di interessi, nel senso che nei confronti dei suoi soci ha sempre
privilegiato l’aspetto della conoscenza rispetto a quello della tutela e quindi è famosa
per le sue guide e per le sue iniziative. Non ha un oggetto definito attorno al quale
operare promozione, piuttosto che difesa, al contrario di altre associazioni, in cui una ha
la montagna, l’altra i beni culturali, l’altra l’ambiente… Noi, come caratteristica di
associazione vorremmo essere coloro che propongono un modo di viaggiare, o se si
vuole, una modalità di rapportarsi con tutto quello che è l’esterno, gli altri, etc. Quindi la
nostra associazione si caratterizza per una funzione, per un servizio e non per un
oggetto di tipo specifico.
Per ora sono 350.000 soci, a tutt’oggi, e pensiamo che si debba rafforzare molto questa
idea di associazione. L’impegno che io prendo verso i soci è di fare in modo che essi
siano sempre più convinti delle motivazioni che stanno alla base dell’associazione, più
che dei benefit che traggono dal fatto di associarsi, cioè oggi chi si associa al Touring, se
è sveglio, in due mesi recupera la quota, tra sconti etc. Preferirei che l’asse si spostasse su
questo, proprio perché, dietro a questo ragionamento sull’associazione come tale, c’è in
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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pratica l’idea di persone che vogliono e credono di avere dei titoli per essere costruttori
di qualcosa: di identità, o di una funzione sociale. Non a caso, questi fondatori, cosiddetti
illuminati, pensavano che il turismo fosse il mezzo più importante per l’integrazione
culturale e sociale di un Paese, ed era nato su una grande spinta unitaria.
DARIO DI VICO
Le faccio una domanda: in Italia siamo ricchi di associazioni, siamo un po’ più poveri di
altre cose, ma il “monte associazioni”, che è un capitale sociale, poi conterà qualcosa,
quando bisognerà dare lavoro ai nostri figli o sarà, come dire, semplice intrattenimento?
È un capitale sociale che poi riusciamo a far fruttare e a spendere nelle cose decisive o
rischia di essere, in un certo senso, una modalità italiana come gli spaghetti?
FRANCO ISEPPI
Questo non lo so, so solo che l’associazionismo e l’associazione hanno anche un grande
valore economico. Non so se questa è una risposta, ma lo è almeno parzialmente in
questo senso: questo mondo è molto magmatico. Dire che sia tutto molto semplice è
sbagliato; ci sono le esplosioni di appartenenza fortissime, poi ci sono i campanilismi, i
localismi, ci sono cioè delle congenite ambiguità proprio strutturali dell’associazionismo.
È difficile che nasca l’associazionismo di grande partecipazione politica, mentre invece
nasce subito sui consumi, sui gruppi di acquisto, su cose come queste. Molte
associazioni o cooperazioni sono frutto di opportunità, oggi se non ci si mette insieme
non si vincono i bandi, non si possono realizzare le cose. Addirittura, molte aggregazioni
nasceranno per legge, perché se è vero che i comuni piccoli, con meno di 3.000 abitanti
delle zone interne e con meno di 5.000 nelle zone di riviera, devono associarsi per alcuni
servizi, di fatto si mette in moto un processo, che non è un sistema ma certamente è
vicino all’essere la cooperazione. Mi pare però che l’elemento più importante
dell’associazionismo sia il fatto che è l’espressione di un valore dell’economia
immateriale molto forte; non è un caso che Il Sole 24 Ore, tra gli indicatori per la qualità
della vita abbia messo anche come sottoindicatore il volontariato. Il fatto che in questo
Paese, almeno ogni 2.000 abitanti, ci sia un associazione di volontari vuol dire che
questo è un indicatore molto interessante. Il fatto che, quando si parla di sviluppo, si
cominci a ragionare su nuovi indicatori… ecco, forse l’ISTAT dovrebbe considerare
l’associazionismo come uno degli indicatori di sviluppo. Allora vuol dire che dietro a
questo “stile di vita”, non so come chiamarlo, c’è un valore economico, che non so se poi
dà lavoro…
DARIO DI VICO
Questo diamolo per scontato, Lei è troppo intelligente per non capire che c’è un passo
in avanti; diamo per scontato che è capitale sociale, però ci può essere un capitale
sociale statico, che di fronte alle sfide del futuro poi conta come il due di picche, oppure
si trova una modalità con cui questo capitale sociale poi ha degli effetti…
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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FRANCO ISEPPI
Non c’è dubbio…
DARIO DI VICO
Ho fatto l’esempio ovvio - il futuro dei nostri figli - però ho l’impressione che altrimenti il
discorso diventi come il Branduardi di “mio papà alla fiera dell’est”, cioè: abbiamo
quattro milioni di imprese, e così via, però quando poi bastano cento cinesi e tutto
questo discorso va a gambe all’aria…
FRANCO ISEPPI
È innegabile. Nel senso che non è un caso che sia un capitale magmatico: o si trovano i
modi per regolamentarlo e ridefinirlo, e allora diventa un valore, altrimenti diventa una
normale - anarchica, molto locale, molto specifica, molto italiana - partecipazione alla
cosa pubblica, che poi non si sa bene cosa sia.
DARIO DI VICO
La interrompo. Dott. Patriarca, se si vuole inserire…
EDOARDO PATRIARCA
Consigliere CNEL
Sì, ma le rispondo dicendo che la risposta è che si tratta di un grande elemento di
sviluppo economico. Prima si è parlato di territori, di questo legame con il territorio;
oggi, mi pare che anche gli economisti più avveduti sostengano che la competitività non
è solo dell’azienda, ma di un intero territorio, di un territorio che si riconosce sistema e in
questo davvero questo mondo associazionistico, cooperativo, delle imprese sociali, ha
un grande potenziale di sviluppo concreto. Pensi soltanto a tutta l’area del welfare: chi
gestirà le nuove politiche di welfare? Riteniamo che sarà soltanto il Comune, il sindaco,
l’assessore? Non credo, è cambiata una stagione, quindi questa possibilità di sviluppo
c’è, ed è concreta. Cioè, nuove imprese sociali, nuove cooperative che favoriscono la
capacità di auto-organizzarsi dei cittadini; questa è la grande novità. Non aspettiamo più
che arrivi il principe di turno e ci dica che dobbiamo fare l’asilo; l’asilo lo facciamo,
troviamo le risorse, creiamo le cooperative familiari, gestiamo il parco pubblico, pezzi di
sanità. Ci sono oggi esperienze - credo che Giuliano Poletti le conosca ben più di me - di
cooperative, quindi soggetti non profit, che gestiscono pezzi di sanità di sistema
pubblico.
Credo che sia questo un po’ il futuro che ci aspetta, cioè questo processo di
“imprenditorializzazione” del nostro grande patrimonio associativo, che vuol dire più
democrazia. Prima si parlava di pluralismo, Poletti parlava delle imprese; ritengo che
questo Paese abbia bisogno di queste pluralità di forme d’impresa e che questo sia il
futuro. È un settore oggi sottosviluppato nel nostro Paese. Un imprenditore può
sviluppare impresa in un territorio - i dati ce lo dicono, io ho girato l’Italia - se lì vi è una
buona amministrazione pubblica, buoni servizi, una buona qualità della vita, una buona
scuola. Tutto questo sistema oggi è impensabile che venga gestito dal pubblico, anzi,
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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direi che a me non piace proprio che sia così. Credo che la stagione nuova sia proprio
quella della sussidiarietà, della chiamata alla responsabilità, uscendo dalla logica “più
mercato meno Stato”, che non c’entra. È più responsabilità pubblica. E quando parlo di
responsabilità pubblica intendo soggetti pubblici, seppur privati, che assumono una
responsabilità pubblica.
Questo settore è in forte evoluzione. Conosco il trend delle cooperative sociali: oggi
occupano quasi 800/900mila persone. E la domanda che io pongo spesso, alla politica in
generale, è se questo sistema che, a mio parere, ha un futuro di grandissimo rilievo, oggi
venga sostenuto; se non è solo la questione del cinque per mille oppure c’è anche
qualcosa di più da fare affinché questo sistema imprenditoriale si sviluppi. Perché pezzi
del nostro futuro saranno in mano a queste imprese.
DARIO DI VICO
Quando Lei sente, per volare un po’ in alto, le riflessioni sulla cosiddetta big society
proposta da Cameron, da un partito di destra, che valutazioni fa? Le sembra una
suggestione interessante, evocativa?
EDOARDO PATRIARCA
Guardi, l’ho anche letta e ho una reazione positiva. Non mi interessa che Cameron sia di
destra o di sinistra, mi piace l’ispirazione, cioè l’affermare che la stagione che si apre per
il nostro Paese porta una richiesta di responsabilità maggiore da parte dei soggetti
associati, dei soggetti che oggi liberamente decidono di auto-organizzarsi. Recuperando
in questo modo la funzione anche della politica, perché non è che la politica deve fare
tutto. Questo nostro Paese stranamente ha preteso tutto dalla politica, addirittura
qualcuno ha chiesto di produrre il lavoro. Il lavoro lo producono le imprese, che siano
quelle profit o quelle non profit. Quindi, mi piace questa idea, che presuppone
un’“antropologia positiva”, cioè il capire che si dispone di risorse e di “bella gente”;
quindi si sceglie di coltivarla e non di deprimerla. Mi pare che talvolta nel nostro Paese
venga invece depressa, vengano depresse le potenzialità di impegnarsi e di autoorganizzarsi.
DARIO DI VICO
Faccio un tranello al presidente Poletti: se Lei dovesse scegliere tra l’antropologia
positiva e la capacità di indignarsi, da che parte starebbe?
GIULIANO POLETTI
Certamente sono per l’antropologia positiva.
DARIO DI VICO
Punto?
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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GIULIANO POLETTI
Punto. Per una ragione molto semplice, che fa i conti con quello di cui stiamo
discutendo oggi.
Dario Di Vico è uno degli osservatori più puntuali di “quelli che ci provano” e io sono
esattamente della serie “che bisogna provarci” e bisogna avere anche il senso della
relazione tra le cose che si fanno, le idee che si hanno e i risultati che si ottengono. Lo
dicevo prima, con una battuta sul filmato che abbiamo visto: la cooperativa “I Briganti di
Cerreto”, banalmente, ha prodotto, nel corso della sua attività, otto posti di lavoro. Uno
può dire “Beh, ti emozioni per otto posti di lavoro?”. Io mi emoziono anche solo per uno,
per quello che mi costa, però a Cerreto Alpi ci vivono ottanta persone; otto persone sono
il 10% di quegli ottanta. Ma ce ne sono in giro molti che organizzano cose che valgono il
10% delle persone che abitano in una comunità? No, perché se ce ne sono molti, io sto
qui, li aspetto e sono pronto a discuterci e a dare loro il riconoscimento che sono più
bravi di noi. Ma è un po’ che aspetto e di gente che viene a raccontarmi che ha fatto
meglio di così non ne ho vista tanta, ma la sfida è aperta.
Il dato però vero, di cui si comincia a discutere molto positivamente e di cui dobbiamo
ormai prendere atto è che la relazione tra i bisogni dei cittadini, il ruolo del pubblico e il
mestiere del mercato, per come li abbiamo storicamente messi, non funziona più. Ci
sono pezzi che rimangono fuori. Una risposta può essere: “chi se ne importa; c’è bisogno
di un servizio, non si fa e pace”. Credo invece che il problema vada preso sull’altro
versante: se c’è un bisogno dobbiamo fare in modo che quel bisogno trovi una risposta.
E questa risposta non è certo in grado di darla l’imprenditore Poletti, che non ci andrà a
Cerreto Alpi ad avviare un negozio che, per regolamento comunale, deve aprire alle 7
della mattina, stare aperto fino alle 6 di sera, deve essere di 100 metri quadrati, avere il
bagno, avere l’uscita di sicurezza, etc… Ma scusatemi, se devo vendere il pane per le 50
persone che abitano lì, per quale ragione debbo avere tutte quelle regole? È meglio
costringere quelle 80 persone a fare 50 chilometri in macchina per andare a prendersi il
pane? O è meglio, invece, andare a scavare all’interno di quella comunità, ed estrarvi
tutti quei piccoli valori che sono bisogni ma non sono domanda, ma mettendoli insieme
forse fanno la base per uno, due, tre, quattro posti di lavoro? Bisogna fare così, bisogna
partire da lì.
La racconto con una metafora: ho letto recentemente un libro di un autore africano, che
parla di terra sonnambula e racconta di un nonno e un nipote che se ne vanno,
scappano dalle lotte tribali e tutte le mattine incontrano qualcosa che gliele fa ricordare
e la spiegazione è “voi la notte dormite, ma la terra cammina e vi raggiunge”.
Quando ho visto i filmati delle frane, degli allagamenti, della terra che è arrivata dentro
ai paesi, mi sono detto “guarda, la terra non cammina solo metaforicamente; la notte, la
terra cammina fisicamente”. Tu vieni via da Cerreto Alpi, poi la terra di Cerreto Alpi ti
arriva in casa. Quindi, quando fai quel servizio, quando quelle 8 persone lavorano lì,
quando quelle 80 persone restano lì e abbiamo prodotto i posti di lavoro, abbiamo
prodotto anche un altro esito, che nessuno ci pagherà, che è di presidiare un territorio,
che se non sarà presidiato ci verrà in casa e costerà tantissimo alla comunità. Bisognerà
che qualcuno cominci a pensare come queste cose diventano un pezzo dell’economia
della società. Per questo io dico, bisogna avere la voglia di provarci e di costruire lungo
questi percorsi. Credo che sia una cosa possibile e molto utile.
DARIO DI VICO
…quando uno diceva “dal basso” gli veniva in mente “sinistra”. Oggi non è più così. Non
solo non è più automatico, ma anzi, quasi può succedere il contrario... Voi ovviamente
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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siete il basso e fortunatamente siete rimasti là. C’è quindi, in qualche maniera, un lavoro
da fare affinché il basso e l’antropologia positiva siano un elemento di ripartenza e non
solo di lotta politica?
GIULIANO POLETTI
Io credo che sia prima di tutto un problema di cultura. È necessario che noi accettiamo e
lavoriamo sull’idea che la responsabilità - che etimologicamente significa essere in grado
di dare una risposta - è un elemento importante, fondamentale della vita di un
individuo, è un tema della democrazia.
Io continuo a battere la testa contro un concetto: i cittadini vivono la democrazia non
perché una volta ogni cinque anni vanno a votare, ma perché ogni giorno, con i loro
comportamenti, costruiscono una dinamica di relazione, fanno delle cose che poi
diventano economia, diventano lavoro e diventano valore per sé. Allora, costruire
meccanismi grazie ai quali questi cittadini possano realizzare questi percorsi, possano
estrarre valore, ha questo significato e vale nelle grandi città, nelle piccole comunità,
vale a sinistra, vale a destra. Perché è chiaro che il senso comunitario ha bisogno di un
supporto. Lo chiedevi tu prima, giustamente: l’associazionismo è un valore? Certamente
lo è. Lo è sul piano sociale, sul piano delle risposte concrete che dà.
Noi diciamo una cosa in più, diciamo che la voglia, la capacità, la propensione ad
associarsi, a un certo punto ha bisogno di un’infrastruttura legale che le consenta di
diventare impresa. Ma a questo punto si pone un tema, che forse varrebbe la pena
discutere, che si chiama efficienza. Perché anche l’associazionismo, il volontariato, la
solidarietà debbono essere efficienti. Ci vuole una strumentazione che ci consenta di
coniugare l’efficienza e l’efficacia con l’associazionismo, la democrazia, la partecipazione,
la responsabilità. Per questo noi lavoriamo al progetto delle cooperative di comunità,
perché riteniamo che la forma societaria cooperativa sia l’infrastruttura societaria
organizzativa congrua per far sì che un cittadino di Cerreto Alpi, piuttosto che della
comunità degli ecuadoriani di Torino, se decide di realizzare un’idea con una
dimensione economica stabile possa farlo rispettando delle regole, garantendo i terzi,
promuovendo lavoro. Quindi, non è una negazione dell’associazionismo,
l’associazionismo va benissimo e vi lavoriamo insieme. Ci sono delle soglie e dei
passaggi; credo che qui il problema sia che questo pezzo di società ha bisogno di essere
riconosciuta. Esempio: il Comune non riesce più a gestire l’asilo, quindi, o si organizza
per mettersi in relazione con i suoi cittadini e trovare le risorse per realizzarlo, oppure
non lo fa, perché al mercato quell’asilo non interessa: ma se lo fa, lo farà solo per i
cittadini che hanno un reddito tale da potere pagare 1.000 euro di retta. Allora, bisogna
trovare una soluzione che sta tra un soggetto pubblico che individua un bisogno e
organizza una risposta, o il mercato che individua un bisogno e organizza una risposta, e
la società che sa che c’è un bisogno e si organizza; qui dentro ci sono dei tratti di
economicità eccezionali.
DARIO DI VICO
La fermo. Dott. Iseppi, quando parliamo di associazionismo abbiamo in mente il Nord; se
invece pensiamo al Sud, abbiamo immediatamente un’altra reazione, perché in realtà
sono due cose diverse. Non dico l’esagerazione, cioè l’affiancare associazionismo e
criminalità, ma magari ci sono dei passaggi intermedi, il familismo amorale, il
clientelismo e così via. Poi noi, purtroppo, del Sud non sappiamo più niente, non
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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sappiamo quello che succede, l’abbiamo un po’ messo da parte. Ecco, dato che Lei si
occupa di territorio, cosa dice a questo proposito?
FRANCO ISEPPI
Posso entrare nel merito anche in modo pratico, nel senso che, se vediamo queste cose
dal punto di vista dell’universo del turismo, abbiamo un Sud che ha un grado di
attrattività tra i più alti del mondo e un grado di accessibilità tra i più bassi e fornisce
un'immagine nel mondo non positiva. Quindi non ha nessuna delle condizioni per uno
sviluppo vero di tipo turistico internazionale.
Detto questo, come associazione abbiamo, rispetto al territorio, tre forme di presenza:
una sono i volontari, una i club di territorio, che sono una specie di grandi gruppi di
ascolto, e una sono queste bandiere arancione. Sono 178 comuni di questo Paese, con
una dimensione media tra i 4.000 e i 5.000 abitanti, che da dodici anni si sono messi
insieme sulla base di un’idea: l’idea che in Italia c’è un’Italia minore che ha un
grandissimo appeal dal punto di vista turistico e culturale, l’idea che se la gente e i
comuni si mettono in rete è più probabile che raggiungano gli obiettivi e anche l’idea
che se si dispone di un’offerta di qualità si diventa competitivi, altrimenti no.
Questa iniziativa è stata realizzata sulla base di un’idea volontaristica, perché a questa
associazione non ci si iscrive perché si paga una quota; si può partecipare solo se si
hanno dei parametri che si rispettano ed è anche una delle poche associazioni che butta
fuori quelli che non rispettano i parametri, oppure non li fa entrare, oppure fornisce loro
dei programmi per entrare. Il risultato di questo lavoro negli ultimi quattro anni è che
tutti questi comuni hanno avuto solo indicatori positivi: è aumentata la popolazione,
sono aumentati i servizi, è aumentato il rapporto tra chi ci vive e chi ci viene, c’è una
cultura dell’accoglienza, etc. Allora, questo vuol dire che non è vero che non esistono le
soluzioni. È probabile che la ricetta vera, almeno per un tessuto che ha la storia di questo
Paese, sia che l’innovazione o è condivisa e partecipata o non funziona. Parliamo però di
un campo che non può essere preso come la controtendenza del turismo, perché non è
rappresentativo di una controtendenza, è significativo di come il rapportarsi in un certo
modo con il territorio, rivendicando un protagonismo locale molto forte, consenta di
raggiungere degli obiettivi.
DARIO DI VICO
Grazie.
FRANCO ISEPPI
Questo in tutta Italia, anche nel Sud. Certamente più nel Nord che nel Sud.
DARIO DI VICO
Sì, lo avevamo capito.
“Secondo welfare”, ovvero quello che ha detto Lei prima: cioè che ci dobbiamo abituare
che il welfare novecentesco è corto, sarà sempre più corto, quindi c’è necessità di
favorire tutti quei soggetti, quelle intese che possono sussidiare il primo welfare. Ce ne
sono molte possibili. Per esempio, non ha avuto grandissima diffusione, ma una
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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multinazionale come la Luxottica ha stipulato degli accordi di welfare aziendale
meravigliosi, nel senso che arrivano alla sanità, addirittura alla scuola dei figli e così via.
Quindi, le vie del secondo welfare sono infinite, però sappiamo che quando andiamo a
sottolineare - come diceva il presidente Poletti - le esperienze più significative, è bello
sottolinearle, ma quando guardiamo i numeri sappiamo che, per quanto il secondo
welfare si rimbocchi le maniche, mentre si restringe quell’altro pezzo di coperta,
insomma… c’è il rischio che la somma non faccia cento. Ecco, volevo sentire un po’ la
sua opinione su questo.
EDOARDO PATRIARCA
Ci troviamo di fronte a una sfida che definirei epocale. Cioè, o continuiamo a credere che
la comunità, l’uguaglianza, la tutela dei diritti, il sostegno a chi ha più bisogno, siano
ancora un patrimonio “repubblicano” e quindi una risorsa per il Paese e non una spesa o
un accidente, e quindi in qualche modo accettiamo questa sfida, oppure rischiamo di
perdere anche l’altro pezzo di welfare antico. Cioè, il problema oggi è davvero di
domandarci se questo dovere di solidarietà che la Costituzione ci indica, cioè l’impegno
al dovere di solidarietà, è ancora praticabile in questo Paese.
Quali sono le questioni che abbiamo di fronte? Abbiamo un Paese indebitato
all’inverosimile. Scusate la franchezza, ma non c’è più una lira pubblica; questo è il dato
di realtà, abbiamo raschiato il barile fino in fondo. Non riesco a immaginare che nei
prossimi anni i comuni abbiano più risorse, ne hanno già poche ora. Allora, la grande
domanda che credo Legacoop ponga oggi è dire: di fronte a questi punti fermi, di uno
sviluppo che sarà forse faticoso, di un welfare che comincia a scricchiolare, di un welfare
che ha tutelato spesso i garantiti e non i non garantiti, di una realtà di poche risorse, noi
cosa facciamo? Come accogliamo questa sfida? A me pare che la proposta di una
chiamata alla responsabilità delle organizzazioni civili per gestire il nuovo welfare sia
inderogabile. E mi si dirà “E le risorse”? Le risorse si troveranno nelle famiglie.
L’ho chiesto a tutti i ministri del Tesoro, dell’Economia, ero anche portavoce del Forum
del Terzo Settore: perché non premiamo i buoni consumi delle famiglie, perché non
diamo la possibilità alle famiglie che utilizzano gli asili, anche delle cooperative, o
l’assistenza agli anziani, di essere premiate. Perché queste spese lo Stato - che ha come
unico strumento il fisco - non le riconosce come spese buone? Avete mai contabilizzato
quanto spendono le famiglie per i propri anziani? È un conto che andrebbe fatto, è una
cifra incredibile. Andiamo a contabilizzare quanto spendono le famiglie per i propri
bambini, è una cifra altrettanto enorme. La domanda che mi pongo è: il sistema
cooperativo oggi, il sistema delle imprese sociali - parliamo di imprese, non di realtà da
assistere, ma di imprese che devono far quadrare i conti, devono chiudere il bilancio
possibilmente in attivo - può accettare questa sfida? La mia risposta, ne sono
profondamente convinto, è sì, decisamente sì. A condizione che anche il sistema
politico, il sistema territoriale, le autonomie locali, le regioni, che hanno molto più potere
oggi di quanto ne abbia lo Stato centrale, riconoscano questi soggetti e li chiamino alla
responsabilità. Io chiamo le cooperative soggetti pubblici e difendo questa accezione:
non sono privati, perché, nel momento in cui la cooperativa gestisce un asilo di
comunità, sta svolgendo un servizio alla comunità, un servizio al bene comune, un
servizio pubblico che va riconosciuto e tutelato. E il buon sindaco cosa farà? Sosterrà il
sistema, la pluralità dei soggetti, farà in modo che il sistema regga, che ci sia più
giustizia, che i diritti siano tutelati, che la qualità sia garantita. Questo dovrà fare il
sindaco, piuttosto che magari gestire cose che non potrà più gestire.
Ritengo che questa sia una prospettiva tutta da esplorare. E si pensi anche
all’incremento occupazionale… I famosi obiettivi di Lisbona sugli asili nido nel nostro
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Paese: a parte tre regioni che hanno raggiunto l’obiettivo - non ricordo quali siano - le
altre regioni sono lontanissime e mi domando: perché nel Sud dove non c’è un asilo
nido - in Calabria, mi hanno detto, ce ne sono tre - questa opportunità non può
diventare un’opportunità di lavoro? Per tanti maestri e maestre, per tanti laureati, perché
non è un’opportunità? Perché questo sistema di welfare viene percepito con peso, una
sorta di palla al piede per lo sviluppo di questo Paese?
DARIO DI VICO
Una provocazione: in teoria, in fondo, proseguendo sul suo ragionamento, un sindacato,
senza dar consigli a Susanna Camusso, poteva anche portare al tavolo della Fiat la
fotocopia dell’accordo Luxottica - fatto da una multinazionale con quindi i costi di una
multinazionale - e dire: caro Marchionne, perché non lo firmi? Però non alla CGIL è
venuto in mente…registro solo la cosa.
Chiude il presidente Poletti, ma poi la vera chiusura sarà un filmato di due minuti e
mezzo su un’esperienza, così chiudiamo anche con antropologia positiva e visiva.
GIULIANO POLETTI
Ritengo che questo tipo di impianto abbia bisogno naturalmente di tempo. Ha bisogno
di protagonisti, di qualche profeta, abbiamo bisogno di qualche “scout”, di qualcuno che
decide di farle, queste cose. Noi - lo diceva la relazione di Giorgio Gemelli - abbiamo
realizzato in questa fase, e oggi ne firmeremo un altro, una serie di accordi con
associazioni e organizzazioni, perché abbiamo il problema di come poi queste cose si
concretizzano, perché a dire che abbiamo il progetto cooperative di comunità si fa
presto, poi realizzarle è un po’ più complicato. E chi le fa? Ho avuto qualche discussione
con alcuni gruppi di sindaci e dopo venti minuti ci voleva la bacinella, perché non
smettevano di piangere, della serie “ci hanno tagliato qui, ci hanno tagliato là, non si può
più far niente” e io ho detto: “bene ragazzi, adesso che avete finito di piangere proviamo
a metterci d’accordo su cosa facciamo.
Oggi abbiamo dei sindaci che stanno lavorando su questi progetti, perché hanno capito
che per la loro politica, per la capacità di amministrare la loro comunità, essere in grado
far giocare la partita ai loro cittadini diventa una risposta al problema che hanno. Quindi
oggi questa “idea positiva” ha bisogno di testimoni, ha bisogno di gente che la voglia
realizzare. Allora noi cerchiamo di essere, anche in questo caso, l’infrastruttura che aiuta
questi signori e diciamo: “caro sindaco, tu sei convinto che questa cosa è buona,
chiamaci e noi veniamo con l’esperienza, le competenze, gli strumenti finanziari, tutto
quello che ti possiamo mettere a disposizione affinché tu nel tuo Comune possa fare
questa cosa”. Così creiamo un altro circuito positivo. Credo che questo sia quella voglia
del provarci e del chiamare alla responsabilità i cittadini insieme, ad esempio, a chi li
amministra. Un’ottica quindi diversa e le esperienze - quelle che abbiamo visto e quelle
che vedremo - ci dicono che si può fare e che funziona. È per questo che noi adesso
cerchiamo di rappresentarle, di usarle un po’ come le “madonne pellegrine”.
Qui c’è il presidente della Cooperativa “L’Innesto”, con cui siamo andati in giro per l’Italia
a fare iniziative per dire “guardate che non vi raccontiamo una favola: questo signore la
cooperativa l’ha fatta e ci lavorano cinquanta persone e se hai bisogno di un consiglio
parla con lui”.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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DARIO DI VICO
Allora, guardiamo questo video, e chiudiamo.
Seguiamo la proiezione della seconda parte del video, riguardante la Cooperativa
L’Innesto.
GIULIANO POLETTI
Bene, grazie. Ci scusiamo con i nostri colleghi e amici di Federlegno e dell’Associazione
dei Borghi Autentici. Avevamo registrato una loro testimonianza sull’accordo che
abbiamo sottoscritto. Li ringraziamo molto. In apertura pomeridiana proietteremo
nuovamente queste immagini, di modo che tutti le possano vedere. A questo punto
purtroppo i tempi ci costringono a essere un po’ barbari. Grazie per la vostra
disponibilità, grazie a Dario Di Vico che ci ha assistito in questo sprint finale e ripartiamo
nel pomeriggio, come da programma. Grazie a tutti.
Consegna dei premi Quadro Fedele 2010 ai migliori bilanci delle cooperative
Legacoop
Vincitore per il Bilancio d’Esercizio
Cooperativa di Produzione e Lavoro di Concordia, Modena
Menzione speciale per il bilancio d’Esercizio
Cooperativa Auprema, Cinisello Balsamo
Cooperativa Cesi, Imola
Cooperativa Edificatrice Ansaloni, Bologna
Cooperativa Tre Elle, Imola
Cooperativa Unipeg, Reggio Emilia
Vincitori per il Bilancio Sociale
Cooperativa Coop Adriatica, Villanova di Castenaso
Cooperativa Cadiai, Bologna
Cooperativa Camst, Villanova di Castenaso
Consorzio Cooperative Costruzioni, Bologna
Cooperativa Coopselios, Reggio Emilia
Vincitore Premio Best
Cooperativa Cadiai, Bologna
Premio Speciale New Entry
Per il Bilancio d’Esercizio:
Cooperativa Consorzio Ctm altro Mercato, Bolzano
Cooperativa Placido Rizzotto Libera Terra, San Giuseppe Jato
Per il Bilancio Sociale:
Cooperativa Emisfera, Verbania
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Terza Sessione
A che punto siamo della crisi: nuovi orizzonti e prospettive per il futuro
GIORGIO BERTINELLI
Vice Presidente vicario Legacoop Nazionale
Come vedete, la prima parte del pomeriggio è dedicata al punto sulla crisi, gli orizzonti e
le prospettive per il futuro. È una sessione interessante, perché intervengono personalità
che ci possono aiutare in una valutazione di merito sulla crisi.
Chiederei quindi a Carlo Zini, che deve introdurre, di accomodarsi, dopodichè seguirà la
presentazione dello studio di Prometeia e gli interventi che Zini solleciterà per la
partecipazione.
CARLO ZINI
Presidente Ancpl-Legacoop
Vorrei fare alcune considerazioni introduttive, brevi e di carattere generale, sulla crisi e
suo impatto sul nostro mondo, sulle valutazioni o i problemi che sono aperti di fronte a
noi.
La prima domanda, credo, che tutti ci stiamo facendo è: «A che punto siamo della crisi?».
Una delle certezze, che dal nostro punto di vista si sta in qualche modo facendo strada, è
che probabilmente gli effetti peggiori di questa crisi non ci sono ancora stati. Quella
valutazione di carattere generale, in cui si dice che il sistema italiano abbia retto meglio
di altri alla crisi, è esclusivamente di natura finanziaria e probabilmente ha anche delle
implicazioni sociali. Ma quali sono gli aspetti più deteriori, sul piano sociale, di una crisi
che, come si diceva stamattina, non lascerà nulla come prima? Sono quelli che
attengono ai risparmiatori in modo diffuso e comunque sempre al capitale, o sono quelli
che riguardano il lavoro? Perché non c’è dubbio che gli effetti negativi che attengono al
lavoro devono ancora esprimersi.
Ancora. Ci si dice che ci vorranno molti anni prima di tornare a come eravamo e quello
che è certo è che dal 2002 l’Italia sta perdendo “competitività relativa” rispetto anche ai
più diretti concorrenti, e quindi non c’è dubbio che siamo su un piano inclinato. Di
fronte a questo e al fatto che la valutazione di tutti è che “nulla sarà più come prima”, noi
dovremo cercare di declinare questa cosa, oltre che con le valutazioni di fatto, anche con
alcune proposte o simulazioni. Certamente emerge, in questa situazione, che siamo in
una società un po’ ripiegata, che non riesce a incidere su alcune rendite di posizione,
nella quale probabilmente il problema più drammatico è quello rappresentato dal
lavoro dei giovani, e dove tutto sommato ancora non c’è l’inversione del rapporto fra la
relazione con lo sviluppo che hanno il capitale e il lavoro.
Ritengo che il richiamo autorevole che ci ha fatto il Presidente della Repubblica, nel suo
messaggio di fine anno, sia l’elemento più drammatico che abbiamo davanti; chi ha
rendite di posizione non le vuole scalfire. Guardate che non parlo solo della società,
perché dovremmo anche chiederci quello che possiamo fare noi per il nostro Paese.
Parlo, per esempio, anche per il sistema Legacoop: facciamo fatica, a volte, a intervenire
nella riforma di quello che ci tocca più da vicino. Quindi, in generale, chi ha rendite di
posizione fa fatica a intaccarle. In questa situazione i giovani sono, in termini di lavoro,
una risorsa - è il lavoro più fresco, anche dal punto di vista intellettuale - che viene in
qualche modo dissipata.
In questo scenario in cui non c’è crescita - è un’altra delle considerazioni che verranno
fatte nelle presentazioni successive - vengono messi progressivamente a rischio i diritti.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Cioè, i diritti e anche i sistemi di protezione sociale, in carenza di crescita, trovano delle
difficoltà a coesistere e quindi, progressivamente, potremmo trovarci di fronte alla
messa in discussione anche degli stessi livelli di democrazia, di rappresentanza.
L’abbiamo sentito stamattina: il lavoro, la contrapposizione lavoro-capitale. Quindi ci
sono degli elementi indubbiamente molto critici.
A questo punto, quello che è stimolante e che secondo me è importante che noi
cerchiamo di mettere a frutto nella riflessione pomeridiana, è come aumentare la
competitività del sistema e come riprendere la strada di crescita più sviluppata. Ritengo
che ci voglia uno scatto. Sicuramente c’è un problema di “sistema Paese”, c’è un
problema però che attiene anche alle imprese, in particolare alle imprese cooperative, e
non è solo sul fattore lavoro, ma riguarda la capitalizzazione, la patrimonializzazione, il
fattore di efficienza nello sviluppo e nella determinazione del valore aggiunto, quindi
l’innovazione, la ricerca, tutti quegli elementi che fanno innovazione.
Concludo, prima di lasciare la parola al dott. Cabrini, che modererà la tavola rotonda,
cercando di evidenziare in questa analisi il ruolo della cooperazione. Quello che viene
fuori - secondo me ormai indiscutibilmente, ed è stato dimostrato anche in questa
occasione - è che la cooperazione è un soggetto che ha una capacità di resistenza
maggiore, o migliore, alla crisi rispetto ad altri soggetti economici. Ed è l’elemento che la
caratterizza positivamente anche nei giudizi autorevoli sul suo essere il soggetto
economico che, probabilmente, interpreta meglio di altri la capacità di produrre
benessere per la gente.
Ovvero lo spostare il problema dalla sola visione finanziaria o capitalistica a una visione
in cui la centralità dell’uomo e la compresenza di questi fattori sia un elemento che ci fa
rivalutare che cos’è l’effettivo benessere.
Io rappresento più da vicino il settore industriale delle nostre cooperative,
indubbiamente per noi il benessere è sempre stato quello di creare “buon lavoro” per i
soci. E non dico altro: buon lavoro vuol dire tante cose. Quindi, da questo punto di vista,
credo che la cooperazione sia un soggetto che ha queste caratteristiche, ma che
presenta anche qualche limite. Mentre ha una grande capacità di resistenza, avendo
anche grandi imprese che sono diventate centenarie - se volessimo fare un paragone
con l’atletica, la assimilerei a un maratoneta - non ha al contrario una grande capacità di
scatto e di innovazione.
Questo è l’elemento che, paradossalmente, la potrebbe mettere in difficoltà e sul quale
io credo che, settorialmente e anche al nostro Congresso, dovremo discutere per capire
come agganciare la ripresa e creare quelle condizioni di sviluppo che indubbiamente il
Paese si merita.
Quindi che cosa possiamo fare?
Per concludere, prendo in prestito questa valutazione che mi è stata fornita
recentemente dalla presentazione di un saggio a cui partecipò il prof. Prodi, che
tracciava alcuni scenari sull’economia, assimilando il governo dell’economia, a seconda
dei casi, al volo di una rondine - quindi molto ben determinato e lineare e con obiettivo
chiaro (credo che l’ultima rondine che abbiamo visto nell’economia sia stato il pensiero
lucido di alcuni nostri governanti che probabilmente viene sintetizzato meglio nella
figura del Presidente Ciampi, quando ci orientò verso la moneta unica europea) - oppure
(l’alternativa cui da anni siamo costretti) all’ondeggiare come una piuma e quindi in
qualche modo al farsi trascinare. Noi da tempo siamo più simili a una piuma che a una
rondine, nel disegnare gli scenari.
Per concludere e rendere un ultimo omaggio, adesso si tratta di capire “come noi, che
siamo calabroni, vogliamo reagire alla crisi”.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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ANDREA CABRINI
Direttore Class-CNBC
Grazie Zini, la prego di restare con noi, anche per essere già entrato nel merito di alcuni
dei temi che affronteremo adesso e con alcune tesi che faranno discutere i protagonisti
di questo check up dello stato dell’economia e anche di quello che serve, su cosa puntare
per andare oltre questa situazione.
Ve li presento: sono Alessandra Lanza, che è responsabile della ricerca economica di
Prometeia, la prof.ssa Fiorella Kostoris dell’Università La Sapienza e il prof. Gian Maria
Gros-Pietro dell’Università Guido Carli.
Questo check up - dicevo - parte proprio da un lavoro di ricerca che è stato svolto da
Prometeia - la relazione “Costruire il futuro per tornare a crescere e cosa cambia dopo la
crisi”. Poi sentiremo gli interventi anche degli altri nostri esperti, per farli discutere su
quello che cambia davvero dopo la crisi e soprattutto sul punto in cui siamo arrivati.
Ci sono tante notizie anche di oggi, anche di questi giorni, dall’inizio dell’anno già lo
scenario dell’economia ci ha messo di fronte alle diverse emozioni: dalla paura per il
crollo di un Paese come il Portogallo, al sollievo, con correlato rally delle borse perché
sono riusciti a vendere il loro debito pubblico; notizie positive di oggi, che riguardano la
nostra asta dei BTP, l’asta dei titoli spagnoli che è andata bene. Quindi i mercati si stanno
rilassando. Ma restano gli argomenti e le sfide a cui faceva riferimento anche Zini poco
fa.
Iniziamo subito con la relazione, prego Lanza.
ALESSANDRA LANZA
Responsabile ricerche economiche Prometeia
Grazie. Buonasera a tutti. Oggi ho il compito di raccontarvi una storia, senza nessuna
ambizione di leggere esageratamente nel futuro perchè è in questo momento un
compito troppo arduo: viviamo in tempi di grandissima incertezza. Prima qualcuno mi
ha detto “Lei è molto coraggiosa”; a me vien da dire “io sono abbastanza incosciente, ma
lo faccio per mestiere!”.
Quindi, davvero, non c’è una ricetta, c’è solo forse invece la voglia di riflettere insieme su
cosa può essere fatto per costruire un futuro migliore e per tornare a crescere, che è il
titolo dell’intervento. Provo ad affrontare il tema della crisi, con riferimento soprattutto
alla spina portante del nostro Paese, che rimane l’industria, e a fare una riflessione
banale, che proprio perché è banale, è forse l’elemento centrale su cui a mio parere vale
la pena di spendere l’attenzione per capire che cosa vuol essere questo Paese da qui a
dieci anni.
Quello che è successo, indipendentemente dalla crisi, è che l’asse della produzione
globale si è spezzettato e soprattutto che sono cambiati gli equilibri in chi produce e
soprattutto in chi produce cosa. Come vedete dal grafico di sinistra (slide 2), che
rappresenta le quote di produzione industriale del mondo, i Paesi industrializzati hanno
perso progressivamente quota nell’ultimo decennio, a favore dei Paesi in via di
industrializzazione, in particolare in favore della Cina.
Quali sono i Paesi che più hanno perso quote di produzione? Gli Stati Uniti e il Giappone.
Che cosa è successo in Europa? In Europa è successo che un unico Paese ha guadagnato
quote; non solo ha tenuto, ma ha guadagnato e lo ha fatto perché è riuscito ad
aggredire una parte del movimento del resto del mondo. Questo Paese è la Germania,
che ha esportato di più, si è aperta di più. Non è successo in Francia, dove invece è in via
di attuazione da molto tempo una fase di deindustrializzazione e uno spostamento sui
servizi.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Che cosa ha fatto l’Italia? Sorprendentemente, si potrebbe forse dire, ha tenuto le
proprie quote di produzione. Ha perso un po’, ma se lo confrontate alle perdite degli altri
Paesi industrializzati, non ha perso molto, perché tutto sommato ha tenuto sulle proprie
quote all’export.
Ora la crisi incide pesantemente su questo andamento e l’Italia stava lì in bilico, un po’
teneva un po’ perdeva. Che cosa succede con la crisi? La crisi accelera un processo di
perdita. A questo punto ci si deve chiedere se questa è stata una storia certamente
virtuosa delle imprese italiane e se è stata una storia, verrebbe da dire, da quindici anni a
questa parte, di virtuosismo “nonostante”: nonostante la mancanza di riforme strutturali;
nonostante un sistema-Paese che non ha offerto gli appigli che altri Paesi hanno potuto
offrire; nonostante la totale assenza - tranne che per un brevissimo periodo, quello di
Industria 2015 - di politica industriale, di incentivi, veri e tangibili, anche per l’attrattività
per l’impianto di nuove imprese nel Paese, magari imprese che venivano dall’estero.
Non mi dilungo, perché sono argomenti che già Zini ricordava, e sono argomenti noti.
Ma la nostra industria ha fatto grandissimi passi, tutto sommato da sola, per riuscire a
difendere quelle posizioni.
In che mondo si trova nel dopo crisi? Si trova in un mondo dove la domanda interna è
cedente e la domanda che arriva dall’estero è invece la parte principale su cui le nostre
imprese possono andare a giocare la sfida competitiva. Questo lo vedete rappresentato
nel grafico di sinistra (slide 3), dove c’è la domanda interna che resta sostanzialmente
piatta come dinamica e una domanda estera che invece poi torna a crescere; il delta tra i
due è lo spazio che dobbiamo andare a coprire per intercettare la domanda che ci viene
dall’estero.
Allora, cosa potremmo fare per far sì che il nostro sistema industriale non soffra le
conseguenze della crisi, ma invece vada ad ampliare la propria quota, vada a crescere?
Se solo ci comportassimo come la Germania - dico la Germania per fare un esempio
dell’unico Paese industriale che guadagna quote di commercio in Europa - andremmo
ad aumentare la nostra propensione all’export dal 32% del fatturato al 53%, il che
vorrebbe dire produrre, in Italia, circa 25/26 miliardi in più di beni che finiscono
all’estero.
Ora noi non siamo la Germania, quindi è ovvio che questo è un limite superiore, però è
bello, quando uno pensa ad una sfida, darsi una sfida con un ostacolo più in là. È chiaro
che questa strada va percorsa poi con ragionevolezza e quindi non immaginandosi di
arrivarci domani mattina. Magari non ci arriveremo nemmeno mai, però può essere,
come dire, un faro che illumina il cammino.
Non siamo la Germania per tante ragioni: la Germania ha pagato i costi dell’unificazione,
ma ha anche beneficiato dal punto di vista industriale dell’unificazione; ha fatto in alcuni
casi, in alcuni momenti, moderazione salariale; ha imprese in cui c’è una partecipazione
dei lavoratori molto più forte di quella italiana e in questo senso, se volete, più vicina
anche al vostro mondo. Sono tutte differenze importanti, oltre a una differenza
ovviamente - non la ricordo neanche - qualitativa, di innovazione tecnologica
significativa rispetto all’Italia. Però tuttavia è l’unico modello industriale che resiste in
Europa, per cui ci piace l’idea di ragionare andando verso la best practice.
L’alternativa qual è? È il modello francese, di un Paese in cui, al contrario, ci sono poche
grandi imprese, sostenute da una politica industriale a loro molto favorevole e sempre
molto ben mirata. Però, a fronte di poche grandi imprese, la Francia ha meno piccole e
medie imprese rispetto all’Italia e quel tessuto industriale si è andato via via perdendo a
favore dei servizi.
Ce lo possiamo permettere?
Dobbiamo ragionare sul fatto che in Italia, ad oggi, la percentuale di occupati
manifatturieri sul totale rimane molto elevata rispetto agli altri Paesi industrializzati ed è
paragonabile soltanto a quella della Germania, cioè è molto vicina.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Che cosa succede se lasciamo andare la nostra industria, che è fatta prevalentemente come è noto - di piccole e medie imprese? Che dobbiamo immaginare che cosa fare di
quegli occupati, come riconvertirli, come fare a gestire una transizione eventualmente
verso i servizi. Cosa che non è evidentemente banale, soprattutto perché sono
occupazioni di piccole e medie imprese che hanno specializzazioni non high skills, ma
anche low and medium skills, anche più difficili da rivendere in un contesto diverso,
perchè comunque sono magari rimasti a fare per vent’anni quello stesso lavoro ed è più
difficile riconvertirli. E poi perché è nel cuore della tradizione italiana avere una
specializzazione industriale.
Si può fare? A nostro parere sì, si può fare di continuare a combattere la sfida industriale.
Nel grafico di destra (slide 4) - so che ne avete già parlato molto stamattina, non voglio
entrare nel merito del dibattito FIAT, soprattutto non da un punto di vista etico e
costituzionale, faccio un’osservazione di puri numeri - il piano ipotizza una maggiore
propensione all’estero del gruppo che passi dal 40% al 65%, questo vorrebbe dire 30
miliardi di euro in più di produzione industriale, di cui almeno il 35% riferito all’indotto.
Banalmente che cosa vuol dire? Che in uno scenario in cui stiamo ancora facendo fatica
a recuperare i livelli pre-crisi e immaginiamo di non recuperarli per i prossimi nove anni,
il fatto di avere 30 miliardi di produzione industriale in più, vorrebbe dire recuperare un
3% nel corso del prossimo triennio e quindi accelerare di molto il recupero della
produzione industriale. A me l’esempio serve, FIAT o non FIAT, per farvi capire che
produrre di più sul territorio nazionale, anche per l’export, cambia di molto lo scenario,
se le cifre sono queste.
È importante o non è importante? Perché uno può dire “beh, ma io ho una convenienza
economica ad andare a produrre all’estero, oppure ho una convenienza economica a
chiudere - un piccolo imprenditore lo può dire - la mia impresa e fare l’immobiliarista”
(questo si poteva dire nel mercato immobiliare prima della crisi del mercato immobiliare,
oggi si dovrebbe fare altri tipi di servizi).
Qual è l’impatto sul welfare del Paese? È un impatto occupazionale forte. Vedete quanti
anni dopo le crisi precedenti che si sono verificate - sono tutte nel grafico di destra (slide
5) si riesce a recuperare i livelli nel mercato di lavoro; la crisi più lunga è quella
giapponese del 1992, dove recuperare i livelli di mercato del lavoro vuol dire più di dieci
anni, quasi dodici. Questo è esattamente il momento storico in cui ci troviamo:
guadagnare o perdere occupazione. E se la perdiamo è un problema che poi va gestito.
Abbiamo visto che è possibile non perdere occupazione se troviamo una strada per
rendere competitive le nostre imprese e portarle all’estero. Perché l’estero e non il
mercato interno? Perché il mercato interno è in stasi, è un mercato in cui le famiglie, da
molti anni, da tutto il corso degli anni Novanta, hanno cominciato a consumare più di
quanto guadagnavano, in dinamica; quindi il livello, la quantità di risparmio è andata via
via riducendosi e non soltanto per le bolle speculative e per le crisi, ma proprio come
modello di consumo e anche di rapporti fra capitale e lavoro nel Paese.
Per i prossimi anni (slide 6) le nostre previsioni che, in quanto previsioni possono essere
un po’ ardite, considerano che continuerà a rimanere un gap tra andamento dei prezzi e
retribuzioni - per quanto ci sia un recupero, il delta post-crisi rimane negativo di oltre un
punto percentuale - e quindi non possiamo immaginarci che una forte spinta
all’industria derivi dal mercato interno. Se non deriva dal mercato al consumo, non
deriva ovviamente nemmeno dal fronte degli intermedi, qualora si resti molto ancorati
all’Italia. Diverso è il caso in cui si vada molto fuori, allora gli intermedi viaggiano
chiaramente su un canale loro (slide 7). In questo modo il grado di utilizzo degli impianti
rimarrebbe molto sotto la capacità produttiva e non ci sarebbe modo - questo si è già
verificato nel corso dell’ultimo anno - di fare semplicemente fronte a delle chiusure.
Volendo immaginare che lo scenario non debba essere così fosco, abbiamo detto che la
strada che possiamo provare a percorrere, perché c’è ancora spazio, è andare all’estero
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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(slide 8). Dove? Questa è forse la prima domanda, anche perché viene da dire
“benissimo, non ci siamo andati fino adesso, ma andiamo all’estero dove e come?”.
Quindi andiamo all’estero, dove la crescita è più vivace. Questa è la prima semplicistica
risposta, ovvero in tutta l’area asiatica (slide 9 slide 10). Ma si tratta di mercati molto
lontani. E siamo in grado di andarci? Questa è la seconda domanda, cioè come ci vado? E
riesco ad andarci?
Oppure c’è un secondo gruppo di Paesi che hanno una crescita molto dinamica e sono
molto più vicini, sono quelli che vedete rappresentati in arancione.
Per cui possiamo cominciare ad andare all’estero nei Paesi che ci sono più vicini.
Ci andiamo senza rischi? Certamente no, in questo momento il mondo è ancora più
rischioso di quanto non fosse nel periodo pre-crisi. Perché - mettiamola giù semplice e
banale - c’è molta più instabilità. Anche laddove ci siano una serie di notizie positive - lo
ricordava benissimo Cabrini prima - ormai è un alternarsi, un giorno di una notizia
buona, l’altro di una cattiva. I mercati sovra-reagiscono a notizie buone e cattive e
questo crea, e creerà, dei cicli molto più brevi e molto più violenti in termini di
oscillazione.
Quindi vado all’estero e assumo, anche se non sembra, forse ancora più rischi di quelli
che prendevo una volta, che tra l’altro sono “prezzati” di meno. Perché c’è invece tutto
sommato una percezione di minor rischio, mentre c’era, prima degli anni Novanta, una
percezione di grande rischio, soprattutto sugli spread dei Paesi emergenti. Poi c’è stato
questo lungo decennio in cui la percezione di rischio di fatto era sparita. È esplosa con la
crisi, ma tende a rientrare; non c’è più, o perlomeno non è prezzata, la percezione del
rischio che definirei “sottostante”, cioè c’è quella legata alla notizia, che è white noise.
Vado in questi Paesi, ma perché ci vado? Perché sono un’opportunità e non solo una
sfida. Cioè, mentre nell’ultimo decennio il mondo era sostanzialmente tranquillo, questi
Paesi sono riusciti a fare un lungo percorso di crescita, che li ha portati ad avere redditi
disponibili molto elevati e quindi sono diventati mercati molto interessanti per le nostre
imprese. È vero che sono concorrenti, ma sono anche Paesi consumatori e cominciano a
diventare Paesi consumatori molto interessanti. Immaginate che - sono sempre numeri
molto difficili - una prima soglia di motorizzazione, di prima motorizzazione, nei Paesi
emergenti è considerata intorno a un reddito disponibile di 5/6.000 euro. Ora, vedete
che di Paesi che cominciano ad avere un reddito al di sopra di questa soglia ce ne sono
molti, oltretutto l’evoluzione del credito rende questa soglia anche un po’ più flessibile,
nel senso che molto viene finanziato. Sono Paesi in cui c’è ancora una grandissima
dispersione, divaricazione del reddito, per cui tendono, tutti quelli di matrice ex sovietica
eccetto la Russia, a essere più uguali nella distribuzione del reddito, mentre ce ne sono
altri che sono molto diseguali. Perché dico questo? Perché è molto importante a
seconda di cosa si vende, cioè è evidente che se vendo prodotti di lusso mi interessa
avere una gamma ristretta di consumatori molto ricchi, ma se invece realizzo prodotti
del cosiddetto “lusso accessibile”, per esempio, mi interessa avere un ceto medio che sta
crescendo, quindi mi serve capire come evolve l’uguaglianza della distribuzione dei
redditi nei vari Paesi.
Posto che questi sono i Paesi interessanti, siamo capaci di andarci? Le nostre imprese ce
la fanno? Qui cominciano non le cattive notizie, ma le notizie su cui aprire un dibattito e
una riflessione. Se guardate qual è - ed è l’asticella arancione - la crescita delle
esportazioni mondiali stimata per il periodo 2009-2013 - l’abbiamo stimata noi, quindi
ammettiamo pure che magari ci sia qualche errore, ma possiamo parlare di 1/2 punti di
differenza tra i vari organismi di previsione - vedete invece che tra le aree lontane e le
aree vicine ci sono svariati punti, nell’ordine della decina, di differenza di crescita. E dove
siamo presenti noi come imprese? Tutti nelle aree vicine, facciamo molta fatica ad
andare ad aggredire i mercati lontani. Su una distanza che supera gli ottomila chilometri
non ci siamo quasi e quelli, guarda caso, sono i mercati a più alta crescita.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Perché non ci siamo quasi? La risposta è banale: perché la struttura della nostra industria
è fatta di piccole-medie imprese, molto di più di quella degli altri Paesi. O meglio, più
che di piccole e medie - vedete che con le piccolissime tutto sommato ce la giochiamo
con la Francia e la Spagna - ci mancano le grandi; sulle grandi siamo proprio molto
sbilanciati in senso negativo rispetto a Germania, Francia e persino Spagna (slide 11).
Questo rende più difficile andare in Paesi lontani, perché siamo meno strutturati e
abbiamo anche le spalle meno larghe per sopportare i rischi di cui dicevamo prima.
Infatti, se vedete, sono le grandi imprese che vanno nei mercati lontani e in tanti mercati
diversi, quindi in qualche modo bilanciano i rischi a cui si espongono. Vedete che oltre il
60% delle imprese che è presente in più di 16 mercati sono aziende con più di 250
addetti.
Perché andare all’estero? Perché questo, oltre a darci la possibilità di intercettare
domanda crescente, ci insegna anche a essere più bravi. E traduco il “più bravi” in più
produttivi; qui vedete che la produttività media degli esportatori è sempre più elevata
delle imprese non esportatrici, banalmente perché sono soggette a maggiore
concorrenza.
Ma fa sempre bene andare all’estero (slide 12)? Ecco, la risposta è complessa, perché ci
sono processi di internazionalizzazione virtuosa - lo vedete nel grafico di sinistra, dove
chi va all’estero e accetta un rischio crescente viene anche remunerato di più, quindi ha
una dinamica positiva dei margini - ma c’è anche stato chi, andando all’estero e
accettando rischi crescenti, ha avuto una diminuzione dei margini, quindi
l’internazionalizzazione l’ha pagata.
L’internazionalizzazione può far bene o far male, dipende da come la si realizza.
È vero però che, in un processo virtuoso di internazionalizzazione, si ottiene un delta di
produttività - qui stiamo parlando di esportazioni, quindi non ottengo questo delta di
produttività perché chiudo tutto in Italia e vado a produrre all’estero - perché mi
confronto più strettamente con i concorrenti e quindi miglioro il mio processo
produttivo.
Benissimo, allora si può fare, si può fare in modo virtuoso, però siamo piccoli e non ci
riusciamo (slide 13). Che cosa possiamo fare? Possiamo provare a giocare in squadra.
Che può voler dire tante cose. Tutti ricorderete l’esperienza dei consorzi di esportazione.
Parlando di questo un po’ con gli imprenditori, ho sentito dire tutto e il contrario di
tutto. C’è chi dice “funzionavano benissimo” e c’è chi dice “per carità, meno male che
quell’epoca è finita”. Anche qui bisogna vedere come li si facevano funzionare, non c’è
un bene o un male in assoluto, certamente è una via che può creare un gioco a somma
positiva.
Mi fermo in particolare su questa riflessione, perché è molto vicina al vostro mondo, al
vostro modo di operare. Cosa significa questo per le imprese cooperative? Vuol dire che,
proprio perché avete un vantaggio in termini di essere già una sorta di consorzio, di
avere molta facilità a giocare in squadra, potete provare ad aggredire mercati lontani
(slide 14). Abbiamo provato a fare una mappatura: questi mercati possono essere molto
lontani - come vedete sono sempre quelli a crescita più elevata - ma vi sono anche
mercati molto dinamici in aree più vicine, che sono tipicamente alcuni Paesi dell’Europa
dell’Est e il Medioriente.
Abbiamo provato a ragionare sui vostri settori, in particolare sull’alimentare, dove la
distanza fisica conta per la deperibilità delle merci, ma anche molto per la cultura
alimentare che non è facile affermare. Per esempio la Cina è uno dei Paesi a più alta
crescita, ma è anche uno dei Paesi dove, dal punto di vista dell’alimentare, è più difficile
imporre la presenza di imprese straniere. Per quanto la dinamica sia molto alta, anche a
due cifre, ovviamente lo stock di alimentare estero in Cina rimane molto piccolo. Diversa
è la situazione per la meccanica (slide 15), dove invece i mercati dell’area asiatica sono
quelli più promettenti e dove possono nascere molte opportunità, anche in partnership
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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con produttori locali. Difficile, un po’ come per l’alimentare, è la vita del sistema casa
(slide 16), dove in questo momento c’è una difficoltà congiunturale importante legata
all’andamento del mercato immobiliare, ma anche dove è importante affermare lo stile
abitativo. Questo è forse un po’ più facile della cultura alimentare: per esempio, in Cina ci
sono molte esperienze virtuose di acquisizione dello stile abitativo italiano, addirittura
con evoluzioni tecnologiche sul campo. Quindi è un mercato da guardare con grande
attenzione.
Per quanto riguarda le costruzioni, ci sono moltissime opportunità che potete cogliere
nei piani infrastrutturali dei Paesi emergenti (slide 17). Qui, naturalmente, molto spesso
ci sono gare, in cui le imprese italiane hanno di solito delle ottime possibilità di riuscita,
se decidono di affrontarle. Ovviamente è una sfida, ma si tratta certamente delle aree a
maggior crescita nei prossimi anni, quanto a piani e progetti infrastrutturali. Ci sono
anche nei mercati vicini (slide 18).
La stessa cosa vale per la logistica, dove - credo che alcune esperienze le abbiate già
fatte - si può giocare un ruolo importante anche a partire dai programmi comunitari già
in atto (slide 19).
Altro punto: come lo faccio? Questa era la domanda che ci ponevamo all’inizio. Oltre al
come in termini di struttura del capitale, come lo faccio in termini di distribuzione (slide
20)? La distribuzione ha livelli di sofisticazione ancora molto diversi, a seconda dei vari
Paesi: quando decido di andare a vendere, soprattutto in un Paese lontano, devo essere
sicuro di sapere come vendere il mio prodotto; non si vende da solo e quindi un’analisi
approfondita della distribuzione è imprescindibile.
L’ultimo vostro settore, che è quello della sanità e del sociale, trova anch’esso spazi
all’estero, grazie al fatto che aumenta la trasparenza dei processi di public procurement
nei mercati emergenti (slide 21). Quali sono quelli interessanti? I Paesi di matrice exsovietica, dove il welfare pubblico è importante; meno i Paesi dell’America Latina e
dell’Asia, dove c’è una percentuale di welfare privato ancora molto rilevante (slide 23).
Perché devo andare all’estero? Perché non restare in Italia, soprattutto in un settore così
tipicamente locale, come la sanità e il sociale? Perché la capacità di spesa del sistema
Italia nei prossimi anni sul driver pubblico sarà molto limitata, per le ragioni note che
tutti conosciamo (slide 22). E anche perché i Paesi emergenti, convergendo verso il
modello di sviluppo dei Paesi industrializzati - badate, non imitandolo, ma
convergendovi nel benessere - aprono una serie di spazi in termini di avvicinamento in
tutti i servizi dedicati alle comunità, quindi tutti i servizi tipicamente della sanità e del
sociale. Grazie.
ANDREA CABRINI
Grazie, Alessandra Lanza, anche per avere dato delle indicazioni precise legate ai settori
industriali in cui operano tante delle imprese cooperative che oggi sono qui presenti. Su
questo chiederei alla prof.ssa Kostoris le sue osservazioni e la vorrei riportare anche alla
domanda di base di questo incontro, cioè: a che punto è la crisi?
Mentre noi parliamo, a Francoforte oggi si è tenuta la prima riunione dell’anno della
Banca Centrale Europea e poco fa Jean-Claude Trichet ha detto “confermo di vedere
nell’economia europea dei segnali di ripresa sempre più robusti”. Il Fondo Monetario
Internazionale prevede che nel 2011 l’economia globale nel suo complesso crescerà tra
il 4% e il 5%, quindi sopra la media degli ultimi vent’anni. Tuttavia abbiamo visto che per
Paesi come il nostro la situazione non è facile.
Molti si domandano appunto se siamo usciti dal peggio della crisi, dal “pronto soccorso”,
e in che reparto siamo entrati, cioè dove siamo in questo momento. Oppure se invece,
come ci ha detto Tremonti la scorsa settimana, la crisi non è finita e siamo al punto di
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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prima, anzi il denaro facile con cui la stiamo curando, negli Stati Uniti, ma un po’ anche
in Europa, sta gonfiando nuovamente alcune bolle speculative. Quindi,
pericolosamente, ci potrebbero essere nuovi shock in futuro.
FIORELLA KOSTORIS
Università La Sapienza di Roma
Grazie per avermi dato la parola sulla parte “macro” delle prospettive future, anziché su
quella aziendale e “micro” di cui ha parlato finora la dott.ssa Lanza.
Prima di tutto vorrei ringraziare Legacoop di questo invito perché il dibattito mi sembra
interessante. Il problema di che cosa ci aspetta per il futuro è un argomento difficile,
quindi ascoltare le opinioni di altri può essere di estrema utilità.
Recentemente, il Financial Times ha descritto i tre scenari macroeconomici più probabili
che si possono intravedere per il 2011 e ha identificato anche, per ciascuno di questi, le
relative probabilità, appunto secondo il quotidiano inglese.
Gli scenari sono: il 2011 sarà sostanzialmente molto simile a quel che è stato il 2010, cioè
un’economia nei Paesi dell’Occidente, in particolare nei Paesi sviluppati, che riprende
pian piano a crescere, ma non è ancora completamente fuori dalla crisi; sistemi di
mercati finanziari ancora con grandi volatilità; molte differenziazioni all’interno degli
stessi Paesi del mondo occidentale, per non parlare delle differenze che sono anche più
grandi tra Paesi BRIC, come la Cina, che riprendono a crescere al 10% e altri, come per
esempio il nostro, che stentano a vedere una seria ripresa. La probabilità che il Financial
Times dava a questo scenario, sostanzialmente invariato, è dell’ordine del 70%.
Poi c’è invece uno scenario molto più pessimista, nel quale la crisi dei debiti sovrani in
Europa si accentua moltissimo e dove alcuni Paesi sono costretti a ristrutturare il loro
debito; dove l’Unione Europea non è in grado di far fronte agli impegni che pure intende
prendere, e per una certa misura ha già preso, nei confronti dei Paesi in crisi, per
esempio nei confronti dell’Irlanda. Insomma, uno scenario nel quale l’Euro non resiste e
per esempio possono emergere due Euro. Il Financial Times non lo diceva ma, a mio
parere, se questa ipotesi si dovesse malauguratamente realizzare, i due Euro non solo si
manifesterebbero in diversi Paesi dell’Unione Europea e dell’attuale Euro Zona, ma forse
vedremmo addirittura due Euro all’interno del nostro stesso Paese, da un Centro-Nord
capace di seguire l’Euro forte e un Mezzogiorno non in grado.
Bene, il Financial Times dava a questo scenario una probabilità del 20%.
Io non concordo su questa probabilità. Ritengo che sia uno scenario estremamente
improbabile, perchè penso che fondamentalmente gli Stati membri nell’Unione Europea
abbiano messo in campo una serie di misure. La Banca Centrale Europea di fatto ha già
cambiato, rispetto ai trattati intesi in senso stretto, le proprie politiche; in fondo
accompagna con politiche monetarie talora più espansive di quanto si sarebbe potuto
immaginare, le situazioni di difficoltà dei mercati monetari e finanziari. La stessa Unione
Europea ha messo in campo strumenti che alcuni considerano non molto larghi e altri
invece, come la Germania, considerano sufficienti: ho in mente per esempio il cosiddetto
Europen Financial Stability Facility di 440 miliardi di euro per venire incontro ai Paesi in
difficoltà. In poche parole, personalmente ritengo che questo scenario, non del tutto
impossibile, sia estremamente improbabile; gli attribuirei una probabilità molto vicina
allo zero.
Infine il terzo scenario di cui parlava il Financial Times è quello opposto, quello
estremamente positivo, quello nel quale la volatilità nei mercati finanziari viene
sistematicamente ridotta, dove le imprese finanziarie escono da situazioni in cui sono
entrate già nel 2008 a causa di asset tossici, credit crunch e via discorrendo, l’economia
riprende alla grande, l’occupazione aumenta.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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A questo scenario il Financial Times dava una probabilità del 10%. Personalmente credo
invece che abbia una probabilità un po’ più alta, gli attribuisco una previsione inferiore
al secondo scenario).
Sono comunque d’accordo - e penso che lo siano i più - col Financial Times che la
previsione più probabile per il 2011 sia di trovarsi in una situazione non molto lontana
dal 2010, con molte diversità fra i Paesi.
E questo è un punto importante: come si colloca l’Italia all’interno di questa situazione?
Certo, se la previsione è che il 2011 non sia molto diverso dal 2010, l’Italia si trova in una
posizione di ripresa, ma molto stentata. Perché se, come si ritiene ormai dai preconsuntivi, ad esempio la Germania nel 2010 crescerà del 3,5-3,6% - cioè di un valore che
non si vedeva in Germania da anni, riprendendo situazioni di grande evoluzione, di
grande dinamica del passato - l’Italia probabilmente nel 2010 chiude con una crescita di
circa l’1%. Dunque, dire che il 2011 sarà come il 2010 vuol dire, nella situazione tedesca,
una brillantezza straordinaria, nel nostro caso, una mediocre evoluzione positiva.
D’altra parte non dimentichiamoci che, diversamente da tanti altri Paesi che come il
nostro hanno avuto una recessione profonda nel 2008, diversamente anche dagli altri
Paesi che hanno avuto una recessione profonda, già nel 2008 l’Italia ha avuto una caduta
nella crescita. È l’unico Paese dell’Unione monetaria, dell’Euro Zona, insieme all’Irlanda,
che ha già avuto nel 2008 una caduta del PIL.
L’Italia, nel 2008, ha avuto una caduta dell’1,3% nel PIL.
La Germania, che pure era in recessione come noi, nel 2008 ha avuto una crescita
dell’1%. Poi nel 2009 noi abbiamo registrato una caduta del PIL superiore al 5%. In poche
parole, ci vorranno circa nove o dieci anni di crescita al ritmo a cui ci aspettiamo che si
cresca - appunto simile a quello del 2010 - per poter tornare ai valori del reddito che
avevamo osservato prima della crisi.
La situazione è quindi in un certo senso abbastanza drammatica, tanto più che non
dobbiamo dimenticare che nel momento precedente la crisi, nel 2007, già avevamo
perduto molte posizioni relative rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, avendo ad
esempio un reddito pro-capite che era già diventato, o stava diventando, inferiore a
quello spagnolo, un PIL pro-capite inferiore a quello della media dei paesi dell’Euro
Zona.
Sostanzialmente non dobbiamo dimenticare che in tutto il periodo degli anni Duemila,
l’Italia ha avuto una crescita di circa di 1 punto inferiore alla media degli altri Paesi
dell’Unione Europea. Per esempio, nel primo quinquennio degli anni Duemila (20012005), siamo cresciuti mediamente dello 0,9%; il resto dell’Unione Europea cresceva
dell’1,8%, quindi noi avevamo già un’evoluzione dimezzata. Ognuno quindi tornerà
lentamente, magari tra dieci anni, alla situazione precedente, ma noi purtroppo
torneremo a un contesto, al di là della recessione, di debole crescita e anzi, in certi casi,
di ristagno. Torneremo a una situazione in cui la produttività potrebbe essere ancora in
calo? Ci auguriamo di no, ma non dobbiamo dimenticare che così è andata per molti
degli anni Duemila.
Come ricordato nell’introduzione, la competitività è effettivamente caduta negli ultimi
dieci anni in Italia in modo, in un certo senso, drammatico rispetto ad altri Paesi con cui
ci confrontiamo. Quando si dice che c’è una crescita troppo lenta dei redditi in Italia, che
quindi non assicura la base per poter formulare previsioni positive e ottimistiche quanto
ai consumi, che dai redditi dipendono, si dice qualcosa di vero, ma dobbiamo anche
tenere conto che i redditi in Italia sono cresciuti troppo poco da questo punto di vista,
ma anche troppo da altri punti di vista.
Pensiamo al fatto che il reddito reale degli italiani, negli anni a partire dal 2000, è sempre
cresciuto - poco, ma è sempre cresciuto - a fronte di una produttività del lavoro che
quasi sempre, in quasi tutti questi anni, decresceva. Sicché il costo del lavoro per unità di
prodotto in Italia aumentava drammaticamente; in Germania, con cui giustamente il
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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rapporto Prometeia ci confronta in modo sistematico, questo non succedeva, perché la
produttività cresceva di più e i redditi reali talvolta crescevano, ma talvolta diminuivano,
con la conseguenza che il costo del lavoro per unità di prodotto in Italia, rispetto a un
Paese come la Germania, è aumentato in modo drammatico.
La situazione dell’occupazione forse preoccupa ancora di più di quella del prodotto
interno lordo, perché? Perché il nostro mercato del lavoro è abbastanza rigido, ha quindi
potuto conservare un certo numero di posti di lavoro grazie alla cassa integrazione in
deroga, o ad altri strumenti che sono stati messi in campo, ma fondamentalmente ha
posticipato una serie di problemi. Quindi adesso osserviamo una situazione in cui la
disoccupazione continua ad aumentare, mentre in altri Paesi come gli Stati Uniti - Paesi a
mercato del lavoro molto flessibile - in realtà la disoccupazione comincia a diminuire. E
da noi il problema è più grave, perché ci sono intere sacche della popolazione - penso
soprattutto ai giovani e alle donne - che sono sottoutilizzate e lo erano anche prima che
cominciasse la crisi.
Prima di concludere desidero dire una parola sulla questione della finanza pubblica,
perché nel nostro Paese alcuni dicono che in fondo non si è aggravata tanto quanto è
successo in altri Paesi, e in una certa misura così si dice il vero, ma di nuovo ci sono i
problemi strutturali che non si possono dimenticare.
Non dimentichiamo innanzitutto che la pressione fiscale in Italia è aumentata
moltissimo: ormai nell’Unione Europea siamo terzi per pressione fiscale dopo due Paesi
scandinavi, i quali naturalmente hanno però una pressione fiscale alta, ma hanno anche
servizi sociali estremamente buoni e hanno una distribuzione della pressione fiscale per
classi sociali molto più equa che da noi, dove, come è noto, l’evasione è fortissima.
I pacchetti di sostegno di spesa pubblica, anche quelli che si sono manifestati negli anni
della crisi 2008-2009, purtroppo non sono mai stati in grado di abbassare la spesa
corrente, anche la spesa improduttiva - dove, scusatemi, io per esempio ci metto le
pensioni - e non hanno saputo aumentare la spesa invece produttiva, quella a favore del
capitale e in particolare del capitale umano.
È vero che il deficit pubblico non è aumentato tanto come in altri Paesi, però ancora nel
2012 avremo un deficit pubblico rispetto al PIL superiore al 3,5%, secondo le previsioni
dello stesso Governo. E naturalmente c’è il problema del debito, che ormai è al 119% del
PIL, è due volte superiore a quello che il Trattato di Maastricht ci imporrebbe e,
diversamente da come chiedono i Trattati europei e il Patto di stabilità e crescita, è in
continuo aumento.
Quindi ci troviamo in una situazione in cui sicuramente la riforma del Patto di stabilità e
crescita ci chiederà di fare qualcosa; credo che quello che dovremo essere disposti a fare
è di continuare, e anche aumentare, il rigore nella finanza pubblica, ma cambiando il
peso relativo da dare alle spese correnti del settore pubblico rispetto a quelle per
investimento, per accumulazione nel capitale umano.
Alcune scelte sono facili. Faccio qualche esempio. Il piano Tremonti, che è passato, di
bloccare ogni singolo stipendio pubblico nei prossimi tre anni ha l’effetto positivo di
rigore su una voce della spesa pubblica che rappresenta circa il 10% del PIL: gli impiegati
pubblici. Però si sarebbe potuto ottenere lo stesso risultato di blocco del monte salari
pubblico senza bloccare ogni singolo stipendio e questo avrebbe consentito una certa
flessibilità in alcuni salari pubblici, che potevano essere aumentati per incentivare la
produttività - cosa di cui abbiamo grande bisogno - mentre altri si potevano diminuire in
altri termini, dando spazio a una delle migliori riforme che questo Governo ha fatto
finora, che è quella del Ministro Brunetta per la valutazione, l’integrità e la produttività
della pubblica amministrazione.
Ecco, si sarebbe potuto fare ugualmente rigore nella finanza pubblica ma, secondo me,
dando più spazio, appunto, alla crescita, agli incentivi per la produttività di cui il nostro
Paese ha grande bisogno, sia nel settore pubblico sia in quello privato.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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ANDREA CABRINI
Grazie prof.ssa Kostoris, che ha chiuso su alcune importanti scelte che andranno fatte nel
corso di quest’anno, emerse nella sua analisi amara sull’Italia, anche se forse più
ottimista degli inglesi sullo scenario globale… Ma gli inglesi sono sempre un po’ scettici,
soprattutto quando si parla di Euro. Pensate che la copertina dell’Economist di domani
torna a chiedere un “Piano B” per salvare l’Europa, nonostante i risultati di queste ultime
aste del debito di Paesi un po’ in bilico, come appunto Portogallo e Spagna, e lasciamo
fuori l’Italia.
Torniamo però alle osservazioni del prof. Gros-Pietro, cui chiedo di prendere la parola, e
già gli faccio una domanda introduttiva, perché abbiamo sentito per due volte che
comunque, anche con questi livelli di ripresa dell’economia, ci vorranno nove anni per
tornare ai livelli precedenti alla crisi.
Mi chiedo a questo punto se ha senso porsi ancora questo problema della velocità di
uscita dalla crisi, oppure se bisogna mettersi in testa che lì non ci torneremo, che il
mondo va verso quella che gli esperti chiamano una “nuova normalità” che è fatta di
redditi più bassi, di più risparmio e meno consumi, di un equilibrio tra pezzi del mondo
che erano distanti anni luce e che invece convergono dal punto di vista dei redditi e
divergono dal punto di vista della crescita.
GIAN MARIA GROS-PIETRO
Università Luiss di Roma, Presidente Atlantia
Certo che andiamo verso una nuova normalità, ma è una nuova normalità che non sarà
senza crescita, solo che la crescita sarà molto diversa da un’area all’altra (slide 1 e slide 2).
Ritorno a una visione aziendalistica, naturalmente collocata in un quadro che ci faccia
comprendere la crisi. Perché dico che i problemi erano di liquidità finanziaria (slide 3)?
Perché questa non è una crisi capitalistica, non è una crisi dovuta al fatto che gli
imprenditori sono stati troppo ottimisti, hanno investito troppo o hanno creato una
sovra-capacità produttiva. No, qui è tutta una crisi finanziaria - come sappiamo - che
però ha dovuto poi essere presa in carico dagli Stati, è diventata debito sovrano e questo
ha prodotto politiche di bilancio estremamente restrittive, mentre invece
paradossalmente sono molto accomodanti le politiche monetarie e tutto questo si
traduce in un crollo degli investimenti e prima ancora in un crollo dei consumi, come
sanno bene gli imprenditori, e quindi in una caduta dell’occupazione.
A questo punto sì che la crisi diventa simile alle crisi capitalistiche, perché abbiamo il
circolo vizioso che non si consuma, non si lavora, non si produce e quindi non ci sono
redditi e così via (slide 4).
È vero che la crisi non ha un’origine reale, però le sue premesse hanno avuto importanti
effetti reali, perché gli americani sono andati avanti per anni a consumare il 105% del
loro reddito e su questo ci hanno pascolato tutti: i cinesi che vendevano prodotti per il
mercato americano, i tedeschi che vendevano impianti ai cinesi e così via.
Quindi, se si vuole uscire dalle cause della crisi dei deficit gemelli e dell’ingiustificato
tenore di vita che faceva consumare di più, bisogna pensare a un mondo nel quale tutta
la macchina produttiva si modifica, perché non costruisce più case per americani, che
non se le possono permettere, ma produce qualcosa di più per i cinesi che devono
consumare di più. Questa è una buona notizia per chi produce impianti, come i tedeschi
e se permettete anche come gli italiani, perché vuol dire che le fabbriche sono da rifare
un poco dappertutto, vuol dire che cambieranno tutti i prezzi relativi e che quindi tutte
le combinazioni produttive, e non solo nel vettore finale della produzione, dovranno
essere modificate.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Cito come ultimo elemento la riduzione della sicurezza. Ci torneremo dopo, perché è un
fatto aziendalmente molto importante, però, vi ricordate - forse no, molti di voi non se lo
possono ricordare, ma io lo ricordo bene - gli anni della Guerra Fredda? Tutti
tranquillissimi, non si muoveva niente. Le uniche persone che non erano tranquille
erano quelli perseguitati da McCarthy negli Stati Uniti o dal KGB nell’Unione Sovietica,
ma tutti gli altri stavano in una situazione di sicurezza assoluta.
Non è più così, è cambiato tutto. Lo vedremo ancora dopo cosa significa, ma questo
comporta che una parte delle funzioni statuali si stanno trasferendo ad altre forze.
Alcune di queste forze sono economiche, cioè anche il mondo economico ha la
possibilità di partecipare nello svolgimento di funzioni che una volta erano
esclusivamente dello Stato, gestite dalla politica e dalle sue istituzioni. Tutto questo non
ha fatto che accelerare dei cambiamenti che erano inevitabili: cioè, i deficit gemelli e
tutte quelle cose imponevano dei cambiamenti, il fatto che ci sia la crisi li sta facendo
avvenire in modo accelerato.
Tremonti lo aveva già detto. In un libro di qualche anno fa, a proposito della
globalizzazione, prima aveva detto che non andava per niente bene, poi che “potrebbe
andare anche bene, ma la state facendo troppo in fretta”.
Ebbene, qui le cose stanno precipitando.
Come stanno correndo alcuni cambiamenti. Per esempio questa enorme produttività
cinese, che sembra imbattibile, è confrontabile con quella del Giappone degli anni
Ottanta? Quest’ultima abbiamo poi visto che è durata un decennio e dopo è svanita.
Succederà lo stesso anche di quella della Cina?
Non sarà così (slide 5). L’Impero di Mezzo non è come il Sole Nascente: la Cina è stata la
prima economia mondiale, un Paese che ha prodotto il maggiore PIL del mondo per
dieci secoli, dal VI al XVI secolo. E ricordiamoci una cosa: non c’era solo la Cina, l’Asia da
sola produceva più della metà del PIL mondiale. Stiamo tornando più o meno a quella
situazione.
Perché cito queste cose - che si possono affondare le portaerei, Google, Al-Qaida, ecc.
ecc.? È di nuovo lo stesso concetto: alcune delle funzioni degli Stati non sono più gestite
solo dagli Stati. Addirittura la sicurezza: viene meno il monopolio statale della sicurezza,
che è anch’essa un’invenzione dell’era moderna, risale più o meno a un secolo prima
della scoperta dell’America. Perché prima non era così, la sicurezza ognuno se la
comprava; gli imprenditori l’acquistavano, i principi avevano le compagnie di ventura e
così via.
Stiamo tornando a una situazione non proprio in cui si compra, ma insomma, WikiLeaks
è qualcosa di importante...
Perché cito le portaerei? Andiamo indietro, a quando la Cina era la prima economia del
mondo, a quando l’Asia vede arrivare, dapprima nell’Oceano Indiano, poi fino alla Cina,
le caravelle portoghesi, che con un po’di cannoni a bordo fanno capire che possono
demolire le fortificazioni medioevali, alte ma sottili. E da allora partono un bel po’ di
secoli durante i quali gli europei fanno veramente i gradassi dappertutto; questo ha
accumulato nel resto del mondo un rancore che sta venendo fuori oggi, ma noi non
abbiamo più la forza per opporci.
Allora il New Normal vuol dire anche questo. Vuol dire prima di tutto che non possiamo
più pretendere di fare un commercio internazionale nel quale dentro i prodotti c’è una
nostra ora di lavoro che viene scambiata contro quattro, dieci, quindici ore di lavoro nel
prodotto che gli altri ci danno in cambio, perché tutto questo stava in piedi quando i
due prodotti avevano tecnologie completamente diverse. Oggi i due prodotti vengono
fatti con impianti che sono praticamente identici e questa differenza di ragioni di
scambio non regge più, perché non c’è più la forza militare e non c’è nessuna ragione
tecnologica o commerciale.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Cito le portaerei perché sta scomparendo la capacità degli Stati Uniti, tutta basata sulle
portaerei, di esercitare pressioni. E i cinesi stanno mettendo in servizio un missile che
arriva a una velocità talmente elevata che non può essere intercettato e ha una potenza
tale che un solo colpo distrugge una portaerei. Quindi con questo, la potenza, diciamo,
geopolitica americana è finita.
Allora dopo cosa succede (slide 6)? Ecco, adesso cominciamo con le buone notizie. Cioè,
quello che cambia, che a noi sembra una rivoluzione, è solo un rimettere a posto delle
cose. Finiti i quasi dieci secoli di prepotenza inaudita degli europei, andiamo verso una
situazione in cui il PIL pro-capite è distribuito non proprio uniformemente, ma non
presenta più questo divario assurdo e ingiustificato tra l’Europa e gli Stati Uniti e il resto
del mondo.
Ma il mondo continua a crescere, perché i motori della crescita sono sempre stati due: la
crescita della popolazione e la crescita della produttività “media”, cioè il livello al quale
mediamente lavorano gli operai, che cresce essenzialmente perché a operai che stanno
usando tecniche vecchie “si mette in mano” una tecnica nuova (slide 7). Questo è il
modo più semplice, non c’è da inventare nulla.
È quello che sta succedendo in Asia, cioè: portiamo i nostri impianti o loro se li
comprano, vi lavorano alcune centinaia di milioni di lavoratori a un tasso di produttività
che raddoppia o triplica e questo per forza fa crescere tutta l’economia mondiale.
Abbiamo in più un paniere di opzioni tecnologiche che non è mai stato così ampio nella
storia e sta crescendo a un tasso che non è mai stato così veloce, il che significa che non
c’è solo il trasferimento tecnologico, c’è anche l’innovazione tecnologica. Cito un caso, il
buco nell’ozono: risolto, non se parla più. Sembrava che dovessimo morire tutti coi raggi
cosmici e invece è stato risolto perché hanno sostituito quel gas che creava il buco
nell’ozono.
Però c’è un cambiamento climatico che significa altre innovazioni da prevedere. Le
considero tutte come opportunità: la Green Economy, le tecnologie nuove che devono
risolvere i problemi, tra cui anche quelli dell’alimentazione.
Un caso emblematico del cambiamento tecnologico è questo gas che viene dalle rocce
frantumate. Non tanto tempo fa, all’inizio del secolo, negli anni 2000-2002, gli Stati Uniti
erano in ginocchio: non sapevano dove andare a prendere il gas, avevano riempito le
coste di impianti di rigassificazione perché il Canada non gliene esportava abbastanza.
Oggi hanno un eccesso di gas e lo esportano in Europa, perché hanno trovato il modo di
estrarlo dalle rocce frantumate. Questo sta creando nei bilanci delle imprese enormi
problemi, perché il prezzo del gas e del petrolio, che erano sempre stati accoppiati, si
sono divaricati, dal momento che questo cambiamento tecnologico riguarda solo il gas
e non il petrolio, ma i contratti take or pay a lunghissimo termine legano il prezzo del gas
al petrolio. Allora, questo ci dice che la tecnologia è un’arma competitiva che non ha
assolutamente smussato le sue punte, anzi, ha degli effetti che possono essere
devastanti.
C’è un posto per l’Italia in tutto questo? Su questo sono estremamente ottimista (slide 8).
E mi fa piacere sentire il presidente Poletti, che ha sempre un atteggiamento così
costruttivo.
Noi siamo meno dell’1% della popolazione mondiale, non abbiamo bisogno di produrre
tutto, possiamo importare la stragrande maggioranza di quello che ci serve, purché
siamo competitivi e abbiamo delle buone ragioni di scambio. Perché siamo meno
dell’1% della popolazione mondiale. Ci basta trovare dei clienti adatti ai nostri prodotti,
che sono, sappiamo, un po’ raffinati, un po’ costosi, quindi abbiamo bisogno anche come diceva Alessandra Lanza - di trovare dei clienti interessati. Abbiamo una buona
immagine di prodotto, che però si sta in alcuni settori degradando, quindi questo è un
primo problema da affrontare.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Il secondo problema è la produttività - lo diceva la prof.ssa Kostoris - ed è un problema
drammatico. Non possiamo assolutamente pensare né di salvare posti di lavoro per i
nostri figli, né di assicurare loro una vita decente, se non mettiamo mano e risolviamo il
problema della nostra produttività, che è più bassa di quella dei concorrenti europei e
sviluppati, e di questo poi parleremo.
Dimensione d’impresa: è connessa. Questa è una mia opinione personale, ma se andate
a vedere la cross section della produttività in tutti i Paesi industrializzati, vedete che
chiaramente c’è una produttività alta nelle grandi imprese, media nelle medie imprese,
bassa nelle imprese piccole.
Allora in un Paese nel quale gradualmente le grandi imprese spariscono, è ovvio che la
produttività media diminuisce, a parità di condizioni, se non si cambia niente. E questo è
un effetto di composizione sul quale bisogna lavorare.
Poi abbiamo le debolezze di sistema, che tutte le classifiche internazionali mettono in
evidenza: meritocrazia, giustizia, pubblica amministrazione, infrastrutture, beni pubblici.
Per cui in questa situazione sopravvive il “fai da te”.
Faceva piacere sentire il presidente Poletti che diceva “beh, ma io mi ci metto e risolvo il
problema”. Per fortuna c’è qualcuno che fa così, ma finché ci dobbiamo basare solo su
questo, continuiamo ad andare indietro rispetto a Paesi-sistema come la Germania, che
invece fanno qualcosa di meglio.
Allora, vediamo come deve essere oggi un’impresa vincente: deve essere un’impresa
agile, mutevole, sempre per chi sta in quell’1%, se noi vogliamo essere l’1% e vogliamo
vendere agli altri qualcosa che loro apprezzino e che non sono capaci di fare da soli
(slide 9). Ma attenzione, non è che stiamo vendendo l’ultimo ritrovato della scienza,
perchè siamo deboli anche nella ricerca scientifica applicata alle imprese e dobbiamo
vendere qualcosa che sia l’ultimissima applicazione, quasi sempre di innovazioni
scientifiche di base fatte da altri. E in questo siamo bravissimi come industria, sia nelle
applicazioni scientifiche, sia nel design e nel modo di vivere all’italiana, ecc.
Ma per stare sempre sulla cresta dell’onda come il surfista, non si può pensare, per
esempio, a posti di lavoro immutabili da trenta o quarant’anni, sempre con la stessa
mansione, sempre con le stesse condizioni. Abbiamo bisogno di imprese agili, veloci,
che investano molto sul capitale umano, che gestiscano mezzi rilevanti perché i mercati
sono lontani. Bisogna saper guardare lontano, quindi ci vuole un capitale paziente. Sono
imprese - e qui prendo a prestito anche dai Paesi più avanzati - che ripudiano la
gerarchia. Perché se si vuole avere un capitale umano avanzato, questo ha le sue
pretese, le sue aspettative e va coltivato, trattenuto, vanno riconosciute le sue capacità.
Qui avrei potuto citare Google, dove più di metà dei dipendenti hanno il PhD. Ho citato
Wollen Fresh, che è una catena di distribuzione che in italiano potremmo tradurre con
“integrale a KM0”: vendono solo prodotti naturali, integrali e fatti lì vicino. Hanno un
sistema di gestione delle aree di vendita assolutamente rivoluzionario, che cioè viene dal
basso. Quando si decide cosa si mette sullo scaffale, lo decidono insieme i dipendenti
del punto di vendita; quando si assume una nuova persona, viene assunta in prova e
non diventa definitiva se non c’è l’approvazione dei colleghi. Perché? Perché le
retribuzioni dipendono anche dai margini che fa il singolo punto di vendita. Quindi, se si
prende un “lavoratore di scarse capacità” come compagno di lavoro, poi vuol dire anche
minor reddito degli altri dipendenti.
Allora voglio insistere su questo punto, perché sono un convinto sostenitore del fatto
che ci voglia la partecipazione alle decisioni e ai risultati, ma la partecipazione è vera
quando è “responsabile”, cioè tu partecipi alle decisioni e poi ti becchi anche i risultati. E
inoltre deve essere trasparente (slide 10).
Allora, l’arena competitiva, la tradizione, il made in Italy, lo sappiamo (slide 11). Ma noi
abbiamo opportunità anche in settori specializzati di alta tecnologia e nelle
infrastrutture, le grandi opere, perché questi sono tipici settori da problem solving, dove
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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gli italiani sono molto bravi. Abbiamo nuove frontiere, nella scelta tradizionale, che
richiedono la presenza diretta sui mercati di sbocco (slide 12); la managerializzazione;
dimensioni più alte (la soluzione consortile, è già stato detto e non ci ritorno, è una
situazione parziale, di solito transitoria, che ti fa scoprire come è bello stare in Cina e
come sarebbe meglio non starci in un consorzio, quindi è la transizione per capire);
finanza e assetti proprietari; l’apertura.
Concludo concentrandomi su quest’ultima slide: riprovare con la grande industria (slide
13).
L’ho detto prima, ne sono convinto, che il motivo, uno dei motivi, per cui cresciamo
meno e abbiamo questo gap di competitività è che abbiamo ripudiato la grande
industria. Anzi, l’abbiamo “buttata fuori a calci”. Abbiamo creato delle condizioni in cui
riesce a essere competitivo solo l’imprenditore piccolo e medio, che ha un rapporto
diretto con i suoi collaboratori, che riesce a gestirli anche con il coinvolgimento diretto,
mentre invece la grande impresa è burocratizzata.
Ce le siamo viste sparire tutte. Ricordatevi che avevamo un’industria degli
elettrodomestici che li produceva per tutta Europa e le varie Bosch e AEG si limitavano
ad appiccicare la targhetta sull’elettrodomestico italiano. Avevamo la prima industria
automobilistica europea, la più grande potenza elettro-nucleare installata, dopo gli Stati
Uniti e prima dell’Inghilterra e della Francia. Avevamo la più grande siderurgia
europea…
Insomma, la grande industria la sapevamo fare e i nostri manager la sanno ancora fare,
all’estero, alla dipendenza di capitale estero. Dobbiamo riportarcela in casa, questa è una
competizione che dobbiamo accettare. E vincere.
Ritengo che il mondo cooperativo possa insegnare qualcosa in almeno due punti di
questo elenco che ho fatto: una è quella del trovare delle strade per consentire alle
persone, a chi lavora, di essere presente nelle decisioni e nei risultati. Ma non lasciatemelo dire - con la partecipazione agli utili, perché questo è un infingimento: se i
dipendenti del pastificio lavorano bene, fanno ottima qualità, ottima produttività e poi
l’addetto agli acquisti sbaglia l’acquisto del grano duro, l’azienda magari va in rosso. E
cosa c’entrano i dipendenti? Quindi la partecipazione alle decisioni e ai risultati deve
essere fatta su quelle attività nelle quali la persona è in grado di incidere; allora sì che ha
soddisfazione e motivazione.
Questo però richiede un ridisegno dell’azienda, perché l’azienda gerarchica come è fatta
adesso, con tutte le decisioni assunte in cima, non lo consente. Quindi ecco perché il
mondo cooperativo può essere una sperimentazione.
Ci sono dei libri di guru contemporanei del management che addirittura arrivano
all’eresia di dire qualcosa di bene dell’Accademia, perché quando gli accademici devono
scegliere un nuovo professore lo guardano ben bene, perché sanno che poi questi
diventa uno dei loro e aumenta o diminuisce il livello di glamour, di prestigio della loro
università. Ebbene, questo va recuperato anche nelle aziende, ed è già presente per
esempio in Google e nelle aziende americane più avanzate.
Ci sarà magari spazio per una discussione. Grazie.
ANDREA CABRINI
Grazie prof. Gros-Pietro.
Di spazio non ce n’è tantissimo, perché siamo verso la conclusione.
Do subito un diritto di replica, in una battuta, Zini, su questo ultimissimo punto, che
riguarda direttamente la vita e l’essenza anche dei meccanismi delle cooperative.
Come risponde a questa osservazione?
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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CARLO ZINI
Con una battuta dico che sembra quasi che abbia disegnato un’impresa cooperativa.
Dove partecipazione, coinvolgimento, meritocrazia, questi fattori che in qualche modo
riguardano il coinvolgimento del capitale umano, dovrebbero essere - e sono - più
presenti.
Dissento leggermente - ma è una valutazione di merito - su questa distinzione fra
partecipazione ai risultati e agli utili, perché tutto sommato, effettivamente, uno degli
elementi distintivi, per lo meno nella cooperazione di lavoro è, come dire, l’effetto
imprenditoriale più diffuso, quindi quello del proprio lavoro. Anzi, devo dire che è uno
degli elementi importanti per poi tracciare quei temi che sono stati visti prima,
dimensione e patrimonializzazione delle imprese, che paradossalmente in questa fase
mediamente è più elevata di altri sistemi di impresa. Cioè, nel momento in cui c’è una
maggior partecipazione dei soci alla capitalizzazione delle imprese, c’è un maggior
senso di responsabilità. Questa è comunque una valutazione. Vorrei inoltre sottolineare
la sfida dell’internazionalizzazione e proporre una riflessione su come, nel nostro Paese,
in questi ultimi anni, siano accresciute le iniquità. Cioè, noi abbiamo sostanzialmente
aperto un divario anche con le politiche fiscali che sono più opprimenti e anziché
volgere allo sviluppo del sistema sono andate in qualche modo a proteggere le rendite
di posizione, qualunque queste siano. Ecco, queste sono alcune riflessioni che secondo
me sono molto efficaci, anzi volevo ringraziare tutti i relatori, credo che abbiano dato un
contributo notevole alle nostre riflessioni.
ANDREA CABRINI
Prof.ssa Kostoris, è d’accordo su questa osservazione che riguarda proprio come la
distribuzione, anche del reddito e delle risorse, sia un fattore chiave, se si vuole cercare
di agganciarsi a una ripresa o stimolare la ripresa e la crescita dell’economia?
FIORELLA KOSTORIS
Sono molto d’accordo e nella diagnosi, più ancora che nelle prospettive future, dico che
c’è stata in effetti una deriva, sia nel senso di inefficienze ulteriori create dalla crisi,
rispetto a inefficienze che già ci sono in Italia sul piano proprio delle problematiche
strutturali, sia una deriva di iniquità.
È il caso che facevo prima, della pressione fiscale, che è aumentata senza che si
recuperasse in efficienza, in efficacia, in economicità dei servizi pubblici e senza che si
facesse un vero recupero nell’evasione fiscale, quindi combinando inefficienza e iniquità.
Ma anche in altri casi: il sistema pensionistico, per esempio. Ritengo che aver modificato,
su richiesta della Corte di Giustizia Europea, l’età pensionabile delle donne, nelle
pensioni di vecchiaia del settore pubblico, sia corretto, perché la parità di genere
richiede parità su tutti gli aspetti, ma non aver adottato un identico processo di
avvicinamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato crea inefficienza e
iniquità, crea un sistema pubblico di spesa eccessiva per le pensioni, crea disuguaglianze
inaccettabili fra le donne del settore privato e quelle del settore pubblico, crea
ineguaglianze fra donne e uomini, crea situazioni insomma in cui ancora una volta si
combinano, secondo me, inefficienza e iniquità.
Bisogna uscire da questa morsa, perché bisogna andare verso condizioni in cui il rigore
viene accompagnato allo sviluppo, all’efficienza e all’equità.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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ANDREA CABRINI
Dott.ssa Lanza, andiamo un po’ a tirare le conclusioni.
Le riporto l’osservazione con cui ha aperto Zini questa sessione, quando diceva che gli
effetti peggiori della crisi in realtà non li abbiamo ancora visti. Dal suo punto di vista
questo è vero o, alla luce delle analisi sua e anche dei colleghi, in fondo, si può guardare
anche con un po’ più di ottimismo a questo 2011?
ALESSANDRA LANZA
Concordo con, credo, l’implicito del discorso che faceva la prof.ssa Kostoris sullo
scenario, quindi, se dovessi situarmi su uno dei tre scenari del Financial Times, mi situerei
su quello del 70%, ovvero uno scenario molto simile al 2010.
Il che non vuol dire che non abbiamo ancora visto gli effetti peggiori della crisi;
potremmo ancora vederli, soprattutto se non mettiamo in atto uno scatto e una
reazione, perché non li abbiamo ancora visti soprattutto in termini di occupazione, in
quanto abbiamo un sistema che ha consentito in qualche modo una garanzia, forse
anche più che in altri Paesi, dei posti di lavoro. Ma con una crescita annua dell’1%, forse
anche qualcosa meno, è evidente che questo non è sostenibile, è evidente che andremo
incontro a chiusure e a costante perdita di occupazione.
ANDREA CABRINI
Gros-Pietro siamo, se non sbaglio, all’8,4% di disoccupazione in Italia, ma quella
giovanile è oltre il 29%.
Alla fine di questo 2011 dove saremo secondo Lei?
GIAN MARIA GROS-PIETRO
Credo, spero, che la minaccia a cui faceva cenno il vice presidente Zini, e cioè che non è
detto che siamo fuori dalla crisi, non sia attuale.
Però l’Italia ha questo problema molto particolare della competitività. Sono convinto che
la ripresa dell’economia reale sia cominciata, che l’unico rischio, l’unica minaccia che
pende sopra a questo siano questi debiti sovrani che non si riescono a sostenere.
Mi auguro che quello che si sta discutendo a livello europeo sia anche l’interesse di
alcuni Paesi asiatici, come Cina e Giappone: impedire che l’Euro continui a indebolirsi.
Quindi, dando ottimisticamente per scontato che questa situazione riesca a essere
tenuta a bada, allora sono convinto che l’economia europea possa ripartire, trainata
soprattutto dalla nostra capacità di partecipare alla grande crescita del motore mondiale
di cui parlavo prima.
Dentro all’economia europea c’è un Paese che è agganciato direttamente, che è la
Germania; c’è un paese come l’Italia, che solo in piccola parte è agganciato direttamente,
che cioè riesce a vendere direttamente nei mercati lontani - non solo l’Asia, ma anche
l’America Latina e così via - e in molti casi invece vende indirettamente ed è questo che
ci umilia e ci penalizza.
Ma perché i nostri specialisti di meccanica devono vendere solo se vende l’Audi? E
vendono dentro all’Audi? Noi dobbiamo avere delle grandi imprese che riescono a
vendere direttamente nei mercati finali.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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ANDREA CABRINI
Ma quando si dice “facciamo come la Germania”, è una ricetta utile, praticabile per il
nostro Paese, oppure bisogna comunque cercare una strada alternativa e unica?
GIAN MARIA GROS-PIETRO
Io preferirei cercare una strada diversa, perché una ricetta tedesca va bene per degli
utilizzatori tedeschi. Per esempio la cogestione, il sistema duplice di governo delle
grandi società quotate, con il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione, non mi
sembra che abbia dato dei bellissimi risultati in Italia; forse neanche in Germania, ma
comunque là funziona.
Preferirei qualcosa di più diretto.
Benissimo, Zini, se i lavoratori sono anche proprietari dell’impresa. Ma quello che io vedo
nella gestione delle imprese, soprattutto delle grandi imprese quotate, che cos’è? Che
chi ha messo il capitale nell’impresa sono degli azionisti diffusi nel mercato. Gli azionisti
vanno trattati bene, con tutti i riguardi, non vanno spaventati, etc. Quindi le grandi
imprese fanno una politica di bilancio che sia il più possibile tranquilla, senza oscillazioni,
e quando le cose vanno troppo bene smorzano e quando vanno troppo male cercano di
alleggerire. Allora, vendere il risultato di tutto questo come una partecipazione agli utili
mi sembra mistificante.
Vorrei al contrario lavoratori che, o veramente comandano, e sono proprietari
dell’impresa, e allora va bene, oppure se hanno una partecipazione, questa sia non tanto
all’utile di bilancio, che poi è anche quello che determina l’imponibile fiscale e quindi ci
sono tante altre considerazioni, ma a qualche risultato un po’ più vicino ai loro sforzi.
ANDREA CABRINI
È d’accordo Zini?
CARLO ZINI
Ma non credo che sia una contraddizione: devono esserci l’una e l’altra.
La parola “proprietà” preferirei non usarla nella cooperazione di lavoro, comunque i
gestori sono pro-tempore e con un doppio ritorno: sul valore del risultato contrattato
sindacalmente per i soci e i non soci, e poi per la partecipazione al patrimonio. Tendo a
ricordare che le imprese cooperative hanno comunque una capitalizzazione molto
importante, che arriva normalmente a destinare l’80% degli utili - sempre in quelle che
conosco meglio, di produzione-lavoro - al patrimonio indivisibile e sono le imprese sicuramente quelle di costruzione - che pagano più tasse in proporzione al fatturato.
Questo ve lo voglio dire perché è bene tenerlo presente.
ANDREA CABRINI
Bene, abbiamo fatto molte analisi e guardato agli orizzonti del 2011.
Da cronista voglio tornare però a una domanda che mi preme molto e mi mette anche
un po’ di ansia, guardando all’anno che viene. Perché proprio in queste settimane è
iniziata la fase in cui i governi in Europa, e poi anche negli Stati Uniti, e anche le banche,
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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dovranno raccogliere sul mercato migliaia di miliardi di euro, di dollari, per rifinanziare i
debiti che sono in scadenza.
E questo processo è iniziato con qualche timore, con qualche brivido: il caso del
Portogallo ha fatto anche scendere le borse lunedì, poi si sono verificate delle aste tutte
in positivo - Portogallo, Spagna, Italia, in questi tre giorni.
Io chiedo, prof.ssa Kostoris, questa, secondo Lei, è una tregua?
Il fatto che i mercati abbiano dimostrato che l’allarme sui giornali è recessivo, che c’era
un po’ di isteria attorno a questo tema, significa che comunque, magari pagando dei
tassi un po’ più alti rispetto alle ultime emissioni, ci sono le condizioni per farcela? Anche
perché poi si dice che i cinesi stessi stiano comprando, dopo quelli della Grecia, anche i
debiti del Portogallo e così via. Perfino i giapponesi, che hanno un debito al 200% del
PIL, sono arrivati qui a comprare i debiti di alcuni Paesi in difficoltà.
Oppure dobbiamo prepararci a nuove fasi di tensione nel corso di quest’anno?
FIORELLA KOSTORIS
Come ho detto nella mia esposizione, io mi aspetto che ci possano essere ancora
momenti di tensione e di ampliamento degli spread significativi fra i titoli dei Paesi
periferici, in particolare dei Pigs, a cui forse si dovrà presto allineare anche il Belgio speriamo di no - ma comunque potrebbero esserci anche un numero crescente di Paesi
in difficoltà nell’Unione Europea.
Però credo anche che, come è avvenuto appunto l’anno scorso, ci saranno situazioni di
alti e di bassi, ma, tutto sommato, sia gli Stati membri saranno in grado di far fronte a
queste situazioni in modo adeguato, con piani di rigore considerati significativi dai
mercati, sia l’Unione Europea, come ha saputo mostrare nei momenti di vero bisogno e
di grande rischio, nel suo insieme si accorderà nel fare politiche coordinate, diciamo
abbastanza adeguate.
Quindi mi aspetto che succeda ancora come in passato, appunto, con momenti di
difficoltà, ma non mi aspetto che si arrivi a situazioni in cui in nessuno di questi Paesi più
a rischio, a cominciare dalla Grecia, ci sarà una ristrutturazione del debito. Quindi non
penso che ci sarà un vero pericolo per l’Euro.
ANDREA CABRINI
Ma, prof. Gros-Pietro, l’Italia è al riparo da un eventuale contagio o dobbiamo prepararci
al peggio anche noi?
GIAN MARIA GROS-PIETRO
Io credo che l’Italia si sia comportata nel modo migliore che era possibile in questa
difficile contingenza. Il rigore sulla finanza pubblica è stato mantenuto, i mercati sono
stati rassicurati. Credo addirittura che molti degli operatori dei mercati non si
aspettassero che l’Italia sarebbe riuscita a mantenere un rigore della finanza pubblica
come quello è stato mantenuto.
La situazione permane difficilissima per il livello del debito pubblico, ma non per la
gestione del deficit. Quindi mi aspetto che, se la politica della finanza pubblica continua
così, l’Italia non corra nessun rischio. D’altra parte questo è stato detto anche
dall’Autorità Monetaria Europea.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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ANDREA CABRINI
Grazie Gros-Pietro, Kostoris, Lanza e Zini.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Quarta Sessione
La legalità e la libertà di fare impresa
GIORGIO BERTINELLI
Come avete visto, nella seconda parte della giornata, su questo tema della legalità e la
libertà di fare impresa, oltre alle personalità che avete trovato nell’invito - Maurizio De
Lucia, sostituto procuratore antimafia; Ivanohe Lo Bello, Confindustria Sicilia; Livia
Pomodoro, Tribunale di Milano; il presidente Poletti; Fabio Tamburini, come moderatore
- è presente il ministro Maroni.
Cercheremo di mantenere questa nostra iniziativa in un tempo abbastanza contenuto,
per quanto possibile, in modo da consentire a tutti di intervenire.
Giuliano Poletti, puoi intanto presentare l’iniziativa?
GIULIANO POLETTI
Buonasera. Un doveroso ringraziamento al Ministro, per la disponibilità e l’attenzione
per questa nostra iniziativa, così come a tutti i nostri illustrissimi ospiti.
Quando abbiamo pensato queste due giornate di lavori, abbiamo cercato di interrogarci
su quali fossero le tematiche da affrontare per stare pienamente dentro l’attualità, ma
anche per potere immaginare un percorso, una valutazione rispetto alle cose che come
organizzazione, come Lega delle Cooperative, abbiamo intenzione di fare.
E abbiamo ritenuto che il tema della legalità per il fare impresa e per lo sviluppo della
società fosse di grande rilievo, che valesse la pena mettere attorno a questo tavolo
autorevoli personalità che se ne occupano, per riflettere insieme su “a che punto siamo e
cosa possiamo fare”.
Per quello che riguarda Legacoop, ci sentiamo di affermare alcune cose molto semplici:
per noi la legalità è una condizione imprescindibile da tutti i punti di vista. Ci rendiamo
ovviamente conto che ci sono problemi di illegalità di portata diversa, perché un conto è
ragionare della grande organizzazione mafiosa e un altro è parlare di fenomeni di
caporalato o di lavoro irregolare. Ma il dato di fatto è che molte di queste cose finiscono
per essere connesse, finiscono per produrre delle condizioni ambientali per cui l’impresa
sana, l’impresa che vuole rispettare le regole, il lavoratore che vuole lavorare secondo le
regole, i pezzi di economia che vengono costruiti nel rispetto delle regole, rischiano
veramente di essere espulsi perché sul mercato l’elemento della legalità non viene fino
in fondo valutato e valorizzato.
Da questo punto di vista, abbiamo cercato in ogni sede, a cominciare dalle nostre sedi
territoriali, di approvare codici di responsabilità, chiedendo ai nostri associati di
assumere comportamenti coerenti con i nostri impianti.
Abbiamo fatto una scelta un paio di anni fa, poi il ministro Maroni lo abbiamo incontrato
all’agriturismo a Portello della Ginestra, all’inaugurazione; siamo andati in quel luogo a
tenere la prima riunione. Non erano ancora finiti i lavori della Presidenza nazionale di
Legacoop e abbiamo presentato lì un nostro documento contro ogni illegalità.
L’abbiamo fatto fisicamente in quel luogo e debbo dire che volevamo consapevolmente
parlare a tutti. In primis agli associati alla Lega delle Cooperative, perché chiamarsi
cooperative non significa essere tra virgolette in regola comunque, sono i
comportamenti che fanno di un’etichetta una forma, una modalità e le danno un valore,
non sono le bandire che danno il valore agli uomini, sono i comportamenti degli uomini
che danno un significato ai simboli e alle bandiere.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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E allora abbiamo detto: prima di tutto diamo l’esempio, prima di tutto come cooperatori
comportiamoci coerentemente. Ma non è sufficiente comportarsi legalmente, bisogna
anche combattere l’illegalità. E noi ci siamo impegnati a farlo e l’abbiamo fatto
attraverso gli strumenti che competono a una forma imprenditoriale come la nostra:
costruendo impresa sana, costruendo lavoro regolare, cercando di produrre queste
condizioni. E l’abbiamo fatto insieme a tanti altri.
Posso citare prima di tutto il lavoro fatto con Libera, in Sicilia, per le cooperative che
gestiscono i beni sequestrati. È stato un lavoro difficile, complicato, importante, perché
volevamo costruire imprese vere. E sono molto orgoglioso di poter dire che ho ascoltato
recentemente il presidente della cooperativa Placido Rizzotto affermare: “non voglio che
la mia cooperativa debba finire perché è finita la mafia; voglio poter pensare che la mafia
può finire, può essere combattuta e sconfitta, ma voglio che la mia cooperativa ci sia
anche dopo, perché deve avere una sua logica d’essere, una sua ragione di esistere, una
sua capacità economica di fare il suo lavoro. Oggi lo fa in un contesto particolare, su dei
beni sequestrati alla mafia, ma voglio che il bilancio della mia cooperativa sia fatto dai
prodotti che noi realizziamo e che vendiamo sul mercato e dal lavoro che ci mettiamo”.
Credo che questo sia un elemento assolutamente decisivo, per noi è quello che si deve
fare.
L’altra cosa che voglio dire è questa: ci sono stati successi importantissimi di cui bisogna
dare atto al Ministro, alla magistratura, alle forze di Polizia, a tutti coloro che hanno
combattuto contro la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra. Bisogna dare un riconoscimento
a tutte quelle forze sociali, a quei movimenti che nelle comunità si sono impegnati, alle
persone che hanno assunto soggettivamente il rischio di mettere la loro faccia davanti a
questi problemi, assumendosene la responsabilità.
Bene, oggi noi diciamo in modo molto chiaro che c’è una fase importante, delicatissima,
che è quella per cui, quando le forze dello Stato riescono ad aprire uno spiraglio, bisogna
che qualcuno “metta il piede in mezzo alla porta”, bisogna evitare che si torni indietro.
La storia ci insegna che tante altre volte sono stati dati colpi pesanti alla criminalità
organizzata, poi questa ha saputo riorganizzarsi, ricostruire i propri strumenti e tornare a
essere, non dico più forte di prima, ma sicuramente molto forte.
Bene, l’unica maniera che c’è perché questo non accada è che la società, gli imprenditori,
l’economia, decidano di “mettere il piede in mezzo alla porta”, decidano di fare in modo
che quella porta non si richiuda, e per evitarlo bisogna fare economia sana, bisogna
assumere il rischio di investire in quelle realtà, bisogna realizzare buona, sana impresa,
buono e sano lavoro.
Legacoop è impegnata su questo fronte, lo sta facendo, in Sicilia, in Calabria, in
Campania, in molte parti d’Italia. Ma poi il problema esiste anche al Nord, perché qui
abbiamo, come sappiamo, le situazioni che sono state rilevate con le inchieste, c’è un
problema di inquinamento, insomma ci sono dati che sono noti in modo molto chiaro.
Bene, l’impegno che assumiamo è quello di continuare lungo quella strada. Abbiamo
una collaborazione aperta con l’agenzia che gestisce i beni sequestrati. Ci impegniamo,
per quello che possiamo, a sostenere processi di ritorno all’economia legale delle
imprese che vengono sequestrate, perché lì c’è un problema particolarissimo: un conto
sono i beni immobili, sequestrare un palazzo e riassegnarlo, altro conto è un’azienda,
perché l’azienda perde il mercato, perde le connessioni.
Posso citare un esempio: a Erice c’è la Calcestruzzi Ericina, una cooperativa che gestisce
uno stabilimento che produce calcestruzzo, precedentemente gestito dalla mafia. Ma
stiamo parlando del fatto che non possiamo immaginare che accada che la magistratura
faccia bene il proprio lavoro, lo Stato faccia bene il proprio lavoro, sequestriamo i beni,
sequestriamo le imprese, poi, siccome non riusciamo a gestirne la continuità
imprenditoriale, alla fine i lavoratori, le comunità locali possano dire: “Oh guarda, quasi
andava meglio prima perché io un posto di lavoro ce l’avevo e adesso non ce l’ho più”.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Noi sentiamo molto questa responsabilità; per quello che possiamo, come mondo
cooperativo, ci mettiamo e siamo a disposizione di tutti quei percorsi che cercano di
evitare che questo accada, cioè cerchiamo di fare in modo, insieme alle altre
organizzazioni imprenditoriali e al sindacato, che ciò che viene sequestrato, e in ogni
caso le opportunità di sviluppo economico imprenditoriale che ci sono in quei territori,
vengano colte fino in fondo, all’interno di una logica e una chiave di legalità.
Quindi, questo è il nostro impegno, ma riteniamo che a questo impegno vada associata
una riflessione, un confronto, una discussione, una condivisione con tutti i soggetti che
di queste tematiche si occupano, perchè è solo da uno sforzo comune, dove ognuno fa
la parte che gli compete, che pensiamo veramente che si possano ottenere dei grandi
risultati.
Detto questo, riconfermo il ringraziamento al Ministro e a tutti i nostri ospiti e cedo la
parola al dott. Tamburini, che organizzerà i nostri lavori.
Grazie.
FABIO TAMBURINI
Direttore Radio 24/Radiocor
Ho accolto con grande entusiasmo l’invito a essere presente qui oggi pomeriggio per
cercare di fare funzionare al meglio questa tavola rotonda, per tre ragioni: per la qualità
delle persone che vi interverranno, ma anche perché sono un giornalista economicofinanziario, ho cominciato a fare questo mestiere all’inizio degli anni Ottanta e da subito
ho capito che il tema dell’economia e della finanza non erano separati da quello della
legalità.
Il tema del fare impresa, ahimé, si incrociava, si intrecciava significativamente col tema
della criminalità economica, ma non soltanto economica, anche con la criminalità
tradizionale. E all’inizio era un hobby che io coltivavo un po’ isolatamente e invece poi i
fatti e anche le inchieste della magistratura hanno dimostrato, soprattutto a partire
dall’inizio degli anni Novanta, che era drammaticamente vero e che quindi andavano
investite energie perché si capissero i meccanismi e si cercasse di modificarli.
La seconda ragione è che dal luglio scorso sono direttore di Radio24 e ho detto subito,
appena nominato - all’interno del Gruppo Sole 24Ore mi occupo stabilmente
dell’agenzia di stampa - che il tema della legalità e della lotta alla criminalità economica
e comune dovevano essere, e diventare sempre di più, uno dei temi caratterizzanti di
Radio24; lo stiamo facendo e credo che anche appuntamenti come quello di oggi
pomeriggio possano servire molto.
Credo che certi meccanismi possono funzionare finché rimangono un po’ clandestini;
nel momento in cui si accendono i riflettori, non ci sono più alibi e quindi la società civile
deve intervenire, deve schierarsi e alla fine il raccontare gli intrecci tra il fare impresa e i
temi della criminalità serve per porre le premesse per fare poi un’impresa in modo
diverso; e soltanto facendo un’impresa in modo diverso si riesce a circoscrivere sempre
di più, e anche a sconfiggere, la criminalità comune e quella economica.
Bene, il primo intervento previsto per questo pomeriggio è quello di Maurizio De Lucia,
sostituto procuratore nazionale antimafia, che non ha bisogno di presentazioni. Con lui
vorrei partire con una domanda che può apparire banale, ma che poi alla fine è un po’di
fondo: molto è stato fatto, ma anche molto manca ancora da fare. Vogliamo cercare di
fare un piccolo bilancio su questo argomento?
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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MAURIZIO DE LUCIA
Sostituto procuratore nazionale antimafia
Innanzitutto buonasera e grazie a Legacoop per l’invito che mi ha rivolto.
E il saluto non è mio, ma del Procuratore nazionale antimafia, che avrebbe voluto essere
presente, ma che si trova all’estero, e quindi naturalmente lui è il procuratore, io sono il
sostituto e quindi come sostituto sono venuto a svolgerne qui le funzioni.
Rispondo alla sua domanda molto sinteticamente, perché quello che è accaduto in
questi anni è una storia che meriterebbe molto tempo e una riflessione molto
approfondita. Però non c’è dubbio che c’è stato un momento nel quale lo Stato ha
iniziato una seria lotta di contrasto al crimine organizzato che è partita non su tutto il
territorio della Repubblica, ma in un punto determinato che è la Sicilia, che in questo
momento è sicuramente il punto più avanzato del contrasto alle mafie in Italia e che
nasce per una ragione chiara: il 1992 e le stragi che tutti ricordiamo.
Con una particolarità, a mio giudizio, rispetto al passato, perché per quanto
drammatiche siano state quelle stragi, purtroppo la Sicilia ne aveva conosciute in
precedenza. Però in tutte le altre volte, che pure sono state terribili - una per tutte
ricordiamo “via Isidoro Carini”, la morte del generale Dalla Chiesa e di sua moglie abbiamo assistito a delle reazioni dello Stato che a un certo punto si sono arrestate.
Abbiamo avuto la legge Rognoni-La Torre e abbiamo avuto degli interventi, ma poi
l’azione dello Stato si è come rallentata. È successo spesso nella storia del contrasto dello
Stato alla mafia, in particolare a Cosa Nostra.
Dal 1992 in poi è successo qualche cosa di diverso, che ha fatto la differenza e, almeno
nella partita con Cosa Nostra, ci consente di dire che lo Stato è molto avanti.
Intendiamoci, non ha sconfitto questa organizzazione criminale, ma è molto avanti sulla
strada della sua repressione. Questo è dipeso dal fatto che c’è stato un elemento diverso
rispetto al passato, cioè dal 1992 - io sono arrivato a Palermo nel 1991, mi occupo di
queste cose da allora, quindi la storia l’ho vissuta tutta e mi astraggo dal ruolo che ho
avuto, da testimone posso dire che c’è stato un segno di continuità - lo Stato ha
continuato costantemente a colpire l’organizzazione criminale Cosa Nostra e quei
soggetti che sono stati vicini all’organizzazione, che ne hanno in qualche modo
consentito e rappresentato la forza in passato, i cosiddetti “soggetti contigui”, i white
collars, la borghesia mafiosa come si dice da un po’ di tempo a questa parte.
Ci sono stati sicuramente degli errori, ma da allora si è andato avanti e si è arrivati a dei
risultati importanti, seguendo tre direttrici.
La prima è stata togliere di mezzo i killer, la gente che sparava, quindi l’azione contro la
mafia militare. A Palermo la guerra di mafia degli anni Ottanta ha causato un numero
certamente superiore a mille morti, non possiamo dire quanti perché molti sono vittime
della cosiddetta lupara bianca, gente che sappiamo che non c’è più, ma non sappiamo
come è morta.
La seconda strada che è stata perseguita è stata quella della cattura dei grandi latitanti qui il merito è assai poco della magistratura ma è moltissimo delle forze di Polizia, e
questo va sempre riconosciuto - che è un segnale terribile, devastante per le
organizzazioni criminali, perché ha un effetto simbolico importantissimo e ha un effetto
concreto importantissimo. Quando abbiamo catturato Bernardo Provenzano, abbiamo
tolto di mezzo il soggetto di governo, di mediazione fra tutte le famiglie mafiose. I
collaboratori di giustizia che sono venuti dopo la cattura di Provenzano ci hanno detto:
“noi non sapevamo più con chi parlare a Palermo”. Non si potevano più fare gli affari
perché era mancato il referente di tutti gli affari, colui il quale mediava.
Il terzo profilo sono state le attività di investigazione volte a destrutturare le
organizzazioni criminali e poi l’ultimo punto, il più importante, sul quale in Sicilia - dove
dico, siamo più avanti nella lotta alla mafia - dobbiamo continuare a insistere in maniera
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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massiccia: la lotta ai patrimoni. Si indeboliscono le mafie se si catturano i latitanti e gli si
toglie la ricchezza. E quando dico la ricchezza naturalmente penso soprattutto ai grandi
capitali, a quello che si trova all’estero, ai grandi investimenti, ma anche alle piccolissime
cose. Non avete idea del valore simbolico che è rappresentato dal togliere il distributore
di benzina gestito dal quartiere al mafioso, per affidarlo a qualche persona per bene o
ancora di più, naturalmente, quella villa che era il luogo dove si riunivano i mafiosi e che
diventa una caserma dei Carabinieri, un commissariato di Polizia.
Quindi è un’azione che deve non soltanto guardare i simboli - e questo è stato fatto in
Sicilia - ma tutto il territorio, deve essere capillare. Anche oggi, quando pensiamo di
essere molto avanti nella lotta a Cosa Nostra, ci deve portare a ritenere che invece
questa lotta deve continuare con l’impegno dei precedenti vent’anni e che bisogna
prenderli tutti, scoprirli tutti, stanarli tutti, senza mai arrendersi. E questo porta poi altri
risultati importanti sul piano dello sviluppo, perché senza l’azione di repressione di
questi vent’anni da parte dello Stato, non saremmo arrivati dove siamo adesso e c’è
stato un momento in cui, grazie a queste azioni di repressione, sono sorte delle energie
nella società civile, perché abbiamo sempre detto che la lotta alle mafie non è una “lotta
di divise e toghe” contro i criminali, ma è qualche cosa di più perverso, più complesso e
anche di più elastico. Bene, l’azione di repressione ha fatto sì che nel 2004-2005
cominciassero a registrarsi dei fermenti nella società civile palermitana.
Il primo straordinario esempio, che cito ogni volta e dovunque vado, è quello dei ragazzi
di Addiopizzo, perché questi ragazzi, che hanno scritto un pagina bellissima di storia,
sono quelli comparsi dal nulla una mattina con dei manifesti anonimi: “Un intero popolo
che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.
Questo è stato un segnale formidabile, un po’ perché grazie proprio a quel segnale si è
acceso l’interesse mediatico, ad esempio sul fenomeno delle estorsioni in Sicilia e sulla
presenza della mafia, ma anche perché ha consentito di fare da volano a un’altra serie di
iniziative e fra queste - di cui immagino vi parlerà Ivanohe Lo Bello - c’è la fondamentale
presa di posizione di Confindustria in Sicilia. Secondo me questa dipende da alcuni
fattori: l’attività di repressione dello Stato e il cambio generazionale all’interno dei vertici
di Confindustria. Perché fino a qualche anno fa i responsabili di Confindustria li
arrestavamo, evidentemente non in quanto responsabili di Confindustria, ma in quanto
risultati, nelle indagini, collusi con l’organizzazione mafiosa, perché era gente che non
stava sul mercato e aveva costantemente rapporti col mondo degli appalti pubblici, che
per definizione è uno dei mondi verso i quali le organizzazioni mafiose hanno maggiore
interesse.
Dunque tutti questi fermenti ci portano a guardare con ottimismo alle realtà della Sicilia.
Della Sicilia, perché poi ci sono le altre realtà.
FABIO TAMBURINI
Sembra fatto apposta, e probabilmente lo è, ma l’intervento che è stato immaginato di
seguito a quello dell’esordio è proprio di Ivanohe Lo Bello.
Lo Bello è stato, come Confindustria Sicilia, uno dei protagonisti della Primavera siciliana.
A lui vorrei porre due domande: come è stato possibile che Confindustria alla fine
facesse un passo davvero così importante, adesso ricordato da De Lucia, ma, soprattutto,
come può diventare possibile che il modello siciliano, la Primavera siciliana, varchi lo
stretto? Perché deve accadere, e in realtà sta accadendo - lo abbiamo visto nelle
settimane scorse - i segnali di risveglio della società calabrese rappresentano davvero
una novità.
La Calabria è sempre stato un blocco che, al contrario della Sicilia, fino a pochissimo
tempo fa, non aveva mai dato segnali di opposizione a un certo mondo, al mondo della
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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‘ndrangheta. Adesso sta succedendo anche all’interno, per esempio, della Confindustria
calabrese: si respira un’aria diversa. Anche all’interno della società civile calabrese
qualcosa sta cambiando, l’abbiamo raccontato come Radio24 in dicembre, un’intera
settimana in cui abbiamo dato spazio a questi avvenimenti. Ma non è soltanto la
Calabria, è l’intero Paese che deve essere investito dalla Primavera siciliana.
E ricordo soltanto l’inchiesta congiunta che è in corso, in pieno svolgimento, tra la
Procura di Milano e quella di Reggio Calabria. Ma di questo magari parleremo in seguito.
Adesso chiedo a Lo Bello di raccontarci come è stata possibile la Primavera siciliana e
come deve essere esportato il modello siciliano.
IVANOHE LO BELLO
Presidente Confindustria Sicilia
Intanto grazie dell’invito - lo rivolgo a Giuliano Poletti per tutte le cooperative e i tanti
amici che ho nel mondo della cooperazione e che sono qui oggi - e rispondo subito alle
domande del direttore Tamburini.
Come nasce la Primavera siciliana? L’elemento fondamentale che ha generato la nostra
iniziativa, ne ha parlato bene Maurizio De Lucia, è stato in primo luogo la capacità
repressiva dello Stato e la continuità di questa capacità repressiva. Come De Lucia ha
segnalato, molto spesso in passato, prima delle grandi stragi e in diverse situazioni
storiche, economiche, politiche, le attività di contrasto in qualche modo si esaurivano in
breve tempo. Invece da molto tempo assistiamo a una capacità di contrasto e di
repressione fortissima, sistematica, accompagnata da una strategia, che De Lucia ha
delineato: i killer, i latitanti e poi via via…
Quindi questo ha dato alla società siciliana una fiducia nello Stato e nelle istituzioni, una
volontà e una capacità di mettere in campo un grande cambiamento che è stato
decisivo. Quindi noi saremo sempre grati allo Stato, alla magistratura, alle forze
dell’ordine per quello che hanno fatto in Sicilia, perché è stato l’elemento scatenante
che ha aperto tutte le energie vitali che c’erano e ci sono in Sicilia.
Il secondo elemento è stato un elemento sociale ed economico, lo diceva bene sempre
De Lucia. In passato abbiamo avuto nei vertici confindustriali tanti personaggi che
hanno conosciuto la magistratura sotto un profilo molto diverso da quello che
conosciamo noi oggi. Oggi è un rapporto di collaborazione e di progettualità strategica
comune su questi temi; in passato era un rapporto fra la magistratura inquirente e un
indagato. Perché in questi anni in Sicilia e nel Mezzogiorno è cambiato il gruppo
dirigente del mondo imprenditoriale e confindustriale e il grande discrimine fra il
passato e l’oggi è il mercato. Nel senso che la classe dirigente confindustriale in passato
era legata a settori protetti, regolamentati, non aperti al mercato e che quindi stavano in
un modello sociale ed economico che metteva dentro anche Cosa Nostra insieme ad altri
soggetti.
In questi anni vi è stato un rinnovamento generazionale forte, che ha coinciso anche con
una maggiore propensione al mercato delle imprese siciliane.
E credo che questi siano i due fattori che, messi assieme, spiegano quello che è successo
in Sicilia.
Oltre lo Stretto ci sono stati esempi positivi: il ministro Maroni è stato protagonista del
“caso Caserta”, in cui una fortissima e sistematica azione repressiva dello Stato ha
determinato anche un movimento positivo nella società, in una realtà come quella di
Caserta che è complessa, difficilissima. Non si sa, ma anche la Confindustria di Caserta ha
fatto scelte importanti sotto questo profilo, allontanando anche molti imprenditori.
Quindi questo fenomeno si è esteso, con le stesse identiche caratteristiche con cui ha
avuto successo in Sicilia: capacità repressiva dello Stato, magistratura e forze dell’ordine
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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attive, presenti, forti sul territorio, e poi la società che reagisce, come avvenne nel 2004
con Addiopizzo e poi con tutti i fenomeni successivi.
Lo stesso comincia ad avvenire in Calabria.
Anche lì è un piccolo successo siciliano, perché ovviamente dipende anche molto da un
metodo, da una cultura repressiva, da una cultura di dialogo con le forze sociali che
viene da persone che hanno lavorato tantissimo nella stagione siciliana. Penso al
procuratore Pignatone, al procuratore aggiunto Prestipino e ai tanti magistrati anche
calabresi che collaborano in questi successi.
È evidente che è un percorso in cui c’è ancora molto, molto da fare. La struttura
produttiva anche lì è molto ancorata ai mercati protetti, alla realtà territoriale, però è un
percorso avviato e Radio24 ne ha dato grande testimonianza in quest’ultimo mese,
ascoltando su questo tema sia magistrati, sia imprenditori.
Ma adesso chiudo, per lasciare spazio agli altri, con una valutazione che in qualche
modo è integrativa delle cose che ha detto Maurizio De Lucia.
Stiamo attenti: la mafia non è qualcosa di estraneo al corpo sociale meridionale, non è
una tradizionale organizzazione delinquenziale, non si tratta di gangster che chiedono il
pizzo e uccidono in giro per le strade o nelle campagne siciliane, campane o calabresi. La
mafia, la ‘ndrangheta, quella parte di camorra che è strutturata secondo modelli molto
simili alla mafia e alla ‘ndrangheta, è forte perché è un pezzo della società meridionale.
Ed è un pezzo della società meridionale anche a causa di tanti decenni di politiche sul
Mezzogiorno totalmente sbagliate, perché nel Mezzogiorno è prevalsa in questi decenni
l’idea che dovesse re-distribuire risorse assistenziali e clientelari drenando risorse dal
resto del Paese o dalle risorse fiscali locali, invece che attraverso vere politiche di
sviluppo. Cioè la mafia si è nutrita di un’idea assistenziale, clientelare, parassitaria dello
sviluppo.
E sono tante le contraddizioni che ci sono oggi nel Mezzogiorno e che purtroppo
affollano i giornali, dove emerge un giorno un Mezzogiorno forte e innovativo,
rappresentato soprattutto dai ragazzi e dalle forze imprenditoriali, e un altro
Mezzogiorno meno presentabile, purtroppo rappresentato da un pezzo della sua
economia e da un pezzo della politica.
Tutto questo dipende essenzialmente da un sistema che non ha mai puntato sullo
sviluppo. Proprio per questo - e chiudo - credo che uno dei grandi strumenti antimafia
che oggi occorre mettere in campo, insieme alla capacità dello Stato, della magistratura,
delle forze dell’ordine e al risveglio dei corpi sociali, siano politiche di
responsabilizzazione forte della classe imprenditoriale meridionale. Proprio per questo
credo che la riforma federale abbia una capacità di avere un impatto forte su questo
punto e quindi sul cambio di incentivi sociali ed economici, nel senso che noi oggi
abbiamo bisogno di più mercato e di meno pubblico, non di meno Stato.
In passato abbiamo avuto uno Stato verso il quale non c’era fiducia e una dimensione
pubblica enorme. Vi do un dato e chiudo: le amministrazioni pubbliche in Sicilia - ma lo
stesso vale per la Campania e la Calabria - contribuiscono al PIL, con meri trasferimenti,
non con produzione di ricchezza, nella misura del 34-35%; lo stesso dato in Lombardia è
del 12,5%. Quel 20% sono risorse sottratte al mercato e destinate alla redistribuzione
assistenziale che non hanno creato sviluppo e hanno consentito alla mafia di prosperare
e di avere un ruolo sociale, economico e politico che non ha ovviamente in altri contesti.
FABIO TAMBURINI
D’altra parte storicamente i briganti hanno rappresentato anche i difensori di una certa
parte del popolino dai Borboni e via dicendo. Fa parte della storia di questo Paese...
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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IVANOHE LO BELLO
Sì, la storia è complessa. Poi dovremmo entrare nel tema della costruzione del nostro
Stato e diventerebbe più lunga. Facciamo dopo un bel dibattito su questo!
Il fatto divertente è che gli avversari del nostro modello, quelli a cui dà un po’ fastidio
che ci occupiamo di mafia e di sistema assistenziale clientelare, mi dicono una cosa di
cui sono molto orgoglioso: mi chiamano il rappresentante della Confindustria milanese
in Sicilia, il che per me, in qualche modo, è un titolo di merito perché rappresenta
un’idea di impresa fatta di mercato, di sacrifici, di cultura del lavoro, di responsabilità,
che è quella che stiamo cercando di mettere in campo giù in Sicilia.
FABIO TAMBURINI
Forse vale la pena ricordare cosa sta succedendo in Confindustria anche in Calabria,
perché credo che possa rappresentare un elemento di conoscenza importante.
IVANOHE LO BELLO
Anche lì c’è un processo di rinnovamento; il percorso è sempre quello, nel senso che, se
la società non ha la capacità di cogliere i grandi cambiamenti che avvengono nell’azione
dello Stato e non mette in campo un momento di collaborazione forte con lo Stato, la
mafia non si sconfigge.
Con il ministro Maroni c’è una collaborazione ormai consolidata nel tempo, con risultati
importanti. Ne cito una fra tutte: è grazie a Roberto Maroni che si è riusciti a mettere in
campo la norma che prevede l’obbligo di denuncia da parte delle imprese e che credo a
breve avrà probabilmente qualche prima sperimentazione, forse in giro per il
Mezzogiorno.
FABIO TAMBURINI
Spieghiamola bene, questa cosa.
IVANOHE LO BELLO
Abbiamo affrontato una bella battaglia, perché ci sono state grandi opposizioni. È una
norma che parte da un principio semplicissimo: se tu imprenditore hai un rapporto con
la pubblica amministrazione, vinci un appalto, una fornitura pubblica, non puoi
destinare soldi dei contribuenti a pagare il pizzo al ’ndranghetista, al camorrista o al
mafioso di turno, quindi scatta - diciamo così - l’idea di un obbligo di denuncia, che
quando sei oggetto di un tentativo estorsione diventa uno strumento fondamentale,
che in qualche modo responsabilizza l’imprenditore, dà un segnale forte al mercato, crea
un meccanismo di conflitto di interesse fra l’impresa e il mafioso, perché a questo punto
si divaricano gli interessi e non c’è più quel quieto vivere che in qualche modo ha
caratterizzato spesso in passato il rapporto tra imprese e mafie.
Questo è stato fatto con una collaborazione forte e con un ruolo importante da parte del
ministro Maroni su questi temi, e il Mezzogiorno ha tanti esempi positivi.
Chiudo con un’esperienza, anche perché qui siamo nel mondo della cooperazione.
Abbiamo un esperimento bellissimo in Sicilia, che riguarda una vostra grande
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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cooperativa, la CMC di Ravenna. E il protocollo di legalità che sta seguendo la
costruzione di una grande autostrada tra Agrigento e Caltanissetta è un esempio di
come la collaborazione fra un’impresa, lo Stato, la Prefettura, le forze dell’ordine e le
associazioni di categoria, a prescindere dalle caratterizzazioni, ha consentito in questi
ultimi anni di avere almeno un centinaio di “interdittive antimafia”, di selezionare
finalmente i soggetti economici non per la capacità di condizionamento del territorio
ma, all’opposto, per la capacità di stare sul mercato in libera concorrenza.
Questa è la dimostrazione che, quando si vogliono fare, le cose si fanno. Ci vogliono
persone: ci credono e lo fanno con determinazione, sapendo che possono pagare un
prezzo, ma il guadagno per la collettività è sensibilmente maggiore rispetto al prezzo
magari che ogni singolo può pagare.
FABIO TAMBURINI
Detto ciò, credo che sarebbe un errore, e un errore tutto sommato grave, pensare che la
criminalità di questo genere sia un fenomeno che vive soprattutto o esclusivamente in
regioni come la Sicilia, la Calabria e via dicendo.
Non è così, farebbe sorridere; l’economia è globale, figuriamoci se si ferma in Italia
distinguendo tra la Sicilia, la Calabria e le altre regioni del Centro-Nord. È chiaro che il
fenomeno è complessivo, non si può circoscrivere al Sud, al Mezzogiorno.
In proposito viene a puntino l’intervento che abbiamo immaginato di Livia Pomodoro,
presidente del Tribunale di Milano. Perché? Perché nei mesi scorsi questa collaborazione
tra le Procure di Reggio e di Milano ha acceso i riflettori, ha cominciato a far capire come
si intrecciano le realtà siciliane e calabresi con quelle delle regioni del Nord, regioni
importanti, a partire proprio - incredibile forse a pensarsi - da Milano e dalla Lombardia.
Ecco, certi dati colpiscono e colpisce soprattutto, almeno me personalmente, l’omertà
che una certa criminalità è riuscita a conquistare perfino a Milano. Io, milanese di nascita,
anche se non di origine perché sono tosco-emiliano, una presenza così capillare della
‘ndrangheta a Milano e in Lombardia, nell’omertà che peraltro è emersa con chiarezza
nelle inchieste in corso, forse neanche me l’aspettavo.
Allora penso invece che sia molto importante che anche la società civile del Nord e di
Milano, della Lombardia, sia in prima fila contro questo tipo di atteggiamenti e
fenomeni.
Presidente Pomodoro.
LIVIA POMODORO
Presidente Tribunale di Milano
Vorrei dire innanzitutto che questi fenomeni di infiltrazione mafiosa e criminale
organizzata non sono assolutamente nuovi per la Lombardia, purtroppo.
Direi, in linea generale, che non lo possono essere perché i mercati finanziari sono a
Milano e il riciclaggio del denaro, e ciò che riguarda appunto il mercato finanziario, non
può che passare da Milano.
Condivido il punto di vista del collega sul fatto che dal 1992 (allora ero il capo di
gabinetto del Ministro della Giustizia e quindi ho vissuto in prima persona le stragi di
quel periodo terribile della nostra vita sociale) è cominciata davvero un’attenzione
assolutamente particolare. Ma devo anche ricordare che per quanto riguarda il
riciclaggio del denaro, per quanto riguarda tutto quello che è legato alla criminalità
organizzata in generale, e in particolare alla criminalità mafiosa, questo è stato seguito
con particolare attenzione da Milano, come da Palermo e da altre sedi giudiziarie d’Italia.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Per quanto riguarda i fatti recenti e le infiltrazioni, soprattutto in materia di appalti, di
edilizia, del cosiddetto “movimento terra” del quale tanto ci siamo occupati negli ultimi
anni, è di pochi mesi fa una sentenza esemplare - e ne parlo appunto perché si tratta di
una decisione già presa in I grado dalla VII Sezione Penale del mio Tribunale - in cui si
mette in evidenza proprio questo tipo di infiltrazione da parte della ‘ndrangheta e di
gruppi criminali, per altro particolarmente conosciuti - i Papalia e i Barbaro - e
particolarmente presenti, soprattutto nell’hinterland milanese, Corsico, Buccinasco e
altre zone che sappiamo essere fortemente infiltrate - ma con operazioni molto
significative anche nella città di Milano.
Ma che cosa viene fuori da questa sentenza dei giudici e dalle condanne che sono state
erogate con quella decisione? Emerge proprio il ruolo degli imprenditori, in particolare
di un imprenditore o di alcuni imprenditori (adesso non ricordo bene, perché è una
sentenza ponderosissima), che assumevano i subappalti appunto nell’interesse delle
cosche, in una situazione nella quale non risultavano precedenti che ne indicassero la
loro inidoneità ad assumere i subappalti, e lucravano fortissimi interessi, avendo alle
spalle un regime di monopolio, evidentemente assicurato dal sistema criminale.
Allora si possono fare subito due considerazioni: siamo in un sistema in cui questi signori
avevano dei fortissimi profitti e lucravano in maniera assolutamente insopportabile
rispetto al mercato, che non era più un libero mercato. Ma le vittime della collusione non
erano, e non sono, solo gli imprenditori puliti e corretti sul mercato, ma è il mercato nel
suo complesso. Perché là dove non ci sono più regole condivise e soprattutto dove le
zone di “ombratilità” sono tali per cui si possono avere risultati così eclatanti in un
legame profondo con il sistema criminale, nessuno è più garantito. Non si può più
parlare di libertà di mercato, non si può parlare di libera concorrenza e soprattutto si
perde la fiducia, non nello Stato - perché ha ragione il dott. Lo Bello quando afferma che
uno degli aspetti che ha funzionato bene per la Primavera siciliana è la ritrovata fiducia
nello Stato - ma in questo caso nell’andamento del mercato, nella costruzione di un
buon mercato.
Ho sempre detto e continuo a dire che non possiamo pensare di sconfiggere questi
fenomeni così cresciuti e così invasivi all’interno delle nostre società, se non partendo da
presupposti un po’ diversi da quelli con i quali abbiamo operato in passato. Non c’è
dubbio che le attività criminali debbano trovare contrasto da parte delle forze
dell’ordine, da parte dei magistrati con i processi e così via, ma senza una forte
responsabilizzazione, non solo della cosiddetta società civile, ma della società
dell’economia, della società che impone le regole condivise di legalità sul mercato, non
è possibile - lo dico con assoluta fermezza - sconfiggerle del tutto. Possiamo sconfiggerle
parzialmente, lo stiamo già facendo, dobbiamo dare atto allo Stato nel suo complesso
che sta facendo una grandissima operazione di ripulitura del territorio. Ma può essere
una ripulitura solo parziale, è come la rimozione di qualcosa da una parte all’altra del
territorio, finché le regole non sono invece condivise da un sistema di società che crede
in quelle regole e che esige che quelle regole vengano rispettate. Quali regole? Le regole
della legalità, le regole che liberamente ci siamo dati per la convivenza civile, le regole
appunto del libero mercato e della concorrenza, nella quale tutti possono credere
soltanto se è ben regolata e se è regolata in maniera pulita.
Questa è probabilmente una banalità per molti di voi, ma io credo che sia il fondo di
ogni ragionamento in relazione alle infiltrazioni mafiose.
Dal mio punto di vista, dal punto di vista del Tribunale, posso dire che certamente
stiamo cercando di attrezzarci sempre di più per il contrasto alla criminalità.
Sono d’accordo con coloro che hanno parlato prima - in particolare con il collega De
Lucia - che si sono fatti molti passi avanti attraverso le misure di prevenzione di carattere
patrimoniale, ma sostengo che sono importanti anche le misure di prevenzione
personali, quelle che per esempio escludono dalla gestione dell’azienda soggetti che
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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sono nelle condizioni che abbiamo detto. Sono assolutamente fondamentali perché
incidono in maniera precisa e coerente in un tessuto sociale che comprende di dover
cambiare direzione. E per quanto riguarda le misure patrimoniali non c’è dubbio che vi
siano stati dei risultati e sono convinta che ce ne saranno ancora.
Volevo dare soltanto un dato che mi sembra molto significativo e importante proprio
sulle misure di prevenzione. Noi abbiamo una sezione che lavora molto bene sulle
misure di prevenzione: per esempio non abbiamo arretrati, riusciamo in tempo reale a
mettere a punto i nostri provvedimenti e a renderli efficaci e i colleghi di questa sezione,
cui personalmente presto molta attenzione perché considero questo un punto
fondamentale, hanno svolto un ottimo lavoro.
Ma ciò che è particolarmente significativo sono i numeri della loro produzione. Pensate
solo a questo piccolo, ma neanche tanto piccolo, indicatore: il valore complessivo dei
beni sottoposti a sequestro o confisca è salito dal 2009 al 2010 da 30 a 52 milioni di euro.
Sto parlando soltanto delle misure di prevenzione assunte direttamente dal Tribunale;
poi sapete che ci sono altri sistemi che riguardano anche le proposte che vengono fatte
alle Prefetture e così via. Insomma esiste un sistema di controllo sul territorio.
Il controllo va bene, e se vogliamo dire che questo è uno strumento estremamente
efficace, va benissimo, ma non possiamo fondarci solo sugli strumenti. Io sono stata
particolarmente attenta alle cose che ci ha detto il rappresentante della Confindustria
che è qui presente, perché Confindustria ha fatto secondo me un buon lavoro, per
quanto riguarda il rimettere in discussione i temi della legalità all’interno di un’etica di
impresa che è assolutamente indispensabile, perché l’impresa oggi sia non soltanto
merito e profitto, ma anche struttura portante di un’evoluzione progressiva della nostra
società. Tuttavia è molto importante che ci si renda consapevoli che si tratta di un
dovere, è necessario stare insieme e fare rete senza pensare che le responsabilità sono di
altri e che ad altri è affidato il compito di rendere pulita la società, perché noi ci
occupiamo del profitto.
Non è così, bisogna che insieme si costruiscano delle metodologie, si mettano a punto
delle reti, degli accordi che consentano a tutti di fare la loro parte, tenendo conto che
alla base non ci può che essere appunto quella volontà di operare in termini di pulizia e
di forza sana dell’economia, convinti che altrimenti non c’è sviluppo.
Anche su questo bisogna mettersi in qualche modo d’accordo.
Brevemente: noi abbiamo vissuto e stiamo vivendo una crisi economico-finanziaria che è
sotto gli occhi di tutti. Ma pensate davvero che da una crisi economico-finanziaria si
possa uscire attraverso scorciatoie e non attraverso invece strade dirette che portano a
ottenere che un’economia sana sia anche il frutto di una condivisione di regole da tutti
rispettate e che consentano effettivamente di andare sul mercato sentendosi tutti uguali
nelle premesse (poi vincerà certamente il migliore, colui che saprà fare meglio)?
E questo oltretutto ha un altro aspetto estremamente importante e significativo:
significa la costruzione di un tipo di società in cui la “trasparenza” non è solo una parola
della quale continuiamo a fare un uso in qualche modo esagerato e non convinto, ma
significa anche che tutti siamo in grado di esser anche controllori di tutto. “Controllore”
è una parola che disturba, ma è anche una parola che ci rende consapevoli che siamo
tutti cittadini che viviamo nello stesso Stato e che abbiamo tutti le stesse responsabilità.
È in questo senso che dobbiamo continuare a lavorare.
Il Tribunale di Milano sta facendo un tentativo - e voglio ringraziare pubblicamente il
ministro Maroni che mi ha dato subito la disponibilità sua e dei suoi uffici - per mettere
intorno al Tavolo per la giustizia di Milano soggetti diversi, che sono espressione anche
solo della società civile, ma che possono esserci utili per realizzare quella rete di cui
parlavamo prima.
Speriamo di poter portare a termine dei progetti anche in questa direzione e questo per
noi è molto importante, perché lo sforzo che vogliamo fare è di affermare che è vero che
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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a noi spetta l’onere e l’onore di amministrare la giustizia e di dare risposte ai bisogni di
giustizia dei cittadini, anche in termini di repressione, di risoluzione dei conflitti, ma è
altrettanto vero che, proprio perché si fa questo nell’interesse dei cittadini, è
assolutamente indispensabile che vi sia una forte responsabilizzazione della società
civile, degli stakeholder importanti e significativi che operano nella società civile, in un
rapporto di collaborazione, per ottenere un risultato, che possiamo chiamare di giustizia,
o comunque di progresso civile e non inquinato della nostra società.
FABIO TAMBURINI
Un intervento decisamente ricco di spunti.
Prima di proseguire nel programma del pomeriggio, volevo cogliere l’occasione per
qualche domanda rapida, una delle quali a Lo Bello.
C’è il tema della crisi economica che è stata devastante negli ultimi due anni. Ecco, non
sarà che ha funzionato da “acceleratore”? Perché per un’impresa, un imprenditore in
difficoltà, la tentazione di imboccare la scorciatoia può esserci stata, di fronte magari alle
banche che “chiudevano l’ombrello quando pioveva”, quando pioveva una crisi forte. La
presenza di qualcun altro, che magari era munifico e nel breve poteva rappresentare la
soluzione dei problemi, probabilmente è stata una tentazione forte anche per molti
imprenditori, soprattutto piccoli e medi?
IVANOHE LO BELLO
Io credo che la crisi abbia generato due comportamenti opposti: è chiaro che aziende in
difficoltà, incapaci di stare sul mercato, probabilmente hanno cercato qualche
scorciatoia. Ma in un altro senso è stato anche un elemento di accelerazione della
cultura di mercato, nel senso che molte aziende di fronte a una situazione economica
stagnante sul piano della domanda interna, hanno avviato processi significativi di
internazionalizzazione. E questo lo fai se sei bravo a produrre prodotti, a vendere servizi
e non a rapportarti con la mafia.
Le crisi hanno sempre degli aspetti che sembrano molto contraddittori; ci sono le
imprese meno attente al mercato e incapaci di stare sul mercato che vanno sulle
scorciatoie, e comunque provengono da settori protetti o regolamentati artificialmente
spesso dalla stessa mafia, e le imprese invece che vogliono accettare la sfida e che in un
contesto stagnante cercano di andare sui mercati, specialmente su quelli internazionali.
Quindi la crisi ha effetti molto diversi, contraddittori, spesso opposti.
FABIO TAMBURINI
Ecco, dovendo immaginare uno slogan rispetto ai contenuti dell’intervento del
presidente Pomodoro, si potrebbe dire che la sconfitta decisiva per un certo tipo di
criminalità è colpire il portafoglio, perché colpendo il portafoglio si pone una premessa
di importanza fondamentale.
A proposito di portafoglio, una delle cose che mi ha sempre un po’ affascinato come
giornalista finanziario, che però non sono mai riuscito bene a focalizzare, è che questo
tipo di criminalità determina dei flussi economici giganteschi, che non si capisce dove
finiscano. È chiaro che c’è un problema di rapporti tra questi flussi finanziari giganteschi
e il mondo delle banche, il mondo della finanza.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Credo di non esser il solo a non essere riuscito a focalizzare questo aspetto: anche le
inchieste della magistratura, di fronte al mondo della finanza, delle banche, non
sembrano aver capito con chiarezza il percorso di questi flussi finanziari.
A De Lucia vorrei chiedere a che punto siamo, che idea c’è di questo rapporto tra la
criminalità, i profitti che genera e il mondo della finanza e delle banche?
MAURIZIO DE LUCIA
In qualche misura è la sfida del futuro nel contrasto alla criminalità organizzata.
Più che fare teorie parto da un fatto, perché faccio il magistrato e mi occupo di fatti. Non
molto tempo fa, nel porto di Gioia Tauro è stato sequestrato un container con 500 kg di
cocaina: sul mercato valgono 25 milioni di euro. Dunque, è vero che c’è la crisi, ma non
riguarda le imprese criminali.
Il problema per l’impresa criminale ‘ndranghetista che doveva trattare quel quantitativo
di stupefacente - ma per quello sequestrato si calcola che l’80-90% passa e quindi va sul
mercato - era una liquidità di 25 milioni di euro da piazzare.
E la crisi serve, perché proprio nei momenti di crisi, cioè quando c’è scarsa liquidità
dell’imprenditore sano, l’imprenditore sano cerca dove trovare il denaro e se non lo
trova nel sistema bancario o si rivolge al mercato dell’usura oppure, ed è questa
l’attualità di questi giorni, si rivolge a quel soggetto che non è naturalmente il
‘ndranghetista in coppola e lupara che ci immaginiamo, ma l’avvocato, il commercialista
che parla brianzolo come lui e gli propone un socio con questa liquidità fresca, e questa
liquidità è l’unica cosa che interessa a quel piccolo imprenditore lombardo o del nord
Italia, perché non si pone il problema di cosa c’è dietro quei soldi.
Dietro quei soldi c’è il mafioso. E quando c’è il mafioso si verifica qualcosa che è anche
peggio del pizzo sistematicamente pagato nel sud Italia, si verifica il rischio di
spossessamento dell’impresa. Perché arriverà il giorno in cui quell’imprenditore tenterà
di dire: “io voglio comprare un camion nuovo”. E l’altro gli dirà: “sì, ma compriamo
quest’altro tipo di camion”, “ma io voglio quello”, “no tu non vuoi niente perché i soldi
ce li ho messi io e in più ci metto la violenza, quindi mi fai il favore, stai qua perché mi è
comodo che tu stia qua perché sei incensurato, perché hai buona fama, perché appari
come una persona per bene. Quindi, cosa c’è di meglio per me, che invece faccio il
mafioso, che usare te? E attraverso te io non ho un problema diretto di immettere i miei
flussi finanziari nel mercato finanziario lecito; io ho te e quindi sarà la tua impresa a fare
da interfaccia fra i miei soldi sporchi e il sistema”. E così funziona, e così rischia sempre
più di funzionare, il sistema. Cioè, la violenza a cui siamo abituati quando ragioniamo di
mafie meridionali, non la troviamo nel nord Italia, ma troviamo lo stesso le mafie, a un
livello più sofisticato e più pericoloso naturalmente, perché questo poi rischia di
inquinare l’intero mercato.
Questo è il problema, ma naturalmente c’è la questione dei rimedi: investigazioni
ovviamente sempre più sofisticate e poi una serie di sistemi di prevenzione.
Tutto sommato il meccanismo attuale dell’antiriciclaggio in prevenzione funziona, cioè
nel sistema delle banche, in questo momento in Italia, è difficile immaginare istituti
sistematicamente adusi a pratiche di riciclaggio, perché è un sistema per il quale
dobbiamo sempre tornare a quegli anni ’90 ’91 ’92, cioè a Giovanni Falcone direttore
generale del Ministero della Giustizia. La nostra legislazione antimafia si è affinata, ma i
mattoni portanti sono quelli posti allora e noi ancora oggi lavoriamo fondamentalmente
con quelli. E il sistema della prevenzione del riciclaggio tutto sommato funziona.
C’è un altro sistema su cui porre l’attenzione: quello appunto degli appalti. Va bene
l’obbligo di denuncia, ma c’è un’altra cosa molto importante.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Io con le leggi, come dire, litigo sempre, perché non mi ricordo le date e i numeri, ma
credo che si tratti proprio dell’ultimo “pacchetto sicurezza” sul tema della tracciabilità
dei flussi finanziari per quanto riguarda gli appalti. Bene, questo è un dato
importantissimo, perché c’è un solo modo attraverso il quale possiamo evitare che i
capitali mafiosi vengano a inquinare il mercato legale ed è quello di sapere da dove
vengono i soldi. Sapere da dove vengono i soldi, quando si tratta con lo Stato, è una
cosa che lo Stato - che devo dire lo ha fatto - ha il diritto di pretendere. Ma più in
generale questo riguarda tutti gli imprenditori, perché è anche una forma di difesa
dall’infiltrazione mafiosa.
Un altro dato, che non è confortante, riguarda la circolazione del contante in questo
Paese. In un altro convegno al quale mi è capitato di partecipare - era presente anche
Ivanohe Lo Bello - è stato citato un dato: la metà delle banconote da cinquecento euro di
tutta l’Eurozona circola in questo Paese.
FABIO TAMBURINI
Tra l’altro mi dicevano nei giorni scorsi che, secondo fonti legate alla Banca d’Italia di
Brescia, non è mai stato stampato, non ha mai circolato tanto contante a Brescia come
negli ultimi mesi.
MAURIZIO DE LUCIA
Dunque, io ho uno stipendio non particolarmente generoso, ma neppure di poco livello,
eppure di banconote da cinquecento euro in vita mia ricordo di averne viste cinque o sei
volte. Dove sono finite tutte le altre è una domanda che è lecito porsi.
FABIO TAMBURINI
Qui probabilmente si pone anche il tema dell’intreccio tra questo argomento e
l’evasione fiscale.
MAURIZIO DE LUCIA
Assolutamente sì.
Perché l’altro passaggio è questo: se noi limitiamo la circolazione del contante rendiamo
più efficace il sistema finanziario e indirettamente rendiamo più difficile l’attività di
riciclaggio delle mafie.
Se facciamo una seria politica di contrasto all’evasione fiscale, non solo la dobbiamo fare
perché è giusto che sia fatta, ma anche perché così evitiamo che si crei una commistione
- che è una delle cose più pericolose per un sistema democratico - fra gli interessi di
quella borghesia che evade (mondo delle imprese, libere professioni, commercio) e i
mafiosi, che pensiamo essere solo loro criminali. Ma i mafiosi pascolano in questa
situazione di grande opacità in cui tutti evadono, perché dentro l’evasione ci sono anche
i capitali mafiosi.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
73
FABIO TAMBURINI
Ho l’impressione che questa sia una battaglia più difficile da vincere, perchè la
componente di evasione fiscale e di “nero” resta ancora molto elevata.
MAURIZIO DE LUCIA
Sì, ma io resto ottimista sul fatto che se vogliamo essere un Paese serio e intendiamo
stare in Europa, dobbiamo avere gli standard di evasione fiscale del resto d’Europa. Cioè,
se aumentiamo il livello di democrazia economica e di civiltà del nostro Paese con delle
politiche che indirettamente sono politiche antimafia, diamo un colpo serissimo proprio
a quello che ricordava la presidente Pomodoro. Cioè non è soltanto una questione di
repressione, è un problema di ricostituzione di regole condivise. Penso che pagare in
maniera equa le tasse sia una cosa che tutti possano accettare; sapere che qualcuno le
evade è una cosa che può essere condannata, se l’imposta è condivisa perché è
accettabile.
In questo quadro, lo spazio per i capitali mafiosi inevitabilmente si riduce.
Quindi la scommessa è anche questa: tanto di cappello alle forze di Polizia e a chi fa in
prima linea il suo dovere, però poi una serie di obblighi, morali, etici, ma anche di
convenienza, spettano a tutta la società e al mondo delle imprese in prima fila.
FABIO TAMBURINI
Mondo delle imprese significa anche mondo della cooperazione. Ho ascoltato con
grande interesse le parole del presidente Poletti che hanno aperto questo incontro del
pomeriggio, tra l’altro rafforzate dal tema, dalla scelta di trovarci qui a discutere intorno
a questi argomenti.
Resta un fatto: il mondo della cooperazione non è rimasto indenne da questa
problematica, ha avuto i suoi problemi anche nel rapporto con l’economia criminale.
Ecco, a che punto siamo? Quali sono gli anticorpi che il mondo cooperativo - che per
definizione dovrebbe essere antitetico ad associazioni come la mafia, la ‘ndrangheta, ma
tuttavia in realtà ha dimostrato negli ultimi anni che purtroppo la contaminazione è più
facile di quello che si possa pensare - sta sviluppando? Cosa state facendo, come vi state
muovendo, qual è la realtà attuale?
GIULIANO POLETTI
Se guardiamo i fatti degli ultimi anni, di elementi particolarmente rilevanti in questo
senso non se ne sono registrati. Lungo la storia qualche fatto particolare c’è, qualche
segnale ma, lo dicevo prima, noi non ci consideriamo fuori dai contesti, dai rischi, fuori
dalla possibilità che possa accadere.
La cosa importante è che ci sia, e per quello che ci riguarda c’è, una fortissima volontà
della nostra organizzazione di stare su una posizione, che è quella di chi con quel tipo di
attività non vuole aver niente a che fare. E quindi, se c’è qualcuno che commette un
errore va punito, perché rovina la reputazione anche di tutti gli altri. Non lo possiamo
escludere in via di principio, perché non si può mai escludere niente a priori ma, stabilito
questo come principio, lo si esclude in via di fatto.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
74
FABIO TAMBURINI
E questa mi sembra una bella dichiarazione di intenti!
GIULIANO POLETTI
Proviamo a guardare il mondo cooperativo al Sud, in Sicilia, ma anche in altre regioni: la
grande distribuzione, Coop, Conad; le grandi imprese che lavorano - prima si citava CMC,
ma ci sono altre esperienze importanti: recentemente Città del Mare è stata acquisita da
un gruppo di cooperative, il più grande villaggio turistico a Terrasini, a Palermo - nel
settore agro-alimentare, una quantità importante di iniziative, imprese cooperative che
magari hanno la loro sede storica non in Sicilia, ma che svolgono lì una parte importante
della loro attività imprenditoriale, anche collaborando con imprese.
Bene, queste cooperative in questi anni hanno fatto una quantità di investimenti
rilevantissimi. Costruire ipermercati in Sicilia non è esattamente un’esercitazione
semplice; rifornirsi di prodotti in quel territorio, senza andare a sbattere da qualche
parte, non è esattamente un esercizio semplice.
Parlavamo prima del calcestruzzo: se vuoi fare dei centri commerciali, un po’ di
calcestruzzo ti serve e quindi dove diavolo lo vai a prendere? E siccome non lo
imbarchiamo con le navi da Ravenna…
Come si costruiscono i protocolli di legalità, come ci si misura con questo problema è un
dato di volontà. Qualcuno può dirmi: “Sei certo che non avete mai toccato da qualche
parte?”, io rispondo “Non lo so”. Quello che posso dire è che sono certo che abbiamo
fatto tutto quello che era ragionevolmente fattibile, e qualche volta qualche cosa in più,
perché in non rari casi si sono assunti dei protocolli e dei comportamenti che hanno
ridotto in maniera significativa la libertà dell’imprenditore di fare le proprie scelte come
avrebbe fatto.
Perché dire a un prefetto, o a un magistrato, o a una forza dello Stato: “dov’è che posso
andare a prendere il calcestruzzo?” - usiamo sempre quello come dato, ma potremmo
parlare di pere, di mele, e di terreno, di camion e di tutto il resto - e dire: “questo sì e
quello no”, vuol dire che come imprenditore non scelgo liberamente il fornitore che
vorrei, scelgo avendo un campo delimitato.
Bene, noi l’abbiamo fatto. Non abbiamo detto: “prendiamo, perché ci arrangiamo a
capire dov’è il buono, dov’è il cattivo”. Abbiamo costruito i protocolli di legalità,
abbiamo usato questi strumenti, abbiamo faticato a costruirli, a trovare le maniere più
efficaci, ma l’abbiamo fatto.
Poi c’è l’altro pezzo.
E guardate, tutto il lavoro che si sta facendo sul terreno dei beni confiscati e del loro
riuso, e l’impegno su questo versante, non è cosa banale, perché vuol dire che
l’organizzazione su quel versante ci mette la faccia, ci mette l’impegno e ci mette delle
risorse; perché sostenere queste azioni è una cosa complicata, economicamente anche
impegnativa. Lo stiamo facendo. E a che punto siamo? Credo che siamo a un buon
punto, perchè questa sensibilità è cresciuta molto, e perché la sensibilità sta dentro al
contesto sociale, che è quello che abbiamo disegnato, e quindi anche insieme alle altre
organizzazioni dell’impresa.
Quindi quando il mercato cambia e si produce un mercato, anche per noi diventa
relativamente più semplice, più facile fare bene quello dobbiamo e vogliamo fare.
Poi c’è quello cui accennavo prima, cioè la gestione dei beni sequestrati e in particolare
delle imprese: è uno dei temi su cui pensiamo di poter mettere a disposizione le nostre
competenze, le nostre capacità, e valorizzare la scelta di quei cittadini e lavoratori.
Perché lì c’è anche questo problema: ci sono delle persone che lavorano nelle imprese,
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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dove il lavoratore va a lavorare la mattina e se ne torna a casa la sera, prende lo
stipendio, punto e a capo; non è detto che debba essere colluso, consapevole, o non so
che. A quella persona dobbiamo dare una prospettiva, un’opportunità.
Bene, noi, dal nostro punto di vista, cosa diciamo? Se siete dieci lavoratori e state in
un’impresa che viene sequestrata e avete voglia di gestirvela, noi vi aiutiamo a creare
una cooperativa, vi aiutiamo a far continuare a vivere quell’impresa, a dimostrare che si
può fare, che quell’impresa campa anche senza la mafia o contro la mafia.
E farlo non è esattamente semplicissimo.
Cito solo un esempio: sono stato recentemente in Calabria, perché lì abbiamo
cooperative coi presidenti minacciati, etc., insomma viviamo anche noi tutti i problemi
che queste situazioni pongono, e con la presenza dei magistrati e del Prefetto, abbiamo
cercato di dare anche lì un segno, perché abbiamo bisogno di far procedere le cose.
E la domanda che ci è stata fatta - eravamo dopo la manifestazione di Reggio Calabria,
una bella manifestazione, un importante impegno della società - è stata: “ma adesso
come facciamo ad andare avanti?” Perché di manifestazioni ne abbiamo fatte anche in
passato, ma poi la cosa si è smontata.
Allora io ho raccontato un banalissimo aneddoto: a Corleone, il tecnico agricolo della
Cooperativa Pio La Torre, che gestisce terreni sequestrati, mi ha portato a vedere una
collina che era una bandiera, perché al centro c’era una gran riga gialla coltivata a
meloni, quella della cooperativa; a destra e a sinistra c’era il terreno ancora della famiglia
dei “parenti” del signore a cui quel terreno era stato sequestrato. Era esattamente una
bandiera, con due fasce di stoppie grigie e una bella riga gialla di meloni al centro. E il
tecnico mi ha detto: “sai, Poletti, all’inizio quando andavamo a lavorare quel terreno, e
passavamo sul campo di quello là, beh, insomma, aspettavamo di andarci insieme alla
mattina perché non ci fidavamo moltissimo”.
E allora io ho detto ai miei amici e colleghi calabresi: “avete visto? Loro tutte le mattine
hanno fatto una manifestazione, tutte le mattine che hanno attraversato quel pezzo di
terra e sono andati a coltivare quei meloni hanno fatto una manifestazione. Allora, se
volete che la vicenda di Reggio Calabria non sia un fuoco di paglia, bisogna darle questo
tratto di continuità, bisogna prendersi la responsabilità di costruire cose che durano nel
tempo, perchè solo quelle ci consentiranno di trasformare nel profondo la società”.
Ecco, credo che noi siamo avanti da questo punto di vista, perché senza auto assolverci,
sapendo di stare pienamente dentro quel contesto, comunque la nostra scelta di campo
l’abbiamo fatta in maniera inequivocabile.
FABIO TAMBURINI
Ritengo che questo tratto di continuità possa essere possibile anche rispettando due
condizioni, che credo vadano spese fino in fondo. La prima è che è vero che l’economia,
anche l’economia criminale, si è globalizzata, però è anche vero che c’è una certa
differenza tra la Sicilia, la Calabria e il nord del Paese.
Penso che uno sforzo per avere una continuità nella ribellione a questo tipo di
criminalità debba venire da quelle zone del Paese dove è più facile, perché insomma, un
conto è essere contro la mafia, la ‘ndrangheta, in Sicilia e in Calabria, e un conto, con
tutte le infiltrazioni che ci sono, è esserlo a Milano e in Lombardia. È da queste zone del
Paese, dove alla fine è anche più semplice, che deve venire la spinta alla continuità. E
questo è veramente un obbligo, prima di tutto morale, che dobbiamo assumerci e in
questo - che è la seconda condizione - devono acquisire un ruolo importante anche i
media e gli strumenti di comunicazione, perché devono servire a tenere alta l’attenzione
della società civile.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Bene, a questo punto, in conclusione di questo pomeriggio, è previsto l’intervento del
Ministro. Faccio una premessa, credo importante: questo è un Paese diviso in due, con
polemiche spesso laceranti, contrapposizioni di fondo che a volte prescindono dal
merito delle questioni. A me questo tipo di atteggiamento non piace, né
caratterialmente, né ideologicamente. Ritengo che si debba andare alla sostanza dei
problemi. Allora, oggi mi sembra sia emerso, per comune riflessione delle persone che
sono intervenute, che c’è un dato di fatto: che negli ultimi dieci-quindici anni c’è stata
una continuità di lotta alla mafia e alle associazioni criminali.
Forse si poteva far di meglio, però è indubbio che un riconoscimento vada dato.
Questa continuità arriva da governi di centro-destra.
Ecco, da questo punto di vista, questo credo non significhi che non ci siano connivenze,
che non ci siano infiltrazioni, perché quando si parla di infiltrazioni e di connivenze
nessuno è indenne.
Mi farebbe piacere sentire anche dalle parole del Ministro un bilancio di quello che è
stato fatto e anche di quello che verrà, che si intende continuare a fare.
ROBERTO MARONI
Ministro dell’Interno
Sì, grazie.
Spesso la mafia viene definita il cancro della società o dell’economia, e il paragone, la
metafora è assolutamente azzeccata.
I tumori sono diversi, alcuni sono più facilmente aggredibili di altri, ma hanno una
strategia, un comportamento comune, che è quello di svilupparsi a danno degli organi
sani. E lo strumento migliore per combatterli è la prevenzione.
Quando sono diventato ministro dell’Interno, nel maggio del 2008, ho ritenuto che nella
lotta alla mafia fosse il momento di darsi appunto una strategia complessiva, utilizzando
le misure legislative che negli anni precedenti erano state messe a disposizione, ma
creando un sistema di coordinamento tra tutti i soggetti che in qualche modo possono
contribuire alla lotta alla mafia, e definendo degli obiettivi, degli strumenti, dei mezzi,
delle dotazioni, cioè una strategia. Credo che questo sia il significato più importante
dell’azione che è stata fatta in questi ultimi tre anni e dei risultati che sono stati
conseguiti.
È vero che la lotta alla mafia ha portato recentemente a risultati importanti, però
l’intensità con cui si è svolta in questi ultimi tre anni non ha precedenti e non ha
paragoni.
Nel 2007 - parlando di una delle strategie che abbiamo adottato, l’aggressione ai
patrimoni mafiosi - abbiamo sequestrato beni per un miliardo e mezzo di euro; nel 2010
siamo arrivati a otto miliardi, in un solo anno.
Non è che improvvisamente i mafiosi sono diventati tutti più deboli o più “rincitrulliti”…
Si è invece sviluppata un’azione mirata - così come si fa nei confronti proprio del cancro,
dei tumori - che progressivamente si affina nel tempo, segue l’aggiornamento che la
mafia usa per penetrare nell’economia sana e per svilupparsi e che coinvolge tutti i
soggetti interessati.
La strategia che abbiamo sviluppato si articola in diverse misure. Le più importanti sono
state già citate: l’aggressione alla struttura militare, organizzativa della mafia, con
l’arresto di oltre settemila mafiosi in questi tre anni, con una media di circa otto mafiosi
al giorno; ventotto latitanti dei trenta più pericolosi. Quando io sono arrivato a maggio
del 2008 presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza c’era l’elenco dei latitanti più
pericolosi ed erano tutti in libertà; adesso ne mancano due, Matteo Messina Denaro e
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Michele Zagara; due mesi fa è stato catturato Antonio Iovine, il capo della Camorra; ne
mancano due, sono sempre due, ma due su trenta.
Quindi c’è l’aggressione ai patrimoni, che è straordinariamente importante, perché
l’organizzazione si finanzia con i patrimoni. Il mafioso, il boss, non è molto preoccupato
quando le forze dell’ordine, la magistratura, gli arrestano i picciotti, se ha i soldi per
mantenerli in carcere pagando lo stipendio alle famiglie. Intanto recluta gli altri. Ma se il
conto in banca, diciamo così, si prosciuga, allora ha difficoltà a mantenere
l’organizzazione. L’aggressione ai patrimoni, quindi, non è solo lo strumento per ridare
alla società civile il maltolto, ma serve anche per combattere in modo efficace, con
un’azione parallela, l’organizzazione.
La terza misura è quella che viene evidenziata questa sera, cioè il coinvolgimento di tutti
i soggetti che, ciascuno con il suo modo di operare, ciascuno nel suo mondo e con le sue
prerogative, possono, come si diceva qualche anno fa, “fare squadra” per combattere la
mafia.
Sono azioni che portano a una strategia che - lo dicono i risultati - ha dei successi senza
precedenti.
Sul piano dell’arresto dei latitanti ho già detto; sul piano dell’aggressione ai patrimoni il
presidente Pomodoro ha citato la quantità, il valore dei beni al Tribunale di Milano. A
livello nazionale siamo arrivati oggi ad avere nel patrimonio dell’Agenzia nazionale per
la gestione dei beni sequestrati e confiscati, oltre 35.000 beni, per un controvalore di
venti miliardi di euro, venti miliardi di patrimonio.
Il 20% circa sono aziende o attività commerciali che fino a oggi noi, lo Stato, il Ministero,
è stato incapace di gestire. Il 99% delle aziende sequestrate sono arrivate alla confisca
chiuse, fallite, vendute a pezzi. Questo enorme patrimonio è oggi nelle nostre casseforti
e dobbiamo gestirlo, questa è la sfida vera.
La collaborazione e la cooperazione, con la cosiddetta società civile, cioè in particolare il
mondo delle imprese, si è molto intensificata in questi anni.
Il presidente Lo Bello citava l’intensa collaborazione; io mi sono accorto subito delle
iniziative che il Presidente aveva preso in Sicilia, le ho reputate assolutamente e
straordinariamente utili, ci siamo sentiti e abbiamo cominciato a lavorare, mettendole
nei protocolli con varie associazioni territoriali; l’anno scorso abbiamo realizzato un
protocollo con Confindustria, firmato proprio qui a Milano nella sede di Assolombarda,
che ha previsto regole di comportamento che Confindustria Sicilia aveva già sviluppato.
Abbiamo stabilito norme di legge, in particolare due che sono state citate, ma che voglio
citare nuovamente per la loro importanza: la prima è l’obbligo per chi vince un appalto
pubblico di denunciare i tentativi di estorsione. Dovrebbe già essere un obbligo morale.
Non era sempre così, quindi abbiamo voluto dare un “aiuto” agli imprenditori, alle
imprese che, nel caso in cui non rispettino la norma e vengano scoperti, comporta come
sanzione il fatto di non potere più partecipare agli appalti pubblici per i successivi tre
anni.
È una norma che è stata fortemente contrastata da una parte del mondo delle imprese e
da una parte del mondo giuridico, non senza fondamento perché effettivamente qui
siamo di fronte a qualcuno che è vittima di un reato e che viene punito.
Però alla fine è prevalso, credo giustamente, l’interesse pubblico di contrastare la
criminalità organizzata, rispetto al diritto di qualcuno di non essere il delatore, di non
fare nulla che possa mettere se stesso nelle condizioni di essere punito.
E questo è un obbligo di legge, che non c’è in nessuna legislazione di nessun Paese al
mondo.
La seconda norma introdotta è la tracciabilità dei flussi finanziari.
Che cosa vuol dire? Che ogni euro, oggi, di qualsiasi appalto pubblico, piccolo o grande
che sia, viene tracciato, seguito nel suo percorso, non solo nel passaggio dalla stazione
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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appaltante all’azienda che ha vinto l’appalto, ma anche nei subappalti dove spesso si
nascondono le connivenze con la criminalità organizzata.
Anche questa è una norma che non ha precedenti. L’abbiamo inserita per la prima volta
nel decreto di ricostruzione dell’Abruzzo post-terremoto, limitatamente a quell’area, poi
l’abbiamo prevista per Expo 2015 e dal 7 settembre 2010, data di entrata in vigore, vale
per tutti gli appalti pubblici, di qualunque entità, concessi a partire da quella data.
Questa norma è contenuta in una legge che credo possa essere citata davvero ad
esempio di come si deve comportare la classe dirigente di un Paese. È una legge
approvata dal Parlamento all’unanimità: il piano straordinario contro le mafie. Non ci sono
precedenti, anche qui, abbiamo lavorato bene, con tutte forze politiche, a dimostrazione
proprio che la lotta alla mafia, alle mafie, al di là delle responsabilità che sono sempre
personali, è una lotta, un’azione condivisa da tutte le forze politiche in Parlamento.
Mi ha veramente impressionato vedere il 3 di agosto, al Senato, tutte le lucine verdi sul
voto finale del provvedimento, che contiene, oltre alla tracciabilità, norme importanti,
come la previsione di un testo unico delle leggi antimafia.
Una marea di norme si sono succedute credo dal 1975 in poi: devono essere coordinate
per fornire gli strumenti più utili ed efficaci di contrasto, altrimenti gli avvocati sono
molto bravi a trovare ogni volta una legge, un comma, il cavillo di qualche legge
dimenticata…
Un altro elemento riguarda, nell’aggressione ai patrimoni, la distinzione tra le misure
personali e quelle patrimoniali. Prima - semplifico un po’, mi perdoneranno i magistrati quando veniva arrestato un mafioso, gli venivano sequestrati i beni in quanto il mafioso
era pericoloso; se il mafioso in carcere moriva, i beni venivano restituiti agli eredi. Erano
beni certamente entrati nel suo patrimonio perché frutto di un’azione mafiosa, ma il
presupposto del venir meno della pericolosità non consentiva il collegamento tra le
misure personali e quelli patrimoniali. Noi abbiamo separato la sorte dei patrimoni
rispetto alla pericolosità: se si accerta che questi patrimoni sono frutto di azioni
criminose, vengono confiscati e il sequestro viene tramutato in confisca.
Questo ha permesso alla Procura di Palermo, per esempio, pochi mesi fa, di portare a
termine, in una sola notte, un’operazione di sequestro di un patrimonio per oltre
cinquecento milioni di euro, in un colpo solo. Erano anni che cercava di farlo, ma la
malizia, l’astuzia dei boss mafiosi nell’intestare i beni ai minori, o a un nullatenente o a un
incensurato, aveva impedito di raggiungere questo obiettivo.
Nuovi strumenti, quindi, che abbiamo messo a disposizione nei pacchetti sicurezza, che
si aggiungono a quelli che abbiamo e che fanno oggi dell’Italia la nazione che ha gli
strumenti più avanzati al mondo di contrasto alla criminalità organizzata. E
l’articolazione della strategia in aggressione alle organizzazioni mafiose, aggressione ai
patrimoni e coinvolgimento di tutte le forze sociali: questa è la strategia che ritengo
vincente e che intendiamo continuare a sviluppare perché i risultati ci sono.
C’è stato negli ultimi tre anni un incremento del 300% nei patrimoni sequestrati alla
criminalità organizzata, grazie proprio alle misure e all’intensità.
Tutto ciò non basta, serve anche un’azione costante e di coordinamento.
Il presidente Lo Bello ha citato prima il cosiddetto “modello Caserta”.
Che cos’è il modello Caserta? È un tavolo di confronto permanente. Io in due anni e
mezzo ho partecipato quindici volte a questo tavolo, attorno al quale ci sono i
rappresentanti delle forze dell’ordine, la magistratura, la magistratura antimafia, la
Guardia di Finanza, e dove si fa l’aggiornamento mese per mese delle azioni in corso e si
sviluppano le strategie di risposta agli aggiornamenti che la mafia fa. Questo ha portato
nella zona di Caserta a risultati veramente brillanti contro la camorra.
Questo modello, cioè insediare queste azioni sui territori, coinvolgendo gli operatori che
vi operano, dà un segnale importantissimo ai cittadini, fa sentire che lo Stato c’è.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Quando parlo dei successi nella lotta alla mafia uso sempre il temine “Stato”. È merito di
tutti se c’è un’azione comune: il ministro per quanto riguarda le sue competenze, cioè
mettere a disposizione gli strumenti alle forze dell’ordine, alla magistratura; le forze
dell’ordine, la magistratura che svolgono le attività investigative; e il mondo delle
imprese, che merita un ulteriore sviluppo nell’azione già meritevole che stiamo facendo.
Il mondo delle imprese, con questi numerosi protocolli ha dimostrato una grande
sensibilità al tema della lotta alla mafia. Questi protocolli hanno una valenza biunivoca:
in primo luogo garantiscono un intervento più mirato di tutela delle attività economiche
da parte delle forze dell’ordine. Abbiamo fatto per esempio un protocollo con l’Ordine
dei Dottori Commercialisti, perché molti commercialisti, soprattutto nel Sud, hanno
lamentato azioni intimidatorie nei loro confronti quando gestiscono in particolare dei
fallimenti di imprese; ci sono state anche due vittime.
Quindi maggiore tutela e controllo, ma anche una serie di informazioni e segnalazioni
che ci vengono fornite attraverso questi protocolli e che sono utilissime per acquisire un
livello di informazione necessario e sufficiente per intervenire preventivamente ed
evitare che succeda quello che i mafiosi vorrebbero succedesse.
Quindi, intensificare la collaborazione con il mondo delle imprese per la gestione di
questo immenso patrimonio - oltre 20 miliardi. Credo che non sia impossibile far sì che
questo immenso patrimonio possa essere messo a reddito, all’1%, al 5%, non lo so, ma
finora è stato gestito in perdita. Faccio solo un esempio: quando venivano sequestrate le
autovetture ai boss, venivano messe in un deposito in attesa della confisca. Potete
immaginare cosa succedeva alle macchine lasciate lì per anni, anche se non erano Fiat. Si
pagava il deposito e alla fine il valore era un decimo. Adesso le diamo in uso alla Polizia e
ai Carabinieri, che fanno anche la manutenzione, e il messaggio, per chi vede quell’auto,
che fino a poche settimane prima era guidata da un mafioso e ora à nelle mani della
Polizia o dei Carabinieri, è estremamente positivo. Ma non è solamente questo,
ovviamente: valorizzare il patrimonio significa far fruttare gli immobili, far fruttare le
aziende. Per gli immobili, privilegiamo il rapporto con gli enti locali; la nascita
dell’Agenzia nazionale, che abbiamo creato esattamente un anno fa, ha consentito di
avere un panorama complessivo di tutti i beni che sono sparsi in tutte le regioni. La
Lombardia è la quarta regione per numero di beni sequestrati alla mafia - la quarta non
la ventesima; la prima è la Sicilia - per dire la presenza della criminalità organizzata qui,
che è ben nota.
Questa uniformità di gestione ci consente di avere quindi una gestione più oculata e di
scegliere gli interlocutori: gli enti locali, come comuni, province, regioni, ma anche il
mondo del volontariato, il terzo settore - Libera è stata citata, no? - le cooperative. A
questo proposito vi invito a fare una convenzione con l’Agenzia azionale, col prefetto
Morcone, che sarà a Milano nei prossimi giorni, per la gestione di questi beni, perché
siamo interessati a chiunque abbia un interesse a gestire questi beni, semplicemente per
valorizzarli.
E poi ci sono le imprese. Condivido le preoccupazioni che sono state evidenziate: se in
un’area a forte densità criminale c’è un’impresa che dà lavoro - e spesso i lavoratori sono
messi in regola, proprio per dare una copertura - arriva lo Stato, sequestra l’azienda,
l’azienda chiude e venti lavoratori sono licenziati. La gente penserà: “si stava meglio
quando c’era la mafia”.
Per cui il nostro compito è di fare in modo che queste imprese possano continuare a
vivere, se meritano di vivere, se non sono solo copertura per operazioni di riciclaggio,
per esempio, perché c’è anche questo.
Ma chi può farle vivere? Non i funzionari del Ministero dell’Interno, con tutto
l’apprezzamento che naturalmente rivolgo loro. Ci vogliono i manager, ci vogliono
imprenditori che sappiano come funziona quella particolare azienda.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Un anno e mezzo fa è stata sequestrata vicino a Palermo una catena di supermercati: i
supermercati sono negozi che hanno dei margini bassissimi, perché hanno alti volumi di
vendita, bisogna far girare la merce a velocità vorticose. Se arriva lì un funzionario che
ferma tutto perché deve fare i bilanci, fare gli inventari e passano tre mesi, si chiude, si
fallisce.
È per questo che noi abbiamo già cominciato qualche sperimentazione, a Napoli per
esempio, con l’Unione Industriali di Napoli che ci “presta" dei manager per gestire le
imprese; per ora solo come consulenti - perché la procedura prevede la magistratura, il
commissario - ma questa è la strada da seguire. Vorrei arrivare a un punto in cui queste
aziende vengono prese, vengono gestite dal mondo delle imprese sane, dal mondo
delle imprese che combatte contro la mafia e che le valorizza per passare proprio dal
male al bene, per ridare alla società civile questo immenso patrimonio che è stato
sottratto impropriamente dalla criminalità organizzata.
Ho citato i dati, e concludo, che sono confortanti: venti miliardi di euro in due anni. È una
cifra, ripeto, senza precedenti, ma siamo ancora lontani dal vincere il tumore. Se
pensiamo che le stime più prudenti del fatturato della “mafia S.p.A.”, in Italia stimano
dieci miliardi di euro al mese, quindi centoventi miliardi all’anno - tutti esentasse, perché
ovviamente non pagano le tasse - centoventi miliardi di fatturato all’anno, noi ne
abbiamo sequestrati dieci, ci mancano ancora gli altri centodieci.
Però la strada è questa ed è la strada inevitabilmente da percorrere.
Oggi possiamo vantare, come dicevo, un sistema che è il migliore al mondo e lo dico io,
ma in conclusione su questo punto, per replicare a un’insinuazione che c’era oggi sui
giornali, vorrei citare testualmente le parole di una persona che è al di sopra di ogni
sospetto, cioè il capo della Polizia Antonio Manganelli, che ha detto: “i risultati che
abbiamo ottenuto negli ultimi anni sono superiori a quelli di qualsiasi altro Paese nel
mondo e certamente in Italia superiori a quelli registrati in tutti i tempi”.
Questa è la strada che noi dobbiamo continuare a seguire, perché vincere la mafia,
batterla definitivamente è possibile.
FABIO TAMBURINI
Bene, grazie a chi è stato sul palco, grazie a voi che ci avete seguiti. Abbiamo, credo,
contribuito con un piccolo granello di sabbia a portare avanti la lotta contro questo tipo
di criminalità.
Le testate del Gruppo Sole 24Ore, a partire da Radio24, faranno tutto quello che è
possibile per proseguire su questa strada.
Grazie a tutti.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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VENERDÌ 14 GENNAIO 2011
Quinta Sessione
Il ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari per la crescita delle imprese
italiane
GIORGIO GEMELLI
Per iniziare, vorrei ricordare quali sono le sessioni della mattinata. La prima è quella che
ora inizierà: Il ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari per la crescita delle
imprese italiane. Sono presenti e ne discuteranno Giuseppe Mussari, presidente dell’ABI,
Pierluigi Stefanini di Unipol Banca, Aldo Soldi di Legacoop; sarà moderatore Caterina
Parise, che fra poco inizierà a introdurre la discussione. Dopo una breve pausa ci sarà una
seconda sessione sui beni comuni e le politiche pubbliche, sul ruolo che in questo
svolge la cooperazione. Infine daremo la parola, per una lezione magistrale, a Michael
Spence, Premio Nobel per l’economia nel 2001.
Per cominciare inviterei la dott.ssa Caterina Parise a introdurre la prima parte della
discussione. Grazie.
CATERINA PARISE
Capo redattore centrale TM News
Buongiorno a tutti. Questa mattina affronteremo un tema abbastanza importante,
quello del ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari nella crescita,
ovviamente in Italia, ma anche a livello internazionale, delle imprese italiane e
cercheremo di capire quanto le banche sono state vicine al sistema delle imprese finora
e quanto potranno esserlo in futuro, visto che tutti sappiamo che questa ripresa stenta a
decollare e che i segnali di crisi invece permangono. Ci sono anzi degli allarmi - mi
riferisco a quello del ministro Tremonti la settimana scorsa - di una crisi che potrebbe
riproporsi e colpire probabilmente ancora il sistema bancario. Non il sistema italiano,
evidentemente, ma siamo in un mondo globale per cui è inevitabile che anche le nostre
banche e le nostre imprese risentano poi di quello che avviene a livello internazionale.
Per aiutarci a capire e ad affrontare questo tema, chiamerei sul palco il presidente
dell’ABI, Giuseppe Mussari, il presidente del gruppo Unipol, Pierluigi Stefanini e Aldo
Soldi della Lega delle Cooperative.
Darei la parola proprio al dott. Soldi, per affrontare il tema dal punto di vista della Lega
delle Cooperative, cioè come avete affrontato il tema della crisi? Come pensate di
potervi muovere in futuro?
ALDO SOLDI
Presidente Ancc-Coop, Legacoop
Buongiorno a tutti. L’argomento che affrontiamo è quello del ruolo degli strumenti
finanziari e del sistema bancario a sostegno della crescita delle imprese. È un argomento
che ha valore generale, nel senso che per le imprese c’è sempre un problema di crescita
e di sviluppo; adesso però c’è in più questa crisi che non finisce. Ieri abbiamo sentito
affermazioni molto chiare: lo scenario 2011 prevede una sostanziale continuità rispetto
allo scenario 2010, che non è stato certamente “rose e fiori” e quindi bisogna affrontare
l’argomento proprio partendo da qui. E allora mi preme fare una dichiarazione, una
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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premessa, magari scontata, che poi rafforzerò dal nostro punto di vista, cioè che l’attività
finanziaria è lo strumento per l’impresa, nel senso che il protagonista dell’attività
economica è l’impresa, con le sue scelte e i suoi mercati, i suoi valori, le sue difficoltà e i
suoi errori. Un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia e un eccessivo prevalere della
finanza rispetto a valori veri del mercato rischia veramente di falsare la prospettiva,
rischia di farci perdere contatto con la realtà del mercato e con la realtà viva di quello
che sta succedendo nell’economia. Questa crisi ci ha mostrato con grande chiarezza
questo elemento e ce lo ha fatto anche pagare a prezzi molto salati. Poi è vero che in
Italia la situazione è stata diversa rispetto agli altri Paesi per una serie di ragioni, che
magari in mattinata, in questo dibattito, potremmo anche indagare meglio, però la
globalizzazione ci porta a dire che quello che accade in altri Paesi naturalmente
influenza la nostra economia, che ne risente; i nostri consumi e le nostre imprese ne
risentono.
Aggiungo, da questo punto di vista, che ciò che stiamo vedendo oltreoceano non ci
rassicura. Si è fatto riferimento all’allarme lanciato dal Ministro; altri segnali ci indicano
un ritornare indietro, quasi come se niente fosse accaduto e ritengo che questo ci debba
sicuramente molto, molto preoccupare.
Abbiamo detto “crescita dell’impresa”. Come cresce un’impresa? È chiaro che cresce in
modi molto vari e articolati, non c’è un modo unico. Aggiungo però subito che per molte
imprese italiane, cooperative e non, in questo momento il problema che si pone,
purtroppo, non è tanto quello della crescita quanto quello della sopravvivenza e faccio
riferimento anche alla situazione in cui si trovano in questo momento molte cooperative
e anche altre imprese, che hanno difficoltà non perché hanno sbagliato delle scelte, non
perché non hanno più un mercato, ma perché la pubblica amministrazione non paga.
Un insieme di malcostume e di tagli, che alla fine stanno producendo effetti pesantissimi
su molte imprese, alcune delle quali cooperative, e stanno influenzando in maniera
pesante la possibilità di mantenere servizi essenziali per la popolazione. Si parla di servizi
importanti, basilari: quando non si paga una cooperativa che si occupa di figli che sono
affidati dai tribunali perché le famiglie non li possono più tenere, per un po’ succede,
come sta succedendo, che i soci di questa cooperativa portano da casa il materiale per il
sostentamento di questi ragazzi, rinunciano agli stipendio, etc. Ma quanto potrà durare?
Che Paese è questo? Quindi questo problema di sopravvivenza legato al fatto che la
pubblica amministrazione non paga è un elemento pesante che anche come Lega delle
Cooperative non abbiamo mai smesso e non smetteremo sicuramente di denunciare.
Crescere allora può voler dire unirsi per creare imprese più grandi, può voler dire
ristrutturare, allargare la produzione oppure provare a inserirsi in nuovi mercati,
diversificare l’offerta o anche guadagnare in efficienza, fare innovazione e molto altro
ancora. Insomma, i modi per crescere sono davvero tanti. Ecco, ognuna di queste
attività, dalla sopravvivenza alla crescita, ha bisogno di sostegno finanziario, di risorse e i
processi messi in atto sono di conseguenza molto diversi fra di loro, quindi occorre
mettere a disposizione delle imprese una molteplicità di strumenti; non c’è uno
strumento solo, occorre mettere a disposizione una molteplicità di strumenti che
provino a rispondere alla molteplicità di esigenze che la crisi ci pone.
Faccio un inciso, che mi preme anche dopo la giornata di ieri. Si è detto che le
cooperative hanno affrontato la crisi meglio di altre perché la crisi le ha trovate solide dal
punto di vista patrimoniale. Ma questa solidità non è per “grazia ricevuta”, bensì perché
negli anni, e in alcuni casi nei decenni, gli utili che le imprese cooperative hanno fatto
sono rimasti in impresa, non sono andati a fare dei giri strani; sono rimasti nell’impresa e
nella stragrande maggioranza dei casi i soci vi hanno rinunciato. È chiaro che questo ha
costituito una solidità patrimoniale che ha aiutato le cooperative ad affrontare momenti
difficili. Dico questo perché continuiamo a incontrare difficoltà ad affermare questo
concetto nella relazione che abbiamo con la Commissione Europea, che non ritiene che
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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questo sia elemento caratteristico dell’impresa cooperativa e alla fine dice: “va bene, ma
se gli utili non sono distribuiti sarà un problema vostro, non un problema collettivo”. Ma
se l’impresa reagisce meglio alla crisi e non licenzia, non scarica sui fornitori, non scarica
sulla collettività, perché si è patrimonializzata grazie a questo, è chiaro che questo
diviene un elemento che ha un valore collettivo, e non riguarda solo l’impresa.
Quindi abbiamo detto: molteplicità di modi di affrontare la crescita e molteplicità di
strumenti da mettere in campo. È esattamente quello che la Lega in questi anni ha fatto,
ha cercato di fare, e credo debba anche continuare a fare. Occorre cioè predisporre
strumenti diversi a seconda delle diverse esigenze delle imprese.
Alcune scelte importanti sono state fatte, come quella di fare rete fra gli strumenti
finanziari. Molti strumenti finanziari sono in campo nel mondo cooperativo; il fatto di
fare rete, di rinunciare a un po’ di autoreferenzialità, di mettersi in comune, di cooperare
fra cooperatori è sicuramente un elemento di forza, un elemento importante.
L’altro elemento che è stato molto significativo da questo punto di vista è stato quello di
attivare convenzioni con istituti di credito, che hanno consentito alle risorse interne di
fare leva e di conseguenza di muovere risorse più ampie a disposizione delle
cooperative. Quindi una finanza “al servizio” - questo è l’elemento che mi interessa
sottolineare sul piano concettuale - che deve essere remunerata, ma che non si pone
l’obiettivo della distribuzione degli utili fra i soci o fra le società aderenti; si pone
l’obiettivo di aiutare le imprese cooperative nelle loro scelte e nella loro crescita.
Sicuramente occorre mettere in campo strumenti che siano anche flessibili. Oggi, per
esempio, non c’è molta richiesta di interventi per la nascita di nuove cooperative, c’è più
richiesta di interventi per aziende in crisi, per salvare l’impresa in crisi e il posto di lavoro.
L’altra cosa che vorrei dire - che conferma alcuni dati che abbiamo visto ieri - è che
anche in questo periodo di crisi le cooperative hanno continuato a investire per lo
sviluppo e che le richieste che sono arrivate agli strumenti finanziari messi in campo dal
sistema cooperativo sono mirate anche allo sviluppo, alla crescita, al coraggio di
investire, di innovare, quindi non soltanto al contenimento e al difendersi dalle difficoltà.
L’elemento che caratterizza l’intervento degli strumenti finanziari messi in campo da
Legacoop è quello di aiutare le cooperative: cioè, non solo somministrare del denaro,
magari facendo ragionamenti semplicemente rispetto all’andamento, ma supportare le
imprese nel capire il loro business, nel fare delle scelte, per far sì che gli aiuti siano mirati
e che abbiano la migliore destinazione possibile. Ecco, questi sono gli strumenti che
sono stati messi in campo, questa è la filosofia con la quale si è lavorato. Vogliamo
affermare un modo cooperativo di fare finanza, che crediamo esista, e lo stiamo
dimostrando.
Un’ultima annotazione, prima di concludere: questa attività si svolge, e dovrà continuare
a svolgersi, in stretta relazione con le strutture associative territoriali e settoriali. Come è
stato detto ieri da Susanna Camusso e da molti altri interventi, le strutture associative
sono un pilastro della democrazia di questo Paese. Indebolirle, lasciare l’impresa sola,
avere un’illusione di autosufficienza significa rendere più debole l’impresa, rendere più
debole un sistema. Qualcuno ieri parlava di “rendere più debole la rete democratica di
questo Paese”; per questo, anche questa attività apparentemente tecnica,
apparentemente lontana, ha forti contenuti politici e deve essere fatta insieme alle
strutture associative e alle imprese da queste rappresentate.
CATERINA PARISE
Il dott. Soldi ci richiamava alla specificità italiana, alla pubblica amministrazione che non
paga, a quelli che possono quindi essere gli strumenti finanziari messi a disposizione dal
sistema finanziario e bancario per sostenere le imprese in difficoltà e anche per aiutare a
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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crescere. Volevo capire dal presidente Stefanini se ci sono degli altri elementi di
specificità italiana. Un po’ li conosciamo, appunto: la necessità di riforma, incidere sul
rilancio della produttività e come un sistema può aiutare lo sviluppo. Ne vede altri?
PIERLUIGI STEFANINI
Presidente Gruppo UGF
Sì, grazie. Buongiorno e grazie dell’invito.
Già molte cose le ha dette adesso in modo convincente Aldo Soldi, quindi farò solo
qualche breve riferimento che mi permette di argomentare il mio modo di vedere.
Intanto parto da un primo punto che ieri sottolineava Giuliano Poletti e che trovo molto
convincente. Direi che la cosa che manca di più in assoluto nel nostro Paese, in questo
momento, è la capacità di assumersi responsabilità e di non spiegare agli altri quello che
devono fare o, peggio, dare loro contro (penso alle banche, tanto per essere concreto).
Notate che periodicamente torna fuori questo richiamo demagogico e irresponsabile
contro le banche che non serve a nulla, se non a creare un’illusione e pensare che lì sia il
problema.
Quindi ha fatto molto bene Giuliano a sottolineare questo punto, perché credo che
Legacoop - lo diceva adesso Soldi - lo abbia dimostrato in questi due anni: mentre il
Paese ha fatto molta fatica a reggere la crisi, anche se in qualche modo ha tamponato i
problemi che c’erano e che ci sono - sicuramente non siamo stati aiutati dal contesto
internazionale drammatico - l’esperienza di Legacoop fa vedere che con la squadra, con
il presidio, con il monitoraggio, con il lavoro in rete e con le cose che diceva Soldi, si può
realizzare qualcosa, si può essere proattivi, cioè non limitarsi a dire quello che non va
bene, quello che non funziona dagli altri, cercando al contrario di assumersi delle
responsabilità.
Il secondo punto, estremamente importante, che Soldi sottolineava, è il ruolo
associativo. Perché appunto permette, ha permesso ad esempio alla nostra attività, di
avere maggiore possibilità di conoscere e di valutare, di capire e di avere anche quella
“confidenzialità” e quel supporto conoscitivo specifico riguardante sia l’andamento dei
diversi settori, sia l’andamento delle singole imprese, che consentono di dare un
contributo effettivamente efficace per reggere situazioni di crisi, di ristrutturazione o, in
alcuni casi, anche di sviluppo e di crescita.
Il sistema finanziario, poi, naturalmente ha dei problemi strategici importanti, primo fra i
quali è in assoluto la necessità di lavorare con molta più convinzione e impegno perché
si rafforzi e si elevi il livello di responsabilità sociale di chi opera nel campo finanziario.
Cosa vuol dire? Avere consapevolezza del ruolo fondamentale che si ha, avere piena
coscienza di quello che si fa, degli effetti che si producono verso gli altri, il mercato, i
cittadini, le famiglie, le imprese e trovare quindi, attraverso questa assunzione di
responsabilità e di impegno, che comporta poi una strategia di impresa conseguente, le
condizioni per essere più vicini alle aspettative e ai bisogni che dobbiamo cercare di
soddisfare. Avendo consapevolezza - che non sempre c’è - della forte interdipendenza
che esiste: bisogna cioè trovare le condizioni perché, ad esempio, gli istituti di credito
riescano a fare doverosamente il loro mestiere guardando innanzitutto al loro conto
economico. Questo elemento quasi non esiste nella discussione. Il problema è sempre:
dateci soldi, finanziateci. Ma le banche devono trovare un equilibrio, che faticosamente
e con molti problemi stanno cercando di trovare, nel dare le risposte che il mercato e le
imprese si aspettano.
Nel nostro piano industriale, abbiamo cercato di fare questo: stare con i piedi per terra,
avere grande realismo, sapere quello che siamo in grado di fare, i mezzi di cui possiamo
disporre e dunque essere poi nelle condizioni di dare un contributo, attraverso una
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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maggiore efficienza e qualità del nostro agire, a far crescere un livello di sostenibilità nel
Paese, tra le imprese, tra i lavoratori, che sia maggiormente adeguato.
Come? Ad esempio noi riteniamo, per la storia e la natura che abbiamo, per i referenti
sociali che vogliamo rappresentare, di dare un contributo affinché cresca nel Paese
un’idea nella quale una nuova traiettoria di sviluppo e di crescita del welfare sia essa
stessa una leva per lo sviluppo. Viviamo molto questo tema come grande e drammatico
problema di vincolo, di risorse che mancano, problema evidentemente molto forte e
molto sentito. Dovremmo invece cominciare a entrare in un’ottica nella quale questo
sviluppo, questo impegno, questa capacità di costruire coesione - e poi vengo al punto,
che ritengo fondamentale e strategico, dell’Europa - sia un elemento che crea esso
stesso le leve e le traiettorie di sviluppo, di nuove opportunità, di lavoro, e quindi di
crescita sostenibile nel tempo. Invece noi tendiamo a vedere temi della tutela sociale,
delle garanzie e dell’intervento dello Stato nei confronti dei cittadini, per coprire i loro
servizi, in una logica esclusivamente contabile. C’è il vincolo dello Stato, del costo dello
Stato, del bilancio e dunque dobbiamo fermarci lì. No, cominciamo a pensare studiando, progettando, guardando avanti, innovando - a trovare strade che siano
capaci, nel tutelare i cittadini, di dare anche opportunità di lavoro, di impresa, e quindi di
crescita.
Cosa voglio dire, per concludere? È già stato ribadito ieri da diversi interlocutori
importanti: la crisi, e ciò che sta accadendo ed è accaduto in questi anni, ci sollecita a
pensieri nuovi. Una cosa non facile, anzi, molto difficile, ma si tratta, credo, della vera
sfida: non il continuare a discutere, per qualche anno ancora, se la crisi c’è, in che modo
c’è, cosa ha inciso. Da dove è nata, perché è accaduta, quali sono le origini, credo che
questo sia già abbastanza chiaro. La letteratura ci ha aiutato in questi due anni a capire;
adesso il problema è di vedere cosa facciamo, quali risposte innovative forniamo di
cambiamento, di evoluzione, per essere capaci di costruire una prospettiva. E allora in
questo senso, nel dibattito pubblico, c’è un vuoto nel nostro Paese che è molto
preoccupante e grave, che ignora completamente quello che, a livello europeo, si sta
elaborando.
Cioè noi, quando parliamo di internazionalizzazione, dobbiamo certo porci il problema
dei mercati, delle eventuali capacità di sviluppo delle imprese all’estero e quindi degli
effetti strutturali e duraturi che un’apertura all’estero può determinare per le imprese.
Ma c’è anche un altro grande filone, che è quello di costruire un’apertura internazionale
per acquisire know how, competenze, conoscenze, dunque essere poi nelle condizioni nei singoli Paesi, nelle singole imprese - di costruire innovazione e cambiamento.
“Europa 2020”: la comunicazione della Commissione Europea recente, il lavoro di Monti
sono tutti materiali di estremo interesse per il nostro Paese. Potrebbero essere di grande
stimolo. Lì si parla - commentavamo prima di iniziare il dibattito - di un termine che in
Italia è quasi ignoto: “politica industriale”. Cioè, metà delle cinquanta proposte della
Commissione sono sulla politica industriale.
Noi dibattiamo da qualche settimana, o mese - e continueremo a farlo dopo - dei
cancelli della Fiat, ma ignoriamo completamente quale politica industriale vogliamo fare
per quel settore. E nel lavoro che l’Europa sta cercando di fare, ad esempio, ci sono
anche questioni molto vicine a noi: si parla di impresa sociale, di cooperative, di
fondazioni, di mutue, si parla di come creare nuove competenze per creare nuovo
lavoro, un tema, che sollevava Aldo Soldi, estremamente importante e fondamentale.
Cioè, dobbiamo certo tutelare i lavoratori che sono in difficoltà, e questo è un dovere
che lo Stato deve sostenere, naturalmente, e tutto il Paese deve porsi questo problema,
ma dobbiamo parallelamente costruire anche nuove occasioni di lavoro, nuove imprese,
nuove attività, creare nuovi percorsi. Non a caso, un capitolo della politica europea è il
sostegno alla creazione, alla creatività, cioè a come indurre, stimolare e promuovere
attività che siano capaci di provocare e produrre, nel pensiero e nell’attività delle
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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persone, nuove idee e nuove risposte per il futuro. Infine, sempre a proposito di Europa,
si parla - e credo che questo sia estremamente importante e fondamentale e un po’
racchiuda anche lo sforzo che il nostro Paese dovrebbe riuscire a fare; lo si diceva ieri,
molto bene in diversi interventi - di costruire una visione che sia più capace di
comprendere la complessità e, dunque, di dare risposte. Cosa intendo dire? Finalmente
in Europa si comincia a dire che c’è un mercato unico che è fatto dai lavoratori, dai
cittadini e dalle imprese. Dunque occorre avere questa visione di insieme, cioè questa
capacità di connettere diversi piani di intervento, se vogliamo costruire una prospettiva
di coesione sociale. E naturalmente sul sistema finanziario sono state fatte, a livello
europeo, cose importanti, per dare stabilità al mercato in una fase drammatica. Adesso
bisogna entrare in una fase nella quale si possano incentivare e stimolare investimenti
privati finalizzati a creare buona occupazione, nuove imprese e dunque una prospettiva
di sostenibilità nel tempo.
CATERINA PARISE
A questo punto, direttamente chiamato in causa, invito il presidente dell’ABI a parlare
della risposta del sistema bancario. Sappiamo che le risposte sono già state date
abbondantemente alle imprese. In qualche modo sono state aiutate in questi anni, mi
riferisco alla moratoria in scadenza. Ma volevo, se possibile, capire due cose.
Innanzitutto, quanto le banche saranno vincolate dalle nuove norme - penso a Basilea 3
- e quanto questo rischia di ripercuotersi oggettivamente sul credito dato alle imprese;
poi, visto che è proprio notizia di oggi, se sulla moratoria in scadenza a fine mese si sta
effettivamente lavorando. Circolano già delle bozze; sappiamo che la moratoria non è
rinnovabile, l’ABI l’ha detto in tutti i modi, però sicuramente ci possono essere degli
strumenti alternativi, l’ABI si è impegnata in questo, a cui evidentemente stanno
lavorando.
GIUSEPPE MUSSARI
Presidente ABI, presidente Banca MPS
Grazie. Buongiorno e grazie alla Lega delle Cooperative per l’invito.
Regole: intanto bisognerà che le regole siano approvate da chi approva le regole in un
sistema democratico, cioè dal Parlamento; quindi aspettiamo di capire quando, per
quanto ci riguarda, il Parlamento italiano esprimerà la sua opinione, quando il
Parlamento europeo, poi, approverà le proposte che gli perverranno. In più dovremmo
anche cercare di analizzare con attenzione quali saranno i risultati dello studio
sull’impatto macroeconomico di queste regole che il commissario Barnier ha più volte
dichiarato di essere fortemente intenzionato a realizzare. Quindi è difficile dire, prima
che questo percorso sia arrivato a un ragionevole punto di stabilità, quale potrà essere
l’impatto.
È evidente, come diceva prima il mio amico Stefanini, che le banche siano imprese e in
quanto tali devono tener in considerazione il conto economico e il patrimonio e i loro
azionisti devono considerare il ritorno sul patrimonio che le banche hanno. Se mettiamo
le banche nelle condizioni di dover avere più patrimonio e di conseguire meno ricavi, è
evidente che la redditività sul patrimonio tenderà a scendere, le banche avranno
qualche problema in più a convincere i propri soci a sottoscrivere il loro capitale e
questo potrebbe determinare in linea molto teorica che, al fine di risparmiare capitale, le
banche diminuiscano i propri impegni. Tutto è connesso, non ci sono variabili
indipendenti. A tal fine la raccomandazione che l’ABI ha fatto fin dall’inizio, con grande
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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chiarezza, non è contro le regole. Ben vengano le regole; credo che fino adesso - come
sottolineava sempre Stefanini - non mi sembra che ce ne siano state tante e la
preoccupazione che vediamo è per il fatto che si è ripreso a fare quello che altri facevano
prima, quindi vuol dire che l’ambiente consente quello che prima era consentito, che
forse non è andato proprio nella direzione dell’interesse generale. E allora bisognerebbe
porsi non contro le regole, ma cercando di dare un modesto contributo. Ci sono banche
che svolgono del tutto legittimamente un’attività, che è quella legata ai mercati
finanziari, alla protezione dei rischi, e ci sono banche che invece finanziano imprese e
famiglie. Sono due “animali” sostanzialmente diversi. Siamo convinti che ci debbano
essere le stesse regole? E se anche dobbiamo avere le stesse regole, quantomeno
cerchiamo di valorizzare il lavoro di chi sta al servizio dell’economia reale.
Credo che tutti dobbiamo lavorare in questa direzione e da questo punto di vista, nel
nostro Paese, abbiamo fatto un significativo passo avanti, perché mi sembra che si sia
finalmente diffusa la consapevolezza che le regole sul funzionamento bancario vanno
immediatamente a determinare effetti nella vita di tutte le altre imprese. Quindi, su
Basilea 3 abbiamo registrato posizioni di Legacoop, posizioni di Confindustria, abbiamo
posizioni di Rete Imprese Italia, tutti preoccupati che il rapporto tra banca e impresa che credo nell’ultimo anno e mezzo si sia sostanzialmente ricostruito in termini positivi non trovi un elemento di criticità in norme che rischierebbero, se non attentamente
ponderate e valutate, di penalizzare proprio quei sistemi bancari che al contribuente
non hanno chiesto una lira per rimanere in piedi. E questo sarebbe veramente
incredibile.
All’interno di questo quadro di relazioni, mi pare che il rapporto tra banche e imprese in
Italia viva un periodo di sostanziale e profonda serenità, che è sicuramente merito di
Avviso comune, ma è anche merito di una ritrovata voglia di ragionare insieme e di
affrontare insieme i problemi comuni. Non c’è alternativa, credo, per le imprese e per le
imprese bancarie. La situazione che ha visto per un certo periodo le banche
contrapposte alle imprese, faceva correre il rischio di “finire come i polli di Renzo”.
Perché si può anche litigare, fra banche e imprese, sugli impieghi, sui tassi, sul credito,
ma se non si ha la consapevolezza che gran parte della dimensione dei rapporti fra
banca e impresa è purtroppo, in questa fase storica, disintermediata rispetto alla volontà
delle parti, e se non si ha la forza, dove ci sono problemi, di andare altrove a porre le
questioni di comune interesse, si fanno pochi passi avanti.
È quello che è successo con Avviso comune, cioè il riuscire a costruire un’ipotesi che
tendesse a recuperare tempo per le imprese, perché l’inizio della nuova fase economica poiché questa non è una crisi, è una nuova fase economica - è stato verticale. Avviso
comune ha svolto brillantemente il suo compito ed è giunto a buon esito.
Non ci sono i presupposti formali per rinnovarlo, occorre andare oltre e ci stiamo
alacremente lavorando con le associazioni imprenditoriali; abbiamo un tavolo presso il
Ministero dell’Economia. Il 31 gennaio Avviso comune chiuderà i battenti e sarà
sostituito da qualcosa che guarda al futuro e quindi, di nuovo, risistemerà questioni che
sono rimaste pendenti. Potrà riallungare i termini, farà forza sugli strumenti di garanzia,
che in questo Paese ci sono, dalla rete dei Confidi al Mediocredito Centrale, cercherà di
mettere a sistema tutto quello che nei mesi scorsi comunque è stato fatto, perché nei
mesi scorsi sono successe cose importanti: il fondo per l’intervento nel capitale delle
piccole e medie imprese prima non esisteva e ora lo abbiamo ed è uno strumento
fondamentale; la gara per la gestione sul Mediocredito Centrale, in corso di attuazione, a
cui partecipa un consorzio di imprese che vede tutte le principali categorie di banche
italiane, è un altro segno preciso di come lo strumento di garanzia, nella fase successiva
alla caduta verticale, diventi una necessità fondamentale per banche e imprese.
Cosa ci lascia il 2009? Ci lascia imprese ovviamente con numeri peggiori del passato, con
rating peggiori del passato e, quindi, con necessità finanziarie che assorbono più
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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capitale delle banche e costano di più alle imprese; allora la garanzia di un terzo che
riduce il peso patrimoniale e, di conseguenza, il costo del credito, diventa un elemento
essenziale per proseguire in una traiettoria di crescita.
Stiamo all’interno di questo quadro, un quadro di relazioni serene e molto fattive, dal
punto di vista della quantità di lavoro. Abbiamo l’impegno del tavolo più generale sul
Paese, sulla produttività, che contiamo di portare a termine in tempi ragionevoli. Quindi
credo che, dal punto di vista delle relazioni fra parti sociali, in questo Paese, senza
esclusione alcuna, vi sia stato e, mi auguro, vi sia anche in futuro, un periodo
estremamente positivo, nell’interesse collettivo. Perché questa è un’altra questione: ogni
tanto qualcuno ci domanda perché ci occupiamo di tutte queste cose, contro chi, a
favore di chi. Allora, “contro” non facciamo nulla; a fare le cose “contro” si perde un sacco
di tempo e non ci si guadagna nulla. “A favore” di chi, di cosa? Perché questo Paese
recuperi una traiettoria di crescita.
Tutti i ragionamenti che abbiamo sentito, anche da Stefanini e Soldi, rispetto
all’impegno sociale che un Paese deve mantenere riguardo ad alcune categorie di
cittadini, ad alcune fasce sociali, saranno sostenibili nella misura in cui questo Paese
tornerà a crescere a ritmi molto più elevati del passato. Perché la dinamica “debito
privato - debito pubblico”, come driver di crescita o di protezione sociale, è finita; per
questo è una nuova fase e allora se tu hai bisogno di continuare a fare delle cose e hai
bisogno di investire, perché le opportunità di crescita aumentano, non c’è niente da fare.
Noi dobbiamo produrre di più e produrre meglio: cioè diventare più ricchi, perché solo
diventando più ricchi è possibile pagare, speriamo in proporzione, meno tasse, ma dare
più denaro alla Stato per fare le cose a cui Stefanini prima ci richiamava.
CATERINA PARISE
La domanda a questo punto è quasi d’obbligo e rivolta, ovviamente, non solo al
presidente Mussari, ma anche al presidente Stefanini e al dott. Soldi. Nuova fase
economica significa necessariamente anche nuovi rapporti industriali, nuovo
coinvolgimento o coinvolgimento con modalità diversa dei lavoratori? Mi rendo conto
che oggi questa domanda può avere un significato un po’ differente. Sappiamo tutti,
insomma, che è in corso un referendum che non coinvolge minimamente il sistema
bancario, ma coinvolge il sistema-Paese, evidentemente perché la Fiat è probabilmente
soltanto il primo - chiamiamolo così - esperimento, vedremo poi se riuscito o meno. Ma
volevo capire se una nuova fase significa necessariamente un diverso rapporto, una
nuova riforma del lavoro, un diverso coinvolgimento dei lavoratori, in tutti i settori.
Chiaramente non parlo soltanto di industria, anche se poi la produttività arriva
innanzitutto dall’industria.
Cominci Lei, presidente Mussari.
GIUSEPPE MUSSARI
Molto volentieri. La nuova fase significa la necessità di profonde discontinuità. Se si
pensa in una fase diversa in cui gli elementi strutturali della crescita cambiano e qualche
centinaio di milioni di persone si è messo in marcia con la forza di volontà che ha il
soggetto che da una situazione di semi-indigenza vuole passare a una situazione di
benessere - che non è solo una forza numerica o la forza di sistemi che non sono proprio
in linea con i canoni classici della democrazia, ma è la forza interna del singolo
moltiplicata per qualche milione, che vuole affrancarsi, è cioè qualcosa di materiale con
cui per altro questo Paese ha fatto positivamente i conti nel dopoguerra - cioè, quando
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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vedi che un Paese (poi se è grande come la Cina la spinta è enorme) si mette in marcia e
sposta le montagne, allora - debito pubblico in crisi, debito privato prima del debito
pubblico e questa forza che si sposta - cambia la fase, cambia proprio l’architettura che ti
circonda. E tu o sei discontinuo o stai ai margini. Essere discontinuo vuol dire ripensare a
tutto, vuol dire anche, per quanto riguarda l’Italia, pensare a quello che,
complessivamente, le generazioni precedenti, ma anche questa attuale, hanno
combinato a danno dei più giovani.
CATERINA PARISE
Pensioni?
GIUSEPPE MUSSARI
No, non è solo una questione di pensioni, è proprio di opportunità più generali, cioè di
quanto abbiamo contribuito a eseguire un maldestro furto del loro futuro. Poi il loro
disagio, la loro protesta, può catalizzarsi su una legge verso l’Università - un movimento
come quello deve trovare un elemento catalizzatore - che non mi pare fosse l’obiettivo
principale. Forse l’obiettivo principale ce l’hanno nel salotto di casa, nei confronti dei
loro genitori e dei loro zii, dei loro nonni, a cui dovrebbero chiedere conto di questa
situazione. Allora - e qui non si scappa - noi, se dobbiamo, come dicevamo prima,
produrre più ricchezza, alcuni elementi strutturali dobbiamo cambiarli e dobbiamo farlo
in maniera profonda, perché non possiamo più permetterci quello che ci permettevamo
prima, a danno di quelli che venivano dopo di noi. È un gioco terminato ed è terminato
fortunatamente per condizioni esterne, ma dovrebbe terminare anche per coscienza
civica individuale. Questo significa andare in territorio incognito e quindi modificare
profondamente quello che si è stati e chiedersi, rispetto a questi nuovi parametri, quali
sono i veri interessi, i veri diritti, le vere forme di rappresentanza, qual è lo sforzo che
collettivamente questo Paese deve fare, anche offrendo di più di quello che si
immaginava potesse essere giusto offrire prima.
Poi purtroppo non è equa la divisione del peso, me ne rendo conto. Chi è andato in
pensione con dodici anni, sei mesi e un giorno… com’era la formuletta? Quello lo
abbiamo perso, non lo recuperiamo più, ma questo non significa che poi noi non
dobbiamo necessariamente recuperare e questa sarà una questione trasversale. Noi,
all’incirca dall’inizio degli anni Novanta, perdiamo costantemente produttività. La nostra
ricchezza individuale, rispetto alla media dell’Unione Europea, prima aveva un surplus;
negli ultimi dieci anni ha un minus. Questo determina un Paese più ingiusto, perché chi
è ricco, o era ricco, è rimasto ricco, anzi forse è diventato più ricco; è chi non era ricco, ma
stava così così, sta peggio; chi stava male sta ancora peggio. Perché quando un Paese
smette di crescere succede questo: non si determina più giustizia sociale, ma meno,
perché si redistribuisce meno e perché lo Stato ha meno soldi per fare le cose che deve
fare. Allora non c’è alternativa: o ci mettiamo nelle condizioni di attrarre capitali e
investimenti, di aumentare la possibilità di lavoro e la crescita di ricchezza, o
diventeremo un Paese più povero e - cosa più triste - più ingiusto. Quindi, se è una
nuova fase economica, la discontinuità in quello che siamo, nei comportamenti, nelle
relazioni industriali e nelle relazioni fra banche e imprese è il driver della crescita che ci
rimane.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
90
CATERINA PARISE
Dott. Stefanini, discontinuità, in concreto, a partire da che cosa? Diceva l’avvocato
Mussari, discontinuità nei rapporti, anche nelle relazioni industriali, discontinuità per
crescere. Concretamente potremmo tradurla in che cosa, dal suo punto di vista?
PIERLUIGI STEFANINI
Mi faccio aiutare da questa platea, perché vedo in quarta fila il presidente della CMC,
cooperativa importante nel settore delle costruzioni, con una grande proiezione
internazionale e con una fortissima capacità di partecipazione dei soci lavoratori.
Naturalmente ogni impresa deve seguire i suoi percorsi, le sue modalità specifiche e
concrete, tuttavia da questa esperienza, dalle cooperative di lavoro in senso più
generale, emerge un forte messaggio per il Paese, e cioè che appunto è necessario e
fondamentale, in questa fase storica, sostenere un percorso che progressivamente, con
un’intensità sempre maggiore e con una capacità innovativa adeguata, coinvolga,
responsabilizzi, motivi e consideri i lavoratori parte integrante del successo dell’impresa.
Quindi, qui c’è un primo punto di lavoro che credo potrebbe essere utilmente messo a
disposizione; Legacoop lo sta peraltro già facendo, era emerso anche nella mattinata di
ieri. Forse qui c’è bisogno di una maggiore apertura, di essere anche propositivi e
stimolatori di processi analoghi, in altri settori industriali produttivi.
Secondo esempio: “Europa 2020”. Lì c’è la risposta. Cioè, quando vi si afferma che la crisi
è degli imprenditori e dei lavoratori, che li coinvolge tutti e che il destino è comune, si
dice una cosa fortissima. Bisogna partire da lì e costruire una risposta. Lisbona, 2020, la
coesione, il coinvolgimento, la crescita professionale, l’investimento sulle competenze e
sulla dotazione di capacità intellettuali e tecniche specifiche: sono elementi
fondamentali. Se l’Europa vuole avere un futuro deve, soprattutto e innanzitutto,
giocare lì la sfida, nel quadro internazionale.
Il terzo elemento - lo diceva ieri Giuliano Poletti ed è stato poi ripreso nei dibattiti e nei
commenti - è la disponibilità, che purtroppo non sempre c’è, a fare evolvere con serietà
il sistema delle relazioni industriali - e delle relazioni sindacali più complessivamente - su
terreni più moderni, più snelli, più flessibili. Badate bene: flessibili non vuol dire che
ognuno fa quello che vuole, in modo del tutto destrutturato e non democratico, ma
significa che in modo serio, responsabile e condiviso si costruiscono nuove aperture diceva adesso giustamente Giuseppe Mussari - soprattutto nell’ottica, che tutti
dichiariamo, dei giovani. Qui c’è un punto chiave, per il futuro, da giocare. In una delle
proposte “Europa 2020” si dice che bisogna costruire le condizioni perché i giovani
possano circolare in Europa. Il nostro dibattito italiano è solo sul fatto che i giovani
vanno via. Capisco l’ottica con la quale lo si afferma: perché l’Italia non dà opportunità.
Ma cominciamo invece a pensare al fatto che i giovani, se circolano nel mondo, possono
arricchire la dotazione di competenze di cultura e di conoscenze del nostro Paese, in una
logica che deve essere ovviamente circolare, non chiusa e non a senso unico,
naturalmente. Al contrario, un’ottica propositiva e costruita in modo intelligente può
essere una grande opportunità per dare al Paese una dotazione intellettuale che
purtroppo ha difficoltà a venir fuori. Quindi in questo senso c’è solo da fare.
CATERINA PARISE
Volevo sentire anche il dott. Soldi su questo argomento, cioè discontinuità a partire da
che cosa? Lei diceva prima: creare nuovi lavori, quindi fare ripartire il ciclo, seppure con
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
91
tutte le difficoltà che conosciamo. Concretamente - sicuramente come Legacoop avete
tutta una serie di esperimenti - cos’altro si può fare per fare ripartire?
ALDO SOLDI
Questa crisi, è già stato un po’ detto, nel nostro Paese ha aumentato le ingiustizie e le
differenze. Il nostro è un Paese che, rispetto ad altri Paesi europei, ha storicamente
differenze anche nella distribuzione del reddito, però è chiaro che questa crisi ha
aumentato le differenze. Le ha aumentate tra Nord e Sud, fra uomo e donna, fra anziani,
o persone più protette, e giovani; insomma ha aumentato le differenze e le ingiustizie.
Allora io credo che le prime cose da fare debbano muovere in questa direzione, che è
una direzione non solo di giustizia sociale, ma anche di sviluppo economico.
Se per esempio guardiamo la dinamica dei consumi, vediamo che nel nostro Paese è in
forte rallentamento. Abbiamo a disposizione un dato che viene raccontato a seconda se
si vuole seminare ottimismo, perché si pensa che questo serva, o se si vuole raccontare
la verità: abbiamo una contrazione consistente dei consumi e di consumi importanti,
come ad esempio quelli alimentari. Questo è segno di un impoverimento del Paese.
Allora lavorare per recuperare le differenze cui prima facevo riferimento, e che la crisi ha
accentuato, significa anche determinare una possibile ripresa dei consumi e un possibile
rilancio dell’economia. Quindi c’è questo primo fattore: il recupero delle differenze, delle
ingiustizie.
La seconda questione attiene alla necessità di una politica, di una visione di lungo
periodo. Diceva ieri Gros-Pietro: guardare lontano e capitale paziente. Di questo il nostro
Paese ha bisogno. Se la politica industriale si fa con i ricatti, se la politica, quella vera, si fa
con le dichiarazioni al TG, questo Paese non va da nessun parte. Occorre recuperare una
visione di medio-lungo periodo e convogliarvi le tante risorse buone e valide di cui
questo Paese indubbiamente dispone. Solo in questo modo, all’interno di una visione
che sia comune e sia di medio-lungo periodo, si possono superare le differenze e avviare
un percorso di crescita e di sviluppo, di cui abbiamo indubbiamente bisogno.
Il nostro Paese dispone di forze sane. La cooperazione fra queste forze è attrezzata
culturalmente, non solo giuridicamente, per una visione di medio-lungo periodo e
intergenerazionale. Svolgerà, svolge e intende svolgere, entro questa visione, il suo
ruolo.
CATERINA PARISE
Se abbiamo ancora un minuto, vorrei fare un’ultima domanda all’avvocato Mussari, più
che altro una precisazione. Se ho ben capito quello che Lei ha detto sulle regole su
Basilea 3, sembra quasi che ci possa essere una proposta di regole leggermente
differenti o un’applicazione delle regole diversa tra le banche che fanno investimenti,
quindi - diciamola giornalisticamente - speculazione, e le banche invece che finanziano
imprese e famiglie.
GIUSEPPE MUSSARI
Credo che se noi due provassimo a scambiarci le scarpe, difficilmente io entrerei nella
sua e Lei starebbe molto comoda nella mia. Con la conseguenza che ognuno di noi due
salirebbe con grande difficoltà quella scala, anzi non arriverebbe probabilmente a metà.
È tutto qui. È difficile immaginare di mettere la stessa sella a un cavallo da corsa o a un
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
92
pony. Non hanno la stessa groppa, quindi il buonsenso pretenderebbe che chi fa un
mestiere abbia, non diverse regole, ma una diversa ponderazione sui propri attivi in
relazione all’attività che fa, e chi fa un altro mestiere abbia un’altra ponderazione e che il
livello di leve e, quindi, di dimensione degli attivi abbia un limite.
CATERINA PARISE
Bene, ringrazio tutti quanti.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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Sesta Sessione
Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione
GIORGIO GEMELLI
Come avete visto nel programma dei lavori, il punto che tratteremo adesso titola: Beni
comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione. Sono presenti il presidente della
Regione Lombardia, Roberto Formigoni, Aldo Bonomi, Luca Bernareggi e Phillip Blond,
direttore della Fondazione ResPublica. Marco Sodano, caporedattore de La Stampa,
condurrà i lavori.
Prego, Sodano.
MARCO SODANO
Caporedattore La Stampa
Buongiorno a tutti. Questa parte della sessione mi sembra interessante perché si parla di
beni pubblici. Prima abbiamo affrontato il ruolo delle banche, degli strumenti finanziari.
Qui invece si parla di beni pubblici, dove la gestione cooperativa dovrebbe essere - non
nel senso giuridico, né nel senso formale - il principio che regge tutte le cose, perché il
bene pubblico si gestisce in questo modo. Partirei da Phillip Blond, direttore della
Fondazione ResPublica. È un dibattito in corso anche in Inghilterra, anche nel mondo
anglosassone; anche a Londra si sta cominciando a parlare di tagli e di difficoltà sul
welfare e penso che Mr. Blond ci possa illustrare molto bene il ruolo che può avere,
secondo lui, la cooperazione nella gestione del bene pubblico.
PHILLIP BLOND
Direttore ResPublica
Grazie infinite. È un grande onore essere qui come membro di un panel di eminenti
personalità, per parlare di un argomento tanto importante.
Ciò che a mio parere è interessante è che per moltissimi anni, direi circa
cinquanta/sessant’anni, sostanzialmente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale,
l’attività cooperativa ha rivestito un ruolo minoritario, è stata marginale e considerata
come qualcosa di importanza secondaria o perfino terziaria e non come un fattore
davvero fondamentale per l’avvenire dell’Occidente e per il futuro dell’economia. In
Europa si sono profilati due modelli, in competizione tra loro in merito a come
organizzare il capitale, come organizzare gli investimenti, come allinearsi in termini di
produttività e come perseguire gli interessi reciproci. A sinistra vi è stato principalmente
lo Stato. A destra, dopo il fallimento dello Stato negli anni Settanta, soprattutto nel
Regno Unito, quando la Thatcher è stata eletta nel 1979, si è rafforzata l’idea di un
mercato libero individualizzato. Ciò che è interessante e, a mio parere, anche
rimarchevole è che in un certo senso la crisi rappresenta la fine di entrambi questi
approcci. Infatti, uno dei fattori all’origine della crisi è quell’alleanza nascosta tra la
centralizzazione statale e la garanzia finanziaria da un lato, e la monopolizzazione del
mercato e la cattura di capitali e di mercati da parte di oligarchie e di cartelli dall’altro. Il
modo più evidente in cui si è verificato questo processo sta nel fatto che lo Stato ha
progressivamente sottoscritto le attività delle banche di investimento. Infatti, lo Stato ha
man mano sottoscritto gli utili del settore privato. In generale, dal 1900 al 1970 lo Stato,
ad esempio nel Regno Unito, ha sottoscritto il 50% degli asset bancari, al punto da
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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raggiungere il 50% del PIL. Nel 2000 la percentuale di asset bancari sottoscritti dallo
Stato era aumentata di dieci volte, raggiungendo un livello pari a cinque volte il PIL. Ciò
che a mio avviso è veramente successo è che è emerso che la collettivizzazione e
l’individualizzazione in realtà sono lo stesso fenomeno. Un’economia politica radicale
focalizzata solamente sull’individuo è spesso sottesa, occultamente, dalla
collettivizzazione e la collettivizzazione è spesso l’esito di un’economia basata
unicamente su un tipo di economia politica fondata sugli individui, perché la crisi, le
disuguaglianze e l’appropriazione della ricchezza sono il risultato di un’economia
politica neo-liberale e qui si ritorna sempre allo Stato.
Improvvisamente è comparsa una vera e propria terza via, rappresentata dalla
mutualizzazione, dalle cooperative e dalla sussidiarietà, comunque vogliate definire
questi termini. Perché questo è importante? Perché è diverso? Perché il motivo
fondamentale per cui abbiamo bisogno del capitalismo - e mi considero un pensatore
del libero mercato - è che abbiamo bisogno di un modo per distribuire il capitale. Il
capitale è utile e quindi deve essere dato al numero massimo possibile di centri,
persone, organizzazioni. Il capitale deve essere distribuito nel modo più ampio possibile.
Tuttavia, sia le organizzazioni del capitale di destra sia quelle di sinistra hanno operato
per monopolizzare il capitale, per portare il capitale nelle mani di un numero sempre più
ridotto di soggetti. Di conseguenza abbiamo creato un’economia che funziona solo per
coloro che detengono posizioni di prestigio nello Stato o per coloro che già sono
benestanti sul mercato. Se non creiamo una forma popolare di scambio economico, se
non creiamo un nuovo modello economico, se permettiamo che il mercato e la
ricchezza rimangano nelle mani di pochi soggetti, allora creiamo una società di servi,
ricreiamo un’organizzazione feudale, tale per cui la maggior parte delle persone tornano
a rivolgersi allo Stato per avere una sicurezza economica.
Questo ha portato anche dall’insicurezza alla dipendenza dallo Stato. Ora, perché mi
interessano tanto il modello italiano e quanto è stato fatto in Lombardia, come descritto
anche nel materiale sull’economia politica italiana? Perché voi davvero avete iniziato ad
alimentare forme di istituzioni il cui scopo è quello di distribuire il capitale in modo più
ampio, il cui scopo è quello di creare istituzioni che diano una vera autonomia a
tantissime organizzazioni di diverso tipo. Da quello che è stato detto in precedenza, si
evince che avete consentito che le associazioni istituissero piani di garanzie bancarie, il
che significa che i prestiti devono essere erogati dalla banca alle piccole e medie
imprese. È interessante anche il modo in cui operano le stesse cooperative, in una sorta
di struttura aperta di tipo corporativo per prestare denaro e aiutare altre cooperative.
Per parlare della Gran Bretagna, dobbiamo innanzitutto chiederci quale sia il principale
problema di questo Paese. Ebbene, il problema principale in Gran Bretagna è che il
denaro, la ricchezza, il potere e la prosperità sono concentrati nelle mani di pochissimi
soggetti. Nel 1976, il 50% più basso - ovvero la metà inferiore della popolazione in Gran
Bretagna - deteneva il 12% del capitale liquido, escludendo gli immobili. Nel 2003, la
metà inferiore della popolazione deteneva l’1% del capitale disponibile. Il denaro e la
ricchezza erano fluiti verso l’alto. Da persona che crede nella proprietà e in una società
libera, dove gli individui e non lo Stato detengono indipendenza, innovazione, ricchezza
e prosperità, mi chiedo come possiamo correggere questa situazione. A mio parere, un
approccio radicale di conservazione consisterebbe nel fare in modo che lo Stato
smettesse di essere un agente della ridistribuzione, perché il 95% del pensiero di sinistra
- in realtà si tratta del 100% - sembra marcato, come sempre, dall’idea di equalizzazione
del reddito, usando lo Stato come mezzo per equalizzare il reddito. Tuttavia, se si usa lo
Stato come agente di ridistribuzione, non si fa altro che dare potere alla burocrazia,
senza mai affrontare il problema della povertà. Questo approccio è stato portato avanti
per cento anni e non siamo mai arrivati a nulla. Io invece sono a favore dello Stato visto
come agente di distribuzione, distribuzione primaria. Quello che sostengo io, così come
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
95
è stato sostenuto da ResPublica nel suo primo report The Ownership State, è che quello
che dovrebbe fare lo Stato è mutualizzare, non privatizzare o nazionalizzare, ma
mutualizzare. Io ritengo che tutti i servizi pubblici debbano essere trasformati in società
mutualizzate. Dovrebbero diventare forme di cooperative, dove i dipendenti sono
proprietari della società e i consumatori o i destinatari di quei servizi possono essere
eletti membri del consiglio di amministrazione. Questo genererebbe una serie di
efficienze di tipo cooperativo. Ad esempio, le società di proprietà dei dipendenti sono
chiaramente più redditizie rispetto ad altre forme di società o di organizzazioni. Nel
corso degli ultimi dieci anni, le società possedute dai dipendenti hanno fatto registrare
performance superiori del 10% anno su anno, rispetto alle società FTSE 100 di Londra.
Ora, immaginatevi l’effetto composito di questo fenomeno.
Mi piacerebbe poi trasferire quel guadagno di efficienza e di produttività anche nel
settore pubblico. Se trasferissimo quell’incremento di produttività nel settore pubblico,
permetteremmo alle persone che hanno sempre solo avuto un salario basso di diventare
proprietari delle loro attività, daremmo loro gli incentivi per diventare più efficienti.
Questo è solo un esempio, ma ce ne sono moltissimi altri. In Gran Bretagna, con la Big
Society e il rinnovamento della società civica, guidati dal nostro Primo Ministro, stiamo
cercando di ricreare un’economia politica associativa. L’economia politica associativa
comprende anche le cooperative ma prevede molto di più. Non dico questo in senso
negativo, ma ci sono molti modi diversi di associarsi, non c’è mai un solo modello. Nel
Regno Unito abbiamo quelli che definiamo “Social Impact Bond”. Cosa fanno i Social
Impact Bond? Per la prima volta questi strumenti collegano il mercato dei capitali ai
risultati sociali. Vi faccio l’esempio dei detenuti che tornano a delinquere. I detenuti, e
coloro che vengono affidati alla giustizia penale, ci costano letteralmente miliardi di
sterline. Noi, almeno in Gran Bretagna, sappiamo che due terzi dei detenuti che vengono
rimessi in libertà, vengono nuovamente condannati nell’arco di due anni, il che significa
che il 66% degli ex-detenuti vengono nuovamente incarcerati entro due anni. Tuttavia,
se questi carcerati lavorano con gruppi di volontari, che spesso operano per motivi
religiosi, il tasso di re-incarcerazione cala dal 66% circa al 20%, generando enormi
risparmi per lo Stato. Per la prima volta in Gran Bretagna è successo che con quei
risparmi lo Stato ha sottoscritto un accordo con organizzazioni del terzo settore e con
enti di beneficienza affinché queste ultime si prendano cura dei carcerati. Lo Stato paga
questi enti di beneficienza se i carcerati non vengono nuovamente condannati nell’arco,
ad esempio, di cinque anni. A questo punto ci si deve porre la domanda di come
finanziare il tempo che intercorre tra quando gli enti di beneficienza si prendono in
carico queste persone e il momento in cui si stabilisce ufficialmente che queste persone
non sono tornate a delinquere. È qui che entra in gioco il mercato dei capitali. Poiché è
stato sottoscritto un accordo tra l’ente di beneficienza e il Governo, il mercato finanzia
l’esecuzione di tale contratto. Questo è quello che noi definiamo un Social Impact Bond.
E questo è il futuro.
In effetti dobbiamo chiederci perché le cooperative sono fallite. Ci sono diversi motivi
per cui sono fallite, quantomeno nel mio Paese, e per cui non si sono diffuse in altri Paesi
anglosassoni, ma quello principale è che non hanno avuto accesso al capitale. Non
avevano accesso a una massa sufficiente di capitale, soprattutto se confrontate con le
istituzioni che voi avete intelligentemente contribuito a far crescere in Italia, che sono il
prodotto della vostra cultura, dell’etica, della moralità. Ebbene queste condizioni erano
assenti nel mio Paese e di conseguenza le cooperative non sono state in grado di
competere con il capitale del settore privato o la fornitura in massa di capitale. Pertanto
tutte le cooperative sono state de-mutualizzate e non si è fatto altro che prendere i
risparmi dalla Cina. Il risultato di tutto questo, l’esito della mancata creazione di
un’economia sussidiaria, è stato il profilarsi di una serie di bolle degli asset alimentate da
finanziamenti enormi. Questo finanziamento delle bolle degli asset è uno degli elementi
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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che hanno causato il crollo. Ecco perché questo fattore è diventato centrale nella
costruzione di un’economia politica davvero trasformativa. Possiamo rilocalizzare
l’economia? Possiamo creare quella che è sempre stata la promessa di un mercato
veramente libero, ovvero con più centri di innovazione e prosperità? Attraverso la Big
Society possiamo farlo, perché la Big Society è un tentativo di utilizzare l’associazionismo
come una nuova forma per mettere insieme le comunità, che sono definite dai
meccanismi di mercato come singoli consumatori e dai meccanismi statali come
destinatari passivi di sussidi assistenziali.
Se però le persone si associano, in primo luogo si riescono sicuramente a risparmiare
quantità enormi di denaro. Pensate a un’area svantaggiata dove tutti i residenti ricevono
sussidi statali. Se tutte le persone di quest’area potessero mettersi insieme e acquistare
l’elettricità, potrebbero negoziare termini favorevoli e ottenere enormi risparmi per
quell’area, per l’elettricità acquistata. E dato che i poveri in generale pagano l’elettricità a
un prezzo molto più elevato, perché c’è il rischio del mancato pagamento, in questo
modo risparmierebbero una quota considerevole del loro reddito. Questo però è solo
l’inizio. Creare gruppi apre poi intere nuove aree di economia politica. Non so come sia
la situazione in Italia, ma sicuramente in Gran Bretagna la povertà tende a concentrarsi
nelle città. La concentrazione della povertà spesso si accompagna al mancato accesso a
cibi freschi o a prodotti alimentari di buona qualità. Poiché il valore fondiario è
determinato dal valore sociale e, ad esempio, dai comportamenti messi in atto in
prossimità di quei negozi, un semplice cambiamento di quei comportamenti
genererebbe un aumento del valore fondiario. Se la comunità diventasse proprietaria
degli asset, considerando che quelle persone sono spesso legate a coloro il cui
comportamento negativo ha provocato un calo del valore di quegli asset, uno degli
effetti dell’associarsi sarebbe la possibilità per queste persone di acquistare quegli asset,
modificare i comportamenti in atto nella loro area, iniziare a gestire attività in proprio e
generare così un aumento notevole nel valore degli asset e dei terreni. Nell’ultima
relazione che abbiamo pubblicato, ovvero nel nostro Buy, Bid and Build Report, parliamo
di dieci nuovi poteri e sosteniamo l’idea di istituire poteri con i quali garantire il diritto di
acquisto comunitario, il diritto di proprietà comunitario, il diritto di presentare offerte
comunitarie, grazie ai quali le persone che si associano in gruppo possano acquistare
beni statali a condizioni agevolate. In questo modo la comunità potrebbe anche farsi
carico di una parte del budget statale e gestirlo autonomamente. Lo Stato non sarebbe
più un agente di burocrazia e di povertà permanente e diventerebbe invece un agente
di ricapitalizzazione. La ricapitalizzazione attuata dallo Stato con un potere di
associazione - cosa che può fare la Big Society - potrebbe dare origine a tutta una nuova
serie di istituzioni in grado di promuovere una vera sussidiarietà dal basso, che a sua
volta creerebbe un’economia dal basso.
Uno dei motivi per cui ci interessa tanto quello che è stato fatto in Lombardia è che ci
sono molte lezioni che vorremmo imparare in merito al tipo di istituzioni e di
infrastrutture che voi avete creato e che noi vorremmo abbinare alla Big Society in Gran
Bretagna. La cosa davvero entusiasmante è che non si tratta semplicemente di una
visione campanilistica, in quanto a mio parere questa è ormai l’unica visione valida per
una economia politica occidentale moderna. Se separiamo il consumo dalla produzione,
come ha fatto il neo-liberismo, creiamo una classe di povertà permanente che non
potremo mai supportare e finanziare. Solo questa soluzione crea le condizioni per la vera
sussidiarietà e prosperità. Grazie.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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MARCO SODANO
Presidente Formigoni, la mutualità, la cooperazione è una delle cifre
dell’amministrazione della Lombardia, della guida che Lei ha impresso. Per operare in
questa Big Society ci vuole una società dal cuore grande. In concreto come funziona?
Quali sono gli intoppi? Ci si può sostituire? Fino a che punto?
ROBERTO FORMIGONI
Presidente Regione Lombardia
Innanzitutto, nel salutarvi, devo dire che mi ha fatto molto piacere ascoltare ancora una
volta le parole di Phillip Blond che ci propongono, da oltre Manica, un’analisi e una
lettura della società e delle forze interne alla società moderna, alle nostre società
europee, che trovo straordinariamente interessante e che, come Blond stesso ha
sottolineato, presenta caratteri di analogia forte con quanto da qualche anno cerchiamo
di realizzare in Lombardia.
Permettetemi di introdurmi - non soltanto in omaggio all’ospite britannico - con una
citazione da un famoso discorso del premier inglese David Cameron dedicato ai temi
della sussidiarietà e della Big Society, se non sbaglio del luglio scorso. Cameron a un
certo punto dice: “a regola del Governo dovrebbe essere questa: se l’iniziativa che
prendiamo scatena l’iniziativa delle comunità, dovremmo assumerla. Se ammazza
l’iniziativa delle comunità, non dovremmo”.
Trovo che questo principio sia straordinariamente importante e necessario per i governi
di oggi, troppo impegnati nel pensarsi ancora come big government, grandi governi
impegnati a risolvere, normalmente senza riuscirci, tutti i problemi che affollano la vita
quotidiana dei loro cittadini. Questi governi rischiano di trascurare la forza straordinaria presente in alcune società, certamente in quella italiana e lombarda in particolare - di
realtà di diversissima natura, attivate da soggetti sociali tra i più diversi, capaci di creare
società, pezzi di società nuova, realtà nuove straordinariamente interessanti in campo
economico, culturale, educativo, associativo, assistenziale.
Ritengo che l’ottica dei governi, a ogni livello, nazionale, regionale e locale, dovrebbe
invece essere rivolta a individuare quali iniziative mettere in campo per scatenare, per
utilizzare al massimo, l’iniziativa che la società o i soggetti sociali sono in grado di
realizzare. Questa mi sembra una buona lettura del criterio di bene comune e anche una
bella dimostrazione di come l’idea di sussidiarietà, che fino a pochi anni fa suscitava
risolini ironici, abbia cominciato a far breccia negli uomini di governo. Sempre in
quell’intervento, Cameron spiega bene il tema della Big Society, contrapposto, o
comunque articolato dialetticamente con il tema del big government. Dice David
Cameron: “la Big Society riguarda un enorme cambiamento culturale, in cui le persone
nella loro vita quotidiana, a casa loro, nei loro quartieri e sul luogo di lavoro, smettono di
chiedere sempre a funzionari pubblici, autorità locali o governo centrale, di risolvere i
problemi, ma si sentono abbastanza liberi e forti da poter aiutare sé stessi e le loro
comunità”. E aggiunge: “parlo di gente che fonda nuove scuole, agenzie che aiutano a
prepararsi al mondo del lavoro, opere di beneficienza che aiutano a riabilitare i
condannati, parlo di una liberazione, la più importante e la più drastica distribuzione di
potere data dall’élite all’uomo e alla donna della strada”.
Ora, è chiaro che un uomo di governo non può utilizzare parole come queste per
deresponsabilizzarsi rispetto alla necessità di intervenire laddove questa libera iniziativa
dei cittadini e della società non riesca ad arrivare. E questa non mi pare affatto sia
l’intenzione dell’uomo politico che ho citato. Voglio sottolineare che evidentemente,
anche in un’impostazione sussidiaria dell’azione di governo, rimane l’obbligo
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
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fondamentale di intervenire, di sussidiare appunto, nei casi in cui l’iniziativa privata con
valenza sociale non riesce ad arrivare.
Però è importante questo cambiamento di prospettiva, di fronte anche alle evidenti
insufficienze delle forme attuali di Governo e di Stato. Bisogna cominciare, o progredire
realmente, a ragionare in termini di una politica sussidiaria, di uno Stato sussidiario, di
governi sussidiari, che capiscano finalmente che la forza vera, la forza costruttiva delle
nostre società è intrinseca nella vita e nel lavoro dei loro cittadini. Con questo,
evidentemente, indico una prospettiva che supera le tradizionali forme retoriche di
troppi discorsi politici di uomini di governo a ogni livello, che nei loro interventi sono
sempre molto attenti a fare riferimento alla piccola e media impresa, all’artigianato
produttivo, a celebrare queste forze come quelle destinate a costruire il benessere del
nostro Paese. Poi, però, nella loro azione pratica, dimenticano di mettere in moto quei
provvedimenti che possono veramente dare una mano a questi cittadini, a questi
artigiani, a questi piccoli e medi imprenditori, a questi giovani che con la loro forza di
volontà, con la loro intelligenza, con la loro operatività hanno veramente in mano le leve
anche per superare la crisi attuale e per permettere alle nostre società di uscire dalla
situazione di crisi che vivono.
Evidentemente, quando parliamo di sussidiarietà, di Big Society, non pensiamo - l’ho già
accennato prima - a un’impostazione politica che dica sempre e comunque no
all’intervento dello Stato, o che senta lo Stato come ostile o nemico. Al contrario, parlare
di sussidiarietà, di Big Society, significa, a mio modo di vedere, chiedere, impegnarsi per
cambiare la natura dell’azione dello Stato e la natura dei rapporti fra Stato e cittadini e
fra Stato e altre istituzioni.
Intendo la sussidiarietà come la possibilità di pensare a una nuova statualità, non più
giocata sulla contrapposizione tra Stato e individuo, ma giocata sul riconoscimento di
tutto ciò che, in un certo senso, sta in mezzo, quindi, appunto, i corpi sociali, le
cooperative, le iniziative dei cittadini, delle associazioni. E credo che si debba puntare a
un’impostazione che allarghi sempre di più questo spazio intermedio, o meglio che dia
la possibilità, agli attori che si trovano all’interno di questo spazio intermedio, di
crescere. Dobbiamo guardare e operare perché ci sia uno spostamento di potere, di
potere decisionale, di potere complessivo, dal pubblico verso le persone, le famiglie, le
tante forme associative, uno spostamento di potere dal centro alle periferie. Occorre
mettere in campo delle politiche che non vogliono sostituirsi alla libertà e responsabilità
dei cittadini, ma al contrario riconoscere e valorizzare quello che nella società esiste e
funziona.
Da questo punto di vista, quello che in Regione Lombardia abbiamo cercato di realizzare
in questi anni va in questa direzione. Non voglio dilungarmi su temi che credo siano
conosciuti da tutti, ma l’impostazione della nostra riforma sanitaria - e il suo successo in
Regione Lombardia - che ha ormai tredici anni e ha permesso al sistema regionale di
crescere fino a diventare il punto di riferimento indiscusso per l’intera Italia e l’oggetto di
studio anche nella pubblicistica internazionale, è esattamente questo: l’aver avuto
fiducia all’inizio, a metà degli anni Novanta, che ci fossero dei soggetti privati, profit e
non profit, in grado di svolgere un’azione a vantaggio del pubblico. Un’azione che, se
ben intercettata, integrata, sostenuta dal pubblico, dall’autorità regionale, poteva dar
luogo a forme di eccellenza straordinarie, poteva anche servire da stimolo, in una logica
concorrenziale, per una crescita qualitativa dell’azione dei soggetti pubblici operanti
all’interno della sanità, il tutto evidentemente con un ente di governo regionale che non
abdicasse alla sua funzione di stimolo e di controllo di qualità.
Il soggetto privato, profit o non profit, entra nel sistema pubblico se accetta le regole
stabilite da questo, se accetta il sistema dei prezzi, delle remunerazioni nella sanità, dei
Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi e se accetta di essere controllato affinché la
qualità sia garantita rispetto al cittadino. Cosa analoga è avvenuta, e sta avvenendo, in
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag.
99
Lombardia sul versante della scuola. Il buono scuola, che inventammo nel 1999, ha dato
poi luogo a quella forma più ampia e più completa che è oggi il “sistema delle doti”. La
dote scuola è un aiuto economico dato oggi, tenendo conto del reddito, a oltre il 40%
dei nostri studenti, che scelgono la scuola che più si confà alle loro esigenze e che
dimostrano di avere doti di merito, di talento e di impegno che permettono loro di
raggiungere alcuni risultati importanti. La sottolineatura del merito è, credo, un altro
tema fondamentale nella società di oggi e sul quale, come Regione Lombardia,
vogliamo continuare a camminare e ad agire.
È in questa direzione che io personalmente mi sono sempre sentito straordinariamente
amico e vicino al mondo della cooperazione, sottolineando sempre la giustezza della
vostra impostazione quando, per lunghi anni, avete continuato a ripetere che la
cooperazione è protagonista, in prima persona e a pari titolo, è soggetto economico e
protagonista economico, non un mondo residuale, un mondo terzo, nel senso del
valore. È certamente un comparto economico e produttivo, è produttivo di valore
economico, di valore sociale, a pari livello e a pari titolo con l’economia privata e con
l’economia che riceve un forte intervento da parte dello Stato. Oggi la natura e il valore
delle realtà cooperative in questa direzione mi sembra che abbia conquistato spazio
all’interno della società e si comincia a guardare alla realtà cooperativa, al movimento e
alle associazioni cooperative in quest’ottica, che riconosce il valore straordinario di
queste iniziative. Ripeto: soggetti economici a pieno titolo che accettano fino in fondo le
regole del mercato, che accettano la sfida della concorrenza e dimostrano sul campo di
non avere nulla da temere nel confrontarsi con altre realtà produttive.
Concludo con un’ultima osservazione. Abbiamo, come Paese, tra le mani una possibilità
che non dobbiamo sprecare: la possibilità del federalismo, che non è soltanto il
federalismo fiscale, ma che è, o meglio deve essere, una riforma profonda dello Stato e
dei rapporti tra Stato e cittadino. È una possibilità che ancora non si è pienamente
realizzata e quindi dobbiamo anche guardarci dai rischi di una involuzione di questa
possibilità. La riforma federalista può veramente essere l’inizio di una concezione, di una
strutturazione diversa dello Stato. Nella mia visione, il fine non è il federalismo, l’ho detto
infinite volte. Il fine è la sussidiarietà, è questa concezione di società: è rendere i nostri
cittadini veramente i protagonisti, è veramente trasferire quote di potere non da un
livello di amministrazione dello Stato centrale a un livello di amministrazione della cosa
pubblica periferica; non mi interessa in sé che le Regioni, i comuni, le province abbiano
più poteri. Al cittadino che cosa ne viene in tasca? Ecco, appunto, questa è la domanda
da farsi. Facciamo una riforma federalista che permetta di dare di più nelle mani del
cittadino: più poteri, più autonomia.
Mi sto ad esempio battendo per avere, come Regione Lombardia, più poteri decisionali
nel campo scolastico e nel campo universitario, ma non perché voglio costruire un
ministero della scuola e della pubblica istruzione lombardo. Al contrario, voglio avere
più poteri e responsabilità trasferite dallo Stato alla Regione per trasferirle poi a mia
volta alle scuole, perché voglio aumentare il grado di libertà e di autonomia delle nostre
scuole, del corpo insegnante, in unità con gli studenti e con le famiglie, in unità con il
tessuto economico circostante. Perché è di questo hanno bisogno i giovani per poter
competere con i loro coetanei tedeschi o cinesi: di una scuola che sia veramente in
grado di prendere delle decisioni, di diversificarsi, in unità, ripeto, con gli insegnanti, con
il corpo delle realtà produttive, etc. Credo, da questo punto di vista, che siamo, o
possiamo essere, alla vigilia di una riforma straordinariamente importante, ma che va
orientata in questa direzione. Grazie della vostra attenzione.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 100
MARCO SODANO
Grazie Presidente. Con Aldo Bonomi vorrei provare ad approfondire un aspetto. Questo
trasferimento di potere, questo spostamento delle competenze, delle responsabilità,
potrebbe dare l’impressione di essere fatto perché non ci arriviamo… Cioè, questo
sistema mutualistico che si sostituisce a un sistema di impostazione più vecchia - lo
Stato dà, lo Stato fa, lo Stato si preoccupa - significa che ci stiamo accontentando, che
dobbiamo accontentarci, oppure che abbiamo trovato un sistema migliore?
ALDO BONOMI
Direttore dell’Istituto di ricerca AAster
No, ma io me lo spiego con un ragionamento non solo sugli ultimi cinquant’anni. Parto
da tre parole chiave che stanno nella nostra memoria: libertà, uguaglianza, fraternità.
Credo che, per un lungo periodo, abbiamo puntato molto l’acceleratore sulla libertà e
sull’uguaglianza, ma, se posso dirlo, poco sulla fraternità. La libertà ha portato a una
società dell’individualismo compiuto, anche a logiche di individualismo proprietario, che
non hanno nulla a che fare con il discorso della cooperazione; l’uguaglianza la vediamo
discussa a Mirafiori, in competizione tra la Serbia, la Polonia, il Brasile e Detroit, e la
vediamo dentro una società che, quando aveva mezzi scarsi e fini certi, funzionava,
mentre adesso, nell’iper abbondanza e nell’opportunità, “uguaglianza” significa che
possiamo desiderare tutto ma molto spesso non riusciamo a prendere niente.
Della fraternità - che era poi questo discorso del mutualismo e della cooperazione - devo
dire che le dinamiche che vengono da quel mondo lì, le abbiamo un po’ “messe sotto il
tappeto”. Il problema era libertà, uguaglianza e “prendere lo Stato”. Questo era il grande
tema: “prendere lo Stato”, perché poi quando si arrivava lì, o in forma rivoluzionaria o in
forma socialdemocratica, si ridistribuivano le risorse per la libertà e per l’uguaglianza.
Io direi che la parola che mi piace di più non è tanto “sussidiarietà”, bensì “fraternità”,
partendo da un discorso antico, che, a mio parere, rimanda non solo agli ultimi
cinquant’anni, su cui sono d’accordo: la Thatcher, il secolo breve, il welfare… Ma io
andrei un po’ più indietro, nel passaggio tra Ottocento e Novecento, nel passaggio dal
Novecento al nuovo secolo. Ne abbiamo perso memoria, ma la cooperazione e il
mutualismo, per lo meno in Italia, nascono nel passaggio dal lavoro agricolo al lavoro
industriale; non è mica nato subito il sindacato, sono nate prima le leghe e le gilde. Il
sindacato viene, dopo, come forma organizzata.
Il secondo passaggio riguarda una cosa molto semplice, il cibo: prima c’era il
prosumerismo in agricoltura, si produceva e si mangiava quello che lasciava il padrone;
poi si è cominciato a fare le cooperative di consumo, che non erano gli Iper Coop, ma
una cosa un po’ più “sbracata”, che serviva a mangiare.
Terzo: il problema della scrittura. Quanti erano gli analfabeti? Le università popolari che
cosa erano? Ricordate le maestrine dalla penna rossa di De Amicis? Un piccolo dettaglio:
in quei tempi c’erano pure gli strozzini, perché si iniziava a contare il denaro. Fu allora
che si fecero le banche di credito cooperativo e le banche popolari, per diminuire lo
strozzinaggio.
Allora, vorrei far riflettere sul fatto che, nel passaggio del nuovo secolo, siamo tutti qui a
ragionare sil lavoro: precariato, flessibilità, lavoro autonomo di seconda generazione. Le
garanzie del lavoro normato a vita - dalla culla alla tomba, con la pensione - i giovani lo
sanno benissimo, non ci toccano. Il lavoro è completamente cambiato. Mangiare: cito
solo il fenomeno “mucca pazza”, per capirci. Ognuno vuole essere sicuro di quello che
mangia, e quindi si parla di chilometro zero e argomenti simili. Scrittura: il vero problema
nella società è il technology divide, tra chi naviga e chatta e chi no, rispetto al nuovo
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 101
mondo dell’informazione. Sulla finanza stendo un velo pietoso: avete discusso fino a
poc’anzi dell’importanza di ricominciare ad avere una finanza di prossimità, pur nella
globalizzazione, con tutto ciò che questo significa.
Allora, il problema vero è che qui siamo di fronte a un paradigma della modernità e non
a un ripescare - perché, ne abbiamo appena ragionato, siamo figli del Novecento - ciò
che sta dentro al paradigma: capitale da una parte, lavoro dall’altra, Stato in mezzo che,
a seconda di come andava, ridistribuiva un po’ di più al capitale, un po’ di più al lavoro. Il
paradigma con cui dobbiamo convivere nel nuovo secolo è il paradigma dei flussi che
impattano nei luoghi e nella dimensione del territorio, con tutto ciò che questo significa.
Per capirci, la finanza è un flusso, lo sono le imprese transnazionali, lo è Marchionne che
atterra a Torino, che non è più la one company town “fordista” che conoscevamo.
Marchionne arriva da Detroit e dice: “signori sono qua, sono un po’ cambiato, le regole
sono cambiate, proviamo…”. Le migrazioni sono un flusso da questo punto di vista, le
internet company sono un flusso e mi fermo qui. Flussi che cambiano i luoghi e dentro i
quali appare la categoria del territorio. Allora, mi pongo la domanda se la fraternità, il
mutualismo, la cooperazione abbiano un senso e un significato dentro a quello che
chiamiamo capitalismo nella globalizzazione. E poi pongo anche la richiesta che ha
posto Formigoni, cioè che la politica faccia tutto ciò che viene ripreso dalla comunità.
La mia valutazione è che la Lega delle Cooperative, che ha organizzato questa due giorni
di eventi, sia come l’Airbus. Cosa c’entra? È molto semplice: se vi ricordate, noi eravamo
tutti tristissimi quando fu presentato l’Airbus come campione europeo: l’aereo dei
francesi, grande campione, etc. Eppure, dicevo, noi alcuni campioni europei ce li
abbiamo. Perché non ne parliamo? Nella dimensione europea, il nostro capitalismo, in
quanto ha sviluppato un modello di cooperazione e di imprenditoria di questo tipo, è un
campione. Dentro che cosa? Dentro i più vari capitalismi. Il capitalismo anglosassone:
adesso sta cambiando, stando a quello di cui si discute, ma aveva preso il trip della
finanza. Londra significava fondamentalmente la Borsa, e dove sia andata a finire lo
abbiamo capito. Il capitalismo renano: grande impresa, grande sindacato, cogestione al
vertice, dico bene? Il capitalismo francese: intervento di Stato che permette l’Airbus. Il
capitalismo anseatico: quello della Svezia, quello che sta dalle Fiandre fino alla Finlandia.
Il nostro è un capitalismo di territorio, dentro il quale abbiamo il tessuto delle piccole
imprese, ma anche il tessuto cooperativo, che ha prodotto campioni nazionali. Alcuni li
avete citati voi prima, quando il presidente ha detto: “cito la cooperativa che fa la
globalizzazione sul problema dei lavori”.
Dal punto di vista del capitalismo, nelle sue fasi di cambiamento, siamo di fronte a un
campione nazionale su cui dobbiamo ragionare attentamente e quindi bisogna
smetterla di dire che le cooperative sono “figlie di un Dio minore”, che sopravvivono solo
perché hanno le tasse agevolate. Discutiamone: è un pezzo del nostro capitalismo, che
parte dal basso e dal territorio. Questa è la situazione.
Sono d’accordo sul fatto che, a questo punto, nella situazione attuale, la politica e le
istituzioni debbano fare tutto ciò che la comunità è in grado di portare avanti. Tuttavia scusate la franchezza - non è che la società, la comunità sia tutta buona. Parlo della
Lombardia: io divido l’agire della società in tre grandi comportamenti. Punto primo: c’è
una grande voglia di comunità, che si sostanzia nel rancore. Scusate, ma se la comunità
sono quelli che hanno detto che il problema sono le ronde e la sicurezza, questo è un
“male agire” della comunità che non mi piace, tanto per essere chiari. Perché questo
significa che, purtroppo, molto spesso la sussidiarietà in questa città significa un
comunitarismo becero di rinserramento contro l’altro da sé. E questo è un punto di cui
bisogna discutere, perché non è che basta fare la Big Society e tutto va bene. No,
all’interno della Big Society bisogna discutere a fondo dei problemi, bisogna affrontare
questa componente di comunitarismo rancoroso, rinserrante, che si perimetra contro
l’altro da sé. Poi c’è, per fortuna - e voi fate parte di questo mondo - una forte comunità
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 102
di cura; però anche sulla comunità di cura bisogna intendersi. La comunità di cura è
fatta, in primo luogo, dal meglio di ciò che abbiamo prodotto con il welfare, perché io
non butto affatto via i cinquant’anni di welfare e quindi, ad esempio, difendo gli
insegnanti, che hanno un ruolo fondamentale nel sistema educativo e che dicono a
Maroni che, come abbiamo conquistato le scuole miste di genere, dobbiamo
conquistare le scuole miste anche dal punto di vista dell’etnia, perché così si fa
educazione. Difendo i medici, difendo gli psichiatri che lavorano sulla frontiera del
disagio di questa società. E quindi dico: attenzione a ciò che teniamo del welfare e a ciò
che diventa “associazionismo, volontariato e impresa sociale”, su cui sono
assolutamente d’accordo, ma a condizione di trovare un equilibrio nel chiudere
un’epoca e aprirne un’altra. Dobbiamo stare attenti, siamo in una delicata fase di
transizione.
Quindi una forte comunità di cura. E per fortuna che c’è questa comunità di cura, perché
in questo Paese - lo dico con orgoglio - non abbiamo i vecchietti per le strade (quelli che
non hanno la badante), siamo riusciti a tenere rispetto a questo; ci occupiamo di tutta
una serie di aspetti che ancora tengono. La comunità di cura ancora tiene. Il problema
vero però è, se vogliamo fare Big Society, non solo interrogare la politica, ma interrogare
anche i soggetti dell’economia, cioè quella che io chiamo la comunità operosa. E su
questo credo che la cultura della cooperazione, del mutualismo italiano abbia un ruolo
fondamentale. Sono molto contento che abbiate cominciato a dialogare, perché non
capivo più la vostra posizione dentro all’evoluzione storica e al salto di paradigma,
mentre mi era chiara per il Novecento: le cooperative rosse e le cooperative bianche,
tanto per capirci. Ma siccome il Novecento l’abbiamo con difficoltà scavallato, iniziare il
dialogo è importante. E il vero problema è che la Big Society deve anche prevedere
un’alleanza operosa tra chi fa economia e chi produce coesione sociale e da questo
punto di vista mi pare che la vostra cultura sia fondamentale, perché avete la cultura del
mediare, perché avete strutture che stanno dentro la comunità di cura e strutture che
stanno dentro al capitalismo, siete un po’ “schizofrenici”, tanto per capirci, ma questa
vostra schizofrenia va bene e dovete esercitare la mediazione tra quelli che sono un po’
fuori di testa, che pensano di essere dei flussi come Marchionne, e quelli che stanno sul
territorio.
Il vostro ruolo è questo e la Big Society viene avanti con un “di più” di economia
mutualistica dal basso e un “di più” di comunità di cura che va costruita con i soggetti.
Grazie.
MARCO SODANO
Luca Bernareggi di Legacoop, abbiamo sentito dire che le cooperative sono un soggetto
economico come gli altri. Lei ha prima sorriso, poi insomma…
La domanda, la mia curiosità personale, a questo punto è questa: le cooperative sono
cresciute o no? O le cooperative c’erano già e qualcuno si è accorto di loro? Ho la
sensazione che siamo più in questa seconda situazione, perché abbiamo parlato di
campioni, di aziende grandi. Conosciamo tutti questo mondo, sappiamo tutti in che
modo è in grado di muoversi. Quindi, insomma, la cooperazione entra a pieno titolo nel
sistema economico, viene accostata a tutti gli altri attori, ma questo è perché è cambiata
oppure perché gli altri si sono accorti di questo mondo?
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 103
LUCA BERNAREGGI
Dico una cosa che per molti miei colleghi e colleghe è assolutamente scontata. La
cooperazione è cresciuta, e molto, e credo di poter affermare che è anche cresciuta nel
momento in cui ha scelto - perché questo è stato il presupposto - di essere impresa non
assistita, di misurarsi con il mercato, con le regole del mercato, con le procedure di gara,
con dei bilanci a posto. Questo le ha permesso di sviluppare un profilo autonomo dalla
politica fin da tempi molto più lontani di quelli a cui poco fa faceva riferimento Bonomi.
Perché le cosiddette simpatie politiche sono una cosa; gestire imprese che hanno
centinaia di migliaia di soci e centinaia di milioni di euro di fatturato è un’altra cosa. E
quando si tratta di gestire aziende complesse di questa natura, le simpatie politiche si
fermano, senza andare oltre a una certa soglia. Poi, attraverso anche giornate come
queste, una parte della società italiana si è accorta che questo è un mondo che può
essere utile in un progetto di rilancio, di rinnovamento, di crescita del Paese. Per molti
aspetti ci sono interi settori della società dove la cooperazione già oggi esercita un ruolo
fondamentale. Il welfare, di cui ha parlato prima abbondantemente Phillip Blond, è già
un settore dove, se provassimo a immaginare l’assenza del ruolo della cooperazione
sociale, ci sarebbero asili nido, case di cura per anziani, una serie di servizi alla persona
anche molto delicati che sarebbero totalmente abbandonati a regole brutali del mercato
o di uno Stato che non riesce più ad arrivare a svolgere quelle funzioni.
Permettetemi solo una battuta sulle comunità rancorose, cui faceva riferimento Bonomi.
Io non credo che le comunità rancorose siano qualcosa di strutturato nella società:
possono essere alimentate in un senso o possono essere alimentate anche dall’inerzia di
parti della società che pensano che alcuni problemi sono sempre problemi di qualcun
altro. Lo dico perché, come Bonomi, vivo in una città dove questi problemi sono
quotidianamente oggetto di discussione; secondo me, non è che ci siano persone,
amministratori, dirigenti e parti della società che agiscano intenzionalmente in quella
direzione. Certo, in alcuni casi agiscono in modo brutale su alcune situazioni, ma ci sono
situazioni che sono state dimenticate per decenni e i cittadini, se non vengono ascoltati
e aiutati a trovare delle soluzioni ragionevoli, prima o poi - si direbbe a Milano, ma credo
in qualunque parte d’Italia - si arrabbiano. Chiudo questa parentesi, perché sono
problemi che riguardano Milano, anche se i temi della sicurezza, dell’integrazione, di una
politica inclusiva vera fatta di diritti e di doveri riguardano anche l’Europa e le società più
evolute. È una discussione probabilmente da fare in altra sede.
In realtà non ho nulla da aggiungere a quello che hanno detto Phillip Blond e il
presidente Formigoni. Molti di noi conoscono già da molto tempo il presidente
Formigoni, hanno imparato a conoscerlo da quello che ha fatto nel corso del suo ormai
lungo mandato di governatore della Lombardia. Credo di poter esprimere un giudizio di
grande apprezzamento per quanto ha detto oggi. Ricordo a tutti - e qui ci sono
esperienze e colleghi che possono confermarlo - che spesso Regione Lombardia è più
avanti rispetto alle stesse istanze che vengono dalla società.
Ad esempio la scelta di predisporre delle linee di finanziamento e di sostegno allo
sviluppo di progetti in alcuni settori, a volte vede alcune di queste risorse rimanere non
spese, perché la società non è pronta a usare queste risorse. E alcuni colleghi sanno bene
a cosa mi riferisco. Mi sento di poter dire che questo è un approccio particolarmente
importante per quel che riguarda il mondo cooperativo, perché permette di esaltare il
ruolo della cooperazione e di tutti gli attori della società. Le parole di Phillip Blond ci
hanno aiutato e ci aiutano a ricordare anche una storia del nostro Paese che volte, in
qualche modo, non riusciamo a pieno a ricordare. Mi fa specie sentire che un candidato
primo ministro di centro-destra e uno dei suoi più importanti collaboratori scrivano: “in
primo luogo, servizi pubblici basati su una forma cooperativa, cioè di proprietà di tutti i
cittadini coinvolti” - cito un’intervista rilasciata da Blond a una testata italiana a metà
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 104
dicembre - “innovandoli e riducendo burocrazia e spese inutili. In questo modo il potere
è gestito dal basso e le persone comuni possono disporre dei fondi pubblici e spenderne
una parte. Ciascun gruppo può dire, in quanto organizzazione proveniente dal basso:
possiamo spendere i soldi dello Stato meglio dello Stato”.
Dovremmo riflettere un attimo su che cosa comporta per noi cooperatori misurarci con
un tema di questo tipo, a fronte di quello che spesso leggiamo, sentiamo, ascoltiamo e
su cui ci confrontiamo con la politica italiana, a prescindere dal colore politico di chi
scrive, pensa e dice queste cose. Basterebbe andare a rileggersi un articolo della
Costituzione della Repubblica Italiana, l’articolo 43, che viene ricordato in modo
assolutamente opportuno da uno studioso della cooperazione quale Mattia Granata, in
un libro sul rapporto tra sinistra e mercato in Italia, dove giustamente si riprende un
articolo della Costituzione che afferma: “a fini di utilità generale, la legge può riservare o
trasferire a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese
che si riferiscono a servizi pubblici essenziali”. Granata riprende questo articolo per poi
fare un esempio, che credo debba riguardare la cooperazione italiana, su un tema molto
delicato come quello dell’acqua, a fronte del fatto che sono state raccolte in Italia un
milione e mezzo di firme per sostenere un referendum a favore dell’acqua pubblica e
cioè per difendere una prerogativa dello Stato nella tutela di un servizio importante.
Tuttavia Granata introduce, attraverso questo articolo, un elemento secondo me
importante, che peraltro è stato ripreso dal Presidente della Regione Toscana, Enrico
Rossi (che purtroppo, invitato a essere presente con noi oggi, non ha potuto
partecipare). Rossi dice una cosa piuttosto importante: perché, in un settore centrale
come quello dell’acqua, non pensare all’esperienza delle cooperative di consumo per
immaginare che un’esperienza analoga possa essere trasferita nella gestione di un
servizio così delicato, così importante, posto che gli enti gestori che sono di proprietà
degli enti pubblici, che faranno sempre più fatica a trovare le risorse per garantire
ammodernamento delle reti, gestione corretta, livelli di tariffazione sostenibile per le
comunità? Perché non pensare a quel modello di impresa, che ha prodotto tanti successi
in questo Paese, su alcuni servizi così delicati? Dico questo, perché mi piacerebbe, per
esempio a proposito di beni pubblici e di beni comuni e di politiche pubbliche,
suggerire ai miei concittadini, che hanno firmato questo referendum, di organizzarsi in
cooperativa, di non aspettare che le Regioni approvino - come già sta succedendo - delle
leggi che aprono all’investimento privato la gestione di questi beni pubblici. Perché il
rischio è che se non ci organizziamo - e mi permetto di dire che la forma cooperativa è
da questo punto di vista la forma migliore per la gestione di questi beni comuni arriveranno i soliti nomi noti - contro i quali si è espresso anche, secondo me molto
opportunamente, Phillip Blond - cioè le economie fatte da oligarchie, che agiscono in
modo transnazionale, verranno a gestire l’acqua, che è un bene molto prezioso, da Nord
a Sud, e lasceranno, diciamo così, irrisolti alcuni temi.
Credo che ci sia bisogno, per tutta la cooperazione, di fare tesoro, su questi temi, anche
delle suggestioni che ci sono state sottoposte. Sono cose che diciamo, che
consideriamo, che valutiamo e che diamo spesso per scontato. Purtroppo molti attori, a
partire da quelli che dovrebbero occuparsi di questi argomenti e che fanno politica in
Italia, non sempre si ricordano che i problemi veri del Paese e delle comunità locali sono
questi e non quelli su cui ogni giorno siamo costretti a misurarci. Grazie.
MARCO SODANO
Bene, ringrazio tutti per la partecipazione.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 105
Settima Sessione
GIORGIO GEMELLI
Come avete visto dal programma, abbiamo deciso di concludere questa nostra giornata
dell’economia cooperativa con la lezione magistrale del prof. Michael Spence, Premio
Nobel per l’Economia del 2001.
Farò una ridotta introduzione dell’argomento, il professore terrà la sua lezione,
dopodiché consentiremo al noto e amico Giovanni Floris di fare una serie di domande al
prof. Spence per tenere conto del fatto che c’è stato in questi giorni un dibattito intenso
sulle questioni essenziali. Chiuderemo con un intervento del presidente Poletti, nel
quale fra l’altro saranno annunciati i nostri orientamenti per quanto riguarda il tema del
Congresso e come lo presenteremo.
In attesa di poter dare corso alla nostra ultima discussione, vorrei sottolineare come
abbiamo deciso di continuare le nostre riflessioni sulla crisi economica, sull’economia
cooperativa appunto, attraverso questa lezione del prof. Spence. Il tema che ci siamo
proposti di affrontare, come avete visto, riguarda le prospettive e le sfide per l’economia
dei Paesi avanzati ed emergenti, un tema quanto mai sentito e importante in
considerazione della situazione in cui versano oggi i Paesi industriali, avendo
sperimentato fra l’altro, negli ultimi anni, episodi di grave instabilità finanziaria. Questi
Paesi sono costretti attualmente ad affrontare problemi di espansione del debito
sovrano e un elevato livello di disoccupazione. Un quadro, quello che ho semplicemente
introdotto, che rimanda all’esigenza di una nuova governance e di migliori regole per lo
sviluppo dell’economia. Vorrei sottolineare che una volta emersa la crisi, è sorto con
forza il concetto che, per funzionare, un’economia di mercato ha bisogno di fiducia e di
cooperazione. Il crollo della fiducia fra le istituzioni finanziarie ha paralizzato i prestiti alle
imprese, ai consumatori, alle autorità pubbliche, acuendo quindi la conseguente
condizione di recessione. Naturalmente dobbiamo riconoscere che solo lo sforzo
massiccio dei Paesi del G8 ha evitato un completo collasso e un possibile
peggioramento della fase depressiva. Questo è un quadro che, appunto, riteniamo
debba essere approfondito, dando per acquisito quello che avrei voluto, in conclusione
di questo nostro seminario, rappresentare un po’ meglio, come il ruolo che la
cooperazione può svolgere e rispetto al quale mi limito semplicemente a fare questa
osservazione. Nel mondo ormai è cresciuto il numero delle cooperative, è cresciuto il
numero delle grandi imprese cooperative, raggiungendo una dimensione di grande
rilievo di oltre cento milioni di posti di lavoro, la presenza delle cooperative in Europa
con circa cinque milioni e mezzo di posti di lavoro e in Italia con un milione e due, un
milione e cento di posti di lavoro e oltre 800.000 soci. Il che dimostra che di fronte anche
a una situazione di crisi impegnativa e difficile come l’attuale, la risposta del mondo
cooperativo ha aiutato a rendere meno critica la situazione dei lavoratori, ha consentito
di proseguire nel non perdere posti di lavoro, garantendo a questa forma d’impresa, in
una fase difficilissima, un ruolo che altrimenti sarebbe probabilmente stato ritenuto
meno importante. Questo è il nostro punto di vista: riteniamo che, in un sistema
economico evoluto, sia necessario prevedere la presenza di diverse forme d’impresa.
Ma abbiamo anche necessità di avere un quadro di riferimento generale, per il quale
chiedo al prof. Spence di accomodarsi per poter tenere la sua lezione. Prego professore.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 106
MICHAEL SPENCE
Premio Nobel per l’Economia 2001
Lectio Magistralis
Prospettive di crescita e sfide per l’economia dei paesi avanzati ed emergenti
Buongiorno signore e signori. Mi chiamo Michael Spence e i miei colleghi mi definiscono
un ex economista. Sono molto lieto di essere qui con voi. Poiché non abbiamo molto
tempo a disposizione, farò un excursus piuttosto rapido sull’economia globale post-crisi
che a mio parere presenta, da un certo punto di vista, alcune caratteristiche abbastanza
ottimistiche ma anche gravi rischi di downside. Pertanto ho deciso di sottotitolare la mia
presentazione “Come arrabattarsi nel caos della gestione dei rischi di downside” (slide 1).
In primo luogo devo brevemente contestualizzare l’argomento. Ho scritto un libro la cui
tesi, in poche parole, è che il mondo in cui viviamo attualmente tutti noi ha iniziato a
decollare e a crescere intorno al 1750 (slide 2). A quel tempo rappresentavamo il 15%
della popolazione mondiale. Il restante 85% della popolazione è rimasto esattamente
nelle medesime condizioni per altri duecento anni, fino alla fine della Seconda Guerra
Mondiale, quando gli imperi coloniali si sono disintegrati e ha iniziato a profilarsi
un’asimmetria intrinseca. All’inizio del secolo ci siamo trovati in una situazione, sebbene
allora non fossimo in grado di vederla, in cui un’ampia percentuale della popolazione
mondiale viveva in Paesi in via di recupero e in rapidissima crescita mentre l’economia
globale si stava trasformando. Il messaggio principale che vorrei lasciarvi oggi è che
tutto questo offre grandi opportunità e sfide in tutto il mondo, in tutti i nostri Paesi. Ed è
fondamentale, sia per il mondo del business sia per la politica, tentare di capire, anche se
si tratta di un ambiente complesso, quali sono queste tendenze e quali forze le
governano.
A questo punto vorrei parlare della crisi. La crisi ha colpito l’America e l’Europa in modo
molto violento. La risposta alla crisi è stata spettacolare, ottima, e siamo riusciti a evitare
un disastro, uno scenario di depressione. Tuttavia, ci sono stati degli effetti collaterali,
dei postumi che persistono tuttora. L’America sta vivendo un processo difficile di
deleveraging e di ristrutturazione dei bilanci, soprattutto in relazione alle famiglie e
l’Europa che, tutto sommato, era in condizioni migliori rispetto agli Stati Uniti per
quanto attiene ai bilanci e ai danni subiti, ha scoperto che diversi Paesi avevano un altro
problema, ovvero quello del debito sovrano, cosa che attualmente sta destabilizzando
l’Euro. Per entrambi questi ordini di motivi, non siamo ancora usciti dalla crisi. Temo che
questo sarà un anno difficile per l’Europa, a fronte dell’effetto “contagio” che persisterà
finché il problema della condivisione del carico non verrà risolto.
In America ci sono opinioni divergenti in merito alla crescita. I Paesi in via di sviluppo
hanno reagito molto bene alla crisi e ora il loro tasso di crescita è risalito a una velocità
straordinaria. Nessuno se lo sarebbe aspettato. Quindi le principali economie emergenti
in tutto il mondo sono il fulcro della crescita globale e sono tornate ai livelli di crescita
precedenti la crisi o superiori. I Paesi che sono tornati a crescere, in ordine di velocità e di
efficacia, sono Cina, India e Brasile, in questo preciso ordine. In questa (slide 3)
diapositiva ho elencato una serie di ragioni che spiegano il fenomeno. Queste economie
stanno iniziando in parte a disaccoppiarsi da noi. Solo venticinque/trent’anni fa, il
principale mercato per la maggior parte di queste economie eravamo noi, ovvero
l’Europa e il Nord America. Ora invece tra i loro principali mercati ci sono sempre più gli
stessi Paesi emergenti e pertanto mostrano una certa resilienza e una capacità di
sostenere la crescita che non avevano in passato.
Questa diapositiva (slide 4) presenta semplicemente un’immagine del pattern di crescita
nei Paesi avanzati e nei Paesi in via di sviluppo. Potete notare che, a partire all’incirca
dagli anni Novanta - quando la Cina cresceva rapidamente, l’India aveva un ritmo di
sviluppo in accelerazione, mentre il Brasile stava tornando a crescere - questi Paesi
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 107
hanno iniziato a comportarsi in modo profondamente diverso, con tassi di crescita
molto più elevati. Si è verificato anche un altro fenomeno davvero sorprendente, ovvero
le economie avanzate si sono pesantemente indebitate, soprattutto nel settore
pubblico, mentre le economie emergenti, che in passato presentavano situazioni fiscali
instabili, si sono posizionate nella parte bassa dello spettro del debito e dunque
dispongono di più armi per affrontare gli shock rispetto a noi (slide 5). Questi Paesi
hanno sicuramente pagato un prezzo per arrivare a questi livelli, ma ora sono posizionati
in modo piuttosto soddisfacente per poter sostenere la propria crescita. La domanda
che si pongono tutti coloro che si interessano a questo argomento, incluse le aziende
per le quali questi Paesi costituiscono importanti mercati, è: “saranno in grado di
sostenere la crescita (visto che noi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, viviamo un
difficile processo di ripresa dalla crisi e non sappiamo quanto ancora durerà)?”
La risposta più probabile a questa domanda è “sì” e per noi è importante comprenderne
i motivi perché ci toccheranno sempre più. Questi Paesi sono grandi in termini di
dimensioni aggregate e tra circa dieci anni supereranno il 50% dell’economia globale in
termini di PIL. In secondo luogo, sono più ricchi, ovvero il loro reddito sta aumentando e,
considerando il lato dell’offerta della loro economia, stanno salendo nella catena del
valore aggiunto. Stanno facendo sempre più cose nella catena dell’offerta globale che
sono più simili a quello che facciamo noi. Se torniamo indietro di venticinque o
trent’anni, questi Paesi avevano economie ad elevato impiego di manodopera e
svolgevano attività a basso grado di specializzazione, ma ora questo modello sta
cambiando. Questo, unito alla scala e al fatto che commerciano tra loro, li rende più
resilienti e impattanti quanto agli effetti che esercitano in diversi ambiti della nostra
economia, sia in senso positivo, in termini di opportunità di mercato, sia in senso
negativo, ad esempio per la concorrenza che operano in aree quali il mercato del lavoro.
I rischi di downside impliciti in questo scenario di riferimento, a mio parere, sono
abbastanza semplici da comprendere e sono elencati in questa diapositiva (slide 6). Un
crollo imponente, a differenza di una crescita lenta, in Nord America o in Europa, o in
entrambe, rallenterebbe le principali economie emergenti, per le quali noi
rappresentiamo ancora dei mercati importanti. In secondo luogo, un’incapacità globale
su scala relativamente ampia nell’affrontare gli squilibri che facevano parte dell’assetto
pre-crisi (gli ingenti deficit in America, i grandi surplus in Cina e in altri Paesi asiatici),
dunque un mancato coordinamento su quel fronte, avrebbe conseguenze pesanti.
Inoltre, se prendesse piede una marcata tendenza al protezionismo, probabilmente i
danni che ne deriverebbero sarebbero sufficienti a rallentarli.
Un’altra cosa che non è molto nota è che la politica post-crisi, la politica economica negli
Stati Uniti, ha previsto un abbassamento dei tassi di interesse e sgravi quantitativi.
Questo ha fatto infuriare i mercati emergenti. C’è una marea di capitali in uscita dai Paesi
avanzati, dove i tassi di interesse sono bassi, diretta verso i mercati emergenti dove i
tassi di interesse sono superiori e questo causa tutta una serie di problemi (inflazione,
bolle degli asset, aumento dei prezzi delle merci che si ripercuote poi sull’inflazione,
etc.). E loro stanno adottando politiche difensive non convenzionali, tra cui accumulo di
riserve (ovvero acquistano valute di altri Paesi per tenere basso il loro tasso di cambio),
controlli sui capitali e tutta una serie di cose di cui noi ci lamentiamo, ma che questi
Paesi devono fare a fronte delle distorsioni causate dalle politiche post-crisi messe in
atto qui.
Infine, la Cina è diventata la seconda economia mondiale per dimensioni, se si esclude la
UE come entità unitaria. Se la si include, diventa la terza economia mondiale, in quanto
ha appena superato il Giappone. Se la sua crescita, che si attesta intorno al 9-10%,
dovesse vacillare, ne conseguirebbe un rallentamento in tutte le economie emergenti e
probabilmente anche nell’intera economia globale.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 108
La struttura in evoluzione dell’economia globale (slide 7): brevemente, si tratta di questa
serie di punti che ho elencato in diapositiva. Non credo che ci siano concetti che valga la
pena sottolineare nello specifico, a parte il fatto che il modo in cui governiamo
l’economia globale, dove sono l’Europa, gli Stati Uniti, con l’aggiunta del Giappone, che
decidono tutto, in modo generoso, ovvero in modo inclusivo, non funzionerà più. Ci
sono troppi altri attori importanti da tenere in considerazione. Abbiamo il G20, ma finora
nulla garantisce che il G20 riuscirà veramente a concludere qualcosa. Non voglio
sembrare pessimista, come forse vi ho dato l’impressione di essere, però si tratta di
un’organizzazione giovane e al suo interno ci sono numerosissime diversità in termini di
grado di sviluppo, etc. Il problema è davvero difficile da risolvere.
Qui vediamo una rappresentazione delle aree di crescita nell’economia globale (slide 8).
Credo che il quadro non necessiti di spiegazioni. La crescita dell’economia globale
proviene sempre più dalla Cina da un lato e, dall’altro lato, proviene dal resto del mondo
in via di sviluppo o dalle economie emergenti.
La Cina sta attraversando una serie di transizioni complicate che, a mio parere, la
maggior parte delle persone nel mondo occidentale non comprende a fondo, anche se
in ciò non vi è nulla di male (slide 9). Tuttavia, la capacità o incapacità di quel Paese di
superare tali transizioni avrà implicazioni enormi. La Cina sta entrando in quella che si
chiama “transizione verso un livello di reddito medio”. È il punto nel quale la vita delle
economie a elevata e rapida crescita arriva a un momento in cui i fattori che hanno
trainato la crescita in passato, ovvero le attività ad alto impiego di manodopera, devono
essere accantonati perché non sono più competitivi. Non esistono economie con un
reddito pro-capite di quindicimila dollari che provvedono alla produzione a elevato
impiego di manodopera, pertanto questa si sposta altrove. I cinesi devono quindi
abbandonare tutto ciò. Stanno anche attraversando una transizione molto complicata
nella struttura della domanda, come vi ho appena descritto brevemente. Qui vediamo
elencati i Paesi in transizione verso un livello di reddito medio (slide 10). Il concetto che
desidero sottolineare è che la maggior parte di questi Paesi è in fase di rallentamento.
Quindi la partita non si conclude quando si raggiunge il punto di transizione verso un
livello di reddito medio. Non è detto che con un reddito pro-capite di cinquemila dollari
il Paese continui a crescere. Infatti, la stragrande maggioranza di questi Paesi non cresce.
In effetti, finora ci sono stati solo cinque casi, soprattutto in Asia, in cui l’economia ha
sostenuto una crescita elevata durante la transizione verso un livello di reddito medio e
qui vedete elencati i nomi di tali Paesi (slide 11). Penso che siano tutti Paesi asiatici.
La struttura economica cinese sta cambiando molto velocemente (slide 12). Se torniamo
indietro nel tempo, al 1992, la Cina svolgeva prevalentemente attività a elevato impiego
di manodopera, quali la produzione di abbigliamento, scarpe, giocattoli e cose simili.
Possiamo vedere che è in corso questo processo di crescita lungo la catena del valore
aggiunto, nel quale si diversifica l’economia, si aggiunge l’elettronica e via dicendo.
Questi dati sono un po’ vecchi ma il processo si sta svolgendo in modo incredibilmente
rapido.
Una delle cose che ci interessano particolarmente è l’eccesso di risparmio in Cina.
Questa immagine (slide 13) mostra il saldo attivo della bilancia commerciale cinese.
Come probabilmente già sapete, fino al 2005 il saldo commerciale attivo cinese era
modesto ma poi è salito alle stelle. Il motivo di questo aumento è che quella cinese è
un’economia a elevato tenore di investimenti (slide 14). È difficile trovare nel mondo
un’economia che investa il 45% del suo PIL. È quasi la metà del PIL, che l’economia non
consuma ma reinveste, in gran parte nel settore pubblico. Questo è uno dei motivi per
cui sono tanto competitivi. La ragione per cui il surplus commerciale è aumentato tanto
è che i risparmi sono cresciuti superando il livello, già elevato, degli investimenti. La
domanda a questo punto è: perché è successo tutto ciò? Uno dei problemi che hanno i
cinesi è che le famiglie, ovvero tutti noi, hanno subito un calo del reddito in termini di
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 109
percentuale sul totale. Ci sono specifici motivi alla base di questo fenomeno e sarò lieto
di rispondere a eventuali domande in merito, ma questo è un trend che dovrà
necessariamente capovolgersi. La Cina non può continuare a crescere affidandosi
unicamente alle esportazioni. Dovrà invece alimentare la crescita dell’economia con i
consumi interni. Non si tratta solo della crescita, bensì anche della struttura. Questa
economia deve rispondere a quello che i cinesi vogliono consumare e non solo
soddisfare le richieste degli americani o degli altri Paesi verso cui esporta. Questo
schema deve essere capovolto. Tuttavia, la cosa più importante è che questa è diventata
una specie di macchina per il risparmio e per l’investimento (slide 15).
Questo grafico (slide 16), se lo osserverete da vicino una volta che avrò terminato la mia
presentazione, vi dirà molte cose. A partire all’incirca dal 2004, questa economia a
elevatissimo grado di investimento ha iniziato a investire di più e,
contemporaneamente, a risparmiare ancora di più. In azzurro sono rappresentati i
risparmi e gli investimenti statali, pari a circa il 12% del PIL, quindi un valore molto alto.
La parte tratteggiata rappresenta i risparmi aziendali, che non costituiscono la totalità
degli investimenti aziendali, ma una buona fetta ed è questa quota che è aumentata. Poi
ci sono i risparmi delle famiglie, pari a circa il 18% del PIL o al 30% del loro reddito
disponibile. Quindi quello che succede qui è che il Governo finanzia totalmente il suo
investimento, ovvero non entra in deficit neppure dopo aver investito, e poi il settore
delle aziende private investe pesantemente, in parte in modo efficiente e in parte no,
coprendo gran parte degli altri redditi non distribuiti. Quindi, hanno bisogno di circa
l’8% del PIL delle famiglie per coprire la differenza, ovvero per arrivare al totale degli
investimenti nell’economia. Come ho detto, le famiglie risparmiano il 18% e non l’8%.
Ora, cosa succede al rimanente 10%? È un surplus commerciale e viene investito in titoli
di stato statunitensi e poi finisce nelle riserve per i cinesi. Quindi, per eliminare questo
surplus e far salire i consumi, i cinesi devono sradicare questo schema (slide 17). Quello
che dovranno necessariamente fare è dare il denaro alle famiglie e se le aziende lo
rivorranno indietro dovranno chiederlo e prenderlo a prestito invece di investirlo
automaticamente. In questa diapositiva vediamo da dove proviene la crescita della
domanda in Cina. Potete notare quanto siano stati importanti gli investimenti e quale
ruolo abbiano giocato nel permettere al Paese di superare la crisi.
Ora cambierò argomento, per parlare dei problemi in atto nell’Unione Europea e negli
Stati Uniti rispetto alla Cina (slide 18). Vorremmo che i cinesi si liberassero dei risparmi in
eccesso, del surplus delle partite correnti, del saldo commerciale attivo, perché questo
ha trainato la domanda globale e ci ha aiutato, ma aiuterebbe anche loro. I nostri
interessi in questo ambito sono allineati ai loro e penso che succederà proprio così.
Nei confronti della Cina abbiamo anche problemi di proprietà intellettuale. Sono
problemi importanti, che rimangono irrisolti e potrebbero avere forti ripercussioni.
Infine c’è una tendenza, che purtroppo si sta amplificando, e consiste nel bloccare le
multinazionali e impedir loro di accedere a determinate aree del mercato cinese, al fine
di favorire le aziende nazionali cinesi. Anche questo fenomeno potrebbe portare a
un’escalation di protezionismo. L’ultima cosa - anzi, due cose - di cui ci lamentiamo nei
confronti della Cina è l’accumulo di riserve, ma penso che su questo non possano fare
nulla, perché sinceramente c’è un’enorme quantità di denaro che arriva nel Paese, loro
non riescono ad assorbirla e allora la rimandano a casa. Quindi, sostanzialmente, stanno
dando in outsourcing a noi una parte del loro processo di allocazione di capitali. Inoltre ci
si lamenta del loro tasso di cambio. Penso che sia eccessivo, una sorta di falsa traccia.
In questa diapositiva (slide 19) sono riportate le riserve cinesi detenute dalla banca
centrale, che ammontano a circa 2,7 trilioni di dollari, in diverse valute ma per la maggior
parte dollari ed euro. Si tratta di una quantità di denaro esorbitante ed è anche un
problema dal punto di vista dell’asset management, ma ritengo che possa essere utile
qui in Europa.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 110
Ora parlerò brevemente dell’Europa e farò qualche cenno ai problemi strutturali
individuati in America, alcuni dei quali, a mio avviso, sono presenti anche qui (slide 20).
Nell’evoluzione che è sfociata poi nella crisi, in realtà erano in atto due processi
insostenibili, ma noi ne abbiamo visto solo uno quando la crisi è scoppiata, ovvero
l’eccesso di consumo basato su una bolla degli asset alimentata dal debito negli Stati
Uniti e da tutti gli altri elementi correlati (comportamento irresponsabile da parte degli
enti normativi, comportamento irresponsabile nel concedere prestiti e molti altri
fenomeni che devono essere risolti). Al contempo, nell’Unione Europea, il debito
sovrano di diversi Paesi saliva a livelli insostenibili, cosa che attualmente è all’origine
dell’instabilità dell’Euro, problema indubbiamente noto a tutti voi. Entrambi questi trend
sono andati avanti senza mai diventare chiaramente visibili, dato il clima con tassi di
interesse molto bassi che è prevalso nell’economia globale per tutto il periodo che è
intercorso tra il 2000 e il 2008, quando è scoppiata la crisi. Entrambe queste
problematiche devono essere risolte ma sono molte le incognite che tuttora le
circondano. La risposta che gli Stati Uniti hanno dato all’eccesso di leva e di debito nel
settore privato è stata quella di lasciare che il settore privato attuasse un deleveraging
ma, per ammortizzare il colpo sull’economia in termini di calo dei consumi, è stata
aumentata la leva nel settore pubblico. Siamo arrivati a un punto in cui sui mercati di
capitali, e in generale nell’economia globale, nessuno più dubita che questi livelli di
debito e di deficit siano troppo elevati. La maggior parte ritiene, e io sono d’accordo, che
siamo arrivati a un punto in cui sia in Europa sia in America sono necessari piani credibili
per ripristinare un equilibrio fiscale e stabilizzare l’economia globale. Questo processo
sarà difficile ovunque, ma ancora di più lo sarà in Europa, a fronte degli elementi residui
di decentralizzazione presenti nell’Unione Europea. Finora questi problemi di accesso ai
mercati di capitali e di costo del capitale, nei Paesi che sembrano essere caduti nel
baratro dell’indebitamento, sono stati affrontati con quelli che a volte vengono definiti
“aggiustamenti di liquidità” a differenza degli “aggiustamenti di solvibilità”. Di fatto,
questi Paesi non sono stati oggetto di salvataggio finanziario. Il Primo Ministro greco ha
detto chiaramente a Parigi qualche giorno fa: “non c’è stato un salvataggio finanziario.
Finora abbiamo ricevuto fondi per tamponare il nostro debito, ma rimane irrisolto il
problema di come uscire da tutta questa situazione”. Questo vale anche per l’Irlanda e
altri Paesi; probabilmente il Portogallo sarà il prossimo. Questo problema non si risolverà
finché l’Europa, lavorando insieme al FMI oppure no, non prenderà una decisione sulla
questione della condivisione del carico. Ciò significa che, se non si vuole operare una
ristrutturazione del debito perché avrebbe un effetto negativo sull’Euro, allora è
necessario effettuare un salvataggio finanziario di questi Paesi, a meno che non si
ritenga che possano salvarsi da soli, ma nessuno pensa che ciò sia possibile, sicuramente
nel caso della Grecia e probabilmente anche nel caso del Portogallo. Gli Irlandesi, loro
malgrado, hanno dedotto che nemmeno loro erano in grado di uscirne
autonomamente. Condividere il carico significa chiedersi chi pagherà il prezzo. Saranno i
cittadini dei Paesi che sono colpiti dal problema? Saranno i detentori dei titoli e gli
investitori? Si dovrà intervenire in qualche modo tramite la Banca Centrale Europea?
Sarà il resto dell’Europa dove, a mio parere, la Germania avrebbe un ruolo prominente?
Oppure sarà il resto del mondo tramite i finanziamenti del FMI? Nessuna di queste
questioni ha trovato risposta e temo che il problema non scomparirà finché non
verranno risolte queste questioni.
Cosa ha questo a che vedere con le riserve cinesi? La Cina ha un interesse enorme
nell’evitare o fare il possibile per prevenire l’instabilità dell’Euro, la sua volatilità e la sua
svalutazione (slide 21). Perché? Perché la Cina continuerà a gestire la propria valuta in
modo piuttosto cauto rispetto al Dollaro ancora per un po’ di tempo e se l’Euro crollasse
la Cina verrebbe gravemente colpita a livello di competitività. Pertanto, i cinesi
impiegheranno una parte di quei 2,7 trilioni di dollari di riserve alle spalle della BCE e
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 111
dell’Unione Europea per aiutare questi Paesi a stabilizzarsi e, se ci sarà un salvataggio
finanziario, non mi sorprenderebbe se i cinesi prendessero parte a questo processo, non
per motivi di amore fraterno e generosità, ma perché ne trarrebbero vantaggio. Io
prevedo che l’Unione Europea dovrà attraversare una serie di crisi per poi arrivare a
trovare una risposta. Quindi non penso che si assisterà a un’instabilità colossale in questi
mercati, ma non sarà un bel processo perché questo problema della condivisione del
carico è davvero complesso dal punto di vista politico.
C’è una bella proposta, che consiste nel fornire finanziamenti a basso costo e a lungo
termine a molti di questi Paesi. Se il costo sarà abbastanza basso e i finanziamenti
sufficientemente a lungo termine, si tratterebbe in sostanza di un salvataggio finanziario
sotto mentite spoglie, ma i tedeschi hanno recentemente reagito in modo negativo alla
proposta. Questa è una delle idee implicite contenute nella proposta di Tremonti. In un
orizzonte temporale a più lungo termine penso che l’Europa abbia chiaramente bisogno
di una qualche forma di centralizzazione fiscale. Ha bisogno di flessibilità per gestire gli
shock e attuare politiche anti-cicliche, ma di certo ha bisogno di disciplina. Tutti ormai
sono d’accordo su questo punto: non si può avere una moneta unica senza condividere
le difficoltà, almeno in una determinata misura. Se continuiamo così, tra non molto i
titoli di stato tedeschi diventeranno, di fatto, la valuta delle riserve dell’Unione Europea e
questa non è una situazione auspicabile perché i titoli di tutti gli altri Paesi
diventerebbero più costosi e ciò avrebbe effetti negativi sulle opportunità fiscali e
sull’equilibrio in diversi altri Paesi.
Il debito dei Paesi avanzati è cresciuto e l’FMI ha condotto uno studio molto interessante
sui motivi di questo fenomeno (slide 22). La gente pensa che questo sia stato uno
stimolo fiscale irresponsabile ma in larga misura non è stato così e in gran parte è
successo in automatico. Quindi vediamo stabilizzatori automatici al 10%, perdite di ricavi
dovute al calo dei prezzi degli asset e fallimenti nel settore finanziario. Le cifre riportate
sono espresse in milioni di dollari. Questo non è stato un pacchetto di stimoli fiscali
irresponsabili, è stato un enorme shock. Vi faccio un esempio concreto. La gente critica
la Spagna perché improvvisamente presenta un deficit enorme. La Spagna era in attivo
prima della crisi e, come tutti noi, non aveva idea che ci fosse un problema sottostante.
Ovviamente il problema non era visibile, a causa della bolla degli asset, e quando la bolla
è esplosa, i ricavi sono crollati e improvvisamente gli spagnoli si sono ritrovati con un
enorme deficit strutturale. Il punto che sto cercando di evidenziare è che non si tratta di
un compito semplice. Per essere responsabili è necessario avere una comprensione
profonda di quello che succede nell’economia e sapere se l’intera economia, e non solo
la struttura fiscale, è in disequilibrio.
Concluderò parlando brevemente dell’economia americana (slide 23). Ritengo che ci sia
un problema di occupazione di lungo periodo. Ne parlerò perché è un aspetto che ho
studiato recentemente e su cui ho i dati aggiornati. Penso di essere riuscito a convincere
il McKinsey Global Institute a collaborare per compiere questa analisi su tutti i principali
Paesi del mondo, ma ancora non ho i dati sugli altri Paesi.
Quello che mi interessa capire è l’impatto dell’economia globale sulla struttura della
nostra economia e le opportunità di lavoro. Dunque, io e il mio collaboratore per questa
ricerca abbiamo suddiviso l’economia settore per settore in un comparto “tradeable”
(commerciabile), ovvero un comparto dove si possono produrre beni o servizi in un
Paese e consumarli in un altro Paese, e un comparto “non tradeable” (non
commerciabile) dove tutto deve essere fatto a livello nazionale (slide 26). Vediamo
qualche esempio. Il settore manifatturiero si compone per lo più di filiere che per la
maggior parte rientrano nella categoria dei tradeable, mentre il settore pubblico, la
sanità, l’edilizia, hotel e ristoranti, la vendita al dettaglio sono non tradeable, in quanto
queste attività devono essere esercitate dove la gente consuma i rispettivi beni o servizi.
Credo che ciò che sto per dire vi scioccherà: gli Stati Uniti, negli ultimi vent’anni, hanno
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 112
gradualmente creato ventisette milioni di posti di lavoro. Tutti, eccetto 600.000,
rientravano nel settore non tradeable (slide 27). Pensateci. Questo significa che abbiamo
gradualmente creato tutti i nuovi posti di lavoro di cui avevamo bisogno per mantenere
il tasso di disoccupazione a un livello ragionevole nei settori in cui non dobbiamo
competere. Mentre il settore dove dobbiamo competere e nel quale l’economia globale
esercita i propri effetti su tutti noi non ha praticamente registrato alcuna crescita. In
questa diapositiva (slide 28) vediamo rappresentata la stessa idea. Viene riportato il
totale dei posti di lavoro nell’economia statunitense e potete vedere che il settore
tradeable ha iniziato a crescere e poi è nuovamente calato intorno al 2000, quando gli
impatti dell’economia globale si sono acuiti. Qui vediamo rappresentato il settore non
tradeable (slide 29). Vi mostro questi dati solamente per evidenziare dove ha avuto
origine l’aumento dei posti di lavoro. Il più grande datore di lavoro è lo Stato, seguito dal
settore sanitario. In termini di contributo incrementale, lo Stato ha generato quattro
milioni di posti di lavoro mentre il settore sanitario (so che l’America è un caso
relativamente unico, con certe idiosincrasie) ha generato sei milioni di posti di lavoro.
Complessivamente, questi due settori hanno creato dieci milioni di posti di lavoro su
ventisette milioni, il che rappresenta quasi il 40% dei nuovi posti di lavoro che rientrano
in due settori, uno dei quali è chiaramente non market mentre l’altro è quasi-market. In
entrambi i settori sussistono forti dubbi in merito alla capacità di assorbire ulteriore forza
lavoro. I successivi settori nella graduatoria sono quelli che ho citato prima: vendite al
dettaglio (in crescita), hotel e ristorazione (in crescita, ma con un appiattimento del trend
nel periodo della crisi) e l’edilizia (in crescita ragionevole ma con battute d’arresto
dovute alla crisi del mercato immobiliare).
Qual è la situazione del settore tradeable (slide 30)? È qui che si trova per lo più il settore
manifatturiero, come pure tutta una serie di servizi importanti. Qui notiamo due
fenomeni: alcuni settori stanno crescendo, mentre altri calano. Il settore manifatturiero si
divide in tre categorie. La manifattura III comprende il settore automobilistico,
aerospaziale, etc. ma non ho tempo per definirli nel dettaglio. Tuttavia, guardando
questi dati noterete che il settore manifatturiero sta decisamente calando, mentre alcuni
tra i principali settori dei servizi stanno crescendo, soprattutto quelli che operano nella
gestione delle multinazionali: finanza (fino a quando non è scoppiata la crisi),
informatica, ingegneria. Questa è una panoramica di tutto il settore manifatturiero III in
relazione alla creazione e alla distruzione di posti di lavoro (slide 31). Possiamo notare
forti cali nell’elettronica e nel comparto aerospaziale. Potreste dedicare ore ad analizzare
questi dati, ma di certo non avete tempo di farlo questa mattina.
Se esaminiamo il valore aggiunto, il quadro cambia (slide 32). Il valore aggiunto è dato
dalle vendite delle aziende, delle industrie o altro, dedotti gli input acquistati. Dunque, il
valore aggiunto è ciò che la manodopera e il capitale aggiungono agli input acquistati
per creare valore con l’output finale. Il valore aggiunto del settore tradeable è
sostanzialmente cresciuto in modo un po’ più rapido rispetto al valore aggiunto del
settore non tradeable (slide 33).
In questo grafico (slide 34) è rappresentata la variazione nel tempo. Esaminiamo il valore
aggiunto per persona impiegata, che è molto simile al reddito; non è esattamente lo
stesso perché le industrie fanno cose diverse in termini di intensità di capitale, ma
quantomeno nei settori che presentano un contenuto di capitale umano elevato, quali i
servizi etc., i due fattori sono strettamente correlati. Il valore aggiunto per persona
impiegata è aumentato molto rapidamente e poi è schizzato alle stelle nell’ultimo
decennio nell’economia americana. Il valore aggiunto per persona impiegata nel settore
non tradeable si è trascinato invariato con un tasso di crescita ampiamente al di sotto
dell’1%, pari a circa mezzo punto percentuale all’anno. Quindi, cosa sta succedendo
(slide 35 E 36)? Quello che sta succedendo è che l’economia globale sta entrando in
queste catene di valore aggiunto e si aggiudica sempre più lavoro nelle porzioni più
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 113
basse del valore aggiunto per persona impiegata, per motivi di concorrenza. La parte
alta del settore tradeable va bene, è competitiva e chi riesce a trovare un lavoro in
quell’ambito gode di un aumento del reddito. Tutte le altre persone non impiegate nel
settore tradeable sono riuscite, almeno in questo periodo di tempo, a trovare un impiego
nel settore non tradeable, dove il valore aggiunto per persona impiegata e il reddito non
aumentano velocemente. La mia conclusione alla luce di tutto questo è che per motivi
strutturali è veramente difficile pensare a cambiamenti nella politica. C’è un problema di
lavoro o di distribuzione o una qualche combinazione dei due fattori. Se mi inviterete
un’altra volta vi racconterò come questi elementi si presentano in tutte le diverse
economie. A ogni modo, penso che questo non sia un problema che interessi
unicamente gli Stati Uniti, anche se ritengo che nelle diverse economie vi siano notevoli
differenze in queste dimensioni. Grazie della pazienza e dell’ascolto.
GIOVANNI FLORIS
Giornalista e conduttore di Ballarò (Rai3)
Buongiorno a tutti. Approfitteremo di questa lezione del prof. Spence per stringere il
focus sulla situazione europea e in particolare italiana, cercando di spiegarci, in questa
analisi della crisi e del dopo crisi, quali sono i problemi che ci coinvolgono più da vicino.
Prima parlavo con il prof. Spence e cercavo di spiegargli la sensazione che si ha in Italia:
non so se vi ricordate la storia dei dieci piccoli indiani, che ne cade sempre uno e il
pericolo si avvicina sempre di più. Noi abbiamo iniziato la nostra crisi con tutti gli esperti
che ci raccontavano che nei Pigs noi non c’eravamo, perché sarebbe toccata prima alla
Grecia e all’Irlanda, come è accaduto, e ora sembrerebbe debba toccare a Portogallo e
Spagna, che tremano. Allora, iniziamo da questi due Paesi e da quanto questa frattura si
può avvicinare all’Italia.
MICHAEL SPENCE
A mio parere, il Portogallo ha una serie di problematiche importanti e molte richiedono
un intervento di salvataggio. La Spagna penso che rappresenti una questione aperta, ma
indubbiamente ha una serie di disequilibri piuttosto gravi associati al crollo del settore
immobiliare, del mercato del lavoro e dell’edilizia che potrebbero richiedere un aiuto.
Penso che l’Italia si trovi in una situazione molto diversa. Infatti, mentre il debito
pubblico italiano è elevato, il debito del settore privato è molto basso e il tasso di
risparmio italiano, soprattutto quello delle famiglie, è incredibilmente elevato. In questo
senso l’Italia assomiglia più a un Paese asiatico. Quindi c’è un’enorme resilienza nel
settore privato italiano, nel settore delle famiglie e in gran parte del mondo delle
imprese private. Quindi non penso che l’Italia sia in una situazione di disequilibrio.
Dunque, dove sta il vero rischio? Se dovessi scegliere un fattore, direi la perdita di fiducia
nell’Euro in generale per l’incapacità di stabilizzare questi altri Paesi, l’aumento del costo
del servizio del debito in Italia e in ultima analisi il peggioramento della situazione fiscale
nel settore pubblico, che obbliga a introdurre tagli e altre misure per ripristinare un
equilibrio. Mi sembra che questo sia il principale rischio per l’Italia.
GIOVANNI FLORIS
Quindi, se capisco, la situazione italiana strutturale è più portata ad assorbire pericoli da
fuori che non da dentro? Cioè se la perdita di fiducia nell’Euro in ogni caso dovremmo
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 114
importarla, allo stesso modo, l’aumento del rendimento dei titoli di stato è una sorta di
paura che ci può venire. C’è però un problema: il fatto che il debito sia per la maggior
parte privato, che sia nostro, degli italiani, non ci mette invece in una condizione difficile
rispetto agli altri, perché ce la dovremmo cavare da soli? Nel momento in cui l’Irlanda
entra in crisi, i tedeschi hanno paura perché là ci sono i loro soldi. Se entra in crisi l’Italia è
un problema solo nostro?
MICHAEL SPENCE
No, non penso che sia così. A un certo punto l’Europa, collettivamente, dovrà decidere se
vuole o meno stabilizzare l’Euro e andare avanti su quella strada. Questo significa
sostanzialmente gestire l’instabilità ovunque essa si manifesti. Forse sono troppo di
parte per quanto riguarda la situazione italiana, ma ritengo che se ci fosse un problema
qui, dato che l’Italia è un Paese di importanza sistemica in Europa, dovrebbe essere
affrontato in termini di accesso ai finanziamenti o a qualunque cosa sia necessaria.
Voglio dire, non si può avere un Euro forte se un Paese importante incappa in problemi e
viene lasciato a se stesso, perché una simile situazione distruggerebbe la fiducia
nell’Euro. L’Euro verrebbe visto semplicemente come una moneta comune, nel senso
che tutti gli europei usano la stessa valuta, ma ciò non significa che si possa prendere a
prestito agli stessi tassi.
GIOVANNI FLORIS
Diceva del problema fiscale: potremmo trovarci nella condizione di dover fare altri
interventi o di riduzione della spesa o di aumento della fiscalità. Questa è la condizione
reale in cui ci troviamo? Perché Lei sa che il nostro dibattito politico invece si sviluppa sul
fronte della riduzione della tassazione…
MICHAEL SPENCE
Vero. Questo è un problema piuttosto comune. Ci sono due cose in competizione in
Italia e in altri Paesi. Queste due cose sono il ripristino dell’equilibrio fiscale e la crescita.
Ripristinare l’equilibrio fiscale è chiaro e ha a che vedere con il deficit e lo si può ridurre
aumentando le imposte o tagliando le spese. In ogni Paese la gente ha opinioni diverse
in merito a quale sia la strada migliore da seguire. Tuttavia entrambe le soluzioni hanno
implicazioni sulla crescita. Una riduzione della fiscalità potrebbe essere un intervento
favorevole alla crescita, ma d’altro canto se non si fanno investimenti in capitale umano,
tecnologia e altre cose che rappresentano le fondamenta del funzionamento di un
Paese, o di un’economia innovativa, si può comunque danneggiare la crescita. Quindi,
decidere non solo come gestire il deficit, ma anche come affrontare le spese e gli
investimenti da un lato e i ricavi dall’altro è un elemento importantissimo del dibattito. E
non esiste una formula valida per tutti perché probabilmente varia in tutta una serie di
Paesi, ma la cosa che a mio parere è estremamente importante in qualunque Paese è
che se c’è un problema fiscale, se c’è un modo per generare una crescita significativa e
incrementale - e credo che le proiezioni di crescita per l’Italia per i prossimi anni siano di
circa mezzo punto percentuale o forse poco più - ebbene se si riesce a generare una
crescita, questa è la soluzione migliore a lungo termine per il problema fiscale. Quindi, a
mio parere, la soluzione appropriata consiste nell’accertare che gli interventi mirati alla
crescita previsti in agenda non vengano compromessi a favore degli interventi fiscali.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 115
GIOVANNI FLORIS
Qual è, dal suo punto di vista, in Italia la chiave per rilanciare la crescita? Lei sa che in
questo momento c’è un forte e sentito dibattito sul costo del lavoro per quel che
riguarda il caso Fiat, ma questo lo lascerei da parte per chiederglielo successivamente.
Visti da fuori, qual è il grande freno alla crescita italiana?
MICHAEL SPENCE
Non credo che ci sia un unico freno importante alla crescita. Per quanto riguarda la
strategia di crescita, io riterrei opportuno prevedere un approccio a più pilastri che
includa investimenti in ricerca (inclusi dei contributi pubblici alla ricerca) e tecnologia,
investimenti in capitale umano per garantire che il sistema scolastico produca una forza
lavoro altamente istruita. Penso che parte della crescita derivi dall’evoluzione strutturale
dell’economia. Inoltre, numerose aziende di medie dimensioni, che sono tanto diffuse in
Italia, vanno molto bene e stanno diventando più efficienti a livello globale.
Probabilmente questo vale anche per le cooperative che si trovano nella stessa curva di
apprendimento. Quindi a mio avviso ci sono diverse cose che si possono fare per
promuovere la crescita.
La Germania nello scorso decennio ha attraversato un’importante ristrutturazione in
collaborazione con i sindacati. È stato difficile, ma i tedeschi hanno sostenuto la loro
capacità di impiego e la loro competitività globale. Uno dei prezzi che hanno pagato per
questo è stato un aumento salariale relativamente ridotto nel corso dell’ultimo
decennio. Sarebbe bello poterlo evitare ma non sono certo che sia possibile. La risposta
sincera a questa domanda è che nessuno di noi sa quale sia la risposta, quindi non
possiamo che imbarcarci in questo viaggio e provare tutto quello che ci viene in mente,
a condizione che abbia un senso.
GIOVANNI FLORIS
Consolante. Lei prevede che gli interventi che ha menzionato - la ricerca, lo sviluppo, gli
investimenti - nell’eventualità che si riesca a farli, abbiano un effetto immediato o un
effetto a medio-lungo termine che ridia però fiducia a una popolazione evidentemente
stressata dal punto di vista dell’economia?
Le faccio un esempio. Quando in una famiglia ci sono figli che non trovano lavoro, un
padre che rischia di perderlo, una madre che non può contare su un’assistenza sociale e
deve rivolgersi ai parenti più stretti, questo può essere un elemento magari
sottovalutato in Italia, ma molto importante nella crisi della crescita del nostro Paese?
MICHAEL SPENCE
Certo. Il concetto che volevo far passare quando ho descritto la situazione americana è
che a mio parere c’è un problema strutturale e temo che sia così anche in Italia. Per
risolverlo sono necessarie diverse misure che producano un cambiamento strutturale.
Per rispondere alla sua domanda, non si tratta di una soluzione a breve termine. Quando
non ci sono sufficienti opportunità di lavoro, ad esempio per i giovani, l’ultima cosa da
fare, in qualunque Paese, è perdere una generazione di giovani perché non riescono a
trovare un lavoro per i primi quattro, cinque, sei o sette anni. Dobbiamo quindi tentare
di fare in modo che non vengano esclusi dal mercato del lavoro e poi dobbiamo
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 116
proteggere il resto della popolazione con il reddito e con l’accesso ai servizi di base.
Penso che qualunque società umana egualitaria seguirebbe un simile approccio, ma a
questa situazione non c’è una soluzione a breve termine, a mio avviso.
GIOVANNI FLORIS
Siamo al punto più discusso in Italia in questi giorni. Nella bassa produttività italiana,
qual è il peso che ha il costo del lavoro? Lei sa che adesso la Fiat a Mirafiori, e in
particolare a Pomigliano, sta cercando di affrontare il discorso della produttività non
solo con un maggiore impiego della forza lavoro, ma anche con un minore costo.
Quanto il costo del lavoro costituisce il freno nella crescita del nostro Paese e, se conosce
il caso Fiat, che opinione se ne è fatto?
MICHAEL SPENCE
Innanzitutto la Fiat ha fatto molto bene. Ha operato un’inversione di tendenza notevole.
Qui non stiamo parlando di un’azienda in crisi, è il contrario. Si sono divisi in due e
acquisiranno Chrysler. Si tratta di un successo industriale enorme. Ritengo che
Marchionne stia posizionando la società in modo tale da poter operare nell’economia
globale in futuro. Non so se voglia liberarsi dei sindacati o meno, non ho parlato con lui,
ma ciò di cui lui ha bisogno, come qualunque altro leader di azienda o società
multinazionale, è trovare un buon partner nei lavoratori, un partner che abbia
intenzione di adattarsi e di essere flessibile senza fare il tappetino o rinunciare ai propri
diritti o interessi. È necessario essere flessibili, questo mondo è in continuo
cambiamento e richiede la capacità di adattarsi. I leader industriali ostacolati dai
sindacati si trovano spesso bloccati per l’impossibilità di incontrarsi e parlare dei
cambiamenti che è necessario attuare. In questo senso penso che i sindacati abbiano
agito diversamente. Prevedo un futuro roseo per Fiat e penso che alla fine i sindacati
diventeranno partner flessibili a supporto dell’azienda. In Germania - continuo a fare
riferimento alla Germania perché è andata contro corrente in tutti questi ambiti, ha un
surplus, è competitiva nella produzione di macchine industriali ed è concorrenziale in
tutta l’economia globale - l’accordo raggiunto con i sindacati prevede l’eventualità che i
salari non crescano molto e la necessità di essere flessibili, ma l’intenzione è quella di
mantenere i posti di lavoro e impedire all’intero settore di scomparire. Probabilmente
non è male come accordo, date le circostanze.
GIOVANNI FLORIS
Quindi Lei dice che i sindacati che hanno sostenuto l’accordo hanno preso la strada
giusta, non quelli che si oppongono all’accordo…
MICHAEL SPENCE
Non conosco abbastanza bene i contenuti di questo accordo, ma normalmente
l’alternativa è quella di perdere posti di lavoro. Giusto? Se questa è l’alternativa… E
questo è coerente con tutto quello che sappiamo sull’economia globale. Allora direi che
la mia risposta è affermativa: hanno ragione quelli che hanno sottoscritto l’accordo. Ci
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 117
sono accordi migliori e accordi peggiori ma dovrei studiarlo nel dettaglio. Però
mantenere i posti di lavoro rappresenta una priorità molto importante.
GIOVANNI FLORIS
Però a naso, se l’alternativa è perdere il lavoro conviene firmare. Senta, ci può suggerire
delle riforme a costo zero in Italia? Perché penso che possiamo fare solo quelle, per cui
se ci dà una lista…
MICHAEL SPENCE
È una lista molto corta e ve l’ho appena data. Quando si arriva a una situazione come
questa - e questo vale anche per l’America dove vivo per parte del mio tempo quando
non vivo qui in Italia, e vale anche per una serie di altri Paesi, compresi quelli in via di
sviluppo - se si deve investire si devono fare sacrifici. Non c’è altro modo. In diversi Paesi
è necessario rimettere in equilibrio i budget e poi rivolgersi alla popolazione e dire:
“siamo in una situazione in cui è probabile che i nostri figli e i nostri nipoti avranno meno
possibilità di quelle che abbiamo avuto noi e abbiamo un’unica via di uscita, ovvero
iniziare a investire su di loro e su ciò che li potrà aiutare e dobbiamo farlo ora”. Questo va
tenuto distinto da questioni ideologiche e di budget o altro e bisogna dire: “tutto questo
va fatto per i prossimi cinque/dieci anni”. La maggior parte delle persone ha molto a
cuore il futuro dei propri figli e nipoti e se la questione viene messa in questi termini la
risposta sarà: “bene. Dobbiamo fare sacrifici in termini di consumi e stile di vita e
dobbiamo farli ora per raggiungere quell’obiettivo”. Spero che in Italia e in America e in
altri Paesi si faccia proprio questo. Non sono certo che lo faremo ma ritengo che questa
sia la risposta da dare. In un Paese in via di sviluppo, dove il reddito pro capite è di
cinquecento dollari… Intendo dire, noi ce ne stiamo qui e per noi loro non sono altro
che numeri. Ma immaginatevi di dover vivere con cinquecento o settecento dollari e
duecento di quel reddito se ne vanno in investimenti sul futuro e dunque non possono
essere spesi nel presente. Vi rimangono trecento dollari. Insomma, i sacrifici fatti per
sostenere questa crescita elevata sono enormi. Quindi se possono farli loro, possiamo
farli anche noi.
GIOVANNI FLORIS
Assolutamente. Professore, un’ultima domanda. Nella sua esperienza ha mai visto un
Paese, centralizzato dal punto di vista fiscale, diventare federale? O ha sempre visto tanti
Paesi che per unirsi usavano il federalismo? Il federalismo in Italia è usato al contrario: vi
sono tutte le regioni unite, centralizzate, che si sviluppano verso il federalismo. Nel
Dollaro mi pare ci sia scritto “dai tanti, uno solo”, noi stiamo diventando, da uno solo,
tanti. Come la vede?
MICHAEL SPENCE
Penso che possiate decentralizzare a livello fiscale, ma è fondamentale che abbiate delle
regole sulle aree da decentralizzare. Per esempio, l’America è decentralizzata a livello
fiscale e agli Stati non è sostanzialmente consentito andare in deficit, se non per
brevissimi periodi di tempo. È l’equivalente delle regole di Maastricht, solo che sono
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 118
molto più severe. Ad esempio, la California ha lo stesso problema della Spagna:
pensavamo di essere in equilibrio, di avere un surplus ma è emerso che la nostra
economia è compromessa, c’era una bolla e quando la bolla è scoppiata tutti i ricavi
sono scomparsi e ora abbiamo un deficit enorme, proprio come gli spagnoli. Quindi
avere una norma che richieda un livello di deficit zero non sempre aiuta a superare una
crisi. A volte è necessario l’intervento del potere centrale per superare i problemi.
Tuttavia, si possono avere entrambe le cose, a condizione che non si allenti la disciplina
fiscale.
GIOVANNI FLORIS
Per chiudere professore, se potesse scegliere oggi preferirebbe essere americano,
cinese, italiano o spagnolo?
MICHAEL SPENCE
Non so come suddividermi…mia moglie è italiana… Ma sono felicissimo di essere un
po’ americano e un po’ italiano. Il motivo è che a mio parere quello che sta succedendo
nell’economia globale è entusiasmante e io e altre persone abbiamo accesso a tutto
questo. Il trucco è fare in modo che tutti i nostri concittadini abbiano l’opportunità di
essere produttivi e creativi. Al momento temo che questa serie di opportunità sia
disponibile solo a una minoranza di noi, una élite, poche persone che operano nel
settore finanziario o lavorano per le multinazionali. Essere un giovane cinese oggi è
molto entusiasmante, è inconfutabile, ma non credo che farei cambio con un cinese.
GIOVANNI FLORIS
Grazie al prof. Spence, grazie a tutti voi. La parola al presidente Poletti.
GIULIANO POLETTI
Adesso ci salutiamo, perché abbiamo approfittato molto della vostra pazienza e del
vostro tempo. Questo era l’antipasto, nel senso che abbiamo cominciato con le giornate
dell’economia cooperativa il percorso per il nostro Congresso. Ad aprile ci sarà questo
passaggio importante, che collega, peraltro, due eventi: i centocinquant’anni dell’Unità
nel nostro Paese e i centoventicinque anni della costituzione della Lega delle
Cooperative. È un passaggio che vogliamo rappresentare anche nel simbolo del
Congresso che adesso vedrete: abbiamo scelto, un po’ forse inconsapevolmente e un
po’ provocatoriamente, un termine che è “Cooperativa Italia” e ci siamo sentiti di dire
che se ci può essere “Fabbrica Italia” perché non ci può essere “Cooperativa Italia”? Noi
siamo un pezzo della storia e dell’economia di questo Paese, pensiamo che la forma
cooperativa sia una forma di impresa in armonia con il futuro, che cerca di trovare una
risposta ai problemi che abbiamo discusso in questi giorni. Allora, con quel po’ di
orgoglio che è necessario e con tutto l’impegno che sappiamo essere necessario per fare
questa strada, abbiamo scelto questo passaggio. Questo passaggio, tra l’altro, viene
intercalato da un altro evento molto importante: il 27 gennaio a Roma costituiremo
l’Alleanza delle Cooperative italiane. Mettiamo insieme Legacoop, Confcooperative e
AGCI in un coordinamento stabile della nostra funzione di rappresentanza. Quindi,
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 119
pensiamo il futuro come Cooperativa Italia, come Lega delle Cooperative, ma lo
pensiamo all’interno di un lavoro comune con tutte le altre centrali cooperative e questo
per noi è il punto di collegamento con l’idea di una Italia cooperativa, cioè del fatto che
nel nostro Paese non c’è solo bisogno, e probabilmente l’opportunità, di avere più
cooperative, ma che più in generale c’è bisogno di una Italia che coopera al proprio
interno tra la politica, le istituzioni, le organizzazioni di impresa, il lavoro. Io credo che
questa Italia oggi sia troppo piena di contrasti, di conflitti, di incapacità di comunicare; in
troppi sono convinti che nel conflitto e nell’isolamento ci sia la loro forza. Noi siamo
convinti che questa invece è la debolezza complessiva. Allora, se si deve combattere la
debolezza globale, per cercare di far fronte ai problemi che abbiamo, noi siamo le
cooperative italiane, cerchiamo di usare questo strumento al fine di dare una mano al
futuro di questo Paese. Quindi usiamo bene la parola futuro e cerchiamo di innescarla
nella parola fiducia, che ci pare essere la benzina necessaria per ripartire. Ringraziamo
tutti i nostri ospiti, tutte le persone che hanno lavorato per la buona riuscita di queste
due giornate. L’appuntamento, appunto, è a Cooperativa Italia, al Congresso Nazionale
di Legacoop.
Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 120
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