ATTI DEL CONVEGNO ATTI GECO 2011 Sommario Giovedì 13 gennaio 2011 Apertura dei lavori Luca Bernareggi Pag. 3 Prima sessione Il lavoro nell’impresa cooperativa: produttività e diritti Franco Tumino Giuliano Giubilei Presentazione dello studio di Fondazione Nord Est: “La qualità del lavoro nell’impresa cooperativa” a cura di Daniele Marini Susanna Camusso Giuliano Poletti Carlo Dell’Aringa Pag. 12 Pag. 13 Pag. 14 Seconda sessione Le cooperative di comunità:un’opportunità per territori e persone Giorgio Gemelli Dario Di Vico Franco Iseppi Edoardo Patriarca Pag. 26 Pag. 28 Pag. 29 Pag. 31 Consegna dei premi Quadro Fedele 2010 Pag. 38 Terza sessione A che punto siamo della crisi: nuovi orizzonti e prospettive per il futuro Giorgio Bertinelli Carlo Zini Andrea Cabrini Alessandra Lanza Fiorella Kostoris Gian Maria Gros-Pietro Pag. 39 Pag. 39 Pag. 41 Pag. 41 Pag. 47 Pag. 50 Quarta sessione La legalità e la libertà di fare impresa Giuliano Poletti Fabio Tamburini Maurizio De Lucia Ivanohe Lo Bello Livia Pomodoro Roberto Maroni Pag. 60 Pag. 62 Pag. 63 Pag. 65 Pag. 68 Pag. 77 Pag. 5 Pag. 7 Pag. 8 Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 1 Venerdì 14 gennaio 2011 Quinta sessione Il ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari per la crescita delle imprese italiane Caterina Parise Aldo Soldi Pierluigi Stefanini Giuseppe Mussari Pag. 82 Pag. 82 Pag. 85 Pag. 87 Sesta sessione Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione Marco Sodano Phillip Blond Roberto Formigoni Aldo Bonomi Luca Bernareggi Pag. 94 Pag. 94 Pag. 97 Pag. 101 Pag. 104 Settima sessione Giorgio Gemelli Michael Spence Lectio Magistralis Prospettive di crescita e sfide per l’economia dei paesi avanzati ed emergenti Giovanni Floris Giuliano Poletti Pag. 106 Pag. 107 Pag. 114 Pag. 119 Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 2 ATTI GECO 2011 Sommario Giovedì 13 gennaio 2011 Apertura dei lavori Luca Bernareggi Pag. 3 Prima sessione Il lavoro nell’impresa cooperativa: produttività e diritti Franco Tumino Giuliano Giubilei Presentazione dello studio di Fondazione Nord Est: “La qualità del lavoro nell’impresa cooperativa” a cura di Daniele Marini Susanna Camusso Giuliano Poletti Carlo Dell’Aringa Pag. 12 Pag. 13 Pag. 14 Seconda sessione Le cooperative di comunità:un’opportunità per territori e persone Giorgio Gemelli Dario Di Vico Franco Iseppi Edoardo Patriarca Pag. 26 Pag. 28 Pag. 29 Pag. 31 Consegna dei premi Quadro Fedele 2010 Pag. 38 Terza sessione A che punto siamo della crisi: nuovi orizzonti e prospettive per il futuro Giorgio Bertinelli Carlo Zini Andrea Cabrini Alessandra Lanza Fiorella Kostoris Gian Maria Gros-Pietro Pag. 39 Pag. 39 Pag. 41 Pag. 41 Pag. 47 Pag. 50 Quarta sessione La legalità e la libertà di fare impresa Giuliano Poletti Fabio Tamburini Maurizio De Lucia Ivanohe Lo Bello Livia Pomodoro Roberto Maroni Pag. 60 Pag. 62 Pag. 63 Pag. 65 Pag. 68 Pag. 77 Pag. 5 Pag. 7 Pag. 8 Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 1 Venerdì 14 gennaio 2011 Quinta sessione Il ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari per la crescita delle imprese italiane Caterina Parise Aldo Soldi Pierluigi Stefanini Giuseppe Mussari Pag. 82 Pag. 82 Pag. 85 Pag. 87 Sesta sessione Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione Marco Sodano Phillip Blond Roberto Formigoni Aldo Bonomi Luca Bernareggi Pag. 94 Pag. 94 Pag. 98 Pag. 101 Pag. 104 Settima sessione Giorgio Gemelli Michael Spence Lectio Magistralis Prospettive di crescita e sfide per l’economia dei paesi avanzati ed emergenti Giovanni Floris Giuliano Poletti Pag. 106 Pag. 107 Pag. 114 Pag. 119 Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 2 GIOVEDÌ 13 GENNAIO 2011 Apertura dei lavori LUCA BERNAREGGI Presidente Legacoop Lombardia Diamo il via alla seconda edizione delle Giornate dell’Economia Cooperativa promossa da Legacoop. Volevo brevemente descrivervi il senso di questa seconda edizione e fare alcune considerazioni sui prestigiosi ospiti che avremo. È un’edizione che si presenta ricca di spunti e di momenti di riflessione, oltre che appunto di presenze autorevoli che hanno accolto il nostro invito e che desidero ringraziare. A partire dagli ospiti di rilievo internazionale come il Premio Nobel Michael Spence, che parlerà domani, e il direttore di ResPublica Phillip Blond, permettetemi anche di ringraziare il presidente dell’ABI Mussari, il presidente Formigoni, il ministro Maroni - che sarà con noi questo pomeriggio - e mi scuso di non citare tutti gli altri amici ospiti del mondo accademico e del mondo dell’economia. Consentitemi di rivolgere un ringraziamento particolarmente affettuoso, immaginando anche di interpretare il sentimento e il pensiero di tutti voi, alla segretaria generale della CGIL Susanna Camusso, alla quale confermiamo i nostri auguri per il suo incarico molto delicato e impegnativo e sulle cui spalle pesano scelte particolarmente importanti e difficili per la sua organizzazione, oltre che per l’intera società italiana. La presenza prevista di alcuni ospiti purtroppo non sarà confermata: Enrico Giovannini, presidente dell’ISTAT, assente per motivi di salute, il sindaco Sergio Chiamparino, impegnato nella Direzione Nazionale del PD, e l’onorevole Cazzola, che per ragioni di convocazione della Commissione Lavoro non potrà essere presente. Abbiamo cercato di predisporre un programma denso di idee, di proposte, di lavoro, che anche questa volta è stato reso possibile grazie alla Presidenza Nazionale di Legacoop e al fatto che diversi soggetti del mondo cooperativo - sono gli sponsor il cui elenco vedete alle mie spalle hanno condiviso il significato di questo appuntamento, decidendo di contribuire a sostenerne generosamente i costi. Il programma è stato reso possibile da un eccellente gruppo di persone e di colleghi che in larga misura tutti conoscete. Volevo anche ringraziare Il Sole24Ore per l’ospitalità che ci ha confermato e per il supporto fornito. Per iniziare, desideravo fare velocemente alcune considerazioni: questo Paese sta vivendo un passaggio molto delicato della sua vita politica e istituzionale; Legacoop, nel suo percorso di avvicinamento al prossimo appuntamento congressuale, ha voluto confermare queste giornate proprio per rafforzare ancora di più il suo essere un soggetto attivo della società italiana, l’essere, oltre che un’associazione di imprese, uno strumento utile per il benessere delle nostre comunità e dei nostri concittadini. Non sarà una due giorni di dibattito fine a se stesso, ma un appuntamento nel quale concentrare ricerche, riflessioni, spunti, idee e proposte di lavoro su alcuni problemi che sono a nostro avviso molto importanti, perché riguardano la vita delle persone e delle imprese e la loro voglia di crescere con spirito di intraprendenza e di fiducia per un futuro che possa essere migliore per tutti. Intendiamo cogliere fino in fondo il valore di questo appuntamento, grazie anche alla presenza dei nostri interlocutori, al fine di comprendere meglio il ruolo che un’associazione come la nostra e le cooperative che rappresentiamo possono avere su alcuni di questi temi: il lavoro, il suo valore e il suo futuro; la crisi economica e i modelli d’impresa che cambiano; l’accesso a servizi finanziari sempre più decisivi per la difesa e la crescita dello stesso sistema imprenditoriale; la vita delle persone nelle comunità e nei territori; la legalità come strumento di emancipazione per fare economia sana; i beni comuni e la loro evoluzione in una prospettiva ormai prossima di riforma in senso federalista dello Stato. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 3 Su questi temi il mondo della cooperazione italiana è già al lavoro. Le associazioni di settore, numerose cooperative grandi e piccole, gli strumenti e i soggetti imprenditoriali cui hanno dato vita stanno già vivendo sulla loro pelle gli effetti di un cambiamento strutturale che, come qualcuno si azzarda a dire, non lascerà nulla come prima. Anche per questo abbiamo pensato e cominciato a estendere e a valorizzare il senso di queste giornate, introducendo questa novità, che abbiamo voluto chiamare “Fuori Geco”: abbiamo iniziato ieri all’Università Cattolica di Milano, discutendo di cooperazione allo sviluppo e del senso che dovrebbe avere Expo Milano 2015 “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. È stato sorprendentemente positivo constatare come i nostri interlocutori, anche la stessa Università, fossero meravigliati nel vedere quante cose realizzano le cooperative in giro per il mondo, attraverso iniziative di responsabilità sociale, imprenditoriale e ambientale. “Fuori Geco” proseguirà ancora stasera, in una discussione con un centinaio di giovani che vogliono misurarsi con nuove idee e nuove iniziative imprenditoriali e quindi domani pomeriggio all’Università Statale di Milano, presso la Libreria Coop, discutendo con Giovanni Floris del suo libro che si misura con i problemi del futuro di questo Paese. In questi appuntamenti - che se, come pensiamo, raggiungeranno il loro scopo vorremmo ulteriormente allargare - i protagonisti veri saranno le cooperative, con le loro molteplici attività e le persone che le dirigono. A nome di tutti i cooperatori di Legacoop Lombardia voglio quindi dare il benvenuto ai colleghi e alle colleghe che vengono dalle altre regioni, sia da quelle più vicine sia dalle più lontane. A loro voglio dire semplicemente che qui, in una delle zone e delle società più ricche, dinamiche e pluralistiche del Paese, troveranno sempre, come peraltro è nostra tradizione, disponibilità e ascolto alle loro molteplici esigenze. Vogliamo interpretare il ruolo di rappresentanti della cooperazione, cercando così di dialogare in modo coerente con i nostri interlocutori istituzionali, ai quali chiediamo di essere giudicati dai fatti e dal merito delle nostre proposte e del nostro lavoro. Benvenuti dunque a Milano, buon soggiorno a tutti e speriamo che questi due giorni di inizio anno siano di buon auspicio per il lavoro che ci aspetta e per gli impegni e le responsabilità che la società italiana ha già affidato all’intero mondo della cooperazione. A questo punto chiederei a Franco Tumino, a cui cedo volentieri la parola, di salire sul podio. Grazie e buon lavoro a tutti. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 4 Prima Sessione Il lavoro nell'impresa cooperativa: produttività e diritti FRANCO TUMINO Responsabile del progetto Legacoop – Qualità del lavoro Buongiorno a tutti. Con il rapporto di ricerca affidato alla Fondazione Nord Est, che sarà successivamente illustrato dal prof. Marini - colgo l’occasione di ringraziare, insieme al prof. Marini, Aris Accornero, che è stato responsabile scientifico della ricerca, e i collaboratori di Marini e Accornero per la qualità e la quantità dell’impegno profuso - si è voluto indagare sulla reazione delle cooperative alla crisi economico-finanziaria esplosa a livello mondiale nell’autunno 2008. Questo è stato fatto attraverso una raccolta di dati presso le cooperative e attraverso interviste approfondite a figure apicali di un campione qualitativo di cooperative associate appartenenti a tutti i settori di attività della nostra organizzazione. In questo modo abbiamo voluto attualizzare, alla luce della crisi del 2008, un punto del programma di lavoro previsto dal documento conclusivo, che abbiamo chiamato “Documento di mandato”, approvato dall’ultimo Congresso Legacoop nel marzo 2007, quando neanche noi avevamo ipotizzato che potesse esplodere una tale crisi economica, perlomeno nella dimensione che poi ha avuto. Il “Documento di mandato” che citavo indicava tra gli obiettivi prioritari da perseguire, affidati al gruppo dirigente eletto dal Congresso, il tema della qualità del lavoro nella cooperazione aderente all’organizzazione. Più esattamente recitava: “la qualità del lavoro è, insieme al rispetto delle regole, un carattere identitario forte della buona cooperazione, carattere identitario che va sostenuto, incrementato e più ampiamente reso noto. Le cooperative aderenti a Legacoop hanno sviluppato, nei diversi settori, diffusi esempi di positive sperimentazioni; la conoscenza e la diffusione di queste buone pratiche va promossa e sostenuta con idonee iniziative, sia a livello settoriale sia territoriale, anche sviluppando il confronto con le organizzazioni sindacali”. Abbiamo affrontato questo impegnativo compito affidatoci dal documento conclusivo del Congresso con un gruppo di lavoro che mi ha affiancato - e ringrazio la Presidenza di Legacoop per avermi a suo tempo affidato questo incarico di coordinamento del lavoro composto da colleghi, designati dalle associazioni con maggiore presenza di occupazione e da Legacoop Emilia Romagna che, come organizzazione territoriale, aveva deciso di produrre uno sforzo analogo all’interno del progetto nazionale. Consentitemi di citare questi colleghi, che hanno svolto un lavoro molto impegnativo: Barzali, Genitoni e successivamente Casanova, Minetti, Monti, Piscopo e Verri, coadiuvati dai colleghi della struttura confederale, Algieri e Marignani, con l’ausilio periodico dei colleghi Iurilli e Conti. All’interno di questo gruppo di lavoro si era in realtà deciso, per non condurre un’analisi autoreferenziale, di svolgere l’indagine sulle buone pratiche delle cooperative intervistando direttamente i lavoratori soci e non soci - non quindi i gruppi dirigenti - e affidando la realizzazione di questa indagine a un organismo indipendente, individuato appunto nella Fondazione Nord Est. Di fronte all’esplodere della crisi economica, abbiamo però poi deciso di rinviare l’indagine al momento dell’uscita dalla crisi - uscita che ancora non c’è stata - nel timore soprattutto che la percezione dei lavoratori fosse influenzata dalla situazione e quindi che gli intervistati si trovassero in un atteggiamento scarsamente critico verso la qualità del lavoro, in quanto concentrati sulla garanzia del posto di lavoro. Inoltre avevamo intenzione di produrre questa ricerca con cadenza periodica, per ottenere non solo una fotografia, ma anche delle tendenze da approfondire; tuttavia anche qui il rischio era di esaminare tendenze riferite a contesti differenti. Abbiamo quindi deciso di modificare, rinviandola nel tempo, questa indagine presso i lavoratori e di convertire invece la ricerca - alla luce dell’evento Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 5 più eclatante, seppur in negativo, registrato dall’ultimo Congresso ad oggi, cioè quello della crisi economica esplosa a livello mondiale e dei suoi effetti nel nostro paese - nella direzione che oggi sarà presentata dal prof. Marini e cioè come hanno reagito le cooperative alla crisi economica. Tuttavia, pur avendo modificato l’obiettivo della ricerca, gli elementi riferiti alla qualità del lavoro in cooperativa hanno fatto parte dell’indagine. Oggi non viene diffusa; è un corposo documento di 180 pagine che sarà diffuso nei prossimi giorni e in cui si potrà vedere che al tema della qualità del lavoro in cooperativa è dedicata un’intera sezione, la sezione 6. C’è poi un punto centrale, anche all’interno del paragrafo 8.3, che è dedicato appunto alla reazione delle cooperative alla crisi. Ci possiamo quindi concentrare sugli elementi che sono scaturiti dalla ricerca, che saranno illustrati dal prof. Marini e vorrei anticipare qualche valutazione, pur con la prudenza necessaria per affermazioni e risultati che non provengono direttamente dai lavoratori e che appartengono a un campione di cooperative che non pretende di essere rappresentativo dell’universo delle imprese aderenti. A tal proposito, in riferimento al tema del lavoro, la Fondazione Nord Est ha definito in autonomia - naturalmente condivisa - una griglia di analisi. Cito testualmente: “vari elementi contribuiscono a definire quello che può essere chiamato un buon posto di lavoro: il tipo di contratto, l’orario, la retribuzione, la sicurezza ambientale, la valorizzazione del rapporto individuale, la formazione, i rapporti all’interno della cooperativa, il clima aziendale”. Venendo a quanto emerso dalla ricerca, sulla base di questa griglia, spiccano a mio avviso con chiarezza alcuni elementi che ci caratterizzano in modo distintivo. Sono sei elementi che leggo rapidamente: 1) il ridotto numero di rapporti di lavoro cosiddetti “atipici”, che hanno, come sappiamo, minori tutele rispetto ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Approfitto per ricordare che la nostra organizzazione ha costantemente e da anni richiesto che siano equiparate la contribuzione obbligatoria e le tutele del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e quelle dei contratti atipici. Abbiamo anzi sostenuto che a una maggiore flessibilità del lavoro debba corrispondere un maggior costo del lavoro per le imprese, in modo da contrastare utilizzazioni improprie; 2) il costante sforzo di contenere l’uso di contratti precari a un tempo ristretto e di trasformarli comunque, appena possibile, in rapporti stabili e a tempo indeterminato; 3) un forte impegno sulla sicurezza dei lavoratori, in misura significativamente superiore alla media dei competitor; 4) un impegno che accompagna un’utile e necessaria flessibilità alla ricerca della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; la ricerca ha registrato, cito testualmente, “disponibilità ad andare incontro alle esigenze dei lavoratori con orari di lavoro che tengono conto, dove possibile, della conciliazione con i tempi e gli impegni personali e familiari, fino in alcuni casi a esperienze praticate di autogestione da parte dei lavoratori”. Un impegno quindi alla conciliazione e all’adozione di scelte nella direzione delle pari opportunità, in particolare per favorire lo sviluppo dell’occupazione femminile. Emerge tuttavia con chiarezza - lo dobbiamo dire con autocritica - un dato, che peraltro già conoscevamo, sul grande spazio di miglioramento esistente per l’aumento della presenza femminile nei vertici aziendali e tra gli amministratori delle cooperative; 5) un’ampiezza e ricchezza qualitativa di sforzi di coinvolgimento e partecipazione nei confronti dei soci lavoratori, con un’informazione sostanzialmente aperta a tutti i lavoratori, anche non soci, pur emergendo nell’indagine la necessità di un ulteriore forte miglioramento; 6) uno sforzo nella direzione della formazione e dell’aggiornamento dei lavoratori ampiamente superiore, in genere, a quello della gran parte, se non della totalità, dei competitor privati. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 6 Per ultimo, anche nel fronteggiare la crisi, emerge dal rapporto l’attenzione alla tutela dei lavoratori. Cito testualmente: “Del resto, come quasi tutti gli intervistati sottolineano, l’obiettivo della cooperativa anche in tempi di crisi, a differenza di un’azienda di capitali, è quello di offrire condizioni dignitose di lavoro, non solo ai soci ma anche a tutti i lavoratori che collaborano nella cooperativa stessa, di mantenere i posti di lavoro, di tutelare i lavoratori, di investire sulle risorse umane, di creare ricchezza per le generazioni future”. A questo proposito alcuni intervistati hanno sottolineato il fatto che i lavoratori sono stati informati delle scelte effettuate a causa della crisi o dei riflessi della crisi sulle imprese e in qualche caso i lavoratori hanno deciso loro stessi quali delle alternative proposte praticare. Questo, senza dubbio, afferma il rapporto, “rappresenta uno degli aspetti distintivi su cui si basa la politica del lavoro del modello cooperativo, come si ha avuto modo di dire anche in altre parti del presente rapporto”. Insomma, la ricerca effettuata dalla Fondazione Nord Est contiene, a mio avviso, informazioni incoraggianti per chi come noi crede fortemente che avremmo un Paese migliore e più competitivo se avessimo nel tessuto produttivo una maggior incidenza di cooperative. Grazie dell’attenzione. Cedo la parola al dott. Giuliano Giubilei, nostro moderatore. GIULIANO GIUBILEI Vice direttore TG3 Prima di tradurre telegraficamente l’argomento della nostra discussione, vorrei pregare gli ospiti che parteciperanno al dibattito di salire sul palco. Prima di tutti Susanna Camusso, segretario della CGIL, che naturalmente ringraziamo per essere venuta e alla quale farei anche un applauso per l’impegno non facile di questi giorni; il presidente di Legacoop Giuliano Poletti; il prof. Carlo Dell’Aringa dell’Università Cattolica di Milano. Insieme cercheremo di capire il tema del dibattito - ne abbiamo già un po’ parlato - che è il lavoro nell’impresa cooperativa; poi ci sono i “due punti” e i concetti importanti arrivano dopo i due punti, ovvero produttività e diritti. Questo è un tema che ovviamente non riguarda solo l’impresa cooperativa ma è soprattutto di grandissima e anche per certi aspetti drammatica attualità. Ricordo soltanto - ma lo sapete tutti meglio di me - che da questa sera si vota il referendum a Mirafiori. Tuttavia il tema produttività, diritti, lavoro, etc. non riguarda ovviamente soltanto la Fiat, anche se a guardare i giornali di questi giorni e le televisioni sembra che esista solo Fiat. Noi giornalisti siamo un po’ così: assolutizziamo tutto. In realtà è un problema che riguarda l’intero sistema produttivo, perché su questi argomenti ci si interroga in tutte le aziende italiane, e riguarda anche il mondo della cooperazione, che è una parte molto importante - lo è sempre di più - del sistema produttivo italiano. Ricordava prima Poletti - nell’intervista con gli altri colleghi - che i lavoratori delle società cooperative sono un milione e centomila; i soci, se non sbaglio, sono otto-nove milioni; le cooperative, a differenza di altre aziende italiane, non delocalizzano. Insomma ci sono tanti aspetti da valutare, comunque il tema della produttività e dei diritti è sentito anche nel mondo della cooperazione. Naturalmente parleremo di questo anche con i nostri relatori. Intanto invito a salire sul palco il prof. Daniele Marini dell’Università degli Studi di Padova che presenta lo studio della Fondazione Nord Est, già in parte introdotto prima, sulla qualità del lavoro nell’impresa cooperativa. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 7 DANIELE MARINI Direttore scientifico Fondazione Nord Est Grazie e buongiorno a tutti. Naturalmente un ringraziamento anche da parte mia alla Presidenza, a Legacoop e al dott. Tumino, che ci ha seguiti operativamente in questo percorso di ricerca, ha già ampiamente dissodato il terreno e ha spiegato il tipo di lavoro realizzato che, ricordo, è un’indagine di tipo qualitativo. Sostanzialmente abbiamo cercato di studiare, per così dire, le “lepri” delle cooperative, cioè quelle che di fronte alla crisi hanno saputo reagire in modo migliore, per studiarne le cosiddette “buone pratiche”, sia dal punto di vista delle strategie imprenditoriali sia dal punto di vista delle politiche del lavoro. Un po’ di cose sono già state dette, vorrei partire però da questa immagine, (slide 4): non è ovviamente un tema nuovo, non sono dati nuovi, ma serve a ricordarci che la fase critica che stiamo vivendo - che per quello che è dato di sapere durerà ancora per diversi anni - segna un punto di svolta fondamentale nei nostri sistemi produttivi. Siamo di fronte a una crisi globale planetaria che cambierà e sta già cambiando gli assetti geo-economici del nostro pianeta e dello sviluppo e quindi con questo scenario alle spalle dobbiamo fare i conti. Per comprendere però come il sistema della cooperazione affronta la crisi, dobbiamo provare a domandarci come si arriva alla crisi. Se mi concedete la metafora, proviamo a immaginarci una persona che deve scalare una montagna, oppure deve fare un giro in bicicletta, e si trova davanti una salita impervia. Ecco, a questo punto vi sono due possibilità: se questa persona arriva allenata e adeguatamente preparata alla salita, a costo di un po’ di fatica e di sudore ha buone probabilità di riuscire a superare lo scoglio; se invece non è allenata, né adeguatamente preparata dal punto di vista tecnico, il rischio di essere stroncata a fronte della salita è molto elevato. Cosa abbiamo dunque fatto con i responsabili, le figure apicali delle cooperative che abbiamo interpellato? Abbiamo cercato di capire come si erano comportati nella fase precedente all’arrivo di questa crisi e questi sono i risultati delle interviste che abbiamo potuto realizzare. Innanzitutto c’è un primo aspetto di carattere valoriale, fondativo della cooperazione e delle cooperative e cioè che il centro è costituito dal lavoro, inteso secondo due aspetti fondamentali (slide 6): da un lato una dimensione che potremmo definire “mercatista”, cioè il lavoro inteso come promozione, riscatto sociale, occupazione, competitività per l’impresa, quindi una dimensione del lavoro legata al mercato; dall’altro invece una dimensione legata alla persona, che vede il lavoro come inclusione sociale, come sviluppo del capitale umano. Oltre a questo ovviamente c’è il tema della mutualità, che sta in sottofondo, e infine, non ultimo per importanza, il radicamento nel territorio. Ora, non sono elementi nuovi del sistema e dei valori di fondo del sistema produttivo cooperativo, ma è bene ricordarli, perché spiegano poi il modo in cui le cooperative hanno reagito alla crisi stessa. Provando a studiare e a capire quali sono le soluzioni strategiche che il mondo della cooperazione ha attivato nella fase di pre-crisi, possiamo riassumerle attraverso quattro punti (slide 7): il primo è, in linea di massima ovviamente, la tensione verso una progressiva crescita dimensionale delle strutture cooperative, in modo da realizzare una maggiore strutturazione e quindi, di conseguenza - secondo punto - l’acquisizione di capitali; non un’acquisizione fine a sé stessa, ma finalizzata all’accrescimento dimensionale delle strutture cooperative. Terzo punto: è stato messo in campo un mix di strategie che puntano ad ampliare l’offerta di prodotti e di servizi per i propri clienti e utenti, ma soprattutto si concentrano su quella che possiamo definire la produzione “immateriale”. Cosa vuol dire? Significa non solo prodotti, ma rivestire questi prodotti di brand, di comunicazione, di idea. Questo perché ci si è resi conto che nell’attività produttiva è sempre più centrale l’attenzione al cliente. Bisogna avere la capacità di cogliere i segnali che vengono dal mercato e dal cliente e per fare questo è Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 8 fondamentale gestire in maniera sempre più sistemica e integrata la propria filiera produttiva. Al quarto punto si può elencare una progressiva, ma per così dire cauta, apertura ai mercati internazionali. Bene, a questo punto abbiamo provato a mettere a confronto queste strategie imprenditoriali, attuate dalle cooperative, con un soggetto particolare, che in questi anni è emerso nel nostro sistema produttivo come leader del cambiamento industriale: la media impresa. Non sto qui a elencarvi le strategie delle medie imprese raffrontate con quelle del mondo cooperativo. Tuttavia, se ci fate caso, sono più gli elementi di comunanza che quelli di differenza: mondo della cooperazione e mondo industriale hanno molte più similitudini, dal punto di vista delle strategie aziendali, di quanto non sia pensabile. Ora, l’aspetto peculiare che è già stato qui introdotto prima - la centralità che il lavoro assume nel mondo della cooperazione - può essere riassunto in questi punti (slide 8). Il primo punto è il tema della stabilità: uno degli obiettivi fondamentali è offrire stabilità ai propri soci lavoratori; i contratti a tempo indeterminato sono di gran lunga prevalenti rispetto al lavoro flessibile, anche se si dice che il mercato ci chiede di essere sempre più flessibili. Non sono quindi eliminabili, ma si cerca di limitarne al massimo il numero. Quanto questo possa poi avere riflessi, successivamente alla crisi, in termini di produttività, resta un interrogativo. Il secondo punto è quello della coesione nei confronti del mondo del lavoro, dei lavoratori, dei soci lavoratori. Qui è già stato detto che, ancora in fase pre-crisi, le cooperative mettono in atto una pluralità di sistemi di gestione degli orari di lavoro, di coinvolgimento e informazione nei confronti dei propri lavoratori e soci, di valorizzazione delle pari opportunità e di conciliazione dei tempi: tutti strumenti che possiamo riunire sotto l’egida della coesione dei lavoratori. Al terzo punto c’è il tema molto interessante della professionalità e del merito: in 35 delle 47 cooperative che abbiamo intervistato si sono introdotti da diversi anni elementi di meritocrazia e di retribuzione variabile rispetto agli obiettivi. Come dire che a fianco di un’ottica di coesione solidaristica ci sono tuttavia anche elementi di valorizzazione del merito e questo dice molto delle trasformazioni che sono in corso all’interno del mondo delle cooperative. Per concludere, infine, su questa parte, quali sono i fattori di forza sui quali le cooperative hanno agito in fase pre-crisi? (slide 9) 1) il tema della reputazione, costituita dai diversi elementi elencati; 2) una grande capacità di organizzazione del lavoro e di revisione organizzativa rispetto alle esigenze del mercato; 3) l’aver puntato sulla professionalità dei propri lavoratori e dei propri soci attraverso diversi aspetti; 4) il radicamento sul territorio. A questi punti di forza corrispondono però anche alcuni punti di debolezza, inutile negarlo (slide 10). Il primo ha a che fare proprio con il territorio, cioè con il fatto che l’esperienza cooperativa non abbia una presenza così omogenea e diffusa su tutto l’ambito nazionale. Secondo punto, l’organizzazione è un aspetto positivo, come abbiamo visto prima, ma nello stesso tempo ha un lato B, per così dire, che è dato dal fatto che l’organizzazione, soprattutto quando diventa sempre più grande, pone problemi di competitività, di vischiosità dell’informazione, di tempi decisionali, di processi democratici decisionali all’interno delle cooperative, quando invece il mercato corre a una velocità ormai impressionante. Terzo punto di debolezza è il rapporto con la committenza, in particolare per quei soggetti lavorativi che lavorano con il pubblico, per i noti problemi di scarsezza di risorse, da cui deriva l’allungamento dei tempi di pagamento e così via. Bene, tutto questo è quanto, in estrema sintesi, è stato fatto nel periodo pre-crisi. Veniamo adesso al periodo della crisi (slide 12). La ricerca non ci consente di dare una Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 9 misura effettiva del peso che la crisi ha avuto sulle cooperative; ci basiamo su queste “lepri”, così come le ho definite prima. Se ci fate caso, poco più della metà delle imprese che abbiamo interpellato ha denunciato un peso accentuato della crisi, mentre le altre dichiarano di avere subito un effetto contenuto, o addirittura nullo. Se tuttavia togliessimo le cooperative del settore sociale, che in questo caso sono 8, perché dipendono strettamente dai rapporti con il mondo pubblico, vedete che gli effetti sarebbero molto più mitigati dal punto di vista quantitativo. Allora, quali sono le eccezioni, cioè le cooperative che di fronte alla crisi hanno conosciuto un impatto minore? In primo luogo le cooperative che operano su più tipologie di servizi; poi quelle che operano in territori non esclusivamente domestici, come la provincia o la regione, ma al contrario si muovono in ambito nazionale o internazionale; chi ha realizzato prodotti innovativi e ha diversificato i prodotti; infine due settori, il settore agroalimentare, che per definizione è anticiclico, e soprattutto la grande distribuzione, che hanno potuto realizzare quelle economie di scala che le cooperative più piccole invece non riescono a raggiungere. Che sia così provo a dimostrarvelo mediante un confronto delle variazioni percentuali dei diversi indicatori congiunturali fra il sistema industriale italiano e il sistema delle cooperative di produzione e lavoro appartenente a Legacoop (slide 13). Nella variazione tra il 2008 e il 2009, potete vedere come tutti presentano segno negativo. Ma il sistema della cooperazione sembra reggere molto meglio rispetto alla media del sistema industriale a livello nazionale. Qualcuno dice: “mal comune mezzo gaudio”, è però comunque un dato sicuramente significativo. Sul tema del lavoro, elenco solo brevemente tre cose: nella maggioranza delle cooperative interpellate sono stati utilizzati tutti gli strumenti messi a disposizione legati agli ammortizzatori sociali, sono state svolte molte iniziative anche legate alla formazione e al personale in cassa integrazione, c’è stato un maggior coinvolgimento dei lavoratori e dei soci nelle scelte - così come già accennato dal dott. Tumino - e infine è stato avviato un processo di riorganizzazione dal punto di vista produttivo e dei servizi. Alcune hanno anche assunto nuovo personale, nonostante la crisi, e sono state le cooperative che in fase pre-crisi avevanoo saputo gestire il personale in modo oculato (slide 15). Quindi, tre buone pratiche da segnalare a tutti per affrontare e per convivere con questa crisi (slide 14). Primo: innovare e diversificare; chi ha già fatto queste scelte in fase precrisi oggi riesce a veleggiare meglio all’interno di questa situazione. Secondo: concentrarsi sul proprio core business, cioè avere la capacità di vedere quali sono i settori o i prodotti che non vanno e concentrarsi meglio su ciò che si sa fare. Terzo: accorciare la filiera, cioè rendere più integrato il sistema produttivo con il quale si lavora per arrivare il più vicino possibile al cliente finale, per coglierne immediatamente i bisogni. Infine, quali sono i caratteri distintivi del mondo cooperativo? Abbiamo visto che, rispetto alle strategie, le medie imprese e le imprese cooperative perseguono sostanzialmente le stesse direzioni, tuttavia la cooperazione presenta almeno due tratti distintivi e peculiari (slide 19). Il primo ha a che fare, e non è una novità, con il tema del capitale umano e della sua gestione. È ontologico, è implicito che nella cooperativa le due sfere, la sfera dell’interesse individuale e quella dell’interesse dell’impresa, si sommino, poiché i soci sono essi stessi fondamento della cooperativa e quindi c’è in questo processo una sovrapposizione di interessi che non può venire meno e che coinvolge direttamente i lavoratori nella gestione e nel buon profitto della propria impresa. Quindi, il tema della partecipazione dei lavoratori è un tema che, in particolare oggi, diventa di grande interesse e attualità. Il secondo elemento ha a che fare con il tema della capitalizzazione: se guardiamo cosa è successo nel sistema produttivo italiano in questi anni e guardiamo la domanda interna, Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 10 che sappiamo essere in calo, osserviamo che in realtà il calo è dato non solo e non tanto dai consumi delle famiglie o da una minore capacità della spesa pubblica, ma soprattutto da un mancato investimento da parte del sistema delle imprese negli investimenti fissi lordi. Questo è un aspetto problematico, perché se facciamo una comparazione a livello internazionale vediamo che il nostro Paese è messo meno bene rispetto agli altri. Al contrario, dalle interviste realizzate abbiamo rilevato che le cooperative hanno fortemente capitalizzato negli anni, si sono patrimonializzate. Questo consente, da un lato, una maggior strutturazione della propria impresa, dall’altro, di presentarsi al mondo del credito in modo più trasparente, infine garantisce quella che possiamo definire la continuità di impresa, cioè il fatto che la cooperativa possa sopravvivere rispetto ai propri soci fondatori. Termino con alcune indicazioni per il futuro del modello cooperativo così come ci viene riconsegnato dai nostri interpellati e lo faccio in modo un po’ provocatorio, per polarizzazioni tra la tradizione e l’innovazione, tra ciò che è la cooperativa quando nasce e quelle che sono invece le sfide che ha davanti a sé (slide 25). Il primo aspetto riguarda il tema della partecipazione e quello che possiamo definire il “solidarismo egualitario” che caratterizza la nascita dell’esperienza cooperativa. Oggi c’è al contrario il problema di decidere velocemente e di introdurre elementi che qui definisco di “meritocrazia solidale”, in risposta a un mercato che si sta muovendo in modo più rapido, più veloce e che richiede quindi l’individuazione di un nuovo equilibrio. Secondo: radicamento territoriale sì, ma anche internazionalizzazione, perché a fronte di una domanda interna che è così bassa, è solo l’apertura ai mercati internazionali che ci consente di acquisire nuove capacità, nuove potenzialità. Terzo: c’è tutto il tema dei valori cooperativi e della loro trasmissione: oggi è sempre più complicato, in particolare nei confronti delle nuove generazioni, anche perché la trasmissione di questi valori non è più implicita nell’esperienza cooperativa. Quarto: passare dalla logica del fare alla logica del comunicare e del rappresentare, così come ci consegnava l’introduzione di questa mattina. Ovvero non è più sufficiente fare bene un prodotto, ma bisogna saperlo anche comunicare e soprattutto rappresentare, quindi il mondo della cooperazione deve cominciare a far parlare di sé all’esterno. Infine c’è il tema dell’autonomia della cooperazione: ogni singola cooperativa si percepisce in termini autonomi, ma un eccesso di autonomia porta all’autonomismo e all’isolamento e quindi oggi si chiede all’associazione, a Legacoop, di funzionare di più con una progettualità associativa forte, per aiutare le imprese cooperative a vivere in questo mondo globalizzato. Grazie. GIULIANO GIUBILEI Grazie professore, ci sono moltissimi spunti interessanti in questo studio della Fondazione Nord Est, che magari approfondiremo. Però, visto che abbiamo qui il segretario della CGIL, non mi posso esimere dal fare il giornalista, anche perché non è una questione solo di attualità, ma davvero forse sono in gioco, in questi giorni, anche i destini di buona parte delle dinamiche, delle prospettive di sviluppo per il mondo del lavoro. Sappiamo di cosa stiamo parlando: sul tema produttività e diritti, oggi, tra poche ore, comincia la grande scommessa del referendum a Mirafiori. Mi pare che, rispetto a qualche giorno fa, in queste ultime ore ci sia più incertezza rispetto all’esito del referendum e anche l’iniziativa di ieri della Fiat di promuovere assemblee dentro ai reparti forse ne è un segnale. Comunque, al di là del risultato che ancora non possiamo conoscere, che cosa si gioca il sindacato, in tema di produttività e soprattutto di diritti, in questa partita? Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 11 SUSANNA CAMUSSO Segretario Generale CGIL Noi abbiamo una regola nel sistema elettorale, ovvero che nelle ultime ventiquattr’ore prima del voto si spengono i microfoni. Forse anche i lavoratori di Mirafiori hanno diritto a questo, a non essere sottoposti a ogni pressione possibile e immaginabile, perché una delle tante ingiustizie di questa vertenza è che si sta caricando su dei lavoratori non solo il tema del loro destino e della loro condizione di lavoro, ma anche una teorica, ideologica partita, tutta simbolica, come se da lì passassero i destini del Paese. Mi verrebbe da dire che se fosse davvero così, forse il Governo non se ne sarebbe potuto accorgere all’ultimo minuto, schierandosi in campo il giorno prima. Se stessimo proprio parlando del futuro dell’industrializzazione, il Governo avrebbe dovuto essere il soggetto che definiva quegli investimenti, le loro caratteristiche e le prospettive. C’è poi un’altra vicenda, sempre più simbolica, rispetto all’accordo Mirafiori, che è quella che sostiene che “questa è la strada della produttività” e teorizza, pratica e scrive che c’è un’alternativa tra il cercare produttività nello stabilimento e negare ai lavoratori la loro libertà di opinione - di rappresentanza, di sciopero - perché per carità anche questa è una libertà fondamentale. È una tesi che noi non condividiamo, ma devo dire che qui siamo in una sede in cui discutiamo di realtà che non hanno mai posto un tema di questo tipo. In più vorrei che si cominciasse a ragionare di produttività non come problema che è risolto dall’intensificazione della prestazione produttiva dei lavoratori. Per affermazione della Fiat, il costo del lavoro e l’attività dei lavoratori valgono sulla produzione automobilistica l’8%; l’intensificazione dei ritmi, la riduzione delle pause, probabilmente fanno un 2% di quell’ 8%. Lo spostamento dal trasporto su gomma al trasposto ferroviario della produzione probabilmente determina un risparmio molto più alto e non peggiora le condizioni di nessuno; forse migliora le condizioni di molti, compresi di quelli che devono stare in coda in autostrada o in attesa dei carichi. Bisognerebbe ragionare davvero su quale è il risultato dello sforzo che si chiede ai lavoratori, perché poi quando parliamo di cooperative abbiamo un risultato che io giudico molto importante per i lavoratori e cioè che si è affrontata la crisi senza ridurre il personale. Però non è che quando si attua una riduzione degli orari di lavoro in settori come le imprese di servizi non si facciano dei sacrifici, non è che la scelta che si è dovuta fare di non avere gli stessi strumenti di ammortizzazione di altri settori non si sia tradotta in difficoltà. Ma una cosa è proporre e realizzare sacrifici, e incontrare difficoltà rispetto agli strumenti e alla crisi, avendo una scelta o una prospettiva, altro è l’idea “io gioco una scommessa, non so se rimarrò, non so per quanto tempo, non so se investirò davvero in questo paese, ma intanto sui lavoratori carico tutte le aspettative e le scommesse per rimanere o no”. Il termine che mi viene più vicino è quello di una profonda ingiustizia e dell’assenza di una responsabilità delle imprese rispetto al territorio e al Paese in cui operano; è un aspetto che un Governo dovrebbe evidenziare, mentre invece dice l’opposto. GIULIANO GIUBILEI Poletti, rispetto a queste tematiche il mondo della cooperazione naturalmente ha da dire la sua. Che cosa dice? Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 12 GIULIANO POLETTI Presidente Legacoop Noi da un certo punto di vista finiamo per far la parte di quelli che dimostrano che si può fare in un’altra maniera. Prendiamo il tema “o così o ce ne andiamo”: le cooperative non se ne possono andare e quindi per noi l’alternativa teoricamente diventa “o così o morte”. Se l’alternativa per quell’altro è “per non morire me ne vado”, per noi che non ce ne possiamo andare l’alternativa è “o così o morire”. E qualcuno dovrà pure fermarsi un attimo e dire: ma sapete che in Italia c’è un “branco di matti”, un milione e centomila lavoratori che stanno in imprese che hanno la simpatica caratteristica di non potersi porre questo tipo di domanda, ma che debbono affrontare il problema da un altro lato, cioè come riuscire a costruire un’impresa, salvaguardando la sua efficienza ed efficacia, e attraverso quale dinamica realizzarlo. Credo che questo sia un tema che va discusso; il che non vuol dire che non esista il problema della produttività del lavoro, del come dare più efficienza all’impresa, come competere nei mercati globali, ma che può essere solo una parte della discussione. Perché c’è tutto il tema dell’efficacia del Paese, e dell’efficienza e dell’efficacia dell’uso dei capitali e quindi degli investimenti. Di fronte a tutte queste problematiche, noi affrontiamo le cose, come anche lo studio visto prima ha ribadito, a partire da una logica di responsabilità e di compartecipazione; allora, questi temi possono essere affrontati su un versante tutto contrattuale, più partecipativo e cooperativo. Noi - Susanna Camusso lo sa - non è che siamo convinti che i contratti di lavoro così come sono fatti vadano benissimo, siano perfetti e non ci sia niente da cambiare. Siamo convinti che ci sono delle cose da cambiare e siamo pronti a discutere come cambiarle perché il problema dei problemi - checché se ne dica - sta nel fatto che il costo del lavoro in Italia è alto e il reddito dei lavoratori è basso. E se teniamo questi due perni come assolutamente immodificabili, alla fine facciamo sempre a botte, perché non ce n’è per nessuno: per l’impresa c’è il problema dell’alto costo, per il lavoratore c’è il problema del basso reddito. Allora dobbiamo prendere un po’ di coraggio, entrare dentro a questa dinamica, ragionare sulle forme e sulle modalità che consentono anche di modificare qualcosa lungo la nostra storia. Perché i nostri contratti sono anche un po’ la stratificazione storica di un impianto in cui, a ogni rinnovo, abbiamo aggiunto qualche norma in più, qualche vincolo in più e non abbiamo mai tolto niente di quello che storicamente avevamo messo. Se allora affrontiamo questa dinamica in una logica di cambiamento contrattato e possibilmente condiviso, probabilmente facciamo una cosa un po’ più utile che una “guerra santa”, il nuovo contro il vecchio, chi è con il passato e chi con il futuro, quando poi alla fine la sostanza rimane quella da cui siamo partiti, cioè che il lavoro costa tanto e i lavoratori guadagnano poco. Noi cerchiamo di stare dentro a questa forbice non assumendola come un dato assoluto e immodificabile e proviamo pian piano a scardinarla. GIULIANO GIUBILEI Bene, grazie, intanto cominciamo anche a entrare nei temi della cooperazione. Ecco professore, prima dicevo che a leggere i giornali e guardare la televisione sembra che in questi giorni esista soltanto la Fiat. Invece questo tema del lavoro, della produttività e dei diritti naturalmente riguarda l’intero sistema industriale italiano. Quindi, nella sua ottica, come si affronta questa tematica in termini più generali? Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 13 CARLO DELL’ARINGA Università Cattolica di Milano È stato accennato anche dal Presidente questo tema della tenaglia tra costo del lavoro e busta paga netta. Vero, c’è un discorso fiscale da fare e mi sembra che sia uno degli ambiti su cui le parti sociali hanno iniziato un lavoro di collaborazione. Ecco, ogni tanto bisognerebbe anche ricordare i terreni su cui si è avviato un lavoro proficuo, che si può sperare vada avanti e porti a qualche risultato, perché è forse uno dei pochi tavoli esistenti nel nostro Paese che si propone di affrontare il problema nella sua generalità per individuare vie d’uscita valide per tutti. Anche perché non è stato ricordato un elemento che è fin troppo banale ribadire, ma che purtroppo da economista in queste occasioni devo sempre ricordare: che questa tenaglia stringe particolarmente in un Paese che da dieci/quindici anni non si sviluppa. Allora, quando non c’è niente da distribuire si scatena la lotta tra i poveri o fra le fazioni, fra i gruppi che rischiano di diventare fazioni proprio per difendere le proprie posizioni. Fa piacere sentire le considerazioni di Marini sul mondo delle cooperative. Anch’io sto facendo alcune riflessioni e un po’ di studio, nell’ambito dell’attività di Legacoop Emilia Romagna, proprio su questi temi e mi fa piacere che venga ricordato come la grande sfida anche del mondo cooperativo sia quella: si parla di innovazione, di internazionalizzazione - non certamente per scappare via ma per integrarsi - si parla di capitalizzazione. Queste sono le sfide. Mi sembra che il mondo cooperativo le abbia già affrontate, anche con casi di successo, e certamente c’è da andare avanti. C’è però un punto che forse vale la pena riprendere e che permette di legare un po’ le cose che abbiamo sentito sulle cooperative e quelle in cui il segretario Camusso è completamente coinvolta. Il mondo delle cooperative deve affrontare queste sfide facendo però salva l’ispirazione di fondo, che è quella dello scambio mutualistico basato sulla solidarietà e sulla partecipazione, e che permette di raggiungere risultati pregevoli anche in un periodo di crisi come questo. Ci sono problemi, messi in luce anche dalla ricerca, derivanti dalla necessità di affrontare la sfida della competizione, che anche le imprese cooperative, essendo inserite nel mercato dei prodotti e dei servizi come tutte le altre, devono affrontare, facendo salvo però tutto un sistema che si basa sulla partecipazione, sulla solidarietà e sullo scambio mutualistico. Non è una sfida da poco. Non è, da come mi sembra di aver capito, una sfida vinta una volta per tutte, bensì una scommessa che vi tiene impegnati. Devo dire che mi affascina molto anche come studioso, perché ci sono questi due valori messi in gioco: la produttività e la solidarietà e qualità dei posti di lavoro. Mi piacerebbe capire, addirittura esserci dentro e vedere come alla fine si riesce a mettere insieme queste due cose. Perché se ci riescono le cooperative è chiaro che il mondo privato potrebbe avere in un certo senso dei suggerimenti, delle pratiche a cui fare riferimento. Devo dire che in questa attività di studio sono rimasto sorpreso come ci sia pochissimo contatto fra questo nodo della partecipazione - che mi sembra voi cominciate a porvi perché, diventando grandi, diventando più efficienti, come Marini ha messo in luce, avete un problema di governance, di far partecipare migliaia di soci nelle imprese anche più espansive e innovative - e i problemi che ci sono anche nel mondo privato, perché si parla di partecipazione anche lì. Sono due mondi che in questo momento si parlano poco, mi sembra di aver capito. Perché è chiaro che le une sono le imprese profit e le altre sono le imprese non profit; sono due mondi rimasti anche separati, ma guardate che le sfide ormai sono comuni e quindi - questo è anche un mio invito - forse una capacità maggiore di dialogo può essere utile. Dopodiché per lo sviluppo da cui dipende un po’ tutto - la creazione di ricchezza che può dar luogo a salari più elevati, risanare il debito pubblico, capitalizzarci - non c’è la ricetta magica, ma una lista di cose comincia a Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 14 esserci. Se non altro una: che le mancanze non sono dell’industria o di qualche settore dell’auto. Certo, qualcuno ha problemi più grandi di altri, ma si tratta di nodi di sistema, certamente non facili da affrontare e da risolvere. Ma quando parliamo di innovazione, di incentivi, di investimenti nella ricerca, nella qualità dei servizi pubblici, nelle infrastrutture, nella cultura industriale, nel rispetto dei diritti di proprietà, nella lotta all’evasione, nella lotta alla corruzione… insomma, quando si domanda ai grandi manager delle multinazionali perché non vengono in Italia, loro in genere rispondono in modo abbastanza rozzo e vi si può anche fare un po’ di tara. Però a volte è anche l’impressione che conta, è la reputazione del Paese che si crea in un certo ambiente e loro mettono in fila queste cose per spiegare perché non vengono a fare investimenti. Poi ci lamentiamo che la Fiat è da sola, è l’unica grande impresa ed è un caso isolato. Può darsi sia vero, come dicono i sindacati - tutti, mi sembra - che in tante altre realtà aziendali si riescono a fare gli accordi e che sono molto più quelli che si fanno di quelli che non si fanno, ma sembra esserci solo la Fiat. Attenzione però, perché la Fiat sarà anche un caso isolato, ma potrebbe rappresentare un universo di casi che sfortunatamente non abbiamo in Italia. E quindi creare anche condizioni favorevoli perché quei casi di grandi imprese che investono in Italia aumentino e la Fiat smetta di essere un caso isolato, potrebbe essere cosa da augurarsi. GIULIANO GIUBILEI Grazie professore. Allora, questo tema che mi sembra molto importante lo giro subito a Susanna Camusso. Abbiamo detto che non c’è solo la Fiat. Però se la Fiat può diventare un esempio, smettere di essere un caso isolato e se quel modello che vuole imporre in Italia non possa servire magari ad altri investitori stranieri per stimolarli a investire in Italia, allora a questo punto la lotta del sindacato potrebbe rendere più difficile questa prospettiva. SUSANNA CAMUSSO Intanto partirei però dalla necessità di descrivere il nostro Paese ogni tanto per quello che è e non per come viene rappresentato, perché c’è questa idea che la Fiat è l’unico investitore e per questo bisogna darle campo libero, in quanto esempio per il mondo. Abbiamo alle spalle due anni e mezzo di crisi. Molto si è parlato - giustamente lo hanno fatto anche le associazioni di Rete Italia l’altro giorno - del punto cui è tornato il livello dei consumi; si sta ragionando su come sta cambiando il risparmio delle famiglie, che è sempre stato la caratteristica fondamentale di questo Paese, di quanto se ne è consumato. Poco invece si è ragionato su come sono mancati gli investimenti e come gran parte anche della nostra stagnazione continui a essere dovuta anche al fatto che non sono ripartiti gli investimenti. Grande attenzione ai consumi, scarsa attenzione invece alla struttura e al suo rilancio. Eppure si potrebbe fare questo ragionamento con molta comodità, perché basta prendere regolarmente i dati della produzione industriale e guardare ciò che è destinato a beni durevoli e a beni di investimento rispetto a ciò che va a consumo. Possiamo dire con serenità che questo Governo non ha fatto nulla per incentivare gli investimenti, o l’innovazione, avendo magari un’idea di Paese in prospettiva e non limitandosi ad accompagnare o a non gestire la crisi. Ma se guardiamo quei dati e guardiamo chi ha investito, oltre a trovare una parte del mondo produttivo cooperativo, troviamo la media impresa di questo Paese che ha continuato a investire, che spesso è Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 15 produttore di tecnologie d’innovazione, che continua a essere presente nel nostro territorio e ad avere processi di internazionalizzazione progressiva, che applica i contratti, che fa gli accordi sindacali, che ha le retribuzioni mediamente migliori di quelle delle grandi imprese dell’auto e così via. Allora, perché non parliamo dei modelli positivi e ci immaginiamo ogni volta che bisogna partire dal fatto che c’è un colpevole e chi ha comunque ragione? Possiamo discutere serenamente sul fatto che in questo momento la Fiat sta perdendo quote di mercato e i suoi competitori europei le stanno acquisendo perché hanno presentato durante la crisi nuovi modelli, mentre noi non sappiamo ancora se ci sono nuovi modelli Fiat? Ogni tanto bisognerebbe parlare non delle colpe dei lavoratori, che non si capisce perché diventino il punto fondamentale… Ma se Fiat non vende le macchine, forse c’è qualcosa che non sta nella responsabilità dei dieci minuti di pausa, ma nella scelta che ha fatto o non fatto di investire e di porsi in concorrenza con gli altri, avendo anche il coraggio di fare investimenti in mezzo alla crisi. Queste mi paiono le domande vere, perché se si dice che chi sta sopravvivendo alla crisi è chi ha investito prima, chi ha innovato, chi ha continuato a pensare ai prodotti che metteva sul mercato nonostante la crisi, bene, la sfida è questa. E lo è per un’azienda nazionale, come per un’azienda multinazionale. E vorrei anche dire che ci sono molte imprese, anche grandi, nel nostro Paese che hanno continuato a investire e nessuna di queste ci ha chiesto di cambiare le regole della democrazia in azienda e le condizioni di lavoro. Forse quando si parla dei paradigmi bisognerebbe parlarne con un’attenzione un po’ diversa e anche senza dare per scontato che c’è chi è comunque bravissimo e ha fatto tutto e chi ha la colpa delle situazioni. Diceva giustamente il Presidente Poletti, poco fa, cose assolutamente evidenti: noi sui contratti dobbiamo ragionare. Bisogna semplificarli, bisogna cambiare il sistema fiscale di questo Paese, perché è un sistema ormai sempre più esplicitamente favorevole alla rendita e alla finanza e sfavorevole al lavoro e all’impresa. Tutte queste cose vanno fatte, però forse bisogna ogni tanto porsi la domanda se quello che urla di più ha ragione oppure se anche lui deve misurarsi con qualche errore di strategia e qualche problema che non si può poi scaricare sul Paese. GIULIANO GIUBILEI Tra l’altro lo stesso Presidente della Repubblica ha ricordato a Marchionne che la produttività non dipende soltanto dal lavoro degli operai, che ci sono tante altre componenti che la determinano… SUSANNA CAMUSSO È lo sforzo che stiamo facendo al tavolo delle parti sociali, che anche il Presidente conosce bene. È un tavolo anche un po’ complicato, perché le associazioni d’impresa sono un numero infinito e i sindacati sono pluralisti pure loro, e avere tutti la stessa lettura di quello che sta succedendo è una fatica. Quando però abbiamo iniziato a discutere anche di quale agenda stabilire sulla produttività, per vedere come affrontarla, è immediatamente emerso che c’è una relazione tra la produttività del sistema e ciò che si può fare dentro all’impresa, ma c’è anche una responsabilità delle imprese. Poi ovviamente bisogna parlare anche del lavoro, ma se un’impresa non fa ricerca, non innova, non ha nuovi prodotti, la sua quota di responsabilità rispetto alla produttività non viene esercitata. Non si può sempre trovare un solo punto. Questo mi pare il grande tema, che appunto il sistema delle imprese e il sistema della rappresentanza sindacale stanno provando ad affrontare, con tutta la fatica che questo Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 16 richiede, ma non mi pare invece che lo affronti il Paese e, mi si permetta, non lo affronta un’informazione che si accorge del lavoro solo quando lo può trasformare in un ring. Se c’è il ring sul lavoro, allora si parla tutti i giorni del lavoro, di come è fatto questo Paese, della sua quotidianità e delle sue difficoltà. Altrimenti invece non si riesce mai a parlarne. GIULIANO GIUBILEI Si, questo è il limite dell’informazione, perché stavo proprio dicendo che effettivamente anche noi rappresentiamo la vicenda Fiat solo dalla parte del lavoro, della divisione tra la Fiom e la CGIL. Però è una divisione che in effetti esiste in questi giorni ai cancelli di Mirafiori, vi sono stati anche momenti poco edificanti. Però pochi giornali, nel complesso del sistema dell’informazione, si sono chiesti perché la Fiat non vende più le sue auto. Quando c’è da fare l’autocritica sulla stampa io ci sto sempre, perché effettivamente semplifichiamo e banalizziamo sempre tutto. Invece, volevo chiedere a Poletti: la Camusso parlava di modelli positivi che ci sono nel mondo delle imprese e questa ricerca della Fondazione Nord Est ci dice, in pratica, che le aziende cooperative naturalmente finiscono per rispondere alle regole di mercato e quindi per assomigliare alle altre aziende, perlomeno alle medie aziende. Allora, quale è ancora la caratteristica distintiva del modello cooperativo rispetto al modello aziendale per così dire normale? GIULIANO POLETTI È del tutto evidente che il nostro tratto distintivo è la responsabilità del socio lavoratore, del socio utente che dentro all’azienda cooperativa ha la possibilità di esercitare il proprio ruolo in una maniera attiva diversa da quella che può essere esercitata in un’altra condizione. Su questo, non è che il mondo cooperativo possa in qualche modo sentirsi fuori dalla discussione, perché anche la ricerca ci dice che alcuni dei fondamentali su cui si è costruita la storia dell’impresa cooperativa entrano in tensione quando cambiano i mercati, quando cambiano i tempi della decisione, quando cambiano i modelli organizzativi, quando cambiano le dimensioni. E il rischio è - questo è un grande problema - che ci sia una monocultura. Noi da anni stiamo battendo il chiodo, e continueremo a farlo con forza, sul tema del valore positivo del pluralismo delle forme d’impresa. Perché se si afferma l’idea del pluralismo delle forme d’impresa si afferma anche l’idea di un pluralismo delle modalità d’essere delle relazioni industriali, del ruolo del lavoratore nell’impresa, della relazione tra l’impresa, il contesto e il territorio. Perché le ricette non ci sono, non c’è l’impresa grande che va bene e la piccola che va male. Adesso siamo di fronte a dei processi di deindustrializzazione più forti di quelli che abbiamo conosciuto in molte altre fasi, perché le crisi in questi tre anni ci sono state, ci sono dei pezzi di Italia dove ci sono chilometri quadrati di capannoni vuoti. Cosa ce ne facciamo? Domanda: c’è qualcuno che pensa che le ragioni per le quali le imprese che stavano in quei capannoni hanno chiuso o se ne sono andate saranno ragioni sufficienti perché nessuno venga a rioccupare o reindustrializzare quei capannoni? Ma se è così, cosa dobbiamo fare, allargare le braccia e dire “ormai così è andata e non si può fare niente”? C’è una grande questione di democrazia, una grande questione di partecipazione, di rappresentanza. Lo dico a Susanna Camusso che lo sa meglio di me. Quando un lavoratore, per far valere il rischio che corre di perdere il posto di lavoro, ha come ultima alternativa l’andare in cima ad una gru, ci dobbiamo chiedere che cosa è successo. Dieci anni fa non andava in cima alla gru. Dieci, vent’anni fa trovava altri cento lavoratori che come lui avevano quel problema e insieme si organizzavano sul piano sociale per Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 17 cercare di combattere quella situazione e trovare una risposta. Adesso, se non drammatizzi la sofferenza non ottieni niente e alla fine il posto te lo danno perché sei andato in televisione, non perché hai diritto ad avere un posto di lavoro perché hai organizzato una società che produce i posti di lavoro; ti sei salvato perché sei andato all’Asinara e sei stato chiuso quattordici mesi dentro al carcere dell’Asinara. Ma c’è qualcuno che pensa che possiamo prendere i 500, 600, 700mila lavoratori che hanno perso un posto in questi 24 mesi e chiuderli tutti all’Asinara? C’è qualcuno che comincia a pensare cosa diavolo è capitato? Qui c’è un problema di democrazia, c’è un problema di rappresentanza, quindi è un problema anche per noi, per le organizzazioni che rappresentano le imprese e i lavoratori. Dobbiamo ricostruire delle logiche, delle modalità per cui un lavoratore che sta dentro un’organizzazione si senta effettivamente rappresentato. È una questione complicata, ma abbiamo bisogno di rappresentarla, perché se non la affrontiamo vuol dire che ognuno si sentirà da solo. Se si sente da solo, si arrende - nella logica del “non ci si può fare niente” - oppure si tira su le maniche e ci prova in qualche modo. E fioriscono le partite iva e qualcuno dice “bene che fioriscano le partite iva”, ma io dico “occhio agli scogli”: una parte importante di quelle partite iva sono lavoratori a cui l’impresa ha detto “il lavoro per te non ce l’ho più, magari ce l’ho per tre giorni alla settimana o per due, fai una cosa, prenditi la partita iva, io ti faccio lavorare due giorni e poi tu, con la tua partita iva, provi ad andare a lavorare un altro giorno da un’altra parte”. Siamo sicuri che è una gran bella cosa rispetto al fatto che quel signore dodici mesi prima aveva un posto di lavoro normale? Io non lo drammatizzo, né lo considero un disastro, però lo leggo per quello che è: faccio fatica a dire che è una grande voglia di fare impresa, perché quelli che vogliono fare impresa, secondo me, in genere non ci arrivano per quella strada. Ritengo che quello della “disperazione”, di chi si arrampica sulla gru, sia un tema rivolto a tutti quanti: al sistema della rappresentanza, a partire dalla politica per finire al sindacato, passando dalle organizzazioni di rappresentanza, che devono immaginare modalità efficaci in forza delle quali si possano costruire percorsi dove siano individuabili i passaggi di responsabilità, gli obiettivi e la ricerca dei risultati. Non è semplice, mi rendo conto, ma se ci arrendiamo a questo passaggio probabilmente andiamo incontro a giorni molto brutti. Il mondo cooperativo questo tema lo sente in maniera particolarmente rilevante, perché parte dalla responsabilità del soggetto, dell’individuo, del lavoratore, dentro all’azienda cooperativa, come uno dei suoi punti di forza e se viene “assoggettato a crisi” perde una delle sue leve fondamentali. Ritengo che noi dobbiamo avere questa consapevolezza, avere la disponibilità a metterci in discussione, ma non partire dall’idea che dal momento che siamo cooperativa va tutto bene; al contrario, abbiamo di fronte delle sfide persino più complicate di altri e in più abbiamo il problema di tenere insieme l’eccellenza imprenditoriale con la buona qualità cooperativa e questo vale anche durante la crisi. Perché la crisi non ci fa lo sconto, né possiamo accettare l’idea che siccome c’è la crisi possiamo essere un po’ meno democratici, un po’ meno partecipati, un po’ meno trasparenti. Noi non siamo un Marchionne un po’ più educato, siamo un’altra cosa; dobbiamo continuare a pensare che realizziamo una dinamica che parte da un altro punto di partenza e che probabilmente arriverà da un’altra parte. Questa è la scommessa e il professore fa una precisazione a mio avviso molto importante: noi abbiamo bisogno di costruire un dialogo tra posizioni diverse, proprio perché non possiamo copiare gli altri, o ridurci a essere quelli che prendono “il modello Marchionne” - per usare lo stereotipo del giorno - e gli danno una riverniciatina democratica cooperativa. Noi dobbiamo costruirci le nostre dinamiche, la nostra cultura e confrontarla; dobbiamo competere con gli altri modelli di impresa. C’è il modello cooperativo e c’ è quello dell’impresa di capitali; stanno sul mercato e vengono scelti per Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 18 la loro efficienza, la loro efficacia, la loro capacità di competere. Se la mettiamo in questi termini, probabilmente siamo un valore per questa Nazione: credo che questo tema della partecipazione e del lavoro - sia per l’impresa cooperativa uno dei terreni dove si misura la sua specificità e il suo valore sul piano nazionale. GIULIANO GIUBILEI Eppure, prof. Marini, dall’inchiesta, dal vostro studio, al di là di tanti aspetti interessanti, è venuto fuori che comunque le imprese cooperative nel complesso hanno retto meglio di altre alla crisi. Se però, come diceva Poletti, non è perché che le cooperative hanno avuto sconti, allora come hanno fatto, che cosa hanno messo in campo per reggere meglio alle sfide della crisi? DANIELE MARINI Al di là dell’aspetto della gestione del personale, dove, come abbiamo visto ed è noto, hanno saputo reggere meglio l’occupazione, l’elemento a mio modo di vedere cruciale è legato alla questione della capitalizzazione delle imprese cooperative, alla loro patrimonializzazione, cioè la loro solidità economica. Perché se un soggetto ha accumulato nel tempo una sorta di salvagente, è chiaro che quando la situazione diventa critica può utilizzare quel salvagente per affrontare meglio la crisi. Questo, unito alle strategie delle imprese così come le abbiamo viste, molto simili a quelle delle medie imprese, che sono i driver dello sviluppo, è quell’elemento in più che può aver consentito al sistema cooperativo di reggere meglio. Volevo però su questo dare alcune sollecitazioni rispetto a quanto è stato detto, che mi trova molto d’accordo. Primo: mi piacerebbe che passasse il messaggio che quello che stiamo vivendo è una fase di cambiamento epocale. Questo significa che dobbiamo assumere schemi cognitivi e interpretativi diversi da prima, cioè che non c’è più il bianco e il nero, non c’è più uno sviluppo lineare in un senso o nell’altro. Dovremmo, invece, assumere l’ottica, l’occhio, le lenti, diciamo così, del molteplice, o del paradossale, se volete. Non si può mettere in contrapposizione la localizzazione territoriale con l’internazionalizzazione, perché questo dipende dai settori, dalle imprese. La crisi cosa fa? Mette appunto in crisi le vecchie categorie, la contrapposizione tra piccola e grande impresa, la distinzione tra settori più produttivi di altri. Richiede cioè anche un aggiornamento dei linguaggi, dei codici e del modo in cui vediamo le cose. Sono assolutamente d’accordo con la Camusso che - per riprendere un vecchio detto indiano - noi siamo attenti all’albero che cade ma non vediamo l’erba che cresce”. L’erba che cresce in realtà, se la mettiamo insieme, è molto più grande dell’albero che cade. Allora, tutte le buone pratiche che esistono, a diversi livelli, in diversi settori, nelle medie imprese che sono state citate - ma penso per esempio anche all’area “nordestina” del sistema delle imprese, che è fatta prevalentemente da piccole imprese, dove nasce tutto il sistema della bilateralità fra lavoratori e associazioni delle imprese, che ha dato grandi frutti e grandi sviluppi negli anni precedenti - tutte queste altre esperienze, e altri modi di vedere vanno assunti, presi in considerazione. Cioè, in altri termini, bisogna sviluppare quello che i formatori chiamano il pensiero laterale. Cioè, di fronte a un problema non si può continuare a sbattervi contro soltanto da quel punto di vista, bisogna guardare anche le altre soluzioni. Termino con l’ultima indicazione: qui il problema vero è che dobbiamo imparare a sviluppare un pensiero complesso della progettazione dello sviluppo. La produttività non è soltanto dentro all’impresa, ma sta anche fuori dall’impresa, e una delle cose che ci Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 19 raccontano le imprese, sia le cooperative sia anche quelle private del mondo industriale, è che i problemi cominciano fuori dai cancelli: lo stato delle infrastrutture, il rapporto con il sistema della formazione, il supporto alle imprese nell’internazionalizzazione, il livello della domanda interna. Un’ultima considerazione: facendo l’analisi congiunturale trimestrale sulle imprese, negli ultimi due anni, dal 2008 all’ultimo trimestre, il portafoglio ordini delle imprese, della metà delle imprese, risulta non più lungo di un mese. Nell’ultimo trimestre questo dato tende un po’ a scendere e arriva intorno al 40%. Allora, se un’impresa, un sistema produttivo, ha una prospettiva che non supera il mese, è difficile fare investimenti, fare occupazione o innovazione, perché non so cosa mi succederà il prossimo mese. Se a questo uniamo un contesto politico - nel senso generale del termine di sistema Paese che è sostanzialmente bloccato, voi capite bene che solo azioni di sistema possono aiutare a riprendere lo sviluppo economico. GIULIANO GIUBILEI Grazie. prof. Dell’Aringa, prima vedevo che Lei annuiva mentre Poletti parlava del dialogo tra modelli di imprese, diciamo tra il modello di impresa “normale” e quello cooperativo. Ritornando al tema del nostro dibattito - produttività e diritti - c’è un problema di diritti anche nel mondo della cooperazione? Poletti diceva che la crisi non fa sconti, ma invece ci può essere un approccio diverso, proprio perché il lavoratore spesso è socio, perché poi le cooperative si muovono in ambiti diciamo economici complessi, ci può essere uno sconto invece sul tema dei diritti che genera la necessità di una riflessione, di una discussione? CARLO DELL’ARINGA E se invece di diritti parlassimo di sacrifici? Qui lo scambio mutualistico è nel bene e nel male, come nel matrimonio. Non è un caso: quando si dice che si è resistito alla crisi è perché, oltre agli istituti che nel nostro paese funzionano bene come in altri - che hanno permesso di reggere sul fronte del lavoro alla crisi, anche grazie all’impegno delle parti sociali e delle Regioni, oltre che del Governo - le cooperative, soprattutto quelle di lavoro ma non solo, hanno avuto al loro interno degli ammortizzatori fortissimi. È la solidarietà, che si manifesta soprattutto nei momenti di difficoltà, è la condivisione. Nelle imprese capitalistiche si chiamerebbe capitalismo un po’ più condiviso, un po’ più partecipato. Ecco perché loro hanno una sfida ancora più forte, come ha detto anche il presidente. Perché gli obiettivi sono ancora più ambiziosi. E quello che io non credo è quello che qualcuno potrebbe dire, cioè “siamo due mondi diversi, là c’è il profit e qui non c’è il profit”, perché le sfide dei mercati sono uguali e l’esigenza dei valori della rappresentanza, della democrazia, della solidarietà non sono da una parte e non invece dall’altra. È per questo che credo che il mondo cooperativo sia un osservatorio, una palestra interessantissima: nelle grandi cooperative di consumo non c’è un problema di partecipazione dei lavoratori? E lo stanno affrontando. Come lo stanno affrontando? Rappresenta una cartina di tornasole del successo del modello in questi momenti e lì bisogna guardare secondo me. Non voglio fare una difesa d’ufficio di questo mondo, ma lo vedo molto stressato, con qualche indizio talvolta di lacerazione, ma con una forte capacità di reazione radicata nella storia che si vuole preservare. Quindi, Lei mi chiede se hanno dovuto rinunciare a dei diritti. Non credo, ma quasi per definizione, perché quelli sono l’ultima, proprio l’ultima cosa cui si può rinunciare, perché prima c’è tutto il resto, non c’è nemmeno la discussione su questo. Poi bisogna Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 20 vedere se sono stati lesi i diritti in casa Fiat, ma non sono io a dirlo fra gli interlocutori…Ma, posso dire solo una cosa? Io non faccio parte, lo si sa, di quella corrente, che fra l’altro si sta ingrossando, di chi dice che l’Italia va male perché il mercato del lavoro è rigido e le relazioni industriali non funzionano. È chiaro, lo dico sempre: manteniamo distinte le cose. La ricerca e l’innovazione non dipendono dai sindacati dei lavoratori - per rimanere all’interno dell’impresa - ma è soprattutto quello che manca all’esterno che condiziona anche questo. Il segretario Camusso sa bene che anche se il lavoro conta il 5% quando è compenetrato con il capitale nei turni, nelle pause, nell’orario di lavoro, quando non funziona uno non funziona neanche l’altro o non funziona secondo le aspettative di chi deve investire. Ci sono delle complementarietà che non vanno dimenticate, dopodiché è chiaro che tutto l’aspetto della ricerca e dell’innovazione rimane in capo soprattutto a chi ha la responsabilità imprenditoriale, di questo non c’è dubbio. Bisogna anche riconoscere che, da qualche anno a questa parte, esistono divisioni nel sistema delle relazioni industriali, soprattutto all’interno di quelli che dovrebbero essere i gruppi contrapposti. Perché anche dalla parte degli imprenditori ci sono visioni diverse; talvolta non emergono allo scoperto, perché loro sono più in grado di mantenere i dibattiti al loro interno, ma ci sono diverse opinioni anche a proposito di quello che sta succedendo. Ora, c’è un ricompattamento che deve essere realizzato all’interno: riprendere le fila da quello che era il 2008, da un accordo che si era cominciato a fare all’interno del sindacato. Perché quando si dice che il caso Marchionne non è isolato, lo è anche per questo aspetto, perché in qualche misura è frutto anche di un sistema di relazioni industriali che ha visto un contratto dei metalmeccanici una volta firmato e una volta non firmato, un accordo sulle regole contrattuali dei contratti collettivi firmato da qualcuno e non dall’altro, si doveva fare l’accordo sulla rappresentanza e poi non si è fatto. Poi l’incidente può succedere, quando il contesto è di questo tipo, ed è successo un incidente grosso. Allora, il mio invito è, guardando cosa succede nel mondo cooperativo, anche dagli incidenti - manifesto la mia origine cattolica - la Provvidenza potrebbe spingere a trovare qualche soluzione che altrimenti forse non si sarebbe trovata, per atteggiamento e comportamento un po’ tradizionalista delle parti in gioco. GIULIANO GIUBILEI Camusso, giro questa riflessione del professore che tocca anche i temi della rappresentanza e del dopo referendum, se vogliamo guardare a dopodomani, quando usciranno i risultati. Che cosa pensa di fare il sindacato su questo? SUSANNA CAMUSSO Questi poveri lavoratori di Mirafiori bisogna proprio sempre metterli in mezzo… Io credo che in realtà la domanda che dobbiamo farci è un po’ più complicata. Poi le soluzioni non sono difficili, se si ragiona su qual è l’origine del problema. Intanto, in questi due anni e mezzo sono successe nel mondo delle cose straordinarie, e il termine straordinario non ha di per sé un’accezione positiva. La crisi avrebbe potuto produrre una grandissima discussione sulla trasformazione dei sistemi; continuiamo a dirci che siamo di fronte a un cambiamento epocale. Io sostengo che, mentre ci domandiamo qual è il cambiamento epocale, c’è chi sta rimettendo le cose esattamente come prima. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 21 Questa è una prima domanda che bisogna farsi, perché se si rimettono le cose come prima, ritengo che vi sia un bene straordinario che si chiama democrazia che viene ridotto da questa scelta. La Grecia è lì a dimostrarcelo: se l’idea è che finanza e speculazione sono i motori che determinano tutto, i cittadini greci sono stati privati di una cosa fondamentale, cioè del diritto di decidere delle politiche del loro Governo, perché le ha decise la comunità senza nessuna dinamica democratica. Non vorrei che il sistema produttivo diventasse la stessa cosa e che il tema non fosse più che cosa fai, come lo fai, quanto lavori e così via, ma che per far funzionare quel modello tu sia come una caserma. Una caserma non è un luogo plurale, come è noto, non è una comunità di persone. Il mondo democratico deve essere un luogo “plurale”, non perché puoi lavorare in 27 modi diversi alla catena di montaggio, per carità, è chiaro che ci sono delle regole, ma avrai il diritto di mantenere una tua opinione differente, avrai il diritto, nel momento in cui non ce la fai più, di dire che bisogna cambiare. Avremo il diritto di dire che se c’è questa così pesante compenetrazione tra le condizioni di lavoro e le scelte che si fanno, forse a quelle scelte bisognerebbe partecipare. Sono tutte grandi domande di democrazia e non è banale il contesto che c’è intorno, perché l’idea che tutto debba essere deciso in cinque minuti… Si chiede ai lavoratori di decidere in cinque minuti delle loro condizioni, però, quando poi interessa, si tratta per due mesi l’acquisizione della Opel, senza riuscirci. Ci sono perennemente due metri e due misure, degli argomenti che vengono utilizzati per ridurre il tasso di partecipazione, di democrazia. Il tempo della decisione non può diventare la variabile più importante del processo democratico di decisione, perché altrimenti non ci saranno più le organizzazioni di massa. Ma se non ci sono le organizzazioni di massa e di rappresentanza, c’è una lesione democratica, non c’è qualcosa che funziona meglio. Io credo che questo sia importante e il nostro sistema questa domanda deve porsela: perché non a caso nel 2009 noi abbiamo detto - lo abbiamo detto anche a Poletti - che non è la stessa cosa un contratto, un accordo separato o un sistema di regole separato. Perché se si strappa sulle regole non c’è più il fondamento dei comportamenti reciproci. Ed è così vero che una parte del sistema, a partire da quello cooperativo, non ha poi dato seguito a un modello separato di relazioni; ha provato a dire “va bene, c’è quella roba lì e proviamo a fare delle altre cose”. E gran parte delle categorie industriali hanno fatto esattamente la stessa operazione. Perché lì è il vulnus, perché se sei un sistema plurale, un sistema plurale deve trovare come funzionare. Se non lo fa non è più efficiente; è meno democratico ed è anche un po’ meno efficiente, perché moltiplica gli strappi e invece di discutere di cose positive deve inseguirsi rispetto alle questioni negative. Il tema è davvero di grande spessore e la rappresentanza sindacale non è l’ubbia di qualche dirigente delle organizzazioni; è sapere che anche nei luoghi di lavoro funziona una democrazia e la democrazia funziona se il lavoratore può scegliere, perché se non può scegliere, se sceglie l’imprenditore per lui, credo che ci sia un vulnus democratico. Di questo stiamo in realtà parlando e discutendo, ed è ingiusto scaricare tutto questo su 5.000 lavoratori che contemporaneamente hanno anche il dubbio che quella scelta determini che abbiano un lavoro o meno, è il segno di un Paese che si sta facendo rotolare e non prova a ragionare di sé. L’esperienza cooperativa, ma anche l’esperienza che noi abbiamo fatto nel settore dove si sono fatti i contratti - quella dialettica che appare tutta in casa sindacale e che invece c’è esattamente anche da tutti gli altri - pone questa domanda: c’è una necessità per cui bisogna ridurre il tasso di libertà e di democrazia delle persone? C’è maggiore efficienza del capitalismo se c’è un tasso ridotto di democrazia e di partecipazione? Credo che non sia così, che sia possibile un altro modello. Mi pare che il mondo abbia ricominciato a tornare alla finanziarizzazione, alla svalorizzazione del lavoro, senza colpo ferire e senza dichiararlo, ma il tema è che se pensiamo che bisogna avere un modello di sviluppo diverso, questo passa non dalle Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 22 decisioni autoritarie ma dall’attenzione ai processi di opinione collettivi e dal fatto che si sviluppi maggiore partecipazione. La discussione in questa casa ovviamente è difficile, ma i consumi della distribuzione cooperativa e quelli della distribuzione privata sono gli stessi? Credo che non siano esattamente gli stessi. E allora, perché non si provano a fare un po’ di ragionamenti? Sarebbe proprio opportuno, perché la sovrapposizione e la stratificazione sociale sono sempre più complesse, non solo perché bisogna andare sulle gru, all’Asinara o così via, ma perché le persone di fronte a una crisi così profonda si danno delle risposte e cambiano i comportamenti. Se la rappresentanza non è in grado di leggerli, se il Governo di un Paese ignora tutto questo, perché in altro affaccendato - insisto - il vero tema è quello del vulnus democratico che si sta verificando. E io resto convinta - credo che sia in realtà il tema che poneva anche il presidente Poletti prima - che le caserme non siano più efficienti, anzi. Se poi parliamo di questo Paese, potremmo scoprire che sono anche molto poco efficienti, perché rinunciano alla cosa fondamentale, che è il contributo delle persone, il poter partecipare, è quella cosa che il lavoro cooperativo, ma anche il lavoro privato di questo Paese, conosce bene: che la grande industria manifatturiera e la grande industria di produzione nascono, certo, dalle scelte fatte, ma anche dalle competenze dei lavoratori progressivamente introiettati dentro la progettazione, l’innovazione e la ricerca. Esattamente l’opposto di una caserma dove devi irrigidire tutto. GIULIANO GIUBILEI Poletti, in conclusione, la ricerca indicava tre o quattro obiettivi per il futuro delle cooperative: la scommessa, la velocità decisionale e la meritocrazia - che forse è un valore, diciamo, non secondario - l’internazionalizzazione, il ricambio generazionale e altre cose. Ecco, rispetto a quei capannoni vuoti di cui parlava prima, la capacità del movimento cooperativo di stare sul territorio, di affrontare le sfide, può essere in grado di fare ritornare a lavorare, non dico tutti, ma almeno alcuni di quei capannoni? GIULIANO POLETTI Tutti no, qualcuno sì, anche per una condizione che ritengo vada considerata con molta attenzione. Questa crisi ha questa caratteristica generale, cioè stavolta non abbiamo pescato un settore che è andato in crisi. In passato eravamo abituati a crisi più o meno cicliche e più o meno settoriali, per cui entrava in crisi il settore dell’edilizia, ma la metalmeccanica, l’elettronica, i servizi, il resto, insomma, funzionava. Era un’economia che aveva una dinamica che segnava il passo su un certo punto, ma se tu eri un lavoratore, un imprenditore di quel settore guardavi il resto e dicevi “adesso passa e ci riattacchiamo alla ripresa”. Adesso ti guardi in giro e quelli di fianco stanno come te o peggio di te. Quindi l’idea “qui non ne veniamo fuori e quindi non c’è niente da fare” è un rischio molto forte; è il tema del portafoglio dell’impresa a quaranta giorni, è il tema del “non investo perché non so cosa succederà”. Ma se non investi sei dentro al ciclo che tende a rendere peggiore la situazione. Bene, io credo che oggi il mondo cooperativo possa essere una - certamente non l’unica e probabilmente neanche la più importante - delle leve, uno dei motori che possono pian piano ricostruire nuove opportunità di lavoro, nuove possibilità. Teniamo conto che chi ha costruito, ad esempio, le prime cooperative tra consumatori non erano quelli che avevano i soldi per fare la spesa, erano quelli che i soldi non ce li avevano. Siamo cioè Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 23 partiti da dei bisogni che non erano domanda, perché la gente non aveva i soldi per avere domanda; il mercato risponde alla domanda, non ai bisogni. Noi storicamente siamo riusciti a prendere dei bisogni, metterli insieme, organizzarli, farli diventare domanda e, dopo che sono diventati domanda, anche costruire la risposta: la cooperazione tra consumatori, ma anche la cooperazione tra lavoratori, la cooperazione tra artigiani, tra commercianti, tutto questo tipo di risposte. Io credo che siamo di nuovo lì: abbiamo bisogno di fare un lavoro, anche molto sofisticato da un certo punto di vista, molto quotidiano, molto faticoso, di andare a scavare all’interno delle pieghe della società e dell’economia, per tirar fuori tutti quei pezzi di lavoro, di economia, di impresa che non riescono a emergere, per farli diventare mestieri, lavoro, impresa e aiutare questa ripresa. Saranno piccoli? Sì, saranno piccoli. Ma - lo dicevamo prima - se l’azienda che stava in quel capannone ha chiuso, non ne arriverà una dal cielo che va lì a fare le stesse cose. Quindi bisogna inventarsene un’altra, bisogna assumere un’altra logica. E questo può accadere soprattutto se il cittadino utente, o il cittadino lavoratore, decide di mettersi sulle spalle questa responsabilità e comincia a costruire, o a ricostruire, questa dinamica. Bene, credo che questo sia un tema importante per il mondo cooperativo, che è fatto quindi da due grandi pezzi: la cooperazione che c’è, che deve innovare, nazionalizzarsi, crescere, essere competitiva, ma c’è anche la cooperazione che non c’è, quella che bisogna costruire, che bisogna far nascere. Noi parliamo della gente che ha perso un posto di lavoro. Ma qualcuno ha fatto il conto di quanti giovani neolaureati in questi tre anni hanno finito l’università e non sanno dove sbattere la testa, perché il mercato del lavoro è un muro che non si scala? Bene, noi abbiamo cominciato a costruire le cooperative che abbiamo definito “del sapere”, le cooperative tra professionisti. Perché? Perché fino a ieri avevamo la cooperativa degli architetti, la cooperativa degli ingegneri, la cooperativa dei giornalisti, la cooperativa dei medici; oggi proviamo a costruire una cooperativa multi-professionale, dove l’integrazione delle professioni dà un prodotto nuovo. Ieri l’architetto ci dava il disegno dell’architetto, l’ingegnere la progettazione dell’ingegnere; domani, la cooperativa multidisciplinare darà un prodotto complesso a un’impresa e a una società che hanno bisogno di quello. Bisogna avere la voglia, la pazienza, di continuare a costruire, questo è quanto, secondo me, bisogna fare. E da questo punto di vista, noi andremo al Congresso tra un paio di mesi. Abbiamo preparato un manifesto che recita “Cooperativa Italia, l’impresa in armonia con il futuro”. Qualcuno ci ha guardato e ha detto “ma siete diventati matti? C’è Fabbrica Italia, c’è il Partito Italia…” Ebbene, sì: noi abbiamo la pretesa di dire che, così come c’è Impresa Italia, sarebbe bene che ci fosse Cooperativa Italia, perché c’è bisogno di più cooperazione in questa Italia. Questo è il tema di fondo: noi ci mettiamo la faccia, ci proviamo. Faremo un metro, tre metri, cinque metri, non lo so, ma non rinunciamo a provarci. Questo è quello che vogliamo dire, dalle giornate che stiamo facendo e dalle cose che faremo nei prossimi mesi, proprio con questa idea molto chiara in testa: questo Paese ha bisogno di cooperazione, da tutti i punti di vista. Ha bisogno non solo di cooperative, ma di cooperazione. GIULIANO GIUBILEI Ecco, a questo proposito voi farete una cosa storica, diciamo: unirete le “cooperative rosse” - per dirla sinteticamente - e le “cooperative bianche”… Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 24 GIULIANO POLETTI Sì, dopo novant’anni di divisione, il 27 gennaio, ci sarà l’atto formale di sottoscrizione dell’accordo per la costruzione dell’Alleanza delle cooperative italiane, che vede AGCI, Confcooperative e Legacoop costituire un coordinamento stabile della propria attività di rappresentanza. Credo che sia un segno di quella cooperazione che è necessaria; intanto cominciamo a cooperare dove possiamo decidere noi. Perché l’Italia è un Paese simpatico: sono tutti in grado di spiegare agli altri cosa debbono fare, ma mai che ci sia qualcuno che dice “io faccio così”. Noi abbiamo deciso di fare il contrario. Non chiederemo niente a nessuno, ma diremo “noi abbiamo intenzione di fare questo per il lavoro, questo per la cooperazione in questo Paese”. Perché pensiamo che in questo momento serva dire quello che si fa, qual è la responsabilità che ci si assume, cosa si propone agli altri. Perchè fare la lista dei guai altrui, elencare quello che dovrebbero fare, insegnare il mestiere agli altri… è uno sport particolarmente diffuso e, se ci impegniamo, siamo capaci anche noi. GIULIANO GIUBILEI Va bene, grazie Poletti, grazie Susanna Camusso, grazie prof. Dell’Aringa e prof. Marini. Si chiude questa prima sessione di questa giornata. Subito dopo ne inizierà una seconda che è molto importante, a proposito di legami con il territorio e il titolo è “Le cooperative di comunità: un’opportunità per territori e persone”. Grazie e buon proseguimento dei lavori. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 25 Seconda Sessione Le cooperative di comunità: un'opportunità per territori e persone LUCA BERNAREGGI Diamo inizio alla seconda sessione, che sarà introdotta dall’amico Giorgio Gemelli, uno dei vice presidenti di Legacoop Nazionale nonché responsabile dei progetti speciali di Legacoop Nazionale, che conosciamo e stimiamo tutti molto bene. Giorgio Gemelli introdurrà il prossimo tema: “Le cooperative di comunità: un’opportunità per territori e persone”. Prego, Giorgio. GIORGIO GEMELLI Vice presidente Legacoop Buongiorno. L’argomento che brevemente introduco vuole sottolineare l’impegno di Legacoop su un tema emergente che riguarda, come ricordava Bernareggi, la vita di alcune comunità, delle persone, dei loro bisogni, della qualità della loro vita. Mi limiterò a esporre le ragioni del nostro impegno e darò alcune indicazioni a proposito del percorso. Ovviamente le ragioni profonde - se ne è discusso poco fa - risalgono all’esplodere della crisi, alle difficoltà incontrate all’interno dei diversi sistema Paese, nel fronteggiarne le conseguenze, che hanno però posto in evidenza alcune questioni di ordine strutturale, in particolare quella relativa al modello di crescita impostato sulla centralità esclusiva del soggetto pubblico o del soggetto privato, per dare risposte all’altezza dei processi imposti dai cambiamenti in corso nella società e nell’economia. In particolare accade che una domanda sempre più forte di protezione, di sicurezza, viene rivolta al soggetto pubblico, che però non è in grado di fornire risposte onnicomprensive, a causa dei processi di forte restringimento dei propri margini di operatività e della riduzione delle risorse finanziarie a disposizione. Sono messi in discussione i ruoli di chi, seppure in una dinamica di confronto virtuoso, sembrava garantire certezze ed emerge dunque la necessità che il soggetto pubblico ridefinisca una nuova governance per la gestione di vecchie e nuove domande. In questo scenario, come sappiamo, si stanno alimentando un dibattito e una ricerca assai interessanti, caratterizzati e diversificati a seconda dei diversi luoghi e sistemi politici. Elemento unificante, che noi condividiamo, è l’intento di agevolare l’ingresso in campo e l’acquisizione di responsabilità da parte delle comunità locali, delle associazioni tra cittadini, delle forme di impresa senza fini di lucro, secondo un principio di sussidiarietà orizzontale che permetta di offrire risposte più efficaci e tempestive rispetto ai bisogni e alle domande emergenti e in grado di determinare il rafforzarsi e l’emergere di spazi democratici di partecipazione e di autogoverno. Fare insomma risaltare la cittadinanza attiva come valore per fare avanzare una nuova frontiera di rapporti tra settore pubblico e settore privato, con un settore pubblico che accentui la capacità di programmazione e di controllo, un privato che accentui l’attenzione a favore degli interessi più generali e un privato sociale, a forte vocazione comunitaria, che affondi le sue radici nella consolidata tradizione mutualistica e cooperativa. Riscoprire il senso di comunità, di appartenenza locale - che soprattutto a livello territoriale caratterizza ancora parte della società italiana - può contribuire ad alimentare un processo virtuoso di coesione sociale, attraverso iniziative di inclusione e di sviluppo locale, per rendere sostenibile la globalizzazione. Riscoprire il concetto di comunità significa recuperare uno spazio inteso non solo in senso relazionale ma anche fisico, attraverso la valorizzazione delle caratteristiche culturali e vocazionali del Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 26 territorio, che è il luogo privilegiato di interazione tra i cittadini, un punto dove la persona partecipa attivamente allo sviluppo della propria comunità e di conseguenza della società nel suo complesso. Proprio dalla riproposizione dell’esperienza cooperativa italiana muove la nostra riflessione, per dare un contributo al fine di invertire alcune tendenze in atto, tra cui l’affievolimento di diritti soggettivi, la disgregazione dei sistemi relazionali e, in particolare, ma non solo, il crescente isolamento di pezzi del territorio posti ai margini dei processi economici. Dall’esperienza quotidiana della cooperazione, dalla sua capacità di rispondere ai nuovi bisogni, emergono stimoli e indicazioni di percorso utili per una società che deve ripensare il rapporto tra bene comune e azione collettiva. Utilizzare la forma cooperativa è una possibile risposta imprenditoriale per organizzare forme di auto-aiuto delle comunità in cui prevale la centralità della persona nella produzione di beni relazionali e per assicurare la soddisfazione di bisogni in tutte le parti del Paese. Stiamo lavorando, pertanto, su un progetto economico e di coesione sociale su cui Legacoop vuole puntare per contribuire a mantenere e sviluppare i sistemi di protezione sociale e civile costruiti nel corso del XX secolo e messi in discussione dalla crisi della finanza pubblica e da inefficienze, ineguaglianze e anche da discriminazioni. La cooperazione ha in sé le peculiarità tipiche per misurarsi su questi temi, su cui rilancia e rinnova la sua missione e le sue caratteristiche distintive. Le comunità possono trovare nella cooperazione una strutturazione utile per realizzare in forma organizzata beni e servizi che rispondano ai bisogni di uno specifico territorio e che riguardino non solo i tradizionali settori del welfare, ma anche la valorizzazione delle risorse umane e materiali dei territori. In questo contesto, la cooperazione assume in sé la dimensione economica imprenditoriale, che connota efficacia e durata nel tempo, e la dimensione sociale, garantendo la mutualità e la partecipazione alle persone e ai gruppi interessati alle attività. Il progetto di Legacoop è avvalorato e legittimato anche dalla rilevazione della presenza nelle associate, in tutto il Paese, di un congruo numero di cooperative - in questo senso ascolterete delle interviste - con le caratteristiche, prima descritte, di mantenimento delle comunità locali; cooperative nate per far fronte al venir meno dei servizi fondamentali come scuole, negozi, servizi; altre per motivazioni ambientali, di valorizzazione delle tradizioni. Tutto ciò ha saputo, tra l’altro, anche dare risposte a crisi occupazionali e, in alcuni casi, ha creato occasioni di lavoro, trattenendo i giovani nelle loro comunità. Queste esperienze evidenziano come la forma cooperativa sia uno strumento efficace a disposizione dei cittadini che lo vogliono utilizzare per reagire positivamente, in particolare nelle condizioni di isolamento territoriale, dove esiste il rischio di spopolamento, in particolare se pensiamo all’elevato numero di comuni di piccola e piccolissima dimensione demografica esistenti in Italia, dislocati soprattutto in aree montane dell’Appennino italiano. Ovviamente, le caratteristiche attuali delle forme cooperative già esistenti sono tarate sulle piccole comunità, ma pensiamo che queste iniziative possano svilupparsi anche nelle realtà urbane in forte espansione con quartieri a rischio di emarginazione, ma anche per la gestione di settori economici e di servizi, quali la produzione di energia, lavori di manutenzione boschiva e agricola, il trasporto di persone, la vigilanza, mentre è assai importante l’ipotesi di gestione cooperativa di beni pubblici non utilizzati e che possono essere affidati alle comunità di riferimento interessate a un progetto di recupero. Dunque, è ampia l’area dei bisogni e delle opportunità su cui i cittadini possono associarsi in cooperative di comunità, al fine di rafforzare in modo economicamente vantaggioso una serie di iniziative, promuovendo la massa critica necessaria per tendere all’equilibrio economico di gestione, che potrebbe individuare, in alcuni casi, una possibile, seppure parziale, soluzione mediante il finanziamento da parte di soggetti istituzionali che trovino convenienti delle forme diverse e indirette per garantire servizi. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 27 Queste forme cooperative sono contraddistinte da un approccio di carattere multidimensionale ed evolutivo dei bisogni, che individua la necessità di fornire risposte attraendo e combinando risorse di natura diversa, grazie all’auspicabile coinvolgimento e integrazione di più soggetti: da una parte mettendo a valore la dimensione comunitaria, dall’altra svolgendo funzione di cerniera con la sfera istituzionale. Il progetto che abbiamo attivato si pone dunque l’obiettivo di promuovere e sostenere la crescita di una rete diffusa di comunità cooperative, stimolando la voglia di reazione, di creatività e di autonoma organizzazione dei cittadini. Per queste ragioni mettiamo in campo le nostre strutture, i nostri strumenti tecnici e finanziari per fornire, all’aggregazione dei cittadini, informazioni, orientamento, assistenza e supporto, per consolidare le realtà già operanti e per individuare e selezionare opportunità che possono favorire la nascita di nuove cooperative. Ovviamente, riteniamo che un progetto di questo spessore possa trovare attenzione e collaborazione soprattutto da parte dei soggetti pubblici, delle associazioni e dei comuni, ma anche di associazioni private che ne condividono le finalità, ne riconoscono il valore e si rendono disponibili a costruire le condizioni di operatività. In particolare, se i servizi da erogare appartengono alla sfera pubblica, si pone il problema di costruire una cornice di compatibilità in merito agli strumenti giuridici da considerare: le concessioni, le convenzioni, gli appalti pubblici di servizi. Oppure, se è possibile, prevedere corsie preferenziali per i progetti supportati da comunità con finalità sociale, pensando anche alla possibilità di voucher per facilitare e agevolare gli investimenti necessari. C’è bisogno, a nostro avviso, di concertare più azioni con molteplici soggetti; abbiamo per questo sperimentato percorsi comuni con il WWF, con Legambiente, con l’Associazione dei Borghi Autentici d’Italia, mentre oggi stesso nel pomeriggio, sarà firmato il protocollo di collaborazione con FederlegnoArredo, associazione settoriale di Confindustria, che raggruppa le imprese operanti nel settore del legno sui temi che riguardano la tutela ambientale delle comunità interessate. Siamo dunque disponibili, anzi sollecitiamo intese e collaborazioni che possano implementare il nostro impegno, coscienti che c’è bisogno di mettere in campo una serie di azioni positive per creare condizioni di contesto che agevolino l’impegno delle comunità. Siamo convinti tra l’altro che questa azione possa contribuire a dare contenuti, sostanza, forma e continuità imprenditoriale al principio della sussidiarietà orizzontale, inserito nell’articolo 118 della nostra Costituzione, al fine di valorizzare l’autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale. Grazie, io ho terminato e cedo la parola, per coordinare questa seconda sessione, al dott. Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera. DARIO DI VICO Editorialista Corriere della Sera Allora, io chiamerei i relatori di questa sessione: il dott. Franco Iseppi, presidente del Touring Club Italiano e il dott. Edoardo Patriarca del CNEL e inviterei a una replica del presidente Giuliano Poletti. C’è un video, se non sbaglio. Quindi seguiamo il video e poi avviamo la conversazione con questi signori. Seguiamo la prima parte del video Le cooperative di comunità. Un’opportunità per territori e persone. Partiamo subito dalla discussione. Desidero fare una riflessione sulla parola comunità; badate che è una parola calda e noi abbiamo bisogno di cose calde perché, come dire, abbiamo chiaro che nel futuro i freddi saranno superiori ai caldi… E comunità è una parola calda. È una parola in cui si incrociano culture diverse: comunità, per esempio, a me immediatamente fa venire in mente Adriano Olivetti, quindi una tradizione Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 28 imprenditoriale, anche se di un certo tipo, minoritaria, ma comunque di un’impresa che si apre, che è inclusiva. È chiaro che a un cattolico, comunità evoca altri tipi di riflessioni, altre ascendenze profonde. Il fatto che qui venga evocata questa parola - dove “comunità” e “cooperazione” hanno anche lessicalmente una partenza comune, e non è cosa di poco conto - testimonia in qualche maniera che quando le culture si confrontano sui problemi e sulle soluzioni, non dico che arrivino a un punto di sintesi unica, ma… Dirò anche forse una bestemmia in questo contesto, ma la parola comunità piace anche al mondo leghista, che certo poi la declina secondo altri codici, ma piace ed è ricorrente anche lì. Allora, noi facciamo una discussione più che altro di “cuciture” e quindi proviamo un po’ con i rispettivi ruoli, ma anche con le rispettive sensibilità politico-culturali, a capire, dal filmato e da questo impegno di Legacoop a favore delle cooperative di comunità, che cosa si può costruire dal basso per questo Paese nel quale dobbiamo vivere noi e anche i nostri figli, etc. Comincio dal dott. Iseppi, che qui rappresenta il Touring Club. È evidentemente una definizione per difetto, perché nella sua vita professionale ha fatto tantissime cose e ha avuto modo di maturare molte esperienze ed è anche alla luce di queste, e non solo a nome della sigla che oggi rappresenta, che gli cedo la parola. FRANCO ISEPPI Presidente Touring Club Italiano Grazie. Ho qualche attenuante perché è solo da luglio che faccio il presidente del Touring Club Italiano e la parola comunità, che è lo stimolo da cui partire, per me si identifica con la parola associazione. Noi siamo un’associazione, siamo uno degli attori di questo universo e il rapporto che c’è tra associazionismo e cooperative, o cooperazione, è un po’ lo stesso che c’è nella relazione tra genere e specie. Cioè l’associazionismo è un genere e la cooperazione è una specie, con però comunanze di tipo infinito. Che tipo di associazione è il Touring (per rispondere alla domanda su che senso ha e come si definisce la comunità)? È stato un gruppo di cicloamatori e quindi di persone che 117 anni fa utilizzavano il mezzo di comunicazione tra i più moderni che esistevano, al punto che questa associazione ha cominciato a occuparsi di far pagare loro meno tasse possibili, perché si pagavano le tasse come sulle automobili e in realtà erano il simbolo della modernità. È stata messa in piedi da una borghesia milanese estremamente illuminata e laica; adesso questo marchio è ancora di grande attualità perché la bicicletta è diventata il segno di uno stile di vita. Allora questa associazione come si colloca? Non è un’associazione di interessi, nel senso che nei confronti dei suoi soci ha sempre privilegiato l’aspetto della conoscenza rispetto a quello della tutela e quindi è famosa per le sue guide e per le sue iniziative. Non ha un oggetto definito attorno al quale operare promozione, piuttosto che difesa, al contrario di altre associazioni, in cui una ha la montagna, l’altra i beni culturali, l’altra l’ambiente… Noi, come caratteristica di associazione vorremmo essere coloro che propongono un modo di viaggiare, o se si vuole, una modalità di rapportarsi con tutto quello che è l’esterno, gli altri, etc. Quindi la nostra associazione si caratterizza per una funzione, per un servizio e non per un oggetto di tipo specifico. Per ora sono 350.000 soci, a tutt’oggi, e pensiamo che si debba rafforzare molto questa idea di associazione. L’impegno che io prendo verso i soci è di fare in modo che essi siano sempre più convinti delle motivazioni che stanno alla base dell’associazione, più che dei benefit che traggono dal fatto di associarsi, cioè oggi chi si associa al Touring, se è sveglio, in due mesi recupera la quota, tra sconti etc. Preferirei che l’asse si spostasse su questo, proprio perché, dietro a questo ragionamento sull’associazione come tale, c’è in Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 29 pratica l’idea di persone che vogliono e credono di avere dei titoli per essere costruttori di qualcosa: di identità, o di una funzione sociale. Non a caso, questi fondatori, cosiddetti illuminati, pensavano che il turismo fosse il mezzo più importante per l’integrazione culturale e sociale di un Paese, ed era nato su una grande spinta unitaria. DARIO DI VICO Le faccio una domanda: in Italia siamo ricchi di associazioni, siamo un po’ più poveri di altre cose, ma il “monte associazioni”, che è un capitale sociale, poi conterà qualcosa, quando bisognerà dare lavoro ai nostri figli o sarà, come dire, semplice intrattenimento? È un capitale sociale che poi riusciamo a far fruttare e a spendere nelle cose decisive o rischia di essere, in un certo senso, una modalità italiana come gli spaghetti? FRANCO ISEPPI Questo non lo so, so solo che l’associazionismo e l’associazione hanno anche un grande valore economico. Non so se questa è una risposta, ma lo è almeno parzialmente in questo senso: questo mondo è molto magmatico. Dire che sia tutto molto semplice è sbagliato; ci sono le esplosioni di appartenenza fortissime, poi ci sono i campanilismi, i localismi, ci sono cioè delle congenite ambiguità proprio strutturali dell’associazionismo. È difficile che nasca l’associazionismo di grande partecipazione politica, mentre invece nasce subito sui consumi, sui gruppi di acquisto, su cose come queste. Molte associazioni o cooperazioni sono frutto di opportunità, oggi se non ci si mette insieme non si vincono i bandi, non si possono realizzare le cose. Addirittura, molte aggregazioni nasceranno per legge, perché se è vero che i comuni piccoli, con meno di 3.000 abitanti delle zone interne e con meno di 5.000 nelle zone di riviera, devono associarsi per alcuni servizi, di fatto si mette in moto un processo, che non è un sistema ma certamente è vicino all’essere la cooperazione. Mi pare però che l’elemento più importante dell’associazionismo sia il fatto che è l’espressione di un valore dell’economia immateriale molto forte; non è un caso che Il Sole 24 Ore, tra gli indicatori per la qualità della vita abbia messo anche come sottoindicatore il volontariato. Il fatto che in questo Paese, almeno ogni 2.000 abitanti, ci sia un associazione di volontari vuol dire che questo è un indicatore molto interessante. Il fatto che, quando si parla di sviluppo, si cominci a ragionare su nuovi indicatori… ecco, forse l’ISTAT dovrebbe considerare l’associazionismo come uno degli indicatori di sviluppo. Allora vuol dire che dietro a questo “stile di vita”, non so come chiamarlo, c’è un valore economico, che non so se poi dà lavoro… DARIO DI VICO Questo diamolo per scontato, Lei è troppo intelligente per non capire che c’è un passo in avanti; diamo per scontato che è capitale sociale, però ci può essere un capitale sociale statico, che di fronte alle sfide del futuro poi conta come il due di picche, oppure si trova una modalità con cui questo capitale sociale poi ha degli effetti… Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 30 FRANCO ISEPPI Non c’è dubbio… DARIO DI VICO Ho fatto l’esempio ovvio - il futuro dei nostri figli - però ho l’impressione che altrimenti il discorso diventi come il Branduardi di “mio papà alla fiera dell’est”, cioè: abbiamo quattro milioni di imprese, e così via, però quando poi bastano cento cinesi e tutto questo discorso va a gambe all’aria… FRANCO ISEPPI È innegabile. Nel senso che non è un caso che sia un capitale magmatico: o si trovano i modi per regolamentarlo e ridefinirlo, e allora diventa un valore, altrimenti diventa una normale - anarchica, molto locale, molto specifica, molto italiana - partecipazione alla cosa pubblica, che poi non si sa bene cosa sia. DARIO DI VICO La interrompo. Dott. Patriarca, se si vuole inserire… EDOARDO PATRIARCA Consigliere CNEL Sì, ma le rispondo dicendo che la risposta è che si tratta di un grande elemento di sviluppo economico. Prima si è parlato di territori, di questo legame con il territorio; oggi, mi pare che anche gli economisti più avveduti sostengano che la competitività non è solo dell’azienda, ma di un intero territorio, di un territorio che si riconosce sistema e in questo davvero questo mondo associazionistico, cooperativo, delle imprese sociali, ha un grande potenziale di sviluppo concreto. Pensi soltanto a tutta l’area del welfare: chi gestirà le nuove politiche di welfare? Riteniamo che sarà soltanto il Comune, il sindaco, l’assessore? Non credo, è cambiata una stagione, quindi questa possibilità di sviluppo c’è, ed è concreta. Cioè, nuove imprese sociali, nuove cooperative che favoriscono la capacità di auto-organizzarsi dei cittadini; questa è la grande novità. Non aspettiamo più che arrivi il principe di turno e ci dica che dobbiamo fare l’asilo; l’asilo lo facciamo, troviamo le risorse, creiamo le cooperative familiari, gestiamo il parco pubblico, pezzi di sanità. Ci sono oggi esperienze - credo che Giuliano Poletti le conosca ben più di me - di cooperative, quindi soggetti non profit, che gestiscono pezzi di sanità di sistema pubblico. Credo che sia questo un po’ il futuro che ci aspetta, cioè questo processo di “imprenditorializzazione” del nostro grande patrimonio associativo, che vuol dire più democrazia. Prima si parlava di pluralismo, Poletti parlava delle imprese; ritengo che questo Paese abbia bisogno di queste pluralità di forme d’impresa e che questo sia il futuro. È un settore oggi sottosviluppato nel nostro Paese. Un imprenditore può sviluppare impresa in un territorio - i dati ce lo dicono, io ho girato l’Italia - se lì vi è una buona amministrazione pubblica, buoni servizi, una buona qualità della vita, una buona scuola. Tutto questo sistema oggi è impensabile che venga gestito dal pubblico, anzi, Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 31 direi che a me non piace proprio che sia così. Credo che la stagione nuova sia proprio quella della sussidiarietà, della chiamata alla responsabilità, uscendo dalla logica “più mercato meno Stato”, che non c’entra. È più responsabilità pubblica. E quando parlo di responsabilità pubblica intendo soggetti pubblici, seppur privati, che assumono una responsabilità pubblica. Questo settore è in forte evoluzione. Conosco il trend delle cooperative sociali: oggi occupano quasi 800/900mila persone. E la domanda che io pongo spesso, alla politica in generale, è se questo sistema che, a mio parere, ha un futuro di grandissimo rilievo, oggi venga sostenuto; se non è solo la questione del cinque per mille oppure c’è anche qualcosa di più da fare affinché questo sistema imprenditoriale si sviluppi. Perché pezzi del nostro futuro saranno in mano a queste imprese. DARIO DI VICO Quando Lei sente, per volare un po’ in alto, le riflessioni sulla cosiddetta big society proposta da Cameron, da un partito di destra, che valutazioni fa? Le sembra una suggestione interessante, evocativa? EDOARDO PATRIARCA Guardi, l’ho anche letta e ho una reazione positiva. Non mi interessa che Cameron sia di destra o di sinistra, mi piace l’ispirazione, cioè l’affermare che la stagione che si apre per il nostro Paese porta una richiesta di responsabilità maggiore da parte dei soggetti associati, dei soggetti che oggi liberamente decidono di auto-organizzarsi. Recuperando in questo modo la funzione anche della politica, perché non è che la politica deve fare tutto. Questo nostro Paese stranamente ha preteso tutto dalla politica, addirittura qualcuno ha chiesto di produrre il lavoro. Il lavoro lo producono le imprese, che siano quelle profit o quelle non profit. Quindi, mi piace questa idea, che presuppone un’“antropologia positiva”, cioè il capire che si dispone di risorse e di “bella gente”; quindi si sceglie di coltivarla e non di deprimerla. Mi pare che talvolta nel nostro Paese venga invece depressa, vengano depresse le potenzialità di impegnarsi e di autoorganizzarsi. DARIO DI VICO Faccio un tranello al presidente Poletti: se Lei dovesse scegliere tra l’antropologia positiva e la capacità di indignarsi, da che parte starebbe? GIULIANO POLETTI Certamente sono per l’antropologia positiva. DARIO DI VICO Punto? Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 32 GIULIANO POLETTI Punto. Per una ragione molto semplice, che fa i conti con quello di cui stiamo discutendo oggi. Dario Di Vico è uno degli osservatori più puntuali di “quelli che ci provano” e io sono esattamente della serie “che bisogna provarci” e bisogna avere anche il senso della relazione tra le cose che si fanno, le idee che si hanno e i risultati che si ottengono. Lo dicevo prima, con una battuta sul filmato che abbiamo visto: la cooperativa “I Briganti di Cerreto”, banalmente, ha prodotto, nel corso della sua attività, otto posti di lavoro. Uno può dire “Beh, ti emozioni per otto posti di lavoro?”. Io mi emoziono anche solo per uno, per quello che mi costa, però a Cerreto Alpi ci vivono ottanta persone; otto persone sono il 10% di quegli ottanta. Ma ce ne sono in giro molti che organizzano cose che valgono il 10% delle persone che abitano in una comunità? No, perché se ce ne sono molti, io sto qui, li aspetto e sono pronto a discuterci e a dare loro il riconoscimento che sono più bravi di noi. Ma è un po’ che aspetto e di gente che viene a raccontarmi che ha fatto meglio di così non ne ho vista tanta, ma la sfida è aperta. Il dato però vero, di cui si comincia a discutere molto positivamente e di cui dobbiamo ormai prendere atto è che la relazione tra i bisogni dei cittadini, il ruolo del pubblico e il mestiere del mercato, per come li abbiamo storicamente messi, non funziona più. Ci sono pezzi che rimangono fuori. Una risposta può essere: “chi se ne importa; c’è bisogno di un servizio, non si fa e pace”. Credo invece che il problema vada preso sull’altro versante: se c’è un bisogno dobbiamo fare in modo che quel bisogno trovi una risposta. E questa risposta non è certo in grado di darla l’imprenditore Poletti, che non ci andrà a Cerreto Alpi ad avviare un negozio che, per regolamento comunale, deve aprire alle 7 della mattina, stare aperto fino alle 6 di sera, deve essere di 100 metri quadrati, avere il bagno, avere l’uscita di sicurezza, etc… Ma scusatemi, se devo vendere il pane per le 50 persone che abitano lì, per quale ragione debbo avere tutte quelle regole? È meglio costringere quelle 80 persone a fare 50 chilometri in macchina per andare a prendersi il pane? O è meglio, invece, andare a scavare all’interno di quella comunità, ed estrarvi tutti quei piccoli valori che sono bisogni ma non sono domanda, ma mettendoli insieme forse fanno la base per uno, due, tre, quattro posti di lavoro? Bisogna fare così, bisogna partire da lì. La racconto con una metafora: ho letto recentemente un libro di un autore africano, che parla di terra sonnambula e racconta di un nonno e un nipote che se ne vanno, scappano dalle lotte tribali e tutte le mattine incontrano qualcosa che gliele fa ricordare e la spiegazione è “voi la notte dormite, ma la terra cammina e vi raggiunge”. Quando ho visto i filmati delle frane, degli allagamenti, della terra che è arrivata dentro ai paesi, mi sono detto “guarda, la terra non cammina solo metaforicamente; la notte, la terra cammina fisicamente”. Tu vieni via da Cerreto Alpi, poi la terra di Cerreto Alpi ti arriva in casa. Quindi, quando fai quel servizio, quando quelle 8 persone lavorano lì, quando quelle 80 persone restano lì e abbiamo prodotto i posti di lavoro, abbiamo prodotto anche un altro esito, che nessuno ci pagherà, che è di presidiare un territorio, che se non sarà presidiato ci verrà in casa e costerà tantissimo alla comunità. Bisognerà che qualcuno cominci a pensare come queste cose diventano un pezzo dell’economia della società. Per questo io dico, bisogna avere la voglia di provarci e di costruire lungo questi percorsi. Credo che sia una cosa possibile e molto utile. DARIO DI VICO …quando uno diceva “dal basso” gli veniva in mente “sinistra”. Oggi non è più così. Non solo non è più automatico, ma anzi, quasi può succedere il contrario... Voi ovviamente Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 33 siete il basso e fortunatamente siete rimasti là. C’è quindi, in qualche maniera, un lavoro da fare affinché il basso e l’antropologia positiva siano un elemento di ripartenza e non solo di lotta politica? GIULIANO POLETTI Io credo che sia prima di tutto un problema di cultura. È necessario che noi accettiamo e lavoriamo sull’idea che la responsabilità - che etimologicamente significa essere in grado di dare una risposta - è un elemento importante, fondamentale della vita di un individuo, è un tema della democrazia. Io continuo a battere la testa contro un concetto: i cittadini vivono la democrazia non perché una volta ogni cinque anni vanno a votare, ma perché ogni giorno, con i loro comportamenti, costruiscono una dinamica di relazione, fanno delle cose che poi diventano economia, diventano lavoro e diventano valore per sé. Allora, costruire meccanismi grazie ai quali questi cittadini possano realizzare questi percorsi, possano estrarre valore, ha questo significato e vale nelle grandi città, nelle piccole comunità, vale a sinistra, vale a destra. Perché è chiaro che il senso comunitario ha bisogno di un supporto. Lo chiedevi tu prima, giustamente: l’associazionismo è un valore? Certamente lo è. Lo è sul piano sociale, sul piano delle risposte concrete che dà. Noi diciamo una cosa in più, diciamo che la voglia, la capacità, la propensione ad associarsi, a un certo punto ha bisogno di un’infrastruttura legale che le consenta di diventare impresa. Ma a questo punto si pone un tema, che forse varrebbe la pena discutere, che si chiama efficienza. Perché anche l’associazionismo, il volontariato, la solidarietà debbono essere efficienti. Ci vuole una strumentazione che ci consenta di coniugare l’efficienza e l’efficacia con l’associazionismo, la democrazia, la partecipazione, la responsabilità. Per questo noi lavoriamo al progetto delle cooperative di comunità, perché riteniamo che la forma societaria cooperativa sia l’infrastruttura societaria organizzativa congrua per far sì che un cittadino di Cerreto Alpi, piuttosto che della comunità degli ecuadoriani di Torino, se decide di realizzare un’idea con una dimensione economica stabile possa farlo rispettando delle regole, garantendo i terzi, promuovendo lavoro. Quindi, non è una negazione dell’associazionismo, l’associazionismo va benissimo e vi lavoriamo insieme. Ci sono delle soglie e dei passaggi; credo che qui il problema sia che questo pezzo di società ha bisogno di essere riconosciuta. Esempio: il Comune non riesce più a gestire l’asilo, quindi, o si organizza per mettersi in relazione con i suoi cittadini e trovare le risorse per realizzarlo, oppure non lo fa, perché al mercato quell’asilo non interessa: ma se lo fa, lo farà solo per i cittadini che hanno un reddito tale da potere pagare 1.000 euro di retta. Allora, bisogna trovare una soluzione che sta tra un soggetto pubblico che individua un bisogno e organizza una risposta, o il mercato che individua un bisogno e organizza una risposta, e la società che sa che c’è un bisogno e si organizza; qui dentro ci sono dei tratti di economicità eccezionali. DARIO DI VICO La fermo. Dott. Iseppi, quando parliamo di associazionismo abbiamo in mente il Nord; se invece pensiamo al Sud, abbiamo immediatamente un’altra reazione, perché in realtà sono due cose diverse. Non dico l’esagerazione, cioè l’affiancare associazionismo e criminalità, ma magari ci sono dei passaggi intermedi, il familismo amorale, il clientelismo e così via. Poi noi, purtroppo, del Sud non sappiamo più niente, non Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 34 sappiamo quello che succede, l’abbiamo un po’ messo da parte. Ecco, dato che Lei si occupa di territorio, cosa dice a questo proposito? FRANCO ISEPPI Posso entrare nel merito anche in modo pratico, nel senso che, se vediamo queste cose dal punto di vista dell’universo del turismo, abbiamo un Sud che ha un grado di attrattività tra i più alti del mondo e un grado di accessibilità tra i più bassi e fornisce un'immagine nel mondo non positiva. Quindi non ha nessuna delle condizioni per uno sviluppo vero di tipo turistico internazionale. Detto questo, come associazione abbiamo, rispetto al territorio, tre forme di presenza: una sono i volontari, una i club di territorio, che sono una specie di grandi gruppi di ascolto, e una sono queste bandiere arancione. Sono 178 comuni di questo Paese, con una dimensione media tra i 4.000 e i 5.000 abitanti, che da dodici anni si sono messi insieme sulla base di un’idea: l’idea che in Italia c’è un’Italia minore che ha un grandissimo appeal dal punto di vista turistico e culturale, l’idea che se la gente e i comuni si mettono in rete è più probabile che raggiungano gli obiettivi e anche l’idea che se si dispone di un’offerta di qualità si diventa competitivi, altrimenti no. Questa iniziativa è stata realizzata sulla base di un’idea volontaristica, perché a questa associazione non ci si iscrive perché si paga una quota; si può partecipare solo se si hanno dei parametri che si rispettano ed è anche una delle poche associazioni che butta fuori quelli che non rispettano i parametri, oppure non li fa entrare, oppure fornisce loro dei programmi per entrare. Il risultato di questo lavoro negli ultimi quattro anni è che tutti questi comuni hanno avuto solo indicatori positivi: è aumentata la popolazione, sono aumentati i servizi, è aumentato il rapporto tra chi ci vive e chi ci viene, c’è una cultura dell’accoglienza, etc. Allora, questo vuol dire che non è vero che non esistono le soluzioni. È probabile che la ricetta vera, almeno per un tessuto che ha la storia di questo Paese, sia che l’innovazione o è condivisa e partecipata o non funziona. Parliamo però di un campo che non può essere preso come la controtendenza del turismo, perché non è rappresentativo di una controtendenza, è significativo di come il rapportarsi in un certo modo con il territorio, rivendicando un protagonismo locale molto forte, consenta di raggiungere degli obiettivi. DARIO DI VICO Grazie. FRANCO ISEPPI Questo in tutta Italia, anche nel Sud. Certamente più nel Nord che nel Sud. DARIO DI VICO Sì, lo avevamo capito. “Secondo welfare”, ovvero quello che ha detto Lei prima: cioè che ci dobbiamo abituare che il welfare novecentesco è corto, sarà sempre più corto, quindi c’è necessità di favorire tutti quei soggetti, quelle intese che possono sussidiare il primo welfare. Ce ne sono molte possibili. Per esempio, non ha avuto grandissima diffusione, ma una Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 35 multinazionale come la Luxottica ha stipulato degli accordi di welfare aziendale meravigliosi, nel senso che arrivano alla sanità, addirittura alla scuola dei figli e così via. Quindi, le vie del secondo welfare sono infinite, però sappiamo che quando andiamo a sottolineare - come diceva il presidente Poletti - le esperienze più significative, è bello sottolinearle, ma quando guardiamo i numeri sappiamo che, per quanto il secondo welfare si rimbocchi le maniche, mentre si restringe quell’altro pezzo di coperta, insomma… c’è il rischio che la somma non faccia cento. Ecco, volevo sentire un po’ la sua opinione su questo. EDOARDO PATRIARCA Ci troviamo di fronte a una sfida che definirei epocale. Cioè, o continuiamo a credere che la comunità, l’uguaglianza, la tutela dei diritti, il sostegno a chi ha più bisogno, siano ancora un patrimonio “repubblicano” e quindi una risorsa per il Paese e non una spesa o un accidente, e quindi in qualche modo accettiamo questa sfida, oppure rischiamo di perdere anche l’altro pezzo di welfare antico. Cioè, il problema oggi è davvero di domandarci se questo dovere di solidarietà che la Costituzione ci indica, cioè l’impegno al dovere di solidarietà, è ancora praticabile in questo Paese. Quali sono le questioni che abbiamo di fronte? Abbiamo un Paese indebitato all’inverosimile. Scusate la franchezza, ma non c’è più una lira pubblica; questo è il dato di realtà, abbiamo raschiato il barile fino in fondo. Non riesco a immaginare che nei prossimi anni i comuni abbiano più risorse, ne hanno già poche ora. Allora, la grande domanda che credo Legacoop ponga oggi è dire: di fronte a questi punti fermi, di uno sviluppo che sarà forse faticoso, di un welfare che comincia a scricchiolare, di un welfare che ha tutelato spesso i garantiti e non i non garantiti, di una realtà di poche risorse, noi cosa facciamo? Come accogliamo questa sfida? A me pare che la proposta di una chiamata alla responsabilità delle organizzazioni civili per gestire il nuovo welfare sia inderogabile. E mi si dirà “E le risorse”? Le risorse si troveranno nelle famiglie. L’ho chiesto a tutti i ministri del Tesoro, dell’Economia, ero anche portavoce del Forum del Terzo Settore: perché non premiamo i buoni consumi delle famiglie, perché non diamo la possibilità alle famiglie che utilizzano gli asili, anche delle cooperative, o l’assistenza agli anziani, di essere premiate. Perché queste spese lo Stato - che ha come unico strumento il fisco - non le riconosce come spese buone? Avete mai contabilizzato quanto spendono le famiglie per i propri anziani? È un conto che andrebbe fatto, è una cifra incredibile. Andiamo a contabilizzare quanto spendono le famiglie per i propri bambini, è una cifra altrettanto enorme. La domanda che mi pongo è: il sistema cooperativo oggi, il sistema delle imprese sociali - parliamo di imprese, non di realtà da assistere, ma di imprese che devono far quadrare i conti, devono chiudere il bilancio possibilmente in attivo - può accettare questa sfida? La mia risposta, ne sono profondamente convinto, è sì, decisamente sì. A condizione che anche il sistema politico, il sistema territoriale, le autonomie locali, le regioni, che hanno molto più potere oggi di quanto ne abbia lo Stato centrale, riconoscano questi soggetti e li chiamino alla responsabilità. Io chiamo le cooperative soggetti pubblici e difendo questa accezione: non sono privati, perché, nel momento in cui la cooperativa gestisce un asilo di comunità, sta svolgendo un servizio alla comunità, un servizio al bene comune, un servizio pubblico che va riconosciuto e tutelato. E il buon sindaco cosa farà? Sosterrà il sistema, la pluralità dei soggetti, farà in modo che il sistema regga, che ci sia più giustizia, che i diritti siano tutelati, che la qualità sia garantita. Questo dovrà fare il sindaco, piuttosto che magari gestire cose che non potrà più gestire. Ritengo che questa sia una prospettiva tutta da esplorare. E si pensi anche all’incremento occupazionale… I famosi obiettivi di Lisbona sugli asili nido nel nostro Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 36 Paese: a parte tre regioni che hanno raggiunto l’obiettivo - non ricordo quali siano - le altre regioni sono lontanissime e mi domando: perché nel Sud dove non c’è un asilo nido - in Calabria, mi hanno detto, ce ne sono tre - questa opportunità non può diventare un’opportunità di lavoro? Per tanti maestri e maestre, per tanti laureati, perché non è un’opportunità? Perché questo sistema di welfare viene percepito con peso, una sorta di palla al piede per lo sviluppo di questo Paese? DARIO DI VICO Una provocazione: in teoria, in fondo, proseguendo sul suo ragionamento, un sindacato, senza dar consigli a Susanna Camusso, poteva anche portare al tavolo della Fiat la fotocopia dell’accordo Luxottica - fatto da una multinazionale con quindi i costi di una multinazionale - e dire: caro Marchionne, perché non lo firmi? Però non alla CGIL è venuto in mente…registro solo la cosa. Chiude il presidente Poletti, ma poi la vera chiusura sarà un filmato di due minuti e mezzo su un’esperienza, così chiudiamo anche con antropologia positiva e visiva. GIULIANO POLETTI Ritengo che questo tipo di impianto abbia bisogno naturalmente di tempo. Ha bisogno di protagonisti, di qualche profeta, abbiamo bisogno di qualche “scout”, di qualcuno che decide di farle, queste cose. Noi - lo diceva la relazione di Giorgio Gemelli - abbiamo realizzato in questa fase, e oggi ne firmeremo un altro, una serie di accordi con associazioni e organizzazioni, perché abbiamo il problema di come poi queste cose si concretizzano, perché a dire che abbiamo il progetto cooperative di comunità si fa presto, poi realizzarle è un po’ più complicato. E chi le fa? Ho avuto qualche discussione con alcuni gruppi di sindaci e dopo venti minuti ci voleva la bacinella, perché non smettevano di piangere, della serie “ci hanno tagliato qui, ci hanno tagliato là, non si può più far niente” e io ho detto: “bene ragazzi, adesso che avete finito di piangere proviamo a metterci d’accordo su cosa facciamo. Oggi abbiamo dei sindaci che stanno lavorando su questi progetti, perché hanno capito che per la loro politica, per la capacità di amministrare la loro comunità, essere in grado far giocare la partita ai loro cittadini diventa una risposta al problema che hanno. Quindi oggi questa “idea positiva” ha bisogno di testimoni, ha bisogno di gente che la voglia realizzare. Allora noi cerchiamo di essere, anche in questo caso, l’infrastruttura che aiuta questi signori e diciamo: “caro sindaco, tu sei convinto che questa cosa è buona, chiamaci e noi veniamo con l’esperienza, le competenze, gli strumenti finanziari, tutto quello che ti possiamo mettere a disposizione affinché tu nel tuo Comune possa fare questa cosa”. Così creiamo un altro circuito positivo. Credo che questo sia quella voglia del provarci e del chiamare alla responsabilità i cittadini insieme, ad esempio, a chi li amministra. Un’ottica quindi diversa e le esperienze - quelle che abbiamo visto e quelle che vedremo - ci dicono che si può fare e che funziona. È per questo che noi adesso cerchiamo di rappresentarle, di usarle un po’ come le “madonne pellegrine”. Qui c’è il presidente della Cooperativa “L’Innesto”, con cui siamo andati in giro per l’Italia a fare iniziative per dire “guardate che non vi raccontiamo una favola: questo signore la cooperativa l’ha fatta e ci lavorano cinquanta persone e se hai bisogno di un consiglio parla con lui”. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 37 DARIO DI VICO Allora, guardiamo questo video, e chiudiamo. Seguiamo la proiezione della seconda parte del video, riguardante la Cooperativa L’Innesto. GIULIANO POLETTI Bene, grazie. Ci scusiamo con i nostri colleghi e amici di Federlegno e dell’Associazione dei Borghi Autentici. Avevamo registrato una loro testimonianza sull’accordo che abbiamo sottoscritto. Li ringraziamo molto. In apertura pomeridiana proietteremo nuovamente queste immagini, di modo che tutti le possano vedere. A questo punto purtroppo i tempi ci costringono a essere un po’ barbari. Grazie per la vostra disponibilità, grazie a Dario Di Vico che ci ha assistito in questo sprint finale e ripartiamo nel pomeriggio, come da programma. Grazie a tutti. Consegna dei premi Quadro Fedele 2010 ai migliori bilanci delle cooperative Legacoop Vincitore per il Bilancio d’Esercizio Cooperativa di Produzione e Lavoro di Concordia, Modena Menzione speciale per il bilancio d’Esercizio Cooperativa Auprema, Cinisello Balsamo Cooperativa Cesi, Imola Cooperativa Edificatrice Ansaloni, Bologna Cooperativa Tre Elle, Imola Cooperativa Unipeg, Reggio Emilia Vincitori per il Bilancio Sociale Cooperativa Coop Adriatica, Villanova di Castenaso Cooperativa Cadiai, Bologna Cooperativa Camst, Villanova di Castenaso Consorzio Cooperative Costruzioni, Bologna Cooperativa Coopselios, Reggio Emilia Vincitore Premio Best Cooperativa Cadiai, Bologna Premio Speciale New Entry Per il Bilancio d’Esercizio: Cooperativa Consorzio Ctm altro Mercato, Bolzano Cooperativa Placido Rizzotto Libera Terra, San Giuseppe Jato Per il Bilancio Sociale: Cooperativa Emisfera, Verbania Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 38 Terza Sessione A che punto siamo della crisi: nuovi orizzonti e prospettive per il futuro GIORGIO BERTINELLI Vice Presidente vicario Legacoop Nazionale Come vedete, la prima parte del pomeriggio è dedicata al punto sulla crisi, gli orizzonti e le prospettive per il futuro. È una sessione interessante, perché intervengono personalità che ci possono aiutare in una valutazione di merito sulla crisi. Chiederei quindi a Carlo Zini, che deve introdurre, di accomodarsi, dopodichè seguirà la presentazione dello studio di Prometeia e gli interventi che Zini solleciterà per la partecipazione. CARLO ZINI Presidente Ancpl-Legacoop Vorrei fare alcune considerazioni introduttive, brevi e di carattere generale, sulla crisi e suo impatto sul nostro mondo, sulle valutazioni o i problemi che sono aperti di fronte a noi. La prima domanda, credo, che tutti ci stiamo facendo è: «A che punto siamo della crisi?». Una delle certezze, che dal nostro punto di vista si sta in qualche modo facendo strada, è che probabilmente gli effetti peggiori di questa crisi non ci sono ancora stati. Quella valutazione di carattere generale, in cui si dice che il sistema italiano abbia retto meglio di altri alla crisi, è esclusivamente di natura finanziaria e probabilmente ha anche delle implicazioni sociali. Ma quali sono gli aspetti più deteriori, sul piano sociale, di una crisi che, come si diceva stamattina, non lascerà nulla come prima? Sono quelli che attengono ai risparmiatori in modo diffuso e comunque sempre al capitale, o sono quelli che riguardano il lavoro? Perché non c’è dubbio che gli effetti negativi che attengono al lavoro devono ancora esprimersi. Ancora. Ci si dice che ci vorranno molti anni prima di tornare a come eravamo e quello che è certo è che dal 2002 l’Italia sta perdendo “competitività relativa” rispetto anche ai più diretti concorrenti, e quindi non c’è dubbio che siamo su un piano inclinato. Di fronte a questo e al fatto che la valutazione di tutti è che “nulla sarà più come prima”, noi dovremo cercare di declinare questa cosa, oltre che con le valutazioni di fatto, anche con alcune proposte o simulazioni. Certamente emerge, in questa situazione, che siamo in una società un po’ ripiegata, che non riesce a incidere su alcune rendite di posizione, nella quale probabilmente il problema più drammatico è quello rappresentato dal lavoro dei giovani, e dove tutto sommato ancora non c’è l’inversione del rapporto fra la relazione con lo sviluppo che hanno il capitale e il lavoro. Ritengo che il richiamo autorevole che ci ha fatto il Presidente della Repubblica, nel suo messaggio di fine anno, sia l’elemento più drammatico che abbiamo davanti; chi ha rendite di posizione non le vuole scalfire. Guardate che non parlo solo della società, perché dovremmo anche chiederci quello che possiamo fare noi per il nostro Paese. Parlo, per esempio, anche per il sistema Legacoop: facciamo fatica, a volte, a intervenire nella riforma di quello che ci tocca più da vicino. Quindi, in generale, chi ha rendite di posizione fa fatica a intaccarle. In questa situazione i giovani sono, in termini di lavoro, una risorsa - è il lavoro più fresco, anche dal punto di vista intellettuale - che viene in qualche modo dissipata. In questo scenario in cui non c’è crescita - è un’altra delle considerazioni che verranno fatte nelle presentazioni successive - vengono messi progressivamente a rischio i diritti. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 39 Cioè, i diritti e anche i sistemi di protezione sociale, in carenza di crescita, trovano delle difficoltà a coesistere e quindi, progressivamente, potremmo trovarci di fronte alla messa in discussione anche degli stessi livelli di democrazia, di rappresentanza. L’abbiamo sentito stamattina: il lavoro, la contrapposizione lavoro-capitale. Quindi ci sono degli elementi indubbiamente molto critici. A questo punto, quello che è stimolante e che secondo me è importante che noi cerchiamo di mettere a frutto nella riflessione pomeridiana, è come aumentare la competitività del sistema e come riprendere la strada di crescita più sviluppata. Ritengo che ci voglia uno scatto. Sicuramente c’è un problema di “sistema Paese”, c’è un problema però che attiene anche alle imprese, in particolare alle imprese cooperative, e non è solo sul fattore lavoro, ma riguarda la capitalizzazione, la patrimonializzazione, il fattore di efficienza nello sviluppo e nella determinazione del valore aggiunto, quindi l’innovazione, la ricerca, tutti quegli elementi che fanno innovazione. Concludo, prima di lasciare la parola al dott. Cabrini, che modererà la tavola rotonda, cercando di evidenziare in questa analisi il ruolo della cooperazione. Quello che viene fuori - secondo me ormai indiscutibilmente, ed è stato dimostrato anche in questa occasione - è che la cooperazione è un soggetto che ha una capacità di resistenza maggiore, o migliore, alla crisi rispetto ad altri soggetti economici. Ed è l’elemento che la caratterizza positivamente anche nei giudizi autorevoli sul suo essere il soggetto economico che, probabilmente, interpreta meglio di altri la capacità di produrre benessere per la gente. Ovvero lo spostare il problema dalla sola visione finanziaria o capitalistica a una visione in cui la centralità dell’uomo e la compresenza di questi fattori sia un elemento che ci fa rivalutare che cos’è l’effettivo benessere. Io rappresento più da vicino il settore industriale delle nostre cooperative, indubbiamente per noi il benessere è sempre stato quello di creare “buon lavoro” per i soci. E non dico altro: buon lavoro vuol dire tante cose. Quindi, da questo punto di vista, credo che la cooperazione sia un soggetto che ha queste caratteristiche, ma che presenta anche qualche limite. Mentre ha una grande capacità di resistenza, avendo anche grandi imprese che sono diventate centenarie - se volessimo fare un paragone con l’atletica, la assimilerei a un maratoneta - non ha al contrario una grande capacità di scatto e di innovazione. Questo è l’elemento che, paradossalmente, la potrebbe mettere in difficoltà e sul quale io credo che, settorialmente e anche al nostro Congresso, dovremo discutere per capire come agganciare la ripresa e creare quelle condizioni di sviluppo che indubbiamente il Paese si merita. Quindi che cosa possiamo fare? Per concludere, prendo in prestito questa valutazione che mi è stata fornita recentemente dalla presentazione di un saggio a cui partecipò il prof. Prodi, che tracciava alcuni scenari sull’economia, assimilando il governo dell’economia, a seconda dei casi, al volo di una rondine - quindi molto ben determinato e lineare e con obiettivo chiaro (credo che l’ultima rondine che abbiamo visto nell’economia sia stato il pensiero lucido di alcuni nostri governanti che probabilmente viene sintetizzato meglio nella figura del Presidente Ciampi, quando ci orientò verso la moneta unica europea) - oppure (l’alternativa cui da anni siamo costretti) all’ondeggiare come una piuma e quindi in qualche modo al farsi trascinare. Noi da tempo siamo più simili a una piuma che a una rondine, nel disegnare gli scenari. Per concludere e rendere un ultimo omaggio, adesso si tratta di capire “come noi, che siamo calabroni, vogliamo reagire alla crisi”. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 40 ANDREA CABRINI Direttore Class-CNBC Grazie Zini, la prego di restare con noi, anche per essere già entrato nel merito di alcuni dei temi che affronteremo adesso e con alcune tesi che faranno discutere i protagonisti di questo check up dello stato dell’economia e anche di quello che serve, su cosa puntare per andare oltre questa situazione. Ve li presento: sono Alessandra Lanza, che è responsabile della ricerca economica di Prometeia, la prof.ssa Fiorella Kostoris dell’Università La Sapienza e il prof. Gian Maria Gros-Pietro dell’Università Guido Carli. Questo check up - dicevo - parte proprio da un lavoro di ricerca che è stato svolto da Prometeia - la relazione “Costruire il futuro per tornare a crescere e cosa cambia dopo la crisi”. Poi sentiremo gli interventi anche degli altri nostri esperti, per farli discutere su quello che cambia davvero dopo la crisi e soprattutto sul punto in cui siamo arrivati. Ci sono tante notizie anche di oggi, anche di questi giorni, dall’inizio dell’anno già lo scenario dell’economia ci ha messo di fronte alle diverse emozioni: dalla paura per il crollo di un Paese come il Portogallo, al sollievo, con correlato rally delle borse perché sono riusciti a vendere il loro debito pubblico; notizie positive di oggi, che riguardano la nostra asta dei BTP, l’asta dei titoli spagnoli che è andata bene. Quindi i mercati si stanno rilassando. Ma restano gli argomenti e le sfide a cui faceva riferimento anche Zini poco fa. Iniziamo subito con la relazione, prego Lanza. ALESSANDRA LANZA Responsabile ricerche economiche Prometeia Grazie. Buonasera a tutti. Oggi ho il compito di raccontarvi una storia, senza nessuna ambizione di leggere esageratamente nel futuro perchè è in questo momento un compito troppo arduo: viviamo in tempi di grandissima incertezza. Prima qualcuno mi ha detto “Lei è molto coraggiosa”; a me vien da dire “io sono abbastanza incosciente, ma lo faccio per mestiere!”. Quindi, davvero, non c’è una ricetta, c’è solo forse invece la voglia di riflettere insieme su cosa può essere fatto per costruire un futuro migliore e per tornare a crescere, che è il titolo dell’intervento. Provo ad affrontare il tema della crisi, con riferimento soprattutto alla spina portante del nostro Paese, che rimane l’industria, e a fare una riflessione banale, che proprio perché è banale, è forse l’elemento centrale su cui a mio parere vale la pena di spendere l’attenzione per capire che cosa vuol essere questo Paese da qui a dieci anni. Quello che è successo, indipendentemente dalla crisi, è che l’asse della produzione globale si è spezzettato e soprattutto che sono cambiati gli equilibri in chi produce e soprattutto in chi produce cosa. Come vedete dal grafico di sinistra (slide 2), che rappresenta le quote di produzione industriale del mondo, i Paesi industrializzati hanno perso progressivamente quota nell’ultimo decennio, a favore dei Paesi in via di industrializzazione, in particolare in favore della Cina. Quali sono i Paesi che più hanno perso quote di produzione? Gli Stati Uniti e il Giappone. Che cosa è successo in Europa? In Europa è successo che un unico Paese ha guadagnato quote; non solo ha tenuto, ma ha guadagnato e lo ha fatto perché è riuscito ad aggredire una parte del movimento del resto del mondo. Questo Paese è la Germania, che ha esportato di più, si è aperta di più. Non è successo in Francia, dove invece è in via di attuazione da molto tempo una fase di deindustrializzazione e uno spostamento sui servizi. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 41 Che cosa ha fatto l’Italia? Sorprendentemente, si potrebbe forse dire, ha tenuto le proprie quote di produzione. Ha perso un po’, ma se lo confrontate alle perdite degli altri Paesi industrializzati, non ha perso molto, perché tutto sommato ha tenuto sulle proprie quote all’export. Ora la crisi incide pesantemente su questo andamento e l’Italia stava lì in bilico, un po’ teneva un po’ perdeva. Che cosa succede con la crisi? La crisi accelera un processo di perdita. A questo punto ci si deve chiedere se questa è stata una storia certamente virtuosa delle imprese italiane e se è stata una storia, verrebbe da dire, da quindici anni a questa parte, di virtuosismo “nonostante”: nonostante la mancanza di riforme strutturali; nonostante un sistema-Paese che non ha offerto gli appigli che altri Paesi hanno potuto offrire; nonostante la totale assenza - tranne che per un brevissimo periodo, quello di Industria 2015 - di politica industriale, di incentivi, veri e tangibili, anche per l’attrattività per l’impianto di nuove imprese nel Paese, magari imprese che venivano dall’estero. Non mi dilungo, perché sono argomenti che già Zini ricordava, e sono argomenti noti. Ma la nostra industria ha fatto grandissimi passi, tutto sommato da sola, per riuscire a difendere quelle posizioni. In che mondo si trova nel dopo crisi? Si trova in un mondo dove la domanda interna è cedente e la domanda che arriva dall’estero è invece la parte principale su cui le nostre imprese possono andare a giocare la sfida competitiva. Questo lo vedete rappresentato nel grafico di sinistra (slide 3), dove c’è la domanda interna che resta sostanzialmente piatta come dinamica e una domanda estera che invece poi torna a crescere; il delta tra i due è lo spazio che dobbiamo andare a coprire per intercettare la domanda che ci viene dall’estero. Allora, cosa potremmo fare per far sì che il nostro sistema industriale non soffra le conseguenze della crisi, ma invece vada ad ampliare la propria quota, vada a crescere? Se solo ci comportassimo come la Germania - dico la Germania per fare un esempio dell’unico Paese industriale che guadagna quote di commercio in Europa - andremmo ad aumentare la nostra propensione all’export dal 32% del fatturato al 53%, il che vorrebbe dire produrre, in Italia, circa 25/26 miliardi in più di beni che finiscono all’estero. Ora noi non siamo la Germania, quindi è ovvio che questo è un limite superiore, però è bello, quando uno pensa ad una sfida, darsi una sfida con un ostacolo più in là. È chiaro che questa strada va percorsa poi con ragionevolezza e quindi non immaginandosi di arrivarci domani mattina. Magari non ci arriveremo nemmeno mai, però può essere, come dire, un faro che illumina il cammino. Non siamo la Germania per tante ragioni: la Germania ha pagato i costi dell’unificazione, ma ha anche beneficiato dal punto di vista industriale dell’unificazione; ha fatto in alcuni casi, in alcuni momenti, moderazione salariale; ha imprese in cui c’è una partecipazione dei lavoratori molto più forte di quella italiana e in questo senso, se volete, più vicina anche al vostro mondo. Sono tutte differenze importanti, oltre a una differenza ovviamente - non la ricordo neanche - qualitativa, di innovazione tecnologica significativa rispetto all’Italia. Però tuttavia è l’unico modello industriale che resiste in Europa, per cui ci piace l’idea di ragionare andando verso la best practice. L’alternativa qual è? È il modello francese, di un Paese in cui, al contrario, ci sono poche grandi imprese, sostenute da una politica industriale a loro molto favorevole e sempre molto ben mirata. Però, a fronte di poche grandi imprese, la Francia ha meno piccole e medie imprese rispetto all’Italia e quel tessuto industriale si è andato via via perdendo a favore dei servizi. Ce lo possiamo permettere? Dobbiamo ragionare sul fatto che in Italia, ad oggi, la percentuale di occupati manifatturieri sul totale rimane molto elevata rispetto agli altri Paesi industrializzati ed è paragonabile soltanto a quella della Germania, cioè è molto vicina. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 42 Che cosa succede se lasciamo andare la nostra industria, che è fatta prevalentemente come è noto - di piccole e medie imprese? Che dobbiamo immaginare che cosa fare di quegli occupati, come riconvertirli, come fare a gestire una transizione eventualmente verso i servizi. Cosa che non è evidentemente banale, soprattutto perché sono occupazioni di piccole e medie imprese che hanno specializzazioni non high skills, ma anche low and medium skills, anche più difficili da rivendere in un contesto diverso, perchè comunque sono magari rimasti a fare per vent’anni quello stesso lavoro ed è più difficile riconvertirli. E poi perché è nel cuore della tradizione italiana avere una specializzazione industriale. Si può fare? A nostro parere sì, si può fare di continuare a combattere la sfida industriale. Nel grafico di destra (slide 4) - so che ne avete già parlato molto stamattina, non voglio entrare nel merito del dibattito FIAT, soprattutto non da un punto di vista etico e costituzionale, faccio un’osservazione di puri numeri - il piano ipotizza una maggiore propensione all’estero del gruppo che passi dal 40% al 65%, questo vorrebbe dire 30 miliardi di euro in più di produzione industriale, di cui almeno il 35% riferito all’indotto. Banalmente che cosa vuol dire? Che in uno scenario in cui stiamo ancora facendo fatica a recuperare i livelli pre-crisi e immaginiamo di non recuperarli per i prossimi nove anni, il fatto di avere 30 miliardi di produzione industriale in più, vorrebbe dire recuperare un 3% nel corso del prossimo triennio e quindi accelerare di molto il recupero della produzione industriale. A me l’esempio serve, FIAT o non FIAT, per farvi capire che produrre di più sul territorio nazionale, anche per l’export, cambia di molto lo scenario, se le cifre sono queste. È importante o non è importante? Perché uno può dire “beh, ma io ho una convenienza economica ad andare a produrre all’estero, oppure ho una convenienza economica a chiudere - un piccolo imprenditore lo può dire - la mia impresa e fare l’immobiliarista” (questo si poteva dire nel mercato immobiliare prima della crisi del mercato immobiliare, oggi si dovrebbe fare altri tipi di servizi). Qual è l’impatto sul welfare del Paese? È un impatto occupazionale forte. Vedete quanti anni dopo le crisi precedenti che si sono verificate - sono tutte nel grafico di destra (slide 5) si riesce a recuperare i livelli nel mercato di lavoro; la crisi più lunga è quella giapponese del 1992, dove recuperare i livelli di mercato del lavoro vuol dire più di dieci anni, quasi dodici. Questo è esattamente il momento storico in cui ci troviamo: guadagnare o perdere occupazione. E se la perdiamo è un problema che poi va gestito. Abbiamo visto che è possibile non perdere occupazione se troviamo una strada per rendere competitive le nostre imprese e portarle all’estero. Perché l’estero e non il mercato interno? Perché il mercato interno è in stasi, è un mercato in cui le famiglie, da molti anni, da tutto il corso degli anni Novanta, hanno cominciato a consumare più di quanto guadagnavano, in dinamica; quindi il livello, la quantità di risparmio è andata via via riducendosi e non soltanto per le bolle speculative e per le crisi, ma proprio come modello di consumo e anche di rapporti fra capitale e lavoro nel Paese. Per i prossimi anni (slide 6) le nostre previsioni che, in quanto previsioni possono essere un po’ ardite, considerano che continuerà a rimanere un gap tra andamento dei prezzi e retribuzioni - per quanto ci sia un recupero, il delta post-crisi rimane negativo di oltre un punto percentuale - e quindi non possiamo immaginarci che una forte spinta all’industria derivi dal mercato interno. Se non deriva dal mercato al consumo, non deriva ovviamente nemmeno dal fronte degli intermedi, qualora si resti molto ancorati all’Italia. Diverso è il caso in cui si vada molto fuori, allora gli intermedi viaggiano chiaramente su un canale loro (slide 7). In questo modo il grado di utilizzo degli impianti rimarrebbe molto sotto la capacità produttiva e non ci sarebbe modo - questo si è già verificato nel corso dell’ultimo anno - di fare semplicemente fronte a delle chiusure. Volendo immaginare che lo scenario non debba essere così fosco, abbiamo detto che la strada che possiamo provare a percorrere, perché c’è ancora spazio, è andare all’estero Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 43 (slide 8). Dove? Questa è forse la prima domanda, anche perché viene da dire “benissimo, non ci siamo andati fino adesso, ma andiamo all’estero dove e come?”. Quindi andiamo all’estero, dove la crescita è più vivace. Questa è la prima semplicistica risposta, ovvero in tutta l’area asiatica (slide 9 slide 10). Ma si tratta di mercati molto lontani. E siamo in grado di andarci? Questa è la seconda domanda, cioè come ci vado? E riesco ad andarci? Oppure c’è un secondo gruppo di Paesi che hanno una crescita molto dinamica e sono molto più vicini, sono quelli che vedete rappresentati in arancione. Per cui possiamo cominciare ad andare all’estero nei Paesi che ci sono più vicini. Ci andiamo senza rischi? Certamente no, in questo momento il mondo è ancora più rischioso di quanto non fosse nel periodo pre-crisi. Perché - mettiamola giù semplice e banale - c’è molta più instabilità. Anche laddove ci siano una serie di notizie positive - lo ricordava benissimo Cabrini prima - ormai è un alternarsi, un giorno di una notizia buona, l’altro di una cattiva. I mercati sovra-reagiscono a notizie buone e cattive e questo crea, e creerà, dei cicli molto più brevi e molto più violenti in termini di oscillazione. Quindi vado all’estero e assumo, anche se non sembra, forse ancora più rischi di quelli che prendevo una volta, che tra l’altro sono “prezzati” di meno. Perché c’è invece tutto sommato una percezione di minor rischio, mentre c’era, prima degli anni Novanta, una percezione di grande rischio, soprattutto sugli spread dei Paesi emergenti. Poi c’è stato questo lungo decennio in cui la percezione di rischio di fatto era sparita. È esplosa con la crisi, ma tende a rientrare; non c’è più, o perlomeno non è prezzata, la percezione del rischio che definirei “sottostante”, cioè c’è quella legata alla notizia, che è white noise. Vado in questi Paesi, ma perché ci vado? Perché sono un’opportunità e non solo una sfida. Cioè, mentre nell’ultimo decennio il mondo era sostanzialmente tranquillo, questi Paesi sono riusciti a fare un lungo percorso di crescita, che li ha portati ad avere redditi disponibili molto elevati e quindi sono diventati mercati molto interessanti per le nostre imprese. È vero che sono concorrenti, ma sono anche Paesi consumatori e cominciano a diventare Paesi consumatori molto interessanti. Immaginate che - sono sempre numeri molto difficili - una prima soglia di motorizzazione, di prima motorizzazione, nei Paesi emergenti è considerata intorno a un reddito disponibile di 5/6.000 euro. Ora, vedete che di Paesi che cominciano ad avere un reddito al di sopra di questa soglia ce ne sono molti, oltretutto l’evoluzione del credito rende questa soglia anche un po’ più flessibile, nel senso che molto viene finanziato. Sono Paesi in cui c’è ancora una grandissima dispersione, divaricazione del reddito, per cui tendono, tutti quelli di matrice ex sovietica eccetto la Russia, a essere più uguali nella distribuzione del reddito, mentre ce ne sono altri che sono molto diseguali. Perché dico questo? Perché è molto importante a seconda di cosa si vende, cioè è evidente che se vendo prodotti di lusso mi interessa avere una gamma ristretta di consumatori molto ricchi, ma se invece realizzo prodotti del cosiddetto “lusso accessibile”, per esempio, mi interessa avere un ceto medio che sta crescendo, quindi mi serve capire come evolve l’uguaglianza della distribuzione dei redditi nei vari Paesi. Posto che questi sono i Paesi interessanti, siamo capaci di andarci? Le nostre imprese ce la fanno? Qui cominciano non le cattive notizie, ma le notizie su cui aprire un dibattito e una riflessione. Se guardate qual è - ed è l’asticella arancione - la crescita delle esportazioni mondiali stimata per il periodo 2009-2013 - l’abbiamo stimata noi, quindi ammettiamo pure che magari ci sia qualche errore, ma possiamo parlare di 1/2 punti di differenza tra i vari organismi di previsione - vedete invece che tra le aree lontane e le aree vicine ci sono svariati punti, nell’ordine della decina, di differenza di crescita. E dove siamo presenti noi come imprese? Tutti nelle aree vicine, facciamo molta fatica ad andare ad aggredire i mercati lontani. Su una distanza che supera gli ottomila chilometri non ci siamo quasi e quelli, guarda caso, sono i mercati a più alta crescita. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 44 Perché non ci siamo quasi? La risposta è banale: perché la struttura della nostra industria è fatta di piccole-medie imprese, molto di più di quella degli altri Paesi. O meglio, più che di piccole e medie - vedete che con le piccolissime tutto sommato ce la giochiamo con la Francia e la Spagna - ci mancano le grandi; sulle grandi siamo proprio molto sbilanciati in senso negativo rispetto a Germania, Francia e persino Spagna (slide 11). Questo rende più difficile andare in Paesi lontani, perché siamo meno strutturati e abbiamo anche le spalle meno larghe per sopportare i rischi di cui dicevamo prima. Infatti, se vedete, sono le grandi imprese che vanno nei mercati lontani e in tanti mercati diversi, quindi in qualche modo bilanciano i rischi a cui si espongono. Vedete che oltre il 60% delle imprese che è presente in più di 16 mercati sono aziende con più di 250 addetti. Perché andare all’estero? Perché questo, oltre a darci la possibilità di intercettare domanda crescente, ci insegna anche a essere più bravi. E traduco il “più bravi” in più produttivi; qui vedete che la produttività media degli esportatori è sempre più elevata delle imprese non esportatrici, banalmente perché sono soggette a maggiore concorrenza. Ma fa sempre bene andare all’estero (slide 12)? Ecco, la risposta è complessa, perché ci sono processi di internazionalizzazione virtuosa - lo vedete nel grafico di sinistra, dove chi va all’estero e accetta un rischio crescente viene anche remunerato di più, quindi ha una dinamica positiva dei margini - ma c’è anche stato chi, andando all’estero e accettando rischi crescenti, ha avuto una diminuzione dei margini, quindi l’internazionalizzazione l’ha pagata. L’internazionalizzazione può far bene o far male, dipende da come la si realizza. È vero però che, in un processo virtuoso di internazionalizzazione, si ottiene un delta di produttività - qui stiamo parlando di esportazioni, quindi non ottengo questo delta di produttività perché chiudo tutto in Italia e vado a produrre all’estero - perché mi confronto più strettamente con i concorrenti e quindi miglioro il mio processo produttivo. Benissimo, allora si può fare, si può fare in modo virtuoso, però siamo piccoli e non ci riusciamo (slide 13). Che cosa possiamo fare? Possiamo provare a giocare in squadra. Che può voler dire tante cose. Tutti ricorderete l’esperienza dei consorzi di esportazione. Parlando di questo un po’ con gli imprenditori, ho sentito dire tutto e il contrario di tutto. C’è chi dice “funzionavano benissimo” e c’è chi dice “per carità, meno male che quell’epoca è finita”. Anche qui bisogna vedere come li si facevano funzionare, non c’è un bene o un male in assoluto, certamente è una via che può creare un gioco a somma positiva. Mi fermo in particolare su questa riflessione, perché è molto vicina al vostro mondo, al vostro modo di operare. Cosa significa questo per le imprese cooperative? Vuol dire che, proprio perché avete un vantaggio in termini di essere già una sorta di consorzio, di avere molta facilità a giocare in squadra, potete provare ad aggredire mercati lontani (slide 14). Abbiamo provato a fare una mappatura: questi mercati possono essere molto lontani - come vedete sono sempre quelli a crescita più elevata - ma vi sono anche mercati molto dinamici in aree più vicine, che sono tipicamente alcuni Paesi dell’Europa dell’Est e il Medioriente. Abbiamo provato a ragionare sui vostri settori, in particolare sull’alimentare, dove la distanza fisica conta per la deperibilità delle merci, ma anche molto per la cultura alimentare che non è facile affermare. Per esempio la Cina è uno dei Paesi a più alta crescita, ma è anche uno dei Paesi dove, dal punto di vista dell’alimentare, è più difficile imporre la presenza di imprese straniere. Per quanto la dinamica sia molto alta, anche a due cifre, ovviamente lo stock di alimentare estero in Cina rimane molto piccolo. Diversa è la situazione per la meccanica (slide 15), dove invece i mercati dell’area asiatica sono quelli più promettenti e dove possono nascere molte opportunità, anche in partnership Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 45 con produttori locali. Difficile, un po’ come per l’alimentare, è la vita del sistema casa (slide 16), dove in questo momento c’è una difficoltà congiunturale importante legata all’andamento del mercato immobiliare, ma anche dove è importante affermare lo stile abitativo. Questo è forse un po’ più facile della cultura alimentare: per esempio, in Cina ci sono molte esperienze virtuose di acquisizione dello stile abitativo italiano, addirittura con evoluzioni tecnologiche sul campo. Quindi è un mercato da guardare con grande attenzione. Per quanto riguarda le costruzioni, ci sono moltissime opportunità che potete cogliere nei piani infrastrutturali dei Paesi emergenti (slide 17). Qui, naturalmente, molto spesso ci sono gare, in cui le imprese italiane hanno di solito delle ottime possibilità di riuscita, se decidono di affrontarle. Ovviamente è una sfida, ma si tratta certamente delle aree a maggior crescita nei prossimi anni, quanto a piani e progetti infrastrutturali. Ci sono anche nei mercati vicini (slide 18). La stessa cosa vale per la logistica, dove - credo che alcune esperienze le abbiate già fatte - si può giocare un ruolo importante anche a partire dai programmi comunitari già in atto (slide 19). Altro punto: come lo faccio? Questa era la domanda che ci ponevamo all’inizio. Oltre al come in termini di struttura del capitale, come lo faccio in termini di distribuzione (slide 20)? La distribuzione ha livelli di sofisticazione ancora molto diversi, a seconda dei vari Paesi: quando decido di andare a vendere, soprattutto in un Paese lontano, devo essere sicuro di sapere come vendere il mio prodotto; non si vende da solo e quindi un’analisi approfondita della distribuzione è imprescindibile. L’ultimo vostro settore, che è quello della sanità e del sociale, trova anch’esso spazi all’estero, grazie al fatto che aumenta la trasparenza dei processi di public procurement nei mercati emergenti (slide 21). Quali sono quelli interessanti? I Paesi di matrice exsovietica, dove il welfare pubblico è importante; meno i Paesi dell’America Latina e dell’Asia, dove c’è una percentuale di welfare privato ancora molto rilevante (slide 23). Perché devo andare all’estero? Perché non restare in Italia, soprattutto in un settore così tipicamente locale, come la sanità e il sociale? Perché la capacità di spesa del sistema Italia nei prossimi anni sul driver pubblico sarà molto limitata, per le ragioni note che tutti conosciamo (slide 22). E anche perché i Paesi emergenti, convergendo verso il modello di sviluppo dei Paesi industrializzati - badate, non imitandolo, ma convergendovi nel benessere - aprono una serie di spazi in termini di avvicinamento in tutti i servizi dedicati alle comunità, quindi tutti i servizi tipicamente della sanità e del sociale. Grazie. ANDREA CABRINI Grazie, Alessandra Lanza, anche per avere dato delle indicazioni precise legate ai settori industriali in cui operano tante delle imprese cooperative che oggi sono qui presenti. Su questo chiederei alla prof.ssa Kostoris le sue osservazioni e la vorrei riportare anche alla domanda di base di questo incontro, cioè: a che punto è la crisi? Mentre noi parliamo, a Francoforte oggi si è tenuta la prima riunione dell’anno della Banca Centrale Europea e poco fa Jean-Claude Trichet ha detto “confermo di vedere nell’economia europea dei segnali di ripresa sempre più robusti”. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che nel 2011 l’economia globale nel suo complesso crescerà tra il 4% e il 5%, quindi sopra la media degli ultimi vent’anni. Tuttavia abbiamo visto che per Paesi come il nostro la situazione non è facile. Molti si domandano appunto se siamo usciti dal peggio della crisi, dal “pronto soccorso”, e in che reparto siamo entrati, cioè dove siamo in questo momento. Oppure se invece, come ci ha detto Tremonti la scorsa settimana, la crisi non è finita e siamo al punto di Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 46 prima, anzi il denaro facile con cui la stiamo curando, negli Stati Uniti, ma un po’ anche in Europa, sta gonfiando nuovamente alcune bolle speculative. Quindi, pericolosamente, ci potrebbero essere nuovi shock in futuro. FIORELLA KOSTORIS Università La Sapienza di Roma Grazie per avermi dato la parola sulla parte “macro” delle prospettive future, anziché su quella aziendale e “micro” di cui ha parlato finora la dott.ssa Lanza. Prima di tutto vorrei ringraziare Legacoop di questo invito perché il dibattito mi sembra interessante. Il problema di che cosa ci aspetta per il futuro è un argomento difficile, quindi ascoltare le opinioni di altri può essere di estrema utilità. Recentemente, il Financial Times ha descritto i tre scenari macroeconomici più probabili che si possono intravedere per il 2011 e ha identificato anche, per ciascuno di questi, le relative probabilità, appunto secondo il quotidiano inglese. Gli scenari sono: il 2011 sarà sostanzialmente molto simile a quel che è stato il 2010, cioè un’economia nei Paesi dell’Occidente, in particolare nei Paesi sviluppati, che riprende pian piano a crescere, ma non è ancora completamente fuori dalla crisi; sistemi di mercati finanziari ancora con grandi volatilità; molte differenziazioni all’interno degli stessi Paesi del mondo occidentale, per non parlare delle differenze che sono anche più grandi tra Paesi BRIC, come la Cina, che riprendono a crescere al 10% e altri, come per esempio il nostro, che stentano a vedere una seria ripresa. La probabilità che il Financial Times dava a questo scenario, sostanzialmente invariato, è dell’ordine del 70%. Poi c’è invece uno scenario molto più pessimista, nel quale la crisi dei debiti sovrani in Europa si accentua moltissimo e dove alcuni Paesi sono costretti a ristrutturare il loro debito; dove l’Unione Europea non è in grado di far fronte agli impegni che pure intende prendere, e per una certa misura ha già preso, nei confronti dei Paesi in crisi, per esempio nei confronti dell’Irlanda. Insomma, uno scenario nel quale l’Euro non resiste e per esempio possono emergere due Euro. Il Financial Times non lo diceva ma, a mio parere, se questa ipotesi si dovesse malauguratamente realizzare, i due Euro non solo si manifesterebbero in diversi Paesi dell’Unione Europea e dell’attuale Euro Zona, ma forse vedremmo addirittura due Euro all’interno del nostro stesso Paese, da un Centro-Nord capace di seguire l’Euro forte e un Mezzogiorno non in grado. Bene, il Financial Times dava a questo scenario una probabilità del 20%. Io non concordo su questa probabilità. Ritengo che sia uno scenario estremamente improbabile, perchè penso che fondamentalmente gli Stati membri nell’Unione Europea abbiano messo in campo una serie di misure. La Banca Centrale Europea di fatto ha già cambiato, rispetto ai trattati intesi in senso stretto, le proprie politiche; in fondo accompagna con politiche monetarie talora più espansive di quanto si sarebbe potuto immaginare, le situazioni di difficoltà dei mercati monetari e finanziari. La stessa Unione Europea ha messo in campo strumenti che alcuni considerano non molto larghi e altri invece, come la Germania, considerano sufficienti: ho in mente per esempio il cosiddetto Europen Financial Stability Facility di 440 miliardi di euro per venire incontro ai Paesi in difficoltà. In poche parole, personalmente ritengo che questo scenario, non del tutto impossibile, sia estremamente improbabile; gli attribuirei una probabilità molto vicina allo zero. Infine il terzo scenario di cui parlava il Financial Times è quello opposto, quello estremamente positivo, quello nel quale la volatilità nei mercati finanziari viene sistematicamente ridotta, dove le imprese finanziarie escono da situazioni in cui sono entrate già nel 2008 a causa di asset tossici, credit crunch e via discorrendo, l’economia riprende alla grande, l’occupazione aumenta. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 47 A questo scenario il Financial Times dava una probabilità del 10%. Personalmente credo invece che abbia una probabilità un po’ più alta, gli attribuisco una previsione inferiore al secondo scenario). Sono comunque d’accordo - e penso che lo siano i più - col Financial Times che la previsione più probabile per il 2011 sia di trovarsi in una situazione non molto lontana dal 2010, con molte diversità fra i Paesi. E questo è un punto importante: come si colloca l’Italia all’interno di questa situazione? Certo, se la previsione è che il 2011 non sia molto diverso dal 2010, l’Italia si trova in una posizione di ripresa, ma molto stentata. Perché se, come si ritiene ormai dai preconsuntivi, ad esempio la Germania nel 2010 crescerà del 3,5-3,6% - cioè di un valore che non si vedeva in Germania da anni, riprendendo situazioni di grande evoluzione, di grande dinamica del passato - l’Italia probabilmente nel 2010 chiude con una crescita di circa l’1%. Dunque, dire che il 2011 sarà come il 2010 vuol dire, nella situazione tedesca, una brillantezza straordinaria, nel nostro caso, una mediocre evoluzione positiva. D’altra parte non dimentichiamoci che, diversamente da tanti altri Paesi che come il nostro hanno avuto una recessione profonda nel 2008, diversamente anche dagli altri Paesi che hanno avuto una recessione profonda, già nel 2008 l’Italia ha avuto una caduta nella crescita. È l’unico Paese dell’Unione monetaria, dell’Euro Zona, insieme all’Irlanda, che ha già avuto nel 2008 una caduta del PIL. L’Italia, nel 2008, ha avuto una caduta dell’1,3% nel PIL. La Germania, che pure era in recessione come noi, nel 2008 ha avuto una crescita dell’1%. Poi nel 2009 noi abbiamo registrato una caduta del PIL superiore al 5%. In poche parole, ci vorranno circa nove o dieci anni di crescita al ritmo a cui ci aspettiamo che si cresca - appunto simile a quello del 2010 - per poter tornare ai valori del reddito che avevamo osservato prima della crisi. La situazione è quindi in un certo senso abbastanza drammatica, tanto più che non dobbiamo dimenticare che nel momento precedente la crisi, nel 2007, già avevamo perduto molte posizioni relative rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, avendo ad esempio un reddito pro-capite che era già diventato, o stava diventando, inferiore a quello spagnolo, un PIL pro-capite inferiore a quello della media dei paesi dell’Euro Zona. Sostanzialmente non dobbiamo dimenticare che in tutto il periodo degli anni Duemila, l’Italia ha avuto una crescita di circa di 1 punto inferiore alla media degli altri Paesi dell’Unione Europea. Per esempio, nel primo quinquennio degli anni Duemila (20012005), siamo cresciuti mediamente dello 0,9%; il resto dell’Unione Europea cresceva dell’1,8%, quindi noi avevamo già un’evoluzione dimezzata. Ognuno quindi tornerà lentamente, magari tra dieci anni, alla situazione precedente, ma noi purtroppo torneremo a un contesto, al di là della recessione, di debole crescita e anzi, in certi casi, di ristagno. Torneremo a una situazione in cui la produttività potrebbe essere ancora in calo? Ci auguriamo di no, ma non dobbiamo dimenticare che così è andata per molti degli anni Duemila. Come ricordato nell’introduzione, la competitività è effettivamente caduta negli ultimi dieci anni in Italia in modo, in un certo senso, drammatico rispetto ad altri Paesi con cui ci confrontiamo. Quando si dice che c’è una crescita troppo lenta dei redditi in Italia, che quindi non assicura la base per poter formulare previsioni positive e ottimistiche quanto ai consumi, che dai redditi dipendono, si dice qualcosa di vero, ma dobbiamo anche tenere conto che i redditi in Italia sono cresciuti troppo poco da questo punto di vista, ma anche troppo da altri punti di vista. Pensiamo al fatto che il reddito reale degli italiani, negli anni a partire dal 2000, è sempre cresciuto - poco, ma è sempre cresciuto - a fronte di una produttività del lavoro che quasi sempre, in quasi tutti questi anni, decresceva. Sicché il costo del lavoro per unità di prodotto in Italia aumentava drammaticamente; in Germania, con cui giustamente il Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 48 rapporto Prometeia ci confronta in modo sistematico, questo non succedeva, perché la produttività cresceva di più e i redditi reali talvolta crescevano, ma talvolta diminuivano, con la conseguenza che il costo del lavoro per unità di prodotto in Italia, rispetto a un Paese come la Germania, è aumentato in modo drammatico. La situazione dell’occupazione forse preoccupa ancora di più di quella del prodotto interno lordo, perché? Perché il nostro mercato del lavoro è abbastanza rigido, ha quindi potuto conservare un certo numero di posti di lavoro grazie alla cassa integrazione in deroga, o ad altri strumenti che sono stati messi in campo, ma fondamentalmente ha posticipato una serie di problemi. Quindi adesso osserviamo una situazione in cui la disoccupazione continua ad aumentare, mentre in altri Paesi come gli Stati Uniti - Paesi a mercato del lavoro molto flessibile - in realtà la disoccupazione comincia a diminuire. E da noi il problema è più grave, perché ci sono intere sacche della popolazione - penso soprattutto ai giovani e alle donne - che sono sottoutilizzate e lo erano anche prima che cominciasse la crisi. Prima di concludere desidero dire una parola sulla questione della finanza pubblica, perché nel nostro Paese alcuni dicono che in fondo non si è aggravata tanto quanto è successo in altri Paesi, e in una certa misura così si dice il vero, ma di nuovo ci sono i problemi strutturali che non si possono dimenticare. Non dimentichiamo innanzitutto che la pressione fiscale in Italia è aumentata moltissimo: ormai nell’Unione Europea siamo terzi per pressione fiscale dopo due Paesi scandinavi, i quali naturalmente hanno però una pressione fiscale alta, ma hanno anche servizi sociali estremamente buoni e hanno una distribuzione della pressione fiscale per classi sociali molto più equa che da noi, dove, come è noto, l’evasione è fortissima. I pacchetti di sostegno di spesa pubblica, anche quelli che si sono manifestati negli anni della crisi 2008-2009, purtroppo non sono mai stati in grado di abbassare la spesa corrente, anche la spesa improduttiva - dove, scusatemi, io per esempio ci metto le pensioni - e non hanno saputo aumentare la spesa invece produttiva, quella a favore del capitale e in particolare del capitale umano. È vero che il deficit pubblico non è aumentato tanto come in altri Paesi, però ancora nel 2012 avremo un deficit pubblico rispetto al PIL superiore al 3,5%, secondo le previsioni dello stesso Governo. E naturalmente c’è il problema del debito, che ormai è al 119% del PIL, è due volte superiore a quello che il Trattato di Maastricht ci imporrebbe e, diversamente da come chiedono i Trattati europei e il Patto di stabilità e crescita, è in continuo aumento. Quindi ci troviamo in una situazione in cui sicuramente la riforma del Patto di stabilità e crescita ci chiederà di fare qualcosa; credo che quello che dovremo essere disposti a fare è di continuare, e anche aumentare, il rigore nella finanza pubblica, ma cambiando il peso relativo da dare alle spese correnti del settore pubblico rispetto a quelle per investimento, per accumulazione nel capitale umano. Alcune scelte sono facili. Faccio qualche esempio. Il piano Tremonti, che è passato, di bloccare ogni singolo stipendio pubblico nei prossimi tre anni ha l’effetto positivo di rigore su una voce della spesa pubblica che rappresenta circa il 10% del PIL: gli impiegati pubblici. Però si sarebbe potuto ottenere lo stesso risultato di blocco del monte salari pubblico senza bloccare ogni singolo stipendio e questo avrebbe consentito una certa flessibilità in alcuni salari pubblici, che potevano essere aumentati per incentivare la produttività - cosa di cui abbiamo grande bisogno - mentre altri si potevano diminuire in altri termini, dando spazio a una delle migliori riforme che questo Governo ha fatto finora, che è quella del Ministro Brunetta per la valutazione, l’integrità e la produttività della pubblica amministrazione. Ecco, si sarebbe potuto fare ugualmente rigore nella finanza pubblica ma, secondo me, dando più spazio, appunto, alla crescita, agli incentivi per la produttività di cui il nostro Paese ha grande bisogno, sia nel settore pubblico sia in quello privato. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 49 ANDREA CABRINI Grazie prof.ssa Kostoris, che ha chiuso su alcune importanti scelte che andranno fatte nel corso di quest’anno, emerse nella sua analisi amara sull’Italia, anche se forse più ottimista degli inglesi sullo scenario globale… Ma gli inglesi sono sempre un po’ scettici, soprattutto quando si parla di Euro. Pensate che la copertina dell’Economist di domani torna a chiedere un “Piano B” per salvare l’Europa, nonostante i risultati di queste ultime aste del debito di Paesi un po’ in bilico, come appunto Portogallo e Spagna, e lasciamo fuori l’Italia. Torniamo però alle osservazioni del prof. Gros-Pietro, cui chiedo di prendere la parola, e già gli faccio una domanda introduttiva, perché abbiamo sentito per due volte che comunque, anche con questi livelli di ripresa dell’economia, ci vorranno nove anni per tornare ai livelli precedenti alla crisi. Mi chiedo a questo punto se ha senso porsi ancora questo problema della velocità di uscita dalla crisi, oppure se bisogna mettersi in testa che lì non ci torneremo, che il mondo va verso quella che gli esperti chiamano una “nuova normalità” che è fatta di redditi più bassi, di più risparmio e meno consumi, di un equilibrio tra pezzi del mondo che erano distanti anni luce e che invece convergono dal punto di vista dei redditi e divergono dal punto di vista della crescita. GIAN MARIA GROS-PIETRO Università Luiss di Roma, Presidente Atlantia Certo che andiamo verso una nuova normalità, ma è una nuova normalità che non sarà senza crescita, solo che la crescita sarà molto diversa da un’area all’altra (slide 1 e slide 2). Ritorno a una visione aziendalistica, naturalmente collocata in un quadro che ci faccia comprendere la crisi. Perché dico che i problemi erano di liquidità finanziaria (slide 3)? Perché questa non è una crisi capitalistica, non è una crisi dovuta al fatto che gli imprenditori sono stati troppo ottimisti, hanno investito troppo o hanno creato una sovra-capacità produttiva. No, qui è tutta una crisi finanziaria - come sappiamo - che però ha dovuto poi essere presa in carico dagli Stati, è diventata debito sovrano e questo ha prodotto politiche di bilancio estremamente restrittive, mentre invece paradossalmente sono molto accomodanti le politiche monetarie e tutto questo si traduce in un crollo degli investimenti e prima ancora in un crollo dei consumi, come sanno bene gli imprenditori, e quindi in una caduta dell’occupazione. A questo punto sì che la crisi diventa simile alle crisi capitalistiche, perché abbiamo il circolo vizioso che non si consuma, non si lavora, non si produce e quindi non ci sono redditi e così via (slide 4). È vero che la crisi non ha un’origine reale, però le sue premesse hanno avuto importanti effetti reali, perché gli americani sono andati avanti per anni a consumare il 105% del loro reddito e su questo ci hanno pascolato tutti: i cinesi che vendevano prodotti per il mercato americano, i tedeschi che vendevano impianti ai cinesi e così via. Quindi, se si vuole uscire dalle cause della crisi dei deficit gemelli e dell’ingiustificato tenore di vita che faceva consumare di più, bisogna pensare a un mondo nel quale tutta la macchina produttiva si modifica, perché non costruisce più case per americani, che non se le possono permettere, ma produce qualcosa di più per i cinesi che devono consumare di più. Questa è una buona notizia per chi produce impianti, come i tedeschi e se permettete anche come gli italiani, perché vuol dire che le fabbriche sono da rifare un poco dappertutto, vuol dire che cambieranno tutti i prezzi relativi e che quindi tutte le combinazioni produttive, e non solo nel vettore finale della produzione, dovranno essere modificate. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 50 Cito come ultimo elemento la riduzione della sicurezza. Ci torneremo dopo, perché è un fatto aziendalmente molto importante, però, vi ricordate - forse no, molti di voi non se lo possono ricordare, ma io lo ricordo bene - gli anni della Guerra Fredda? Tutti tranquillissimi, non si muoveva niente. Le uniche persone che non erano tranquille erano quelli perseguitati da McCarthy negli Stati Uniti o dal KGB nell’Unione Sovietica, ma tutti gli altri stavano in una situazione di sicurezza assoluta. Non è più così, è cambiato tutto. Lo vedremo ancora dopo cosa significa, ma questo comporta che una parte delle funzioni statuali si stanno trasferendo ad altre forze. Alcune di queste forze sono economiche, cioè anche il mondo economico ha la possibilità di partecipare nello svolgimento di funzioni che una volta erano esclusivamente dello Stato, gestite dalla politica e dalle sue istituzioni. Tutto questo non ha fatto che accelerare dei cambiamenti che erano inevitabili: cioè, i deficit gemelli e tutte quelle cose imponevano dei cambiamenti, il fatto che ci sia la crisi li sta facendo avvenire in modo accelerato. Tremonti lo aveva già detto. In un libro di qualche anno fa, a proposito della globalizzazione, prima aveva detto che non andava per niente bene, poi che “potrebbe andare anche bene, ma la state facendo troppo in fretta”. Ebbene, qui le cose stanno precipitando. Come stanno correndo alcuni cambiamenti. Per esempio questa enorme produttività cinese, che sembra imbattibile, è confrontabile con quella del Giappone degli anni Ottanta? Quest’ultima abbiamo poi visto che è durata un decennio e dopo è svanita. Succederà lo stesso anche di quella della Cina? Non sarà così (slide 5). L’Impero di Mezzo non è come il Sole Nascente: la Cina è stata la prima economia mondiale, un Paese che ha prodotto il maggiore PIL del mondo per dieci secoli, dal VI al XVI secolo. E ricordiamoci una cosa: non c’era solo la Cina, l’Asia da sola produceva più della metà del PIL mondiale. Stiamo tornando più o meno a quella situazione. Perché cito queste cose - che si possono affondare le portaerei, Google, Al-Qaida, ecc. ecc.? È di nuovo lo stesso concetto: alcune delle funzioni degli Stati non sono più gestite solo dagli Stati. Addirittura la sicurezza: viene meno il monopolio statale della sicurezza, che è anch’essa un’invenzione dell’era moderna, risale più o meno a un secolo prima della scoperta dell’America. Perché prima non era così, la sicurezza ognuno se la comprava; gli imprenditori l’acquistavano, i principi avevano le compagnie di ventura e così via. Stiamo tornando a una situazione non proprio in cui si compra, ma insomma, WikiLeaks è qualcosa di importante... Perché cito le portaerei? Andiamo indietro, a quando la Cina era la prima economia del mondo, a quando l’Asia vede arrivare, dapprima nell’Oceano Indiano, poi fino alla Cina, le caravelle portoghesi, che con un po’di cannoni a bordo fanno capire che possono demolire le fortificazioni medioevali, alte ma sottili. E da allora partono un bel po’ di secoli durante i quali gli europei fanno veramente i gradassi dappertutto; questo ha accumulato nel resto del mondo un rancore che sta venendo fuori oggi, ma noi non abbiamo più la forza per opporci. Allora il New Normal vuol dire anche questo. Vuol dire prima di tutto che non possiamo più pretendere di fare un commercio internazionale nel quale dentro i prodotti c’è una nostra ora di lavoro che viene scambiata contro quattro, dieci, quindici ore di lavoro nel prodotto che gli altri ci danno in cambio, perché tutto questo stava in piedi quando i due prodotti avevano tecnologie completamente diverse. Oggi i due prodotti vengono fatti con impianti che sono praticamente identici e questa differenza di ragioni di scambio non regge più, perché non c’è più la forza militare e non c’è nessuna ragione tecnologica o commerciale. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 51 Cito le portaerei perché sta scomparendo la capacità degli Stati Uniti, tutta basata sulle portaerei, di esercitare pressioni. E i cinesi stanno mettendo in servizio un missile che arriva a una velocità talmente elevata che non può essere intercettato e ha una potenza tale che un solo colpo distrugge una portaerei. Quindi con questo, la potenza, diciamo, geopolitica americana è finita. Allora dopo cosa succede (slide 6)? Ecco, adesso cominciamo con le buone notizie. Cioè, quello che cambia, che a noi sembra una rivoluzione, è solo un rimettere a posto delle cose. Finiti i quasi dieci secoli di prepotenza inaudita degli europei, andiamo verso una situazione in cui il PIL pro-capite è distribuito non proprio uniformemente, ma non presenta più questo divario assurdo e ingiustificato tra l’Europa e gli Stati Uniti e il resto del mondo. Ma il mondo continua a crescere, perché i motori della crescita sono sempre stati due: la crescita della popolazione e la crescita della produttività “media”, cioè il livello al quale mediamente lavorano gli operai, che cresce essenzialmente perché a operai che stanno usando tecniche vecchie “si mette in mano” una tecnica nuova (slide 7). Questo è il modo più semplice, non c’è da inventare nulla. È quello che sta succedendo in Asia, cioè: portiamo i nostri impianti o loro se li comprano, vi lavorano alcune centinaia di milioni di lavoratori a un tasso di produttività che raddoppia o triplica e questo per forza fa crescere tutta l’economia mondiale. Abbiamo in più un paniere di opzioni tecnologiche che non è mai stato così ampio nella storia e sta crescendo a un tasso che non è mai stato così veloce, il che significa che non c’è solo il trasferimento tecnologico, c’è anche l’innovazione tecnologica. Cito un caso, il buco nell’ozono: risolto, non se parla più. Sembrava che dovessimo morire tutti coi raggi cosmici e invece è stato risolto perché hanno sostituito quel gas che creava il buco nell’ozono. Però c’è un cambiamento climatico che significa altre innovazioni da prevedere. Le considero tutte come opportunità: la Green Economy, le tecnologie nuove che devono risolvere i problemi, tra cui anche quelli dell’alimentazione. Un caso emblematico del cambiamento tecnologico è questo gas che viene dalle rocce frantumate. Non tanto tempo fa, all’inizio del secolo, negli anni 2000-2002, gli Stati Uniti erano in ginocchio: non sapevano dove andare a prendere il gas, avevano riempito le coste di impianti di rigassificazione perché il Canada non gliene esportava abbastanza. Oggi hanno un eccesso di gas e lo esportano in Europa, perché hanno trovato il modo di estrarlo dalle rocce frantumate. Questo sta creando nei bilanci delle imprese enormi problemi, perché il prezzo del gas e del petrolio, che erano sempre stati accoppiati, si sono divaricati, dal momento che questo cambiamento tecnologico riguarda solo il gas e non il petrolio, ma i contratti take or pay a lunghissimo termine legano il prezzo del gas al petrolio. Allora, questo ci dice che la tecnologia è un’arma competitiva che non ha assolutamente smussato le sue punte, anzi, ha degli effetti che possono essere devastanti. C’è un posto per l’Italia in tutto questo? Su questo sono estremamente ottimista (slide 8). E mi fa piacere sentire il presidente Poletti, che ha sempre un atteggiamento così costruttivo. Noi siamo meno dell’1% della popolazione mondiale, non abbiamo bisogno di produrre tutto, possiamo importare la stragrande maggioranza di quello che ci serve, purché siamo competitivi e abbiamo delle buone ragioni di scambio. Perché siamo meno dell’1% della popolazione mondiale. Ci basta trovare dei clienti adatti ai nostri prodotti, che sono, sappiamo, un po’ raffinati, un po’ costosi, quindi abbiamo bisogno anche come diceva Alessandra Lanza - di trovare dei clienti interessati. Abbiamo una buona immagine di prodotto, che però si sta in alcuni settori degradando, quindi questo è un primo problema da affrontare. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 52 Il secondo problema è la produttività - lo diceva la prof.ssa Kostoris - ed è un problema drammatico. Non possiamo assolutamente pensare né di salvare posti di lavoro per i nostri figli, né di assicurare loro una vita decente, se non mettiamo mano e risolviamo il problema della nostra produttività, che è più bassa di quella dei concorrenti europei e sviluppati, e di questo poi parleremo. Dimensione d’impresa: è connessa. Questa è una mia opinione personale, ma se andate a vedere la cross section della produttività in tutti i Paesi industrializzati, vedete che chiaramente c’è una produttività alta nelle grandi imprese, media nelle medie imprese, bassa nelle imprese piccole. Allora in un Paese nel quale gradualmente le grandi imprese spariscono, è ovvio che la produttività media diminuisce, a parità di condizioni, se non si cambia niente. E questo è un effetto di composizione sul quale bisogna lavorare. Poi abbiamo le debolezze di sistema, che tutte le classifiche internazionali mettono in evidenza: meritocrazia, giustizia, pubblica amministrazione, infrastrutture, beni pubblici. Per cui in questa situazione sopravvive il “fai da te”. Faceva piacere sentire il presidente Poletti che diceva “beh, ma io mi ci metto e risolvo il problema”. Per fortuna c’è qualcuno che fa così, ma finché ci dobbiamo basare solo su questo, continuiamo ad andare indietro rispetto a Paesi-sistema come la Germania, che invece fanno qualcosa di meglio. Allora, vediamo come deve essere oggi un’impresa vincente: deve essere un’impresa agile, mutevole, sempre per chi sta in quell’1%, se noi vogliamo essere l’1% e vogliamo vendere agli altri qualcosa che loro apprezzino e che non sono capaci di fare da soli (slide 9). Ma attenzione, non è che stiamo vendendo l’ultimo ritrovato della scienza, perchè siamo deboli anche nella ricerca scientifica applicata alle imprese e dobbiamo vendere qualcosa che sia l’ultimissima applicazione, quasi sempre di innovazioni scientifiche di base fatte da altri. E in questo siamo bravissimi come industria, sia nelle applicazioni scientifiche, sia nel design e nel modo di vivere all’italiana, ecc. Ma per stare sempre sulla cresta dell’onda come il surfista, non si può pensare, per esempio, a posti di lavoro immutabili da trenta o quarant’anni, sempre con la stessa mansione, sempre con le stesse condizioni. Abbiamo bisogno di imprese agili, veloci, che investano molto sul capitale umano, che gestiscano mezzi rilevanti perché i mercati sono lontani. Bisogna saper guardare lontano, quindi ci vuole un capitale paziente. Sono imprese - e qui prendo a prestito anche dai Paesi più avanzati - che ripudiano la gerarchia. Perché se si vuole avere un capitale umano avanzato, questo ha le sue pretese, le sue aspettative e va coltivato, trattenuto, vanno riconosciute le sue capacità. Qui avrei potuto citare Google, dove più di metà dei dipendenti hanno il PhD. Ho citato Wollen Fresh, che è una catena di distribuzione che in italiano potremmo tradurre con “integrale a KM0”: vendono solo prodotti naturali, integrali e fatti lì vicino. Hanno un sistema di gestione delle aree di vendita assolutamente rivoluzionario, che cioè viene dal basso. Quando si decide cosa si mette sullo scaffale, lo decidono insieme i dipendenti del punto di vendita; quando si assume una nuova persona, viene assunta in prova e non diventa definitiva se non c’è l’approvazione dei colleghi. Perché? Perché le retribuzioni dipendono anche dai margini che fa il singolo punto di vendita. Quindi, se si prende un “lavoratore di scarse capacità” come compagno di lavoro, poi vuol dire anche minor reddito degli altri dipendenti. Allora voglio insistere su questo punto, perché sono un convinto sostenitore del fatto che ci voglia la partecipazione alle decisioni e ai risultati, ma la partecipazione è vera quando è “responsabile”, cioè tu partecipi alle decisioni e poi ti becchi anche i risultati. E inoltre deve essere trasparente (slide 10). Allora, l’arena competitiva, la tradizione, il made in Italy, lo sappiamo (slide 11). Ma noi abbiamo opportunità anche in settori specializzati di alta tecnologia e nelle infrastrutture, le grandi opere, perché questi sono tipici settori da problem solving, dove Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 53 gli italiani sono molto bravi. Abbiamo nuove frontiere, nella scelta tradizionale, che richiedono la presenza diretta sui mercati di sbocco (slide 12); la managerializzazione; dimensioni più alte (la soluzione consortile, è già stato detto e non ci ritorno, è una situazione parziale, di solito transitoria, che ti fa scoprire come è bello stare in Cina e come sarebbe meglio non starci in un consorzio, quindi è la transizione per capire); finanza e assetti proprietari; l’apertura. Concludo concentrandomi su quest’ultima slide: riprovare con la grande industria (slide 13). L’ho detto prima, ne sono convinto, che il motivo, uno dei motivi, per cui cresciamo meno e abbiamo questo gap di competitività è che abbiamo ripudiato la grande industria. Anzi, l’abbiamo “buttata fuori a calci”. Abbiamo creato delle condizioni in cui riesce a essere competitivo solo l’imprenditore piccolo e medio, che ha un rapporto diretto con i suoi collaboratori, che riesce a gestirli anche con il coinvolgimento diretto, mentre invece la grande impresa è burocratizzata. Ce le siamo viste sparire tutte. Ricordatevi che avevamo un’industria degli elettrodomestici che li produceva per tutta Europa e le varie Bosch e AEG si limitavano ad appiccicare la targhetta sull’elettrodomestico italiano. Avevamo la prima industria automobilistica europea, la più grande potenza elettro-nucleare installata, dopo gli Stati Uniti e prima dell’Inghilterra e della Francia. Avevamo la più grande siderurgia europea… Insomma, la grande industria la sapevamo fare e i nostri manager la sanno ancora fare, all’estero, alla dipendenza di capitale estero. Dobbiamo riportarcela in casa, questa è una competizione che dobbiamo accettare. E vincere. Ritengo che il mondo cooperativo possa insegnare qualcosa in almeno due punti di questo elenco che ho fatto: una è quella del trovare delle strade per consentire alle persone, a chi lavora, di essere presente nelle decisioni e nei risultati. Ma non lasciatemelo dire - con la partecipazione agli utili, perché questo è un infingimento: se i dipendenti del pastificio lavorano bene, fanno ottima qualità, ottima produttività e poi l’addetto agli acquisti sbaglia l’acquisto del grano duro, l’azienda magari va in rosso. E cosa c’entrano i dipendenti? Quindi la partecipazione alle decisioni e ai risultati deve essere fatta su quelle attività nelle quali la persona è in grado di incidere; allora sì che ha soddisfazione e motivazione. Questo però richiede un ridisegno dell’azienda, perché l’azienda gerarchica come è fatta adesso, con tutte le decisioni assunte in cima, non lo consente. Quindi ecco perché il mondo cooperativo può essere una sperimentazione. Ci sono dei libri di guru contemporanei del management che addirittura arrivano all’eresia di dire qualcosa di bene dell’Accademia, perché quando gli accademici devono scegliere un nuovo professore lo guardano ben bene, perché sanno che poi questi diventa uno dei loro e aumenta o diminuisce il livello di glamour, di prestigio della loro università. Ebbene, questo va recuperato anche nelle aziende, ed è già presente per esempio in Google e nelle aziende americane più avanzate. Ci sarà magari spazio per una discussione. Grazie. ANDREA CABRINI Grazie prof. Gros-Pietro. Di spazio non ce n’è tantissimo, perché siamo verso la conclusione. Do subito un diritto di replica, in una battuta, Zini, su questo ultimissimo punto, che riguarda direttamente la vita e l’essenza anche dei meccanismi delle cooperative. Come risponde a questa osservazione? Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 54 CARLO ZINI Con una battuta dico che sembra quasi che abbia disegnato un’impresa cooperativa. Dove partecipazione, coinvolgimento, meritocrazia, questi fattori che in qualche modo riguardano il coinvolgimento del capitale umano, dovrebbero essere - e sono - più presenti. Dissento leggermente - ma è una valutazione di merito - su questa distinzione fra partecipazione ai risultati e agli utili, perché tutto sommato, effettivamente, uno degli elementi distintivi, per lo meno nella cooperazione di lavoro è, come dire, l’effetto imprenditoriale più diffuso, quindi quello del proprio lavoro. Anzi, devo dire che è uno degli elementi importanti per poi tracciare quei temi che sono stati visti prima, dimensione e patrimonializzazione delle imprese, che paradossalmente in questa fase mediamente è più elevata di altri sistemi di impresa. Cioè, nel momento in cui c’è una maggior partecipazione dei soci alla capitalizzazione delle imprese, c’è un maggior senso di responsabilità. Questa è comunque una valutazione. Vorrei inoltre sottolineare la sfida dell’internazionalizzazione e proporre una riflessione su come, nel nostro Paese, in questi ultimi anni, siano accresciute le iniquità. Cioè, noi abbiamo sostanzialmente aperto un divario anche con le politiche fiscali che sono più opprimenti e anziché volgere allo sviluppo del sistema sono andate in qualche modo a proteggere le rendite di posizione, qualunque queste siano. Ecco, queste sono alcune riflessioni che secondo me sono molto efficaci, anzi volevo ringraziare tutti i relatori, credo che abbiano dato un contributo notevole alle nostre riflessioni. ANDREA CABRINI Prof.ssa Kostoris, è d’accordo su questa osservazione che riguarda proprio come la distribuzione, anche del reddito e delle risorse, sia un fattore chiave, se si vuole cercare di agganciarsi a una ripresa o stimolare la ripresa e la crescita dell’economia? FIORELLA KOSTORIS Sono molto d’accordo e nella diagnosi, più ancora che nelle prospettive future, dico che c’è stata in effetti una deriva, sia nel senso di inefficienze ulteriori create dalla crisi, rispetto a inefficienze che già ci sono in Italia sul piano proprio delle problematiche strutturali, sia una deriva di iniquità. È il caso che facevo prima, della pressione fiscale, che è aumentata senza che si recuperasse in efficienza, in efficacia, in economicità dei servizi pubblici e senza che si facesse un vero recupero nell’evasione fiscale, quindi combinando inefficienza e iniquità. Ma anche in altri casi: il sistema pensionistico, per esempio. Ritengo che aver modificato, su richiesta della Corte di Giustizia Europea, l’età pensionabile delle donne, nelle pensioni di vecchiaia del settore pubblico, sia corretto, perché la parità di genere richiede parità su tutti gli aspetti, ma non aver adottato un identico processo di avvicinamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato crea inefficienza e iniquità, crea un sistema pubblico di spesa eccessiva per le pensioni, crea disuguaglianze inaccettabili fra le donne del settore privato e quelle del settore pubblico, crea ineguaglianze fra donne e uomini, crea situazioni insomma in cui ancora una volta si combinano, secondo me, inefficienza e iniquità. Bisogna uscire da questa morsa, perché bisogna andare verso condizioni in cui il rigore viene accompagnato allo sviluppo, all’efficienza e all’equità. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 55 ANDREA CABRINI Dott.ssa Lanza, andiamo un po’ a tirare le conclusioni. Le riporto l’osservazione con cui ha aperto Zini questa sessione, quando diceva che gli effetti peggiori della crisi in realtà non li abbiamo ancora visti. Dal suo punto di vista questo è vero o, alla luce delle analisi sua e anche dei colleghi, in fondo, si può guardare anche con un po’ più di ottimismo a questo 2011? ALESSANDRA LANZA Concordo con, credo, l’implicito del discorso che faceva la prof.ssa Kostoris sullo scenario, quindi, se dovessi situarmi su uno dei tre scenari del Financial Times, mi situerei su quello del 70%, ovvero uno scenario molto simile al 2010. Il che non vuol dire che non abbiamo ancora visto gli effetti peggiori della crisi; potremmo ancora vederli, soprattutto se non mettiamo in atto uno scatto e una reazione, perché non li abbiamo ancora visti soprattutto in termini di occupazione, in quanto abbiamo un sistema che ha consentito in qualche modo una garanzia, forse anche più che in altri Paesi, dei posti di lavoro. Ma con una crescita annua dell’1%, forse anche qualcosa meno, è evidente che questo non è sostenibile, è evidente che andremo incontro a chiusure e a costante perdita di occupazione. ANDREA CABRINI Gros-Pietro siamo, se non sbaglio, all’8,4% di disoccupazione in Italia, ma quella giovanile è oltre il 29%. Alla fine di questo 2011 dove saremo secondo Lei? GIAN MARIA GROS-PIETRO Credo, spero, che la minaccia a cui faceva cenno il vice presidente Zini, e cioè che non è detto che siamo fuori dalla crisi, non sia attuale. Però l’Italia ha questo problema molto particolare della competitività. Sono convinto che la ripresa dell’economia reale sia cominciata, che l’unico rischio, l’unica minaccia che pende sopra a questo siano questi debiti sovrani che non si riescono a sostenere. Mi auguro che quello che si sta discutendo a livello europeo sia anche l’interesse di alcuni Paesi asiatici, come Cina e Giappone: impedire che l’Euro continui a indebolirsi. Quindi, dando ottimisticamente per scontato che questa situazione riesca a essere tenuta a bada, allora sono convinto che l’economia europea possa ripartire, trainata soprattutto dalla nostra capacità di partecipare alla grande crescita del motore mondiale di cui parlavo prima. Dentro all’economia europea c’è un Paese che è agganciato direttamente, che è la Germania; c’è un paese come l’Italia, che solo in piccola parte è agganciato direttamente, che cioè riesce a vendere direttamente nei mercati lontani - non solo l’Asia, ma anche l’America Latina e così via - e in molti casi invece vende indirettamente ed è questo che ci umilia e ci penalizza. Ma perché i nostri specialisti di meccanica devono vendere solo se vende l’Audi? E vendono dentro all’Audi? Noi dobbiamo avere delle grandi imprese che riescono a vendere direttamente nei mercati finali. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 56 ANDREA CABRINI Ma quando si dice “facciamo come la Germania”, è una ricetta utile, praticabile per il nostro Paese, oppure bisogna comunque cercare una strada alternativa e unica? GIAN MARIA GROS-PIETRO Io preferirei cercare una strada diversa, perché una ricetta tedesca va bene per degli utilizzatori tedeschi. Per esempio la cogestione, il sistema duplice di governo delle grandi società quotate, con il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione, non mi sembra che abbia dato dei bellissimi risultati in Italia; forse neanche in Germania, ma comunque là funziona. Preferirei qualcosa di più diretto. Benissimo, Zini, se i lavoratori sono anche proprietari dell’impresa. Ma quello che io vedo nella gestione delle imprese, soprattutto delle grandi imprese quotate, che cos’è? Che chi ha messo il capitale nell’impresa sono degli azionisti diffusi nel mercato. Gli azionisti vanno trattati bene, con tutti i riguardi, non vanno spaventati, etc. Quindi le grandi imprese fanno una politica di bilancio che sia il più possibile tranquilla, senza oscillazioni, e quando le cose vanno troppo bene smorzano e quando vanno troppo male cercano di alleggerire. Allora, vendere il risultato di tutto questo come una partecipazione agli utili mi sembra mistificante. Vorrei al contrario lavoratori che, o veramente comandano, e sono proprietari dell’impresa, e allora va bene, oppure se hanno una partecipazione, questa sia non tanto all’utile di bilancio, che poi è anche quello che determina l’imponibile fiscale e quindi ci sono tante altre considerazioni, ma a qualche risultato un po’ più vicino ai loro sforzi. ANDREA CABRINI È d’accordo Zini? CARLO ZINI Ma non credo che sia una contraddizione: devono esserci l’una e l’altra. La parola “proprietà” preferirei non usarla nella cooperazione di lavoro, comunque i gestori sono pro-tempore e con un doppio ritorno: sul valore del risultato contrattato sindacalmente per i soci e i non soci, e poi per la partecipazione al patrimonio. Tendo a ricordare che le imprese cooperative hanno comunque una capitalizzazione molto importante, che arriva normalmente a destinare l’80% degli utili - sempre in quelle che conosco meglio, di produzione-lavoro - al patrimonio indivisibile e sono le imprese sicuramente quelle di costruzione - che pagano più tasse in proporzione al fatturato. Questo ve lo voglio dire perché è bene tenerlo presente. ANDREA CABRINI Bene, abbiamo fatto molte analisi e guardato agli orizzonti del 2011. Da cronista voglio tornare però a una domanda che mi preme molto e mi mette anche un po’ di ansia, guardando all’anno che viene. Perché proprio in queste settimane è iniziata la fase in cui i governi in Europa, e poi anche negli Stati Uniti, e anche le banche, Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 57 dovranno raccogliere sul mercato migliaia di miliardi di euro, di dollari, per rifinanziare i debiti che sono in scadenza. E questo processo è iniziato con qualche timore, con qualche brivido: il caso del Portogallo ha fatto anche scendere le borse lunedì, poi si sono verificate delle aste tutte in positivo - Portogallo, Spagna, Italia, in questi tre giorni. Io chiedo, prof.ssa Kostoris, questa, secondo Lei, è una tregua? Il fatto che i mercati abbiano dimostrato che l’allarme sui giornali è recessivo, che c’era un po’ di isteria attorno a questo tema, significa che comunque, magari pagando dei tassi un po’ più alti rispetto alle ultime emissioni, ci sono le condizioni per farcela? Anche perché poi si dice che i cinesi stessi stiano comprando, dopo quelli della Grecia, anche i debiti del Portogallo e così via. Perfino i giapponesi, che hanno un debito al 200% del PIL, sono arrivati qui a comprare i debiti di alcuni Paesi in difficoltà. Oppure dobbiamo prepararci a nuove fasi di tensione nel corso di quest’anno? FIORELLA KOSTORIS Come ho detto nella mia esposizione, io mi aspetto che ci possano essere ancora momenti di tensione e di ampliamento degli spread significativi fra i titoli dei Paesi periferici, in particolare dei Pigs, a cui forse si dovrà presto allineare anche il Belgio speriamo di no - ma comunque potrebbero esserci anche un numero crescente di Paesi in difficoltà nell’Unione Europea. Però credo anche che, come è avvenuto appunto l’anno scorso, ci saranno situazioni di alti e di bassi, ma, tutto sommato, sia gli Stati membri saranno in grado di far fronte a queste situazioni in modo adeguato, con piani di rigore considerati significativi dai mercati, sia l’Unione Europea, come ha saputo mostrare nei momenti di vero bisogno e di grande rischio, nel suo insieme si accorderà nel fare politiche coordinate, diciamo abbastanza adeguate. Quindi mi aspetto che succeda ancora come in passato, appunto, con momenti di difficoltà, ma non mi aspetto che si arrivi a situazioni in cui in nessuno di questi Paesi più a rischio, a cominciare dalla Grecia, ci sarà una ristrutturazione del debito. Quindi non penso che ci sarà un vero pericolo per l’Euro. ANDREA CABRINI Ma, prof. Gros-Pietro, l’Italia è al riparo da un eventuale contagio o dobbiamo prepararci al peggio anche noi? GIAN MARIA GROS-PIETRO Io credo che l’Italia si sia comportata nel modo migliore che era possibile in questa difficile contingenza. Il rigore sulla finanza pubblica è stato mantenuto, i mercati sono stati rassicurati. Credo addirittura che molti degli operatori dei mercati non si aspettassero che l’Italia sarebbe riuscita a mantenere un rigore della finanza pubblica come quello è stato mantenuto. La situazione permane difficilissima per il livello del debito pubblico, ma non per la gestione del deficit. Quindi mi aspetto che, se la politica della finanza pubblica continua così, l’Italia non corra nessun rischio. D’altra parte questo è stato detto anche dall’Autorità Monetaria Europea. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 58 ANDREA CABRINI Grazie Gros-Pietro, Kostoris, Lanza e Zini. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 59 Quarta Sessione La legalità e la libertà di fare impresa GIORGIO BERTINELLI Come avete visto, nella seconda parte della giornata, su questo tema della legalità e la libertà di fare impresa, oltre alle personalità che avete trovato nell’invito - Maurizio De Lucia, sostituto procuratore antimafia; Ivanohe Lo Bello, Confindustria Sicilia; Livia Pomodoro, Tribunale di Milano; il presidente Poletti; Fabio Tamburini, come moderatore - è presente il ministro Maroni. Cercheremo di mantenere questa nostra iniziativa in un tempo abbastanza contenuto, per quanto possibile, in modo da consentire a tutti di intervenire. Giuliano Poletti, puoi intanto presentare l’iniziativa? GIULIANO POLETTI Buonasera. Un doveroso ringraziamento al Ministro, per la disponibilità e l’attenzione per questa nostra iniziativa, così come a tutti i nostri illustrissimi ospiti. Quando abbiamo pensato queste due giornate di lavori, abbiamo cercato di interrogarci su quali fossero le tematiche da affrontare per stare pienamente dentro l’attualità, ma anche per potere immaginare un percorso, una valutazione rispetto alle cose che come organizzazione, come Lega delle Cooperative, abbiamo intenzione di fare. E abbiamo ritenuto che il tema della legalità per il fare impresa e per lo sviluppo della società fosse di grande rilievo, che valesse la pena mettere attorno a questo tavolo autorevoli personalità che se ne occupano, per riflettere insieme su “a che punto siamo e cosa possiamo fare”. Per quello che riguarda Legacoop, ci sentiamo di affermare alcune cose molto semplici: per noi la legalità è una condizione imprescindibile da tutti i punti di vista. Ci rendiamo ovviamente conto che ci sono problemi di illegalità di portata diversa, perché un conto è ragionare della grande organizzazione mafiosa e un altro è parlare di fenomeni di caporalato o di lavoro irregolare. Ma il dato di fatto è che molte di queste cose finiscono per essere connesse, finiscono per produrre delle condizioni ambientali per cui l’impresa sana, l’impresa che vuole rispettare le regole, il lavoratore che vuole lavorare secondo le regole, i pezzi di economia che vengono costruiti nel rispetto delle regole, rischiano veramente di essere espulsi perché sul mercato l’elemento della legalità non viene fino in fondo valutato e valorizzato. Da questo punto di vista, abbiamo cercato in ogni sede, a cominciare dalle nostre sedi territoriali, di approvare codici di responsabilità, chiedendo ai nostri associati di assumere comportamenti coerenti con i nostri impianti. Abbiamo fatto una scelta un paio di anni fa, poi il ministro Maroni lo abbiamo incontrato all’agriturismo a Portello della Ginestra, all’inaugurazione; siamo andati in quel luogo a tenere la prima riunione. Non erano ancora finiti i lavori della Presidenza nazionale di Legacoop e abbiamo presentato lì un nostro documento contro ogni illegalità. L’abbiamo fatto fisicamente in quel luogo e debbo dire che volevamo consapevolmente parlare a tutti. In primis agli associati alla Lega delle Cooperative, perché chiamarsi cooperative non significa essere tra virgolette in regola comunque, sono i comportamenti che fanno di un’etichetta una forma, una modalità e le danno un valore, non sono le bandire che danno il valore agli uomini, sono i comportamenti degli uomini che danno un significato ai simboli e alle bandiere. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 60 E allora abbiamo detto: prima di tutto diamo l’esempio, prima di tutto come cooperatori comportiamoci coerentemente. Ma non è sufficiente comportarsi legalmente, bisogna anche combattere l’illegalità. E noi ci siamo impegnati a farlo e l’abbiamo fatto attraverso gli strumenti che competono a una forma imprenditoriale come la nostra: costruendo impresa sana, costruendo lavoro regolare, cercando di produrre queste condizioni. E l’abbiamo fatto insieme a tanti altri. Posso citare prima di tutto il lavoro fatto con Libera, in Sicilia, per le cooperative che gestiscono i beni sequestrati. È stato un lavoro difficile, complicato, importante, perché volevamo costruire imprese vere. E sono molto orgoglioso di poter dire che ho ascoltato recentemente il presidente della cooperativa Placido Rizzotto affermare: “non voglio che la mia cooperativa debba finire perché è finita la mafia; voglio poter pensare che la mafia può finire, può essere combattuta e sconfitta, ma voglio che la mia cooperativa ci sia anche dopo, perché deve avere una sua logica d’essere, una sua ragione di esistere, una sua capacità economica di fare il suo lavoro. Oggi lo fa in un contesto particolare, su dei beni sequestrati alla mafia, ma voglio che il bilancio della mia cooperativa sia fatto dai prodotti che noi realizziamo e che vendiamo sul mercato e dal lavoro che ci mettiamo”. Credo che questo sia un elemento assolutamente decisivo, per noi è quello che si deve fare. L’altra cosa che voglio dire è questa: ci sono stati successi importantissimi di cui bisogna dare atto al Ministro, alla magistratura, alle forze di Polizia, a tutti coloro che hanno combattuto contro la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra. Bisogna dare un riconoscimento a tutte quelle forze sociali, a quei movimenti che nelle comunità si sono impegnati, alle persone che hanno assunto soggettivamente il rischio di mettere la loro faccia davanti a questi problemi, assumendosene la responsabilità. Bene, oggi noi diciamo in modo molto chiaro che c’è una fase importante, delicatissima, che è quella per cui, quando le forze dello Stato riescono ad aprire uno spiraglio, bisogna che qualcuno “metta il piede in mezzo alla porta”, bisogna evitare che si torni indietro. La storia ci insegna che tante altre volte sono stati dati colpi pesanti alla criminalità organizzata, poi questa ha saputo riorganizzarsi, ricostruire i propri strumenti e tornare a essere, non dico più forte di prima, ma sicuramente molto forte. Bene, l’unica maniera che c’è perché questo non accada è che la società, gli imprenditori, l’economia, decidano di “mettere il piede in mezzo alla porta”, decidano di fare in modo che quella porta non si richiuda, e per evitarlo bisogna fare economia sana, bisogna assumere il rischio di investire in quelle realtà, bisogna realizzare buona, sana impresa, buono e sano lavoro. Legacoop è impegnata su questo fronte, lo sta facendo, in Sicilia, in Calabria, in Campania, in molte parti d’Italia. Ma poi il problema esiste anche al Nord, perché qui abbiamo, come sappiamo, le situazioni che sono state rilevate con le inchieste, c’è un problema di inquinamento, insomma ci sono dati che sono noti in modo molto chiaro. Bene, l’impegno che assumiamo è quello di continuare lungo quella strada. Abbiamo una collaborazione aperta con l’agenzia che gestisce i beni sequestrati. Ci impegniamo, per quello che possiamo, a sostenere processi di ritorno all’economia legale delle imprese che vengono sequestrate, perché lì c’è un problema particolarissimo: un conto sono i beni immobili, sequestrare un palazzo e riassegnarlo, altro conto è un’azienda, perché l’azienda perde il mercato, perde le connessioni. Posso citare un esempio: a Erice c’è la Calcestruzzi Ericina, una cooperativa che gestisce uno stabilimento che produce calcestruzzo, precedentemente gestito dalla mafia. Ma stiamo parlando del fatto che non possiamo immaginare che accada che la magistratura faccia bene il proprio lavoro, lo Stato faccia bene il proprio lavoro, sequestriamo i beni, sequestriamo le imprese, poi, siccome non riusciamo a gestirne la continuità imprenditoriale, alla fine i lavoratori, le comunità locali possano dire: “Oh guarda, quasi andava meglio prima perché io un posto di lavoro ce l’avevo e adesso non ce l’ho più”. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 61 Noi sentiamo molto questa responsabilità; per quello che possiamo, come mondo cooperativo, ci mettiamo e siamo a disposizione di tutti quei percorsi che cercano di evitare che questo accada, cioè cerchiamo di fare in modo, insieme alle altre organizzazioni imprenditoriali e al sindacato, che ciò che viene sequestrato, e in ogni caso le opportunità di sviluppo economico imprenditoriale che ci sono in quei territori, vengano colte fino in fondo, all’interno di una logica e una chiave di legalità. Quindi, questo è il nostro impegno, ma riteniamo che a questo impegno vada associata una riflessione, un confronto, una discussione, una condivisione con tutti i soggetti che di queste tematiche si occupano, perchè è solo da uno sforzo comune, dove ognuno fa la parte che gli compete, che pensiamo veramente che si possano ottenere dei grandi risultati. Detto questo, riconfermo il ringraziamento al Ministro e a tutti i nostri ospiti e cedo la parola al dott. Tamburini, che organizzerà i nostri lavori. Grazie. FABIO TAMBURINI Direttore Radio 24/Radiocor Ho accolto con grande entusiasmo l’invito a essere presente qui oggi pomeriggio per cercare di fare funzionare al meglio questa tavola rotonda, per tre ragioni: per la qualità delle persone che vi interverranno, ma anche perché sono un giornalista economicofinanziario, ho cominciato a fare questo mestiere all’inizio degli anni Ottanta e da subito ho capito che il tema dell’economia e della finanza non erano separati da quello della legalità. Il tema del fare impresa, ahimé, si incrociava, si intrecciava significativamente col tema della criminalità economica, ma non soltanto economica, anche con la criminalità tradizionale. E all’inizio era un hobby che io coltivavo un po’ isolatamente e invece poi i fatti e anche le inchieste della magistratura hanno dimostrato, soprattutto a partire dall’inizio degli anni Novanta, che era drammaticamente vero e che quindi andavano investite energie perché si capissero i meccanismi e si cercasse di modificarli. La seconda ragione è che dal luglio scorso sono direttore di Radio24 e ho detto subito, appena nominato - all’interno del Gruppo Sole 24Ore mi occupo stabilmente dell’agenzia di stampa - che il tema della legalità e della lotta alla criminalità economica e comune dovevano essere, e diventare sempre di più, uno dei temi caratterizzanti di Radio24; lo stiamo facendo e credo che anche appuntamenti come quello di oggi pomeriggio possano servire molto. Credo che certi meccanismi possono funzionare finché rimangono un po’ clandestini; nel momento in cui si accendono i riflettori, non ci sono più alibi e quindi la società civile deve intervenire, deve schierarsi e alla fine il raccontare gli intrecci tra il fare impresa e i temi della criminalità serve per porre le premesse per fare poi un’impresa in modo diverso; e soltanto facendo un’impresa in modo diverso si riesce a circoscrivere sempre di più, e anche a sconfiggere, la criminalità comune e quella economica. Bene, il primo intervento previsto per questo pomeriggio è quello di Maurizio De Lucia, sostituto procuratore nazionale antimafia, che non ha bisogno di presentazioni. Con lui vorrei partire con una domanda che può apparire banale, ma che poi alla fine è un po’di fondo: molto è stato fatto, ma anche molto manca ancora da fare. Vogliamo cercare di fare un piccolo bilancio su questo argomento? Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 62 MAURIZIO DE LUCIA Sostituto procuratore nazionale antimafia Innanzitutto buonasera e grazie a Legacoop per l’invito che mi ha rivolto. E il saluto non è mio, ma del Procuratore nazionale antimafia, che avrebbe voluto essere presente, ma che si trova all’estero, e quindi naturalmente lui è il procuratore, io sono il sostituto e quindi come sostituto sono venuto a svolgerne qui le funzioni. Rispondo alla sua domanda molto sinteticamente, perché quello che è accaduto in questi anni è una storia che meriterebbe molto tempo e una riflessione molto approfondita. Però non c’è dubbio che c’è stato un momento nel quale lo Stato ha iniziato una seria lotta di contrasto al crimine organizzato che è partita non su tutto il territorio della Repubblica, ma in un punto determinato che è la Sicilia, che in questo momento è sicuramente il punto più avanzato del contrasto alle mafie in Italia e che nasce per una ragione chiara: il 1992 e le stragi che tutti ricordiamo. Con una particolarità, a mio giudizio, rispetto al passato, perché per quanto drammatiche siano state quelle stragi, purtroppo la Sicilia ne aveva conosciute in precedenza. Però in tutte le altre volte, che pure sono state terribili - una per tutte ricordiamo “via Isidoro Carini”, la morte del generale Dalla Chiesa e di sua moglie abbiamo assistito a delle reazioni dello Stato che a un certo punto si sono arrestate. Abbiamo avuto la legge Rognoni-La Torre e abbiamo avuto degli interventi, ma poi l’azione dello Stato si è come rallentata. È successo spesso nella storia del contrasto dello Stato alla mafia, in particolare a Cosa Nostra. Dal 1992 in poi è successo qualche cosa di diverso, che ha fatto la differenza e, almeno nella partita con Cosa Nostra, ci consente di dire che lo Stato è molto avanti. Intendiamoci, non ha sconfitto questa organizzazione criminale, ma è molto avanti sulla strada della sua repressione. Questo è dipeso dal fatto che c’è stato un elemento diverso rispetto al passato, cioè dal 1992 - io sono arrivato a Palermo nel 1991, mi occupo di queste cose da allora, quindi la storia l’ho vissuta tutta e mi astraggo dal ruolo che ho avuto, da testimone posso dire che c’è stato un segno di continuità - lo Stato ha continuato costantemente a colpire l’organizzazione criminale Cosa Nostra e quei soggetti che sono stati vicini all’organizzazione, che ne hanno in qualche modo consentito e rappresentato la forza in passato, i cosiddetti “soggetti contigui”, i white collars, la borghesia mafiosa come si dice da un po’ di tempo a questa parte. Ci sono stati sicuramente degli errori, ma da allora si è andato avanti e si è arrivati a dei risultati importanti, seguendo tre direttrici. La prima è stata togliere di mezzo i killer, la gente che sparava, quindi l’azione contro la mafia militare. A Palermo la guerra di mafia degli anni Ottanta ha causato un numero certamente superiore a mille morti, non possiamo dire quanti perché molti sono vittime della cosiddetta lupara bianca, gente che sappiamo che non c’è più, ma non sappiamo come è morta. La seconda strada che è stata perseguita è stata quella della cattura dei grandi latitanti qui il merito è assai poco della magistratura ma è moltissimo delle forze di Polizia, e questo va sempre riconosciuto - che è un segnale terribile, devastante per le organizzazioni criminali, perché ha un effetto simbolico importantissimo e ha un effetto concreto importantissimo. Quando abbiamo catturato Bernardo Provenzano, abbiamo tolto di mezzo il soggetto di governo, di mediazione fra tutte le famiglie mafiose. I collaboratori di giustizia che sono venuti dopo la cattura di Provenzano ci hanno detto: “noi non sapevamo più con chi parlare a Palermo”. Non si potevano più fare gli affari perché era mancato il referente di tutti gli affari, colui il quale mediava. Il terzo profilo sono state le attività di investigazione volte a destrutturare le organizzazioni criminali e poi l’ultimo punto, il più importante, sul quale in Sicilia - dove dico, siamo più avanti nella lotta alla mafia - dobbiamo continuare a insistere in maniera Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 63 massiccia: la lotta ai patrimoni. Si indeboliscono le mafie se si catturano i latitanti e gli si toglie la ricchezza. E quando dico la ricchezza naturalmente penso soprattutto ai grandi capitali, a quello che si trova all’estero, ai grandi investimenti, ma anche alle piccolissime cose. Non avete idea del valore simbolico che è rappresentato dal togliere il distributore di benzina gestito dal quartiere al mafioso, per affidarlo a qualche persona per bene o ancora di più, naturalmente, quella villa che era il luogo dove si riunivano i mafiosi e che diventa una caserma dei Carabinieri, un commissariato di Polizia. Quindi è un’azione che deve non soltanto guardare i simboli - e questo è stato fatto in Sicilia - ma tutto il territorio, deve essere capillare. Anche oggi, quando pensiamo di essere molto avanti nella lotta a Cosa Nostra, ci deve portare a ritenere che invece questa lotta deve continuare con l’impegno dei precedenti vent’anni e che bisogna prenderli tutti, scoprirli tutti, stanarli tutti, senza mai arrendersi. E questo porta poi altri risultati importanti sul piano dello sviluppo, perché senza l’azione di repressione di questi vent’anni da parte dello Stato, non saremmo arrivati dove siamo adesso e c’è stato un momento in cui, grazie a queste azioni di repressione, sono sorte delle energie nella società civile, perché abbiamo sempre detto che la lotta alle mafie non è una “lotta di divise e toghe” contro i criminali, ma è qualche cosa di più perverso, più complesso e anche di più elastico. Bene, l’azione di repressione ha fatto sì che nel 2004-2005 cominciassero a registrarsi dei fermenti nella società civile palermitana. Il primo straordinario esempio, che cito ogni volta e dovunque vado, è quello dei ragazzi di Addiopizzo, perché questi ragazzi, che hanno scritto un pagina bellissima di storia, sono quelli comparsi dal nulla una mattina con dei manifesti anonimi: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Questo è stato un segnale formidabile, un po’ perché grazie proprio a quel segnale si è acceso l’interesse mediatico, ad esempio sul fenomeno delle estorsioni in Sicilia e sulla presenza della mafia, ma anche perché ha consentito di fare da volano a un’altra serie di iniziative e fra queste - di cui immagino vi parlerà Ivanohe Lo Bello - c’è la fondamentale presa di posizione di Confindustria in Sicilia. Secondo me questa dipende da alcuni fattori: l’attività di repressione dello Stato e il cambio generazionale all’interno dei vertici di Confindustria. Perché fino a qualche anno fa i responsabili di Confindustria li arrestavamo, evidentemente non in quanto responsabili di Confindustria, ma in quanto risultati, nelle indagini, collusi con l’organizzazione mafiosa, perché era gente che non stava sul mercato e aveva costantemente rapporti col mondo degli appalti pubblici, che per definizione è uno dei mondi verso i quali le organizzazioni mafiose hanno maggiore interesse. Dunque tutti questi fermenti ci portano a guardare con ottimismo alle realtà della Sicilia. Della Sicilia, perché poi ci sono le altre realtà. FABIO TAMBURINI Sembra fatto apposta, e probabilmente lo è, ma l’intervento che è stato immaginato di seguito a quello dell’esordio è proprio di Ivanohe Lo Bello. Lo Bello è stato, come Confindustria Sicilia, uno dei protagonisti della Primavera siciliana. A lui vorrei porre due domande: come è stato possibile che Confindustria alla fine facesse un passo davvero così importante, adesso ricordato da De Lucia, ma, soprattutto, come può diventare possibile che il modello siciliano, la Primavera siciliana, varchi lo stretto? Perché deve accadere, e in realtà sta accadendo - lo abbiamo visto nelle settimane scorse - i segnali di risveglio della società calabrese rappresentano davvero una novità. La Calabria è sempre stato un blocco che, al contrario della Sicilia, fino a pochissimo tempo fa, non aveva mai dato segnali di opposizione a un certo mondo, al mondo della Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 64 ‘ndrangheta. Adesso sta succedendo anche all’interno, per esempio, della Confindustria calabrese: si respira un’aria diversa. Anche all’interno della società civile calabrese qualcosa sta cambiando, l’abbiamo raccontato come Radio24 in dicembre, un’intera settimana in cui abbiamo dato spazio a questi avvenimenti. Ma non è soltanto la Calabria, è l’intero Paese che deve essere investito dalla Primavera siciliana. E ricordo soltanto l’inchiesta congiunta che è in corso, in pieno svolgimento, tra la Procura di Milano e quella di Reggio Calabria. Ma di questo magari parleremo in seguito. Adesso chiedo a Lo Bello di raccontarci come è stata possibile la Primavera siciliana e come deve essere esportato il modello siciliano. IVANOHE LO BELLO Presidente Confindustria Sicilia Intanto grazie dell’invito - lo rivolgo a Giuliano Poletti per tutte le cooperative e i tanti amici che ho nel mondo della cooperazione e che sono qui oggi - e rispondo subito alle domande del direttore Tamburini. Come nasce la Primavera siciliana? L’elemento fondamentale che ha generato la nostra iniziativa, ne ha parlato bene Maurizio De Lucia, è stato in primo luogo la capacità repressiva dello Stato e la continuità di questa capacità repressiva. Come De Lucia ha segnalato, molto spesso in passato, prima delle grandi stragi e in diverse situazioni storiche, economiche, politiche, le attività di contrasto in qualche modo si esaurivano in breve tempo. Invece da molto tempo assistiamo a una capacità di contrasto e di repressione fortissima, sistematica, accompagnata da una strategia, che De Lucia ha delineato: i killer, i latitanti e poi via via… Quindi questo ha dato alla società siciliana una fiducia nello Stato e nelle istituzioni, una volontà e una capacità di mettere in campo un grande cambiamento che è stato decisivo. Quindi noi saremo sempre grati allo Stato, alla magistratura, alle forze dell’ordine per quello che hanno fatto in Sicilia, perché è stato l’elemento scatenante che ha aperto tutte le energie vitali che c’erano e ci sono in Sicilia. Il secondo elemento è stato un elemento sociale ed economico, lo diceva bene sempre De Lucia. In passato abbiamo avuto nei vertici confindustriali tanti personaggi che hanno conosciuto la magistratura sotto un profilo molto diverso da quello che conosciamo noi oggi. Oggi è un rapporto di collaborazione e di progettualità strategica comune su questi temi; in passato era un rapporto fra la magistratura inquirente e un indagato. Perché in questi anni in Sicilia e nel Mezzogiorno è cambiato il gruppo dirigente del mondo imprenditoriale e confindustriale e il grande discrimine fra il passato e l’oggi è il mercato. Nel senso che la classe dirigente confindustriale in passato era legata a settori protetti, regolamentati, non aperti al mercato e che quindi stavano in un modello sociale ed economico che metteva dentro anche Cosa Nostra insieme ad altri soggetti. In questi anni vi è stato un rinnovamento generazionale forte, che ha coinciso anche con una maggiore propensione al mercato delle imprese siciliane. E credo che questi siano i due fattori che, messi assieme, spiegano quello che è successo in Sicilia. Oltre lo Stretto ci sono stati esempi positivi: il ministro Maroni è stato protagonista del “caso Caserta”, in cui una fortissima e sistematica azione repressiva dello Stato ha determinato anche un movimento positivo nella società, in una realtà come quella di Caserta che è complessa, difficilissima. Non si sa, ma anche la Confindustria di Caserta ha fatto scelte importanti sotto questo profilo, allontanando anche molti imprenditori. Quindi questo fenomeno si è esteso, con le stesse identiche caratteristiche con cui ha avuto successo in Sicilia: capacità repressiva dello Stato, magistratura e forze dell’ordine Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 65 attive, presenti, forti sul territorio, e poi la società che reagisce, come avvenne nel 2004 con Addiopizzo e poi con tutti i fenomeni successivi. Lo stesso comincia ad avvenire in Calabria. Anche lì è un piccolo successo siciliano, perché ovviamente dipende anche molto da un metodo, da una cultura repressiva, da una cultura di dialogo con le forze sociali che viene da persone che hanno lavorato tantissimo nella stagione siciliana. Penso al procuratore Pignatone, al procuratore aggiunto Prestipino e ai tanti magistrati anche calabresi che collaborano in questi successi. È evidente che è un percorso in cui c’è ancora molto, molto da fare. La struttura produttiva anche lì è molto ancorata ai mercati protetti, alla realtà territoriale, però è un percorso avviato e Radio24 ne ha dato grande testimonianza in quest’ultimo mese, ascoltando su questo tema sia magistrati, sia imprenditori. Ma adesso chiudo, per lasciare spazio agli altri, con una valutazione che in qualche modo è integrativa delle cose che ha detto Maurizio De Lucia. Stiamo attenti: la mafia non è qualcosa di estraneo al corpo sociale meridionale, non è una tradizionale organizzazione delinquenziale, non si tratta di gangster che chiedono il pizzo e uccidono in giro per le strade o nelle campagne siciliane, campane o calabresi. La mafia, la ‘ndrangheta, quella parte di camorra che è strutturata secondo modelli molto simili alla mafia e alla ‘ndrangheta, è forte perché è un pezzo della società meridionale. Ed è un pezzo della società meridionale anche a causa di tanti decenni di politiche sul Mezzogiorno totalmente sbagliate, perché nel Mezzogiorno è prevalsa in questi decenni l’idea che dovesse re-distribuire risorse assistenziali e clientelari drenando risorse dal resto del Paese o dalle risorse fiscali locali, invece che attraverso vere politiche di sviluppo. Cioè la mafia si è nutrita di un’idea assistenziale, clientelare, parassitaria dello sviluppo. E sono tante le contraddizioni che ci sono oggi nel Mezzogiorno e che purtroppo affollano i giornali, dove emerge un giorno un Mezzogiorno forte e innovativo, rappresentato soprattutto dai ragazzi e dalle forze imprenditoriali, e un altro Mezzogiorno meno presentabile, purtroppo rappresentato da un pezzo della sua economia e da un pezzo della politica. Tutto questo dipende essenzialmente da un sistema che non ha mai puntato sullo sviluppo. Proprio per questo - e chiudo - credo che uno dei grandi strumenti antimafia che oggi occorre mettere in campo, insieme alla capacità dello Stato, della magistratura, delle forze dell’ordine e al risveglio dei corpi sociali, siano politiche di responsabilizzazione forte della classe imprenditoriale meridionale. Proprio per questo credo che la riforma federale abbia una capacità di avere un impatto forte su questo punto e quindi sul cambio di incentivi sociali ed economici, nel senso che noi oggi abbiamo bisogno di più mercato e di meno pubblico, non di meno Stato. In passato abbiamo avuto uno Stato verso il quale non c’era fiducia e una dimensione pubblica enorme. Vi do un dato e chiudo: le amministrazioni pubbliche in Sicilia - ma lo stesso vale per la Campania e la Calabria - contribuiscono al PIL, con meri trasferimenti, non con produzione di ricchezza, nella misura del 34-35%; lo stesso dato in Lombardia è del 12,5%. Quel 20% sono risorse sottratte al mercato e destinate alla redistribuzione assistenziale che non hanno creato sviluppo e hanno consentito alla mafia di prosperare e di avere un ruolo sociale, economico e politico che non ha ovviamente in altri contesti. FABIO TAMBURINI D’altra parte storicamente i briganti hanno rappresentato anche i difensori di una certa parte del popolino dai Borboni e via dicendo. Fa parte della storia di questo Paese... Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 66 IVANOHE LO BELLO Sì, la storia è complessa. Poi dovremmo entrare nel tema della costruzione del nostro Stato e diventerebbe più lunga. Facciamo dopo un bel dibattito su questo! Il fatto divertente è che gli avversari del nostro modello, quelli a cui dà un po’ fastidio che ci occupiamo di mafia e di sistema assistenziale clientelare, mi dicono una cosa di cui sono molto orgoglioso: mi chiamano il rappresentante della Confindustria milanese in Sicilia, il che per me, in qualche modo, è un titolo di merito perché rappresenta un’idea di impresa fatta di mercato, di sacrifici, di cultura del lavoro, di responsabilità, che è quella che stiamo cercando di mettere in campo giù in Sicilia. FABIO TAMBURINI Forse vale la pena ricordare cosa sta succedendo in Confindustria anche in Calabria, perché credo che possa rappresentare un elemento di conoscenza importante. IVANOHE LO BELLO Anche lì c’è un processo di rinnovamento; il percorso è sempre quello, nel senso che, se la società non ha la capacità di cogliere i grandi cambiamenti che avvengono nell’azione dello Stato e non mette in campo un momento di collaborazione forte con lo Stato, la mafia non si sconfigge. Con il ministro Maroni c’è una collaborazione ormai consolidata nel tempo, con risultati importanti. Ne cito una fra tutte: è grazie a Roberto Maroni che si è riusciti a mettere in campo la norma che prevede l’obbligo di denuncia da parte delle imprese e che credo a breve avrà probabilmente qualche prima sperimentazione, forse in giro per il Mezzogiorno. FABIO TAMBURINI Spieghiamola bene, questa cosa. IVANOHE LO BELLO Abbiamo affrontato una bella battaglia, perché ci sono state grandi opposizioni. È una norma che parte da un principio semplicissimo: se tu imprenditore hai un rapporto con la pubblica amministrazione, vinci un appalto, una fornitura pubblica, non puoi destinare soldi dei contribuenti a pagare il pizzo al ’ndranghetista, al camorrista o al mafioso di turno, quindi scatta - diciamo così - l’idea di un obbligo di denuncia, che quando sei oggetto di un tentativo estorsione diventa uno strumento fondamentale, che in qualche modo responsabilizza l’imprenditore, dà un segnale forte al mercato, crea un meccanismo di conflitto di interesse fra l’impresa e il mafioso, perché a questo punto si divaricano gli interessi e non c’è più quel quieto vivere che in qualche modo ha caratterizzato spesso in passato il rapporto tra imprese e mafie. Questo è stato fatto con una collaborazione forte e con un ruolo importante da parte del ministro Maroni su questi temi, e il Mezzogiorno ha tanti esempi positivi. Chiudo con un’esperienza, anche perché qui siamo nel mondo della cooperazione. Abbiamo un esperimento bellissimo in Sicilia, che riguarda una vostra grande Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 67 cooperativa, la CMC di Ravenna. E il protocollo di legalità che sta seguendo la costruzione di una grande autostrada tra Agrigento e Caltanissetta è un esempio di come la collaborazione fra un’impresa, lo Stato, la Prefettura, le forze dell’ordine e le associazioni di categoria, a prescindere dalle caratterizzazioni, ha consentito in questi ultimi anni di avere almeno un centinaio di “interdittive antimafia”, di selezionare finalmente i soggetti economici non per la capacità di condizionamento del territorio ma, all’opposto, per la capacità di stare sul mercato in libera concorrenza. Questa è la dimostrazione che, quando si vogliono fare, le cose si fanno. Ci vogliono persone: ci credono e lo fanno con determinazione, sapendo che possono pagare un prezzo, ma il guadagno per la collettività è sensibilmente maggiore rispetto al prezzo magari che ogni singolo può pagare. FABIO TAMBURINI Detto ciò, credo che sarebbe un errore, e un errore tutto sommato grave, pensare che la criminalità di questo genere sia un fenomeno che vive soprattutto o esclusivamente in regioni come la Sicilia, la Calabria e via dicendo. Non è così, farebbe sorridere; l’economia è globale, figuriamoci se si ferma in Italia distinguendo tra la Sicilia, la Calabria e le altre regioni del Centro-Nord. È chiaro che il fenomeno è complessivo, non si può circoscrivere al Sud, al Mezzogiorno. In proposito viene a puntino l’intervento che abbiamo immaginato di Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano. Perché? Perché nei mesi scorsi questa collaborazione tra le Procure di Reggio e di Milano ha acceso i riflettori, ha cominciato a far capire come si intrecciano le realtà siciliane e calabresi con quelle delle regioni del Nord, regioni importanti, a partire proprio - incredibile forse a pensarsi - da Milano e dalla Lombardia. Ecco, certi dati colpiscono e colpisce soprattutto, almeno me personalmente, l’omertà che una certa criminalità è riuscita a conquistare perfino a Milano. Io, milanese di nascita, anche se non di origine perché sono tosco-emiliano, una presenza così capillare della ‘ndrangheta a Milano e in Lombardia, nell’omertà che peraltro è emersa con chiarezza nelle inchieste in corso, forse neanche me l’aspettavo. Allora penso invece che sia molto importante che anche la società civile del Nord e di Milano, della Lombardia, sia in prima fila contro questo tipo di atteggiamenti e fenomeni. Presidente Pomodoro. LIVIA POMODORO Presidente Tribunale di Milano Vorrei dire innanzitutto che questi fenomeni di infiltrazione mafiosa e criminale organizzata non sono assolutamente nuovi per la Lombardia, purtroppo. Direi, in linea generale, che non lo possono essere perché i mercati finanziari sono a Milano e il riciclaggio del denaro, e ciò che riguarda appunto il mercato finanziario, non può che passare da Milano. Condivido il punto di vista del collega sul fatto che dal 1992 (allora ero il capo di gabinetto del Ministro della Giustizia e quindi ho vissuto in prima persona le stragi di quel periodo terribile della nostra vita sociale) è cominciata davvero un’attenzione assolutamente particolare. Ma devo anche ricordare che per quanto riguarda il riciclaggio del denaro, per quanto riguarda tutto quello che è legato alla criminalità organizzata in generale, e in particolare alla criminalità mafiosa, questo è stato seguito con particolare attenzione da Milano, come da Palermo e da altre sedi giudiziarie d’Italia. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 68 Per quanto riguarda i fatti recenti e le infiltrazioni, soprattutto in materia di appalti, di edilizia, del cosiddetto “movimento terra” del quale tanto ci siamo occupati negli ultimi anni, è di pochi mesi fa una sentenza esemplare - e ne parlo appunto perché si tratta di una decisione già presa in I grado dalla VII Sezione Penale del mio Tribunale - in cui si mette in evidenza proprio questo tipo di infiltrazione da parte della ‘ndrangheta e di gruppi criminali, per altro particolarmente conosciuti - i Papalia e i Barbaro - e particolarmente presenti, soprattutto nell’hinterland milanese, Corsico, Buccinasco e altre zone che sappiamo essere fortemente infiltrate - ma con operazioni molto significative anche nella città di Milano. Ma che cosa viene fuori da questa sentenza dei giudici e dalle condanne che sono state erogate con quella decisione? Emerge proprio il ruolo degli imprenditori, in particolare di un imprenditore o di alcuni imprenditori (adesso non ricordo bene, perché è una sentenza ponderosissima), che assumevano i subappalti appunto nell’interesse delle cosche, in una situazione nella quale non risultavano precedenti che ne indicassero la loro inidoneità ad assumere i subappalti, e lucravano fortissimi interessi, avendo alle spalle un regime di monopolio, evidentemente assicurato dal sistema criminale. Allora si possono fare subito due considerazioni: siamo in un sistema in cui questi signori avevano dei fortissimi profitti e lucravano in maniera assolutamente insopportabile rispetto al mercato, che non era più un libero mercato. Ma le vittime della collusione non erano, e non sono, solo gli imprenditori puliti e corretti sul mercato, ma è il mercato nel suo complesso. Perché là dove non ci sono più regole condivise e soprattutto dove le zone di “ombratilità” sono tali per cui si possono avere risultati così eclatanti in un legame profondo con il sistema criminale, nessuno è più garantito. Non si può più parlare di libertà di mercato, non si può parlare di libera concorrenza e soprattutto si perde la fiducia, non nello Stato - perché ha ragione il dott. Lo Bello quando afferma che uno degli aspetti che ha funzionato bene per la Primavera siciliana è la ritrovata fiducia nello Stato - ma in questo caso nell’andamento del mercato, nella costruzione di un buon mercato. Ho sempre detto e continuo a dire che non possiamo pensare di sconfiggere questi fenomeni così cresciuti e così invasivi all’interno delle nostre società, se non partendo da presupposti un po’ diversi da quelli con i quali abbiamo operato in passato. Non c’è dubbio che le attività criminali debbano trovare contrasto da parte delle forze dell’ordine, da parte dei magistrati con i processi e così via, ma senza una forte responsabilizzazione, non solo della cosiddetta società civile, ma della società dell’economia, della società che impone le regole condivise di legalità sul mercato, non è possibile - lo dico con assoluta fermezza - sconfiggerle del tutto. Possiamo sconfiggerle parzialmente, lo stiamo già facendo, dobbiamo dare atto allo Stato nel suo complesso che sta facendo una grandissima operazione di ripulitura del territorio. Ma può essere una ripulitura solo parziale, è come la rimozione di qualcosa da una parte all’altra del territorio, finché le regole non sono invece condivise da un sistema di società che crede in quelle regole e che esige che quelle regole vengano rispettate. Quali regole? Le regole della legalità, le regole che liberamente ci siamo dati per la convivenza civile, le regole appunto del libero mercato e della concorrenza, nella quale tutti possono credere soltanto se è ben regolata e se è regolata in maniera pulita. Questa è probabilmente una banalità per molti di voi, ma io credo che sia il fondo di ogni ragionamento in relazione alle infiltrazioni mafiose. Dal mio punto di vista, dal punto di vista del Tribunale, posso dire che certamente stiamo cercando di attrezzarci sempre di più per il contrasto alla criminalità. Sono d’accordo con coloro che hanno parlato prima - in particolare con il collega De Lucia - che si sono fatti molti passi avanti attraverso le misure di prevenzione di carattere patrimoniale, ma sostengo che sono importanti anche le misure di prevenzione personali, quelle che per esempio escludono dalla gestione dell’azienda soggetti che Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 69 sono nelle condizioni che abbiamo detto. Sono assolutamente fondamentali perché incidono in maniera precisa e coerente in un tessuto sociale che comprende di dover cambiare direzione. E per quanto riguarda le misure patrimoniali non c’è dubbio che vi siano stati dei risultati e sono convinta che ce ne saranno ancora. Volevo dare soltanto un dato che mi sembra molto significativo e importante proprio sulle misure di prevenzione. Noi abbiamo una sezione che lavora molto bene sulle misure di prevenzione: per esempio non abbiamo arretrati, riusciamo in tempo reale a mettere a punto i nostri provvedimenti e a renderli efficaci e i colleghi di questa sezione, cui personalmente presto molta attenzione perché considero questo un punto fondamentale, hanno svolto un ottimo lavoro. Ma ciò che è particolarmente significativo sono i numeri della loro produzione. Pensate solo a questo piccolo, ma neanche tanto piccolo, indicatore: il valore complessivo dei beni sottoposti a sequestro o confisca è salito dal 2009 al 2010 da 30 a 52 milioni di euro. Sto parlando soltanto delle misure di prevenzione assunte direttamente dal Tribunale; poi sapete che ci sono altri sistemi che riguardano anche le proposte che vengono fatte alle Prefetture e così via. Insomma esiste un sistema di controllo sul territorio. Il controllo va bene, e se vogliamo dire che questo è uno strumento estremamente efficace, va benissimo, ma non possiamo fondarci solo sugli strumenti. Io sono stata particolarmente attenta alle cose che ci ha detto il rappresentante della Confindustria che è qui presente, perché Confindustria ha fatto secondo me un buon lavoro, per quanto riguarda il rimettere in discussione i temi della legalità all’interno di un’etica di impresa che è assolutamente indispensabile, perché l’impresa oggi sia non soltanto merito e profitto, ma anche struttura portante di un’evoluzione progressiva della nostra società. Tuttavia è molto importante che ci si renda consapevoli che si tratta di un dovere, è necessario stare insieme e fare rete senza pensare che le responsabilità sono di altri e che ad altri è affidato il compito di rendere pulita la società, perché noi ci occupiamo del profitto. Non è così, bisogna che insieme si costruiscano delle metodologie, si mettano a punto delle reti, degli accordi che consentano a tutti di fare la loro parte, tenendo conto che alla base non ci può che essere appunto quella volontà di operare in termini di pulizia e di forza sana dell’economia, convinti che altrimenti non c’è sviluppo. Anche su questo bisogna mettersi in qualche modo d’accordo. Brevemente: noi abbiamo vissuto e stiamo vivendo una crisi economico-finanziaria che è sotto gli occhi di tutti. Ma pensate davvero che da una crisi economico-finanziaria si possa uscire attraverso scorciatoie e non attraverso invece strade dirette che portano a ottenere che un’economia sana sia anche il frutto di una condivisione di regole da tutti rispettate e che consentano effettivamente di andare sul mercato sentendosi tutti uguali nelle premesse (poi vincerà certamente il migliore, colui che saprà fare meglio)? E questo oltretutto ha un altro aspetto estremamente importante e significativo: significa la costruzione di un tipo di società in cui la “trasparenza” non è solo una parola della quale continuiamo a fare un uso in qualche modo esagerato e non convinto, ma significa anche che tutti siamo in grado di esser anche controllori di tutto. “Controllore” è una parola che disturba, ma è anche una parola che ci rende consapevoli che siamo tutti cittadini che viviamo nello stesso Stato e che abbiamo tutti le stesse responsabilità. È in questo senso che dobbiamo continuare a lavorare. Il Tribunale di Milano sta facendo un tentativo - e voglio ringraziare pubblicamente il ministro Maroni che mi ha dato subito la disponibilità sua e dei suoi uffici - per mettere intorno al Tavolo per la giustizia di Milano soggetti diversi, che sono espressione anche solo della società civile, ma che possono esserci utili per realizzare quella rete di cui parlavamo prima. Speriamo di poter portare a termine dei progetti anche in questa direzione e questo per noi è molto importante, perché lo sforzo che vogliamo fare è di affermare che è vero che Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 70 a noi spetta l’onere e l’onore di amministrare la giustizia e di dare risposte ai bisogni di giustizia dei cittadini, anche in termini di repressione, di risoluzione dei conflitti, ma è altrettanto vero che, proprio perché si fa questo nell’interesse dei cittadini, è assolutamente indispensabile che vi sia una forte responsabilizzazione della società civile, degli stakeholder importanti e significativi che operano nella società civile, in un rapporto di collaborazione, per ottenere un risultato, che possiamo chiamare di giustizia, o comunque di progresso civile e non inquinato della nostra società. FABIO TAMBURINI Un intervento decisamente ricco di spunti. Prima di proseguire nel programma del pomeriggio, volevo cogliere l’occasione per qualche domanda rapida, una delle quali a Lo Bello. C’è il tema della crisi economica che è stata devastante negli ultimi due anni. Ecco, non sarà che ha funzionato da “acceleratore”? Perché per un’impresa, un imprenditore in difficoltà, la tentazione di imboccare la scorciatoia può esserci stata, di fronte magari alle banche che “chiudevano l’ombrello quando pioveva”, quando pioveva una crisi forte. La presenza di qualcun altro, che magari era munifico e nel breve poteva rappresentare la soluzione dei problemi, probabilmente è stata una tentazione forte anche per molti imprenditori, soprattutto piccoli e medi? IVANOHE LO BELLO Io credo che la crisi abbia generato due comportamenti opposti: è chiaro che aziende in difficoltà, incapaci di stare sul mercato, probabilmente hanno cercato qualche scorciatoia. Ma in un altro senso è stato anche un elemento di accelerazione della cultura di mercato, nel senso che molte aziende di fronte a una situazione economica stagnante sul piano della domanda interna, hanno avviato processi significativi di internazionalizzazione. E questo lo fai se sei bravo a produrre prodotti, a vendere servizi e non a rapportarti con la mafia. Le crisi hanno sempre degli aspetti che sembrano molto contraddittori; ci sono le imprese meno attente al mercato e incapaci di stare sul mercato che vanno sulle scorciatoie, e comunque provengono da settori protetti o regolamentati artificialmente spesso dalla stessa mafia, e le imprese invece che vogliono accettare la sfida e che in un contesto stagnante cercano di andare sui mercati, specialmente su quelli internazionali. Quindi la crisi ha effetti molto diversi, contraddittori, spesso opposti. FABIO TAMBURINI Ecco, dovendo immaginare uno slogan rispetto ai contenuti dell’intervento del presidente Pomodoro, si potrebbe dire che la sconfitta decisiva per un certo tipo di criminalità è colpire il portafoglio, perché colpendo il portafoglio si pone una premessa di importanza fondamentale. A proposito di portafoglio, una delle cose che mi ha sempre un po’ affascinato come giornalista finanziario, che però non sono mai riuscito bene a focalizzare, è che questo tipo di criminalità determina dei flussi economici giganteschi, che non si capisce dove finiscano. È chiaro che c’è un problema di rapporti tra questi flussi finanziari giganteschi e il mondo delle banche, il mondo della finanza. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 71 Credo di non esser il solo a non essere riuscito a focalizzare questo aspetto: anche le inchieste della magistratura, di fronte al mondo della finanza, delle banche, non sembrano aver capito con chiarezza il percorso di questi flussi finanziari. A De Lucia vorrei chiedere a che punto siamo, che idea c’è di questo rapporto tra la criminalità, i profitti che genera e il mondo della finanza e delle banche? MAURIZIO DE LUCIA In qualche misura è la sfida del futuro nel contrasto alla criminalità organizzata. Più che fare teorie parto da un fatto, perché faccio il magistrato e mi occupo di fatti. Non molto tempo fa, nel porto di Gioia Tauro è stato sequestrato un container con 500 kg di cocaina: sul mercato valgono 25 milioni di euro. Dunque, è vero che c’è la crisi, ma non riguarda le imprese criminali. Il problema per l’impresa criminale ‘ndranghetista che doveva trattare quel quantitativo di stupefacente - ma per quello sequestrato si calcola che l’80-90% passa e quindi va sul mercato - era una liquidità di 25 milioni di euro da piazzare. E la crisi serve, perché proprio nei momenti di crisi, cioè quando c’è scarsa liquidità dell’imprenditore sano, l’imprenditore sano cerca dove trovare il denaro e se non lo trova nel sistema bancario o si rivolge al mercato dell’usura oppure, ed è questa l’attualità di questi giorni, si rivolge a quel soggetto che non è naturalmente il ‘ndranghetista in coppola e lupara che ci immaginiamo, ma l’avvocato, il commercialista che parla brianzolo come lui e gli propone un socio con questa liquidità fresca, e questa liquidità è l’unica cosa che interessa a quel piccolo imprenditore lombardo o del nord Italia, perché non si pone il problema di cosa c’è dietro quei soldi. Dietro quei soldi c’è il mafioso. E quando c’è il mafioso si verifica qualcosa che è anche peggio del pizzo sistematicamente pagato nel sud Italia, si verifica il rischio di spossessamento dell’impresa. Perché arriverà il giorno in cui quell’imprenditore tenterà di dire: “io voglio comprare un camion nuovo”. E l’altro gli dirà: “sì, ma compriamo quest’altro tipo di camion”, “ma io voglio quello”, “no tu non vuoi niente perché i soldi ce li ho messi io e in più ci metto la violenza, quindi mi fai il favore, stai qua perché mi è comodo che tu stia qua perché sei incensurato, perché hai buona fama, perché appari come una persona per bene. Quindi, cosa c’è di meglio per me, che invece faccio il mafioso, che usare te? E attraverso te io non ho un problema diretto di immettere i miei flussi finanziari nel mercato finanziario lecito; io ho te e quindi sarà la tua impresa a fare da interfaccia fra i miei soldi sporchi e il sistema”. E così funziona, e così rischia sempre più di funzionare, il sistema. Cioè, la violenza a cui siamo abituati quando ragioniamo di mafie meridionali, non la troviamo nel nord Italia, ma troviamo lo stesso le mafie, a un livello più sofisticato e più pericoloso naturalmente, perché questo poi rischia di inquinare l’intero mercato. Questo è il problema, ma naturalmente c’è la questione dei rimedi: investigazioni ovviamente sempre più sofisticate e poi una serie di sistemi di prevenzione. Tutto sommato il meccanismo attuale dell’antiriciclaggio in prevenzione funziona, cioè nel sistema delle banche, in questo momento in Italia, è difficile immaginare istituti sistematicamente adusi a pratiche di riciclaggio, perché è un sistema per il quale dobbiamo sempre tornare a quegli anni ’90 ’91 ’92, cioè a Giovanni Falcone direttore generale del Ministero della Giustizia. La nostra legislazione antimafia si è affinata, ma i mattoni portanti sono quelli posti allora e noi ancora oggi lavoriamo fondamentalmente con quelli. E il sistema della prevenzione del riciclaggio tutto sommato funziona. C’è un altro sistema su cui porre l’attenzione: quello appunto degli appalti. Va bene l’obbligo di denuncia, ma c’è un’altra cosa molto importante. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 72 Io con le leggi, come dire, litigo sempre, perché non mi ricordo le date e i numeri, ma credo che si tratti proprio dell’ultimo “pacchetto sicurezza” sul tema della tracciabilità dei flussi finanziari per quanto riguarda gli appalti. Bene, questo è un dato importantissimo, perché c’è un solo modo attraverso il quale possiamo evitare che i capitali mafiosi vengano a inquinare il mercato legale ed è quello di sapere da dove vengono i soldi. Sapere da dove vengono i soldi, quando si tratta con lo Stato, è una cosa che lo Stato - che devo dire lo ha fatto - ha il diritto di pretendere. Ma più in generale questo riguarda tutti gli imprenditori, perché è anche una forma di difesa dall’infiltrazione mafiosa. Un altro dato, che non è confortante, riguarda la circolazione del contante in questo Paese. In un altro convegno al quale mi è capitato di partecipare - era presente anche Ivanohe Lo Bello - è stato citato un dato: la metà delle banconote da cinquecento euro di tutta l’Eurozona circola in questo Paese. FABIO TAMBURINI Tra l’altro mi dicevano nei giorni scorsi che, secondo fonti legate alla Banca d’Italia di Brescia, non è mai stato stampato, non ha mai circolato tanto contante a Brescia come negli ultimi mesi. MAURIZIO DE LUCIA Dunque, io ho uno stipendio non particolarmente generoso, ma neppure di poco livello, eppure di banconote da cinquecento euro in vita mia ricordo di averne viste cinque o sei volte. Dove sono finite tutte le altre è una domanda che è lecito porsi. FABIO TAMBURINI Qui probabilmente si pone anche il tema dell’intreccio tra questo argomento e l’evasione fiscale. MAURIZIO DE LUCIA Assolutamente sì. Perché l’altro passaggio è questo: se noi limitiamo la circolazione del contante rendiamo più efficace il sistema finanziario e indirettamente rendiamo più difficile l’attività di riciclaggio delle mafie. Se facciamo una seria politica di contrasto all’evasione fiscale, non solo la dobbiamo fare perché è giusto che sia fatta, ma anche perché così evitiamo che si crei una commistione - che è una delle cose più pericolose per un sistema democratico - fra gli interessi di quella borghesia che evade (mondo delle imprese, libere professioni, commercio) e i mafiosi, che pensiamo essere solo loro criminali. Ma i mafiosi pascolano in questa situazione di grande opacità in cui tutti evadono, perché dentro l’evasione ci sono anche i capitali mafiosi. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 73 FABIO TAMBURINI Ho l’impressione che questa sia una battaglia più difficile da vincere, perchè la componente di evasione fiscale e di “nero” resta ancora molto elevata. MAURIZIO DE LUCIA Sì, ma io resto ottimista sul fatto che se vogliamo essere un Paese serio e intendiamo stare in Europa, dobbiamo avere gli standard di evasione fiscale del resto d’Europa. Cioè, se aumentiamo il livello di democrazia economica e di civiltà del nostro Paese con delle politiche che indirettamente sono politiche antimafia, diamo un colpo serissimo proprio a quello che ricordava la presidente Pomodoro. Cioè non è soltanto una questione di repressione, è un problema di ricostituzione di regole condivise. Penso che pagare in maniera equa le tasse sia una cosa che tutti possano accettare; sapere che qualcuno le evade è una cosa che può essere condannata, se l’imposta è condivisa perché è accettabile. In questo quadro, lo spazio per i capitali mafiosi inevitabilmente si riduce. Quindi la scommessa è anche questa: tanto di cappello alle forze di Polizia e a chi fa in prima linea il suo dovere, però poi una serie di obblighi, morali, etici, ma anche di convenienza, spettano a tutta la società e al mondo delle imprese in prima fila. FABIO TAMBURINI Mondo delle imprese significa anche mondo della cooperazione. Ho ascoltato con grande interesse le parole del presidente Poletti che hanno aperto questo incontro del pomeriggio, tra l’altro rafforzate dal tema, dalla scelta di trovarci qui a discutere intorno a questi argomenti. Resta un fatto: il mondo della cooperazione non è rimasto indenne da questa problematica, ha avuto i suoi problemi anche nel rapporto con l’economia criminale. Ecco, a che punto siamo? Quali sono gli anticorpi che il mondo cooperativo - che per definizione dovrebbe essere antitetico ad associazioni come la mafia, la ‘ndrangheta, ma tuttavia in realtà ha dimostrato negli ultimi anni che purtroppo la contaminazione è più facile di quello che si possa pensare - sta sviluppando? Cosa state facendo, come vi state muovendo, qual è la realtà attuale? GIULIANO POLETTI Se guardiamo i fatti degli ultimi anni, di elementi particolarmente rilevanti in questo senso non se ne sono registrati. Lungo la storia qualche fatto particolare c’è, qualche segnale ma, lo dicevo prima, noi non ci consideriamo fuori dai contesti, dai rischi, fuori dalla possibilità che possa accadere. La cosa importante è che ci sia, e per quello che ci riguarda c’è, una fortissima volontà della nostra organizzazione di stare su una posizione, che è quella di chi con quel tipo di attività non vuole aver niente a che fare. E quindi, se c’è qualcuno che commette un errore va punito, perché rovina la reputazione anche di tutti gli altri. Non lo possiamo escludere in via di principio, perché non si può mai escludere niente a priori ma, stabilito questo come principio, lo si esclude in via di fatto. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 74 FABIO TAMBURINI E questa mi sembra una bella dichiarazione di intenti! GIULIANO POLETTI Proviamo a guardare il mondo cooperativo al Sud, in Sicilia, ma anche in altre regioni: la grande distribuzione, Coop, Conad; le grandi imprese che lavorano - prima si citava CMC, ma ci sono altre esperienze importanti: recentemente Città del Mare è stata acquisita da un gruppo di cooperative, il più grande villaggio turistico a Terrasini, a Palermo - nel settore agro-alimentare, una quantità importante di iniziative, imprese cooperative che magari hanno la loro sede storica non in Sicilia, ma che svolgono lì una parte importante della loro attività imprenditoriale, anche collaborando con imprese. Bene, queste cooperative in questi anni hanno fatto una quantità di investimenti rilevantissimi. Costruire ipermercati in Sicilia non è esattamente un’esercitazione semplice; rifornirsi di prodotti in quel territorio, senza andare a sbattere da qualche parte, non è esattamente un esercizio semplice. Parlavamo prima del calcestruzzo: se vuoi fare dei centri commerciali, un po’ di calcestruzzo ti serve e quindi dove diavolo lo vai a prendere? E siccome non lo imbarchiamo con le navi da Ravenna… Come si costruiscono i protocolli di legalità, come ci si misura con questo problema è un dato di volontà. Qualcuno può dirmi: “Sei certo che non avete mai toccato da qualche parte?”, io rispondo “Non lo so”. Quello che posso dire è che sono certo che abbiamo fatto tutto quello che era ragionevolmente fattibile, e qualche volta qualche cosa in più, perché in non rari casi si sono assunti dei protocolli e dei comportamenti che hanno ridotto in maniera significativa la libertà dell’imprenditore di fare le proprie scelte come avrebbe fatto. Perché dire a un prefetto, o a un magistrato, o a una forza dello Stato: “dov’è che posso andare a prendere il calcestruzzo?” - usiamo sempre quello come dato, ma potremmo parlare di pere, di mele, e di terreno, di camion e di tutto il resto - e dire: “questo sì e quello no”, vuol dire che come imprenditore non scelgo liberamente il fornitore che vorrei, scelgo avendo un campo delimitato. Bene, noi l’abbiamo fatto. Non abbiamo detto: “prendiamo, perché ci arrangiamo a capire dov’è il buono, dov’è il cattivo”. Abbiamo costruito i protocolli di legalità, abbiamo usato questi strumenti, abbiamo faticato a costruirli, a trovare le maniere più efficaci, ma l’abbiamo fatto. Poi c’è l’altro pezzo. E guardate, tutto il lavoro che si sta facendo sul terreno dei beni confiscati e del loro riuso, e l’impegno su questo versante, non è cosa banale, perché vuol dire che l’organizzazione su quel versante ci mette la faccia, ci mette l’impegno e ci mette delle risorse; perché sostenere queste azioni è una cosa complicata, economicamente anche impegnativa. Lo stiamo facendo. E a che punto siamo? Credo che siamo a un buon punto, perchè questa sensibilità è cresciuta molto, e perché la sensibilità sta dentro al contesto sociale, che è quello che abbiamo disegnato, e quindi anche insieme alle altre organizzazioni dell’impresa. Quindi quando il mercato cambia e si produce un mercato, anche per noi diventa relativamente più semplice, più facile fare bene quello dobbiamo e vogliamo fare. Poi c’è quello cui accennavo prima, cioè la gestione dei beni sequestrati e in particolare delle imprese: è uno dei temi su cui pensiamo di poter mettere a disposizione le nostre competenze, le nostre capacità, e valorizzare la scelta di quei cittadini e lavoratori. Perché lì c’è anche questo problema: ci sono delle persone che lavorano nelle imprese, Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 75 dove il lavoratore va a lavorare la mattina e se ne torna a casa la sera, prende lo stipendio, punto e a capo; non è detto che debba essere colluso, consapevole, o non so che. A quella persona dobbiamo dare una prospettiva, un’opportunità. Bene, noi, dal nostro punto di vista, cosa diciamo? Se siete dieci lavoratori e state in un’impresa che viene sequestrata e avete voglia di gestirvela, noi vi aiutiamo a creare una cooperativa, vi aiutiamo a far continuare a vivere quell’impresa, a dimostrare che si può fare, che quell’impresa campa anche senza la mafia o contro la mafia. E farlo non è esattamente semplicissimo. Cito solo un esempio: sono stato recentemente in Calabria, perché lì abbiamo cooperative coi presidenti minacciati, etc., insomma viviamo anche noi tutti i problemi che queste situazioni pongono, e con la presenza dei magistrati e del Prefetto, abbiamo cercato di dare anche lì un segno, perché abbiamo bisogno di far procedere le cose. E la domanda che ci è stata fatta - eravamo dopo la manifestazione di Reggio Calabria, una bella manifestazione, un importante impegno della società - è stata: “ma adesso come facciamo ad andare avanti?” Perché di manifestazioni ne abbiamo fatte anche in passato, ma poi la cosa si è smontata. Allora io ho raccontato un banalissimo aneddoto: a Corleone, il tecnico agricolo della Cooperativa Pio La Torre, che gestisce terreni sequestrati, mi ha portato a vedere una collina che era una bandiera, perché al centro c’era una gran riga gialla coltivata a meloni, quella della cooperativa; a destra e a sinistra c’era il terreno ancora della famiglia dei “parenti” del signore a cui quel terreno era stato sequestrato. Era esattamente una bandiera, con due fasce di stoppie grigie e una bella riga gialla di meloni al centro. E il tecnico mi ha detto: “sai, Poletti, all’inizio quando andavamo a lavorare quel terreno, e passavamo sul campo di quello là, beh, insomma, aspettavamo di andarci insieme alla mattina perché non ci fidavamo moltissimo”. E allora io ho detto ai miei amici e colleghi calabresi: “avete visto? Loro tutte le mattine hanno fatto una manifestazione, tutte le mattine che hanno attraversato quel pezzo di terra e sono andati a coltivare quei meloni hanno fatto una manifestazione. Allora, se volete che la vicenda di Reggio Calabria non sia un fuoco di paglia, bisogna darle questo tratto di continuità, bisogna prendersi la responsabilità di costruire cose che durano nel tempo, perchè solo quelle ci consentiranno di trasformare nel profondo la società”. Ecco, credo che noi siamo avanti da questo punto di vista, perché senza auto assolverci, sapendo di stare pienamente dentro quel contesto, comunque la nostra scelta di campo l’abbiamo fatta in maniera inequivocabile. FABIO TAMBURINI Ritengo che questo tratto di continuità possa essere possibile anche rispettando due condizioni, che credo vadano spese fino in fondo. La prima è che è vero che l’economia, anche l’economia criminale, si è globalizzata, però è anche vero che c’è una certa differenza tra la Sicilia, la Calabria e il nord del Paese. Penso che uno sforzo per avere una continuità nella ribellione a questo tipo di criminalità debba venire da quelle zone del Paese dove è più facile, perché insomma, un conto è essere contro la mafia, la ‘ndrangheta, in Sicilia e in Calabria, e un conto, con tutte le infiltrazioni che ci sono, è esserlo a Milano e in Lombardia. È da queste zone del Paese, dove alla fine è anche più semplice, che deve venire la spinta alla continuità. E questo è veramente un obbligo, prima di tutto morale, che dobbiamo assumerci e in questo - che è la seconda condizione - devono acquisire un ruolo importante anche i media e gli strumenti di comunicazione, perché devono servire a tenere alta l’attenzione della società civile. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 76 Bene, a questo punto, in conclusione di questo pomeriggio, è previsto l’intervento del Ministro. Faccio una premessa, credo importante: questo è un Paese diviso in due, con polemiche spesso laceranti, contrapposizioni di fondo che a volte prescindono dal merito delle questioni. A me questo tipo di atteggiamento non piace, né caratterialmente, né ideologicamente. Ritengo che si debba andare alla sostanza dei problemi. Allora, oggi mi sembra sia emerso, per comune riflessione delle persone che sono intervenute, che c’è un dato di fatto: che negli ultimi dieci-quindici anni c’è stata una continuità di lotta alla mafia e alle associazioni criminali. Forse si poteva far di meglio, però è indubbio che un riconoscimento vada dato. Questa continuità arriva da governi di centro-destra. Ecco, da questo punto di vista, questo credo non significhi che non ci siano connivenze, che non ci siano infiltrazioni, perché quando si parla di infiltrazioni e di connivenze nessuno è indenne. Mi farebbe piacere sentire anche dalle parole del Ministro un bilancio di quello che è stato fatto e anche di quello che verrà, che si intende continuare a fare. ROBERTO MARONI Ministro dell’Interno Sì, grazie. Spesso la mafia viene definita il cancro della società o dell’economia, e il paragone, la metafora è assolutamente azzeccata. I tumori sono diversi, alcuni sono più facilmente aggredibili di altri, ma hanno una strategia, un comportamento comune, che è quello di svilupparsi a danno degli organi sani. E lo strumento migliore per combatterli è la prevenzione. Quando sono diventato ministro dell’Interno, nel maggio del 2008, ho ritenuto che nella lotta alla mafia fosse il momento di darsi appunto una strategia complessiva, utilizzando le misure legislative che negli anni precedenti erano state messe a disposizione, ma creando un sistema di coordinamento tra tutti i soggetti che in qualche modo possono contribuire alla lotta alla mafia, e definendo degli obiettivi, degli strumenti, dei mezzi, delle dotazioni, cioè una strategia. Credo che questo sia il significato più importante dell’azione che è stata fatta in questi ultimi tre anni e dei risultati che sono stati conseguiti. È vero che la lotta alla mafia ha portato recentemente a risultati importanti, però l’intensità con cui si è svolta in questi ultimi tre anni non ha precedenti e non ha paragoni. Nel 2007 - parlando di una delle strategie che abbiamo adottato, l’aggressione ai patrimoni mafiosi - abbiamo sequestrato beni per un miliardo e mezzo di euro; nel 2010 siamo arrivati a otto miliardi, in un solo anno. Non è che improvvisamente i mafiosi sono diventati tutti più deboli o più “rincitrulliti”… Si è invece sviluppata un’azione mirata - così come si fa nei confronti proprio del cancro, dei tumori - che progressivamente si affina nel tempo, segue l’aggiornamento che la mafia usa per penetrare nell’economia sana e per svilupparsi e che coinvolge tutti i soggetti interessati. La strategia che abbiamo sviluppato si articola in diverse misure. Le più importanti sono state già citate: l’aggressione alla struttura militare, organizzativa della mafia, con l’arresto di oltre settemila mafiosi in questi tre anni, con una media di circa otto mafiosi al giorno; ventotto latitanti dei trenta più pericolosi. Quando io sono arrivato a maggio del 2008 presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza c’era l’elenco dei latitanti più pericolosi ed erano tutti in libertà; adesso ne mancano due, Matteo Messina Denaro e Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 77 Michele Zagara; due mesi fa è stato catturato Antonio Iovine, il capo della Camorra; ne mancano due, sono sempre due, ma due su trenta. Quindi c’è l’aggressione ai patrimoni, che è straordinariamente importante, perché l’organizzazione si finanzia con i patrimoni. Il mafioso, il boss, non è molto preoccupato quando le forze dell’ordine, la magistratura, gli arrestano i picciotti, se ha i soldi per mantenerli in carcere pagando lo stipendio alle famiglie. Intanto recluta gli altri. Ma se il conto in banca, diciamo così, si prosciuga, allora ha difficoltà a mantenere l’organizzazione. L’aggressione ai patrimoni, quindi, non è solo lo strumento per ridare alla società civile il maltolto, ma serve anche per combattere in modo efficace, con un’azione parallela, l’organizzazione. La terza misura è quella che viene evidenziata questa sera, cioè il coinvolgimento di tutti i soggetti che, ciascuno con il suo modo di operare, ciascuno nel suo mondo e con le sue prerogative, possono, come si diceva qualche anno fa, “fare squadra” per combattere la mafia. Sono azioni che portano a una strategia che - lo dicono i risultati - ha dei successi senza precedenti. Sul piano dell’arresto dei latitanti ho già detto; sul piano dell’aggressione ai patrimoni il presidente Pomodoro ha citato la quantità, il valore dei beni al Tribunale di Milano. A livello nazionale siamo arrivati oggi ad avere nel patrimonio dell’Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati, oltre 35.000 beni, per un controvalore di venti miliardi di euro, venti miliardi di patrimonio. Il 20% circa sono aziende o attività commerciali che fino a oggi noi, lo Stato, il Ministero, è stato incapace di gestire. Il 99% delle aziende sequestrate sono arrivate alla confisca chiuse, fallite, vendute a pezzi. Questo enorme patrimonio è oggi nelle nostre casseforti e dobbiamo gestirlo, questa è la sfida vera. La collaborazione e la cooperazione, con la cosiddetta società civile, cioè in particolare il mondo delle imprese, si è molto intensificata in questi anni. Il presidente Lo Bello citava l’intensa collaborazione; io mi sono accorto subito delle iniziative che il Presidente aveva preso in Sicilia, le ho reputate assolutamente e straordinariamente utili, ci siamo sentiti e abbiamo cominciato a lavorare, mettendole nei protocolli con varie associazioni territoriali; l’anno scorso abbiamo realizzato un protocollo con Confindustria, firmato proprio qui a Milano nella sede di Assolombarda, che ha previsto regole di comportamento che Confindustria Sicilia aveva già sviluppato. Abbiamo stabilito norme di legge, in particolare due che sono state citate, ma che voglio citare nuovamente per la loro importanza: la prima è l’obbligo per chi vince un appalto pubblico di denunciare i tentativi di estorsione. Dovrebbe già essere un obbligo morale. Non era sempre così, quindi abbiamo voluto dare un “aiuto” agli imprenditori, alle imprese che, nel caso in cui non rispettino la norma e vengano scoperti, comporta come sanzione il fatto di non potere più partecipare agli appalti pubblici per i successivi tre anni. È una norma che è stata fortemente contrastata da una parte del mondo delle imprese e da una parte del mondo giuridico, non senza fondamento perché effettivamente qui siamo di fronte a qualcuno che è vittima di un reato e che viene punito. Però alla fine è prevalso, credo giustamente, l’interesse pubblico di contrastare la criminalità organizzata, rispetto al diritto di qualcuno di non essere il delatore, di non fare nulla che possa mettere se stesso nelle condizioni di essere punito. E questo è un obbligo di legge, che non c’è in nessuna legislazione di nessun Paese al mondo. La seconda norma introdotta è la tracciabilità dei flussi finanziari. Che cosa vuol dire? Che ogni euro, oggi, di qualsiasi appalto pubblico, piccolo o grande che sia, viene tracciato, seguito nel suo percorso, non solo nel passaggio dalla stazione Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 78 appaltante all’azienda che ha vinto l’appalto, ma anche nei subappalti dove spesso si nascondono le connivenze con la criminalità organizzata. Anche questa è una norma che non ha precedenti. L’abbiamo inserita per la prima volta nel decreto di ricostruzione dell’Abruzzo post-terremoto, limitatamente a quell’area, poi l’abbiamo prevista per Expo 2015 e dal 7 settembre 2010, data di entrata in vigore, vale per tutti gli appalti pubblici, di qualunque entità, concessi a partire da quella data. Questa norma è contenuta in una legge che credo possa essere citata davvero ad esempio di come si deve comportare la classe dirigente di un Paese. È una legge approvata dal Parlamento all’unanimità: il piano straordinario contro le mafie. Non ci sono precedenti, anche qui, abbiamo lavorato bene, con tutte forze politiche, a dimostrazione proprio che la lotta alla mafia, alle mafie, al di là delle responsabilità che sono sempre personali, è una lotta, un’azione condivisa da tutte le forze politiche in Parlamento. Mi ha veramente impressionato vedere il 3 di agosto, al Senato, tutte le lucine verdi sul voto finale del provvedimento, che contiene, oltre alla tracciabilità, norme importanti, come la previsione di un testo unico delle leggi antimafia. Una marea di norme si sono succedute credo dal 1975 in poi: devono essere coordinate per fornire gli strumenti più utili ed efficaci di contrasto, altrimenti gli avvocati sono molto bravi a trovare ogni volta una legge, un comma, il cavillo di qualche legge dimenticata… Un altro elemento riguarda, nell’aggressione ai patrimoni, la distinzione tra le misure personali e quelle patrimoniali. Prima - semplifico un po’, mi perdoneranno i magistrati quando veniva arrestato un mafioso, gli venivano sequestrati i beni in quanto il mafioso era pericoloso; se il mafioso in carcere moriva, i beni venivano restituiti agli eredi. Erano beni certamente entrati nel suo patrimonio perché frutto di un’azione mafiosa, ma il presupposto del venir meno della pericolosità non consentiva il collegamento tra le misure personali e quelli patrimoniali. Noi abbiamo separato la sorte dei patrimoni rispetto alla pericolosità: se si accerta che questi patrimoni sono frutto di azioni criminose, vengono confiscati e il sequestro viene tramutato in confisca. Questo ha permesso alla Procura di Palermo, per esempio, pochi mesi fa, di portare a termine, in una sola notte, un’operazione di sequestro di un patrimonio per oltre cinquecento milioni di euro, in un colpo solo. Erano anni che cercava di farlo, ma la malizia, l’astuzia dei boss mafiosi nell’intestare i beni ai minori, o a un nullatenente o a un incensurato, aveva impedito di raggiungere questo obiettivo. Nuovi strumenti, quindi, che abbiamo messo a disposizione nei pacchetti sicurezza, che si aggiungono a quelli che abbiamo e che fanno oggi dell’Italia la nazione che ha gli strumenti più avanzati al mondo di contrasto alla criminalità organizzata. E l’articolazione della strategia in aggressione alle organizzazioni mafiose, aggressione ai patrimoni e coinvolgimento di tutte le forze sociali: questa è la strategia che ritengo vincente e che intendiamo continuare a sviluppare perché i risultati ci sono. C’è stato negli ultimi tre anni un incremento del 300% nei patrimoni sequestrati alla criminalità organizzata, grazie proprio alle misure e all’intensità. Tutto ciò non basta, serve anche un’azione costante e di coordinamento. Il presidente Lo Bello ha citato prima il cosiddetto “modello Caserta”. Che cos’è il modello Caserta? È un tavolo di confronto permanente. Io in due anni e mezzo ho partecipato quindici volte a questo tavolo, attorno al quale ci sono i rappresentanti delle forze dell’ordine, la magistratura, la magistratura antimafia, la Guardia di Finanza, e dove si fa l’aggiornamento mese per mese delle azioni in corso e si sviluppano le strategie di risposta agli aggiornamenti che la mafia fa. Questo ha portato nella zona di Caserta a risultati veramente brillanti contro la camorra. Questo modello, cioè insediare queste azioni sui territori, coinvolgendo gli operatori che vi operano, dà un segnale importantissimo ai cittadini, fa sentire che lo Stato c’è. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 79 Quando parlo dei successi nella lotta alla mafia uso sempre il temine “Stato”. È merito di tutti se c’è un’azione comune: il ministro per quanto riguarda le sue competenze, cioè mettere a disposizione gli strumenti alle forze dell’ordine, alla magistratura; le forze dell’ordine, la magistratura che svolgono le attività investigative; e il mondo delle imprese, che merita un ulteriore sviluppo nell’azione già meritevole che stiamo facendo. Il mondo delle imprese, con questi numerosi protocolli ha dimostrato una grande sensibilità al tema della lotta alla mafia. Questi protocolli hanno una valenza biunivoca: in primo luogo garantiscono un intervento più mirato di tutela delle attività economiche da parte delle forze dell’ordine. Abbiamo fatto per esempio un protocollo con l’Ordine dei Dottori Commercialisti, perché molti commercialisti, soprattutto nel Sud, hanno lamentato azioni intimidatorie nei loro confronti quando gestiscono in particolare dei fallimenti di imprese; ci sono state anche due vittime. Quindi maggiore tutela e controllo, ma anche una serie di informazioni e segnalazioni che ci vengono fornite attraverso questi protocolli e che sono utilissime per acquisire un livello di informazione necessario e sufficiente per intervenire preventivamente ed evitare che succeda quello che i mafiosi vorrebbero succedesse. Quindi, intensificare la collaborazione con il mondo delle imprese per la gestione di questo immenso patrimonio - oltre 20 miliardi. Credo che non sia impossibile far sì che questo immenso patrimonio possa essere messo a reddito, all’1%, al 5%, non lo so, ma finora è stato gestito in perdita. Faccio solo un esempio: quando venivano sequestrate le autovetture ai boss, venivano messe in un deposito in attesa della confisca. Potete immaginare cosa succedeva alle macchine lasciate lì per anni, anche se non erano Fiat. Si pagava il deposito e alla fine il valore era un decimo. Adesso le diamo in uso alla Polizia e ai Carabinieri, che fanno anche la manutenzione, e il messaggio, per chi vede quell’auto, che fino a poche settimane prima era guidata da un mafioso e ora à nelle mani della Polizia o dei Carabinieri, è estremamente positivo. Ma non è solamente questo, ovviamente: valorizzare il patrimonio significa far fruttare gli immobili, far fruttare le aziende. Per gli immobili, privilegiamo il rapporto con gli enti locali; la nascita dell’Agenzia nazionale, che abbiamo creato esattamente un anno fa, ha consentito di avere un panorama complessivo di tutti i beni che sono sparsi in tutte le regioni. La Lombardia è la quarta regione per numero di beni sequestrati alla mafia - la quarta non la ventesima; la prima è la Sicilia - per dire la presenza della criminalità organizzata qui, che è ben nota. Questa uniformità di gestione ci consente di avere quindi una gestione più oculata e di scegliere gli interlocutori: gli enti locali, come comuni, province, regioni, ma anche il mondo del volontariato, il terzo settore - Libera è stata citata, no? - le cooperative. A questo proposito vi invito a fare una convenzione con l’Agenzia azionale, col prefetto Morcone, che sarà a Milano nei prossimi giorni, per la gestione di questi beni, perché siamo interessati a chiunque abbia un interesse a gestire questi beni, semplicemente per valorizzarli. E poi ci sono le imprese. Condivido le preoccupazioni che sono state evidenziate: se in un’area a forte densità criminale c’è un’impresa che dà lavoro - e spesso i lavoratori sono messi in regola, proprio per dare una copertura - arriva lo Stato, sequestra l’azienda, l’azienda chiude e venti lavoratori sono licenziati. La gente penserà: “si stava meglio quando c’era la mafia”. Per cui il nostro compito è di fare in modo che queste imprese possano continuare a vivere, se meritano di vivere, se non sono solo copertura per operazioni di riciclaggio, per esempio, perché c’è anche questo. Ma chi può farle vivere? Non i funzionari del Ministero dell’Interno, con tutto l’apprezzamento che naturalmente rivolgo loro. Ci vogliono i manager, ci vogliono imprenditori che sappiano come funziona quella particolare azienda. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 80 Un anno e mezzo fa è stata sequestrata vicino a Palermo una catena di supermercati: i supermercati sono negozi che hanno dei margini bassissimi, perché hanno alti volumi di vendita, bisogna far girare la merce a velocità vorticose. Se arriva lì un funzionario che ferma tutto perché deve fare i bilanci, fare gli inventari e passano tre mesi, si chiude, si fallisce. È per questo che noi abbiamo già cominciato qualche sperimentazione, a Napoli per esempio, con l’Unione Industriali di Napoli che ci “presta" dei manager per gestire le imprese; per ora solo come consulenti - perché la procedura prevede la magistratura, il commissario - ma questa è la strada da seguire. Vorrei arrivare a un punto in cui queste aziende vengono prese, vengono gestite dal mondo delle imprese sane, dal mondo delle imprese che combatte contro la mafia e che le valorizza per passare proprio dal male al bene, per ridare alla società civile questo immenso patrimonio che è stato sottratto impropriamente dalla criminalità organizzata. Ho citato i dati, e concludo, che sono confortanti: venti miliardi di euro in due anni. È una cifra, ripeto, senza precedenti, ma siamo ancora lontani dal vincere il tumore. Se pensiamo che le stime più prudenti del fatturato della “mafia S.p.A.”, in Italia stimano dieci miliardi di euro al mese, quindi centoventi miliardi all’anno - tutti esentasse, perché ovviamente non pagano le tasse - centoventi miliardi di fatturato all’anno, noi ne abbiamo sequestrati dieci, ci mancano ancora gli altri centodieci. Però la strada è questa ed è la strada inevitabilmente da percorrere. Oggi possiamo vantare, come dicevo, un sistema che è il migliore al mondo e lo dico io, ma in conclusione su questo punto, per replicare a un’insinuazione che c’era oggi sui giornali, vorrei citare testualmente le parole di una persona che è al di sopra di ogni sospetto, cioè il capo della Polizia Antonio Manganelli, che ha detto: “i risultati che abbiamo ottenuto negli ultimi anni sono superiori a quelli di qualsiasi altro Paese nel mondo e certamente in Italia superiori a quelli registrati in tutti i tempi”. Questa è la strada che noi dobbiamo continuare a seguire, perché vincere la mafia, batterla definitivamente è possibile. FABIO TAMBURINI Bene, grazie a chi è stato sul palco, grazie a voi che ci avete seguiti. Abbiamo, credo, contribuito con un piccolo granello di sabbia a portare avanti la lotta contro questo tipo di criminalità. Le testate del Gruppo Sole 24Ore, a partire da Radio24, faranno tutto quello che è possibile per proseguire su questa strada. Grazie a tutti. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 81 VENERDÌ 14 GENNAIO 2011 Quinta Sessione Il ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari per la crescita delle imprese italiane GIORGIO GEMELLI Per iniziare, vorrei ricordare quali sono le sessioni della mattinata. La prima è quella che ora inizierà: Il ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari per la crescita delle imprese italiane. Sono presenti e ne discuteranno Giuseppe Mussari, presidente dell’ABI, Pierluigi Stefanini di Unipol Banca, Aldo Soldi di Legacoop; sarà moderatore Caterina Parise, che fra poco inizierà a introdurre la discussione. Dopo una breve pausa ci sarà una seconda sessione sui beni comuni e le politiche pubbliche, sul ruolo che in questo svolge la cooperazione. Infine daremo la parola, per una lezione magistrale, a Michael Spence, Premio Nobel per l’economia nel 2001. Per cominciare inviterei la dott.ssa Caterina Parise a introdurre la prima parte della discussione. Grazie. CATERINA PARISE Capo redattore centrale TM News Buongiorno a tutti. Questa mattina affronteremo un tema abbastanza importante, quello del ruolo del sistema bancario e degli strumenti finanziari nella crescita, ovviamente in Italia, ma anche a livello internazionale, delle imprese italiane e cercheremo di capire quanto le banche sono state vicine al sistema delle imprese finora e quanto potranno esserlo in futuro, visto che tutti sappiamo che questa ripresa stenta a decollare e che i segnali di crisi invece permangono. Ci sono anzi degli allarmi - mi riferisco a quello del ministro Tremonti la settimana scorsa - di una crisi che potrebbe riproporsi e colpire probabilmente ancora il sistema bancario. Non il sistema italiano, evidentemente, ma siamo in un mondo globale per cui è inevitabile che anche le nostre banche e le nostre imprese risentano poi di quello che avviene a livello internazionale. Per aiutarci a capire e ad affrontare questo tema, chiamerei sul palco il presidente dell’ABI, Giuseppe Mussari, il presidente del gruppo Unipol, Pierluigi Stefanini e Aldo Soldi della Lega delle Cooperative. Darei la parola proprio al dott. Soldi, per affrontare il tema dal punto di vista della Lega delle Cooperative, cioè come avete affrontato il tema della crisi? Come pensate di potervi muovere in futuro? ALDO SOLDI Presidente Ancc-Coop, Legacoop Buongiorno a tutti. L’argomento che affrontiamo è quello del ruolo degli strumenti finanziari e del sistema bancario a sostegno della crescita delle imprese. È un argomento che ha valore generale, nel senso che per le imprese c’è sempre un problema di crescita e di sviluppo; adesso però c’è in più questa crisi che non finisce. Ieri abbiamo sentito affermazioni molto chiare: lo scenario 2011 prevede una sostanziale continuità rispetto allo scenario 2010, che non è stato certamente “rose e fiori” e quindi bisogna affrontare l’argomento proprio partendo da qui. E allora mi preme fare una dichiarazione, una Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 82 premessa, magari scontata, che poi rafforzerò dal nostro punto di vista, cioè che l’attività finanziaria è lo strumento per l’impresa, nel senso che il protagonista dell’attività economica è l’impresa, con le sue scelte e i suoi mercati, i suoi valori, le sue difficoltà e i suoi errori. Un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia e un eccessivo prevalere della finanza rispetto a valori veri del mercato rischia veramente di falsare la prospettiva, rischia di farci perdere contatto con la realtà del mercato e con la realtà viva di quello che sta succedendo nell’economia. Questa crisi ci ha mostrato con grande chiarezza questo elemento e ce lo ha fatto anche pagare a prezzi molto salati. Poi è vero che in Italia la situazione è stata diversa rispetto agli altri Paesi per una serie di ragioni, che magari in mattinata, in questo dibattito, potremmo anche indagare meglio, però la globalizzazione ci porta a dire che quello che accade in altri Paesi naturalmente influenza la nostra economia, che ne risente; i nostri consumi e le nostre imprese ne risentono. Aggiungo, da questo punto di vista, che ciò che stiamo vedendo oltreoceano non ci rassicura. Si è fatto riferimento all’allarme lanciato dal Ministro; altri segnali ci indicano un ritornare indietro, quasi come se niente fosse accaduto e ritengo che questo ci debba sicuramente molto, molto preoccupare. Abbiamo detto “crescita dell’impresa”. Come cresce un’impresa? È chiaro che cresce in modi molto vari e articolati, non c’è un modo unico. Aggiungo però subito che per molte imprese italiane, cooperative e non, in questo momento il problema che si pone, purtroppo, non è tanto quello della crescita quanto quello della sopravvivenza e faccio riferimento anche alla situazione in cui si trovano in questo momento molte cooperative e anche altre imprese, che hanno difficoltà non perché hanno sbagliato delle scelte, non perché non hanno più un mercato, ma perché la pubblica amministrazione non paga. Un insieme di malcostume e di tagli, che alla fine stanno producendo effetti pesantissimi su molte imprese, alcune delle quali cooperative, e stanno influenzando in maniera pesante la possibilità di mantenere servizi essenziali per la popolazione. Si parla di servizi importanti, basilari: quando non si paga una cooperativa che si occupa di figli che sono affidati dai tribunali perché le famiglie non li possono più tenere, per un po’ succede, come sta succedendo, che i soci di questa cooperativa portano da casa il materiale per il sostentamento di questi ragazzi, rinunciano agli stipendio, etc. Ma quanto potrà durare? Che Paese è questo? Quindi questo problema di sopravvivenza legato al fatto che la pubblica amministrazione non paga è un elemento pesante che anche come Lega delle Cooperative non abbiamo mai smesso e non smetteremo sicuramente di denunciare. Crescere allora può voler dire unirsi per creare imprese più grandi, può voler dire ristrutturare, allargare la produzione oppure provare a inserirsi in nuovi mercati, diversificare l’offerta o anche guadagnare in efficienza, fare innovazione e molto altro ancora. Insomma, i modi per crescere sono davvero tanti. Ecco, ognuna di queste attività, dalla sopravvivenza alla crescita, ha bisogno di sostegno finanziario, di risorse e i processi messi in atto sono di conseguenza molto diversi fra di loro, quindi occorre mettere a disposizione delle imprese una molteplicità di strumenti; non c’è uno strumento solo, occorre mettere a disposizione una molteplicità di strumenti che provino a rispondere alla molteplicità di esigenze che la crisi ci pone. Faccio un inciso, che mi preme anche dopo la giornata di ieri. Si è detto che le cooperative hanno affrontato la crisi meglio di altre perché la crisi le ha trovate solide dal punto di vista patrimoniale. Ma questa solidità non è per “grazia ricevuta”, bensì perché negli anni, e in alcuni casi nei decenni, gli utili che le imprese cooperative hanno fatto sono rimasti in impresa, non sono andati a fare dei giri strani; sono rimasti nell’impresa e nella stragrande maggioranza dei casi i soci vi hanno rinunciato. È chiaro che questo ha costituito una solidità patrimoniale che ha aiutato le cooperative ad affrontare momenti difficili. Dico questo perché continuiamo a incontrare difficoltà ad affermare questo concetto nella relazione che abbiamo con la Commissione Europea, che non ritiene che Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 83 questo sia elemento caratteristico dell’impresa cooperativa e alla fine dice: “va bene, ma se gli utili non sono distribuiti sarà un problema vostro, non un problema collettivo”. Ma se l’impresa reagisce meglio alla crisi e non licenzia, non scarica sui fornitori, non scarica sulla collettività, perché si è patrimonializzata grazie a questo, è chiaro che questo diviene un elemento che ha un valore collettivo, e non riguarda solo l’impresa. Quindi abbiamo detto: molteplicità di modi di affrontare la crescita e molteplicità di strumenti da mettere in campo. È esattamente quello che la Lega in questi anni ha fatto, ha cercato di fare, e credo debba anche continuare a fare. Occorre cioè predisporre strumenti diversi a seconda delle diverse esigenze delle imprese. Alcune scelte importanti sono state fatte, come quella di fare rete fra gli strumenti finanziari. Molti strumenti finanziari sono in campo nel mondo cooperativo; il fatto di fare rete, di rinunciare a un po’ di autoreferenzialità, di mettersi in comune, di cooperare fra cooperatori è sicuramente un elemento di forza, un elemento importante. L’altro elemento che è stato molto significativo da questo punto di vista è stato quello di attivare convenzioni con istituti di credito, che hanno consentito alle risorse interne di fare leva e di conseguenza di muovere risorse più ampie a disposizione delle cooperative. Quindi una finanza “al servizio” - questo è l’elemento che mi interessa sottolineare sul piano concettuale - che deve essere remunerata, ma che non si pone l’obiettivo della distribuzione degli utili fra i soci o fra le società aderenti; si pone l’obiettivo di aiutare le imprese cooperative nelle loro scelte e nella loro crescita. Sicuramente occorre mettere in campo strumenti che siano anche flessibili. Oggi, per esempio, non c’è molta richiesta di interventi per la nascita di nuove cooperative, c’è più richiesta di interventi per aziende in crisi, per salvare l’impresa in crisi e il posto di lavoro. L’altra cosa che vorrei dire - che conferma alcuni dati che abbiamo visto ieri - è che anche in questo periodo di crisi le cooperative hanno continuato a investire per lo sviluppo e che le richieste che sono arrivate agli strumenti finanziari messi in campo dal sistema cooperativo sono mirate anche allo sviluppo, alla crescita, al coraggio di investire, di innovare, quindi non soltanto al contenimento e al difendersi dalle difficoltà. L’elemento che caratterizza l’intervento degli strumenti finanziari messi in campo da Legacoop è quello di aiutare le cooperative: cioè, non solo somministrare del denaro, magari facendo ragionamenti semplicemente rispetto all’andamento, ma supportare le imprese nel capire il loro business, nel fare delle scelte, per far sì che gli aiuti siano mirati e che abbiano la migliore destinazione possibile. Ecco, questi sono gli strumenti che sono stati messi in campo, questa è la filosofia con la quale si è lavorato. Vogliamo affermare un modo cooperativo di fare finanza, che crediamo esista, e lo stiamo dimostrando. Un’ultima annotazione, prima di concludere: questa attività si svolge, e dovrà continuare a svolgersi, in stretta relazione con le strutture associative territoriali e settoriali. Come è stato detto ieri da Susanna Camusso e da molti altri interventi, le strutture associative sono un pilastro della democrazia di questo Paese. Indebolirle, lasciare l’impresa sola, avere un’illusione di autosufficienza significa rendere più debole l’impresa, rendere più debole un sistema. Qualcuno ieri parlava di “rendere più debole la rete democratica di questo Paese”; per questo, anche questa attività apparentemente tecnica, apparentemente lontana, ha forti contenuti politici e deve essere fatta insieme alle strutture associative e alle imprese da queste rappresentate. CATERINA PARISE Il dott. Soldi ci richiamava alla specificità italiana, alla pubblica amministrazione che non paga, a quelli che possono quindi essere gli strumenti finanziari messi a disposizione dal sistema finanziario e bancario per sostenere le imprese in difficoltà e anche per aiutare a Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 84 crescere. Volevo capire dal presidente Stefanini se ci sono degli altri elementi di specificità italiana. Un po’ li conosciamo, appunto: la necessità di riforma, incidere sul rilancio della produttività e come un sistema può aiutare lo sviluppo. Ne vede altri? PIERLUIGI STEFANINI Presidente Gruppo UGF Sì, grazie. Buongiorno e grazie dell’invito. Già molte cose le ha dette adesso in modo convincente Aldo Soldi, quindi farò solo qualche breve riferimento che mi permette di argomentare il mio modo di vedere. Intanto parto da un primo punto che ieri sottolineava Giuliano Poletti e che trovo molto convincente. Direi che la cosa che manca di più in assoluto nel nostro Paese, in questo momento, è la capacità di assumersi responsabilità e di non spiegare agli altri quello che devono fare o, peggio, dare loro contro (penso alle banche, tanto per essere concreto). Notate che periodicamente torna fuori questo richiamo demagogico e irresponsabile contro le banche che non serve a nulla, se non a creare un’illusione e pensare che lì sia il problema. Quindi ha fatto molto bene Giuliano a sottolineare questo punto, perché credo che Legacoop - lo diceva adesso Soldi - lo abbia dimostrato in questi due anni: mentre il Paese ha fatto molta fatica a reggere la crisi, anche se in qualche modo ha tamponato i problemi che c’erano e che ci sono - sicuramente non siamo stati aiutati dal contesto internazionale drammatico - l’esperienza di Legacoop fa vedere che con la squadra, con il presidio, con il monitoraggio, con il lavoro in rete e con le cose che diceva Soldi, si può realizzare qualcosa, si può essere proattivi, cioè non limitarsi a dire quello che non va bene, quello che non funziona dagli altri, cercando al contrario di assumersi delle responsabilità. Il secondo punto, estremamente importante, che Soldi sottolineava, è il ruolo associativo. Perché appunto permette, ha permesso ad esempio alla nostra attività, di avere maggiore possibilità di conoscere e di valutare, di capire e di avere anche quella “confidenzialità” e quel supporto conoscitivo specifico riguardante sia l’andamento dei diversi settori, sia l’andamento delle singole imprese, che consentono di dare un contributo effettivamente efficace per reggere situazioni di crisi, di ristrutturazione o, in alcuni casi, anche di sviluppo e di crescita. Il sistema finanziario, poi, naturalmente ha dei problemi strategici importanti, primo fra i quali è in assoluto la necessità di lavorare con molta più convinzione e impegno perché si rafforzi e si elevi il livello di responsabilità sociale di chi opera nel campo finanziario. Cosa vuol dire? Avere consapevolezza del ruolo fondamentale che si ha, avere piena coscienza di quello che si fa, degli effetti che si producono verso gli altri, il mercato, i cittadini, le famiglie, le imprese e trovare quindi, attraverso questa assunzione di responsabilità e di impegno, che comporta poi una strategia di impresa conseguente, le condizioni per essere più vicini alle aspettative e ai bisogni che dobbiamo cercare di soddisfare. Avendo consapevolezza - che non sempre c’è - della forte interdipendenza che esiste: bisogna cioè trovare le condizioni perché, ad esempio, gli istituti di credito riescano a fare doverosamente il loro mestiere guardando innanzitutto al loro conto economico. Questo elemento quasi non esiste nella discussione. Il problema è sempre: dateci soldi, finanziateci. Ma le banche devono trovare un equilibrio, che faticosamente e con molti problemi stanno cercando di trovare, nel dare le risposte che il mercato e le imprese si aspettano. Nel nostro piano industriale, abbiamo cercato di fare questo: stare con i piedi per terra, avere grande realismo, sapere quello che siamo in grado di fare, i mezzi di cui possiamo disporre e dunque essere poi nelle condizioni di dare un contributo, attraverso una Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 85 maggiore efficienza e qualità del nostro agire, a far crescere un livello di sostenibilità nel Paese, tra le imprese, tra i lavoratori, che sia maggiormente adeguato. Come? Ad esempio noi riteniamo, per la storia e la natura che abbiamo, per i referenti sociali che vogliamo rappresentare, di dare un contributo affinché cresca nel Paese un’idea nella quale una nuova traiettoria di sviluppo e di crescita del welfare sia essa stessa una leva per lo sviluppo. Viviamo molto questo tema come grande e drammatico problema di vincolo, di risorse che mancano, problema evidentemente molto forte e molto sentito. Dovremmo invece cominciare a entrare in un’ottica nella quale questo sviluppo, questo impegno, questa capacità di costruire coesione - e poi vengo al punto, che ritengo fondamentale e strategico, dell’Europa - sia un elemento che crea esso stesso le leve e le traiettorie di sviluppo, di nuove opportunità, di lavoro, e quindi di crescita sostenibile nel tempo. Invece noi tendiamo a vedere temi della tutela sociale, delle garanzie e dell’intervento dello Stato nei confronti dei cittadini, per coprire i loro servizi, in una logica esclusivamente contabile. C’è il vincolo dello Stato, del costo dello Stato, del bilancio e dunque dobbiamo fermarci lì. No, cominciamo a pensare studiando, progettando, guardando avanti, innovando - a trovare strade che siano capaci, nel tutelare i cittadini, di dare anche opportunità di lavoro, di impresa, e quindi di crescita. Cosa voglio dire, per concludere? È già stato ribadito ieri da diversi interlocutori importanti: la crisi, e ciò che sta accadendo ed è accaduto in questi anni, ci sollecita a pensieri nuovi. Una cosa non facile, anzi, molto difficile, ma si tratta, credo, della vera sfida: non il continuare a discutere, per qualche anno ancora, se la crisi c’è, in che modo c’è, cosa ha inciso. Da dove è nata, perché è accaduta, quali sono le origini, credo che questo sia già abbastanza chiaro. La letteratura ci ha aiutato in questi due anni a capire; adesso il problema è di vedere cosa facciamo, quali risposte innovative forniamo di cambiamento, di evoluzione, per essere capaci di costruire una prospettiva. E allora in questo senso, nel dibattito pubblico, c’è un vuoto nel nostro Paese che è molto preoccupante e grave, che ignora completamente quello che, a livello europeo, si sta elaborando. Cioè noi, quando parliamo di internazionalizzazione, dobbiamo certo porci il problema dei mercati, delle eventuali capacità di sviluppo delle imprese all’estero e quindi degli effetti strutturali e duraturi che un’apertura all’estero può determinare per le imprese. Ma c’è anche un altro grande filone, che è quello di costruire un’apertura internazionale per acquisire know how, competenze, conoscenze, dunque essere poi nelle condizioni nei singoli Paesi, nelle singole imprese - di costruire innovazione e cambiamento. “Europa 2020”: la comunicazione della Commissione Europea recente, il lavoro di Monti sono tutti materiali di estremo interesse per il nostro Paese. Potrebbero essere di grande stimolo. Lì si parla - commentavamo prima di iniziare il dibattito - di un termine che in Italia è quasi ignoto: “politica industriale”. Cioè, metà delle cinquanta proposte della Commissione sono sulla politica industriale. Noi dibattiamo da qualche settimana, o mese - e continueremo a farlo dopo - dei cancelli della Fiat, ma ignoriamo completamente quale politica industriale vogliamo fare per quel settore. E nel lavoro che l’Europa sta cercando di fare, ad esempio, ci sono anche questioni molto vicine a noi: si parla di impresa sociale, di cooperative, di fondazioni, di mutue, si parla di come creare nuove competenze per creare nuovo lavoro, un tema, che sollevava Aldo Soldi, estremamente importante e fondamentale. Cioè, dobbiamo certo tutelare i lavoratori che sono in difficoltà, e questo è un dovere che lo Stato deve sostenere, naturalmente, e tutto il Paese deve porsi questo problema, ma dobbiamo parallelamente costruire anche nuove occasioni di lavoro, nuove imprese, nuove attività, creare nuovi percorsi. Non a caso, un capitolo della politica europea è il sostegno alla creazione, alla creatività, cioè a come indurre, stimolare e promuovere attività che siano capaci di provocare e produrre, nel pensiero e nell’attività delle Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 86 persone, nuove idee e nuove risposte per il futuro. Infine, sempre a proposito di Europa, si parla - e credo che questo sia estremamente importante e fondamentale e un po’ racchiuda anche lo sforzo che il nostro Paese dovrebbe riuscire a fare; lo si diceva ieri, molto bene in diversi interventi - di costruire una visione che sia più capace di comprendere la complessità e, dunque, di dare risposte. Cosa intendo dire? Finalmente in Europa si comincia a dire che c’è un mercato unico che è fatto dai lavoratori, dai cittadini e dalle imprese. Dunque occorre avere questa visione di insieme, cioè questa capacità di connettere diversi piani di intervento, se vogliamo costruire una prospettiva di coesione sociale. E naturalmente sul sistema finanziario sono state fatte, a livello europeo, cose importanti, per dare stabilità al mercato in una fase drammatica. Adesso bisogna entrare in una fase nella quale si possano incentivare e stimolare investimenti privati finalizzati a creare buona occupazione, nuove imprese e dunque una prospettiva di sostenibilità nel tempo. CATERINA PARISE A questo punto, direttamente chiamato in causa, invito il presidente dell’ABI a parlare della risposta del sistema bancario. Sappiamo che le risposte sono già state date abbondantemente alle imprese. In qualche modo sono state aiutate in questi anni, mi riferisco alla moratoria in scadenza. Ma volevo, se possibile, capire due cose. Innanzitutto, quanto le banche saranno vincolate dalle nuove norme - penso a Basilea 3 - e quanto questo rischia di ripercuotersi oggettivamente sul credito dato alle imprese; poi, visto che è proprio notizia di oggi, se sulla moratoria in scadenza a fine mese si sta effettivamente lavorando. Circolano già delle bozze; sappiamo che la moratoria non è rinnovabile, l’ABI l’ha detto in tutti i modi, però sicuramente ci possono essere degli strumenti alternativi, l’ABI si è impegnata in questo, a cui evidentemente stanno lavorando. GIUSEPPE MUSSARI Presidente ABI, presidente Banca MPS Grazie. Buongiorno e grazie alla Lega delle Cooperative per l’invito. Regole: intanto bisognerà che le regole siano approvate da chi approva le regole in un sistema democratico, cioè dal Parlamento; quindi aspettiamo di capire quando, per quanto ci riguarda, il Parlamento italiano esprimerà la sua opinione, quando il Parlamento europeo, poi, approverà le proposte che gli perverranno. In più dovremmo anche cercare di analizzare con attenzione quali saranno i risultati dello studio sull’impatto macroeconomico di queste regole che il commissario Barnier ha più volte dichiarato di essere fortemente intenzionato a realizzare. Quindi è difficile dire, prima che questo percorso sia arrivato a un ragionevole punto di stabilità, quale potrà essere l’impatto. È evidente, come diceva prima il mio amico Stefanini, che le banche siano imprese e in quanto tali devono tener in considerazione il conto economico e il patrimonio e i loro azionisti devono considerare il ritorno sul patrimonio che le banche hanno. Se mettiamo le banche nelle condizioni di dover avere più patrimonio e di conseguire meno ricavi, è evidente che la redditività sul patrimonio tenderà a scendere, le banche avranno qualche problema in più a convincere i propri soci a sottoscrivere il loro capitale e questo potrebbe determinare in linea molto teorica che, al fine di risparmiare capitale, le banche diminuiscano i propri impegni. Tutto è connesso, non ci sono variabili indipendenti. A tal fine la raccomandazione che l’ABI ha fatto fin dall’inizio, con grande Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 87 chiarezza, non è contro le regole. Ben vengano le regole; credo che fino adesso - come sottolineava sempre Stefanini - non mi sembra che ce ne siano state tante e la preoccupazione che vediamo è per il fatto che si è ripreso a fare quello che altri facevano prima, quindi vuol dire che l’ambiente consente quello che prima era consentito, che forse non è andato proprio nella direzione dell’interesse generale. E allora bisognerebbe porsi non contro le regole, ma cercando di dare un modesto contributo. Ci sono banche che svolgono del tutto legittimamente un’attività, che è quella legata ai mercati finanziari, alla protezione dei rischi, e ci sono banche che invece finanziano imprese e famiglie. Sono due “animali” sostanzialmente diversi. Siamo convinti che ci debbano essere le stesse regole? E se anche dobbiamo avere le stesse regole, quantomeno cerchiamo di valorizzare il lavoro di chi sta al servizio dell’economia reale. Credo che tutti dobbiamo lavorare in questa direzione e da questo punto di vista, nel nostro Paese, abbiamo fatto un significativo passo avanti, perché mi sembra che si sia finalmente diffusa la consapevolezza che le regole sul funzionamento bancario vanno immediatamente a determinare effetti nella vita di tutte le altre imprese. Quindi, su Basilea 3 abbiamo registrato posizioni di Legacoop, posizioni di Confindustria, abbiamo posizioni di Rete Imprese Italia, tutti preoccupati che il rapporto tra banca e impresa che credo nell’ultimo anno e mezzo si sia sostanzialmente ricostruito in termini positivi non trovi un elemento di criticità in norme che rischierebbero, se non attentamente ponderate e valutate, di penalizzare proprio quei sistemi bancari che al contribuente non hanno chiesto una lira per rimanere in piedi. E questo sarebbe veramente incredibile. All’interno di questo quadro di relazioni, mi pare che il rapporto tra banche e imprese in Italia viva un periodo di sostanziale e profonda serenità, che è sicuramente merito di Avviso comune, ma è anche merito di una ritrovata voglia di ragionare insieme e di affrontare insieme i problemi comuni. Non c’è alternativa, credo, per le imprese e per le imprese bancarie. La situazione che ha visto per un certo periodo le banche contrapposte alle imprese, faceva correre il rischio di “finire come i polli di Renzo”. Perché si può anche litigare, fra banche e imprese, sugli impieghi, sui tassi, sul credito, ma se non si ha la consapevolezza che gran parte della dimensione dei rapporti fra banca e impresa è purtroppo, in questa fase storica, disintermediata rispetto alla volontà delle parti, e se non si ha la forza, dove ci sono problemi, di andare altrove a porre le questioni di comune interesse, si fanno pochi passi avanti. È quello che è successo con Avviso comune, cioè il riuscire a costruire un’ipotesi che tendesse a recuperare tempo per le imprese, perché l’inizio della nuova fase economica poiché questa non è una crisi, è una nuova fase economica - è stato verticale. Avviso comune ha svolto brillantemente il suo compito ed è giunto a buon esito. Non ci sono i presupposti formali per rinnovarlo, occorre andare oltre e ci stiamo alacremente lavorando con le associazioni imprenditoriali; abbiamo un tavolo presso il Ministero dell’Economia. Il 31 gennaio Avviso comune chiuderà i battenti e sarà sostituito da qualcosa che guarda al futuro e quindi, di nuovo, risistemerà questioni che sono rimaste pendenti. Potrà riallungare i termini, farà forza sugli strumenti di garanzia, che in questo Paese ci sono, dalla rete dei Confidi al Mediocredito Centrale, cercherà di mettere a sistema tutto quello che nei mesi scorsi comunque è stato fatto, perché nei mesi scorsi sono successe cose importanti: il fondo per l’intervento nel capitale delle piccole e medie imprese prima non esisteva e ora lo abbiamo ed è uno strumento fondamentale; la gara per la gestione sul Mediocredito Centrale, in corso di attuazione, a cui partecipa un consorzio di imprese che vede tutte le principali categorie di banche italiane, è un altro segno preciso di come lo strumento di garanzia, nella fase successiva alla caduta verticale, diventi una necessità fondamentale per banche e imprese. Cosa ci lascia il 2009? Ci lascia imprese ovviamente con numeri peggiori del passato, con rating peggiori del passato e, quindi, con necessità finanziarie che assorbono più Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 88 capitale delle banche e costano di più alle imprese; allora la garanzia di un terzo che riduce il peso patrimoniale e, di conseguenza, il costo del credito, diventa un elemento essenziale per proseguire in una traiettoria di crescita. Stiamo all’interno di questo quadro, un quadro di relazioni serene e molto fattive, dal punto di vista della quantità di lavoro. Abbiamo l’impegno del tavolo più generale sul Paese, sulla produttività, che contiamo di portare a termine in tempi ragionevoli. Quindi credo che, dal punto di vista delle relazioni fra parti sociali, in questo Paese, senza esclusione alcuna, vi sia stato e, mi auguro, vi sia anche in futuro, un periodo estremamente positivo, nell’interesse collettivo. Perché questa è un’altra questione: ogni tanto qualcuno ci domanda perché ci occupiamo di tutte queste cose, contro chi, a favore di chi. Allora, “contro” non facciamo nulla; a fare le cose “contro” si perde un sacco di tempo e non ci si guadagna nulla. “A favore” di chi, di cosa? Perché questo Paese recuperi una traiettoria di crescita. Tutti i ragionamenti che abbiamo sentito, anche da Stefanini e Soldi, rispetto all’impegno sociale che un Paese deve mantenere riguardo ad alcune categorie di cittadini, ad alcune fasce sociali, saranno sostenibili nella misura in cui questo Paese tornerà a crescere a ritmi molto più elevati del passato. Perché la dinamica “debito privato - debito pubblico”, come driver di crescita o di protezione sociale, è finita; per questo è una nuova fase e allora se tu hai bisogno di continuare a fare delle cose e hai bisogno di investire, perché le opportunità di crescita aumentano, non c’è niente da fare. Noi dobbiamo produrre di più e produrre meglio: cioè diventare più ricchi, perché solo diventando più ricchi è possibile pagare, speriamo in proporzione, meno tasse, ma dare più denaro alla Stato per fare le cose a cui Stefanini prima ci richiamava. CATERINA PARISE La domanda a questo punto è quasi d’obbligo e rivolta, ovviamente, non solo al presidente Mussari, ma anche al presidente Stefanini e al dott. Soldi. Nuova fase economica significa necessariamente anche nuovi rapporti industriali, nuovo coinvolgimento o coinvolgimento con modalità diversa dei lavoratori? Mi rendo conto che oggi questa domanda può avere un significato un po’ differente. Sappiamo tutti, insomma, che è in corso un referendum che non coinvolge minimamente il sistema bancario, ma coinvolge il sistema-Paese, evidentemente perché la Fiat è probabilmente soltanto il primo - chiamiamolo così - esperimento, vedremo poi se riuscito o meno. Ma volevo capire se una nuova fase significa necessariamente un diverso rapporto, una nuova riforma del lavoro, un diverso coinvolgimento dei lavoratori, in tutti i settori. Chiaramente non parlo soltanto di industria, anche se poi la produttività arriva innanzitutto dall’industria. Cominci Lei, presidente Mussari. GIUSEPPE MUSSARI Molto volentieri. La nuova fase significa la necessità di profonde discontinuità. Se si pensa in una fase diversa in cui gli elementi strutturali della crescita cambiano e qualche centinaio di milioni di persone si è messo in marcia con la forza di volontà che ha il soggetto che da una situazione di semi-indigenza vuole passare a una situazione di benessere - che non è solo una forza numerica o la forza di sistemi che non sono proprio in linea con i canoni classici della democrazia, ma è la forza interna del singolo moltiplicata per qualche milione, che vuole affrancarsi, è cioè qualcosa di materiale con cui per altro questo Paese ha fatto positivamente i conti nel dopoguerra - cioè, quando Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 89 vedi che un Paese (poi se è grande come la Cina la spinta è enorme) si mette in marcia e sposta le montagne, allora - debito pubblico in crisi, debito privato prima del debito pubblico e questa forza che si sposta - cambia la fase, cambia proprio l’architettura che ti circonda. E tu o sei discontinuo o stai ai margini. Essere discontinuo vuol dire ripensare a tutto, vuol dire anche, per quanto riguarda l’Italia, pensare a quello che, complessivamente, le generazioni precedenti, ma anche questa attuale, hanno combinato a danno dei più giovani. CATERINA PARISE Pensioni? GIUSEPPE MUSSARI No, non è solo una questione di pensioni, è proprio di opportunità più generali, cioè di quanto abbiamo contribuito a eseguire un maldestro furto del loro futuro. Poi il loro disagio, la loro protesta, può catalizzarsi su una legge verso l’Università - un movimento come quello deve trovare un elemento catalizzatore - che non mi pare fosse l’obiettivo principale. Forse l’obiettivo principale ce l’hanno nel salotto di casa, nei confronti dei loro genitori e dei loro zii, dei loro nonni, a cui dovrebbero chiedere conto di questa situazione. Allora - e qui non si scappa - noi, se dobbiamo, come dicevamo prima, produrre più ricchezza, alcuni elementi strutturali dobbiamo cambiarli e dobbiamo farlo in maniera profonda, perché non possiamo più permetterci quello che ci permettevamo prima, a danno di quelli che venivano dopo di noi. È un gioco terminato ed è terminato fortunatamente per condizioni esterne, ma dovrebbe terminare anche per coscienza civica individuale. Questo significa andare in territorio incognito e quindi modificare profondamente quello che si è stati e chiedersi, rispetto a questi nuovi parametri, quali sono i veri interessi, i veri diritti, le vere forme di rappresentanza, qual è lo sforzo che collettivamente questo Paese deve fare, anche offrendo di più di quello che si immaginava potesse essere giusto offrire prima. Poi purtroppo non è equa la divisione del peso, me ne rendo conto. Chi è andato in pensione con dodici anni, sei mesi e un giorno… com’era la formuletta? Quello lo abbiamo perso, non lo recuperiamo più, ma questo non significa che poi noi non dobbiamo necessariamente recuperare e questa sarà una questione trasversale. Noi, all’incirca dall’inizio degli anni Novanta, perdiamo costantemente produttività. La nostra ricchezza individuale, rispetto alla media dell’Unione Europea, prima aveva un surplus; negli ultimi dieci anni ha un minus. Questo determina un Paese più ingiusto, perché chi è ricco, o era ricco, è rimasto ricco, anzi forse è diventato più ricco; è chi non era ricco, ma stava così così, sta peggio; chi stava male sta ancora peggio. Perché quando un Paese smette di crescere succede questo: non si determina più giustizia sociale, ma meno, perché si redistribuisce meno e perché lo Stato ha meno soldi per fare le cose che deve fare. Allora non c’è alternativa: o ci mettiamo nelle condizioni di attrarre capitali e investimenti, di aumentare la possibilità di lavoro e la crescita di ricchezza, o diventeremo un Paese più povero e - cosa più triste - più ingiusto. Quindi, se è una nuova fase economica, la discontinuità in quello che siamo, nei comportamenti, nelle relazioni industriali e nelle relazioni fra banche e imprese è il driver della crescita che ci rimane. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 90 CATERINA PARISE Dott. Stefanini, discontinuità, in concreto, a partire da che cosa? Diceva l’avvocato Mussari, discontinuità nei rapporti, anche nelle relazioni industriali, discontinuità per crescere. Concretamente potremmo tradurla in che cosa, dal suo punto di vista? PIERLUIGI STEFANINI Mi faccio aiutare da questa platea, perché vedo in quarta fila il presidente della CMC, cooperativa importante nel settore delle costruzioni, con una grande proiezione internazionale e con una fortissima capacità di partecipazione dei soci lavoratori. Naturalmente ogni impresa deve seguire i suoi percorsi, le sue modalità specifiche e concrete, tuttavia da questa esperienza, dalle cooperative di lavoro in senso più generale, emerge un forte messaggio per il Paese, e cioè che appunto è necessario e fondamentale, in questa fase storica, sostenere un percorso che progressivamente, con un’intensità sempre maggiore e con una capacità innovativa adeguata, coinvolga, responsabilizzi, motivi e consideri i lavoratori parte integrante del successo dell’impresa. Quindi, qui c’è un primo punto di lavoro che credo potrebbe essere utilmente messo a disposizione; Legacoop lo sta peraltro già facendo, era emerso anche nella mattinata di ieri. Forse qui c’è bisogno di una maggiore apertura, di essere anche propositivi e stimolatori di processi analoghi, in altri settori industriali produttivi. Secondo esempio: “Europa 2020”. Lì c’è la risposta. Cioè, quando vi si afferma che la crisi è degli imprenditori e dei lavoratori, che li coinvolge tutti e che il destino è comune, si dice una cosa fortissima. Bisogna partire da lì e costruire una risposta. Lisbona, 2020, la coesione, il coinvolgimento, la crescita professionale, l’investimento sulle competenze e sulla dotazione di capacità intellettuali e tecniche specifiche: sono elementi fondamentali. Se l’Europa vuole avere un futuro deve, soprattutto e innanzitutto, giocare lì la sfida, nel quadro internazionale. Il terzo elemento - lo diceva ieri Giuliano Poletti ed è stato poi ripreso nei dibattiti e nei commenti - è la disponibilità, che purtroppo non sempre c’è, a fare evolvere con serietà il sistema delle relazioni industriali - e delle relazioni sindacali più complessivamente - su terreni più moderni, più snelli, più flessibili. Badate bene: flessibili non vuol dire che ognuno fa quello che vuole, in modo del tutto destrutturato e non democratico, ma significa che in modo serio, responsabile e condiviso si costruiscono nuove aperture diceva adesso giustamente Giuseppe Mussari - soprattutto nell’ottica, che tutti dichiariamo, dei giovani. Qui c’è un punto chiave, per il futuro, da giocare. In una delle proposte “Europa 2020” si dice che bisogna costruire le condizioni perché i giovani possano circolare in Europa. Il nostro dibattito italiano è solo sul fatto che i giovani vanno via. Capisco l’ottica con la quale lo si afferma: perché l’Italia non dà opportunità. Ma cominciamo invece a pensare al fatto che i giovani, se circolano nel mondo, possono arricchire la dotazione di competenze di cultura e di conoscenze del nostro Paese, in una logica che deve essere ovviamente circolare, non chiusa e non a senso unico, naturalmente. Al contrario, un’ottica propositiva e costruita in modo intelligente può essere una grande opportunità per dare al Paese una dotazione intellettuale che purtroppo ha difficoltà a venir fuori. Quindi in questo senso c’è solo da fare. CATERINA PARISE Volevo sentire anche il dott. Soldi su questo argomento, cioè discontinuità a partire da che cosa? Lei diceva prima: creare nuovi lavori, quindi fare ripartire il ciclo, seppure con Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 91 tutte le difficoltà che conosciamo. Concretamente - sicuramente come Legacoop avete tutta una serie di esperimenti - cos’altro si può fare per fare ripartire? ALDO SOLDI Questa crisi, è già stato un po’ detto, nel nostro Paese ha aumentato le ingiustizie e le differenze. Il nostro è un Paese che, rispetto ad altri Paesi europei, ha storicamente differenze anche nella distribuzione del reddito, però è chiaro che questa crisi ha aumentato le differenze. Le ha aumentate tra Nord e Sud, fra uomo e donna, fra anziani, o persone più protette, e giovani; insomma ha aumentato le differenze e le ingiustizie. Allora io credo che le prime cose da fare debbano muovere in questa direzione, che è una direzione non solo di giustizia sociale, ma anche di sviluppo economico. Se per esempio guardiamo la dinamica dei consumi, vediamo che nel nostro Paese è in forte rallentamento. Abbiamo a disposizione un dato che viene raccontato a seconda se si vuole seminare ottimismo, perché si pensa che questo serva, o se si vuole raccontare la verità: abbiamo una contrazione consistente dei consumi e di consumi importanti, come ad esempio quelli alimentari. Questo è segno di un impoverimento del Paese. Allora lavorare per recuperare le differenze cui prima facevo riferimento, e che la crisi ha accentuato, significa anche determinare una possibile ripresa dei consumi e un possibile rilancio dell’economia. Quindi c’è questo primo fattore: il recupero delle differenze, delle ingiustizie. La seconda questione attiene alla necessità di una politica, di una visione di lungo periodo. Diceva ieri Gros-Pietro: guardare lontano e capitale paziente. Di questo il nostro Paese ha bisogno. Se la politica industriale si fa con i ricatti, se la politica, quella vera, si fa con le dichiarazioni al TG, questo Paese non va da nessun parte. Occorre recuperare una visione di medio-lungo periodo e convogliarvi le tante risorse buone e valide di cui questo Paese indubbiamente dispone. Solo in questo modo, all’interno di una visione che sia comune e sia di medio-lungo periodo, si possono superare le differenze e avviare un percorso di crescita e di sviluppo, di cui abbiamo indubbiamente bisogno. Il nostro Paese dispone di forze sane. La cooperazione fra queste forze è attrezzata culturalmente, non solo giuridicamente, per una visione di medio-lungo periodo e intergenerazionale. Svolgerà, svolge e intende svolgere, entro questa visione, il suo ruolo. CATERINA PARISE Se abbiamo ancora un minuto, vorrei fare un’ultima domanda all’avvocato Mussari, più che altro una precisazione. Se ho ben capito quello che Lei ha detto sulle regole su Basilea 3, sembra quasi che ci possa essere una proposta di regole leggermente differenti o un’applicazione delle regole diversa tra le banche che fanno investimenti, quindi - diciamola giornalisticamente - speculazione, e le banche invece che finanziano imprese e famiglie. GIUSEPPE MUSSARI Credo che se noi due provassimo a scambiarci le scarpe, difficilmente io entrerei nella sua e Lei starebbe molto comoda nella mia. Con la conseguenza che ognuno di noi due salirebbe con grande difficoltà quella scala, anzi non arriverebbe probabilmente a metà. È tutto qui. È difficile immaginare di mettere la stessa sella a un cavallo da corsa o a un Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 92 pony. Non hanno la stessa groppa, quindi il buonsenso pretenderebbe che chi fa un mestiere abbia, non diverse regole, ma una diversa ponderazione sui propri attivi in relazione all’attività che fa, e chi fa un altro mestiere abbia un’altra ponderazione e che il livello di leve e, quindi, di dimensione degli attivi abbia un limite. CATERINA PARISE Bene, ringrazio tutti quanti. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 93 Sesta Sessione Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione GIORGIO GEMELLI Come avete visto nel programma dei lavori, il punto che tratteremo adesso titola: Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione. Sono presenti il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, Aldo Bonomi, Luca Bernareggi e Phillip Blond, direttore della Fondazione ResPublica. Marco Sodano, caporedattore de La Stampa, condurrà i lavori. Prego, Sodano. MARCO SODANO Caporedattore La Stampa Buongiorno a tutti. Questa parte della sessione mi sembra interessante perché si parla di beni pubblici. Prima abbiamo affrontato il ruolo delle banche, degli strumenti finanziari. Qui invece si parla di beni pubblici, dove la gestione cooperativa dovrebbe essere - non nel senso giuridico, né nel senso formale - il principio che regge tutte le cose, perché il bene pubblico si gestisce in questo modo. Partirei da Phillip Blond, direttore della Fondazione ResPublica. È un dibattito in corso anche in Inghilterra, anche nel mondo anglosassone; anche a Londra si sta cominciando a parlare di tagli e di difficoltà sul welfare e penso che Mr. Blond ci possa illustrare molto bene il ruolo che può avere, secondo lui, la cooperazione nella gestione del bene pubblico. PHILLIP BLOND Direttore ResPublica Grazie infinite. È un grande onore essere qui come membro di un panel di eminenti personalità, per parlare di un argomento tanto importante. Ciò che a mio parere è interessante è che per moltissimi anni, direi circa cinquanta/sessant’anni, sostanzialmente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’attività cooperativa ha rivestito un ruolo minoritario, è stata marginale e considerata come qualcosa di importanza secondaria o perfino terziaria e non come un fattore davvero fondamentale per l’avvenire dell’Occidente e per il futuro dell’economia. In Europa si sono profilati due modelli, in competizione tra loro in merito a come organizzare il capitale, come organizzare gli investimenti, come allinearsi in termini di produttività e come perseguire gli interessi reciproci. A sinistra vi è stato principalmente lo Stato. A destra, dopo il fallimento dello Stato negli anni Settanta, soprattutto nel Regno Unito, quando la Thatcher è stata eletta nel 1979, si è rafforzata l’idea di un mercato libero individualizzato. Ciò che è interessante e, a mio parere, anche rimarchevole è che in un certo senso la crisi rappresenta la fine di entrambi questi approcci. Infatti, uno dei fattori all’origine della crisi è quell’alleanza nascosta tra la centralizzazione statale e la garanzia finanziaria da un lato, e la monopolizzazione del mercato e la cattura di capitali e di mercati da parte di oligarchie e di cartelli dall’altro. Il modo più evidente in cui si è verificato questo processo sta nel fatto che lo Stato ha progressivamente sottoscritto le attività delle banche di investimento. Infatti, lo Stato ha man mano sottoscritto gli utili del settore privato. In generale, dal 1900 al 1970 lo Stato, ad esempio nel Regno Unito, ha sottoscritto il 50% degli asset bancari, al punto da Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 94 raggiungere il 50% del PIL. Nel 2000 la percentuale di asset bancari sottoscritti dallo Stato era aumentata di dieci volte, raggiungendo un livello pari a cinque volte il PIL. Ciò che a mio avviso è veramente successo è che è emerso che la collettivizzazione e l’individualizzazione in realtà sono lo stesso fenomeno. Un’economia politica radicale focalizzata solamente sull’individuo è spesso sottesa, occultamente, dalla collettivizzazione e la collettivizzazione è spesso l’esito di un’economia basata unicamente su un tipo di economia politica fondata sugli individui, perché la crisi, le disuguaglianze e l’appropriazione della ricchezza sono il risultato di un’economia politica neo-liberale e qui si ritorna sempre allo Stato. Improvvisamente è comparsa una vera e propria terza via, rappresentata dalla mutualizzazione, dalle cooperative e dalla sussidiarietà, comunque vogliate definire questi termini. Perché questo è importante? Perché è diverso? Perché il motivo fondamentale per cui abbiamo bisogno del capitalismo - e mi considero un pensatore del libero mercato - è che abbiamo bisogno di un modo per distribuire il capitale. Il capitale è utile e quindi deve essere dato al numero massimo possibile di centri, persone, organizzazioni. Il capitale deve essere distribuito nel modo più ampio possibile. Tuttavia, sia le organizzazioni del capitale di destra sia quelle di sinistra hanno operato per monopolizzare il capitale, per portare il capitale nelle mani di un numero sempre più ridotto di soggetti. Di conseguenza abbiamo creato un’economia che funziona solo per coloro che detengono posizioni di prestigio nello Stato o per coloro che già sono benestanti sul mercato. Se non creiamo una forma popolare di scambio economico, se non creiamo un nuovo modello economico, se permettiamo che il mercato e la ricchezza rimangano nelle mani di pochi soggetti, allora creiamo una società di servi, ricreiamo un’organizzazione feudale, tale per cui la maggior parte delle persone tornano a rivolgersi allo Stato per avere una sicurezza economica. Questo ha portato anche dall’insicurezza alla dipendenza dallo Stato. Ora, perché mi interessano tanto il modello italiano e quanto è stato fatto in Lombardia, come descritto anche nel materiale sull’economia politica italiana? Perché voi davvero avete iniziato ad alimentare forme di istituzioni il cui scopo è quello di distribuire il capitale in modo più ampio, il cui scopo è quello di creare istituzioni che diano una vera autonomia a tantissime organizzazioni di diverso tipo. Da quello che è stato detto in precedenza, si evince che avete consentito che le associazioni istituissero piani di garanzie bancarie, il che significa che i prestiti devono essere erogati dalla banca alle piccole e medie imprese. È interessante anche il modo in cui operano le stesse cooperative, in una sorta di struttura aperta di tipo corporativo per prestare denaro e aiutare altre cooperative. Per parlare della Gran Bretagna, dobbiamo innanzitutto chiederci quale sia il principale problema di questo Paese. Ebbene, il problema principale in Gran Bretagna è che il denaro, la ricchezza, il potere e la prosperità sono concentrati nelle mani di pochissimi soggetti. Nel 1976, il 50% più basso - ovvero la metà inferiore della popolazione in Gran Bretagna - deteneva il 12% del capitale liquido, escludendo gli immobili. Nel 2003, la metà inferiore della popolazione deteneva l’1% del capitale disponibile. Il denaro e la ricchezza erano fluiti verso l’alto. Da persona che crede nella proprietà e in una società libera, dove gli individui e non lo Stato detengono indipendenza, innovazione, ricchezza e prosperità, mi chiedo come possiamo correggere questa situazione. A mio parere, un approccio radicale di conservazione consisterebbe nel fare in modo che lo Stato smettesse di essere un agente della ridistribuzione, perché il 95% del pensiero di sinistra - in realtà si tratta del 100% - sembra marcato, come sempre, dall’idea di equalizzazione del reddito, usando lo Stato come mezzo per equalizzare il reddito. Tuttavia, se si usa lo Stato come agente di ridistribuzione, non si fa altro che dare potere alla burocrazia, senza mai affrontare il problema della povertà. Questo approccio è stato portato avanti per cento anni e non siamo mai arrivati a nulla. Io invece sono a favore dello Stato visto come agente di distribuzione, distribuzione primaria. Quello che sostengo io, così come Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 95 è stato sostenuto da ResPublica nel suo primo report The Ownership State, è che quello che dovrebbe fare lo Stato è mutualizzare, non privatizzare o nazionalizzare, ma mutualizzare. Io ritengo che tutti i servizi pubblici debbano essere trasformati in società mutualizzate. Dovrebbero diventare forme di cooperative, dove i dipendenti sono proprietari della società e i consumatori o i destinatari di quei servizi possono essere eletti membri del consiglio di amministrazione. Questo genererebbe una serie di efficienze di tipo cooperativo. Ad esempio, le società di proprietà dei dipendenti sono chiaramente più redditizie rispetto ad altre forme di società o di organizzazioni. Nel corso degli ultimi dieci anni, le società possedute dai dipendenti hanno fatto registrare performance superiori del 10% anno su anno, rispetto alle società FTSE 100 di Londra. Ora, immaginatevi l’effetto composito di questo fenomeno. Mi piacerebbe poi trasferire quel guadagno di efficienza e di produttività anche nel settore pubblico. Se trasferissimo quell’incremento di produttività nel settore pubblico, permetteremmo alle persone che hanno sempre solo avuto un salario basso di diventare proprietari delle loro attività, daremmo loro gli incentivi per diventare più efficienti. Questo è solo un esempio, ma ce ne sono moltissimi altri. In Gran Bretagna, con la Big Society e il rinnovamento della società civica, guidati dal nostro Primo Ministro, stiamo cercando di ricreare un’economia politica associativa. L’economia politica associativa comprende anche le cooperative ma prevede molto di più. Non dico questo in senso negativo, ma ci sono molti modi diversi di associarsi, non c’è mai un solo modello. Nel Regno Unito abbiamo quelli che definiamo “Social Impact Bond”. Cosa fanno i Social Impact Bond? Per la prima volta questi strumenti collegano il mercato dei capitali ai risultati sociali. Vi faccio l’esempio dei detenuti che tornano a delinquere. I detenuti, e coloro che vengono affidati alla giustizia penale, ci costano letteralmente miliardi di sterline. Noi, almeno in Gran Bretagna, sappiamo che due terzi dei detenuti che vengono rimessi in libertà, vengono nuovamente condannati nell’arco di due anni, il che significa che il 66% degli ex-detenuti vengono nuovamente incarcerati entro due anni. Tuttavia, se questi carcerati lavorano con gruppi di volontari, che spesso operano per motivi religiosi, il tasso di re-incarcerazione cala dal 66% circa al 20%, generando enormi risparmi per lo Stato. Per la prima volta in Gran Bretagna è successo che con quei risparmi lo Stato ha sottoscritto un accordo con organizzazioni del terzo settore e con enti di beneficienza affinché queste ultime si prendano cura dei carcerati. Lo Stato paga questi enti di beneficienza se i carcerati non vengono nuovamente condannati nell’arco, ad esempio, di cinque anni. A questo punto ci si deve porre la domanda di come finanziare il tempo che intercorre tra quando gli enti di beneficienza si prendono in carico queste persone e il momento in cui si stabilisce ufficialmente che queste persone non sono tornate a delinquere. È qui che entra in gioco il mercato dei capitali. Poiché è stato sottoscritto un accordo tra l’ente di beneficienza e il Governo, il mercato finanzia l’esecuzione di tale contratto. Questo è quello che noi definiamo un Social Impact Bond. E questo è il futuro. In effetti dobbiamo chiederci perché le cooperative sono fallite. Ci sono diversi motivi per cui sono fallite, quantomeno nel mio Paese, e per cui non si sono diffuse in altri Paesi anglosassoni, ma quello principale è che non hanno avuto accesso al capitale. Non avevano accesso a una massa sufficiente di capitale, soprattutto se confrontate con le istituzioni che voi avete intelligentemente contribuito a far crescere in Italia, che sono il prodotto della vostra cultura, dell’etica, della moralità. Ebbene queste condizioni erano assenti nel mio Paese e di conseguenza le cooperative non sono state in grado di competere con il capitale del settore privato o la fornitura in massa di capitale. Pertanto tutte le cooperative sono state de-mutualizzate e non si è fatto altro che prendere i risparmi dalla Cina. Il risultato di tutto questo, l’esito della mancata creazione di un’economia sussidiaria, è stato il profilarsi di una serie di bolle degli asset alimentate da finanziamenti enormi. Questo finanziamento delle bolle degli asset è uno degli elementi Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 96 che hanno causato il crollo. Ecco perché questo fattore è diventato centrale nella costruzione di un’economia politica davvero trasformativa. Possiamo rilocalizzare l’economia? Possiamo creare quella che è sempre stata la promessa di un mercato veramente libero, ovvero con più centri di innovazione e prosperità? Attraverso la Big Society possiamo farlo, perché la Big Society è un tentativo di utilizzare l’associazionismo come una nuova forma per mettere insieme le comunità, che sono definite dai meccanismi di mercato come singoli consumatori e dai meccanismi statali come destinatari passivi di sussidi assistenziali. Se però le persone si associano, in primo luogo si riescono sicuramente a risparmiare quantità enormi di denaro. Pensate a un’area svantaggiata dove tutti i residenti ricevono sussidi statali. Se tutte le persone di quest’area potessero mettersi insieme e acquistare l’elettricità, potrebbero negoziare termini favorevoli e ottenere enormi risparmi per quell’area, per l’elettricità acquistata. E dato che i poveri in generale pagano l’elettricità a un prezzo molto più elevato, perché c’è il rischio del mancato pagamento, in questo modo risparmierebbero una quota considerevole del loro reddito. Questo però è solo l’inizio. Creare gruppi apre poi intere nuove aree di economia politica. Non so come sia la situazione in Italia, ma sicuramente in Gran Bretagna la povertà tende a concentrarsi nelle città. La concentrazione della povertà spesso si accompagna al mancato accesso a cibi freschi o a prodotti alimentari di buona qualità. Poiché il valore fondiario è determinato dal valore sociale e, ad esempio, dai comportamenti messi in atto in prossimità di quei negozi, un semplice cambiamento di quei comportamenti genererebbe un aumento del valore fondiario. Se la comunità diventasse proprietaria degli asset, considerando che quelle persone sono spesso legate a coloro il cui comportamento negativo ha provocato un calo del valore di quegli asset, uno degli effetti dell’associarsi sarebbe la possibilità per queste persone di acquistare quegli asset, modificare i comportamenti in atto nella loro area, iniziare a gestire attività in proprio e generare così un aumento notevole nel valore degli asset e dei terreni. Nell’ultima relazione che abbiamo pubblicato, ovvero nel nostro Buy, Bid and Build Report, parliamo di dieci nuovi poteri e sosteniamo l’idea di istituire poteri con i quali garantire il diritto di acquisto comunitario, il diritto di proprietà comunitario, il diritto di presentare offerte comunitarie, grazie ai quali le persone che si associano in gruppo possano acquistare beni statali a condizioni agevolate. In questo modo la comunità potrebbe anche farsi carico di una parte del budget statale e gestirlo autonomamente. Lo Stato non sarebbe più un agente di burocrazia e di povertà permanente e diventerebbe invece un agente di ricapitalizzazione. La ricapitalizzazione attuata dallo Stato con un potere di associazione - cosa che può fare la Big Society - potrebbe dare origine a tutta una nuova serie di istituzioni in grado di promuovere una vera sussidiarietà dal basso, che a sua volta creerebbe un’economia dal basso. Uno dei motivi per cui ci interessa tanto quello che è stato fatto in Lombardia è che ci sono molte lezioni che vorremmo imparare in merito al tipo di istituzioni e di infrastrutture che voi avete creato e che noi vorremmo abbinare alla Big Society in Gran Bretagna. La cosa davvero entusiasmante è che non si tratta semplicemente di una visione campanilistica, in quanto a mio parere questa è ormai l’unica visione valida per una economia politica occidentale moderna. Se separiamo il consumo dalla produzione, come ha fatto il neo-liberismo, creiamo una classe di povertà permanente che non potremo mai supportare e finanziare. Solo questa soluzione crea le condizioni per la vera sussidiarietà e prosperità. Grazie. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 97 MARCO SODANO Presidente Formigoni, la mutualità, la cooperazione è una delle cifre dell’amministrazione della Lombardia, della guida che Lei ha impresso. Per operare in questa Big Society ci vuole una società dal cuore grande. In concreto come funziona? Quali sono gli intoppi? Ci si può sostituire? Fino a che punto? ROBERTO FORMIGONI Presidente Regione Lombardia Innanzitutto, nel salutarvi, devo dire che mi ha fatto molto piacere ascoltare ancora una volta le parole di Phillip Blond che ci propongono, da oltre Manica, un’analisi e una lettura della società e delle forze interne alla società moderna, alle nostre società europee, che trovo straordinariamente interessante e che, come Blond stesso ha sottolineato, presenta caratteri di analogia forte con quanto da qualche anno cerchiamo di realizzare in Lombardia. Permettetemi di introdurmi - non soltanto in omaggio all’ospite britannico - con una citazione da un famoso discorso del premier inglese David Cameron dedicato ai temi della sussidiarietà e della Big Society, se non sbaglio del luglio scorso. Cameron a un certo punto dice: “a regola del Governo dovrebbe essere questa: se l’iniziativa che prendiamo scatena l’iniziativa delle comunità, dovremmo assumerla. Se ammazza l’iniziativa delle comunità, non dovremmo”. Trovo che questo principio sia straordinariamente importante e necessario per i governi di oggi, troppo impegnati nel pensarsi ancora come big government, grandi governi impegnati a risolvere, normalmente senza riuscirci, tutti i problemi che affollano la vita quotidiana dei loro cittadini. Questi governi rischiano di trascurare la forza straordinaria presente in alcune società, certamente in quella italiana e lombarda in particolare - di realtà di diversissima natura, attivate da soggetti sociali tra i più diversi, capaci di creare società, pezzi di società nuova, realtà nuove straordinariamente interessanti in campo economico, culturale, educativo, associativo, assistenziale. Ritengo che l’ottica dei governi, a ogni livello, nazionale, regionale e locale, dovrebbe invece essere rivolta a individuare quali iniziative mettere in campo per scatenare, per utilizzare al massimo, l’iniziativa che la società o i soggetti sociali sono in grado di realizzare. Questa mi sembra una buona lettura del criterio di bene comune e anche una bella dimostrazione di come l’idea di sussidiarietà, che fino a pochi anni fa suscitava risolini ironici, abbia cominciato a far breccia negli uomini di governo. Sempre in quell’intervento, Cameron spiega bene il tema della Big Society, contrapposto, o comunque articolato dialetticamente con il tema del big government. Dice David Cameron: “la Big Society riguarda un enorme cambiamento culturale, in cui le persone nella loro vita quotidiana, a casa loro, nei loro quartieri e sul luogo di lavoro, smettono di chiedere sempre a funzionari pubblici, autorità locali o governo centrale, di risolvere i problemi, ma si sentono abbastanza liberi e forti da poter aiutare sé stessi e le loro comunità”. E aggiunge: “parlo di gente che fonda nuove scuole, agenzie che aiutano a prepararsi al mondo del lavoro, opere di beneficienza che aiutano a riabilitare i condannati, parlo di una liberazione, la più importante e la più drastica distribuzione di potere data dall’élite all’uomo e alla donna della strada”. Ora, è chiaro che un uomo di governo non può utilizzare parole come queste per deresponsabilizzarsi rispetto alla necessità di intervenire laddove questa libera iniziativa dei cittadini e della società non riesca ad arrivare. E questa non mi pare affatto sia l’intenzione dell’uomo politico che ho citato. Voglio sottolineare che evidentemente, anche in un’impostazione sussidiaria dell’azione di governo, rimane l’obbligo Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 98 fondamentale di intervenire, di sussidiare appunto, nei casi in cui l’iniziativa privata con valenza sociale non riesce ad arrivare. Però è importante questo cambiamento di prospettiva, di fronte anche alle evidenti insufficienze delle forme attuali di Governo e di Stato. Bisogna cominciare, o progredire realmente, a ragionare in termini di una politica sussidiaria, di uno Stato sussidiario, di governi sussidiari, che capiscano finalmente che la forza vera, la forza costruttiva delle nostre società è intrinseca nella vita e nel lavoro dei loro cittadini. Con questo, evidentemente, indico una prospettiva che supera le tradizionali forme retoriche di troppi discorsi politici di uomini di governo a ogni livello, che nei loro interventi sono sempre molto attenti a fare riferimento alla piccola e media impresa, all’artigianato produttivo, a celebrare queste forze come quelle destinate a costruire il benessere del nostro Paese. Poi, però, nella loro azione pratica, dimenticano di mettere in moto quei provvedimenti che possono veramente dare una mano a questi cittadini, a questi artigiani, a questi piccoli e medi imprenditori, a questi giovani che con la loro forza di volontà, con la loro intelligenza, con la loro operatività hanno veramente in mano le leve anche per superare la crisi attuale e per permettere alle nostre società di uscire dalla situazione di crisi che vivono. Evidentemente, quando parliamo di sussidiarietà, di Big Society, non pensiamo - l’ho già accennato prima - a un’impostazione politica che dica sempre e comunque no all’intervento dello Stato, o che senta lo Stato come ostile o nemico. Al contrario, parlare di sussidiarietà, di Big Society, significa, a mio modo di vedere, chiedere, impegnarsi per cambiare la natura dell’azione dello Stato e la natura dei rapporti fra Stato e cittadini e fra Stato e altre istituzioni. Intendo la sussidiarietà come la possibilità di pensare a una nuova statualità, non più giocata sulla contrapposizione tra Stato e individuo, ma giocata sul riconoscimento di tutto ciò che, in un certo senso, sta in mezzo, quindi, appunto, i corpi sociali, le cooperative, le iniziative dei cittadini, delle associazioni. E credo che si debba puntare a un’impostazione che allarghi sempre di più questo spazio intermedio, o meglio che dia la possibilità, agli attori che si trovano all’interno di questo spazio intermedio, di crescere. Dobbiamo guardare e operare perché ci sia uno spostamento di potere, di potere decisionale, di potere complessivo, dal pubblico verso le persone, le famiglie, le tante forme associative, uno spostamento di potere dal centro alle periferie. Occorre mettere in campo delle politiche che non vogliono sostituirsi alla libertà e responsabilità dei cittadini, ma al contrario riconoscere e valorizzare quello che nella società esiste e funziona. Da questo punto di vista, quello che in Regione Lombardia abbiamo cercato di realizzare in questi anni va in questa direzione. Non voglio dilungarmi su temi che credo siano conosciuti da tutti, ma l’impostazione della nostra riforma sanitaria - e il suo successo in Regione Lombardia - che ha ormai tredici anni e ha permesso al sistema regionale di crescere fino a diventare il punto di riferimento indiscusso per l’intera Italia e l’oggetto di studio anche nella pubblicistica internazionale, è esattamente questo: l’aver avuto fiducia all’inizio, a metà degli anni Novanta, che ci fossero dei soggetti privati, profit e non profit, in grado di svolgere un’azione a vantaggio del pubblico. Un’azione che, se ben intercettata, integrata, sostenuta dal pubblico, dall’autorità regionale, poteva dar luogo a forme di eccellenza straordinarie, poteva anche servire da stimolo, in una logica concorrenziale, per una crescita qualitativa dell’azione dei soggetti pubblici operanti all’interno della sanità, il tutto evidentemente con un ente di governo regionale che non abdicasse alla sua funzione di stimolo e di controllo di qualità. Il soggetto privato, profit o non profit, entra nel sistema pubblico se accetta le regole stabilite da questo, se accetta il sistema dei prezzi, delle remunerazioni nella sanità, dei Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi e se accetta di essere controllato affinché la qualità sia garantita rispetto al cittadino. Cosa analoga è avvenuta, e sta avvenendo, in Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 99 Lombardia sul versante della scuola. Il buono scuola, che inventammo nel 1999, ha dato poi luogo a quella forma più ampia e più completa che è oggi il “sistema delle doti”. La dote scuola è un aiuto economico dato oggi, tenendo conto del reddito, a oltre il 40% dei nostri studenti, che scelgono la scuola che più si confà alle loro esigenze e che dimostrano di avere doti di merito, di talento e di impegno che permettono loro di raggiungere alcuni risultati importanti. La sottolineatura del merito è, credo, un altro tema fondamentale nella società di oggi e sul quale, come Regione Lombardia, vogliamo continuare a camminare e ad agire. È in questa direzione che io personalmente mi sono sempre sentito straordinariamente amico e vicino al mondo della cooperazione, sottolineando sempre la giustezza della vostra impostazione quando, per lunghi anni, avete continuato a ripetere che la cooperazione è protagonista, in prima persona e a pari titolo, è soggetto economico e protagonista economico, non un mondo residuale, un mondo terzo, nel senso del valore. È certamente un comparto economico e produttivo, è produttivo di valore economico, di valore sociale, a pari livello e a pari titolo con l’economia privata e con l’economia che riceve un forte intervento da parte dello Stato. Oggi la natura e il valore delle realtà cooperative in questa direzione mi sembra che abbia conquistato spazio all’interno della società e si comincia a guardare alla realtà cooperativa, al movimento e alle associazioni cooperative in quest’ottica, che riconosce il valore straordinario di queste iniziative. Ripeto: soggetti economici a pieno titolo che accettano fino in fondo le regole del mercato, che accettano la sfida della concorrenza e dimostrano sul campo di non avere nulla da temere nel confrontarsi con altre realtà produttive. Concludo con un’ultima osservazione. Abbiamo, come Paese, tra le mani una possibilità che non dobbiamo sprecare: la possibilità del federalismo, che non è soltanto il federalismo fiscale, ma che è, o meglio deve essere, una riforma profonda dello Stato e dei rapporti tra Stato e cittadino. È una possibilità che ancora non si è pienamente realizzata e quindi dobbiamo anche guardarci dai rischi di una involuzione di questa possibilità. La riforma federalista può veramente essere l’inizio di una concezione, di una strutturazione diversa dello Stato. Nella mia visione, il fine non è il federalismo, l’ho detto infinite volte. Il fine è la sussidiarietà, è questa concezione di società: è rendere i nostri cittadini veramente i protagonisti, è veramente trasferire quote di potere non da un livello di amministrazione dello Stato centrale a un livello di amministrazione della cosa pubblica periferica; non mi interessa in sé che le Regioni, i comuni, le province abbiano più poteri. Al cittadino che cosa ne viene in tasca? Ecco, appunto, questa è la domanda da farsi. Facciamo una riforma federalista che permetta di dare di più nelle mani del cittadino: più poteri, più autonomia. Mi sto ad esempio battendo per avere, come Regione Lombardia, più poteri decisionali nel campo scolastico e nel campo universitario, ma non perché voglio costruire un ministero della scuola e della pubblica istruzione lombardo. Al contrario, voglio avere più poteri e responsabilità trasferite dallo Stato alla Regione per trasferirle poi a mia volta alle scuole, perché voglio aumentare il grado di libertà e di autonomia delle nostre scuole, del corpo insegnante, in unità con gli studenti e con le famiglie, in unità con il tessuto economico circostante. Perché è di questo hanno bisogno i giovani per poter competere con i loro coetanei tedeschi o cinesi: di una scuola che sia veramente in grado di prendere delle decisioni, di diversificarsi, in unità, ripeto, con gli insegnanti, con il corpo delle realtà produttive, etc. Credo, da questo punto di vista, che siamo, o possiamo essere, alla vigilia di una riforma straordinariamente importante, ma che va orientata in questa direzione. Grazie della vostra attenzione. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 100 MARCO SODANO Grazie Presidente. Con Aldo Bonomi vorrei provare ad approfondire un aspetto. Questo trasferimento di potere, questo spostamento delle competenze, delle responsabilità, potrebbe dare l’impressione di essere fatto perché non ci arriviamo… Cioè, questo sistema mutualistico che si sostituisce a un sistema di impostazione più vecchia - lo Stato dà, lo Stato fa, lo Stato si preoccupa - significa che ci stiamo accontentando, che dobbiamo accontentarci, oppure che abbiamo trovato un sistema migliore? ALDO BONOMI Direttore dell’Istituto di ricerca AAster No, ma io me lo spiego con un ragionamento non solo sugli ultimi cinquant’anni. Parto da tre parole chiave che stanno nella nostra memoria: libertà, uguaglianza, fraternità. Credo che, per un lungo periodo, abbiamo puntato molto l’acceleratore sulla libertà e sull’uguaglianza, ma, se posso dirlo, poco sulla fraternità. La libertà ha portato a una società dell’individualismo compiuto, anche a logiche di individualismo proprietario, che non hanno nulla a che fare con il discorso della cooperazione; l’uguaglianza la vediamo discussa a Mirafiori, in competizione tra la Serbia, la Polonia, il Brasile e Detroit, e la vediamo dentro una società che, quando aveva mezzi scarsi e fini certi, funzionava, mentre adesso, nell’iper abbondanza e nell’opportunità, “uguaglianza” significa che possiamo desiderare tutto ma molto spesso non riusciamo a prendere niente. Della fraternità - che era poi questo discorso del mutualismo e della cooperazione - devo dire che le dinamiche che vengono da quel mondo lì, le abbiamo un po’ “messe sotto il tappeto”. Il problema era libertà, uguaglianza e “prendere lo Stato”. Questo era il grande tema: “prendere lo Stato”, perché poi quando si arrivava lì, o in forma rivoluzionaria o in forma socialdemocratica, si ridistribuivano le risorse per la libertà e per l’uguaglianza. Io direi che la parola che mi piace di più non è tanto “sussidiarietà”, bensì “fraternità”, partendo da un discorso antico, che, a mio parere, rimanda non solo agli ultimi cinquant’anni, su cui sono d’accordo: la Thatcher, il secolo breve, il welfare… Ma io andrei un po’ più indietro, nel passaggio tra Ottocento e Novecento, nel passaggio dal Novecento al nuovo secolo. Ne abbiamo perso memoria, ma la cooperazione e il mutualismo, per lo meno in Italia, nascono nel passaggio dal lavoro agricolo al lavoro industriale; non è mica nato subito il sindacato, sono nate prima le leghe e le gilde. Il sindacato viene, dopo, come forma organizzata. Il secondo passaggio riguarda una cosa molto semplice, il cibo: prima c’era il prosumerismo in agricoltura, si produceva e si mangiava quello che lasciava il padrone; poi si è cominciato a fare le cooperative di consumo, che non erano gli Iper Coop, ma una cosa un po’ più “sbracata”, che serviva a mangiare. Terzo: il problema della scrittura. Quanti erano gli analfabeti? Le università popolari che cosa erano? Ricordate le maestrine dalla penna rossa di De Amicis? Un piccolo dettaglio: in quei tempi c’erano pure gli strozzini, perché si iniziava a contare il denaro. Fu allora che si fecero le banche di credito cooperativo e le banche popolari, per diminuire lo strozzinaggio. Allora, vorrei far riflettere sul fatto che, nel passaggio del nuovo secolo, siamo tutti qui a ragionare sil lavoro: precariato, flessibilità, lavoro autonomo di seconda generazione. Le garanzie del lavoro normato a vita - dalla culla alla tomba, con la pensione - i giovani lo sanno benissimo, non ci toccano. Il lavoro è completamente cambiato. Mangiare: cito solo il fenomeno “mucca pazza”, per capirci. Ognuno vuole essere sicuro di quello che mangia, e quindi si parla di chilometro zero e argomenti simili. Scrittura: il vero problema nella società è il technology divide, tra chi naviga e chatta e chi no, rispetto al nuovo Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 101 mondo dell’informazione. Sulla finanza stendo un velo pietoso: avete discusso fino a poc’anzi dell’importanza di ricominciare ad avere una finanza di prossimità, pur nella globalizzazione, con tutto ciò che questo significa. Allora, il problema vero è che qui siamo di fronte a un paradigma della modernità e non a un ripescare - perché, ne abbiamo appena ragionato, siamo figli del Novecento - ciò che sta dentro al paradigma: capitale da una parte, lavoro dall’altra, Stato in mezzo che, a seconda di come andava, ridistribuiva un po’ di più al capitale, un po’ di più al lavoro. Il paradigma con cui dobbiamo convivere nel nuovo secolo è il paradigma dei flussi che impattano nei luoghi e nella dimensione del territorio, con tutto ciò che questo significa. Per capirci, la finanza è un flusso, lo sono le imprese transnazionali, lo è Marchionne che atterra a Torino, che non è più la one company town “fordista” che conoscevamo. Marchionne arriva da Detroit e dice: “signori sono qua, sono un po’ cambiato, le regole sono cambiate, proviamo…”. Le migrazioni sono un flusso da questo punto di vista, le internet company sono un flusso e mi fermo qui. Flussi che cambiano i luoghi e dentro i quali appare la categoria del territorio. Allora, mi pongo la domanda se la fraternità, il mutualismo, la cooperazione abbiano un senso e un significato dentro a quello che chiamiamo capitalismo nella globalizzazione. E poi pongo anche la richiesta che ha posto Formigoni, cioè che la politica faccia tutto ciò che viene ripreso dalla comunità. La mia valutazione è che la Lega delle Cooperative, che ha organizzato questa due giorni di eventi, sia come l’Airbus. Cosa c’entra? È molto semplice: se vi ricordate, noi eravamo tutti tristissimi quando fu presentato l’Airbus come campione europeo: l’aereo dei francesi, grande campione, etc. Eppure, dicevo, noi alcuni campioni europei ce li abbiamo. Perché non ne parliamo? Nella dimensione europea, il nostro capitalismo, in quanto ha sviluppato un modello di cooperazione e di imprenditoria di questo tipo, è un campione. Dentro che cosa? Dentro i più vari capitalismi. Il capitalismo anglosassone: adesso sta cambiando, stando a quello di cui si discute, ma aveva preso il trip della finanza. Londra significava fondamentalmente la Borsa, e dove sia andata a finire lo abbiamo capito. Il capitalismo renano: grande impresa, grande sindacato, cogestione al vertice, dico bene? Il capitalismo francese: intervento di Stato che permette l’Airbus. Il capitalismo anseatico: quello della Svezia, quello che sta dalle Fiandre fino alla Finlandia. Il nostro è un capitalismo di territorio, dentro il quale abbiamo il tessuto delle piccole imprese, ma anche il tessuto cooperativo, che ha prodotto campioni nazionali. Alcuni li avete citati voi prima, quando il presidente ha detto: “cito la cooperativa che fa la globalizzazione sul problema dei lavori”. Dal punto di vista del capitalismo, nelle sue fasi di cambiamento, siamo di fronte a un campione nazionale su cui dobbiamo ragionare attentamente e quindi bisogna smetterla di dire che le cooperative sono “figlie di un Dio minore”, che sopravvivono solo perché hanno le tasse agevolate. Discutiamone: è un pezzo del nostro capitalismo, che parte dal basso e dal territorio. Questa è la situazione. Sono d’accordo sul fatto che, a questo punto, nella situazione attuale, la politica e le istituzioni debbano fare tutto ciò che la comunità è in grado di portare avanti. Tuttavia scusate la franchezza - non è che la società, la comunità sia tutta buona. Parlo della Lombardia: io divido l’agire della società in tre grandi comportamenti. Punto primo: c’è una grande voglia di comunità, che si sostanzia nel rancore. Scusate, ma se la comunità sono quelli che hanno detto che il problema sono le ronde e la sicurezza, questo è un “male agire” della comunità che non mi piace, tanto per essere chiari. Perché questo significa che, purtroppo, molto spesso la sussidiarietà in questa città significa un comunitarismo becero di rinserramento contro l’altro da sé. E questo è un punto di cui bisogna discutere, perché non è che basta fare la Big Society e tutto va bene. No, all’interno della Big Society bisogna discutere a fondo dei problemi, bisogna affrontare questa componente di comunitarismo rancoroso, rinserrante, che si perimetra contro l’altro da sé. Poi c’è, per fortuna - e voi fate parte di questo mondo - una forte comunità Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 102 di cura; però anche sulla comunità di cura bisogna intendersi. La comunità di cura è fatta, in primo luogo, dal meglio di ciò che abbiamo prodotto con il welfare, perché io non butto affatto via i cinquant’anni di welfare e quindi, ad esempio, difendo gli insegnanti, che hanno un ruolo fondamentale nel sistema educativo e che dicono a Maroni che, come abbiamo conquistato le scuole miste di genere, dobbiamo conquistare le scuole miste anche dal punto di vista dell’etnia, perché così si fa educazione. Difendo i medici, difendo gli psichiatri che lavorano sulla frontiera del disagio di questa società. E quindi dico: attenzione a ciò che teniamo del welfare e a ciò che diventa “associazionismo, volontariato e impresa sociale”, su cui sono assolutamente d’accordo, ma a condizione di trovare un equilibrio nel chiudere un’epoca e aprirne un’altra. Dobbiamo stare attenti, siamo in una delicata fase di transizione. Quindi una forte comunità di cura. E per fortuna che c’è questa comunità di cura, perché in questo Paese - lo dico con orgoglio - non abbiamo i vecchietti per le strade (quelli che non hanno la badante), siamo riusciti a tenere rispetto a questo; ci occupiamo di tutta una serie di aspetti che ancora tengono. La comunità di cura ancora tiene. Il problema vero però è, se vogliamo fare Big Society, non solo interrogare la politica, ma interrogare anche i soggetti dell’economia, cioè quella che io chiamo la comunità operosa. E su questo credo che la cultura della cooperazione, del mutualismo italiano abbia un ruolo fondamentale. Sono molto contento che abbiate cominciato a dialogare, perché non capivo più la vostra posizione dentro all’evoluzione storica e al salto di paradigma, mentre mi era chiara per il Novecento: le cooperative rosse e le cooperative bianche, tanto per capirci. Ma siccome il Novecento l’abbiamo con difficoltà scavallato, iniziare il dialogo è importante. E il vero problema è che la Big Society deve anche prevedere un’alleanza operosa tra chi fa economia e chi produce coesione sociale e da questo punto di vista mi pare che la vostra cultura sia fondamentale, perché avete la cultura del mediare, perché avete strutture che stanno dentro la comunità di cura e strutture che stanno dentro al capitalismo, siete un po’ “schizofrenici”, tanto per capirci, ma questa vostra schizofrenia va bene e dovete esercitare la mediazione tra quelli che sono un po’ fuori di testa, che pensano di essere dei flussi come Marchionne, e quelli che stanno sul territorio. Il vostro ruolo è questo e la Big Society viene avanti con un “di più” di economia mutualistica dal basso e un “di più” di comunità di cura che va costruita con i soggetti. Grazie. MARCO SODANO Luca Bernareggi di Legacoop, abbiamo sentito dire che le cooperative sono un soggetto economico come gli altri. Lei ha prima sorriso, poi insomma… La domanda, la mia curiosità personale, a questo punto è questa: le cooperative sono cresciute o no? O le cooperative c’erano già e qualcuno si è accorto di loro? Ho la sensazione che siamo più in questa seconda situazione, perché abbiamo parlato di campioni, di aziende grandi. Conosciamo tutti questo mondo, sappiamo tutti in che modo è in grado di muoversi. Quindi, insomma, la cooperazione entra a pieno titolo nel sistema economico, viene accostata a tutti gli altri attori, ma questo è perché è cambiata oppure perché gli altri si sono accorti di questo mondo? Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 103 LUCA BERNAREGGI Dico una cosa che per molti miei colleghi e colleghe è assolutamente scontata. La cooperazione è cresciuta, e molto, e credo di poter affermare che è anche cresciuta nel momento in cui ha scelto - perché questo è stato il presupposto - di essere impresa non assistita, di misurarsi con il mercato, con le regole del mercato, con le procedure di gara, con dei bilanci a posto. Questo le ha permesso di sviluppare un profilo autonomo dalla politica fin da tempi molto più lontani di quelli a cui poco fa faceva riferimento Bonomi. Perché le cosiddette simpatie politiche sono una cosa; gestire imprese che hanno centinaia di migliaia di soci e centinaia di milioni di euro di fatturato è un’altra cosa. E quando si tratta di gestire aziende complesse di questa natura, le simpatie politiche si fermano, senza andare oltre a una certa soglia. Poi, attraverso anche giornate come queste, una parte della società italiana si è accorta che questo è un mondo che può essere utile in un progetto di rilancio, di rinnovamento, di crescita del Paese. Per molti aspetti ci sono interi settori della società dove la cooperazione già oggi esercita un ruolo fondamentale. Il welfare, di cui ha parlato prima abbondantemente Phillip Blond, è già un settore dove, se provassimo a immaginare l’assenza del ruolo della cooperazione sociale, ci sarebbero asili nido, case di cura per anziani, una serie di servizi alla persona anche molto delicati che sarebbero totalmente abbandonati a regole brutali del mercato o di uno Stato che non riesce più ad arrivare a svolgere quelle funzioni. Permettetemi solo una battuta sulle comunità rancorose, cui faceva riferimento Bonomi. Io non credo che le comunità rancorose siano qualcosa di strutturato nella società: possono essere alimentate in un senso o possono essere alimentate anche dall’inerzia di parti della società che pensano che alcuni problemi sono sempre problemi di qualcun altro. Lo dico perché, come Bonomi, vivo in una città dove questi problemi sono quotidianamente oggetto di discussione; secondo me, non è che ci siano persone, amministratori, dirigenti e parti della società che agiscano intenzionalmente in quella direzione. Certo, in alcuni casi agiscono in modo brutale su alcune situazioni, ma ci sono situazioni che sono state dimenticate per decenni e i cittadini, se non vengono ascoltati e aiutati a trovare delle soluzioni ragionevoli, prima o poi - si direbbe a Milano, ma credo in qualunque parte d’Italia - si arrabbiano. Chiudo questa parentesi, perché sono problemi che riguardano Milano, anche se i temi della sicurezza, dell’integrazione, di una politica inclusiva vera fatta di diritti e di doveri riguardano anche l’Europa e le società più evolute. È una discussione probabilmente da fare in altra sede. In realtà non ho nulla da aggiungere a quello che hanno detto Phillip Blond e il presidente Formigoni. Molti di noi conoscono già da molto tempo il presidente Formigoni, hanno imparato a conoscerlo da quello che ha fatto nel corso del suo ormai lungo mandato di governatore della Lombardia. Credo di poter esprimere un giudizio di grande apprezzamento per quanto ha detto oggi. Ricordo a tutti - e qui ci sono esperienze e colleghi che possono confermarlo - che spesso Regione Lombardia è più avanti rispetto alle stesse istanze che vengono dalla società. Ad esempio la scelta di predisporre delle linee di finanziamento e di sostegno allo sviluppo di progetti in alcuni settori, a volte vede alcune di queste risorse rimanere non spese, perché la società non è pronta a usare queste risorse. E alcuni colleghi sanno bene a cosa mi riferisco. Mi sento di poter dire che questo è un approccio particolarmente importante per quel che riguarda il mondo cooperativo, perché permette di esaltare il ruolo della cooperazione e di tutti gli attori della società. Le parole di Phillip Blond ci hanno aiutato e ci aiutano a ricordare anche una storia del nostro Paese che volte, in qualche modo, non riusciamo a pieno a ricordare. Mi fa specie sentire che un candidato primo ministro di centro-destra e uno dei suoi più importanti collaboratori scrivano: “in primo luogo, servizi pubblici basati su una forma cooperativa, cioè di proprietà di tutti i cittadini coinvolti” - cito un’intervista rilasciata da Blond a una testata italiana a metà Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 104 dicembre - “innovandoli e riducendo burocrazia e spese inutili. In questo modo il potere è gestito dal basso e le persone comuni possono disporre dei fondi pubblici e spenderne una parte. Ciascun gruppo può dire, in quanto organizzazione proveniente dal basso: possiamo spendere i soldi dello Stato meglio dello Stato”. Dovremmo riflettere un attimo su che cosa comporta per noi cooperatori misurarci con un tema di questo tipo, a fronte di quello che spesso leggiamo, sentiamo, ascoltiamo e su cui ci confrontiamo con la politica italiana, a prescindere dal colore politico di chi scrive, pensa e dice queste cose. Basterebbe andare a rileggersi un articolo della Costituzione della Repubblica Italiana, l’articolo 43, che viene ricordato in modo assolutamente opportuno da uno studioso della cooperazione quale Mattia Granata, in un libro sul rapporto tra sinistra e mercato in Italia, dove giustamente si riprende un articolo della Costituzione che afferma: “a fini di utilità generale, la legge può riservare o trasferire a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali”. Granata riprende questo articolo per poi fare un esempio, che credo debba riguardare la cooperazione italiana, su un tema molto delicato come quello dell’acqua, a fronte del fatto che sono state raccolte in Italia un milione e mezzo di firme per sostenere un referendum a favore dell’acqua pubblica e cioè per difendere una prerogativa dello Stato nella tutela di un servizio importante. Tuttavia Granata introduce, attraverso questo articolo, un elemento secondo me importante, che peraltro è stato ripreso dal Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi (che purtroppo, invitato a essere presente con noi oggi, non ha potuto partecipare). Rossi dice una cosa piuttosto importante: perché, in un settore centrale come quello dell’acqua, non pensare all’esperienza delle cooperative di consumo per immaginare che un’esperienza analoga possa essere trasferita nella gestione di un servizio così delicato, così importante, posto che gli enti gestori che sono di proprietà degli enti pubblici, che faranno sempre più fatica a trovare le risorse per garantire ammodernamento delle reti, gestione corretta, livelli di tariffazione sostenibile per le comunità? Perché non pensare a quel modello di impresa, che ha prodotto tanti successi in questo Paese, su alcuni servizi così delicati? Dico questo, perché mi piacerebbe, per esempio a proposito di beni pubblici e di beni comuni e di politiche pubbliche, suggerire ai miei concittadini, che hanno firmato questo referendum, di organizzarsi in cooperativa, di non aspettare che le Regioni approvino - come già sta succedendo - delle leggi che aprono all’investimento privato la gestione di questi beni pubblici. Perché il rischio è che se non ci organizziamo - e mi permetto di dire che la forma cooperativa è da questo punto di vista la forma migliore per la gestione di questi beni comuni arriveranno i soliti nomi noti - contro i quali si è espresso anche, secondo me molto opportunamente, Phillip Blond - cioè le economie fatte da oligarchie, che agiscono in modo transnazionale, verranno a gestire l’acqua, che è un bene molto prezioso, da Nord a Sud, e lasceranno, diciamo così, irrisolti alcuni temi. Credo che ci sia bisogno, per tutta la cooperazione, di fare tesoro, su questi temi, anche delle suggestioni che ci sono state sottoposte. Sono cose che diciamo, che consideriamo, che valutiamo e che diamo spesso per scontato. Purtroppo molti attori, a partire da quelli che dovrebbero occuparsi di questi argomenti e che fanno politica in Italia, non sempre si ricordano che i problemi veri del Paese e delle comunità locali sono questi e non quelli su cui ogni giorno siamo costretti a misurarci. Grazie. MARCO SODANO Bene, ringrazio tutti per la partecipazione. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 105 Settima Sessione GIORGIO GEMELLI Come avete visto dal programma, abbiamo deciso di concludere questa nostra giornata dell’economia cooperativa con la lezione magistrale del prof. Michael Spence, Premio Nobel per l’Economia del 2001. Farò una ridotta introduzione dell’argomento, il professore terrà la sua lezione, dopodiché consentiremo al noto e amico Giovanni Floris di fare una serie di domande al prof. Spence per tenere conto del fatto che c’è stato in questi giorni un dibattito intenso sulle questioni essenziali. Chiuderemo con un intervento del presidente Poletti, nel quale fra l’altro saranno annunciati i nostri orientamenti per quanto riguarda il tema del Congresso e come lo presenteremo. In attesa di poter dare corso alla nostra ultima discussione, vorrei sottolineare come abbiamo deciso di continuare le nostre riflessioni sulla crisi economica, sull’economia cooperativa appunto, attraverso questa lezione del prof. Spence. Il tema che ci siamo proposti di affrontare, come avete visto, riguarda le prospettive e le sfide per l’economia dei Paesi avanzati ed emergenti, un tema quanto mai sentito e importante in considerazione della situazione in cui versano oggi i Paesi industriali, avendo sperimentato fra l’altro, negli ultimi anni, episodi di grave instabilità finanziaria. Questi Paesi sono costretti attualmente ad affrontare problemi di espansione del debito sovrano e un elevato livello di disoccupazione. Un quadro, quello che ho semplicemente introdotto, che rimanda all’esigenza di una nuova governance e di migliori regole per lo sviluppo dell’economia. Vorrei sottolineare che una volta emersa la crisi, è sorto con forza il concetto che, per funzionare, un’economia di mercato ha bisogno di fiducia e di cooperazione. Il crollo della fiducia fra le istituzioni finanziarie ha paralizzato i prestiti alle imprese, ai consumatori, alle autorità pubbliche, acuendo quindi la conseguente condizione di recessione. Naturalmente dobbiamo riconoscere che solo lo sforzo massiccio dei Paesi del G8 ha evitato un completo collasso e un possibile peggioramento della fase depressiva. Questo è un quadro che, appunto, riteniamo debba essere approfondito, dando per acquisito quello che avrei voluto, in conclusione di questo nostro seminario, rappresentare un po’ meglio, come il ruolo che la cooperazione può svolgere e rispetto al quale mi limito semplicemente a fare questa osservazione. Nel mondo ormai è cresciuto il numero delle cooperative, è cresciuto il numero delle grandi imprese cooperative, raggiungendo una dimensione di grande rilievo di oltre cento milioni di posti di lavoro, la presenza delle cooperative in Europa con circa cinque milioni e mezzo di posti di lavoro e in Italia con un milione e due, un milione e cento di posti di lavoro e oltre 800.000 soci. Il che dimostra che di fronte anche a una situazione di crisi impegnativa e difficile come l’attuale, la risposta del mondo cooperativo ha aiutato a rendere meno critica la situazione dei lavoratori, ha consentito di proseguire nel non perdere posti di lavoro, garantendo a questa forma d’impresa, in una fase difficilissima, un ruolo che altrimenti sarebbe probabilmente stato ritenuto meno importante. Questo è il nostro punto di vista: riteniamo che, in un sistema economico evoluto, sia necessario prevedere la presenza di diverse forme d’impresa. Ma abbiamo anche necessità di avere un quadro di riferimento generale, per il quale chiedo al prof. Spence di accomodarsi per poter tenere la sua lezione. Prego professore. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 106 MICHAEL SPENCE Premio Nobel per l’Economia 2001 Lectio Magistralis Prospettive di crescita e sfide per l’economia dei paesi avanzati ed emergenti Buongiorno signore e signori. Mi chiamo Michael Spence e i miei colleghi mi definiscono un ex economista. Sono molto lieto di essere qui con voi. Poiché non abbiamo molto tempo a disposizione, farò un excursus piuttosto rapido sull’economia globale post-crisi che a mio parere presenta, da un certo punto di vista, alcune caratteristiche abbastanza ottimistiche ma anche gravi rischi di downside. Pertanto ho deciso di sottotitolare la mia presentazione “Come arrabattarsi nel caos della gestione dei rischi di downside” (slide 1). In primo luogo devo brevemente contestualizzare l’argomento. Ho scritto un libro la cui tesi, in poche parole, è che il mondo in cui viviamo attualmente tutti noi ha iniziato a decollare e a crescere intorno al 1750 (slide 2). A quel tempo rappresentavamo il 15% della popolazione mondiale. Il restante 85% della popolazione è rimasto esattamente nelle medesime condizioni per altri duecento anni, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando gli imperi coloniali si sono disintegrati e ha iniziato a profilarsi un’asimmetria intrinseca. All’inizio del secolo ci siamo trovati in una situazione, sebbene allora non fossimo in grado di vederla, in cui un’ampia percentuale della popolazione mondiale viveva in Paesi in via di recupero e in rapidissima crescita mentre l’economia globale si stava trasformando. Il messaggio principale che vorrei lasciarvi oggi è che tutto questo offre grandi opportunità e sfide in tutto il mondo, in tutti i nostri Paesi. Ed è fondamentale, sia per il mondo del business sia per la politica, tentare di capire, anche se si tratta di un ambiente complesso, quali sono queste tendenze e quali forze le governano. A questo punto vorrei parlare della crisi. La crisi ha colpito l’America e l’Europa in modo molto violento. La risposta alla crisi è stata spettacolare, ottima, e siamo riusciti a evitare un disastro, uno scenario di depressione. Tuttavia, ci sono stati degli effetti collaterali, dei postumi che persistono tuttora. L’America sta vivendo un processo difficile di deleveraging e di ristrutturazione dei bilanci, soprattutto in relazione alle famiglie e l’Europa che, tutto sommato, era in condizioni migliori rispetto agli Stati Uniti per quanto attiene ai bilanci e ai danni subiti, ha scoperto che diversi Paesi avevano un altro problema, ovvero quello del debito sovrano, cosa che attualmente sta destabilizzando l’Euro. Per entrambi questi ordini di motivi, non siamo ancora usciti dalla crisi. Temo che questo sarà un anno difficile per l’Europa, a fronte dell’effetto “contagio” che persisterà finché il problema della condivisione del carico non verrà risolto. In America ci sono opinioni divergenti in merito alla crescita. I Paesi in via di sviluppo hanno reagito molto bene alla crisi e ora il loro tasso di crescita è risalito a una velocità straordinaria. Nessuno se lo sarebbe aspettato. Quindi le principali economie emergenti in tutto il mondo sono il fulcro della crescita globale e sono tornate ai livelli di crescita precedenti la crisi o superiori. I Paesi che sono tornati a crescere, in ordine di velocità e di efficacia, sono Cina, India e Brasile, in questo preciso ordine. In questa (slide 3) diapositiva ho elencato una serie di ragioni che spiegano il fenomeno. Queste economie stanno iniziando in parte a disaccoppiarsi da noi. Solo venticinque/trent’anni fa, il principale mercato per la maggior parte di queste economie eravamo noi, ovvero l’Europa e il Nord America. Ora invece tra i loro principali mercati ci sono sempre più gli stessi Paesi emergenti e pertanto mostrano una certa resilienza e una capacità di sostenere la crescita che non avevano in passato. Questa diapositiva (slide 4) presenta semplicemente un’immagine del pattern di crescita nei Paesi avanzati e nei Paesi in via di sviluppo. Potete notare che, a partire all’incirca dagli anni Novanta - quando la Cina cresceva rapidamente, l’India aveva un ritmo di sviluppo in accelerazione, mentre il Brasile stava tornando a crescere - questi Paesi Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 107 hanno iniziato a comportarsi in modo profondamente diverso, con tassi di crescita molto più elevati. Si è verificato anche un altro fenomeno davvero sorprendente, ovvero le economie avanzate si sono pesantemente indebitate, soprattutto nel settore pubblico, mentre le economie emergenti, che in passato presentavano situazioni fiscali instabili, si sono posizionate nella parte bassa dello spettro del debito e dunque dispongono di più armi per affrontare gli shock rispetto a noi (slide 5). Questi Paesi hanno sicuramente pagato un prezzo per arrivare a questi livelli, ma ora sono posizionati in modo piuttosto soddisfacente per poter sostenere la propria crescita. La domanda che si pongono tutti coloro che si interessano a questo argomento, incluse le aziende per le quali questi Paesi costituiscono importanti mercati, è: “saranno in grado di sostenere la crescita (visto che noi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, viviamo un difficile processo di ripresa dalla crisi e non sappiamo quanto ancora durerà)?” La risposta più probabile a questa domanda è “sì” e per noi è importante comprenderne i motivi perché ci toccheranno sempre più. Questi Paesi sono grandi in termini di dimensioni aggregate e tra circa dieci anni supereranno il 50% dell’economia globale in termini di PIL. In secondo luogo, sono più ricchi, ovvero il loro reddito sta aumentando e, considerando il lato dell’offerta della loro economia, stanno salendo nella catena del valore aggiunto. Stanno facendo sempre più cose nella catena dell’offerta globale che sono più simili a quello che facciamo noi. Se torniamo indietro di venticinque o trent’anni, questi Paesi avevano economie ad elevato impiego di manodopera e svolgevano attività a basso grado di specializzazione, ma ora questo modello sta cambiando. Questo, unito alla scala e al fatto che commerciano tra loro, li rende più resilienti e impattanti quanto agli effetti che esercitano in diversi ambiti della nostra economia, sia in senso positivo, in termini di opportunità di mercato, sia in senso negativo, ad esempio per la concorrenza che operano in aree quali il mercato del lavoro. I rischi di downside impliciti in questo scenario di riferimento, a mio parere, sono abbastanza semplici da comprendere e sono elencati in questa diapositiva (slide 6). Un crollo imponente, a differenza di una crescita lenta, in Nord America o in Europa, o in entrambe, rallenterebbe le principali economie emergenti, per le quali noi rappresentiamo ancora dei mercati importanti. In secondo luogo, un’incapacità globale su scala relativamente ampia nell’affrontare gli squilibri che facevano parte dell’assetto pre-crisi (gli ingenti deficit in America, i grandi surplus in Cina e in altri Paesi asiatici), dunque un mancato coordinamento su quel fronte, avrebbe conseguenze pesanti. Inoltre, se prendesse piede una marcata tendenza al protezionismo, probabilmente i danni che ne deriverebbero sarebbero sufficienti a rallentarli. Un’altra cosa che non è molto nota è che la politica post-crisi, la politica economica negli Stati Uniti, ha previsto un abbassamento dei tassi di interesse e sgravi quantitativi. Questo ha fatto infuriare i mercati emergenti. C’è una marea di capitali in uscita dai Paesi avanzati, dove i tassi di interesse sono bassi, diretta verso i mercati emergenti dove i tassi di interesse sono superiori e questo causa tutta una serie di problemi (inflazione, bolle degli asset, aumento dei prezzi delle merci che si ripercuote poi sull’inflazione, etc.). E loro stanno adottando politiche difensive non convenzionali, tra cui accumulo di riserve (ovvero acquistano valute di altri Paesi per tenere basso il loro tasso di cambio), controlli sui capitali e tutta una serie di cose di cui noi ci lamentiamo, ma che questi Paesi devono fare a fronte delle distorsioni causate dalle politiche post-crisi messe in atto qui. Infine, la Cina è diventata la seconda economia mondiale per dimensioni, se si esclude la UE come entità unitaria. Se la si include, diventa la terza economia mondiale, in quanto ha appena superato il Giappone. Se la sua crescita, che si attesta intorno al 9-10%, dovesse vacillare, ne conseguirebbe un rallentamento in tutte le economie emergenti e probabilmente anche nell’intera economia globale. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 108 La struttura in evoluzione dell’economia globale (slide 7): brevemente, si tratta di questa serie di punti che ho elencato in diapositiva. Non credo che ci siano concetti che valga la pena sottolineare nello specifico, a parte il fatto che il modo in cui governiamo l’economia globale, dove sono l’Europa, gli Stati Uniti, con l’aggiunta del Giappone, che decidono tutto, in modo generoso, ovvero in modo inclusivo, non funzionerà più. Ci sono troppi altri attori importanti da tenere in considerazione. Abbiamo il G20, ma finora nulla garantisce che il G20 riuscirà veramente a concludere qualcosa. Non voglio sembrare pessimista, come forse vi ho dato l’impressione di essere, però si tratta di un’organizzazione giovane e al suo interno ci sono numerosissime diversità in termini di grado di sviluppo, etc. Il problema è davvero difficile da risolvere. Qui vediamo una rappresentazione delle aree di crescita nell’economia globale (slide 8). Credo che il quadro non necessiti di spiegazioni. La crescita dell’economia globale proviene sempre più dalla Cina da un lato e, dall’altro lato, proviene dal resto del mondo in via di sviluppo o dalle economie emergenti. La Cina sta attraversando una serie di transizioni complicate che, a mio parere, la maggior parte delle persone nel mondo occidentale non comprende a fondo, anche se in ciò non vi è nulla di male (slide 9). Tuttavia, la capacità o incapacità di quel Paese di superare tali transizioni avrà implicazioni enormi. La Cina sta entrando in quella che si chiama “transizione verso un livello di reddito medio”. È il punto nel quale la vita delle economie a elevata e rapida crescita arriva a un momento in cui i fattori che hanno trainato la crescita in passato, ovvero le attività ad alto impiego di manodopera, devono essere accantonati perché non sono più competitivi. Non esistono economie con un reddito pro-capite di quindicimila dollari che provvedono alla produzione a elevato impiego di manodopera, pertanto questa si sposta altrove. I cinesi devono quindi abbandonare tutto ciò. Stanno anche attraversando una transizione molto complicata nella struttura della domanda, come vi ho appena descritto brevemente. Qui vediamo elencati i Paesi in transizione verso un livello di reddito medio (slide 10). Il concetto che desidero sottolineare è che la maggior parte di questi Paesi è in fase di rallentamento. Quindi la partita non si conclude quando si raggiunge il punto di transizione verso un livello di reddito medio. Non è detto che con un reddito pro-capite di cinquemila dollari il Paese continui a crescere. Infatti, la stragrande maggioranza di questi Paesi non cresce. In effetti, finora ci sono stati solo cinque casi, soprattutto in Asia, in cui l’economia ha sostenuto una crescita elevata durante la transizione verso un livello di reddito medio e qui vedete elencati i nomi di tali Paesi (slide 11). Penso che siano tutti Paesi asiatici. La struttura economica cinese sta cambiando molto velocemente (slide 12). Se torniamo indietro nel tempo, al 1992, la Cina svolgeva prevalentemente attività a elevato impiego di manodopera, quali la produzione di abbigliamento, scarpe, giocattoli e cose simili. Possiamo vedere che è in corso questo processo di crescita lungo la catena del valore aggiunto, nel quale si diversifica l’economia, si aggiunge l’elettronica e via dicendo. Questi dati sono un po’ vecchi ma il processo si sta svolgendo in modo incredibilmente rapido. Una delle cose che ci interessano particolarmente è l’eccesso di risparmio in Cina. Questa immagine (slide 13) mostra il saldo attivo della bilancia commerciale cinese. Come probabilmente già sapete, fino al 2005 il saldo commerciale attivo cinese era modesto ma poi è salito alle stelle. Il motivo di questo aumento è che quella cinese è un’economia a elevato tenore di investimenti (slide 14). È difficile trovare nel mondo un’economia che investa il 45% del suo PIL. È quasi la metà del PIL, che l’economia non consuma ma reinveste, in gran parte nel settore pubblico. Questo è uno dei motivi per cui sono tanto competitivi. La ragione per cui il surplus commerciale è aumentato tanto è che i risparmi sono cresciuti superando il livello, già elevato, degli investimenti. La domanda a questo punto è: perché è successo tutto ciò? Uno dei problemi che hanno i cinesi è che le famiglie, ovvero tutti noi, hanno subito un calo del reddito in termini di Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 109 percentuale sul totale. Ci sono specifici motivi alla base di questo fenomeno e sarò lieto di rispondere a eventuali domande in merito, ma questo è un trend che dovrà necessariamente capovolgersi. La Cina non può continuare a crescere affidandosi unicamente alle esportazioni. Dovrà invece alimentare la crescita dell’economia con i consumi interni. Non si tratta solo della crescita, bensì anche della struttura. Questa economia deve rispondere a quello che i cinesi vogliono consumare e non solo soddisfare le richieste degli americani o degli altri Paesi verso cui esporta. Questo schema deve essere capovolto. Tuttavia, la cosa più importante è che questa è diventata una specie di macchina per il risparmio e per l’investimento (slide 15). Questo grafico (slide 16), se lo osserverete da vicino una volta che avrò terminato la mia presentazione, vi dirà molte cose. A partire all’incirca dal 2004, questa economia a elevatissimo grado di investimento ha iniziato a investire di più e, contemporaneamente, a risparmiare ancora di più. In azzurro sono rappresentati i risparmi e gli investimenti statali, pari a circa il 12% del PIL, quindi un valore molto alto. La parte tratteggiata rappresenta i risparmi aziendali, che non costituiscono la totalità degli investimenti aziendali, ma una buona fetta ed è questa quota che è aumentata. Poi ci sono i risparmi delle famiglie, pari a circa il 18% del PIL o al 30% del loro reddito disponibile. Quindi quello che succede qui è che il Governo finanzia totalmente il suo investimento, ovvero non entra in deficit neppure dopo aver investito, e poi il settore delle aziende private investe pesantemente, in parte in modo efficiente e in parte no, coprendo gran parte degli altri redditi non distribuiti. Quindi, hanno bisogno di circa l’8% del PIL delle famiglie per coprire la differenza, ovvero per arrivare al totale degli investimenti nell’economia. Come ho detto, le famiglie risparmiano il 18% e non l’8%. Ora, cosa succede al rimanente 10%? È un surplus commerciale e viene investito in titoli di stato statunitensi e poi finisce nelle riserve per i cinesi. Quindi, per eliminare questo surplus e far salire i consumi, i cinesi devono sradicare questo schema (slide 17). Quello che dovranno necessariamente fare è dare il denaro alle famiglie e se le aziende lo rivorranno indietro dovranno chiederlo e prenderlo a prestito invece di investirlo automaticamente. In questa diapositiva vediamo da dove proviene la crescita della domanda in Cina. Potete notare quanto siano stati importanti gli investimenti e quale ruolo abbiano giocato nel permettere al Paese di superare la crisi. Ora cambierò argomento, per parlare dei problemi in atto nell’Unione Europea e negli Stati Uniti rispetto alla Cina (slide 18). Vorremmo che i cinesi si liberassero dei risparmi in eccesso, del surplus delle partite correnti, del saldo commerciale attivo, perché questo ha trainato la domanda globale e ci ha aiutato, ma aiuterebbe anche loro. I nostri interessi in questo ambito sono allineati ai loro e penso che succederà proprio così. Nei confronti della Cina abbiamo anche problemi di proprietà intellettuale. Sono problemi importanti, che rimangono irrisolti e potrebbero avere forti ripercussioni. Infine c’è una tendenza, che purtroppo si sta amplificando, e consiste nel bloccare le multinazionali e impedir loro di accedere a determinate aree del mercato cinese, al fine di favorire le aziende nazionali cinesi. Anche questo fenomeno potrebbe portare a un’escalation di protezionismo. L’ultima cosa - anzi, due cose - di cui ci lamentiamo nei confronti della Cina è l’accumulo di riserve, ma penso che su questo non possano fare nulla, perché sinceramente c’è un’enorme quantità di denaro che arriva nel Paese, loro non riescono ad assorbirla e allora la rimandano a casa. Quindi, sostanzialmente, stanno dando in outsourcing a noi una parte del loro processo di allocazione di capitali. Inoltre ci si lamenta del loro tasso di cambio. Penso che sia eccessivo, una sorta di falsa traccia. In questa diapositiva (slide 19) sono riportate le riserve cinesi detenute dalla banca centrale, che ammontano a circa 2,7 trilioni di dollari, in diverse valute ma per la maggior parte dollari ed euro. Si tratta di una quantità di denaro esorbitante ed è anche un problema dal punto di vista dell’asset management, ma ritengo che possa essere utile qui in Europa. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 110 Ora parlerò brevemente dell’Europa e farò qualche cenno ai problemi strutturali individuati in America, alcuni dei quali, a mio avviso, sono presenti anche qui (slide 20). Nell’evoluzione che è sfociata poi nella crisi, in realtà erano in atto due processi insostenibili, ma noi ne abbiamo visto solo uno quando la crisi è scoppiata, ovvero l’eccesso di consumo basato su una bolla degli asset alimentata dal debito negli Stati Uniti e da tutti gli altri elementi correlati (comportamento irresponsabile da parte degli enti normativi, comportamento irresponsabile nel concedere prestiti e molti altri fenomeni che devono essere risolti). Al contempo, nell’Unione Europea, il debito sovrano di diversi Paesi saliva a livelli insostenibili, cosa che attualmente è all’origine dell’instabilità dell’Euro, problema indubbiamente noto a tutti voi. Entrambi questi trend sono andati avanti senza mai diventare chiaramente visibili, dato il clima con tassi di interesse molto bassi che è prevalso nell’economia globale per tutto il periodo che è intercorso tra il 2000 e il 2008, quando è scoppiata la crisi. Entrambe queste problematiche devono essere risolte ma sono molte le incognite che tuttora le circondano. La risposta che gli Stati Uniti hanno dato all’eccesso di leva e di debito nel settore privato è stata quella di lasciare che il settore privato attuasse un deleveraging ma, per ammortizzare il colpo sull’economia in termini di calo dei consumi, è stata aumentata la leva nel settore pubblico. Siamo arrivati a un punto in cui sui mercati di capitali, e in generale nell’economia globale, nessuno più dubita che questi livelli di debito e di deficit siano troppo elevati. La maggior parte ritiene, e io sono d’accordo, che siamo arrivati a un punto in cui sia in Europa sia in America sono necessari piani credibili per ripristinare un equilibrio fiscale e stabilizzare l’economia globale. Questo processo sarà difficile ovunque, ma ancora di più lo sarà in Europa, a fronte degli elementi residui di decentralizzazione presenti nell’Unione Europea. Finora questi problemi di accesso ai mercati di capitali e di costo del capitale, nei Paesi che sembrano essere caduti nel baratro dell’indebitamento, sono stati affrontati con quelli che a volte vengono definiti “aggiustamenti di liquidità” a differenza degli “aggiustamenti di solvibilità”. Di fatto, questi Paesi non sono stati oggetto di salvataggio finanziario. Il Primo Ministro greco ha detto chiaramente a Parigi qualche giorno fa: “non c’è stato un salvataggio finanziario. Finora abbiamo ricevuto fondi per tamponare il nostro debito, ma rimane irrisolto il problema di come uscire da tutta questa situazione”. Questo vale anche per l’Irlanda e altri Paesi; probabilmente il Portogallo sarà il prossimo. Questo problema non si risolverà finché l’Europa, lavorando insieme al FMI oppure no, non prenderà una decisione sulla questione della condivisione del carico. Ciò significa che, se non si vuole operare una ristrutturazione del debito perché avrebbe un effetto negativo sull’Euro, allora è necessario effettuare un salvataggio finanziario di questi Paesi, a meno che non si ritenga che possano salvarsi da soli, ma nessuno pensa che ciò sia possibile, sicuramente nel caso della Grecia e probabilmente anche nel caso del Portogallo. Gli Irlandesi, loro malgrado, hanno dedotto che nemmeno loro erano in grado di uscirne autonomamente. Condividere il carico significa chiedersi chi pagherà il prezzo. Saranno i cittadini dei Paesi che sono colpiti dal problema? Saranno i detentori dei titoli e gli investitori? Si dovrà intervenire in qualche modo tramite la Banca Centrale Europea? Sarà il resto dell’Europa dove, a mio parere, la Germania avrebbe un ruolo prominente? Oppure sarà il resto del mondo tramite i finanziamenti del FMI? Nessuna di queste questioni ha trovato risposta e temo che il problema non scomparirà finché non verranno risolte queste questioni. Cosa ha questo a che vedere con le riserve cinesi? La Cina ha un interesse enorme nell’evitare o fare il possibile per prevenire l’instabilità dell’Euro, la sua volatilità e la sua svalutazione (slide 21). Perché? Perché la Cina continuerà a gestire la propria valuta in modo piuttosto cauto rispetto al Dollaro ancora per un po’ di tempo e se l’Euro crollasse la Cina verrebbe gravemente colpita a livello di competitività. Pertanto, i cinesi impiegheranno una parte di quei 2,7 trilioni di dollari di riserve alle spalle della BCE e Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 111 dell’Unione Europea per aiutare questi Paesi a stabilizzarsi e, se ci sarà un salvataggio finanziario, non mi sorprenderebbe se i cinesi prendessero parte a questo processo, non per motivi di amore fraterno e generosità, ma perché ne trarrebbero vantaggio. Io prevedo che l’Unione Europea dovrà attraversare una serie di crisi per poi arrivare a trovare una risposta. Quindi non penso che si assisterà a un’instabilità colossale in questi mercati, ma non sarà un bel processo perché questo problema della condivisione del carico è davvero complesso dal punto di vista politico. C’è una bella proposta, che consiste nel fornire finanziamenti a basso costo e a lungo termine a molti di questi Paesi. Se il costo sarà abbastanza basso e i finanziamenti sufficientemente a lungo termine, si tratterebbe in sostanza di un salvataggio finanziario sotto mentite spoglie, ma i tedeschi hanno recentemente reagito in modo negativo alla proposta. Questa è una delle idee implicite contenute nella proposta di Tremonti. In un orizzonte temporale a più lungo termine penso che l’Europa abbia chiaramente bisogno di una qualche forma di centralizzazione fiscale. Ha bisogno di flessibilità per gestire gli shock e attuare politiche anti-cicliche, ma di certo ha bisogno di disciplina. Tutti ormai sono d’accordo su questo punto: non si può avere una moneta unica senza condividere le difficoltà, almeno in una determinata misura. Se continuiamo così, tra non molto i titoli di stato tedeschi diventeranno, di fatto, la valuta delle riserve dell’Unione Europea e questa non è una situazione auspicabile perché i titoli di tutti gli altri Paesi diventerebbero più costosi e ciò avrebbe effetti negativi sulle opportunità fiscali e sull’equilibrio in diversi altri Paesi. Il debito dei Paesi avanzati è cresciuto e l’FMI ha condotto uno studio molto interessante sui motivi di questo fenomeno (slide 22). La gente pensa che questo sia stato uno stimolo fiscale irresponsabile ma in larga misura non è stato così e in gran parte è successo in automatico. Quindi vediamo stabilizzatori automatici al 10%, perdite di ricavi dovute al calo dei prezzi degli asset e fallimenti nel settore finanziario. Le cifre riportate sono espresse in milioni di dollari. Questo non è stato un pacchetto di stimoli fiscali irresponsabili, è stato un enorme shock. Vi faccio un esempio concreto. La gente critica la Spagna perché improvvisamente presenta un deficit enorme. La Spagna era in attivo prima della crisi e, come tutti noi, non aveva idea che ci fosse un problema sottostante. Ovviamente il problema non era visibile, a causa della bolla degli asset, e quando la bolla è esplosa, i ricavi sono crollati e improvvisamente gli spagnoli si sono ritrovati con un enorme deficit strutturale. Il punto che sto cercando di evidenziare è che non si tratta di un compito semplice. Per essere responsabili è necessario avere una comprensione profonda di quello che succede nell’economia e sapere se l’intera economia, e non solo la struttura fiscale, è in disequilibrio. Concluderò parlando brevemente dell’economia americana (slide 23). Ritengo che ci sia un problema di occupazione di lungo periodo. Ne parlerò perché è un aspetto che ho studiato recentemente e su cui ho i dati aggiornati. Penso di essere riuscito a convincere il McKinsey Global Institute a collaborare per compiere questa analisi su tutti i principali Paesi del mondo, ma ancora non ho i dati sugli altri Paesi. Quello che mi interessa capire è l’impatto dell’economia globale sulla struttura della nostra economia e le opportunità di lavoro. Dunque, io e il mio collaboratore per questa ricerca abbiamo suddiviso l’economia settore per settore in un comparto “tradeable” (commerciabile), ovvero un comparto dove si possono produrre beni o servizi in un Paese e consumarli in un altro Paese, e un comparto “non tradeable” (non commerciabile) dove tutto deve essere fatto a livello nazionale (slide 26). Vediamo qualche esempio. Il settore manifatturiero si compone per lo più di filiere che per la maggior parte rientrano nella categoria dei tradeable, mentre il settore pubblico, la sanità, l’edilizia, hotel e ristoranti, la vendita al dettaglio sono non tradeable, in quanto queste attività devono essere esercitate dove la gente consuma i rispettivi beni o servizi. Credo che ciò che sto per dire vi scioccherà: gli Stati Uniti, negli ultimi vent’anni, hanno Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 112 gradualmente creato ventisette milioni di posti di lavoro. Tutti, eccetto 600.000, rientravano nel settore non tradeable (slide 27). Pensateci. Questo significa che abbiamo gradualmente creato tutti i nuovi posti di lavoro di cui avevamo bisogno per mantenere il tasso di disoccupazione a un livello ragionevole nei settori in cui non dobbiamo competere. Mentre il settore dove dobbiamo competere e nel quale l’economia globale esercita i propri effetti su tutti noi non ha praticamente registrato alcuna crescita. In questa diapositiva (slide 28) vediamo rappresentata la stessa idea. Viene riportato il totale dei posti di lavoro nell’economia statunitense e potete vedere che il settore tradeable ha iniziato a crescere e poi è nuovamente calato intorno al 2000, quando gli impatti dell’economia globale si sono acuiti. Qui vediamo rappresentato il settore non tradeable (slide 29). Vi mostro questi dati solamente per evidenziare dove ha avuto origine l’aumento dei posti di lavoro. Il più grande datore di lavoro è lo Stato, seguito dal settore sanitario. In termini di contributo incrementale, lo Stato ha generato quattro milioni di posti di lavoro mentre il settore sanitario (so che l’America è un caso relativamente unico, con certe idiosincrasie) ha generato sei milioni di posti di lavoro. Complessivamente, questi due settori hanno creato dieci milioni di posti di lavoro su ventisette milioni, il che rappresenta quasi il 40% dei nuovi posti di lavoro che rientrano in due settori, uno dei quali è chiaramente non market mentre l’altro è quasi-market. In entrambi i settori sussistono forti dubbi in merito alla capacità di assorbire ulteriore forza lavoro. I successivi settori nella graduatoria sono quelli che ho citato prima: vendite al dettaglio (in crescita), hotel e ristorazione (in crescita, ma con un appiattimento del trend nel periodo della crisi) e l’edilizia (in crescita ragionevole ma con battute d’arresto dovute alla crisi del mercato immobiliare). Qual è la situazione del settore tradeable (slide 30)? È qui che si trova per lo più il settore manifatturiero, come pure tutta una serie di servizi importanti. Qui notiamo due fenomeni: alcuni settori stanno crescendo, mentre altri calano. Il settore manifatturiero si divide in tre categorie. La manifattura III comprende il settore automobilistico, aerospaziale, etc. ma non ho tempo per definirli nel dettaglio. Tuttavia, guardando questi dati noterete che il settore manifatturiero sta decisamente calando, mentre alcuni tra i principali settori dei servizi stanno crescendo, soprattutto quelli che operano nella gestione delle multinazionali: finanza (fino a quando non è scoppiata la crisi), informatica, ingegneria. Questa è una panoramica di tutto il settore manifatturiero III in relazione alla creazione e alla distruzione di posti di lavoro (slide 31). Possiamo notare forti cali nell’elettronica e nel comparto aerospaziale. Potreste dedicare ore ad analizzare questi dati, ma di certo non avete tempo di farlo questa mattina. Se esaminiamo il valore aggiunto, il quadro cambia (slide 32). Il valore aggiunto è dato dalle vendite delle aziende, delle industrie o altro, dedotti gli input acquistati. Dunque, il valore aggiunto è ciò che la manodopera e il capitale aggiungono agli input acquistati per creare valore con l’output finale. Il valore aggiunto del settore tradeable è sostanzialmente cresciuto in modo un po’ più rapido rispetto al valore aggiunto del settore non tradeable (slide 33). In questo grafico (slide 34) è rappresentata la variazione nel tempo. Esaminiamo il valore aggiunto per persona impiegata, che è molto simile al reddito; non è esattamente lo stesso perché le industrie fanno cose diverse in termini di intensità di capitale, ma quantomeno nei settori che presentano un contenuto di capitale umano elevato, quali i servizi etc., i due fattori sono strettamente correlati. Il valore aggiunto per persona impiegata è aumentato molto rapidamente e poi è schizzato alle stelle nell’ultimo decennio nell’economia americana. Il valore aggiunto per persona impiegata nel settore non tradeable si è trascinato invariato con un tasso di crescita ampiamente al di sotto dell’1%, pari a circa mezzo punto percentuale all’anno. Quindi, cosa sta succedendo (slide 35 E 36)? Quello che sta succedendo è che l’economia globale sta entrando in queste catene di valore aggiunto e si aggiudica sempre più lavoro nelle porzioni più Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 113 basse del valore aggiunto per persona impiegata, per motivi di concorrenza. La parte alta del settore tradeable va bene, è competitiva e chi riesce a trovare un lavoro in quell’ambito gode di un aumento del reddito. Tutte le altre persone non impiegate nel settore tradeable sono riuscite, almeno in questo periodo di tempo, a trovare un impiego nel settore non tradeable, dove il valore aggiunto per persona impiegata e il reddito non aumentano velocemente. La mia conclusione alla luce di tutto questo è che per motivi strutturali è veramente difficile pensare a cambiamenti nella politica. C’è un problema di lavoro o di distribuzione o una qualche combinazione dei due fattori. Se mi inviterete un’altra volta vi racconterò come questi elementi si presentano in tutte le diverse economie. A ogni modo, penso che questo non sia un problema che interessi unicamente gli Stati Uniti, anche se ritengo che nelle diverse economie vi siano notevoli differenze in queste dimensioni. Grazie della pazienza e dell’ascolto. GIOVANNI FLORIS Giornalista e conduttore di Ballarò (Rai3) Buongiorno a tutti. Approfitteremo di questa lezione del prof. Spence per stringere il focus sulla situazione europea e in particolare italiana, cercando di spiegarci, in questa analisi della crisi e del dopo crisi, quali sono i problemi che ci coinvolgono più da vicino. Prima parlavo con il prof. Spence e cercavo di spiegargli la sensazione che si ha in Italia: non so se vi ricordate la storia dei dieci piccoli indiani, che ne cade sempre uno e il pericolo si avvicina sempre di più. Noi abbiamo iniziato la nostra crisi con tutti gli esperti che ci raccontavano che nei Pigs noi non c’eravamo, perché sarebbe toccata prima alla Grecia e all’Irlanda, come è accaduto, e ora sembrerebbe debba toccare a Portogallo e Spagna, che tremano. Allora, iniziamo da questi due Paesi e da quanto questa frattura si può avvicinare all’Italia. MICHAEL SPENCE A mio parere, il Portogallo ha una serie di problematiche importanti e molte richiedono un intervento di salvataggio. La Spagna penso che rappresenti una questione aperta, ma indubbiamente ha una serie di disequilibri piuttosto gravi associati al crollo del settore immobiliare, del mercato del lavoro e dell’edilizia che potrebbero richiedere un aiuto. Penso che l’Italia si trovi in una situazione molto diversa. Infatti, mentre il debito pubblico italiano è elevato, il debito del settore privato è molto basso e il tasso di risparmio italiano, soprattutto quello delle famiglie, è incredibilmente elevato. In questo senso l’Italia assomiglia più a un Paese asiatico. Quindi c’è un’enorme resilienza nel settore privato italiano, nel settore delle famiglie e in gran parte del mondo delle imprese private. Quindi non penso che l’Italia sia in una situazione di disequilibrio. Dunque, dove sta il vero rischio? Se dovessi scegliere un fattore, direi la perdita di fiducia nell’Euro in generale per l’incapacità di stabilizzare questi altri Paesi, l’aumento del costo del servizio del debito in Italia e in ultima analisi il peggioramento della situazione fiscale nel settore pubblico, che obbliga a introdurre tagli e altre misure per ripristinare un equilibrio. Mi sembra che questo sia il principale rischio per l’Italia. GIOVANNI FLORIS Quindi, se capisco, la situazione italiana strutturale è più portata ad assorbire pericoli da fuori che non da dentro? Cioè se la perdita di fiducia nell’Euro in ogni caso dovremmo Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 114 importarla, allo stesso modo, l’aumento del rendimento dei titoli di stato è una sorta di paura che ci può venire. C’è però un problema: il fatto che il debito sia per la maggior parte privato, che sia nostro, degli italiani, non ci mette invece in una condizione difficile rispetto agli altri, perché ce la dovremmo cavare da soli? Nel momento in cui l’Irlanda entra in crisi, i tedeschi hanno paura perché là ci sono i loro soldi. Se entra in crisi l’Italia è un problema solo nostro? MICHAEL SPENCE No, non penso che sia così. A un certo punto l’Europa, collettivamente, dovrà decidere se vuole o meno stabilizzare l’Euro e andare avanti su quella strada. Questo significa sostanzialmente gestire l’instabilità ovunque essa si manifesti. Forse sono troppo di parte per quanto riguarda la situazione italiana, ma ritengo che se ci fosse un problema qui, dato che l’Italia è un Paese di importanza sistemica in Europa, dovrebbe essere affrontato in termini di accesso ai finanziamenti o a qualunque cosa sia necessaria. Voglio dire, non si può avere un Euro forte se un Paese importante incappa in problemi e viene lasciato a se stesso, perché una simile situazione distruggerebbe la fiducia nell’Euro. L’Euro verrebbe visto semplicemente come una moneta comune, nel senso che tutti gli europei usano la stessa valuta, ma ciò non significa che si possa prendere a prestito agli stessi tassi. GIOVANNI FLORIS Diceva del problema fiscale: potremmo trovarci nella condizione di dover fare altri interventi o di riduzione della spesa o di aumento della fiscalità. Questa è la condizione reale in cui ci troviamo? Perché Lei sa che il nostro dibattito politico invece si sviluppa sul fronte della riduzione della tassazione… MICHAEL SPENCE Vero. Questo è un problema piuttosto comune. Ci sono due cose in competizione in Italia e in altri Paesi. Queste due cose sono il ripristino dell’equilibrio fiscale e la crescita. Ripristinare l’equilibrio fiscale è chiaro e ha a che vedere con il deficit e lo si può ridurre aumentando le imposte o tagliando le spese. In ogni Paese la gente ha opinioni diverse in merito a quale sia la strada migliore da seguire. Tuttavia entrambe le soluzioni hanno implicazioni sulla crescita. Una riduzione della fiscalità potrebbe essere un intervento favorevole alla crescita, ma d’altro canto se non si fanno investimenti in capitale umano, tecnologia e altre cose che rappresentano le fondamenta del funzionamento di un Paese, o di un’economia innovativa, si può comunque danneggiare la crescita. Quindi, decidere non solo come gestire il deficit, ma anche come affrontare le spese e gli investimenti da un lato e i ricavi dall’altro è un elemento importantissimo del dibattito. E non esiste una formula valida per tutti perché probabilmente varia in tutta una serie di Paesi, ma la cosa che a mio parere è estremamente importante in qualunque Paese è che se c’è un problema fiscale, se c’è un modo per generare una crescita significativa e incrementale - e credo che le proiezioni di crescita per l’Italia per i prossimi anni siano di circa mezzo punto percentuale o forse poco più - ebbene se si riesce a generare una crescita, questa è la soluzione migliore a lungo termine per il problema fiscale. Quindi, a mio parere, la soluzione appropriata consiste nell’accertare che gli interventi mirati alla crescita previsti in agenda non vengano compromessi a favore degli interventi fiscali. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 115 GIOVANNI FLORIS Qual è, dal suo punto di vista, in Italia la chiave per rilanciare la crescita? Lei sa che in questo momento c’è un forte e sentito dibattito sul costo del lavoro per quel che riguarda il caso Fiat, ma questo lo lascerei da parte per chiederglielo successivamente. Visti da fuori, qual è il grande freno alla crescita italiana? MICHAEL SPENCE Non credo che ci sia un unico freno importante alla crescita. Per quanto riguarda la strategia di crescita, io riterrei opportuno prevedere un approccio a più pilastri che includa investimenti in ricerca (inclusi dei contributi pubblici alla ricerca) e tecnologia, investimenti in capitale umano per garantire che il sistema scolastico produca una forza lavoro altamente istruita. Penso che parte della crescita derivi dall’evoluzione strutturale dell’economia. Inoltre, numerose aziende di medie dimensioni, che sono tanto diffuse in Italia, vanno molto bene e stanno diventando più efficienti a livello globale. Probabilmente questo vale anche per le cooperative che si trovano nella stessa curva di apprendimento. Quindi a mio avviso ci sono diverse cose che si possono fare per promuovere la crescita. La Germania nello scorso decennio ha attraversato un’importante ristrutturazione in collaborazione con i sindacati. È stato difficile, ma i tedeschi hanno sostenuto la loro capacità di impiego e la loro competitività globale. Uno dei prezzi che hanno pagato per questo è stato un aumento salariale relativamente ridotto nel corso dell’ultimo decennio. Sarebbe bello poterlo evitare ma non sono certo che sia possibile. La risposta sincera a questa domanda è che nessuno di noi sa quale sia la risposta, quindi non possiamo che imbarcarci in questo viaggio e provare tutto quello che ci viene in mente, a condizione che abbia un senso. GIOVANNI FLORIS Consolante. Lei prevede che gli interventi che ha menzionato - la ricerca, lo sviluppo, gli investimenti - nell’eventualità che si riesca a farli, abbiano un effetto immediato o un effetto a medio-lungo termine che ridia però fiducia a una popolazione evidentemente stressata dal punto di vista dell’economia? Le faccio un esempio. Quando in una famiglia ci sono figli che non trovano lavoro, un padre che rischia di perderlo, una madre che non può contare su un’assistenza sociale e deve rivolgersi ai parenti più stretti, questo può essere un elemento magari sottovalutato in Italia, ma molto importante nella crisi della crescita del nostro Paese? MICHAEL SPENCE Certo. Il concetto che volevo far passare quando ho descritto la situazione americana è che a mio parere c’è un problema strutturale e temo che sia così anche in Italia. Per risolverlo sono necessarie diverse misure che producano un cambiamento strutturale. Per rispondere alla sua domanda, non si tratta di una soluzione a breve termine. Quando non ci sono sufficienti opportunità di lavoro, ad esempio per i giovani, l’ultima cosa da fare, in qualunque Paese, è perdere una generazione di giovani perché non riescono a trovare un lavoro per i primi quattro, cinque, sei o sette anni. Dobbiamo quindi tentare di fare in modo che non vengano esclusi dal mercato del lavoro e poi dobbiamo Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 116 proteggere il resto della popolazione con il reddito e con l’accesso ai servizi di base. Penso che qualunque società umana egualitaria seguirebbe un simile approccio, ma a questa situazione non c’è una soluzione a breve termine, a mio avviso. GIOVANNI FLORIS Siamo al punto più discusso in Italia in questi giorni. Nella bassa produttività italiana, qual è il peso che ha il costo del lavoro? Lei sa che adesso la Fiat a Mirafiori, e in particolare a Pomigliano, sta cercando di affrontare il discorso della produttività non solo con un maggiore impiego della forza lavoro, ma anche con un minore costo. Quanto il costo del lavoro costituisce il freno nella crescita del nostro Paese e, se conosce il caso Fiat, che opinione se ne è fatto? MICHAEL SPENCE Innanzitutto la Fiat ha fatto molto bene. Ha operato un’inversione di tendenza notevole. Qui non stiamo parlando di un’azienda in crisi, è il contrario. Si sono divisi in due e acquisiranno Chrysler. Si tratta di un successo industriale enorme. Ritengo che Marchionne stia posizionando la società in modo tale da poter operare nell’economia globale in futuro. Non so se voglia liberarsi dei sindacati o meno, non ho parlato con lui, ma ciò di cui lui ha bisogno, come qualunque altro leader di azienda o società multinazionale, è trovare un buon partner nei lavoratori, un partner che abbia intenzione di adattarsi e di essere flessibile senza fare il tappetino o rinunciare ai propri diritti o interessi. È necessario essere flessibili, questo mondo è in continuo cambiamento e richiede la capacità di adattarsi. I leader industriali ostacolati dai sindacati si trovano spesso bloccati per l’impossibilità di incontrarsi e parlare dei cambiamenti che è necessario attuare. In questo senso penso che i sindacati abbiano agito diversamente. Prevedo un futuro roseo per Fiat e penso che alla fine i sindacati diventeranno partner flessibili a supporto dell’azienda. In Germania - continuo a fare riferimento alla Germania perché è andata contro corrente in tutti questi ambiti, ha un surplus, è competitiva nella produzione di macchine industriali ed è concorrenziale in tutta l’economia globale - l’accordo raggiunto con i sindacati prevede l’eventualità che i salari non crescano molto e la necessità di essere flessibili, ma l’intenzione è quella di mantenere i posti di lavoro e impedire all’intero settore di scomparire. Probabilmente non è male come accordo, date le circostanze. GIOVANNI FLORIS Quindi Lei dice che i sindacati che hanno sostenuto l’accordo hanno preso la strada giusta, non quelli che si oppongono all’accordo… MICHAEL SPENCE Non conosco abbastanza bene i contenuti di questo accordo, ma normalmente l’alternativa è quella di perdere posti di lavoro. Giusto? Se questa è l’alternativa… E questo è coerente con tutto quello che sappiamo sull’economia globale. Allora direi che la mia risposta è affermativa: hanno ragione quelli che hanno sottoscritto l’accordo. Ci Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 117 sono accordi migliori e accordi peggiori ma dovrei studiarlo nel dettaglio. Però mantenere i posti di lavoro rappresenta una priorità molto importante. GIOVANNI FLORIS Però a naso, se l’alternativa è perdere il lavoro conviene firmare. Senta, ci può suggerire delle riforme a costo zero in Italia? Perché penso che possiamo fare solo quelle, per cui se ci dà una lista… MICHAEL SPENCE È una lista molto corta e ve l’ho appena data. Quando si arriva a una situazione come questa - e questo vale anche per l’America dove vivo per parte del mio tempo quando non vivo qui in Italia, e vale anche per una serie di altri Paesi, compresi quelli in via di sviluppo - se si deve investire si devono fare sacrifici. Non c’è altro modo. In diversi Paesi è necessario rimettere in equilibrio i budget e poi rivolgersi alla popolazione e dire: “siamo in una situazione in cui è probabile che i nostri figli e i nostri nipoti avranno meno possibilità di quelle che abbiamo avuto noi e abbiamo un’unica via di uscita, ovvero iniziare a investire su di loro e su ciò che li potrà aiutare e dobbiamo farlo ora”. Questo va tenuto distinto da questioni ideologiche e di budget o altro e bisogna dire: “tutto questo va fatto per i prossimi cinque/dieci anni”. La maggior parte delle persone ha molto a cuore il futuro dei propri figli e nipoti e se la questione viene messa in questi termini la risposta sarà: “bene. Dobbiamo fare sacrifici in termini di consumi e stile di vita e dobbiamo farli ora per raggiungere quell’obiettivo”. Spero che in Italia e in America e in altri Paesi si faccia proprio questo. Non sono certo che lo faremo ma ritengo che questa sia la risposta da dare. In un Paese in via di sviluppo, dove il reddito pro capite è di cinquecento dollari… Intendo dire, noi ce ne stiamo qui e per noi loro non sono altro che numeri. Ma immaginatevi di dover vivere con cinquecento o settecento dollari e duecento di quel reddito se ne vanno in investimenti sul futuro e dunque non possono essere spesi nel presente. Vi rimangono trecento dollari. Insomma, i sacrifici fatti per sostenere questa crescita elevata sono enormi. Quindi se possono farli loro, possiamo farli anche noi. GIOVANNI FLORIS Assolutamente. Professore, un’ultima domanda. Nella sua esperienza ha mai visto un Paese, centralizzato dal punto di vista fiscale, diventare federale? O ha sempre visto tanti Paesi che per unirsi usavano il federalismo? Il federalismo in Italia è usato al contrario: vi sono tutte le regioni unite, centralizzate, che si sviluppano verso il federalismo. Nel Dollaro mi pare ci sia scritto “dai tanti, uno solo”, noi stiamo diventando, da uno solo, tanti. Come la vede? MICHAEL SPENCE Penso che possiate decentralizzare a livello fiscale, ma è fondamentale che abbiate delle regole sulle aree da decentralizzare. Per esempio, l’America è decentralizzata a livello fiscale e agli Stati non è sostanzialmente consentito andare in deficit, se non per brevissimi periodi di tempo. È l’equivalente delle regole di Maastricht, solo che sono Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 118 molto più severe. Ad esempio, la California ha lo stesso problema della Spagna: pensavamo di essere in equilibrio, di avere un surplus ma è emerso che la nostra economia è compromessa, c’era una bolla e quando la bolla è scoppiata tutti i ricavi sono scomparsi e ora abbiamo un deficit enorme, proprio come gli spagnoli. Quindi avere una norma che richieda un livello di deficit zero non sempre aiuta a superare una crisi. A volte è necessario l’intervento del potere centrale per superare i problemi. Tuttavia, si possono avere entrambe le cose, a condizione che non si allenti la disciplina fiscale. GIOVANNI FLORIS Per chiudere professore, se potesse scegliere oggi preferirebbe essere americano, cinese, italiano o spagnolo? MICHAEL SPENCE Non so come suddividermi…mia moglie è italiana… Ma sono felicissimo di essere un po’ americano e un po’ italiano. Il motivo è che a mio parere quello che sta succedendo nell’economia globale è entusiasmante e io e altre persone abbiamo accesso a tutto questo. Il trucco è fare in modo che tutti i nostri concittadini abbiano l’opportunità di essere produttivi e creativi. Al momento temo che questa serie di opportunità sia disponibile solo a una minoranza di noi, una élite, poche persone che operano nel settore finanziario o lavorano per le multinazionali. Essere un giovane cinese oggi è molto entusiasmante, è inconfutabile, ma non credo che farei cambio con un cinese. GIOVANNI FLORIS Grazie al prof. Spence, grazie a tutti voi. La parola al presidente Poletti. GIULIANO POLETTI Adesso ci salutiamo, perché abbiamo approfittato molto della vostra pazienza e del vostro tempo. Questo era l’antipasto, nel senso che abbiamo cominciato con le giornate dell’economia cooperativa il percorso per il nostro Congresso. Ad aprile ci sarà questo passaggio importante, che collega, peraltro, due eventi: i centocinquant’anni dell’Unità nel nostro Paese e i centoventicinque anni della costituzione della Lega delle Cooperative. È un passaggio che vogliamo rappresentare anche nel simbolo del Congresso che adesso vedrete: abbiamo scelto, un po’ forse inconsapevolmente e un po’ provocatoriamente, un termine che è “Cooperativa Italia” e ci siamo sentiti di dire che se ci può essere “Fabbrica Italia” perché non ci può essere “Cooperativa Italia”? Noi siamo un pezzo della storia e dell’economia di questo Paese, pensiamo che la forma cooperativa sia una forma di impresa in armonia con il futuro, che cerca di trovare una risposta ai problemi che abbiamo discusso in questi giorni. Allora, con quel po’ di orgoglio che è necessario e con tutto l’impegno che sappiamo essere necessario per fare questa strada, abbiamo scelto questo passaggio. Questo passaggio, tra l’altro, viene intercalato da un altro evento molto importante: il 27 gennaio a Roma costituiremo l’Alleanza delle Cooperative italiane. Mettiamo insieme Legacoop, Confcooperative e AGCI in un coordinamento stabile della nostra funzione di rappresentanza. Quindi, Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 119 pensiamo il futuro come Cooperativa Italia, come Lega delle Cooperative, ma lo pensiamo all’interno di un lavoro comune con tutte le altre centrali cooperative e questo per noi è il punto di collegamento con l’idea di una Italia cooperativa, cioè del fatto che nel nostro Paese non c’è solo bisogno, e probabilmente l’opportunità, di avere più cooperative, ma che più in generale c’è bisogno di una Italia che coopera al proprio interno tra la politica, le istituzioni, le organizzazioni di impresa, il lavoro. Io credo che questa Italia oggi sia troppo piena di contrasti, di conflitti, di incapacità di comunicare; in troppi sono convinti che nel conflitto e nell’isolamento ci sia la loro forza. Noi siamo convinti che questa invece è la debolezza complessiva. Allora, se si deve combattere la debolezza globale, per cercare di far fronte ai problemi che abbiamo, noi siamo le cooperative italiane, cerchiamo di usare questo strumento al fine di dare una mano al futuro di questo Paese. Quindi usiamo bene la parola futuro e cerchiamo di innescarla nella parola fiducia, che ci pare essere la benzina necessaria per ripartire. Ringraziamo tutti i nostri ospiti, tutte le persone che hanno lavorato per la buona riuscita di queste due giornate. L’appuntamento, appunto, è a Cooperativa Italia, al Congresso Nazionale di Legacoop. Le giornate dell’economia cooperativa – Atti | pag. 120