Università degli Studi di Pisa Facoltà di Lettere e filosofia Corso di laurea in Filosofia Tesi di Laurea La Teoria della formatività di Luigi Pareyson Il Relatore Prof. Leonardo Amoroso Il Candidato Innocenzo Sergio Genovesi Anno Accademico 2011/2012 2 Indice Pareyson nell’estetica e nella filosofia del ‘900 - Pareyson e la filosofia dello spirito p. 3 p. 3 - Pareyson e l’esistenzialismo p. 7 - Pareyson e l’ermeneutica p. 10 Forma e formatività p. 14 Produzione e interpretazione p. 20 Aspetti problematici p. 33 L’arte e la verità p. 33 - - Congenialità o fusione di orizzonti? p. 37 - Libertà e necessità p. 41 Conclusione p. 46 Bibliografia p. 50 3 Pareyson nell’estetica e nella filosofia del ‘900 Pareyson e la filosofia dello spirito La prima metà del ‘900 vede come filosofie estetiche dominanti in Italia quelle idealiste di Croce e Gentile1. Contemporaneamente a queste hanno trovato sviluppo anche altre teorie a loro alternative, per cui non si può parlare di un predominio assoluto dell’idealismo, tuttavia queste altre teorie consistono per lo più in manifesti programmatici, e quindi non vere e proprie estetiche, o in voci che non hanno avuto particolare risonanza, così da restare riflessioni isolate2. Considerando inoltre che l’estetica gentiliana uscirà rapidamente di campo per la sua scarsa applicabilità in concreto ad opera dei critici e per la sua precipua teoricità filosofica, l’orizzonte che si viene a profilare nel quindicennio che va dal ’45 al ‘60 sarà quello di un “dopo-Croce”. Diverse questioni crociane vennero riprese e affrontate, onde cercare la possibilità di differenti soluzioni3. Anzitutto, tra i problemi tematizzati da Croce vi è quello del carattere puramente conoscitivo dell’arte, assieme al suo corollario della declassazione a meri fatti empirici ed accessori della tecnica artistica e della diversità delle arti e dei generi. Nel dopoguerra la tendenza dell’estetica sarà l’avversione al teoreticismo, nell’intento di indagare piuttosto la concezione di 1 Le principali opere di estetica di Benedetto Croce sono Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902); Breviario di estetica (1912); Nuovi saggi di estetica (1920); Aesthetica in nuce (1928). Di Giovanni Gentile è invece La filosofia dell’arte (1931). 2 Tra le voci non riconducibili all’idealismo, per il pensiero o per le tematiche trattate, possiamo annoverare le riflessioni pirandelliane sull’umorismo (L’umorismo, 1908), i manifesti programmatici futuristi, lo scetticismo estetico di Giuseppe Rensi (La scepsi estetica, 1920; Paradossi di estetica, 1937), l’opera di Giuseppe Antonio Borghese (Poetica dell’unità, 1937), di Adelchi Baratono (Il pensiero come attività estetica, 1926; Il mondo sensibile, introduzione all’estetica, 1934; Arte e Poesia, 1945) e di Antonio Banfi (Vita dell’arte. Scritti di estetica e filosofia dell’arte, 1940). 3 Cfr. Paolo D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento, Laterza, Bari, 1997, pp. 173-176. 4 un’arte intesa come fare e di recuperare le nozioni legate al carattere pratico dell’arte. Si penserà al fenomeno artistico non solo stando dalla parte del fruitore, ma anche considerando il punto di vista del produttore. Queste tendenze portano così alla necessità sia di una migliore articolazione della concezione crociana dell’identità di intuizione ed espressione, sia di uno spostamento dalla sua estetica di un’opera fatta e riuscita ad un’estetica dell’opera in fieri. Infine vi è insofferenza verso la concezione della critica vista come caratterizzazione del sentimento dell’artista4, dal cui fare artistico Croce esclude l’espressione intellettuale e prevede solo quella sentimentale, e nei confronti della concezione monadologica della storia letteraria, che verrà avversata con la ricerca di un legame organico tra lo sfondo storico-sociale e l’opera artistica. Luigi Pareyson si inserisce con la sua estetica in questo orizzonte postcrociano. Come afferma lui stesso, la sua intenzione non è di andare deliberatamente contro la filosofia dello spirito, “ma di penetrare, nel suo significato e nelle sue suggestioni, la teoria di colui (Croce) che così notevoli impulsi ha dato agli studi estetici e alla cui scuola ideale tutti ci siamo formati”5. Ripartendo dalla grande tesi crociana dell’identità di intuizione ed espressione, Pareyson mette in discussione il fatto che l’intuizione da sé possa essere già arte. Sicuramente essa ha carattere estetico, poiché è sia espressiva che figurativa, ma attribuirle carattere artistico porterebbe a perdere una nozione di specificazione dell’arte: espressività e figuratività sono caratteri che ineriscono ad ogni operare umano, e così si giungerebbe al risultato di affermare che tutta la vita spirituale sia di per sé arte. Senza l’intuizione ed il suo carattere estetico l’arte non potrebbe 4 Per Croce il critico è philosophus additus artifici, ed è nel suo giudizio che viene riconosciuto se si è di fronte ad un’opera d’arte oppure no. Cfr. op. cit., p. 43. 5 Luigi Pareyson, Teoria dell’arte, Marzorati, Milano, 1965, p. 13. 5 nascere, ma essa trova un’ulteriore specificazione nel fatto di essere frutto di lavoro e produzione6. In ciò possiamo vedere una prima differenza tra Croce e Pareyson: mentre il primo propone una filosofia dell’opera, e quindi una filosofia del riuscire e del trovare, il secondo sostiene una filosofia della persona, ovvero del tentare e del cercare7. Nella filosofia dello spirito, infatti, arte e persona sono considerati eterogenei, a meno che per persona non si intenda la personalità dell’artista che si riduce totalmente nell’opera. “La filosofia dello spirito rammenta che il pensiero storico non conosce nulla che non si esaurisca integralmente nell’opera, e quando si voglia approfondire la «vicenda di quell’inesistente essere nostro fuori dell’opera nostra», non si rinviene altro «se non la comune, la generica umanità»”8. La filosofia dello spirito, pur tenendo ben distinti i concetti di arte e persona, li colloca nell’unità dello spirito. Così, se da una parte si insiste sulla distinzione delle forme, dall’altra si ribadisce il concetto di unità dello spirito, che si specifica nella circolarità del processo dialettico. Questo consiste nel divenire che trapassa di forma in forma, non concludendosi in nessuna di esse ma affermandone la necessaria apertura e continuità. Pareyson dal canto suo nota che è proprio il concetto di persona che offre la rappresentazione di questa totalità diveniente che impedisce la disgregazione e 6 Cfr. op. cit., pp. 31-55. Nella filosofia di Pareyson il concetto di persona è di grande importanza sia nella riflessione estetica che in quella ermeneutica ed ontologica. “Presupposto e insieme risultato della riflessione pareysoniana è l'affermazione del concetto di persona che, costitutivamente, si trova in rapporto con l'essere: sia come rivelazione della verità in rapporto al pensiero speculativo, sia come decisione per l'essere in rapporto all'azione pratica. […]La persona, pur essendo un determinato punto di vista sulla realtà, rappresenta un'apertura sulla verità, ossia è in grado di pervenire e di formulare enunciati di validità universale” (Coppolino, Estetica ed ermeneutica di Luigi Pareyson, Cadmo, Roma, 1976, facilmente reperibile su internet al link: http://store.torrossa.it/pages/ipplatform/itemDetails.faces). Cfr. anche Luigi Pareyson, Esistenza e persona, Taylor Torino editore, Cuneo, 1966. 8 Pareyson, Teoria dell’arte, cit., pp. 10-11. 7 6 l’isolamento delle forme, e che in questo senso l’unità dello spirito assume concretezza vivente nella persona. Questa infine può dirsi tale solo se si afferma in una decisione morale e nella dedizione ad un compito. L’arte ha in sé un carattere morale: essa deve essere scelta dall’artista come compito a cui dedicare la vita. Così risulta riconnettersi al processo con cui una persona si costituisce, e salta agli occhi evidentemente che ci sia un legame tra arte e persona. In questo modo Pareyson, pur partendo dalla scuola della filosofia dello spirito, sviluppando le sue tematiche nel senso appena esposto riesce a porsi in una prospettiva diversa. La persona è vista sia come soggetto che come oggetto dell’arte: in quanto oggetto si concentra, si esprime e si risolve tutta intera nell’opera; in quanto soggetto non si esaurisce nell’opera, ma la muove, la pone in essere e si afferma nel porla9. Dunque nella riflessione estetica di Pareyson l’arte, pur mantenendo un legame essenziale col carattere teoretico affermato da Croce, è riportata verso il fare. L’essersi concentrati troppo sul carattere conoscitivo aveva infatti distolto l’attenzione dall’aspetto essenziale dell’esecuzione e della realizzazione dell’opera. Badando invece a questi aspetti non è possibile non procedere in un’altra differenziazione rispetto a Croce: viene rivendicata l’assoluta centralità della materia nel processo artistico, indispensabile perché l’esercizio della formatività deve avvenire su qualcosa. In virtù di questa cosa si rivela inadeguata anche l’idea crociana che l’invenzione preceda in tutto l’esecuzione, considerata quasi superflua, e che la forma sia precedente all’operare10. Infine si potrà notare che la spiritualità che può entrare nell’arte non viene ridotta al solo sentimento 9 Cfr. op. cit., pp. 9-30. Per l’esposizione delle tesi sul rapporto tra invenzione ed esecuzione di fronte a cui si trova Pareyson nel momento in cui introduce il suo discorso estetico cfr. Idem, Estetica, Teoria della Formatività, Bompiani, Milano, 1988 (edizione originale 1954), pp. 72-73. 10 7 come faceva Croce: nel processo formativo trovano spazio anche le componenti intellettuali dell’artista11. Pareyson e l’esistenzialismo Come si sarà evinto dal paragrafo precedente, Pareyson era interessato a correnti di pensiero alternative rispetto a quelle idealiste e in generale di ripensamento della filosofia hegeliana che andavano in voga nella prima metà del ‘900 in Italia. Per questo motivo nei suoi studi giovanili ha dedicato molta attenzione all’esistenzialismo tedesco e a quello che egli riteneva essere il padre di questo movimento: Søren Kierkegaard12. Pareyson vedeva questo pensatore come uno dei dissolutori dell’hegelismo e degli iniziatori del pensiero contemporaneo. Hegel, con il suo metodo dialettico, sosteneva l’identità di reale e razionale e l’annullamento del finito nell’infinito: tutto il reale nella sua finitezza è compreso come momento nel processo dell’Assoluto, il quale è all’origine della sua negatività, così che il finito si pone come negatività da negare dialetticamente per fare in modo che l’Assoluto sia. Kierkegaard ha condotto un’aperta polemica con queste concezioni. Egli critica alla filosofia di Hegel di curarsi soltanto dell’essenza e non dell’esistenza (da considerarsi nel suo significato etimologico di ex-sistere, stare fuori). L’essenza è astratta, universale e propria del pensiero, l’esistenza è concreta, individuale e propria del reale; non vi è identità tra loro, ma profonda differenza. A dispetto della filosofia dello spirito egli sostiene che 11 Sul rapporto tra l’estetica di Croce e quella di Pareyson cfr. D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento, cit., pp. 194-203. 12 Per gli elementi del pensiero di Kierkegaard di cui parlerò in questa sede cfr. Søren Kierkegaard, Papirer (1834-1855), tr. di Cornelio Fabro: Diario, Rizzoli, Milano, 1995; Idem, Sygdommen til döden (1849), tr. di Meta Corssen: La malattia mortale, Mondadori, Milano, 1990; Idem, Om Begrebet Angest (1844), tr. di Cornelio Fabro: Il concetto dell’angoscia, Sansoni, Milano, 1966. Per gli studi di Pareyson su Kierkegaard e sull’esistenzialismo cfr. Luigi Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Sansoni, Firenze 1943; Idem, Kierkegaard e Pascal, a cura di Sergio Givone, Mursia Editore, Milano 1998. 8 l’esistenza non sia posta dal pensiero insieme all’essenza delle cose, ma che sia data indipendentemente dall’attività speculativa dell’uomo: il pensiero può riflettere su di essa, ma non determinarla e porla in atto. Visto che ad esistere sono i singoli e non i concetti universali, che sono solo entità logiche, Kierkegaard consegue da ciò il primato della soggettività. Secondo lui è impossibile porsi dal punto di vista dell’Assoluto, come voleva fare Hegel, perché l’uomo, in quanto singolo, non esce mai dalla propria soggettività. Il pensiero, nella sua astrattezza e universalità, non riesce mai a comprendere la singolarità del reale. La verità è sempre soggettività: il singolo è il nostro uno spazio di accesso al vero. Infine, sempre in polemica con l’hegelismo, per Kierkegaard l’esistenza può cogliere l’identità tra temporalità ed eternità solo in maniera paradossale. Dio (l’eterno) è totalmente altro rispetto all’uomo (il finito), e si può avere identità tra loro solo attraverso un riassorbimento in Dio della negatività della finitezza. Ma in questo modo non si ha un’identità, si ha piuttosto la negazione e l’annullamento di uno nell’altro. Come ho detto sopra, secondo Pareyson si può considerare questo pensatore come il padre dell’esistenzialismo tedesco. Egli vede la filosofia dell’esistenza tedesca primonovecentesca come una Kierkegaard-Renaissance. Infatti, pur contenendo la possibilità di un ateismo di matrice feuerbachiana13 che non si concorda bene con la profonda religiosità di Kierkegaard, l’esistenzialismo si rifà in molti aspetti alla linea di pensiero che ho appena presentato: per gli esistenzialisti l’esistenza precede l’essenza e l’uomo in quanto esistenza crea le idee e i valori universali; inoltre si può riscontrare nella considerazione morale 13 Feuerbach, assieme a Kierkegaard, era considerato da Pareyson un dissolutore dell’hegelismo ed un iniziatore della filosofia contemporanea. Feuerbach infatti aveva invertito il sistema hegeliano, sostenendo che solo perché c’è l’uomo sensibile c’è anche il pensiero. 9 dell’individuo delle filosofie kierkegaardiana ed esistenzialiste una grande risonanza delle nozioni di libertà e possibilità, sovente collegate ai concetti angoscia e disperazione in quanto condizioni di origine di questi ultimi. Nello specifico Pareyson si interesserà a come verrà colto dall’esistenzialismo tedesco un particolare concetto kierkegaardiano: quello della coincidenza paradossale, nella singolarità dell’esistenza, di autorelazione ed eterorelazione. Kierkegaard afferma che l’esistenza è un rapporto con sé che è tale solamente in quanto si rapporta ad altro. In altre parole io riesco a comprendermi solamente se mi pongo in relazione con altro, scoprendo la mia differenza dagli altri. L’esistenza singola è autorelazione, ma è autorelazione solo in quanto eterorelazione. Pareyson osserverà che queste considerazioni verranno riprese in senso teocentrico da Barth e in senso umanistico da Heidegger. Il primo infatti farà sbilanciare la coincidenza paradossale di finito e infinito nell’infinito, il secondo nell’infinito. Sarà parso evidente come l’esistenzialismo possa essere stato considerato una vera alternativa all’hegelismo. Nel rapportarsi a queste due correnti di pensiero vi sarà un’idea, comune a entrambi, che Pareyson vorrà superare: quella che l’esistenza, il finito, sia negatività. L’esistenzialismo pareysoniano ha in sé l’esigenza di cogliere l’esistenza singola nella sua positività e ricchezza, ovvero nel suo essere persona. Non per nulla si parlerà di un “esistenzialismo personalistico”. Secondo il filosofo torinese non si può vivere e far filosofia se non partendo dalla propria situazione finita, ovvero dalla propria esistenza, con i suoi limiti culturali, strutturali e situazionali. La situazione di partenza è sempre finitamente collocata: questo è il significato dell’esistenzialismo. Esistenzialismo personalistico significa che l’esistenza singola non deve essere colta nella sua 10 negatività e limitatezza, ma che vadano valorizzati i suoi elementi concernenti l’eticità, la libertà, la moralità, la specificità personale. L’attenzione alla persona deve essere tale da comprendere la sua intrinseca apertura alla trascendenza, ovvero l’esistenziale apertura all’essere dell’esistenza. È importante avere in mente queste considerazioni di base che Pareyson fa sull’esistenza e la persona perché egli svilupperà la sua ontologia dell’inesauribile anche a partire da esse. È nell’interesse nei confronti dell’apertura all’essere della persona che mette le radici il suo pensiero ermeneutico, strettamente legato con quello estetico14. Pareyson e l’ermeneutica Pareyson è stato tra i pionieri dell’ermeneutica filosofica. Se nel pensiero occidentale si può dire che abbia dato a questo movimento dei contributi importanti e originali a livello non solo teorico, ma anche di applicazione (la sua è tra le prime delle estetiche del dopoguerra dove i grandi concetti dell’ermeneutica contemporanea vengono applicati specificamente all’arte), nell’Italia dominata dall’idealismo di Croce e Gentile si potrebbe dire che ne sia stato proprio lui l’inauguratore. Nella prima metà del secolo Heidegger aveva caratterizzato il comprendere come il modo originario di attuarsi dell’esserci, che è essere-nelmondo, ovvero come il modo di essere dell’esserci in quanto poter-essere e possibilità. Egli scoprì il carattere progettuale di ogni comprendere e concepì la comprensione stessa come il movimento della trascendenza, dell’oltrepassamento 14 Sul rapporto tra Pareyson e l’esistenzialismo cfr. Francesco Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, Editrice Morcelliana, Brescia, 2003, pp. 37-45. 11 dell’ente15. Con questa interpretazione trascendentale del comprendere, il problema dell’ermeneutica ha acquistato una portata universale e si è allargato ad una nuova dimensione. Pareyson ha raccolto e rielaborato la lezione heideggeriana, cosa che contemporaneamente a lui ha fatto anche Hans Georg Gadamer. Questi pensatori hanno sviluppato un’ontologia ed un’estetica di carattere ermeneutico ed hanno adoperato i loro sforzi per liberare la relazione “soggetto/oggetto” all’interno dell’esperienza estetica dalla rigida assolutezza in cui era concepita fino a quel momento. Secondo Gadamer tra soggetto ed oggetto vi può essere soltanto un rapporto di interpretazione16. Ciò che viene conosciuto è sempre inserito in una dimensione linguistica (ovviamente intesa latu sensu e non necessariamente come verbale e proposizionale), e il soggetto interpretante deve riuscire ad inserire nel proprio orizzonte linguistico quello dell’opera. Nella comprensione si viene così ad attuare una fusione di orizzonti linguistici. Comprensione è interpretazione, e questa avviene sempre all’interno di un linguaggio. Da qui la famosa affermazione gadameriana: “L’essere che può venir compreso è linguaggio”17. Crolla così la distinzione metafisica tra soggetto ed oggetto. In Pareyson, come abbiamo già visto, la conoscenza va sempre congiunta ad un elemento estetico e l’intuizione è sempre unione di attività e ricettività; l’esperienza risulta così essere un processo ermeneutico. Inoltre al concetto di soggetto è contrapposto il concetto di persona, che è l’essere interpretante che interpreta forme, le quali sono a loro volta inesauribili. Si viene così a creare 15 Cfr. Martin Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. di A. Marini: Essere e Tempo, Mondadori, Milano, 2011, pp. 207-214. 16 Cfr. Hans Georg Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), tr. Di G. Vattimo, Verità e Metodo, Bompiani, Milano, 2010. 17 Op. cit, p. 542. 12 un’ontologia dell’inesauribile che presuppone il rapporto ermeneutico di persona e forma, entrambe entità compiute ma allo stesso tempo aperte ed inesauribili. La Verità stessa, che si identifica con l’Essere, è inesauribile, ed ogni atto ermeneutico appartiene essenzialmente ad essa18. Così entrambi i filosofi considerano come autentica interpretazione sia il processo di formazione che quello di fruizione dell’opera d’arte. Tutti e due vedono le varie interpretazioni possibili non come figurazioni arbitrarie dell’opera, ma come veri e proprio modi di esistenza di essa19. Queste concezioni faranno scuola, e verranno riprese e rielaborate. L’opera di Gadamer sarà d’ispirazione per le estetiche della ricezione sviluppatesi alla fine degli anni ’60, che vedono nel lettore il protagonista di un processo attivo e poietico e che si propongono di guardare alla storia della letteratura e dell’arte come a un processo di comunicazione estetica a cui partecipano in egual misura le istanze di autore, opera e ricettore20. Ugualmente la lezione di Pareyson verrà ripresa (e lo è tutt’ora) da molti studiosi italiani, specie se formatisi alla sua scuola torinese. Tra questi ne cito due: da una parte Umberto Eco, che sviluppa il discorso pareysoniano sull’interpretazione, integrandolo con osservazioni derivanti dalla presenza ormai affermata di nuove poetiche dell’arte visiva, letteraria e musicale contemporanea, per definire il carattere di apertura delle opere, che non sta solo nell’ infinita possibilità d’interpretazione, ma anche nel fatto che l’opera venga 18 Cfr. L. Pareyson, Verità e Interpretazione, Mursia, Milano, 1971. Per un rapporto tra la filosofia di Pareyson e quella di Gadamer cfr. Livio Bottani, Estetica, interpretazione e soggettività. Hans Georg Gadamer e Luigi Pareyson, in “Teoria”, ETS, Pisa, II/1982, pp. 87-113. 20 È evidente in questa concezione il debito verso il concetto di Wirkungsgeschichte elaborato da Gadamer. 19 13 prodotta dall’artista in modo da necessitare una conclusione ed una finitura da parte dell’interprete, il quale così non svolge più un’attività produttiva nel senso solamente ermeneutico del termine, ma anche in quello strettamente poietico21; dall’altra Gianni Vattimo che, riprendendo tematiche care a Pareyson, propone un’interpretazione dell’arte capace di rivendicarne il peculiare e privilegiato rapporto con l’essere e con la verità, intesa nel senso heideggeriano di “evento” fondato al modo di una storicità condizionata, per cui sia proprio lei a mostrare che ogni discorso intorno all’essere deve conservare un carattere mai incline alla sistematica definitività22. In ogni caso sono passati soltanto vent’anni dalla morte di Pareyson, e non è ancora possibile avere da lui e dai suoi lavori un distacco tale da permettere una lucida considerazione storica dell’influenza della sua opera nell’estetica strettamente contemporanea, che poi sarebbe quella del giorno d’oggi. Ritengo però fuori discussione il fatto che la sua teoria estetica abbia un’enorme rilevanza per la filosofia contemporanea, e che sia imprescindibile nel momento in cui si voglia procedere ad intraprendere la riflessione sull’arte23. 21 Cfr. Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962. Cfr. Gianni Vattimo, Poesia e ontologia, Milano, 1985. 23 Per approfondire il discorso sull’ermeneutica nell’estetica del ‘900 cfr. F. Vercellone A. Bertinetto G. Garelli, Lineamenti di storia dell’estetica, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 172-190. 22 14 Forma e formatività L’estetica di Pareyson vede come nozioni fondamentali quelle di forma e formatività, che adesso andremo a delineare. Nello scritto che è oggetto di questa tesi la formatività viene definita come “un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare: produzione ch’è, al tempo stesso e indivisibilmente invenzione”24. Essa è un qualcosa che inerisce in generale all’esperienza, all’attività e alla vita umana; nessuna attività infatti è operare se non è anche formare. È per via di questo carattere formativo della spiritualità umana che l’arte può nascere: L’arte non potrebbe mai sorgere se l’intera vita spirituale già non la preparasse con la sua comune formatività, proprio perciò l’arte ha da esser cercata in una sfera di cui quella formatività riesca ad acquistare un carattere determinato e distinto, con una specificazione propria e un’insopprimibile autonomia 25. Se nelle opere pratiche e speculative il formare, pur essendo costitutivo, è subordinato al fine per cui si adopera, ovvero al pensare e all’agire, nell’opera d’arte, invece, il formare è intenzionale e prevalente: si forma per formare, e il pensiero e l’azione sono subordinati a questo fine specifico. Tuttavia in ogni attività, in quanto formativa, l’arte può intervenire anche se non vi è un intento immediatamente artistico: “la formatività di ogni operazione è sempre in grado di accentuarsi in un’evidenza fine a sé stessa, cioè di invocare la pura formatività dell’arte”26. Ed è infine per questo comune carattere formativo che si può spiegare l’importanza dell’arte: La formatività dell’intera vita umana e la profonda umanità dell’arte sono una duplice garanzia non solo dell’accessibilità dei fatti artistici e della loro 24 Pareyson, Estetica,cit., p.18. Op. cit., p. 21. 26 Op. cit., p. 292. 25 15 possibilità d’esser compresi da ogni uomo, ma anche del posto centrale che l’arte occupa nell’esperienza umana; giacché lo stesso atto con cui essa si specifica la installa al centro della vita spirituale: la fa emergere dalla vita in quanto questa, esercitandola a modo suo, la preannunzia e ne crea l’attesa, e la riimmerge nella vita in quanto questa vi penetra dentro a costituirne l’essenziale umanità 27. Come si potrà evincere da queste osservazioni iniziali, la formatività dona a tutti gli oggetti del suo dominio un carattere dinamico ed operativo. Riguardo la definizione di forma, trovo che sia molto esaustiva quella che Pareyson stesso dà nella prefazione dell’opera: Qui si intende la forma come organismo, vivente di vita propria e dotato di una legalità interna: totalità irripetibile nella sua singolarità, indipendente nella sua autonomia, esemplare nel suo valore, conclusa e aperta insieme nella sua definitezza che racchiude un infinito, perfetta nell’armonia e unità della sua legge di coerenza, intera nell’adeguazione reciproca fra le parti ed il tutto 28. Non desterà sorpresa, viste le considerazioni finora fatte sulla formatività, che per definire cosa sia la forma non si possa astrarre dal processo dal quale viene alla luce. Essa infatti ha un carattere dinamico, e non può non essere vista come conclusiva ed inclusiva allo stesso tempo di un movimento di produzione. Una forma non è un sistema rigido, chiuso e privo di un finalismo interno, né è un’entità concepibile soltanto al livello della fisicità: sono forme non solo le opere, ma anche la persona stessa spirituale. Essendo la persona una forma, le sue opere saranno forme. Esse però vivranno di vita propria, diventando indipendenti 27 28 Op. cit., p. 275. Op. cit., p. 7. 16 dal proprio creatore, e saranno capaci a loro volta di creare forme nuove. Si ha cosi un prodursi dinamico delle forme dalle forme29. Per comprendere a pieno il significato del concetto di forma vanno introdotte altre tre nozioni molto importanti nella teoria della formatività: quelle di stile, contenuto e materia. Lo stile altro non è che il modo di formare di un determinato artista. Questo cambia da autore ad autore, ma anche da epoca ed epoca, perché dipende direttamente dalla spiritualità dell’artista. Fra la spiritualità dell’artista e il suo modo di formare vi è un vincolo così stretto e una corrispondenza così precisa, che l’uno dei due termini non può essere senza l’altro, e variare l’uno significa necessariamente anche variare l’altro 30. La dipendenza dello stile dai contesti storici, geografici e dalle scuole risulterà poi facilmente spiegabile se si pensa al fatto che la spiritualità dei singoli artisti si forma all’interno di questi contesti, al cambiare dei quali cambiano il senso comune, la percezione delle cose ed il loro significato. Non ci si stupirà quindi di trovare affinità e comunanze nello stile (e quindi anche nella spiritualità e nella sensibilità) di due artisti formatisi alla stessa scuola e vissuti nello stesso luogo durante la stessa epoca piuttosto che in quella di artisti lontani temporalmente e geograficamente. Possiamo dunque dire dello stile che trascina nell’arte l’intera vita spirituale dell’artista, perché questi nel suo formare segue un modo singolarissimo e inconfondibile, ch’è unicamente suo e non d’altri, ch’è il suo modo di formare, il modo che non può esser che suo, e ch’è la sua stessa spiritualità fattasi, tutta, modo di formare: stile 31. 29 Per il concetto di forma nella Teoria della formatività cfr. Filippo Piemontese, La «Teoria della formatività», in Humanitas, X (1955), 6, pp. 548-552. 30 31 Pareyson, Estetica, cit., p. 29. Ibidem. 17 Con contenuto Pareyson intende una cosa diversa rispetto a ciò che abitualmente si chiama tema, argomento o soggetto. Esso è invece la spiritualità dell’artista fattasi modo di formare. Contenuto dell’arte è la persona stessa dell’artista, cioè la sua concreta esperienza, la sua vita interiore, la sua irripetibile spiritualità, la sua reazione personale all’ambiente storico in cui vive, i suoi pensieri, costumi, sentimenti, ideali, credenze e aspirazioni32. La spiritualità dell’artista può così entrare direttamente nell’opera senza dover ricorrere ad una condensazione lirica, nel qual caso si dovrebbe necessariamente arrivare alla coincidenza del contenuto con lo specifico sentimento di cui si dà espressione e quindi con un determinato tema. Infatti si può dare il caso di opere che non esprimano e non dicano nulla, ma che abbiano uno stile eloquentissimo, essendo questo la stessa spiritualità dell’autore: in esse l’arte risulta comunque essere espressiva, pur essendo il sentimento in lei presente completamente disciolto nella forma, e non vi è necessità di affermare che la vita spirituale si può tradurre in immagine solo mediante condensazione lirica. Partendo da questi assunti va a dirimersi la querelle tra formalismo e contenutismo, essendo tacitate entrambe queste posizioni: il formalismo perché s’è riconosciuto che la spiritualità dell’artista si trova presente nell’opera non come sentimento che condensi liricamente tutta la vita spirituale, ché in tal caso il contenuto sarebbe, come motivo ispiratore, ancora soggetto o tema, ma unicamente come stile e modo di formare; il contenutismo, perché s’è riconosciuto che lo stile, essendo la stessa spiritualità dell’artista 32 Op. cit., p. 28. 18 fattasi personale modo di formare, contiene l’intera vita spirituale dell’autore e l’intera vita e civiltà del suo tempo quale si riflette in lui 33. Quando infine si parla di materia, si vuole contrassegnare proprio la materia fisica. Se non avesse luogo la formazione di quest’ultima l’operazione artistica non potrebbe essere pura formatività. L’esecuzione fisica è un aspetto necessario e costitutivo dell’arte: a seconda della materia adottata si possono differenziare le varie arti; inoltre se da un lato l’intenzione formativa si definisce come adozione della materia, dall’altro la scelta della materia si attua come nascita dell’intenzione formativa. Le esigenze dell’intenzione formativa e le resistenze della materia non solo non si oppongono, ma s’incontrano e si richiamano a vicenda, ed è nella loro azione dialettica che lo sviluppo fattivo dell’opera prende una determinata direzione. La formazione dell’opera non è un processo a cui si dà vita a una forma adoperando o usando una materia: non che si formi l’opera con o mediante una materia, ma si forma una materia, e così si forma l’opera, ché formare quell’opera e formare quella materia non sono due processi, ma uno e indivisibile34. È stato giustamente osservato che in questa maniera all’estetica di Pareyson manca una nozione negativa di apparenza35. Ciò perché la materia, come corpo dell’arte, non è sua veste esteriore. Essa non occulta e non maschera: il senso è tutto riassunto nella carnalità dell’opera; la materia non è mai un limite negativo, ma è ciò di cui la forma è costituita e al di fuori della quale non ha modo di esistere. Si ha una radicale immanenza dello spirituale nella fisicità, ma la cosa 33 Op. cit., p. 39. Op. cit., p. 47. 35 Cfr. Gianni Carchia, Esperienza e metafisica dell’arte. L’estetica di Luigi Pareyson.,in Rivista di estetica, Torino, 40-41 anno XXXII, 1993, pp. 76-87. 34 19 non desta meraviglia se si pensa che la formatività pura per realizzarsi ha bisogno non dello spirito, ma della materia. Dopo aver delineato queste tre nozioni, possiamo finalmente arrivare a dire che nell’opera d’arte come forma compiuta non è possibile distinguere contenuto, materia e stile. Essa è tutte e tre queste cose. La forma stessa dunque non è pensabile in maniera distinta da queste componenti. Se si è parlato prima della cessazione della querelle tra forma e contenuto, si potrebbe fare ora lo stesso discorso per quella tra materia e forma: nell’opera non è pensabile la forma astrattamente dalla materia, né una materia che non ci si presenti sempre anche come forma. Queste diatribe non hanno modo di esistere in questa estetica perché si fondano sulla possibilità di prendere uno degli elementi suddetti separatamente dagli altri astraendolo dall’opera, cosa qui impossibile perché essa non può essere considerata se non nella sua unità e totalità. Adesso non è più possibile in alcun caso pensare di prescindere dal carattere dinamico della forma e dell’opera d’arte: L’unità indivisibile ha un senso solo se è vista come risultato d’un processo in cui vari elementi sono in tensione fra loro e alla ricerca della propria unità: v’è una spiritualità che cerca il proprio stile e un’intenzione formativa che scruta le possibilità della materia, e quella spiritualità tenta di definirsi, attraverso risonanze e affinità congeniali, come modo di formare, e questa intenzione formativa interroga la propria materia perché essa le venga incontro e volga in occasioni stimolanti le sue stesse resistenze 36. 36 Pareyson, Estetica, cit., pp. 54-55. 20 Produzione e interpretazione Come ho già detto nel primo capitolo, quella di Pareyson è un’estetica della produzione. Questo vuol dire che sia il processo di formazione dell’opera che svolge l’artista che quello di interpretazione condotto dal fruitore hanno una connotazione produttiva. Qui spiegherò cosa si intende con ciò. Considerando dapprima il processo di formazione, si può dire che questo abbia un carattere tentativo: Il formare è essenzialmente un tentare, perché consiste in un’inventività capace di figurare molteplici possibilità e insieme di trovare fra di esse quella buona37. Da ciò segue immediatamente “che la forma sia riuscita di tentativi. […] Di fronte alla forma svanisce la vicenda dei tentativi di cui essa è felice risultato” 38. Di tutte le opere formative in generale si può dire che esse inventino facendo il modo di fare, cosa che è chiara se si pensa alla definizione di formatività data sopra. Tuttavia nell’arte, a differenza che nelle altre attività, il modo di fare non è stabilito dalle leggi e dai fini dell’operazione: la formatività deve reggersi unicamente su sé stessa, e legge dell’opera d’arte diventa il suo stesso risultato. Non si può sapere da prima come sarà l’opera finita, mentre l’artista si sta barcamenando in mezzo ai vari tentativi. “Nell’arte non c’è altra normatività che quella della riuscita, né altra regola che quella ch’è instaurata dalla singola opera da fare”39. L’essere riuscita di tentativi è un carattere costitutivo per l’organicità stessa dell’opera: 37 Pareyson, Estetica, cit., p.61. Ibidem. 39 Op. cit., p. 68. 38 21 Organizzazione e tentativo non sono dunque incompatibili e dissociabili, perché anzi lo stesso concetto d’una riuscita che sia criterio a sé stessa li evoca insieme, strettamente e inseparabilmente congiunti, ché se per un verso la riuscita è tale solo come successo di tentativi, per l’altro non può farsi criterio a sé stessa se non orientando, premendo, organizzando i tentativi da cui ha da risultare40. D’altra parte l’artista non comincia neppure senza avere un’idea di cosa voglia fare. Così Pareyson si pone come via di mezzo tra le teorie estetiche che vedono la forma come presente già prima dell’esecuzione, dando così pochissima rilevanza a quest’ultima, e quelle che la avvertono soltanto dopo di essa. Questa presa di posizione avviene grazie ad una duplice concezione della forma. La forma oltre che esistere come formata al termine della produzione, già agisce come formante nel corso di essa. […] Durante il processo di produzione c’è e non c’è: non c’è, perché come forma esisterà solo a processo concluso; c’è, perché come formante agisce a processo già iniziato41. L’opera è dinamica nella sua immodificabilità: la forma in quanto formata si presenta come definitiva ed improseguibile; in quanto formante mostra di essere lo sviluppo operativo di un processo da cui non è separabile. La perfezione di un’opera consiste nella sua unitotalità, ovvero nel fatto che la totalità del processo della sua formazione risulti infine un unicum e che ci si trovi di fronte ad un risultato univoco e compiuto. In un’opera “il tutto contiene le parti e risulta dalla loro indissolubile unità solo perché esso stesso, prima di esistere come forma formata, le ha reclamate ed ordinate agendo come forma formante”42. 40 Op. cit., p. 91. Op. cit., pp. 75-76. 42 Op. cit. p. 108. 41 22 A questo punto possiamo indagare più in profondità i meccanismi della produzione artistica per come li elabora Pareyson. Il processo di formazione inizia col sorgere di uno spunto, che si impadronisce della mente dell’artista. Questo non sorge dal niente, ma bensì compare a seguito di un periodo di preparazione e di attesa. Esso è strettamente dipendente dall’attività dell’artista, e non potrebbe darsi senza. Lo spunto è il germe dell’opera. […] È il momento in cui l’intenzionalità formativa che l’artista ha impresso a tutta la propria esperienza si fa singolo processo di formazione, produzione d’un’opera determinata, individuale legge di organizzazione di una forma 43. Il fatto di avvertire l’indipendenza dello spunto e di sentire che esso reclami un suo svolgimento è ciò che comunemente viene detto ispirazione. Lo sviluppo dello spunto consisterà nel procedimento per tentativi dell’artista di cui si è parlato prima, nella sua lotta contro la resistenza della materia, nel suo divinare la forma per riuscire a intuire in che direzione dovrà condurre il suo lavoro per giungere alla compiutezza del risultato finale. Infatti nel suo produrre egli è guidato dalla stessa opera che va facendo; persegue una meta ch’egli non sa quale sia se non quando l’avrà raggiunta; opera in conformità dell’intravisto felice risultato della sua stessa operazione; conosce con evidenza la norma dei suoi atti solo quando, ad opera fatta, non ne ha più bisogno; riesce con la divinazione a prevedere qualcosa che si concede alla vista soltanto quando poi esiste nella sua conclusa compiutezza44. Così lo spunto e l’abbozzo dal punto di vista della forma formata risultano essere dei momenti incompiuti del processo, ma da quello della forma formante sono compiuti in quanto coincidono col processo in movimento. Compiutezza ed 43 44 Op. cit., pp. 82-83. Op. cit., p. 76. 23 incompiutezza sono caratteri della medesima cosa considerata da due prospettive diverse. È interessante notare che per Pareyson non esiste un’originalità assoluta, ma che la creatività si sviluppi a partire dall’imitazione, operazione indispensabile soprattutto nel momento della formazione dell’artista. Questi infatti, in quanto persona, è aperto e recettivo nei confronti delle forme che incontra nell’esperienza, e nutre la sua creatività proprio di queste. Anche la sua opera più originale ed innovativa non sorgerà ex nihilo nella sua mente, ma si nutrirà di spunti provenienti dall’esterno, da altre forme. La forma infatti ha carattere esemplare in quanto non solo richiede ed ottiene riconoscimento, ma stimola anche nuovi propositi operativi e ne regola le rispettive realizzazioni. Essa inoltre è sia singolare, perché la legge che la governa è la sua regola individuale, sia universale, perché la sua regola individuale è veramente legge che la governa. Se da un punto di vista valutativo l’universalità dell’opera d’arte sta nella sua capacità di essere giudicata e apprezzata, dal punto di vista operativo consiste nella paradigmaticità del modo in cui è fatta. L’opera d’arte può diventare un modello imitabile se considerata per l’efficacia operativa della sua regola, che si svela solo con la concezione dinamica dell’opera. Non è invece imitabile se presa come un procedimento concluso perché, come ho detto sopra, ogni opera è singolare e non può essere imitata soltanto nel suo aspetto formato tralasciando quello dinamico e formante, altrimenti ne risulterebbe una semplice ripetizione non cosciente dell’irripetibilità del modello. L’imitazione dell’esemplare può esistere in un atto di scelta originale se mosso dal sentimento di congenialità dell’artista verso l’imitato. Questo 24 sentimento è infatti avvertito quando si riscontrano nell’opera che si prende a modello una spiritualità, delle esigenze, un modo di sentire affini ai propri, per cui potrebbe persino accadere che il fatto di trovarsi nella posizione di imitatore e non di imitato dipenda solo dal fatto di non essere nati prima. L’atto di consenso che sta alla base dell’imitazione è atto di scelta che presuppone una spiritualità la quale, in cerca del proprio modo di formare, per intima congenialità lo trova in uno stile preesistente, in modi di fare già inventati, in opere già fatte45. L’esemplarità è una proprietà intrinseca all’opera, e viene evocata quando questa viene imitata. Per rendere possibili esemplarità ed imitazione bisogna che il modello venga considerato nella dinamica del suo processo di formazione, in modo da ottenere non una regola normativa, che parrebbe piuttosto una legge astratta e canonica, ma operativa, e quindi manifesta nella sua concreta applicazione e organica. Quando l’imitazione sia non solo accompagnata, ma addirittura costituita dalla coscienza dell’irripetibilità del modello, e non solo suggerita ma veramente dettata da una personalità in cerca del proprio stile, allora essa è propriamente creatrice46. Aspetto comune sia alla creazione che alla fruizione artistica, e che quindi ci permetterà poi di passare alla trattazione della seconda, è l’esecuzione. Con esecuzione Pareyson non intende solo il significato comune del termine, ovvero l’operazione che viene fatta dagli artisti teatrali o musicali nel momento in cui recitano o suonano un’opera. Tuttavia si può partire da questa valenza del termine per capire cosa possa voler dire qui nello specifico. Un’opera musicale nel 45 46 Op. cit., p. 144. Op. cit., p. 152. 25 momento in cui è scritta sul pentagramma non è ancora l’opera a cui assistiamo quando andiamo ad un concerto: ha bisogno di un interprete che la sappia far vivere, ovvero che la renda presente ad un pubblico. Nel momento in cui essa viene suonata rimane sempre la stessa opera dello stesso compositore, ma acquista un modo di essere particolare dipendente proprio dall’esecuzione che si sta dando di essa. Se questa cosa è evidente per la musica, il teatro, l’orchestica e tutte le altre forme d’arte che hanno bisogno della mediazione di esecutori specializzati per essere fruibili da un pubblico, per altre discipline ciò potrebbe risultare problematico: un’opera visiva o letteraria generalmente non ha bisogno di un mediatore per poter essere recepita. Le difficoltà però si risolvono se si pensa che nel momento in cui ci poniamo di fronte a un quadro come spettatori lo stiamo eseguendo noi stessi perché, come un direttore d’orchestra valorizza determinati elementi di una sinfonia, noi prendiamo in considerazione soprattutto gli aspetti che troviamo più significativi, dando al tutto che ci si pone davanti un senso particolare. Stesso discorso vale per i romanzi, le sculture, le fotografie, etc. Leggere un’opera significa eseguirla, ed eseguire significa impadronirsi dell’opera stessa rendendola presente e viva, cioè facendone operare l’effetto. L’esecuzione è così non solo l’effetto connaturato ed insopprimibile della formazione dell’opera d’arte, ma anche l’unico modo in cui essa possa vivere. Per questo è comune ad artista e fruitore. L’artista deve fare ciò che non esiste ancora, e quindi deve inventare eseguendo, mentre il lettore deve cogliere ciò che esiste già, e quindi deve eseguire riconoscendo. […] Tanto l’artista quanto il lettore considerano l’opera come formante e la vedono nel suo carattere dinamico e operativo, il 26 primo per farla nell’atto stesso che la inventa, il secondo per poterla eseguire. […] Ciò che ha da esser norma dell’esecuzione da parte del lettore è precisamente ciò ch’è stato legge dell’artista mentre formava l’opera; e proprio perché la forma formante ha guidato l’artista, proprio per ciò essa può ancora guidare il lettore. Come forma formante l’opera è legge non solo del processo che la produce, ma anche del processo che l’interpreta47. Questo può permetterci di capire pienamente perché una volta raggiunto l’aspetto di forma formata, l’opera continua a mantenere anche quello di forma formante: è in questa seconda considerazione che si rende accessibile all’esecuzione da parte dei lettori. Si può notare così che dalla parte della ricezione viene ripetuto il lavoro che l’artista ha fatto dalla parte della produzione, in modo che l’esperienza estetica divenga circolare e che il processo d’interpretazione risulti il rovescio di quello di formazione. L’interpretazione è una crescita dell’opera all’interno della sua immanenza48. Pareyson definisce l’interpretazione come “una tal forma di conoscenza in cui, per un verso, recettività e attività sono indisgiungibili, e, per l’altro, il conosciuto è una forma e il conoscente è una persona”49. In realtà ogni operare umano viene considerato sempre come recettivo e attivo insieme: la forma stessa della recettività è l’attività, perché la prima si prolunga nella seconda, e questa a sua volta presuppone sempre di aver recepito un qualche stimolo di cui è il prolungamento. Nell’interpretazione soggetto e oggetto non devono sovrapporsi l’uno sull’altro. Fedeltà e libertà devono essere sempre affermate insieme: 47 Op. cit., pp. 249-250. Cfr. Carchia, Esperienza e metafisica dell’arte. L’estetica di Luigi Pareyson., cit. 49 Pareyson, Estetica, cit., p. 180. 48 27 La fedeltà è personale esercizio di fedeltà diretto a rendere l’opera com’essa vuole, e la libertà è il carattere personale, e quindi l’irripetibile singolarità, del modo con cui si cerca di far vivere l’opera nella sua realtà50. Ciò che è formato è sempre di per sé interpretabile, ma perché l’interpretazione riesca bisogna che tra interprete ed opera vi sia affinità e congenialità. Vi possono così essere dei casi di interpretazione fallita, perché la forma si sottrae alla comprensione di chi non cerca intenzionalmente di penetrarla. Questo non vuol dire che ci siano forme che alcuni non possono comprendere in maniera categorica, ma che ognuno sarà più incline alla comprensione di determinate forme rispetto che ad altre; l’incomprensione può essere sempre scongiurata cercando di creare ex novo una forma di congenialità all’opera mediante le risorse della plasticità e dell’immaginazione umana. Nell’interpretazione soggetto ed oggetto sono esistenze singolari ed in sé concluse. È solo in virtù della sua compiutezza che l’opera riesce a suscitare le proprie infinite esecuzioni: compiutezza infatti significa infinità di aspetti. L’interpretazione così risulta essere molteplice, tentativa, sempre approfondibile e infinita sia quantitativamente che qualitativamente. È precisamente l’infinita inesauribilità della forma e della persona che fonda l’infinità quantitativa dell’interpretazione, ed è appunto il fatto che nessuno degli aspetti della persona e della forma è esauriente che fonda l’infinità qualitativa dell’interpretazione51. All’infinità del processo interpretativo corrisponde un’infinità di gradi di comprensione. Il valore di questi può essere giudicato mediante un saldo criterio: “c’è comprensione solo quando l’opera si sia rivelata nella sua realtà, e 50 51 Op. cit., p. 231. Op. cit., p. 187. 28 l’interpretazione è valida se esegue l’opera com’essa stessa vuole”52. Questo criterio non può valere se non all’interno di ogni singola interpretazione, e non può essere né oggettivo né assoluto. Questi due attributi non hanno modo di darsi nel dominio dell’interpretazione, che viene attuata proprio per rendere comprensibile un qualcosa ad un relativo soggetto. Ciò però non porta allo scetticismo o al relativismo, perché non viene soppresso il valore della comprensione, né le varie interpretazioni sono livellate sullo stesso piano. L’interpretazione ha due aspetti: da una parte essa è “movimento diretto a cogliere il vero senso delle cose, a fissarlo in un’immagine penetrante ed esauriente, a renderlo in una figura vivace ed adeguata”; dall’altra è quiete e stasi, “è la quiete del trovamento e del successo, è la stasi del possesso e della soddisfazione”53. Nel primo aspetto possiamo cogliere il senso produttivo dell’interpretazione, nel secondo quello contemplativo54. La contemplazione è il culmine dell’attività interpretativa, e consiste nel vedere la forma come forma, ovvero nell’averne trovato un senso. Alla contemplazione è necessariamente collegato un piacere perché vengono terminati e soddisfatto la sforzo e l’affanno tipici della tensione interpretativa. Posto ciò, si può dire della bellezza che è la contemplabilità e la godibilità delle forma in quanto forma, che s’offre allo sguardo che sa farsi veggente e contemplante. […] La contemplazione del bello presuppone sempre un movimento d’interpretazione, e ogni 52 Op. cit., p. 246. Op. cit., pp. 190-191. 54 Cfr. Elvira Pera Genzone, L’estetica di Luigi Pareyson, Edizioni di Filosofia, Cuneo, 1963. 53 29 movimento d’interpretazione culmina sempre in un atto di contemplazione estetica55. Questo godimento contemplativo dunque non è caratteristico solo della fruizione artistica, ma in generale di tutta al conoscenza umana. Poiché ogni conosciuto è una forma, ogni conoscenza è interpretazione e ogni forma come tale è contemplabile e godibile. Da ciò si capisce pienamente cosa voglia intendere l’autore quando sostiene che la conoscenza abbia un carattere estetico. Con queste considerazioni Pareyson riesce ad affermare un’estetica che sia insieme sia della contemplazione che della produzione. Questo risultato può essere visto come la contrapposizione e lo sviluppo dialettico dei presupposti metafisici di un’estetica della perfezione e di un’estetica dell’espressione. La prima presuppone una metafisica della realtà già compiuta, che fonda filosoficamente la contemplazione e l’esemplarità del bello ma non la sua produzione e la sua singolarità, finendo così per eliminare anche il carattere produttivo della contemplazione che finisce per dissolversi in sé stessa nel momento in cui è vanificata dal fatto di avere per oggetto mere riproduzioni e copie. La seconda presuppone una metafisica della creatività, che fonda filosoficamente solo la produzione e la singolarità del bello e che in tal modo rende ogni contemplazione una nuova creazione. Ma così facendo compromette, alla pari della prima, anche i concetti che ha fondato: se la contemplazione si riduce ad autocreazione assoluta, la produzione, non potendo produrre dei contemplabili, si dissolve in sé stessa. L’estetica della forma di Pareyson invece salva sia il concetto di contemplazione che quello di produzione perché li afferma insieme. Nella forma infatti “la contemplabilità è risultato e presupposto della 55 Pareyson, Estetica, cit., p. 196. 30 produzione, perché produzione è tanto quella che pone capo alla forma contemplabile, quanto quella che culmina nella contemplazione che se ne fa”56. Questa estetica presuppone una metafisica della figurazione, che contrasta con la prima metafisica “nell’ammettere nella realtà un perpetuo rinnovamento e la possibilità di continue innovazioni, e con la seconda nell’ammettere una compenetrazione e una vita delle forme nel tessuto d’una costante plasticità”57. Avendo così delineato i caratteri dell’estetica pareysoniana, vorrei in conclusione di questo capitolo evidenziarne il carattere profondamente personalistico58. I processi di produzione, esecuzione ed interpretazione possono essere visti come processi dinamici di nascita e sviluppo di forme a partire da altre forme, ma possono essere anche considerati sotto il comun denominatore della persona: L’operare umano è caratterizzato dal fatto che esso è sempre personale. […] Nella persona si possono rinvenire due aspetti: la totalità e lo sviluppo. […] Da un lato la persona è l’opera che io faccio di me stesso, conclusa e definita in ogni istante, e dall’altro è opera in sviluppo, aperta a richiedere ed esigere nuovi atti e nuovi svolgimenti. […] La persona è una forma, […] vivente in sé stessa, totale nella legge di coerenza che la tiene unita in una definitezza conclusa, dotata di un’esemplarità che la rende suscitatrice di atti esemplati dal suo valore e di opere ispirate al suo carattere. L’operare della persona è plasmatore di forme. Infatti se la persona è una totalità infinita ma definita, ogni suo operare tende a sua volta a concludersi in opere a loro volta definite e concluse, che vivono di vita propria e per 56 Idem, Teoria dell’arte, cit., p.59. Ibidem. 58 Cfr. nota 7. 57 31 conto proprio possono svilupparsi e generare nuovi svolgimenti e suscitare nuovi sviluppi59. Così se nella persona e nei suoi prodotti si riscontra il carattere di forma, per converso anche le forme che derivano dalla formatività, artistiche e non, risultano avere sempre in loro un rimando alla persona. Dal momento che la creazione artistica è un atto personale e che l’opera d’arte non vi è se non come espressione della persona, Pareyson stesso arriva a dire che la persona sia soggetto e oggetto dell’arte. Soggetto dell’arte, in quanto la creazione artistica è iniziativa personale: decisione di non servire che l’arte, dedizione al compiti d’artista, interesse alla riuscita dell’opera come riuscita personale. Oggetto dell’arte, in quanto nel sentimento ispiratore si riassume, come rifrazione personale della totalità del reale, la totalità singola e irripetibile della persona. Come oggetto dell’arte, la persona si risolve tutta intera nell’opera bella, nel senso che vi si concentra, vi si condensa, vi s’esprime. Come soggetto dell’arte, la persona non si esaurisce nell’opera bella, nel senso che la muove, la pone in essere, e si afferma nel porla,e vi si riconosce invalorandola60. E ugualmente la contemplazione estetica, alla pari di come rende viva e presente la forma, riesce a concludere e definire la persona che si esprime nella forma e, dal momento che nell’indagine dell’interpretazione personale emergono anche caratteri propri di chi interpreta, a rivelare con grande chiarezza la persona interpretante a sé stessa. L’arte è così sia l’attività per cui l’artista può realizzarsi sia una fonte di ispirazione di suggestioni mediante le quali lo spettatore può incrementare la sua formazione spirituale. 59 60 Idem, Estetica, cit., pp.183-184. Idem, Teoria dell’arte, cit., p. 24. 32 Questo valore personale dell’arte, che dà il ritratto d’una persona e rivela un personale senso del mondo, giustifica l’impegno che si pone nel creare e nel contemplare l’opera bella e dà ragione di quella che suol chiamarsi la serietà dell’arte61. 61 Op. cit., p. 30. 33 Aspetti problematici In questo capitolo intendo discutere di tre aspetti problematici che si possono riscontrare nello studio dell’Estetica di Pareyson. Si tratta: 1) della questione del rapporto dell’arte con la verità; 2) del problema di come un’interpretazione possa dirsi riuscita e un’opera compresa (affrontato prendendo in considerazione anche altre soluzioni che si riscontrano nell’ermeneutica); 3) della considerazione del posto che libertà e necessità debbano qui trovare. L’arte e la verità Nell’opera che è oggetto di questa tesi, l’Estetica del ’54, Pareyson non parla del rapporto che l’arte ha con la verità, ma indaga solo quello che essa presenta con la morale e la filosofia62. Un primo nesso che si può riscontrare con queste due discipline sta nella formatività, che si trova in tutte le attività umane e di cui l’arte è puro esercizio. Anche la moralità e l’esercizio della filosofia presentano una formatività costitutiva: le opere ed i caratteri etici sono forme, e lo stesso si può dire di ogni filosofia per via dell’organicità germinale da cui scaturiscono la sistematicità del discorso e la sua fecondità. L’arte a sua volta ha un carattere morale, perché è un compito a cui l’artista deve dedicarsi come ragione della sua vita, e uno filosofico, perché ogni opera può vedersi come una Weltanschauung. Tra queste discipline si possono trovare dei rapporti di equilibrio e coordinazione e dei rapporti di squilibrio e subordinazione. Dal punto di vista etico si hanno esiti negativi se la morale si abbandona all’estetismo, sostituendo il 62 Sarebbe erroneo considerare il rapporto arte-filosofia come analogo al rapporto arte-verità. La filosofia non coincide con la verità, ma è piuttosto l’attività che tende a ricercarla. Parlando di arte e filosofia si vuole indagare il rapporto che c’è tra l’arte e la ricerca della verità, nel secondo caso invece si vuole indagare il rapporto dell’arte con la Verità stessa. 34 dovere col puro gusto, o se l’arte scade nel moralismo, vedendo prevalere il fine etico/religioso su quello artistico e formativo. È invece positivo ed auspicabile che nella vita etica si accentui con particolare evidenza la formatività che vi è esercitata, in modo ch’essa acquisti un’intenzionalità che la renda in certo modo fine a sé stessa, senza che ciò prevalga sul fine morale al punto da opprimerlo o oscurarlo, ma anzi ne favorisca e ne promuova l’adempimento 63 e dalla parte dell’arte che “mentre l’opera raggia la sua bellezza e sprigiona il suo senso morale, il lettore sia invitato a considerarla come guida non meno della sua vita che del suo gusto”64. Queste riflessioni sul rapporto tra gusto e dovere, assieme a quelle sulla forma e sul carattere ludico dell’arte, rivelano come Pareyson sia stato un attento lettore di Schiller ed abbia interiorizzato pienamente la lezione che questi dà nel suo pensiero estetico65. Dal punto di vista filosofico si ha un rapporto squilibrato con l’arte sia quando si arriva ad una considerazione estetistica della filosofia che concepisce le filosofie come vere e proprie opere d’arte o che pretenda di darne una veste artistica, sia quando si tenta una versificazione filosofica. Vi possono però essere delle “filosofie che richiedono un esito artistico proprio per potersi realizzare come pensiero filosofico, e c’è un’arte che proprio nella sua natura d’arte giunge 63 Pareyson , Estetica, cit., p.298. Op. cit., p. 299. 65 Schiller ritiene la concezione kantiana del dovere troppo austera e razionale, e la accusa di non avere riguardo nei confronti dell’elemento sensibile e sentimentale dell’uomo. Utilizzando la nozione di bellezza intesa come “forma vivente” capace di appagare “l’impulso al gioco”, che è l’impulso umano nel quale si riassumono in un’azione reciproca i due basilari impulsi umani rivolti uno alla forma e uno alla sensibilità, egli propone che venga dato modo di passare dallo stato di passività fisica del sentire a quello di attività logico/morale del pensiero attraverso uno stato intermedio di “libertà estetica”. Viene così fondata sul gusto l’armonia in società, poiché esso porta armonia del’individuo. Cfr. Friederich Schiller, Über die ästetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen (1795), tr. Di Giovanni Pinna: L’educazione estetica, Aesthetica edizioni, Palermo, 2009. Per la lettura pareysoniana di Schiller cfr. Luigi Pareyson, Etica ed Estetica in Schiller, Mursia, Milano, 1983. 64 35 ad avere funzione di filosofia”66, come ad esempio il pensiero di Kierkegaard e Nietzsche o i romanzi di Dostoevskij: questi sono casi di un connubio equilibrato tra le due discipline. Nell’Estetica del ’54, dopo la trattazione del rapporto tra arte e morale ed arte e filosofia, non si va oltre parlando di quello tra arte e verità perché si concepisce l’opera come un orizzonte immanente in cui rientrano le varie interpretazioni. Queste, sebbene esprimano la verità dell’opera in quanto suo modo di inverarsi, non possono trascenderla in riferimento ad una Verità più grande. Tuttavia, nell’evoluzione successiva del suo pensiero, Pareyson finirà per mostrare un’apertura dell’arte verso la verità, sia nel processo artistico che in quello di fruizione. In Teoria dell’Arte tripartisce filosofia ed arte, stabilendo un’analogia tra loro. Alla pari di come le filosofie possono essere a un livello più basso dei lavori culturali che provvedono alla trasmissione del patrimonio del pensiero, poi espressioni della propria epoca ed infine, in rarissimi casi, delle rivelazioni della verità che “attingono l’origine eterna del pensiero e ne riportano un messaggio inesauribile per l’umanità”67, così anche l’arte si divide in un basso tecnicismo, spesso strumento dei media e del commercio, in un’arte espressione della spiritualità dell’artista e rarissimamente in arte “che, nell’atto di esprimere la spiritualità dell’artista, attinge e rivela l’origine ed il principio, e ne partecipa il messaggio all’umanità”68. In questo terzo e più alto modo sia la filosofia che l’arte rivelano una verità che mi pare analoga a quella che verrà poi postulata in Verità e Interpretazione, ovvero una verità che coincide con l’essere e che si esplica nelle 66 Idem, Estetica, cit., p. 306. Idem, Teoria dell’arte, cit., p. 197. 68 Op. cit., p. 198. 67 36 sue infinite interpretazioni (si parla infatti di ontologia ermeneutica dell’inesauribile)69. Senza sviluppare pienamente la portata ontologica della verità, sulla quale Pareyson si concentrerà maggiormente in un periodo più tardo, già negli scritti più giovani, come Esistenza e Persona, si può riscontrare che non sia presente nell’autore un’idea di verità assoluta e acronica, ma piuttosto di una validità relativa a una situazione, a un tempo, a una prospettiva. Questo, come ho già fatto notare in precedenza, non vuol dire cadere nello scetticismo: la verità è trasformata in un compito sempre immanente, in forma teleologica. Pur mutando le conclusioni parziali a cui si arriva di volta in volta, rimane immutata la determinazione stessa a dare la definizione meglio coordinata e integrata con le strutture complessive del pensiero filosofico e della cultura, di modo che si acceda ad una verità sul metro della quale altre definizioni potranno essere valutate70. Si può dire in generale che nel pensiero di Pareyson il rapporto tra arte e verità stia da una parte nell’interpretazione dell’opera, che come processo ermeneutico contribuisce a schiudersi su una parte della totalità inesauribile ed autoimmanente dell’Essere/Verità, dall’altra nell’atto creativo dell’artista, che sembra però in questo caso quasi un aedo che canta ispirato dal dio, per cui non è nemmeno più questione di responsabilità dell’artista: in quelle vette supreme si verifica finalmente la convergenza dei valori, garantita non più da una soggettiva interiorizzazione, ma garantita oggettivamente dalla fonte stessa di tutti i valori. L’artista è stato a contatto diretto con l’origine, ove i valori sono inseparabilmente congiunti: allora il senso della sua 69 Per un’analisi del rapporto tra arte e verità in Pareyson cfr. Carchia, Esperienza e metafisica dell’arte. L’estetica di Luigi Pareyson., cit. 70 Cfr. Renato Barilli, L’estetica di Pareyson, in “Il Verri” n. 6, Milano, 1961. 37 responsabilità gli è direttamente suggerito da quell’ordine di cui egli si rende testimonio presso gli uomini, e a cui soltanto deve render conto del modo con cui ha esercitato il suo potere71. Congenialità o fusione di orizzonti? Motivo fondamentale per il discorso ermeneutico è l’indagine sul criterio in base a cui si può dire che un’interpretazione sia valida e sui meccanismi di quest’ultima. Fino al XIX secolo l’ermeneutica era una disciplina puramente filologica e la tendenza generale stava nel pensare che l’interpretazione corretta di un’opera fosse una sola. Da questa considerazione nascevano di epoca in epoca diversi canoni ermeneutici, miranti tutti ad arrivare al messaggio originario che l’autore preso in esame si pensava volesse tramandare e a cogliere il vero significato delle opere: vi era sempre una pretesa di fedeltà. Schleiermacher, uno dei precursori dell’ermeneutica filosofica, intendeva l’interpretazione come una comprensione eseguita a regola d’arte. Con essa l’interprete doveva vincere il fraintendimento iniziale che, a detta del teologo tedesco, inevitabilmente si crea nell’approccio con un autore e riuscire ad immedesimarsi con esso ed entrare nello spirito della sua epoca fino ad attingere il suo originale punto di vista, per mezzo del quale poi leggere l’opera. Nel XX secolo le cose sono cambiate, specie dopo che Heidegger, come si è visto, mise l’accento sul carattere universale del comprendere. Egli inquadrò l’essere in una temporalità che vede integrarsi tra loro passato e presente e mostrò come comprensione e interpretazione danno modo di esistere al “ci” dell’esser-ci. L’essere dell’esser-ci è infatti un ente aperto, e può essere afferrato solo in una 71 Pareyson, Teoria dell’Arte, cit., p.198. 38 determinata comprensione, che gli da modo di essere presente72. L’attenzione non è volta tanto allo scrupolo filologico di ricreare le condizioni di comprensione presenti nel momento della nascita dell’opera, quanto piuttosto al potere che ha la comprensione di attualizzare e rendere presente un qualcosa di passato o in generale di altro da noi. Così sono gettate le basi su cui lavoreranno Pareyson e Gadamer. Entrambi partiranno dall’assioma dell’identità di interpretazione e comprensione: se per l’ermeneutica filologica l’avere eseguito un’interpretazione era condizione necessaria ma non sufficiente per avere raggiunto la comprensione di un’opera, perché poteva anche darsi il caso che l’interpretazione fosse sbagliata, in questo nuovo orizzonte ermeneutico il fatto di interpretare qualcosa è già indice del fatto che se ne stia avendo una comprensione, ovvero che ne stia avvenendo una determinata presentificazione e attualizzazione73. Si è visto come per Pareyson è necessario, affinché l’interpretazione abbia luogo, che tra opera e interprete vi sia naturale congenialità oppure che si riesca a creare quest’affinità con uno sforzo volontario di penetrazione. In caso contrario si parlerà di interpretazione fallita, ovvero di mancata comprensione della forma. In ciò abbiamo uno dei pochi punti in cui possiamo trovare disaccordo tra Pareyson e Gadamer: secondo quest’ultimo ai fini dell’ottenimento di una comprensione non è necessario alcun tipo di congenialità. Egli preferisce insistere sull’eterogeneità degli orizzonti linguistici a cui appartengono interprete ed interpretato e sulla crescita ontologica che avviene a seguito dell’incontro di 72 Cfr. Martin Heidegger, Essere e Tempo, cit. Per una panoramica più approfondita su questi concetti nella storia dell’ermeneutica cfr. Franco Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, 2005. 73 39 linguaggi diversi e dell’integrazione di uno nell’altro mediante la fusione di orizzonti74. Questo risultato sembra diverge significativamente da quello di Pareyson, che non ha pensato di insistere così tanto sulla linguisticità dell’Essere. Tuttavia, a mio parere, se volessimo tradurre il discorso pareysoniano nel linguaggio gadameriano, potremmo riuscire a ricondurre la presenza di congenialità tra opera ed interprete al fatto di appartenere ad un orizzonte linguistico molto simile, se non addirittura al medesimo, e la mancanza di congenialità all’appartenenza a due orizzonti linguistici diversi. In quest’ultimo caso lo sforzo che viene fatto per produrre la congenialità può essere visto come un tentativo di fusione di orizzonti. La distanza tra i due autori va così a ridursi ulteriormente. Per Pareyson quando si interpreta è indispensabile riuscire a ricostruire il processo operativo dinamico dell’opera. Si ha comprensione proprio quando si sa rendere presente l’opera facendo operare il suo effetto. Per Gadamer “la ricostruzione di ciò che di fatto pensava l’autore rappresenta un compito parziale e riduttivo”75. Egli vede la comprensione di un’opera come la ricostruzione della domanda a cui essa rappresenta la risposta, e “questa è la ragione per cui ogni comprensione è sempre di più che la semplice riproduzione di sé in un’opinione altrui. In questa domanda, il comprendere apre delle possibilità di senso, e in tal modo l’oggetto dotato di senso trapassa nell’opinione dell’interprete”76. Queste concezioni sono esattamente il contrario della vecchia concezione del significato 74 Cfr. Hans Georg Gadamer, Verità e Metodo, cit.; per l’utile confronto tra Pareyson e Gadamer rimando anche a Bottani, Estetica, interpretazione e soggettività. Hans Georg Gadamer e Luigi Pareyson, cit. 75 Gadamer, Verità e Metodo, cit., p.430. 76 Op. cit., p. 433. 40 di un’opera come identico alla precipua idea dell’autore nel momento della creazione. In queste due prospettive ermeneutiche, come anche in quelle a loro affini, il concetto di fraintendimento è del tutto ripensato e cambia quasi di significato. Nell’ermeneutica classica esso consisteva nel non essersi riusciti a figurare la precisa idea originaria dell’autore ed era considerato in una maniera decisamente negativa: fraintendere un’opera voleva dire non averla capita, non essere arrivati all’unico preciso messaggio contenutistico di cui essa sarebbe portatrice. In ogni caso il fraintendimento non escludeva che fosse avvenuta una comprensione, anzi lo richiedeva; questa poi, dal momento che non coglieva il vero senso dell’opera, sarebbe stata da ritenersi sbagliata. Tenendo ferma una simile concezione, potremmo dire che in Pareyson e Gadamer l’interpretazione di un’opera in un certo senso è sempre un fraintendimento. Infatti non ci perviene mai ciò che precisamente aveva in mente l’artista, ma sempre un qualcosa di diverso, filtrato dal nostro specifico modo di fruire e renderci presente un’opera. La vicinanza o la coincidenza con la fruizione dell’opera che avrebbe potuto avere il suo creatore non sono più un ideale. Questo anche perché il messaggio che viene trasmesso non è più unico e non è più un contenuto in senso stretto: presenta piuttosto la malleabilità, la capacità di svilupparsi su sé stesso e la molteplicità proprie di una forma. Fraintendimento non è più avere una comprensione sbagliata, ovvero diversa da quella dell’autore originario, perché il riuscire ad avere una comprensione è sempre un entrare nel 41 “gioco” dell’opera d’arte77. Semanticamente esso si appiattisce totalmente sull’incomprensione: non a caso il termine “fraintendimento” si attesta raramente nell’opera dei due filosofi che abbiamo preso in esame. L’essersi concentrati particolarmente sui fenomeni di comprensione ed interpretazione e l’aver sottolineato la loro portata universale ha forse lasciato in ombra la portata conoscitiva che ha il fraintendimento. Esso, mantenuto nel suo significato classico, potrebbe essere visto come una parte costitutiva del processo di fusione di orizzonti e spogliato della sua valenza negativa. Con ciò non voglio dire che si debba autorizzare la completa libertà delle interpretazioni e accettare anche le letture di un’opera che risultino palesemente dissonanti con essa e fuori luogo (in questo caso si avrebbe veramente un fraintendimento nel senso negativo del termine), ma che, se inteso come la presentificazione del pensiero di un autore e della sua opera (la quale necessariamente non può coincidere con la lettura che se ne dava originariamente perché ognuno ha un suo modo di eseguire diverso e personale), può essere visto come una componente ineliminabile per arrivare a una comprensione e ad una conoscenza positiva. Libertà e necessità Vari elementi potrebbero far pensare che nell’Estetica di Pareyson vi sia una intrinsecamente una sorta di determinismo: il fatto che ogni forma deriva da 77 Sia Pareyson che Gadamer, e ancora prima di loro Schiller, amano proporre una considerazione ludica dell’esperienza estetica. “L’essere dell’arte non può venir definito in quanto oggetto di una coscienza estetica, giacché all’opposto l’atteggiamento estetico è più di quanto esso stesso sa di essere. Esso è una parte del processo ontologico della rappresentazione e appartiene essenzialmente al gioco in quanto gioco. […]Il gioco è forma; e ciò significa che, nonostante il suo necessario rimando alla rappresentazione, esso è un tutto significativo che come tale può essere ripetutamente rappresentato e compreso nel suo proprio senso. La forma, dal canto suo, è anche gioco in quanto, nonostante questa sua ideale unità, raggiunge il suo essere pieno solo nelle singole rappresentazioni, nell’esser via via giocata. È la reciproca connessione di questi due aspetti quella che va sottolineata, contro l’astrattezza della differenziazione estetica” (Gadamer, Verità e Metodo, cit., pp. 148-149). 42 altre forme e si sviluppa in maniera necessaria, che gli sviluppi di un’opera crescono all’interno della sua stessa immanenza, che i termini forma formante e forma formata presentano un’incredibile assonanza con le nozioni di natura naturans e natura naturata utilizzate da Spinoza (che ha la nomea, anche se forse non a ragione, di filosofo della necessità). Ma che Pareyson sia un determinista risulta oltremodo strano se si tiene a mente che Pareyson è ricordato come il filosofo della libertà. Proprio uno dei suoi ultimi lavori si intitola Filosofia della libertà78. In questo scritto di carattere spiccatamente ontologico ed esistenzialista, Pareyson, rivelando la sua profonda cristianità, a partire dall’esegesi di alcuni passi biblici definisce la libertà come un puro cominciamento che si origina da sé, pura posizione di sé. Essa non prosegue niente che la precede, e nulla di ciò che la precede ne spiega l’avvento. In questo modo viene affrontato il grande problema del nulla: esso non può essere giustificato a partire da una filosofia dell’essere, la quale deve necessariamente presentare una positività unitaria e compatta, ma da una filosofia della libertà. Il fatto che la libertà cominci da sé infatti vuol dire che essa comincia dal nulla. Ciascuno dei due termini non sussiste senza riferimento all’altro. Tutto ciò viene legato all’atto originario in cui Dio origina sé stesso e si pone come positività originaria: Dio è la vittoria sul nulla. Come si può notare, queste ultime riflessioni pareysoniane sulla libertà si allontanano dalle tematiche che sono state qui trattate fin ora: l’estetica non è minimamente menzionata e il discorso si rivolge sul gurgite vasto dell’ontologia e della teologia. Va detto che l’opera che ho appena citato appartiene all’ultimo periodo di riflessione dell’autore, dove egli si interessa al problema della libertà e 78 Cfr. Luigi Pareyson, Filosofia della libertà, Il Melangolo, Genova, 1990. 43 del male attraverso un’ermeneutica dell’esperienza religiosa, mentre l’Estetica appartiene ad un periodo precedente, quello di passaggio dalle sue riflessioni giovanili sull’esistenzialismo personalistico al suo pensiero più maturo riguardante la definizione dell’ontologia dell’inesauribile (ossia della filosofia interpretativa della verità inesauribile)79. In ogni caso, il concetto di libertà che viene elaborato in Filosofia della libertà si presta male ad essere applicato al processo artistico per come è esposto nell’Estetica. Un’opera d’arte non nasce dal nulla, ma è sempre frutto di uno spunto e deriva da altre forme. È Pareyson stesso a dire che l’operare umano non è mai assolutamente creativo (ovvero che inventa dal nulla qualcosa di totalmente originale), e che l’originalità dell’artista si costruisce attraverso l’imitazione80. La libertà come contrapposizione e nascita dal nulla sembrerebbe essere attribuibile solo all’azione originaria di creazione di Dio e non all’artista o all’opera d’arte. La libertà dell’artista è sempre una libertà rispetto a qualcosa. Non è corretto nemmeno dire che il processo artistico sia dominato soltanto dalla necessità. Anzitutto bisogna pensare che per giungere allo stato di forma formata l’opera deve incontrarsi con una materia, e questo incontro è del tutto contingente. È vero che uno scultore sceglie il blocco di pietra su cui lavorare, ma lo sceglierà tra un determinato numero di esemplari che gli verranno proposti e non tra tutti quelli esistenti nel mondo. Così la scelta è legata alla contingenza del fatto che allo scultore vengano presentati alcuni materiali piuttosto che altri, e ciò non rientra nella necessità della forma formante. Non si può sapere il modo preciso in qui questa si svilupperà prima che venga scelta la 79 80 Cfr. Francesco Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, cit., pp. 37-67. Cfr. Pareyson, Estetica, cit., pp. 137-175. 44 materia, né quindi l’aspetto della forma formata potrà apparire in maniera cogente se si prescinde da questa scelta, che però è contingente. Va poi considerato che l’opera viene sempre a contatto con persone, che hanno carattere di apertura e si costituiscono a partire dal contatto con altre forme. Anche il fatto che una persona venga a contatto con determinate forme piuttosto che con altre è assolutamente contingente. L’unico aspetto dell’opera in cui possiamo trovare una necessità stringente è nella sua operatività: date una determinata materia ed una determinata persona, la forma formante si svilupperà necessariamente in una certa direzione, e non potrà fare altrimenti. Poiché però non sono intrinseche nello spunto né l’esemplare particolare di materia con cui verrà realizzato, né le singole persone, a loro volta determinate da incontri contingenti con altre forme, che ne saranno esecutrici, non si può dire che il processo artistico sia assolutamente necessario. Bisognerà allora optare per una soluzione che consideri la coesistenza nell’arte di aspetti sia di contingenza81 che di necessità. L’opera d’arte colpisce per la contingenza del processo che la compie, ma insieme avvince per la necessità con cui la sua legge la tiene stretta in un’indissolubile armonia. Per questo per svelare il grande mistero dell’arte non bisogna separare le due cose. Da una parte l’opera arte è un’esistenza autonoma, dall’altra è continuazione e sviluppo necessario di altre forme. Come ha scritto un’interprete di Pareyson: “non irrigidire autonomia e continuità o, vichianamente parlando, imitazione e invenzione, è perciò fondamentale per comprendere le intime ragioni del vario divenire dell’arte”82. 81 82 Non uso la parola “libertà” per via delle sue connotazioni ontologiche e teologiche su viste. Elvira Pera Genzone, L’estetica di Luigi Pareyson, cit., p. 8. 45 Si può così dire che questo carattere di cooperazione dialettica di necessità e contingenza che spicca così tanto nell’arte altro non è che l’apoteosi dell’inscindibilità di recettività e spontaneità che si trova in generale nella formatività dell’agire umano: Nella formatività del fare artistico si mostra quindi, nella sua purezza, anche quella di ogni fare umano; essa consiste nell’inscindibilità di recettività e spontaneità, necessità e libertà, ossia iniziativa e iniziativa iniziata, natura e grazia, auto relazione ed etero relazione, cioè nell’ermeneuticità dell’esistenza. L’attività artistica è recettiva la “forma formante”, l’idea da interpretare, porre in forma e, tuttavia, da immaginare pro-duttivamente, formativamente. Questa circolarità ermeneutica è il “mistero” dell’esserci mostrato nell’arte83. 83 Francesco Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, cit., p. 50. 46 Conclusione Nello svolgimento di questa tesi ho fatto notare diverse volte come l’estetica di Pareyson sia risolutiva nei confronti di alcuni problemi dell’estetica e come la sua teoria comprenda diversi fenomeni, nei processi di creazione e fruizione artistica, che le estetiche ad essa precedenti trascuravano o non riuscivano a conciliare. Ho scelto qui di presentare la Teoria della Formatività non solo per la sua forza teorica e per la sua eleganza, ma soprattutto, usando una terminologia pareysoniana, perché sentivo che mi era particolarmente congeniale. Ben conscio che il filosofo non è l’artista e che queste due figure hanno compiti molto differenti, durante i miei studi di estetica mi è parso diverse volte che per presentare filosoficamente l’arte le si attribuissero di per sé intenti troppo intellettuali o ideali e che si ignorasse la sua componente pratica e materiale, semplice e di poche pretese filosofiche. È vero che fare e contemplare l’arte è un’attività che eleva l’uomo, che gli permette di esprimersi in modo creativo e che porta non solo alla scoperta, ma anche alla creazione di nuovi mondi spirituali. L’arte è un modo nuovo e diverso di vedere, rappresentare e conoscere la realtà, approfondendone aspetti che rimangono oscuri alla razionalità fredda e priva della ricchezza immaginativa. D’altro canto è un dato di fatto, che non dovrebbe sfuggire all’analisi dell’estetica, anche questo: spesso né l’artista né il fruitore di un’opera sono persone istruite e non hanno gli strumenti per costruire strabilianti architetture metafisiche al di sopra di un oggetto frutto della creatività, ma provano sentimenti semplici, che sono ugualmente meravigliosi. L’arte stessa, prima che sorgesse la riflessione estetica, non veniva idealizzata, né vista discendere dalle sacre vette dell’Elisio. Il 47 formare la materia è stato considerato per la stragrande maggioranza del corso del pensiero occidentale come lavoro artigianale, senza pretese sovrasensibili. E questo perché di fatto lo è: per modellare la materia, che sia un suono, un colore, una pietra o delle lettere, c’è da sporcarsi le mani e da adoperare una tecnica. Nel momento della formazione è egemone la preoccupazione formativa, che è tutta rivolta alla materia e non al sovrasensibile. Per questo motivo l’artista è da sempre stato considerato per lo più un artigiano, e al suo lavoro, per quanto risultasse piacevole ai sensi, è raramente stata conferita la dignità del lavoro dell’intellettuale, rispettando l’antica distinzione tra poiesis e theoria. L’arte ha dunque aspetti diversissimi. Pensare che alcuni escludano altri è un errore, perché di fatto non è così: se vengono riscontrare determinate prerogative bisogna riconoscere che in qualche modo ci siano, pur se tra di loro risultano contraddittorie. Del resto l’arte è forse l’ultimo luogo in cui si debba pensare di usare il principio di non contraddizione, dal momento che è l’espressione per eccellenza della libertà, della possibilità di convivenza degli elementi più eterogenei84 e delle varie personalità che in essa si possono rispecchiare. Dunque se è un errore non considerare attentamente gli aspetti più materiali dell’arte, come fanno le riflessioni più idealiste, altrettanto sbagliato è negare il suo lato spirituale, come fa a volte il pensiero più materialista o riduzionista. Pareyson con molta intelligenza presenta la materia e la forma in modo inscindibile l’una dall’altra, facendo dell’opera un sinolo aperto verso una ricchezza interpretativa inesauribile e contenente in se tutti gli aspetti suddetti. 84 Solo a titolo di chiarimento vorrei porre all’attenzione il fatto di come la convivenza di elementi contrari nella stessa opera possa a volte essere decisiva per la bellezza e lo spessore di questa. Tra gli innumerevoli casi che si potrebbero citare si pensi per esempio al carme 85 di Catullo, dove egli afferma di essere contemporaneamente preso da amore e da odio, sentimenti opposti e strazianti, o al frammento 130 di Saffo, dove Eros viene definito come dolceamaro. 48 L’estetica, fa notare Pareyson, non deve avere carattere normativo per gli artisti. Essa infatti ha carattere speculativo, ed è l’intera filosofia applicata all’arte. A mio avviso si possono distinguere diversi modi di fare filosofia. Da una parte vi può essere una filosofia fatta in biblioteca o negli studi, che parte dalle considerazioni che si trovano nei libri di autori precedenti e si sviluppa cercando di aggiustare il materiale di fronte a cui si trova nella migliore soluzione speculativa possibile, che riesce ad andare oltre il suo punto di partenza argomentando in modo nuovo e che trae le sue idee originali dagli spunti che sorgono nel confrontare le varie linee di pensiero. Dall’altra si può pensare ad una filosofia fatta en plein air, che fa partire la riflessione non dai libri, ma esclusivamente dalla propria personale esperienza del mondo. Entrambi questi tipi di filosofia teorizzano, ovvero ordinano del materiale disparato e senza un esplicito nesso tra le parti in un sistema significativo e coerente. Se però la filosofia “da studio” può difettare nel momento in cui va a cercare un riscontro mondano delle cose che sta dicendo, anche perché l’elevatezza dei picchi speculativi che si possono raggiungere rischia di far sembrare il mondo un punto lontano, quella en plein air può sembrare ingenua e corre il pericolo di ignorare concetti fondamentali per la filosofia, e quindi di osservare il mondo con occhi miopi. Da un lato di possono avere ottimi strumenti di osservazione ma non porsi di fronte al mondo, dall’altra si può avere tutto il mondo davanti pronto per essere osservato, ma essere pressoché ciechi. La soluzione migliore è dunque pensare un altro modo di fare filosofia che integri questi due, sia utilizzando i libri come lente per osservare il mondo, sia vedendo quest’ultimo come un qualcosa di non distaccato dai libri, che in ultima analisi ne sono parte a tutti gli effetti. In questo 49 modo si può pensare di avere un vero arricchimento della propria Weltanschauung personale, fornendole materiale dall’esperienza e dal confronto con quella altrui. Se dunque l’estetica è l’intera filosofia applicata all’arte, penso che l’estetica di Pareyson rientri in questo ultimo tipo di filosofia. A volte concentrandosi troppo sull’arte, si finisce per fare riflessioni spicciole, producendo un’estetica en plein air. Altre volte, forse perché assorti a inserire ogni cosa del mondo in un mastodontico sistema filosofico, si da adito ad un’estetica “da studio”. Per riuscire ad elaborare un qualcosa come la Teoria della Formatività invece bisogna avere grande esperienza non solo della filosofia, ma anche dell’arte. Non è facile né immediato cogliere l’incredibile varietà di aspetti che ha in sé il fenomeno dell’arte, ed è ammirevole che Pareyson non solo riesca a cogliere nella sua complessità il processo di fruizione, ma anche quello della produzione artistica, avendo ben presente le problematiche che si possono presentare all’artista o all’esecutore pubblico. Così, se una grande esperienza dell’arte porta a conoscere in profondità i suoi innumerevoli aspetti e le sue sfumature, la perizia filosofica permette di conciliarli insieme, unendo tutto questo materiale in una concezione unitaria e dando come risultato una teoria estetica di larghe vedute. 50 Bibliografia Scritti di Luigi Pareyson citati: - Studi sull’esistenzialismo, Sansoni, Firenze 1943. - Esistenza e persona, Taylor Torino editore, Cuneo, 1966 (ed. or. 1950). - Estetica, Teoria della Formatività, Bompiani, Milano, 1988 (ed. or. 1954). - Teoria dell’arte, Marzorati, Milano, 1965. - Etica ed Estetica in Schiller, Mursia, Milano, 1983. - Filosofia della libertà, Il Melangolo, Genova, 1990. - Kierkegaard e Pascal, a cura di Sergio Givone, Mursia Editore, Milano 1998. Opere filosofiche citate di altri autori: - Friederich Schiller, Über die ästetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen (1795), tr. Di Giovanni Pinna: L’educazione estetica, Aesthetica edizioni, Palermo, 2009. - Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1902, ora Laterza, Bari, 1965. - Idem, Breviario di estetica, 1912, ora Laterza, Bari, 1966. - Idem, Nuovi saggi di estetica, 1920, ora Laterza, Bari, 1969. - Idem, Aesthetica in nuce, 1928, ora Adelphi, Milano, 1990. - Giovanni Gentile, La filosofia dell’arte, 1931, ora Sansoni, Firenze, 1975. - Giuseppe Rensi, La scepsi estetica, Zanichelli, Bologna, 1920. - Idem, Paradossi di estetica, Corbaccio, Milano, 1937. - Giuseppe Antonio Borghese, Poetica dell’unità, Fratelli Treves, Milano, 1934. 51 - Adelchi Baratono, Il pensiero come attività estetica, in “Logos”, 1926 n. 4. - Idem, Il mondo sensibile, introduzione all’estetica, Principato, MessinaMilano, 1934. - Idem, Arte e Poesia, Bompiani, Milano, 1945. - Antonio Banfi, Vita dell’arte. 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Letteratura secondaria su Luigi Pareyson: - Filippo Piemontese, La «Teoria della formatività», in Humanitas, X (1955). - Renato Barilli, L’estetica di Pareyson, in “Il Verri” n. 6, Milano, 1961. - Elvira Pera Genzone, L’estetica di Luigi Pareyson, Edizioni di Filosofia, Cuneo, 1963. 52 - Livio Bottani, Estetica, interpretazione e soggettività. Hans Georg Gadamer e Luigi Pareyson, in “Teoria”, ETS, Pisa, II/1982. - Gianni Carchia, Esperienza e metafisica dell’arte. L’estetica di Luigi Pareyson, in Rivista di estetica, Torino, 40-41 anno XXXII, 1993. - Francesco Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, Editrice Morcelliana, Brescia, 2003. Sulla storia dell’estetica e dell’ermeneutica: - Paolo D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento, Laterza, Bari, 1997. - Franco Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, 2005. - Vercellone A. Bertinetto G. Garelli, Lineamenti di storia dell’estetica, Il Mulino, Bologna, 2008.