La “Teoria della Formatività”

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Università degli Studi di Pisa
Facoltà di Lettere e filosofia
Corso di laurea in Filosofia
Tesi di Laurea
La Teoria della formatività di Luigi Pareyson
Il Relatore
Prof. Leonardo Amoroso
Il Candidato
Innocenzo Sergio Genovesi
Anno Accademico 2011/2012
2
Indice
Pareyson nell’estetica e nella filosofia del ‘900
-
Pareyson e la filosofia dello spirito
p. 3
p. 3
- Pareyson e l’esistenzialismo
p. 7
- Pareyson e l’ermeneutica
p. 10
Forma e formatività
p. 14
Produzione e interpretazione
p. 20
Aspetti problematici
p. 33
L’arte e la verità
p. 33
-
- Congenialità o fusione di orizzonti?
p. 37
- Libertà e necessità
p. 41
Conclusione
p. 46
Bibliografia
p. 50
3
Pareyson nell’estetica e nella filosofia del ‘900
Pareyson e la filosofia dello spirito
La prima metà del ‘900 vede come filosofie estetiche dominanti in Italia
quelle idealiste di Croce e Gentile1. Contemporaneamente a queste hanno trovato
sviluppo anche altre teorie a loro alternative, per cui non si può parlare di un
predominio assoluto dell’idealismo, tuttavia queste altre teorie consistono per lo
più in manifesti programmatici, e quindi non vere e proprie estetiche, o in voci
che non hanno avuto particolare risonanza, così da restare riflessioni isolate2.
Considerando inoltre che l’estetica gentiliana uscirà rapidamente di campo per la
sua scarsa applicabilità in concreto ad opera dei critici e per la sua precipua
teoricità filosofica, l’orizzonte che si viene a profilare nel quindicennio che va dal
’45 al ‘60 sarà quello di un “dopo-Croce”.
Diverse questioni crociane vennero riprese e affrontate, onde cercare la
possibilità di differenti soluzioni3. Anzitutto, tra i problemi tematizzati da Croce
vi è quello del carattere puramente conoscitivo dell’arte, assieme al suo corollario
della declassazione a meri fatti empirici ed accessori della tecnica artistica e della
diversità delle arti e dei generi. Nel dopoguerra la tendenza dell’estetica sarà
l’avversione al teoreticismo, nell’intento di indagare piuttosto la concezione di
1
Le principali opere di estetica di Benedetto Croce sono Estetica come scienza dell’espressione e
linguistica generale (1902); Breviario di estetica (1912); Nuovi saggi di estetica (1920); Aesthetica
in nuce (1928). Di Giovanni Gentile è invece La filosofia dell’arte (1931).
2
Tra le voci non riconducibili all’idealismo, per il pensiero o per le tematiche trattate, possiamo
annoverare le riflessioni pirandelliane sull’umorismo (L’umorismo, 1908), i manifesti
programmatici futuristi, lo scetticismo estetico di Giuseppe Rensi (La scepsi estetica, 1920;
Paradossi di estetica, 1937), l’opera di Giuseppe Antonio Borghese (Poetica dell’unità, 1937), di
Adelchi Baratono (Il pensiero come attività estetica, 1926; Il mondo sensibile, introduzione
all’estetica, 1934; Arte e Poesia, 1945) e di Antonio Banfi (Vita dell’arte. Scritti di estetica e
filosofia dell’arte, 1940).
3
Cfr. Paolo D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento, Laterza, Bari, 1997, pp. 173-176.
4
un’arte intesa come fare e di recuperare le nozioni legate al carattere pratico
dell’arte. Si penserà al fenomeno artistico non solo stando dalla parte del fruitore,
ma anche considerando il punto di vista del produttore. Queste tendenze portano
così alla necessità sia di una migliore articolazione della concezione crociana
dell’identità di intuizione ed espressione, sia di uno spostamento dalla sua estetica
di un’opera fatta e riuscita ad un’estetica dell’opera in fieri. Infine vi è
insofferenza verso la concezione della critica vista come caratterizzazione del
sentimento dell’artista4, dal cui fare artistico Croce esclude l’espressione
intellettuale e prevede solo quella sentimentale, e nei confronti della concezione
monadologica della storia letteraria, che verrà avversata con la ricerca di un
legame organico tra lo sfondo storico-sociale e l’opera artistica.
Luigi Pareyson si inserisce con la sua estetica in questo orizzonte postcrociano. Come afferma lui stesso, la sua intenzione non è di andare
deliberatamente contro la filosofia dello spirito, “ma di penetrare, nel suo
significato e nelle sue suggestioni, la teoria di colui (Croce) che così notevoli
impulsi ha dato agli studi estetici e alla cui scuola ideale tutti ci siamo formati”5.
Ripartendo dalla grande tesi crociana dell’identità di intuizione ed espressione,
Pareyson mette in discussione il fatto che l’intuizione da sé possa essere già arte.
Sicuramente essa ha carattere estetico, poiché è sia espressiva che figurativa, ma
attribuirle carattere artistico porterebbe a perdere una nozione di specificazione
dell’arte: espressività e figuratività sono caratteri che ineriscono ad ogni operare
umano, e così si giungerebbe al risultato di affermare che tutta la vita spirituale sia
di per sé arte. Senza l’intuizione ed il suo carattere estetico l’arte non potrebbe
4
Per Croce il critico è philosophus additus artifici, ed è nel suo giudizio che viene riconosciuto se
si è di fronte ad un’opera d’arte oppure no. Cfr. op. cit., p. 43.
5
Luigi Pareyson, Teoria dell’arte, Marzorati, Milano, 1965, p. 13.
5
nascere, ma essa trova un’ulteriore specificazione nel fatto di essere frutto di
lavoro e produzione6.
In ciò possiamo vedere una prima differenza tra Croce e Pareyson: mentre
il primo propone una filosofia dell’opera, e quindi una filosofia del riuscire e del
trovare, il secondo sostiene una filosofia della persona, ovvero del tentare e del
cercare7. Nella filosofia dello spirito, infatti, arte e persona sono considerati
eterogenei, a meno che per persona non si intenda la personalità dell’artista che si
riduce totalmente nell’opera. “La filosofia dello spirito rammenta che il pensiero
storico non conosce nulla che non si esaurisca integralmente nell’opera, e quando
si voglia approfondire la «vicenda di quell’inesistente essere nostro fuori
dell’opera nostra», non si rinviene altro «se non la comune, la generica
umanità»”8. La filosofia dello spirito, pur tenendo ben distinti i concetti di arte e
persona, li colloca nell’unità dello spirito. Così, se da una parte si insiste sulla
distinzione delle forme, dall’altra si ribadisce il concetto di unità dello spirito, che
si specifica nella circolarità del processo dialettico. Questo consiste nel divenire
che trapassa di forma in forma, non concludendosi in nessuna di esse ma
affermandone la necessaria apertura e continuità.
Pareyson dal canto suo nota che è proprio il concetto di persona che offre
la rappresentazione di questa totalità diveniente che impedisce la disgregazione e
6
Cfr. op. cit., pp. 31-55.
Nella filosofia di Pareyson il concetto di persona è di grande importanza sia nella riflessione
estetica che in quella ermeneutica ed ontologica. “Presupposto e insieme risultato della
riflessione pareysoniana è l'affermazione del concetto di persona che, costitutivamente, si trova
in rapporto con l'essere: sia come rivelazione della verità in rapporto al pensiero speculativo, sia
come decisione per l'essere in rapporto all'azione pratica. […]La persona, pur essendo un
determinato punto di vista sulla realtà, rappresenta un'apertura sulla verità, ossia è in grado di
pervenire e di formulare enunciati di validità universale” (Coppolino, Estetica ed ermeneutica di
Luigi Pareyson, Cadmo, Roma, 1976, facilmente reperibile su internet al link:
http://store.torrossa.it/pages/ipplatform/itemDetails.faces). Cfr. anche Luigi Pareyson, Esistenza
e persona, Taylor Torino editore, Cuneo, 1966.
8
Pareyson, Teoria dell’arte, cit., pp. 10-11.
7
6
l’isolamento delle forme, e che in questo senso l’unità dello spirito assume
concretezza vivente nella persona. Questa infine può dirsi tale solo se si afferma
in una decisione morale e nella dedizione ad un compito. L’arte ha in sé un
carattere morale: essa deve essere scelta dall’artista come compito a cui dedicare
la vita. Così risulta riconnettersi al processo con cui una persona si costituisce, e
salta agli occhi evidentemente che ci sia un legame tra arte e persona. In questo
modo Pareyson, pur partendo dalla scuola della filosofia dello spirito, sviluppando
le sue tematiche nel senso appena esposto riesce a porsi in una prospettiva diversa.
La persona è vista sia come soggetto che come oggetto dell’arte: in quanto
oggetto si concentra, si esprime e si risolve tutta intera nell’opera; in quanto
soggetto non si esaurisce nell’opera, ma la muove, la pone in essere e si afferma
nel porla9. Dunque nella riflessione estetica di Pareyson l’arte, pur mantenendo un
legame essenziale col carattere teoretico affermato da Croce, è riportata verso il
fare. L’essersi concentrati troppo sul carattere conoscitivo aveva infatti distolto
l’attenzione dall’aspetto essenziale dell’esecuzione e della realizzazione
dell’opera. Badando invece a questi aspetti non è possibile non procedere in
un’altra differenziazione rispetto a Croce: viene rivendicata l’assoluta centralità
della materia nel processo artistico, indispensabile perché l’esercizio della
formatività deve avvenire su qualcosa. In virtù di questa cosa si rivela inadeguata
anche l’idea crociana che l’invenzione preceda in tutto l’esecuzione, considerata
quasi superflua, e che la forma sia precedente all’operare10. Infine si potrà notare
che la spiritualità che può entrare nell’arte non viene ridotta al solo sentimento
9
Cfr. op. cit., pp. 9-30.
Per l’esposizione delle tesi sul rapporto tra invenzione ed esecuzione di fronte a cui si trova
Pareyson nel momento in cui introduce il suo discorso estetico cfr. Idem, Estetica, Teoria della
Formatività, Bompiani, Milano, 1988 (edizione originale 1954), pp. 72-73.
10
7
come faceva Croce: nel processo formativo trovano spazio anche le componenti
intellettuali dell’artista11.
Pareyson e l’esistenzialismo
Come si sarà evinto dal paragrafo precedente, Pareyson era interessato a
correnti di pensiero alternative rispetto a quelle idealiste e in generale di
ripensamento della filosofia hegeliana che andavano in voga nella prima metà del
‘900 in Italia. Per questo motivo nei suoi studi giovanili ha dedicato molta
attenzione all’esistenzialismo tedesco e a quello che egli riteneva essere il padre di
questo movimento: Søren Kierkegaard12. Pareyson vedeva questo pensatore come
uno dei dissolutori dell’hegelismo e degli iniziatori del pensiero contemporaneo.
Hegel, con il suo metodo dialettico, sosteneva l’identità di reale e razionale
e l’annullamento del finito nell’infinito: tutto il reale nella sua finitezza è
compreso come momento nel processo dell’Assoluto, il quale è all’origine della
sua negatività, così che il finito si pone come negatività da negare dialetticamente
per fare in modo che l’Assoluto sia. Kierkegaard ha condotto un’aperta polemica
con queste concezioni. Egli critica alla filosofia di Hegel di curarsi soltanto
dell’essenza e non dell’esistenza (da considerarsi nel suo significato etimologico
di ex-sistere, stare fuori). L’essenza è astratta, universale e propria del pensiero,
l’esistenza è concreta, individuale e propria del reale; non vi è identità tra loro, ma
profonda differenza. A dispetto della filosofia dello spirito egli sostiene che
11
Sul rapporto tra l’estetica di Croce e quella di Pareyson cfr. D’Angelo, L’estetica italiana del
Novecento, cit., pp. 194-203.
12
Per gli elementi del pensiero di Kierkegaard di cui parlerò in questa sede cfr. Søren Kierkegaard,
Papirer (1834-1855), tr. di Cornelio Fabro: Diario, Rizzoli, Milano, 1995; Idem, Sygdommen til
döden (1849), tr. di Meta Corssen: La malattia mortale, Mondadori, Milano, 1990; Idem, Om
Begrebet Angest (1844), tr. di Cornelio Fabro: Il concetto dell’angoscia, Sansoni, Milano, 1966.
Per gli studi di Pareyson su Kierkegaard e sull’esistenzialismo cfr. Luigi Pareyson, Studi
sull’esistenzialismo, Sansoni, Firenze 1943; Idem, Kierkegaard e Pascal, a cura di Sergio Givone,
Mursia Editore, Milano 1998.
8
l’esistenza non sia posta dal pensiero insieme all’essenza delle cose, ma che sia
data indipendentemente dall’attività speculativa dell’uomo: il pensiero può
riflettere su di essa, ma non determinarla e porla in atto. Visto che ad esistere sono
i singoli e non i concetti universali, che sono solo entità logiche, Kierkegaard
consegue da ciò il primato della soggettività. Secondo lui è impossibile porsi dal
punto di vista dell’Assoluto, come voleva fare Hegel, perché l’uomo, in quanto
singolo, non esce mai dalla propria soggettività. Il pensiero, nella sua astrattezza e
universalità, non riesce mai a comprendere la singolarità del reale. La verità è
sempre soggettività: il singolo è il nostro uno spazio di accesso al vero. Infine,
sempre in polemica con l’hegelismo, per Kierkegaard l’esistenza può cogliere
l’identità tra temporalità ed eternità solo in maniera paradossale. Dio (l’eterno) è
totalmente altro rispetto all’uomo (il finito), e si può avere identità tra loro solo
attraverso un riassorbimento in Dio della negatività della finitezza. Ma in questo
modo non si ha un’identità, si ha piuttosto la negazione e l’annullamento di uno
nell’altro.
Come ho detto sopra, secondo Pareyson si può considerare questo
pensatore come il padre dell’esistenzialismo tedesco. Egli vede la filosofia
dell’esistenza tedesca primonovecentesca come una Kierkegaard-Renaissance.
Infatti, pur contenendo la possibilità di un ateismo di matrice feuerbachiana13 che
non si concorda bene con la profonda religiosità di Kierkegaard, l’esistenzialismo
si rifà in molti aspetti alla linea di pensiero che ho appena presentato: per gli
esistenzialisti l’esistenza precede l’essenza e l’uomo in quanto esistenza crea le
idee e i valori universali; inoltre si può riscontrare nella considerazione morale
13
Feuerbach, assieme a Kierkegaard, era considerato da Pareyson un dissolutore dell’hegelismo
ed un iniziatore della filosofia contemporanea. Feuerbach infatti aveva invertito il sistema
hegeliano, sostenendo che solo perché c’è l’uomo sensibile c’è anche il pensiero.
9
dell’individuo delle filosofie kierkegaardiana ed esistenzialiste una grande
risonanza delle nozioni di libertà e possibilità, sovente collegate ai concetti
angoscia e disperazione in quanto condizioni di origine di questi ultimi. Nello
specifico Pareyson si interesserà a come verrà colto dall’esistenzialismo tedesco
un particolare concetto kierkegaardiano: quello della coincidenza paradossale,
nella singolarità dell’esistenza, di autorelazione ed eterorelazione. Kierkegaard
afferma che l’esistenza è un rapporto con sé che è tale solamente in quanto si
rapporta ad altro. In altre parole io riesco a comprendermi solamente se mi pongo
in relazione con altro, scoprendo la mia differenza dagli altri. L’esistenza singola
è autorelazione, ma è autorelazione solo in quanto eterorelazione. Pareyson
osserverà che queste considerazioni verranno riprese in senso teocentrico da Barth
e in senso umanistico da Heidegger. Il primo infatti farà sbilanciare la coincidenza
paradossale di finito e infinito nell’infinito, il secondo nell’infinito.
Sarà parso evidente come l’esistenzialismo possa essere stato considerato
una vera alternativa all’hegelismo. Nel rapportarsi a queste due correnti di
pensiero vi sarà un’idea, comune a entrambi, che Pareyson vorrà superare: quella
che l’esistenza, il finito, sia negatività. L’esistenzialismo pareysoniano ha in sé
l’esigenza di cogliere l’esistenza singola nella sua positività e ricchezza, ovvero
nel suo essere persona. Non per nulla si parlerà di un “esistenzialismo
personalistico”. Secondo il filosofo torinese non si può vivere e far filosofia se
non partendo dalla propria situazione finita, ovvero dalla propria esistenza, con i
suoi limiti culturali, strutturali e situazionali. La situazione di partenza è sempre
finitamente collocata: questo è il significato dell’esistenzialismo. Esistenzialismo
personalistico significa che l’esistenza singola non deve essere colta nella sua
10
negatività e limitatezza, ma che vadano valorizzati i suoi elementi concernenti
l’eticità, la libertà, la moralità, la specificità personale. L’attenzione alla persona
deve essere tale da comprendere la sua intrinseca apertura alla trascendenza,
ovvero l’esistenziale apertura all’essere dell’esistenza.
È importante avere in mente queste considerazioni di base che Pareyson fa
sull’esistenza e la persona perché egli svilupperà la sua ontologia dell’inesauribile
anche a partire da esse. È nell’interesse nei confronti dell’apertura all’essere della
persona che mette le radici il suo pensiero ermeneutico, strettamente legato con
quello estetico14.
Pareyson e l’ermeneutica
Pareyson è stato tra i pionieri dell’ermeneutica filosofica. Se nel pensiero
occidentale si può dire che abbia dato a questo movimento dei contributi
importanti e originali a livello non solo teorico, ma anche di applicazione (la sua è
tra le prime delle estetiche del dopoguerra dove i grandi concetti dell’ermeneutica
contemporanea vengono applicati specificamente all’arte), nell’Italia dominata
dall’idealismo di Croce e Gentile si potrebbe dire che ne sia stato proprio lui
l’inauguratore.
Nella prima metà del secolo Heidegger aveva caratterizzato il
comprendere come il modo originario di attuarsi dell’esserci, che è essere-nelmondo, ovvero come il modo di essere dell’esserci in quanto poter-essere e
possibilità. Egli scoprì il carattere progettuale di ogni comprendere e concepì la
comprensione stessa come il movimento della trascendenza, dell’oltrepassamento
14
Sul rapporto tra Pareyson e l’esistenzialismo cfr. Francesco Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia,
bibliografia, Editrice Morcelliana, Brescia, 2003, pp. 37-45.
11
dell’ente15. Con questa interpretazione trascendentale del comprendere, il
problema dell’ermeneutica ha acquistato una portata universale e si è allargato ad
una nuova dimensione.
Pareyson ha raccolto e rielaborato la lezione heideggeriana, cosa che
contemporaneamente a lui ha fatto anche Hans Georg Gadamer. Questi pensatori
hanno sviluppato un’ontologia ed un’estetica di carattere ermeneutico ed hanno
adoperato i loro sforzi per liberare la relazione “soggetto/oggetto” all’interno
dell’esperienza estetica dalla rigida assolutezza in cui era concepita fino a quel
momento. Secondo Gadamer tra soggetto ed oggetto vi può essere soltanto un
rapporto di interpretazione16. Ciò che viene conosciuto è sempre inserito in una
dimensione linguistica (ovviamente intesa latu sensu e non necessariamente come
verbale e proposizionale), e il soggetto interpretante deve riuscire ad inserire nel
proprio orizzonte linguistico quello dell’opera. Nella comprensione si viene così
ad attuare una fusione di orizzonti linguistici. Comprensione è interpretazione, e
questa avviene sempre all’interno di un linguaggio. Da qui la famosa
affermazione gadameriana: “L’essere che può venir compreso è linguaggio”17.
Crolla così la distinzione metafisica tra soggetto ed oggetto.
In Pareyson, come abbiamo già visto, la conoscenza va sempre congiunta
ad un elemento estetico e l’intuizione è sempre unione di attività e ricettività;
l’esperienza risulta così essere un processo ermeneutico. Inoltre al concetto di
soggetto è contrapposto il concetto di persona, che è l’essere interpretante che
interpreta forme, le quali sono a loro volta inesauribili. Si viene così a creare
15
Cfr. Martin Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. di A. Marini: Essere e Tempo, Mondadori,
Milano, 2011, pp. 207-214.
16
Cfr. Hans Georg Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), tr. Di G. Vattimo, Verità e Metodo,
Bompiani, Milano, 2010.
17
Op. cit, p. 542.
12
un’ontologia dell’inesauribile che presuppone il rapporto ermeneutico di persona
e forma, entrambe entità compiute ma allo stesso tempo aperte ed inesauribili. La
Verità stessa, che si identifica con l’Essere, è inesauribile, ed ogni atto
ermeneutico appartiene essenzialmente ad essa18. Così entrambi i filosofi
considerano come autentica interpretazione sia il processo di formazione che
quello di fruizione dell’opera d’arte. Tutti e due vedono le varie interpretazioni
possibili non come figurazioni arbitrarie dell’opera, ma come veri e proprio modi
di esistenza di essa19.
Queste concezioni faranno scuola, e verranno riprese e rielaborate. L’opera
di Gadamer sarà d’ispirazione per le estetiche della ricezione sviluppatesi alla fine
degli anni ’60, che vedono nel lettore il protagonista di un processo attivo e
poietico e che si propongono di guardare alla storia della letteratura e dell’arte
come a un processo di comunicazione estetica a cui partecipano in egual misura le
istanze di autore, opera e ricettore20.
Ugualmente la lezione di Pareyson verrà ripresa (e lo è tutt’ora) da molti
studiosi italiani, specie se formatisi alla sua scuola torinese. Tra questi ne cito due:
da
una
parte
Umberto
Eco,
che
sviluppa
il
discorso
pareysoniano
sull’interpretazione, integrandolo
con
osservazioni derivanti dalla presenza
ormai affermata di nuove poetiche dell’arte visiva, letteraria e musicale
contemporanea, per definire il carattere di apertura delle opere, che non sta solo
nell’ infinita possibilità d’interpretazione, ma anche nel fatto che l’opera venga
18
Cfr. L. Pareyson, Verità e Interpretazione, Mursia, Milano, 1971.
Per un rapporto tra la filosofia di Pareyson e quella di Gadamer cfr. Livio Bottani, Estetica,
interpretazione e soggettività. Hans Georg Gadamer e Luigi Pareyson, in “Teoria”, ETS, Pisa,
II/1982, pp. 87-113.
20
È evidente in questa concezione il debito verso il concetto di Wirkungsgeschichte elaborato da
Gadamer.
19
13
prodotta dall’artista in modo da necessitare una conclusione ed una finitura da
parte dell’interprete, il quale così non svolge più un’attività produttiva nel senso
solamente ermeneutico del termine, ma anche in quello strettamente poietico21;
dall’altra Gianni Vattimo che, riprendendo tematiche care a Pareyson, propone
un’interpretazione dell’arte capace di rivendicarne il peculiare e privilegiato
rapporto con l’essere e con la verità, intesa nel senso heideggeriano di “evento”
fondato al modo di una storicità condizionata, per cui sia proprio lei a mostrare
che ogni discorso intorno all’essere deve conservare un carattere mai incline alla
sistematica definitività22.
In ogni caso sono passati soltanto vent’anni dalla morte di Pareyson, e non
è ancora possibile avere da lui e dai suoi lavori un distacco tale da permettere una
lucida considerazione storica dell’influenza della sua opera nell’estetica
strettamente contemporanea, che poi sarebbe quella del giorno d’oggi. Ritengo
però fuori discussione il fatto che la sua teoria estetica abbia un’enorme rilevanza
per la filosofia contemporanea, e che sia imprescindibile nel momento in cui si
voglia procedere ad intraprendere la riflessione sull’arte23.
21
Cfr. Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
Cfr. Gianni Vattimo, Poesia e ontologia, Milano, 1985.
23
Per approfondire il discorso sull’ermeneutica nell’estetica del ‘900 cfr. F. Vercellone A.
Bertinetto G. Garelli, Lineamenti di storia dell’estetica, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 172-190.
22
14
Forma e formatività
L’estetica di Pareyson vede come nozioni fondamentali quelle di forma e
formatività, che adesso andremo a delineare. Nello scritto che è oggetto di questa
tesi la formatività viene definita come “un tal fare che, mentre fa, inventa il modo
di fare: produzione ch’è, al tempo stesso e indivisibilmente invenzione”24. Essa è
un qualcosa che inerisce in generale all’esperienza, all’attività e alla vita umana;
nessuna attività infatti è operare se non è anche formare. È per via di questo
carattere formativo della spiritualità umana che l’arte può nascere:
L’arte non potrebbe mai sorgere se l’intera vita spirituale già non la preparasse
con la sua comune formatività, proprio perciò l’arte ha da esser cercata in una
sfera di cui quella formatività riesca ad acquistare un carattere determinato e
distinto, con una specificazione propria e un’insopprimibile autonomia 25.
Se nelle opere pratiche e speculative il formare, pur essendo costitutivo, è
subordinato al fine per cui si adopera, ovvero al pensare e all’agire, nell’opera
d’arte, invece, il formare è intenzionale e prevalente: si forma per formare, e il
pensiero e l’azione sono subordinati a questo fine specifico. Tuttavia in ogni
attività, in quanto formativa, l’arte può intervenire anche se non vi è un intento
immediatamente artistico: “la formatività di ogni operazione è sempre in grado di
accentuarsi in un’evidenza fine a sé stessa, cioè di invocare la pura formatività
dell’arte”26. Ed è infine per questo comune carattere formativo che si può spiegare
l’importanza dell’arte:
La formatività dell’intera vita umana e la profonda umanità dell’arte sono una
duplice garanzia non solo dell’accessibilità dei fatti artistici e della loro
24
Pareyson, Estetica,cit., p.18.
Op. cit., p. 21.
26
Op. cit., p. 292.
25
15
possibilità d’esser compresi da ogni uomo, ma anche del posto centrale che l’arte
occupa nell’esperienza umana; giacché lo stesso atto con cui essa si specifica la
installa al centro della vita spirituale: la fa emergere dalla vita in quanto questa,
esercitandola a modo suo, la preannunzia e ne crea l’attesa, e la riimmerge nella
vita in quanto questa vi penetra dentro a costituirne l’essenziale umanità 27.
Come si potrà evincere da queste osservazioni iniziali, la formatività dona a tutti
gli oggetti del suo dominio un carattere dinamico ed operativo.
Riguardo la definizione di forma, trovo che sia molto esaustiva quella che
Pareyson stesso dà nella prefazione dell’opera:
Qui si intende la forma come organismo, vivente di vita propria e dotato di una
legalità interna: totalità irripetibile nella sua singolarità, indipendente nella sua
autonomia, esemplare nel suo valore, conclusa e aperta insieme nella sua
definitezza che racchiude un infinito, perfetta nell’armonia e unità della sua
legge di coerenza, intera nell’adeguazione reciproca fra le parti ed il tutto 28.
Non desterà sorpresa, viste le considerazioni finora fatte sulla formatività, che per
definire cosa sia la forma non si possa astrarre dal processo dal quale viene alla
luce. Essa infatti ha un carattere dinamico, e non può non essere vista come
conclusiva ed inclusiva allo stesso tempo di un movimento di produzione. Una
forma non è un sistema rigido, chiuso e privo di un finalismo interno, né è
un’entità concepibile soltanto al livello della fisicità: sono forme non solo le
opere, ma anche la persona stessa spirituale. Essendo la persona una forma, le sue
opere saranno forme. Esse però vivranno di vita propria, diventando indipendenti
27
28
Op. cit., p. 275.
Op. cit., p. 7.
16
dal proprio creatore, e saranno capaci a loro volta di creare forme nuove. Si ha
cosi un prodursi dinamico delle forme dalle forme29.
Per comprendere a pieno il significato del concetto di forma vanno
introdotte altre tre nozioni molto importanti nella teoria della formatività: quelle
di stile, contenuto e materia. Lo stile altro non è che il modo di formare di un
determinato artista. Questo cambia da autore ad autore, ma anche da epoca ed
epoca, perché dipende direttamente dalla spiritualità dell’artista.
Fra la spiritualità dell’artista e il suo modo di formare vi è un vincolo così stretto
e una corrispondenza così precisa, che l’uno dei due termini non può essere
senza l’altro, e variare l’uno significa necessariamente anche variare l’altro 30.
La dipendenza dello stile dai contesti storici, geografici e dalle scuole risulterà poi
facilmente spiegabile se si pensa al fatto che la spiritualità dei singoli artisti si
forma all’interno di questi contesti, al cambiare dei quali cambiano il senso
comune, la percezione delle cose ed il loro significato. Non ci si stupirà quindi di
trovare affinità e comunanze nello stile (e quindi anche nella spiritualità e nella
sensibilità) di due artisti formatisi alla stessa scuola e vissuti nello stesso luogo
durante la stessa epoca piuttosto che in quella di artisti lontani temporalmente e
geograficamente. Possiamo dunque dire dello stile
che trascina nell’arte l’intera vita spirituale dell’artista, perché questi nel suo
formare segue un modo singolarissimo e inconfondibile, ch’è unicamente suo e
non d’altri, ch’è il suo modo di formare, il modo che non può esser che suo, e
ch’è la sua stessa spiritualità fattasi, tutta, modo di formare: stile 31.
29
Per il concetto di forma nella Teoria della formatività cfr. Filippo Piemontese, La «Teoria della
formatività», in Humanitas, X (1955), 6, pp. 548-552.
30
31
Pareyson, Estetica, cit., p. 29.
Ibidem.
17
Con contenuto Pareyson intende una cosa diversa rispetto a ciò che
abitualmente si chiama tema, argomento o soggetto. Esso è invece la spiritualità
dell’artista fattasi modo di formare.
Contenuto dell’arte è la persona stessa dell’artista, cioè la sua concreta
esperienza, la sua vita interiore, la sua irripetibile spiritualità, la sua reazione
personale all’ambiente storico in cui vive, i suoi pensieri, costumi, sentimenti,
ideali, credenze e aspirazioni32.
La spiritualità dell’artista può così entrare direttamente nell’opera senza dover
ricorrere ad una condensazione lirica, nel qual caso si dovrebbe necessariamente
arrivare alla coincidenza del contenuto con lo specifico sentimento di cui si dà
espressione e quindi con un determinato tema. Infatti si può dare il caso di opere
che non esprimano e non dicano nulla, ma che abbiano uno stile eloquentissimo,
essendo questo la stessa spiritualità dell’autore: in esse l’arte risulta comunque
essere espressiva, pur essendo il sentimento in lei presente completamente
disciolto nella forma, e non vi è necessità di affermare che la vita spirituale si può
tradurre in immagine solo mediante condensazione lirica.
Partendo da questi assunti va a dirimersi la querelle tra formalismo e
contenutismo, essendo tacitate entrambe queste posizioni:
il formalismo perché s’è riconosciuto che la spiritualità dell’artista si trova
presente nell’opera non come sentimento che condensi liricamente tutta la vita
spirituale, ché in tal caso il contenuto sarebbe, come motivo ispiratore, ancora
soggetto o tema, ma unicamente come stile e modo di formare; il contenutismo,
perché s’è riconosciuto che lo stile, essendo la stessa spiritualità dell’artista
32
Op. cit., p. 28.
18
fattasi personale modo di formare, contiene l’intera vita spirituale dell’autore e
l’intera vita e civiltà del suo tempo quale si riflette in lui 33.
Quando infine si parla di materia, si vuole contrassegnare proprio la materia
fisica. Se non avesse luogo la formazione di quest’ultima l’operazione artistica
non potrebbe essere pura formatività. L’esecuzione fisica è un aspetto necessario
e costitutivo dell’arte: a seconda della materia adottata si possono differenziare le
varie arti; inoltre se da un lato l’intenzione formativa si definisce come adozione
della materia, dall’altro la scelta della materia si attua come nascita
dell’intenzione formativa. Le esigenze dell’intenzione formativa e le resistenze
della materia non solo non si oppongono, ma s’incontrano e si richiamano a
vicenda, ed è nella loro azione dialettica che lo sviluppo fattivo dell’opera prende
una determinata direzione.
La formazione dell’opera non è un processo a cui si dà vita a una forma
adoperando o usando una materia: non che si formi l’opera con o mediante una
materia, ma si forma una materia, e così si forma l’opera, ché formare
quell’opera e formare quella materia non sono due processi, ma uno e
indivisibile34.
È stato giustamente osservato che in questa maniera all’estetica di Pareyson
manca una nozione negativa di apparenza35. Ciò perché la materia, come corpo
dell’arte, non è sua veste esteriore. Essa non occulta e non maschera: il senso è
tutto riassunto nella carnalità dell’opera; la materia non è mai un limite negativo,
ma è ciò di cui la forma è costituita e al di fuori della quale non ha modo di
esistere. Si ha una radicale immanenza dello spirituale nella fisicità, ma la cosa
33
Op. cit., p. 39.
Op. cit., p. 47.
35
Cfr. Gianni Carchia, Esperienza e metafisica dell’arte. L’estetica di Luigi Pareyson.,in Rivista di
estetica, Torino, 40-41 anno XXXII, 1993, pp. 76-87.
34
19
non desta meraviglia se si pensa che la formatività pura per realizzarsi ha bisogno
non dello spirito, ma della materia.
Dopo aver delineato queste tre nozioni, possiamo finalmente arrivare a dire
che nell’opera d’arte come forma compiuta non è possibile distinguere contenuto,
materia e stile. Essa è tutte e tre queste cose. La forma stessa dunque non è
pensabile in maniera distinta da queste componenti. Se si è parlato prima della
cessazione della querelle tra forma e contenuto, si potrebbe fare ora lo stesso
discorso per quella tra materia e forma: nell’opera non è pensabile la forma
astrattamente dalla materia, né una materia che non ci si presenti sempre anche
come forma. Queste diatribe non hanno modo di esistere in questa estetica perché
si fondano sulla possibilità di prendere uno degli elementi suddetti separatamente
dagli altri astraendolo dall’opera, cosa qui impossibile perché essa non può essere
considerata se non nella sua unità e totalità. Adesso non è più possibile in alcun
caso pensare di prescindere dal carattere dinamico della forma e dell’opera d’arte:
L’unità indivisibile ha un senso solo se è vista come risultato d’un processo in
cui vari elementi sono in tensione fra loro e alla ricerca della propria unità: v’è
una spiritualità che cerca il proprio stile e un’intenzione formativa che scruta le
possibilità della materia, e quella spiritualità tenta di definirsi, attraverso
risonanze e affinità congeniali, come modo di formare, e questa intenzione
formativa interroga la propria materia perché essa le venga incontro e volga in
occasioni stimolanti le sue stesse resistenze 36.
36
Pareyson, Estetica, cit., pp. 54-55.
20
Produzione e interpretazione
Come ho già detto nel primo capitolo, quella di Pareyson è un’estetica
della produzione. Questo vuol dire che sia il processo di formazione dell’opera
che svolge l’artista che quello di interpretazione condotto dal fruitore hanno una
connotazione produttiva. Qui spiegherò cosa si intende con ciò.
Considerando dapprima il processo di formazione, si può dire che questo
abbia un carattere tentativo:
Il formare è essenzialmente un tentare, perché consiste in un’inventività
capace di figurare molteplici possibilità e insieme di trovare fra di esse quella
buona37.
Da ciò segue immediatamente “che la forma sia riuscita di tentativi. […] Di fronte
alla forma svanisce la vicenda dei tentativi di cui essa è felice risultato” 38. Di tutte
le opere formative in generale si può dire che esse inventino facendo il modo di
fare, cosa che è chiara se si pensa alla definizione di formatività data sopra.
Tuttavia nell’arte, a differenza che nelle altre attività, il modo di fare non è
stabilito dalle leggi e dai fini dell’operazione: la formatività deve reggersi
unicamente su sé stessa, e legge dell’opera d’arte diventa il suo stesso risultato.
Non si può sapere da prima come sarà l’opera finita, mentre l’artista si sta
barcamenando in mezzo ai vari tentativi. “Nell’arte non c’è altra normatività che
quella della riuscita, né altra regola che quella ch’è instaurata dalla singola opera
da fare”39. L’essere riuscita di tentativi è un carattere costitutivo per l’organicità
stessa dell’opera:
37
Pareyson, Estetica, cit., p.61.
Ibidem.
39
Op. cit., p. 68.
38
21
Organizzazione e tentativo non sono dunque incompatibili e dissociabili,
perché anzi lo stesso concetto d’una riuscita che sia criterio a sé stessa li
evoca insieme, strettamente e inseparabilmente congiunti, ché se per un verso
la riuscita è tale solo come successo di tentativi, per l’altro non può farsi
criterio a sé stessa se non orientando, premendo, organizzando i tentativi da
cui ha da risultare40.
D’altra parte l’artista non comincia neppure senza avere un’idea di cosa
voglia fare. Così Pareyson si pone come via di mezzo tra le teorie estetiche che
vedono la forma come presente già prima dell’esecuzione, dando così pochissima
rilevanza a quest’ultima, e quelle che la avvertono soltanto dopo di essa. Questa
presa di posizione avviene grazie ad una duplice concezione della forma.
La forma oltre che esistere come formata al termine della produzione, già
agisce come formante nel corso di essa. […] Durante il processo di
produzione c’è e non c’è: non c’è, perché come forma esisterà solo a
processo concluso; c’è, perché come formante agisce a processo già
iniziato41.
L’opera è dinamica nella sua immodificabilità: la forma in quanto formata si
presenta come definitiva ed improseguibile; in quanto formante mostra di essere
lo sviluppo operativo di un processo da cui non è separabile. La perfezione di
un’opera consiste nella sua unitotalità, ovvero nel fatto che la totalità del processo
della sua formazione risulti infine un unicum e che ci si trovi di fronte ad un
risultato univoco e compiuto. In un’opera “il tutto contiene le parti e risulta dalla
loro indissolubile unità solo perché esso stesso, prima di esistere come forma
formata, le ha reclamate ed ordinate agendo come forma formante”42.
40
Op. cit., p. 91.
Op. cit., pp. 75-76.
42
Op. cit. p. 108.
41
22
A questo punto possiamo indagare più in profondità i meccanismi della
produzione artistica per come li elabora Pareyson. Il processo di formazione inizia
col sorgere di uno spunto, che si impadronisce della mente dell’artista. Questo non
sorge dal niente, ma bensì compare a seguito di un periodo di preparazione e di
attesa. Esso è strettamente dipendente dall’attività dell’artista, e non potrebbe
darsi senza.
Lo spunto è il germe dell’opera. […] È il momento in cui l’intenzionalità
formativa che l’artista ha impresso a tutta la propria esperienza si fa singolo
processo di formazione, produzione d’un’opera determinata, individuale
legge di organizzazione di una forma 43.
Il fatto di avvertire l’indipendenza dello spunto e di sentire che esso reclami un
suo svolgimento è ciò che comunemente viene detto ispirazione. Lo sviluppo
dello spunto consisterà nel procedimento per tentativi dell’artista di cui si è
parlato prima, nella sua lotta contro la resistenza della materia, nel suo divinare la
forma per riuscire a intuire in che direzione dovrà condurre il suo lavoro per
giungere alla compiutezza del risultato finale. Infatti
nel suo produrre egli è guidato dalla stessa opera che va facendo; persegue
una meta ch’egli non sa quale sia se non quando l’avrà raggiunta; opera in
conformità dell’intravisto felice risultato della sua stessa operazione; conosce
con evidenza la norma dei suoi atti solo quando, ad opera fatta, non ne ha più
bisogno; riesce con la divinazione a prevedere qualcosa che si concede alla
vista soltanto quando poi esiste nella sua conclusa compiutezza44.
Così lo spunto e l’abbozzo dal punto di vista della forma formata risultano essere
dei momenti incompiuti del processo, ma da quello della forma formante sono
compiuti in quanto coincidono col processo in movimento. Compiutezza ed
43
44
Op. cit., pp. 82-83.
Op. cit., p. 76.
23
incompiutezza sono caratteri della medesima cosa considerata da due prospettive
diverse.
È interessante notare che per Pareyson non esiste un’originalità assoluta,
ma che la creatività si sviluppi a partire dall’imitazione, operazione indispensabile
soprattutto nel momento della formazione dell’artista. Questi infatti, in quanto
persona, è aperto e recettivo nei confronti delle forme che incontra
nell’esperienza, e nutre la sua creatività proprio di queste. Anche la sua opera più
originale ed innovativa non sorgerà ex nihilo nella sua mente, ma si nutrirà di
spunti provenienti dall’esterno, da altre forme. La forma infatti ha carattere
esemplare in quanto non solo richiede ed ottiene riconoscimento, ma stimola
anche nuovi propositi operativi e ne regola le rispettive realizzazioni. Essa inoltre
è sia singolare, perché la legge che la governa è la sua regola individuale, sia
universale, perché la sua regola individuale è veramente legge che la governa.
Se da un punto di vista valutativo l’universalità dell’opera d’arte sta nella
sua capacità di essere giudicata e apprezzata, dal punto di vista operativo consiste
nella paradigmaticità del modo in cui è fatta. L’opera d’arte può diventare un
modello imitabile se considerata per l’efficacia operativa della sua regola, che si
svela solo con la concezione dinamica dell’opera. Non è invece imitabile se presa
come un procedimento concluso perché, come ho detto sopra, ogni opera è
singolare e non può essere imitata soltanto nel suo aspetto formato tralasciando
quello dinamico e formante, altrimenti ne risulterebbe una semplice ripetizione
non cosciente dell’irripetibilità del modello.
L’imitazione dell’esemplare può esistere in un atto di scelta originale se
mosso dal sentimento di congenialità dell’artista verso l’imitato. Questo
24
sentimento è infatti avvertito quando si riscontrano nell’opera che si prende a
modello una spiritualità, delle esigenze, un modo di sentire affini ai propri, per cui
potrebbe persino accadere che il fatto di trovarsi nella posizione di imitatore e non
di imitato dipenda solo dal fatto di non essere nati prima.
L’atto di consenso che sta alla base dell’imitazione è atto di scelta che
presuppone una spiritualità la quale, in cerca del proprio modo di formare,
per intima congenialità lo trova in uno stile preesistente, in modi di fare già
inventati, in opere già fatte45.
L’esemplarità è una proprietà intrinseca all’opera, e viene evocata quando questa
viene imitata. Per rendere possibili esemplarità ed imitazione bisogna che il
modello venga considerato nella dinamica del suo processo di formazione, in
modo da ottenere non una regola normativa, che parrebbe piuttosto una legge
astratta e canonica, ma operativa, e quindi manifesta nella sua concreta
applicazione e organica.
Quando l’imitazione sia non solo accompagnata, ma addirittura costituita
dalla coscienza dell’irripetibilità del modello, e non solo suggerita ma
veramente dettata da una personalità in cerca del proprio stile, allora essa è
propriamente creatrice46.
Aspetto comune sia alla creazione che alla fruizione artistica, e che quindi
ci permetterà poi di passare alla trattazione della seconda, è l’esecuzione. Con
esecuzione Pareyson non intende solo il significato comune del termine, ovvero
l’operazione che viene fatta dagli artisti teatrali o musicali nel momento in cui
recitano o suonano un’opera. Tuttavia si può partire da questa valenza del termine
per capire cosa possa voler dire qui nello specifico. Un’opera musicale nel
45
46
Op. cit., p. 144.
Op. cit., p. 152.
25
momento in cui è scritta sul pentagramma non è ancora l’opera a cui assistiamo
quando andiamo ad un concerto: ha bisogno di un interprete che la sappia far
vivere, ovvero che la renda presente ad un pubblico. Nel momento in cui essa
viene suonata rimane sempre la stessa opera dello stesso compositore, ma acquista
un modo di essere particolare dipendente proprio dall’esecuzione che si sta dando
di essa.
Se questa cosa è evidente per la musica, il teatro, l’orchestica e tutte le
altre forme d’arte che hanno bisogno della mediazione di esecutori specializzati
per essere fruibili da un pubblico, per altre discipline ciò
potrebbe risultare
problematico: un’opera visiva o letteraria generalmente non ha bisogno di un
mediatore per poter essere recepita. Le difficoltà però si risolvono se si pensa che
nel momento in cui ci poniamo di fronte a un quadro come spettatori lo stiamo
eseguendo noi stessi perché, come un direttore d’orchestra valorizza determinati
elementi di una sinfonia, noi prendiamo in considerazione soprattutto gli aspetti
che troviamo più significativi, dando al tutto che ci si pone davanti un senso
particolare. Stesso discorso vale per i romanzi, le sculture, le fotografie, etc.
Leggere un’opera significa eseguirla, ed eseguire significa impadronirsi dell’opera
stessa rendendola presente e viva, cioè facendone operare l’effetto. L’esecuzione è
così non solo l’effetto connaturato ed insopprimibile della formazione dell’opera
d’arte, ma anche l’unico modo in cui essa possa vivere. Per questo è comune ad
artista e fruitore.
L’artista deve fare ciò che non esiste ancora, e quindi deve inventare
eseguendo, mentre il lettore deve cogliere ciò che esiste già, e quindi deve
eseguire riconoscendo. […] Tanto l’artista quanto il lettore considerano
l’opera come formante e la vedono nel suo carattere dinamico e operativo, il
26
primo per farla nell’atto stesso che la inventa, il secondo per poterla eseguire.
[…] Ciò che ha da esser norma dell’esecuzione da parte del lettore è
precisamente ciò ch’è stato legge dell’artista mentre formava l’opera; e
proprio perché la forma formante ha guidato l’artista, proprio per ciò essa
può ancora guidare il lettore. Come forma formante l’opera è legge non solo
del processo che la produce, ma anche del processo che l’interpreta47.
Questo può permetterci di capire pienamente perché una volta raggiunto l’aspetto
di forma formata, l’opera continua a mantenere anche quello di forma formante: è
in questa seconda considerazione che si rende accessibile all’esecuzione da parte
dei lettori.
Si può notare così che dalla parte della ricezione viene ripetuto il lavoro
che l’artista ha fatto dalla parte della produzione, in modo che l’esperienza
estetica divenga circolare e che il processo d’interpretazione risulti il rovescio di
quello di formazione. L’interpretazione è una crescita dell’opera all’interno della
sua immanenza48. Pareyson definisce l’interpretazione come “una tal forma di
conoscenza in cui, per un verso, recettività e attività sono indisgiungibili, e, per
l’altro, il conosciuto è una forma e il conoscente è una persona”49. In realtà ogni
operare umano viene considerato sempre come recettivo e attivo insieme: la forma
stessa della recettività è l’attività, perché la prima si prolunga nella seconda, e
questa a sua volta presuppone sempre di aver recepito un qualche stimolo di cui è
il prolungamento.
Nell’interpretazione soggetto e oggetto non devono sovrapporsi l’uno
sull’altro. Fedeltà e libertà devono essere sempre affermate insieme:
47
Op. cit., pp. 249-250.
Cfr. Carchia, Esperienza e metafisica dell’arte. L’estetica di Luigi Pareyson., cit.
49
Pareyson, Estetica, cit., p. 180.
48
27
La fedeltà è personale esercizio di fedeltà diretto a rendere l’opera com’essa
vuole, e la libertà è il carattere personale, e quindi l’irripetibile singolarità,
del modo con cui si cerca di far vivere l’opera nella sua realtà50.
Ciò che è formato è sempre di per sé interpretabile, ma perché l’interpretazione
riesca bisogna che tra interprete ed opera vi sia affinità e congenialità. Vi possono
così essere dei casi di interpretazione fallita, perché la forma si sottrae alla
comprensione di chi non cerca intenzionalmente di penetrarla. Questo non vuol
dire che ci siano forme che alcuni non possono comprendere in maniera
categorica, ma che ognuno sarà più incline alla comprensione di determinate
forme rispetto che ad altre; l’incomprensione può essere sempre scongiurata
cercando di creare ex novo una forma di congenialità all’opera mediante le risorse
della plasticità e dell’immaginazione umana.
Nell’interpretazione soggetto ed oggetto sono esistenze singolari ed in sé
concluse. È solo in virtù della sua compiutezza che l’opera riesce a suscitare le
proprie infinite esecuzioni: compiutezza infatti significa infinità di aspetti.
L’interpretazione così risulta essere molteplice, tentativa, sempre approfondibile e
infinita sia quantitativamente che qualitativamente.
È precisamente l’infinita inesauribilità della forma e della persona che fonda
l’infinità quantitativa dell’interpretazione, ed è appunto il fatto che nessuno
degli aspetti della persona e della forma è esauriente che fonda l’infinità
qualitativa dell’interpretazione51.
All’infinità del processo interpretativo corrisponde un’infinità di gradi di
comprensione. Il valore di questi può essere giudicato mediante un saldo criterio:
“c’è comprensione solo quando l’opera si sia rivelata nella sua realtà, e
50
51
Op. cit., p. 231.
Op. cit., p. 187.
28
l’interpretazione è valida se esegue l’opera com’essa stessa vuole”52. Questo
criterio non può valere se non all’interno di ogni singola interpretazione, e non
può essere né oggettivo né assoluto. Questi due attributi non hanno modo di darsi
nel dominio dell’interpretazione, che viene attuata proprio per rendere
comprensibile un qualcosa ad un relativo soggetto. Ciò però non porta allo
scetticismo o al relativismo, perché non viene soppresso il valore della
comprensione, né le varie interpretazioni sono livellate sullo stesso piano.
L’interpretazione ha due aspetti: da una parte essa è “movimento diretto a
cogliere il vero senso delle cose, a fissarlo in un’immagine penetrante ed
esauriente, a renderlo in una figura vivace ed adeguata”; dall’altra è quiete e stasi,
“è la quiete del trovamento e del successo, è la stasi del possesso e della
soddisfazione”53. Nel primo aspetto possiamo cogliere il senso produttivo
dell’interpretazione, nel secondo quello contemplativo54.
La contemplazione è il culmine dell’attività interpretativa, e consiste nel
vedere la forma come forma, ovvero nell’averne trovato un senso. Alla
contemplazione è necessariamente collegato un piacere perché vengono terminati
e soddisfatto la sforzo e l’affanno tipici della tensione interpretativa. Posto ciò, si
può dire della bellezza che
è la contemplabilità e la godibilità delle forma in quanto forma, che s’offre
allo sguardo che sa farsi veggente e contemplante. […] La contemplazione
del bello presuppone sempre un movimento d’interpretazione, e ogni
52
Op. cit., p. 246.
Op. cit., pp. 190-191.
54
Cfr. Elvira Pera Genzone, L’estetica di Luigi Pareyson, Edizioni di Filosofia, Cuneo, 1963.
53
29
movimento d’interpretazione culmina sempre in un atto di contemplazione
estetica55.
Questo godimento contemplativo dunque non è caratteristico solo della fruizione
artistica, ma in generale di tutta al conoscenza umana. Poiché ogni conosciuto è
una forma, ogni conoscenza è interpretazione e ogni forma come tale è
contemplabile e godibile. Da ciò si capisce pienamente cosa voglia intendere
l’autore quando sostiene che la conoscenza abbia un carattere estetico.
Con queste considerazioni Pareyson riesce ad affermare un’estetica che sia
insieme sia della contemplazione che della produzione. Questo risultato può
essere visto come la contrapposizione e lo sviluppo dialettico dei presupposti
metafisici di un’estetica della perfezione e di un’estetica dell’espressione. La
prima presuppone una metafisica della realtà già compiuta, che fonda
filosoficamente la contemplazione e l’esemplarità del bello ma non la sua
produzione e la sua singolarità, finendo così per eliminare anche il carattere
produttivo della contemplazione che finisce per dissolversi in sé stessa nel
momento in cui è vanificata dal fatto di avere per oggetto mere riproduzioni e
copie. La seconda presuppone una metafisica della creatività, che fonda
filosoficamente solo la produzione e la singolarità del bello e che in tal modo
rende ogni contemplazione una nuova creazione. Ma così facendo compromette,
alla pari della prima, anche i concetti che ha fondato: se la contemplazione si
riduce ad autocreazione assoluta, la produzione, non potendo produrre dei
contemplabili, si dissolve in sé stessa. L’estetica della forma di Pareyson invece
salva sia il concetto di contemplazione che quello di produzione perché li afferma
insieme. Nella forma infatti “la contemplabilità è risultato e presupposto della
55
Pareyson, Estetica, cit., p. 196.
30
produzione, perché produzione è tanto quella che pone capo alla forma
contemplabile, quanto quella che culmina nella contemplazione che se ne fa”56.
Questa estetica presuppone una metafisica della figurazione, che contrasta con la
prima metafisica “nell’ammettere nella realtà un perpetuo rinnovamento e la
possibilità di continue innovazioni, e con la seconda nell’ammettere una
compenetrazione e una vita delle forme nel tessuto d’una costante plasticità”57.
Avendo così delineato i caratteri dell’estetica pareysoniana, vorrei in
conclusione di questo capitolo evidenziarne il carattere profondamente
personalistico58. I processi di produzione, esecuzione ed interpretazione possono
essere visti come processi dinamici di nascita e sviluppo di forme a partire da altre
forme, ma possono essere anche considerati sotto il comun denominatore della
persona:
L’operare umano è caratterizzato dal fatto che esso è sempre personale. […]
Nella persona si possono rinvenire due aspetti: la totalità e lo sviluppo. […]
Da un lato la persona è l’opera che io faccio di me stesso, conclusa e definita
in ogni istante, e dall’altro è opera in sviluppo, aperta a richiedere ed esigere
nuovi atti e nuovi svolgimenti. […] La persona è una forma, […] vivente in
sé stessa, totale nella legge di coerenza che la tiene unita in una definitezza
conclusa, dotata di un’esemplarità che la rende suscitatrice di atti esemplati
dal suo valore e di opere ispirate al suo carattere.
L’operare della persona è plasmatore di forme. Infatti se la persona è una
totalità infinita ma definita, ogni suo operare tende a sua volta a concludersi
in opere a loro volta definite e concluse, che vivono di vita propria e per
56
Idem, Teoria dell’arte, cit., p.59.
Ibidem.
58
Cfr. nota 7.
57
31
conto proprio possono svilupparsi e generare nuovi svolgimenti e suscitare
nuovi sviluppi59.
Così se nella persona e nei suoi prodotti si riscontra il carattere di forma, per
converso anche le forme che derivano dalla formatività, artistiche e non, risultano
avere sempre in loro un rimando alla persona. Dal momento che la creazione
artistica è un atto personale e che l’opera d’arte non vi è se non come espressione
della persona, Pareyson stesso arriva a dire che la persona sia soggetto e oggetto
dell’arte.
Soggetto dell’arte, in quanto la creazione artistica è iniziativa personale:
decisione di non servire che l’arte, dedizione al compiti d’artista, interesse
alla riuscita dell’opera come riuscita personale. Oggetto dell’arte, in quanto
nel sentimento ispiratore si riassume, come rifrazione personale della totalità
del reale, la totalità singola e irripetibile della persona. Come oggetto
dell’arte, la persona si risolve tutta intera nell’opera bella, nel senso che vi si
concentra, vi si condensa, vi s’esprime. Come soggetto dell’arte, la persona
non si esaurisce nell’opera bella, nel senso che la muove, la pone in essere, e
si afferma nel porla,e vi si riconosce invalorandola60.
E ugualmente la contemplazione estetica, alla pari di come rende viva e presente
la forma, riesce a concludere e definire la persona che si esprime nella forma e,
dal momento che nell’indagine dell’interpretazione personale emergono anche
caratteri propri di chi interpreta, a rivelare con grande chiarezza la persona
interpretante a sé stessa.
L’arte è così sia l’attività per cui l’artista può realizzarsi sia una fonte di
ispirazione di suggestioni mediante le quali lo spettatore può incrementare la sua
formazione spirituale.
59
60
Idem, Estetica, cit., pp.183-184.
Idem, Teoria dell’arte, cit., p. 24.
32
Questo valore personale dell’arte, che dà il ritratto d’una persona e rivela un
personale senso del mondo, giustifica l’impegno che si pone nel creare e nel
contemplare l’opera bella e dà ragione di quella che suol chiamarsi la serietà
dell’arte61.
61
Op. cit., p. 30.
33
Aspetti problematici
In questo capitolo intendo discutere di tre aspetti problematici che si
possono riscontrare nello studio dell’Estetica di Pareyson. Si tratta: 1) della
questione del rapporto dell’arte con la verità; 2) del problema di come
un’interpretazione possa dirsi riuscita e un’opera compresa (affrontato prendendo
in considerazione anche altre soluzioni che si riscontrano nell’ermeneutica); 3)
della considerazione del posto che libertà e necessità debbano qui trovare.
L’arte e la verità
Nell’opera che è oggetto di questa tesi, l’Estetica del ’54, Pareyson non
parla del rapporto che l’arte ha con la verità, ma indaga solo quello che essa
presenta con la morale e la filosofia62. Un primo nesso che si può riscontrare con
queste due discipline sta nella formatività, che si trova in tutte le attività umane e
di cui l’arte è puro esercizio. Anche la moralità e l’esercizio della filosofia
presentano una formatività costitutiva: le opere ed i caratteri etici sono forme, e lo
stesso si può dire di ogni filosofia per via dell’organicità germinale da cui
scaturiscono la sistematicità del discorso e la sua fecondità. L’arte a sua volta ha
un carattere morale, perché è un compito a cui l’artista deve dedicarsi come
ragione della sua vita, e uno filosofico, perché ogni opera può vedersi come una
Weltanschauung.
Tra queste discipline si possono trovare dei rapporti di equilibrio e
coordinazione e dei rapporti di squilibrio e subordinazione. Dal punto di vista
etico si hanno esiti negativi se la morale si abbandona all’estetismo, sostituendo il
62
Sarebbe erroneo considerare il rapporto arte-filosofia come analogo al rapporto arte-verità. La
filosofia non coincide con la verità, ma è piuttosto l’attività che tende a ricercarla. Parlando di
arte e filosofia si vuole indagare il rapporto che c’è tra l’arte e la ricerca della verità, nel secondo
caso invece si vuole indagare il rapporto dell’arte con la Verità stessa.
34
dovere col puro gusto, o se l’arte scade nel moralismo, vedendo prevalere il fine
etico/religioso su quello artistico e formativo. È invece positivo ed auspicabile che
nella vita etica si accentui con particolare evidenza la formatività che vi è
esercitata, in modo ch’essa acquisti un’intenzionalità che la renda in certo
modo fine a sé stessa, senza che ciò prevalga sul fine morale al punto da
opprimerlo o oscurarlo, ma anzi ne favorisca e ne promuova l’adempimento 63
e dalla parte dell’arte che “mentre l’opera raggia la sua bellezza e sprigiona il suo
senso morale, il lettore sia invitato a considerarla come guida non meno della sua
vita che del suo gusto”64. Queste riflessioni sul rapporto tra gusto e dovere,
assieme a quelle sulla forma e sul carattere ludico dell’arte, rivelano come
Pareyson sia stato un attento lettore di Schiller ed abbia interiorizzato pienamente
la lezione che questi dà nel suo pensiero estetico65.
Dal punto di vista filosofico si ha un rapporto squilibrato con l’arte sia
quando si arriva ad una considerazione estetistica della filosofia che concepisce le
filosofie come vere e proprie opere d’arte o che pretenda di darne una veste
artistica, sia quando si tenta una versificazione filosofica. Vi possono però essere
delle “filosofie che richiedono un esito artistico proprio per potersi realizzare
come pensiero filosofico, e c’è un’arte che proprio nella sua natura d’arte giunge
63
Pareyson , Estetica, cit., p.298.
Op. cit., p. 299.
65
Schiller ritiene la concezione kantiana del dovere troppo austera e razionale, e la accusa di non
avere riguardo nei confronti dell’elemento sensibile e sentimentale dell’uomo. Utilizzando la
nozione di bellezza intesa come “forma vivente” capace di appagare “l’impulso al gioco”, che è
l’impulso umano nel quale si riassumono in un’azione reciproca i due basilari impulsi umani rivolti
uno alla forma e uno alla sensibilità, egli propone che venga dato modo di passare dallo stato di
passività fisica del sentire a quello di attività logico/morale del pensiero attraverso uno stato
intermedio di “libertà estetica”. Viene così fondata sul gusto l’armonia in società, poiché esso
porta armonia del’individuo. Cfr. Friederich Schiller, Über die ästetische Erziehung des Menschen
in einer Reihe von Briefen (1795), tr. Di Giovanni Pinna: L’educazione estetica, Aesthetica edizioni,
Palermo, 2009. Per la lettura pareysoniana di Schiller cfr. Luigi Pareyson, Etica ed Estetica in
Schiller, Mursia, Milano, 1983.
64
35
ad avere funzione di filosofia”66, come ad esempio il pensiero di Kierkegaard e
Nietzsche o i romanzi di Dostoevskij: questi sono casi di un connubio equilibrato
tra le due discipline.
Nell’Estetica del ’54, dopo la trattazione del rapporto tra arte e morale ed
arte e filosofia, non si va oltre parlando di quello tra arte e verità perché si
concepisce l’opera come un orizzonte immanente in cui rientrano le varie
interpretazioni. Queste, sebbene esprimano la verità dell’opera in quanto suo
modo di inverarsi, non possono trascenderla in riferimento ad una Verità più
grande. Tuttavia, nell’evoluzione successiva del suo pensiero, Pareyson finirà per
mostrare un’apertura dell’arte verso la verità, sia nel processo artistico che in
quello di fruizione.
In Teoria dell’Arte tripartisce filosofia ed arte, stabilendo un’analogia tra
loro. Alla pari di come le filosofie possono essere a un livello più basso dei lavori
culturali che provvedono alla trasmissione del patrimonio del pensiero, poi
espressioni della propria epoca ed infine, in rarissimi casi, delle rivelazioni della
verità che “attingono l’origine eterna del pensiero e ne riportano un messaggio
inesauribile per l’umanità”67, così anche l’arte si divide in un basso tecnicismo,
spesso strumento dei media e del commercio, in un’arte espressione della
spiritualità dell’artista e rarissimamente in arte “che, nell’atto di esprimere la
spiritualità dell’artista, attinge e rivela l’origine ed il principio, e ne partecipa il
messaggio all’umanità”68. In questo terzo e più alto modo sia la filosofia che l’arte
rivelano una verità che mi pare analoga a quella che verrà poi postulata in Verità e
Interpretazione, ovvero una verità che coincide con l’essere e che si esplica nelle
66
Idem, Estetica, cit., p. 306.
Idem, Teoria dell’arte, cit., p. 197.
68
Op. cit., p. 198.
67
36
sue
infinite
interpretazioni
(si
parla
infatti
di
ontologia
ermeneutica
dell’inesauribile)69.
Senza sviluppare pienamente la portata ontologica della verità, sulla quale
Pareyson si concentrerà maggiormente in un periodo più tardo, già negli scritti più
giovani, come Esistenza e Persona, si può riscontrare che non sia presente
nell’autore un’idea di verità assoluta e acronica, ma piuttosto di una validità
relativa a una situazione, a un tempo, a una prospettiva. Questo, come ho già fatto
notare in precedenza, non vuol dire cadere nello scetticismo: la verità è
trasformata in un compito sempre immanente, in forma teleologica. Pur mutando
le conclusioni parziali a cui si arriva di volta in volta, rimane immutata la
determinazione stessa a dare la definizione meglio coordinata e integrata con le
strutture complessive del pensiero filosofico e della cultura, di modo che si acceda
ad una verità sul metro della quale altre definizioni potranno essere valutate70.
Si può dire in generale che nel pensiero di Pareyson il rapporto tra arte e
verità stia da una parte nell’interpretazione dell’opera, che come processo
ermeneutico contribuisce a schiudersi su una parte della totalità inesauribile ed
autoimmanente dell’Essere/Verità, dall’altra nell’atto creativo dell’artista, che
sembra però in questo caso quasi un aedo che canta ispirato dal dio, per cui
non è nemmeno più questione di responsabilità dell’artista: in quelle vette
supreme si verifica finalmente la convergenza dei valori, garantita non più da
una soggettiva interiorizzazione, ma garantita oggettivamente dalla fonte
stessa di tutti i valori. L’artista è stato a contatto diretto con l’origine, ove i
valori sono inseparabilmente congiunti: allora il senso della sua
69
Per un’analisi del rapporto tra arte e verità in Pareyson cfr. Carchia, Esperienza e metafisica
dell’arte. L’estetica di Luigi Pareyson., cit.
70
Cfr. Renato Barilli, L’estetica di Pareyson, in “Il Verri” n. 6, Milano, 1961.
37
responsabilità gli è direttamente suggerito da quell’ordine di cui egli si rende
testimonio presso gli uomini, e a cui soltanto deve render conto del modo con
cui ha esercitato il suo potere71.
Congenialità o fusione di orizzonti?
Motivo fondamentale per il discorso ermeneutico è l’indagine sul criterio
in base a cui si può dire che un’interpretazione sia valida e sui meccanismi di
quest’ultima. Fino al XIX secolo l’ermeneutica era una disciplina puramente
filologica e la tendenza generale stava nel pensare che l’interpretazione corretta di
un’opera fosse una sola. Da questa considerazione nascevano di epoca in epoca
diversi canoni ermeneutici, miranti tutti ad arrivare al messaggio originario che
l’autore preso in esame si pensava volesse tramandare e a cogliere il vero
significato delle opere: vi era sempre una pretesa di fedeltà. Schleiermacher, uno
dei precursori dell’ermeneutica filosofica, intendeva l’interpretazione come una
comprensione eseguita a regola d’arte. Con essa l’interprete doveva vincere il
fraintendimento iniziale che, a detta del teologo tedesco, inevitabilmente si crea
nell’approccio con un autore e riuscire ad immedesimarsi con esso ed entrare
nello spirito della sua epoca fino ad attingere il suo originale punto di vista, per
mezzo del quale poi leggere l’opera.
Nel XX secolo le cose sono cambiate, specie dopo che Heidegger, come si
è visto, mise l’accento sul carattere universale del comprendere. Egli inquadrò
l’essere in una temporalità che vede integrarsi tra loro passato e presente e mostrò
come comprensione e interpretazione danno modo di esistere al “ci” dell’esser-ci.
L’essere dell’esser-ci è infatti un ente aperto, e può essere afferrato solo in una
71
Pareyson, Teoria dell’Arte, cit., p.198.
38
determinata comprensione, che gli da modo di essere presente72. L’attenzione non
è volta tanto allo scrupolo filologico di ricreare le condizioni di comprensione
presenti nel momento della nascita dell’opera, quanto piuttosto al potere che ha la
comprensione di attualizzare e rendere presente un qualcosa di passato o in
generale di altro da noi.
Così sono gettate le basi su cui lavoreranno Pareyson e Gadamer. Entrambi
partiranno dall’assioma dell’identità di interpretazione e comprensione: se per
l’ermeneutica filologica l’avere eseguito un’interpretazione era condizione
necessaria ma non sufficiente per avere raggiunto la comprensione di un’opera,
perché poteva anche darsi il caso che l’interpretazione fosse sbagliata, in questo
nuovo orizzonte ermeneutico il fatto di interpretare qualcosa è già indice del fatto
che se ne stia avendo una comprensione, ovvero che ne stia avvenendo una
determinata presentificazione e attualizzazione73.
Si è visto come per Pareyson è necessario, affinché l’interpretazione abbia
luogo, che tra opera e interprete vi sia naturale congenialità oppure che si riesca a
creare quest’affinità con uno sforzo volontario di penetrazione. In caso contrario
si parlerà di interpretazione fallita, ovvero di mancata comprensione della forma.
In ciò abbiamo uno dei pochi punti in cui possiamo trovare disaccordo tra
Pareyson e Gadamer: secondo quest’ultimo ai fini dell’ottenimento di una
comprensione non è necessario alcun tipo di congenialità. Egli preferisce insistere
sull’eterogeneità degli orizzonti linguistici a cui appartengono interprete ed
interpretato e sulla crescita ontologica che avviene a seguito dell’incontro di
72
Cfr. Martin Heidegger, Essere e Tempo, cit.
Per una panoramica più approfondita su questi concetti nella storia dell’ermeneutica cfr.
Franco Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, 2005.
73
39
linguaggi diversi e dell’integrazione di uno nell’altro mediante la fusione di
orizzonti74.
Questo risultato sembra diverge significativamente da quello di Pareyson,
che non ha pensato di insistere così tanto sulla linguisticità dell’Essere. Tuttavia, a
mio parere, se volessimo tradurre il discorso pareysoniano nel linguaggio
gadameriano, potremmo riuscire a ricondurre la presenza di congenialità tra opera
ed interprete al fatto di appartenere ad un orizzonte linguistico molto simile, se
non addirittura al medesimo, e la mancanza di congenialità all’appartenenza a due
orizzonti linguistici diversi. In quest’ultimo caso lo sforzo che viene fatto per
produrre la congenialità può essere visto come un tentativo di fusione di orizzonti.
La distanza tra i due autori va così a ridursi ulteriormente.
Per Pareyson quando si interpreta è indispensabile riuscire a ricostruire il
processo operativo dinamico dell’opera. Si ha comprensione proprio quando si sa
rendere presente l’opera facendo operare il suo effetto. Per Gadamer “la
ricostruzione di ciò che di fatto pensava l’autore rappresenta un compito parziale e
riduttivo”75. Egli vede la comprensione di un’opera come la ricostruzione della
domanda a cui essa rappresenta la risposta, e “questa è la ragione per cui ogni
comprensione è sempre di più che la semplice riproduzione di sé in un’opinione
altrui. In questa domanda, il comprendere apre delle possibilità di senso, e in tal
modo l’oggetto dotato di senso trapassa nell’opinione dell’interprete”76. Queste
concezioni sono esattamente il contrario della vecchia concezione del significato
74
Cfr. Hans Georg Gadamer, Verità e Metodo, cit.; per l’utile confronto tra Pareyson e Gadamer
rimando anche a Bottani, Estetica, interpretazione e soggettività. Hans Georg Gadamer e Luigi
Pareyson, cit.
75
Gadamer, Verità e Metodo, cit., p.430.
76
Op. cit., p. 433.
40
di un’opera come identico alla precipua idea dell’autore nel momento della
creazione.
In queste due prospettive ermeneutiche, come anche in quelle a loro affini,
il concetto di fraintendimento è del tutto ripensato e cambia quasi di significato.
Nell’ermeneutica classica esso consisteva nel non essersi riusciti a figurare la
precisa idea originaria dell’autore ed era considerato in una maniera decisamente
negativa: fraintendere un’opera voleva dire non averla capita, non essere arrivati
all’unico preciso messaggio contenutistico di cui essa sarebbe portatrice. In ogni
caso il fraintendimento non escludeva che fosse avvenuta una comprensione, anzi
lo richiedeva; questa poi, dal momento che non coglieva il vero senso dell’opera,
sarebbe stata da ritenersi sbagliata.
Tenendo ferma una simile concezione, potremmo dire che in Pareyson e
Gadamer l’interpretazione di un’opera in un certo senso è sempre un
fraintendimento. Infatti non ci perviene mai ciò che precisamente aveva in mente
l’artista, ma sempre un qualcosa di diverso, filtrato dal nostro specifico modo di
fruire e renderci presente un’opera. La vicinanza o la coincidenza con la fruizione
dell’opera che avrebbe potuto avere il suo creatore non sono più un ideale. Questo
anche perché il messaggio che viene trasmesso non è più unico e non è più un
contenuto in senso stretto: presenta piuttosto la malleabilità, la capacità di
svilupparsi su sé stesso e la molteplicità proprie di una forma. Fraintendimento
non è più avere una comprensione sbagliata, ovvero diversa da quella dell’autore
originario, perché il riuscire ad avere una comprensione è sempre un entrare nel
41
“gioco” dell’opera d’arte77. Semanticamente esso si appiattisce totalmente
sull’incomprensione: non a caso il termine “fraintendimento” si attesta raramente
nell’opera dei due filosofi che abbiamo preso in esame.
L’essersi concentrati particolarmente sui fenomeni di comprensione ed
interpretazione e l’aver sottolineato la loro portata universale ha forse lasciato in
ombra la portata conoscitiva che ha il fraintendimento. Esso, mantenuto nel suo
significato classico, potrebbe essere visto come una parte costitutiva del processo
di fusione di orizzonti e spogliato della sua valenza negativa. Con ciò non voglio
dire che si debba autorizzare la completa libertà delle interpretazioni e accettare
anche le letture di un’opera che risultino palesemente dissonanti con essa e fuori
luogo (in questo caso si avrebbe veramente un fraintendimento nel senso negativo
del termine), ma che, se inteso come la presentificazione del pensiero di un autore
e della sua opera (la quale necessariamente non può coincidere con la lettura che
se ne dava originariamente perché ognuno ha un suo modo di eseguire diverso e
personale), può essere visto come una componente ineliminabile per arrivare a
una comprensione e ad una conoscenza positiva.
Libertà e necessità
Vari elementi potrebbero far pensare che nell’Estetica di Pareyson vi sia
una intrinsecamente una sorta di determinismo: il fatto che ogni forma deriva da
77
Sia Pareyson che Gadamer, e ancora prima di loro Schiller, amano proporre una considerazione
ludica dell’esperienza estetica. “L’essere dell’arte non può venir definito in quanto oggetto di una
coscienza estetica, giacché all’opposto l’atteggiamento estetico è più di quanto esso stesso sa di
essere. Esso è una parte del processo ontologico della rappresentazione e appartiene
essenzialmente al gioco in quanto gioco. […]Il gioco è forma; e ciò significa che, nonostante il suo
necessario rimando alla rappresentazione, esso è un tutto significativo che come tale può essere
ripetutamente rappresentato e compreso nel suo proprio senso. La forma, dal canto suo, è anche
gioco in quanto, nonostante questa sua ideale unità, raggiunge il suo essere pieno solo nelle
singole rappresentazioni, nell’esser via via giocata. È la reciproca connessione di questi due
aspetti quella che va sottolineata, contro l’astrattezza della differenziazione estetica” (Gadamer,
Verità e Metodo, cit., pp. 148-149).
42
altre forme e si sviluppa in maniera necessaria, che gli sviluppi di un’opera
crescono all’interno della sua stessa immanenza, che i termini forma formante e
forma formata presentano un’incredibile assonanza con le nozioni di natura
naturans e natura naturata utilizzate da Spinoza (che ha la nomea, anche se forse
non a ragione, di filosofo della necessità). Ma che Pareyson sia un determinista
risulta oltremodo strano se si tiene a mente che Pareyson è ricordato come il
filosofo della libertà. Proprio uno dei suoi ultimi lavori si intitola Filosofia della
libertà78. In questo scritto di carattere spiccatamente ontologico ed esistenzialista,
Pareyson, rivelando la sua profonda cristianità, a partire dall’esegesi di alcuni
passi biblici definisce la libertà come un puro cominciamento che si origina da sé,
pura posizione di sé. Essa non prosegue niente che la precede, e nulla di ciò che la
precede ne spiega l’avvento. In questo modo viene affrontato il grande problema
del nulla: esso non può essere giustificato a partire da una filosofia dell’essere, la
quale deve necessariamente presentare una positività unitaria e compatta, ma da
una filosofia della libertà. Il fatto che la libertà cominci da sé infatti vuol dire che
essa comincia dal nulla. Ciascuno dei due termini non sussiste senza riferimento
all’altro. Tutto ciò viene legato all’atto originario in cui Dio origina sé stesso e si
pone come positività originaria: Dio è la vittoria sul nulla.
Come si può notare, queste ultime riflessioni pareysoniane sulla libertà si
allontanano dalle tematiche che sono state qui trattate fin ora: l’estetica non è
minimamente menzionata e il discorso si rivolge sul gurgite vasto dell’ontologia e
della teologia. Va detto che l’opera che ho appena citato appartiene all’ultimo
periodo di riflessione dell’autore, dove egli si interessa al problema della libertà e
78
Cfr. Luigi Pareyson, Filosofia della libertà, Il Melangolo, Genova, 1990.
43
del male attraverso un’ermeneutica dell’esperienza religiosa, mentre l’Estetica
appartiene ad un periodo precedente, quello di passaggio dalle sue riflessioni
giovanili sull’esistenzialismo personalistico al suo pensiero più maturo
riguardante la definizione dell’ontologia dell’inesauribile (ossia della filosofia
interpretativa della verità inesauribile)79.
In ogni caso, il concetto di libertà che viene elaborato in Filosofia della
libertà si presta male ad essere applicato al processo artistico per come è esposto
nell’Estetica. Un’opera d’arte non nasce dal nulla, ma è sempre frutto di uno
spunto e deriva da altre forme. È Pareyson stesso a dire che l’operare umano non
è mai assolutamente creativo (ovvero che inventa dal nulla qualcosa di totalmente
originale), e che l’originalità dell’artista si costruisce attraverso l’imitazione80. La
libertà come contrapposizione e nascita dal nulla sembrerebbe essere attribuibile
solo all’azione originaria di creazione di Dio e non all’artista o all’opera d’arte. La
libertà dell’artista è sempre una libertà rispetto a qualcosa.
Non è corretto nemmeno dire che il processo artistico sia dominato
soltanto dalla necessità. Anzitutto bisogna pensare che per giungere allo stato di
forma formata l’opera deve incontrarsi con una materia, e questo incontro è del
tutto contingente. È vero che uno scultore sceglie il blocco di pietra su cui
lavorare, ma lo sceglierà tra un determinato numero di esemplari che gli verranno
proposti e non tra tutti quelli esistenti nel mondo. Così la scelta è legata alla
contingenza del fatto che allo scultore vengano presentati alcuni materiali
piuttosto che altri, e ciò non rientra nella necessità della forma formante. Non si
può sapere il modo preciso in qui questa si svilupperà prima che venga scelta la
79
80
Cfr. Francesco Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, cit., pp. 37-67.
Cfr. Pareyson, Estetica, cit., pp. 137-175.
44
materia, né quindi l’aspetto della forma formata potrà apparire in maniera cogente
se si prescinde da questa scelta, che però è contingente. Va poi considerato che
l’opera viene sempre a contatto con persone, che hanno carattere di apertura e si
costituiscono a partire dal contatto con altre forme. Anche il fatto che una persona
venga a contatto con determinate forme piuttosto che con altre è assolutamente
contingente. L’unico aspetto dell’opera in cui possiamo trovare una necessità
stringente è nella sua operatività: date una determinata materia ed una determinata
persona, la forma formante si svilupperà necessariamente in una certa direzione, e
non potrà fare altrimenti. Poiché però non sono intrinseche nello spunto né
l’esemplare particolare di materia con cui verrà realizzato, né le singole persone, a
loro volta determinate da incontri contingenti con altre forme, che ne saranno
esecutrici, non si può dire che il processo artistico sia assolutamente necessario.
Bisognerà allora optare per una soluzione che consideri la coesistenza
nell’arte di aspetti sia di contingenza81 che di necessità. L’opera d’arte colpisce
per la contingenza del processo che la compie, ma insieme avvince
per la
necessità con cui la sua legge la tiene stretta in un’indissolubile armonia. Per
questo per svelare il grande mistero dell’arte non bisogna separare le due cose. Da
una parte l’opera arte è un’esistenza autonoma, dall’altra è continuazione e
sviluppo necessario di altre forme. Come ha scritto un’interprete di Pareyson:
“non irrigidire autonomia e continuità o, vichianamente parlando, imitazione e
invenzione, è perciò fondamentale per comprendere le intime ragioni del vario
divenire dell’arte”82.
81
82
Non uso la parola “libertà” per via delle sue connotazioni ontologiche e teologiche su viste.
Elvira Pera Genzone, L’estetica di Luigi Pareyson, cit., p. 8.
45
Si può così dire che questo carattere di cooperazione dialettica di necessità
e contingenza che spicca così tanto nell’arte altro non è che l’apoteosi
dell’inscindibilità di recettività e spontaneità che si trova in generale nella
formatività dell’agire umano:
Nella formatività del fare artistico si mostra quindi, nella sua purezza, anche
quella di ogni fare umano; essa consiste nell’inscindibilità di recettività e
spontaneità, necessità e libertà, ossia iniziativa e iniziativa iniziata, natura e
grazia,
auto
relazione
ed
etero
relazione,
cioè
nell’ermeneuticità
dell’esistenza. L’attività artistica è recettiva la “forma formante”, l’idea da
interpretare, porre in forma e, tuttavia, da immaginare pro-duttivamente,
formativamente. Questa circolarità ermeneutica è il “mistero” dell’esserci
mostrato nell’arte83.
83
Francesco Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, cit., p. 50.
46
Conclusione
Nello svolgimento di questa tesi ho fatto notare diverse volte come
l’estetica di Pareyson sia risolutiva nei confronti di alcuni problemi dell’estetica e
come la sua teoria comprenda diversi fenomeni, nei processi di creazione e
fruizione artistica, che le estetiche ad essa precedenti trascuravano o non
riuscivano a conciliare. Ho scelto qui di presentare la Teoria della Formatività non
solo per la sua forza teorica e per la sua eleganza, ma soprattutto, usando una
terminologia pareysoniana, perché sentivo che mi era particolarmente congeniale.
Ben conscio che il filosofo non è l’artista e che queste due figure hanno compiti
molto differenti, durante i miei studi di estetica mi è parso diverse volte che per
presentare filosoficamente l’arte le si attribuissero di per sé intenti troppo
intellettuali o ideali e che si ignorasse la sua componente pratica e materiale,
semplice e di poche pretese filosofiche.
È vero che fare e contemplare l’arte è un’attività che eleva l’uomo, che gli
permette di esprimersi in modo creativo e che porta non solo alla scoperta, ma
anche alla creazione di nuovi mondi spirituali. L’arte è un modo nuovo e diverso
di vedere, rappresentare e conoscere la realtà, approfondendone aspetti che
rimangono oscuri alla razionalità fredda e priva della ricchezza immaginativa.
D’altro canto è un dato di fatto, che non dovrebbe sfuggire all’analisi dell’estetica,
anche questo: spesso né l’artista né il fruitore di un’opera sono persone istruite e
non hanno gli strumenti per costruire strabilianti architetture metafisiche al di
sopra di un oggetto frutto della creatività, ma provano sentimenti semplici, che
sono ugualmente meravigliosi. L’arte stessa, prima che sorgesse la riflessione
estetica, non veniva idealizzata, né vista discendere dalle sacre vette dell’Elisio. Il
47
formare la materia è stato considerato per la stragrande maggioranza del corso del
pensiero occidentale come lavoro artigianale, senza pretese sovrasensibili. E
questo perché di fatto lo è: per modellare la materia, che sia un suono, un colore,
una pietra o delle lettere, c’è da sporcarsi le mani e da adoperare una tecnica. Nel
momento della formazione è egemone la preoccupazione formativa, che è tutta
rivolta alla materia e non al sovrasensibile. Per questo motivo l’artista è da sempre
stato considerato per lo più un artigiano, e al suo lavoro, per quanto risultasse
piacevole ai sensi, è raramente stata conferita la dignità del lavoro
dell’intellettuale, rispettando l’antica distinzione tra poiesis e theoria.
L’arte ha dunque aspetti diversissimi. Pensare che alcuni escludano altri è
un errore, perché di fatto non è così: se vengono riscontrare determinate
prerogative bisogna riconoscere che in qualche modo ci siano, pur se tra di loro
risultano contraddittorie. Del resto l’arte è forse l’ultimo luogo in cui si debba
pensare di usare il principio di non contraddizione, dal momento che è
l’espressione per eccellenza della libertà, della possibilità di convivenza degli
elementi più eterogenei84 e delle varie personalità che in essa si possono
rispecchiare. Dunque se è un errore non considerare attentamente gli aspetti più
materiali dell’arte, come fanno le riflessioni più idealiste, altrettanto sbagliato è
negare il suo lato spirituale, come fa a volte il pensiero più materialista o
riduzionista. Pareyson con molta intelligenza presenta la materia e la forma in
modo inscindibile l’una dall’altra, facendo dell’opera un sinolo aperto verso una
ricchezza interpretativa inesauribile e contenente in se tutti gli aspetti suddetti.
84
Solo a titolo di chiarimento vorrei porre all’attenzione il fatto di come la convivenza di elementi
contrari nella stessa opera possa a volte essere decisiva per la bellezza e lo spessore di questa.
Tra gli innumerevoli casi che si potrebbero citare si pensi per esempio al carme 85 di Catullo,
dove egli afferma di essere contemporaneamente preso da amore e da odio, sentimenti opposti
e strazianti, o al frammento 130 di Saffo, dove Eros viene definito come dolceamaro.
48
L’estetica, fa notare Pareyson, non deve avere carattere normativo per gli
artisti. Essa infatti ha carattere speculativo, ed è l’intera filosofia applicata all’arte.
A mio avviso si possono distinguere diversi modi di fare filosofia. Da una parte vi
può essere una filosofia fatta in biblioteca o negli studi, che parte dalle
considerazioni che si trovano nei libri di autori precedenti e si sviluppa cercando
di aggiustare il materiale di fronte a cui si trova nella migliore soluzione
speculativa possibile, che riesce ad andare oltre il suo punto di partenza
argomentando in modo nuovo e che trae le sue idee originali dagli spunti che
sorgono nel confrontare le varie linee di pensiero. Dall’altra si può pensare ad una
filosofia fatta en plein air, che fa partire la riflessione non dai libri, ma
esclusivamente dalla propria personale esperienza del mondo. Entrambi questi tipi
di filosofia teorizzano, ovvero ordinano del materiale disparato e senza un
esplicito nesso tra le parti in un sistema significativo e coerente. Se però la
filosofia “da studio” può difettare nel momento in cui va a cercare un riscontro
mondano delle cose che sta dicendo, anche perché l’elevatezza dei picchi
speculativi che si possono raggiungere rischia di far sembrare il mondo un punto
lontano, quella en plein air può sembrare ingenua e corre il pericolo di ignorare
concetti fondamentali per la filosofia, e quindi di osservare il mondo con occhi
miopi. Da un lato di possono avere ottimi strumenti di osservazione ma non porsi
di fronte al mondo, dall’altra si può avere tutto il mondo davanti pronto per essere
osservato, ma essere pressoché ciechi. La soluzione migliore è dunque pensare un
altro modo di fare filosofia che integri questi due, sia utilizzando i libri come lente
per osservare il mondo, sia vedendo quest’ultimo come un qualcosa di non
distaccato dai libri, che in ultima analisi ne sono parte a tutti gli effetti. In questo
49
modo si può pensare di avere un vero arricchimento della propria Weltanschauung
personale, fornendole materiale dall’esperienza e dal confronto con quella altrui.
Se dunque l’estetica è l’intera filosofia applicata all’arte, penso che l’estetica di
Pareyson rientri in questo ultimo tipo di filosofia.
A volte concentrandosi troppo sull’arte, si finisce per fare riflessioni
spicciole, producendo un’estetica en plein air. Altre volte, forse perché assorti a
inserire ogni cosa del mondo in un mastodontico sistema filosofico, si da adito ad
un’estetica “da studio”. Per riuscire ad elaborare un qualcosa come la Teoria della
Formatività invece bisogna avere grande esperienza non solo della filosofia, ma
anche dell’arte. Non è facile né immediato cogliere l’incredibile varietà di aspetti
che ha in sé il fenomeno dell’arte, ed è ammirevole che Pareyson non solo riesca a
cogliere nella sua complessità il processo di fruizione, ma anche quello della
produzione artistica, avendo ben presente le problematiche che si possono
presentare all’artista o all’esecutore pubblico. Così, se una grande esperienza
dell’arte porta a conoscere in profondità i suoi innumerevoli aspetti e le sue
sfumature, la perizia filosofica permette di conciliarli insieme, unendo tutto questo
materiale in una concezione unitaria e dando come risultato una teoria estetica di
larghe vedute.
50
Bibliografia
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-
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-
Kierkegaard e Pascal, a cura di Sergio Givone, Mursia Editore, Milano
1998.
Opere filosofiche citate di altri autori:
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Friederich Schiller, Über die ästetische Erziehung des Menschen in einer
Reihe von Briefen (1795), tr. Di Giovanni Pinna: L’educazione estetica,
Aesthetica edizioni, Palermo, 2009.
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51
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Idem, Om Begrebet Angest (1844), tr. di Cornelio Fabro: Il concetto
dell’angoscia, Sansoni, Milano, 1966.
-
Martin Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. Di A. Marini: Essere e Tempo,
Mondadori, Milano, 2011.
-
Hans Georg Gadamer, Wahrheit und Methode (1960), tr. Di G. Vattimo,
Verità e Metodo, Bompiani, Milano, 2010.
-
Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
-
Gianni Vattimo, Poesia e ontologia, Mursia, Milano, 1968.
Letteratura secondaria su Luigi Pareyson:
-
Filippo Piemontese, La «Teoria della formatività», in Humanitas, X
(1955).
-
Renato Barilli, L’estetica di Pareyson, in “Il Verri” n. 6, Milano, 1961.
-
Elvira Pera Genzone, L’estetica di Luigi Pareyson, Edizioni di Filosofia,
Cuneo, 1963.
52
-
Livio Bottani, Estetica, interpretazione e soggettività. Hans Georg
Gadamer e Luigi Pareyson, in “Teoria”, ETS, Pisa, II/1982.
-
Gianni Carchia, Esperienza e metafisica dell’arte. L’estetica di Luigi
Pareyson, in Rivista di estetica, Torino, 40-41 anno XXXII, 1993.
-
Francesco Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, Editrice
Morcelliana, Brescia, 2003.
Sulla storia dell’estetica e dell’ermeneutica:
-
Paolo D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento, Laterza, Bari, 1997.
-
Franco Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, 2005.
-
Vercellone A. Bertinetto G. Garelli, Lineamenti di storia dell’estetica, Il
Mulino, Bologna, 2008.
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