Testo D. Pitteri(application/vnd.openxmlformats

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Daniele Pittèri
Direttore
Complesso Museale Santa Maria della Scala di Siena
Che vita ha fatto a immaginarsela, la vita
Esistenze. Essenziali – dormire, mangiare, lavarsi, ascoltare una voce radiofonica gracchiante,
mezz’ora d’aria - e complesse, di una complessità incomprensibile per chiunque non le attraversi,
fatte di pensieri utili ad allontanarne un altro, distrazioni dalla morte annunciata.
Esistenze compresse dentro cubicoli di 6 metri quadri, meno della metà della più infima stanza
degli alberghi di terzo ordine nei porti d’oriente, dilatate tuttavia in un tempo breve per una vita, ma
lunghissimo per un’attesa. 10 anni e ottantasette giorni di vita effimera, a termine programmato, a
scadenza, una durata che si è costretti ad attraversare, esistendo senza vivere, tenuti in vita, malati
sociali terminali: “Se ho paura del mio futuro? Il mio futuro consiste in sette giorni da quando avrò
finito di scrivere questa lettera”.
Eppure esistenze, anche se così anguste, anche se confinate dentro pochi metri cubi, escluse dal
resto del mondo, dimenticate, accantonate, perdute. Percorsi spirituali e intimi di uomini e donne,
popolati di pensieri impossibili (“è che non riesco a dare forma ai miei pensieri”), sensazioni,
umori, ricordi (“alcuni sono ossessionati dai loro fantasmi”), dolori, attese (“sono rimasto sdraiato
sul letto per più di un’ora, con le mani dietro la testa e ho guardato il soffitto … non mancare alla
prossima visita”) e magari speranze, ma consapevoli non solo della fine certa, ma anche della
modalità della fine, un lungo training, la concentrazione estrema prima del nulla. “Quello che
bisogna fare è soffocare il proprio io interiore e, al tempo stesso, crearsi un’immagine esterna senza
cedimenti … Solo che non è semplice … Allora non c’è altra scelta che rassegnarsi al dolore, alla
frustrazione …”
Queste esistenze Luisa Menazzi Moretti non le documenta, né le interpreta. Le trasfigura. Le
compenetra, le filtra attraverso la propria sensibilità e le rimanda, trasfigurate appunto, sotto forma
di immagini che non raccontano, ma che danno forma ai pensieri, alle sensazioni e alle emozioni
provocate in lei dai pensieri, le sensazioni e le emozioni non di reietti a scadenza, ma di esseri
umani che, nonostante tutto, esistono.
La forza espressiva del suo lavoro, così come la colgo con la mia sensibilità, ovviamente parziale e
particolare, si condensa in due elementi essenziali (che costituiscono l’essenza del suo lavoro): la
“non rappresentazione”, perché le sue fotografie danno forma alle parole di quei condannati
trasmutando da un linguaggio verbale ad uno visuale una condizione intima; la creazione di un
racconto arbitrario, che scollega il significato dal significante, annullando qualsivoglia
collegamento di causa/effetto fra le frasi cui si ispira e le immagini che realizza, e che determina
due percorsi distinti, narrazioni che prescindono l’una dall’altra. Così facendo evoca esistenze che
accadono in una condizione unica. Ci dice, con le sue fotografie, di morti viventi o, meglio, di
viventi morti, di esseri umani attraversati da una frattura insanabile che separa la vita biologica da
quella spirituale. Semplicisticamente: anime morenti in corpi viventi.
Quando con Luisa Menazzi Moretti abbiamo iniziato a parlare di questo progetto, quando per la
prima volta me lo ha mostrato, mi hanno subito colpito la potenza espressiva e l’intensità delle sue
immagini, la sua capacità di determinare, attraverso di esse, una distrazione cognitiva ed emotiva,
trasferendo la riflessione sulla pena di morte da una sfera etica e sociale ad un dimensione
esistenziale. Le proposi subito di esporre 10 anni e ottantasette giorni al Santa Maria della Scala,
luogo certamente di memoria, ma anche luogo vivo e pulsante, grande “organismo” che nel corso
dei secoli si è informato di linguaggi e culture diverse, ma anche di dolori e di gioie, di nascite e di
morti, di ristori e di salvezze. Luogo di esistenze, una parte importante della sua identità.
Non si sapeva ancora, all’epoca di quel primo incontro, che EMOP Berlin 2016 avrebbe scelto e
ospitato nel suo programma ufficiale la mostra. Ne fui felice per Luisa Menazzi Moretti e mi
sembrò un piccolo segno del destino, come se la sorte volesse necessariamente ribadire un altro
pezzetto dell’identità del Santa Maria, il suo essere, appunto, luogo di incontro di mondi e culture
diverse.
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