Perché non siamo il nostro cervello Cap 1 La coscienza è come il denaro. Non c’è niente che fa della carta un dollaro, così come non è il mio cervello che fa la coscienza. La coscienza è più un qualcosa che “facciamo”, piuttosto che una cosa che “accade” dentro di noi. È più simile alla danza che alla digestione. La coscienza è ciò che siamo in relazione col nostro cervello, la nostra storia e il mondo che circonda. Questa è la spiegazione del perché, per Noe, le neuroscienza e la filosofia della mente non hanno ancora alcuna risposta su cosa sia la coscienza: viene cercata nel posto sbagliato. In realtà non vi è nessun “posto” dove cercare, ma bisogna capire come essa viene creata. In questo libro il temine coscienza significa fondamentalmente “esperienza”. Noe cita un film […], per esprimere il concetto che un cervello senza corpo non è effettivamente niente. nel film, per rendere “umano” il cervello senza corpo si usano espedienti simili a un “volto”. Senza un volto, senza un corpo , non c’è coscienza. Da questo punto ipotizza, per assurdo, che se la coscienza risiedesse solamente nel cervello, allora in linea teorica sarebbe possibile trasportare una coscienza anche in una capsula di petri. In seguito Noe parla delle nuove tecnologie (come PET o fMRI) criticando l’assunzione totale delle loro rilevazioni, che sono grossolane e imprecise. Inoltre spiega come alcuni pazienti definiti “vegetali”, pur essendo dentro un corpo paralizzato totalmente (sindrome del chiavistello) siano in realtà pienamente coscienti, mentre altri che sembrano reagire agli stimoli sembrino in realtà totalmente incoscienti. Questo per dimostrare che i problemi relativi al quesito mente-corpo sono ancora aperti e irrisolti. Cap 2 Il problema della mente altrui è il primo punto che affronta l’autore. Non possiamo, dice, prendere sul serio l’ipotesi che gli altri non abbiano mente, perché vorrebbe dire avere un atteggiamento distaccato in piena disarmonia con un rapporto che già c’è e ci determina, quindi insensato. Come possiamo conoscere la mente degli altri? Noe mostra come l’uomo ha una naturale propensione per attribuire menti anche ad oggetti e animali che non la posseggono. Fa l’esempio di un robot che risponde empaticamente ai suoi interlocutori che si lasciano ingannare di essere realmente compresi o ascoltati. I dati sulla mente sono così pochi che niente mi impedisce di supporre che la mente altrui sia illusoria non meno di quella del robot. I bambini non hanno la cosiddetta “teoria della mente”, ovvero l’idea che anche gli altri posseggano una mente diversa dalla loro (se metto X in A e tu sposti X in B senza che io lo sappia, dove cerco X? I bambini rispondono erroneamente B). Ma Noe si oppone a questa credenza, i bambini hanno un fortissimo legame sociale e sentimentale, anzitutto con la madre. Ricerca attenzioni e condivide sorrisi, si delude, si mortifica. Probabilmente il bambino non ha la concezione che la mente dell’altro sia inaccessibile ed esclusiva a sé stessi. Noe afferma più volte che è assurdo dubitare della coscienza degli altri (mogli, figli, genitori), benché non ci sia prova che esse effettivamente esistano. Il punto è rapportarsi in modo pratico e non teorico, poiché l’impegno sociale e l’interazione con l’altro, è sempre pratico. Il bambino non si interroga sulla mente della madre, la viva, la sente, è. [cita Blade Runner per mettere l’accento su cosa sia la coscienza e la qualità dei rapporti umani] Non possiamo ragionare in modo meccanicistico, l’uomo non è un oggetto da manipolare e prevedere, ma esperienza e umanità che vanno compresi. La Germania degli anni ’30 ha fatto dei crimini inauditi proprio perché rifiutava l’accettazione dell’umanità negli ebrei. Una coscienza possiamo attribuirla anche agli animali domestici. Per esempio i cani instaurano con noi un rapporto di cooperazione e fiducia e noi naturalmente ci approcciamo a loro con amore e gli attribuiamo dei pensieri complessi. È l’interazione e cooperazione, il ragionare in modo non meccanicistico, che ci fanno comprendere l’altro. Il paradosso è proprio questo: la scienza indaga in modo freddo, meccanicistico e distaccato, ma la mente non può essere compresa se non con l’atteggiamento opposto. La biologia, ad esempio, indaga un organismo nel suo essere, ma non nel suo vivere. Il batterio tramite legami ecc ecc. è indirizzato verso lo zucchero, questo può essere tradotto come “impulso”, “azione”, “desiderio”. Con ciò non si intende dire che il batterio ha una coscienza propria e una volontà, ma il paragone è che la mente è la vita; e si deve studiare il batterio per come vive, come interagisce e quanto è integrato col proprio ambiente, per comprenderlo. Stessa cosa andrebbe fatta con la coscienza. Oltre che i tratti, i geni, gli impulsi elettrici del cervello, va studiata la storia, la società e la cultura. Per comprendere la mente bisogna comprendere la vita e il modo di vivere. [esempio dei cercopitechi e la loro straordinaria capacità di riconoscere linee di parentela matrilineari. Forse non hanno il concetto di parentela, ma questa capacità influenza drasticamente la loro vita, la loro mente e la loro coscienza] Cap 3 Come scaturisce la coscienza nel nostro cervello? Non lo fa. Noe comincia a spiegare perché sia fondamentale guardare oltre i limiti della scatola cranica se si vuole comprendere la coscienza. Non è nelle cellule o nei neuroni che si può spiegare la mente, sarebbe come voler spiegare la danza a livello di muscoli! Bisogna prendere sul serio l’ipotesi che la mente è accessibile studiando l’ambiente. Nessun uomo è un isola. L’interazione con gli altri e con l’ambiente sono determinanti per la nostra struttura mentale [esempio del rapporto bambino-madre, il contatto, la poppata, sono esperienze che già formano e preparano il bimbo al mondo; esempio con ambiente: un trasloco o una migrazione scuotono la nostra routine e l’interazione con l’ambiente è difficoltosa. Inoltre percepiamo il tempo diversamente a seconda di come interagiamo con l’ambiente]. Noe dimostrai infatti come le connessioni neurali non determinano affatto la coscienza percettiva. Fa svariati esempi per dimostrare ciò: i furetti di Sur (ai quali era stato invertito il collegamento neurale dell’apparato uditivo e quello visivo avendo come risultati che essi vedessero con l’apparato uditivo), l’arto fantasma (riscontrando che dopo una mutilazione di una mano, il soggetto sentiva di essere sfiorato su quest’ultima anche se in realtà ad essere sfiorato era stato il volto) e l’esperimento di Bach-y-Rita, che aveva permesso di “vedere” a soggetti non vedenti collegandoli ad una fotocamera che produceva vibrazioni sul loro corpo; la corteccia somatosensoriale non dava esperienza tattile, bensì visiva. La cosa straordinaria è che il risultato si ottiene in poche ore, e non in mesi o settimane. Quindi non c’è nessun cablaggio neurale, ma una sostituzione sensoriale. L’esperienza percettiva quindi non è determinata o necessariamente connessa con un determinato punto del cervello. Con questo Noe vuole dimostrare che non è il neurone a connetterci con il mondo, ma è la nostra relazione con esso che, di fatto, modifica il neurone e le sue funzioni. Vedere, per esempio, è un complicato insieme di fattori determinato dal nostro corpo, il nostro muoverci. Il cervello non genera coscienza come una stufa genera calore. Sarebbe meglio paragonarlo a uno strumento musicale. Gli strumenti non fanno musica, non generano suoni da soli. Cap 4 Il capitolo si apre con un aneddoto personale, dove l’autore racconta di come il padre una volta lo abbia rimproverato dandogli dell’Americano. Il padre è un immigrato ed è grato all’America per averlo salvato dalla 2° guerra mondiale e dal nazismo. Però, dice Noe, ha subito una ferita, poiché quel paese non lo soddisfaceva. La coscienza non è all’interno della nostra testa, ma è estesa, è inserita in un mondo e è parte di esso. Ciò che siamo e possiamo essere dipende dal contesto. Siamo come una pianta, che fonda le radici nel terreno, e non come una bacca che può essere colta. Quali sono dunque i nostri confini? Dove finiamo noi stessi? La neuroscienza vuole che noi terminiamo nei limiti della scatola cranica, ma Noe non condivide. Insiste nell’affermare che noi siamo connessioni con il mondo e che la mera fisica meccanicistica non è una risposta esauriente alle domande che ci poniamo. Fa l’esempio della mano di gomma, dell’esperimento dei suoni “ba” e “ga” e dell’aspettativa in un discorso per dimostrare che per comprendere ciò che avviene il cervello utilizza diversi canali di interazione con l’ambiente, con ciò che accade. Non vediamo solo con gli occhi e non udiamo solo con gli orecchi. Tutti possediamo uno schema corporeo, che non è oggettivo e immutabile, ma può essere modificato o distorto, come il caso dell’anoressia, dell’arto fantasma o la mano di gomma. Anche l’interazione con un oggetto può cambiare lo schema corporeo, come l’utilizzo del bastone per un cieco. Egli non sente la punta del bastone, non vi è collegato da un sistema nervoso, eppure tramite esso può conoscere l’ambiente e interagire in modo diverso. Diventa parte del corpo. Utilizzando uno strumento ciò che è lontano ora è vicino, ciò che è troppo in alto ora è a mia portata. Dove finisco io? non vi sono ragioni per continuare a credere del dogma fin’ora dato per buono, che finiamo nel cervello. L’orologio o una mappa non sono nel nostro cranio, ma allo stesso modo fanno parte di me, non agiscono in modo diverso da una qualsiasi attività cognitiva che accade nel cervello. La tecnologia permette anche di modificare il nostro sentire il mondo sociale. Sms, telefono o internet ci mettono continuamente in connessione con l’altro e questo è capace di modificare una cultura e il modo di “sentire”. In questo discorso rientra anche il linguaggio. Il linguaggio è il modo di comunicare, ma anche ciò che da forma ai nostri pensieri e la nostra metodologia nel pensare. [il mandarino ha una struttura numerica più rapida ed efficace rispetto a quella europea, questo comporta una grande abilità matematica rispetto alla nostra cultura] il linguaggio è considerato da Noe come pratica e nient’altro. Posso prlare di un olmo o un faggio anche senza saperli distinguere, eppure mi affido agli altri affinché le mie parole abbiano un senso; ciò non vuol dire che io non capisca cosa dico, ma che il linguaggio non è interno, ma una pratica sociale. Per rafforzare questa teoria, Noe parla delle lumache di mare, e di come esse siano in grado di rispondere agli stimoli esterni. Se carezzata più volte, la lumaca smetterà di ritirarsi, se invece colpita da una scossa elettrica, la sua paura non diminuirà mai e si ritirerà sempre anche se carezzata. La cosa interessante è che nelle lumache di mare non c’è un cervello, un quartier generale che decide, organizza, muove. La lumaca è ciò che è grazie alla sua fisiologia e all’ambiente in cui è immersa, al quale risponde. Come le lumache di mare, anche noi non siamo autonomi; noi troviamo noi stessi nell’interazione tra il nostro corpo, il cervello e l’ambiente in cui viviamo. Cap 5 L’uomo è un animale abitudinario e sono le abitudini a distinguerlo più di ogni altra caratteristica. Noe rifiuta l’idea intellettualistica che vede l’uomo contraddistinguersi per le proprie capacità riflessive o di calcolo. Queste presuppongono altri fattori ancor più basilari. Il concetto intellettualistico vede l’uomo come un eterno inesperto rispetto al mondo: gli inesperti in una determinata disciplina stanno attenti alle regole base, sforzandosi molti e concentrandosi al massimo. Questo è necessario. L’esperto, al contrario, non ha bisogno di questo, e anzi, più è rilassato e poco concentrato, più alta sarà a sua prestazione. Questo perché le regole base (di uno sport, per esempio) sono assodate e si pensa magari alla tattica o altre cose. Stesso discorso vale per la lingua: all’inizio abbiamo tabelle o trucchi per memorizzare declinazioni ecc, ma una volta ottenuta la padronanza di una lingua non stiamo più a pensare alle sue regole, ma alla sua forma o al contenuto di ciò che diciamo, le regole addirittura sono state forse dimenticate! [es. scacchi – P.108] Il linguaggio inoltre ha una funzione ben diversa da quella che crede la concezione intellettualistica: non serve principalmente a comunicare concetti o pensieri; in realtà il nostro parlare è più simile all’abbaiare dei cani o allo spulciarsi delle scimmie. Comunichiamo per lo più sensazioni o emozioni, a seconda di un determinato contesto condiviso e di una aspettativa dovuta da questo. Anche qui, siamo immersi e connessi con l’altro e con il mondo. Noe parla poi del riconoscimento dei volti, non come una capacità innata, ma una straordinaria qualità naturale, che ci fa relazionare da subito con l’altro; è un bisogno, è una conoscenza empirica di cui siamo maestri. Il riconoscimento facciale avviene, per esempio, in modo olistico e non dettagliato, abbiamo da subito una chiara immagine completa di un volto, in tutto il suo significato. La FFA è un’area del cervello fondamentale che si attiva per farci riconoscere i volti. È straordinario vedere come essa si attivi anche per farci distinguere gli oggetti di cui siamo esperti, come una macchina, un uccello o quadro. È assurdo pensare che la sola FFA determini la nostra capacità di riconoscere volti (che viene a mancare, ad esempio, quando siamo in un luogo con “razze” diversa della nostra, che a noi appaiono tutti simili) e che tale capacità sia innata. È l’esperienza, insieme al nostro cervello, certo, che fa sì che siamo in grado di relazionarci e riconoscere volti in modo tanto straordinario. Le abitudini sono fondamentali per la nostra esistenza, altrimenti la vita sarebbe simile a quella di un robot. Un calcolare, valutare, scrutare continuo, perpetuo, per ogni cosa, per ogni scelta. Le abitudini ci rendono ciò che siamo, e seppur buono scuoterle di tanto in tanto, è deleterio volerle eliminare. È come nello sport: la pratica ci rende esperti. Le abitudini sono la pratica della vita stessa, non analizzo o studio una panchina per sedermi, essa mi invita già a farlo, è ovvio. Le abitudini formano sentieri. I sentieri non sono altro che tracciati agevoli, sicuri, sperimentati. È difficile evitare un sentiero, una volta fatto. In città siamo soliti prendere le stesse strade, frequentare determinati locali, usare una stazione del treno e una banca. Cambiare e sperimentare è pericoloso, non c’è fiducia. La stessa cosa avviene a livello mentale. Le nostre abilità, le nostre abitudini sfociano in sentieri che difficilmente riusciremo a evitare. Ragioniamo e agiamo secondo schemi formato con l’esperienza, là dove siamo sicuri. (è la sfida degli artisti: fare un qualcosa di originale, aggrappandosi al vecchio) Cap 6 In questo capitolo viene affrontato il problema della “grande illusione”, ovvero quella parte della scienza e della filosofia (che ha molto seguito) che sostiene che tutto ciò che vediamo sia solamente un’illusione, una falsificazione della realtà prodotta dal nostro cervello. Un punti di partenza cruciale risiede nella struttura dell’apparato visivi, che sembra essere “inefficiente”. Noe elenca una lunga lista di “difetti” della vista, come il punto cieco, l’immagine retinica invertita, il non percepire colori nelle aree periferiche, l’accumulo di materiale organico nell’occhio ecc ecc. Nonostante tutte queste lacune, il cervello ci da un’immagine completa e fluida. Questo colmare porta alla conclusione erronea che la nostra esperienza empirica sia dettata dall’arbitrarietà del cervello che tenta di dare un senso a ciò che appare. La vista è, d’altronde, il senso sul quale più facciamo affidamento e quello rappresentativo della realtà. Se sentiamo un rumore in casa non ci allarmiamo subito, ma nel vedere un intruso non abbiamo più dubbi su ciò che sta accadendo. Questa conclusione però è sbagliata. Non vediamo come la pellicola di un film, un flusso di immagini che hanno un senso se ricomposte e i problemi enigmatici posti dalla scienza visiva sono inutili e mal posti alle radici. La vista non avviene dentro di noi e il mondo non è un qualcosa di esterno e inaccessibile. Il mondo è casa nostra, è il nostro conteso, è dove siamo immersi e ciò con cui e nel quale interagiamo ogni momento della nostra vita. La vista non avviene semplicemente “guardando”, ma con l’interazione con il mondo stesso che ci appare così come è. Cap 7 Hubel e Wiesel vinsero nel 1981 il Nobel per la scienza con il loro studio sulle cellule dell’apparato visivo. Noe critica nuovamente la visione che sta alla base di queste ricerche, ovvero che la vista sia semplicemente l’informazione che l’occhio cattura e poi il cervello analizza, dando forma a ciò che noi vediamo. Il cervello non è un computer. Il computer digitale è un calcolatore, un processore, da risposte automatiche seguendo schemi determinati. Un computer produce immagini, gioca a scacchi, esegue calcoli matematici, proprio come, sembrerebbe, fa il cervello umano. Ma il computer non apprende, non assimila, non ragiona e non pensa, è uno strumento. Esso esegue ciecamente un algoritmo, arrivando rapidamente alla risposta (laddove richieda questo), ma il cervello umano è ben altro. Il computer è come un orologio, che segna esattamente l’ora senza conoscerla. Allo stesso modo del computer, però, neanche il cervello pensa, questo perché è sbagliata la partenza: il mondo, gli stati mentali, non sono interni. Ciò che io sono, ciò che io penso, non è dettato dal cervello, ma è dovuto al coinvolgimento dinamico con l’ambiente. Questo scaturisce esperienza e cognizione. L’errore nella teoria di Hubel e Wiesel è questo, credere che una vista passiva possa dare una qualche risposta nel modo in cui vediamo. Possiamo analizzare il perché e il come accade di un determinato evento psichico, ma niente di più. La nostra attività e interazione con l’ambiente sono determinanti per capire come pensiamo. La mente non è il softwere del cervello. Così come i computer non pensano, non lo fanno neanche i cervelli, così come essi non vedono. È da sottolineare che gli animali non hanno la vista per farsi un’idea del mondo, ma per interagire con esso, come cacciare una preda, fuggire da un predatore o trovare un compagno. Cap 8 Critica: - Il bambino che nasce in un ambiente buio e irrimediabilmente non potrà più vedere, è, forse, uno stimolo adattivo, non un malus. Esso è in un contesto dove non SERVE vedere, quindi il cervello plastico potenzierà gli altri sensi, in perfetto stile adattativo. - Nel sogno noi non abbiamo un corpo, in realtà, eppure facciamo esperienze, abbiamo la sensazione di “vedere”, o “camminare”. Solo una volta svegli ci rendiamo conto che quanto avevamo “esperito” non era reale. Cosa ci impedisce di credere lo stesso per quando siamo svegli, o crediamo di esserlo? -