IL CAFFÈ 19 febbraio 2012
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C4SOCIETÀ E CULTURA
@ www.taviani.it/
www.berlinale.de/
L’IN
CON
TRO
STEFANO VASTANO
da Berlino
È
un vero, squisito piacere incontrarli i Taviani. E parlare a
mano libera con questi due ancora arzilli
fratelli – che insieme
hanno superato i 160 anni - non
solo di che fine abbia fatto oggi il
Cinema (quello con la C maiuscola, per l'appunto). Ma anche di
teatro e, inevitabilmente di politica. Nonché, soprattutto, di cosa
significhi oggi avere la sfortuna
d’essere recluso e scontare una
pena in una prigione italiana. Eppure, nonostante ciò, riuscire ancora a vivere una certa libertà.
Già, perché l’ultimo, stupendo
film girato da Paolo e Vittorio Taviani, ha trionfato alla 62° edizione della Berlinale, riportando
in Italia dopo 21 anni di digiuno
l’Orso d’Oro del festival di Berlino, dove abbiamo incontrato i
due registi, racconta in modo
molto concentrato di tutto ciò.
È una potente, dilaniante bomba
ad orologeria “Cesare deve morire”. Un film che possiede la carica, e nel breve giro di 76 minuti
esatti, di far saltare in aria non
solo il “Giulio Cesare”, ossia il
dramma di Shakespeare a cui i
Taviani stavolta si sono ispirati.
Ma anche le mura del carcere
speciale di Rebibbia. O meglio,
per esser più precisi, quel tratto a
cosiddetta “Alta sorveglianza” del
penitenziario romano. “Per noi spiega Paolo con la sua soffice cadenza toscana - quei mesi passati
a girare in carcere sono stati senza
dubbio i più intensi ed emozionati della nostra vita cinematografica”. Pensare che i Taviani vantano una filmografia – a partire da
“Un uomo da bruciare” del 1962,
passando per opere come “Padre
padrone” (‘77) o “La notte di San
Lorenzo” dell’82 e quel loro assoluto capolavoro che è, nell'84,
“Kaos” – a dir poco impressionante. Nonostante questa sfilza di
capolavori, sono rimasti coi piedi
ancorati per terra. E ci tengono a
precisare, come fa Paolo, che
“questo film è nato per caso, tramite una amica che ci ha parlato
del teatro dei detenuti a Rebibbia”.
Ma poi, aggiunge subito Vittorio,
“pur essendo un film poco costoso, s’è trasformato da subito in
un’esperienza molto profonda sia
per noi e persino per le nostre famiglie”.
‘‘
GLI INDIGNATI
È un omaggio agli
indignados della Terra,
che provano a ribellarsi
ai Cesari del pianeta
‘‘
DIETRO LE SBARRE
I padiglioni come
bolge dantesche in cui
i detenuti s’impiccano
per sfuggire a
condizioni disumane
Dentro al carcere
No, non capita davvero tutti i
giorni d’entrare dentro un carcere
speciale, e veder recitare da mafiosi, camorristi o appartenenti
alle cosche della ‘ndrangheta uno
dei testi più belli e densi di Shakespeare. Sin da quando erano ragazzi il teatro costuisce una
grande passione per i fratelli Taviani. E Shakespaere il loro sacro
idolo. O, come dice scherzando
Vittorio “Shakespeare è una specie di Grande fratello, di amico, o
di figlio per noi due”. “Abbiamo
provato più volte a giocare al cinema - aggiunge Paolo - con un
testo del grande inglese”. Ma ci
sono riusciti solo oggi, giunti e superati gli 80. “Sì, solo adesso che
siamo due vecchietti - ammette
con la sua solita modestia Vittorio
- ci siamo permessi di trattare anche un pò male il Grande William”. Anche se poi, come confessa lo stesso Paolo con un certo
orgoglio “magari Shakespeare per
primo sarebbe contento di ‘finire’
in un palcoscenico d’un carcere
romano. E ancor di più in un film
girato quasi interamente in
bianco e nero. Abbiamo scelto di
girarlo così perché il colore fa
parte ormai della nostra realtà oggettiva. Mentre questo film vuole
evadere dai contorni della realtà”.
Non è certo la prima volta che i
Taviani raccontano, con quel loro
stile cosí realistico-onirico insieme, i problemi della detenzione. “Già San Michele aveva un
gallo parlava di carcere - ricorda
Paolo citando la vecchia pellicola
del ‘73 -. E in fondo tutto il nostro
cinema ruota intorno al chiodo
della pena e dell'impulso alla libertà”. Lo sa bene Fabio Cavalli,
che con i Taviani ha scritto la scenografia di “Cesare deve morire”,
Due vite per il cinema
Vittorio
&Paolo
Taviani
cosa sia – in carcere – il senso
della costrizione, e la voglia d’evaderne.
‘‘
SAN MICHELE
AVEVA UN GALLO
Tutto il nostro cinema
ruota intorno al chiodo
della pena e
dell’impulso alla libertà
Il teatro fra i detenuti
Da anni Cavalli ha fondato dentro
le mura di Rebibbia la sua compagnia teatrale portando in scena
“La Tempesta” di Shakespeare, o
brani della Divina Comedia. “Col
nostro film - dice ancora Paolo vogliamo far rivivere agli spettatori questa esplosiva intersezione
tra Shakespeare, cinema e libertà”.
Alla Berlinale almeno stavolta i
due registi toscani hanno fatto un
bel ‘botto’. Merito di ‘attori-detenuti’ come Salvatore Straino,
detto Zazà, che a Rebibbia ha
scontato 8 anni. Per tornarvi sotto
la regia dei Taviani nel ruolo principale del dramma: quello di
Bruto. “In fondo questo dramma
dovrebbe essere intitolato a Bruto
- continua Paolo -. E alla sua rivolta contro l’ambizioso Cesare”.
Tocca ad un altro grande attoredetenuto, Giovanni Arcuri, con il
suo faccione, e quel suo greve dialetto romano calarsi nei panni del
despota. È un omaggio ai film di
Pier Paolo Pasolini, risentire in
una pellicola made in Italy il
sound dei dialetti. “Se abbiamo
usato il bianco e nero - spiega Vittorio - dovevamo poi far recitare i
nostri attori-detenuti anche con
le loro vere cadenze”. Anche se
l’inchino al ‘pasolinismo’ termina
qui. I Taviani sanno che questi detenuti, che tramite il cinema e
Idue fratelli
registi hanno
trionfato
al festival
di Berlino.
Con “Cesare
deve morire”,
un film girato
in bianco e
nero
tra le mura
del carcere
di Rebibbia.
Protagonisti
i detenuti
in veste
di attori
dai toni
shakesperiani
Shakespeare riacquistano una
dose di libertà, l’hanno prima
tolta ad altri. “Era questa l’amara
lezione che gli agenti di guardia ci
ricordavano - commenta Paolo -.
Sí, sul set si crea una familiarità
tra attori, tecnici e registi”. “Ma
posso io regista -si chiede d’altra
parte Vittorio - diventare amico di
un detenuto condannato alla
massima pena?”.
L’apice poetico
Una delle scene piú drammatiche
del film è quella che per un secondo rischia il kitsch. Durante
una pausa di recitazione uno dei
detenuti s’incanta a guardare
nella biblioteca del carcere una
foto del mare. “La foto c’è davvero
nel carcere di Rebibbia - assicura
Paolo - e dovevamo da quella inquadratura ridare colore al film”.
Peccato solo che a sognare il mare
è un detenuto siciliano condannato a “fine pena: mai”. Cioè all’ergastolo. Al più tardi qui si sente
il limite del romanticismo pasoliniano che i Taviani oggi non condividono. Non si tratta di portare
lo spettatore nel carcere (o manicomio) perché lí è nascosta la verità. “Non avevamo questa pretesa - aggiunge Paolo - ma far vedere alla gente in che condizioni
sia oggi il sistema carcerario in
Italia”. Piú che a Shakespeare, è a
Dante che Vittorio si rivolge per
descrivere la situazione delle
celle in Italia. “Bolge dantesche dice il regista - in cui i detenuti
s'impiccano per sfuggire a condizioni disumane”.
È per questo che pubblico e critica alla Berlinale si sono alzati in
piedi per applaudire l’opera dei
Taviani. Per 76 minuti ridà dignità
a degli uomini che, pur scontando la pena, non hanno perso
la loro dignità. “Il cinema può comunicare agli altri l’orgoglio di essere umani - commenta Paolo -. E
lo può fare senza ricorrere al dogmatismo o romanticismo d’altri
tempi. “Questo film è un omaggio
agli Indignados della terra - continua Vittorio - che provano a ribellarsi contro i Cesari del pianeta”.
Sarà un tantino deluso invece chi
vorrà scorgere dietro la figura di
Cesare l’ombra d’un milardario,
proprietario d’una selva di tv e
giornali che per decenni ha governato l’Italia. “Il riferimento a
Berlusconi era troppo scontato”,
dice Paolo alzandosi dalla sua
poltrona nella Lounge al 4° piano
del Berlinale Palace. In Italia si
può inneggiare in un film alla libertà pur, una volta tanto, senza
citare Silvio B. “A noi basta che la
prossima volta che gli italiani vadano a votare si ricordino del problema del carcere. E di non ridare
quindi la loro fiducia a quei Cesari che rendono possibile questi
indegni sistemi di detenzione”. È
il momento in cui anche noi,
dopo un’ora di film, e un’altra
d’intervista, non possiamo che
inchinarci all’opera di questi due
registi. Ancora cosí vivi e giovani.