visualizza - Ordine dei Medici Veterinari della provincia di Brescia

annuncio pubblicitario
selezione della stampa internazionale
a cura di Gianfranco Panina
Attitudine del veterinario
ad alleviare il dolore degli animali
N
egli ultimi tempi i veterinari, sia pubblici che pratici,
sono divenuti sempre più consci della necessità di
riconoscere ed alleviare il dolore degli animali. Poichè
l’animale non è in grado di descrivere il suo dolore e
di richiederne un alleviamento, la presenza e il livello
di dolore nonchè la necessità di un analgesico vengono
generalmente valutati dall’osservazione del comportamento dell’animale. In genere, procedure o condizioni
cliniche che causano dolore nell’uomo, devono ritenersi
dolorose anche negli animali.
Dagli studi condotti sull’argomento in diversi Paesi è
emersa la necessità di perseguire un’educazione del
veterinario in questo settore. Lo scopo di questo studio
è stato quello di valutare l’attitudine dei veterinari finlandesi ad alleviare il dolore degli animali e ad elaborare
strategie per un’educazione continua sull’argomento.
Un’indagine venne condotta tramite la distribuzione di
un questionario a 911 veterinari finlandesi, di cui risposero 441 (48,4%). Veniva richiesto, oltre al sesso, gli
anni di laurea e il tipo di attività, il grado di attitudine
a valutare e ad alleviare il dolore, informazioni circa il
tipo e il numero di analgesici locali, regionali o generali
impiegati nella pratica, nonchè notizie circa il ricorso a
metodiche quali agopuntura, fisioterapia o omeopatia.
Dall’indagine risultò che le donne e i giovani veterinari valutavano maggiormente il dolore e lo trattavano con maggior
frequenza che non gli uomini o i veterinari più anziani.
I veterinari pù giovani e quelli impegnati con i grossi animali disponevano di una maggiore quantità di analgesici rispetto ai veterinari più anziani o a quelli impegnati
nella pratica dei piccoli animali.
Le risposte al dolore sembrerebbero molto variabili nelle
diverse specie e nei diversi individui. Conoscere il tipico
comportamento di una specie animale facilita la diagnosi
del dolore. Molti veterinari ammettono le loro incertezze
nel riconoscere il dolore e poco credono nella capacità
del proprietario ad interpretare comportamenti del loro
animale riferibili a dolore. Tuttavia, solo i proprietari sono
in grado di riconoscere mutamenti di comportamento,
che altrimenti non verrebbero rilevati. La maggioranza
dei proprietari non richiede trattamenti antidolore, ma
essi sono favorevoli a tale pratica, e a pagare per essa,
quando viene proposta dal veterinario.
Per la maggior parte delle risposte al questionario,
alleviare il dolore risulta certamente benefico e gli animali guariscono meglio dopo un intervento chirurgico.
Tuttavia, un terzo delle risposte precisa che un certo
livello di dolore postoperatorio può essere benefico, in
quanto previene eccessivi movimenti.
Notevoli differenze sono emerse circa la necessità di
trattare il dolore conseguente ad uno stesso tipo di intervento in specie diverse. Ad esempio, il dolore da castrazione o ovaroisterectomia viene trattato più spesso nel
cane che non nel gatto. Probabilmente gli interventi sono
ugualmente dolorosi nelle due specie e, quindi, la gravità
e l’importanza clinica del dolore del gatto è, in questo
caso, sottostimata. Lo stesso può dirsi per il dolore nei
grossi animali da produzione che sembra sottostimato in
Finlandia, dove i veterinari ritengono che tali animali non
siano così sensibili al dolore come i piccoli animali.
Dalle risposte al questionario risulta difficile stabilire una
graduatoria dei livelli di dolore, sulla base dell’osservazione dell’animale. Non sembra comunque necessaria tale
graduatoria, quando si educhi un veterinario ad alleviare il
dolore dell’animale, qualunque esso sia, dando nel contempo al professionista la capacità e la possibilità di impiegare il
farmaco o la tecnica analgesica migliore per ogni animale.
Raekallio M., Heinonen K.M., Kuussaari J. and Vainio O. (2003) Pain alleviation in animals:
attitudes and practices of finnish veterinarians. Vet. J. 165, 131-135
Riduzione dell’aggressività
dei tori immunizzati verso GnRH
L’
immunizzazione attiva verso GnRH (gonadotropin-releasing hormone) fornisce un’alternativa alla
castrazione chirurgica.
L’immunocastrazione riduce o elimina molti svantaggi
della castrazione chirurgica, quale un ridotto indice
di crescita, un minor indice di trasformazione degli
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alimenti o i rischi sanitari legati all’intervento chirurgico. L’immunocastrazione richiede meno lavoro
e meno attrezzature della castrazione chirurgica e
impone meno rischi al personale addetto. La qualità
della carcassa degli animali immunocastrati è comparabile a quella dei manzi ed è certamente migliore di
quella dei tori non immunizzati. In aggiunta, i maschi
immunocastrati sono meno portati ai comportamenti
aggressivi tra maschi, con conseguente riduzione delle
ferite e con un migliore risparmio dell’energia necessaria alla crescita e allo sviluppo.
Al fine di approfondire gli effetti dell’immunocastrazione,
è stata condotta una ricerca in cui si è paragonata l’aggressività dei tori immunizzati verso GnRH con quella di
tori di controllo non immunizzati nonchè di manzi castrati
chirurgicamente.
Allo scopo, un gruppo di vitelli di 4 mesi di età è stato
vaccinato ricorrendo ad una speciale preparazione consistente in GnRH associato ad un idoneo adiuvante. La
somministrazione dello stesso prodotto è stata ripetuta a
12 mesi di età. Gli animali da sottoporre all’esperimento
furono quindi selezionati sulla base della loro risposta
sierologica a GnRH.
Circa al sedicesimo mese di età, i differenti gruppi di
animali sono stati spostati in unità isolate e affidati ad
un osservatore incaricato di monitorare ogni possibile
atto riferibile all’aggressività tipica di questi animali.
Dai risultati delle osservazioni e dalla loro elaborazione statistica è risultato che l’immunocastrazione
era in grado di ridurre in modo significativo il comportamento aggressivo. La frequenza di atti riferibili
ad aggressività negli animali immunocastrati risultò
più simile a quella dei manzi che non a quella dei tori
non immunizzati.
Si può pertanto concludere che l’immunizzazione attiva
verso GnRH è un’effettiva alternativa alla castrazione
chirurgica, al fine di ridurre l’incidenza di un comportamento aggressivo nei maschi di bovino.
Price E.O., Adams T.E., Huxsoll C.C. and Borgwardt R.E. (2003)
Aggressive behavior reduced in bulls actively immunized against gonadotropin-releasing hormone. J. Anim. Sci. 81 (2), 411
Degenerazione della retina dei gatti
da fluoroquinolone
L’
enrofloxacina è un antimicrobico fluoroquinolone
che è stato somministrato con successo a milioni di
gatti e cani, a partire dal 1990. Dotata di ampio spettro
di azione, di buona distribuzione nei tessuti e bassa tossicità è considerata farmaco di scelta nel trattamento di
vari processi infettivi. Somministrata alla dose indicata è
efficace e ben tollerata sia nei cani che nei gatti.
A causa della facilità di somministrazione e dell’aumentata resistenza degli agenti microbici ad altri
farmaci, i veterinari generalmente cominciano i trattamenti con dosi di enrofloxacina che talvolta sono
più che doppie di quella massima raccomandata. Da
qui l’emergere nella letteratura di segnalazioni relative alla comparsa negli animali trattati di reazioni
indesiderate. Per esempio, vengono segnalate in una
piccola percentuale (1 su 122,414) di gatti trattati casi
di cecità parziale o totale. Si tratta di una degenerazione acuta della retina, generalmente irreversibile, non
esclusiva dell’enrofloxacina, ma osservata anche con
altri fluoroquinoloni.
L’esatto meccanismo di questa degenerazione retinica
nel gatto non è stata ad oggi chiarita. Tuttavia, scorrendo
la letteratura emerge che un tipo simile di degenerazione può essere riprodotto sia per induzione chimica che
attraverso una reazione fototossica.
Per quanto riguarda l’induzione chimica, i fluoroquinoloni risultano strutturalmente simili a composti che
sono stati associati a tossicosi del nervo ottico, quale
la cloroquina. Si tratta di tossicosi dose-dipendenti,
spesso irreversibili. I fluoroquinoloni, inoltre, presentano un’alta affinità per i pigmenti alla melanina e si
ritiene che vengano captati dai corpi ciliari dell’iride e
dalla membrana coroidale degli animali pigmentati.
L’inoculazione di fluoroquinoloni negli occhi del coniglio provoca tossicosi retinica, il che indica che i composti sono direttamente retinotossici. L’inoculazione
intravitreale di alti dosi di ciprofloxicina induce sostanziale riduzione all’elettroretinografia e cambiamenti
della retina. Una maggiore incidenza di effetti indesiderati indotti dai fluoroquinoloni si osserva anche
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concentrazione della sostanza nel plasma, 2) una rapida
infusione intravenosa dell’antibiotico, 3) un trattamento
prolungato, 4) l’età. Teoricamente, costituiscono possibili
rischi anche: 1) una prolungata esposizione a luce UVA
mentre si somministra l’antibiotico, 2) l’interazione con
altre sostanze e 3) l’accumulo di metaboliti per alterato
metabolismo o ridotta eliminazione.
Per concludere, si suggerisce di ricorrere agli antibiotici fluoroquinolonici solo nel caso di gravi e ricorrenti
infezioni. Se possibile, il loro uso deve essere basato sui
risultati di test di sensibilità. Cautele vanno applicate
nel loro impiego nei gatti di una certa età, specie se in
presenza di insufficienza renale o epatica. E’ necessario,
inoltre, attenersi strettamente alle indicazioni suggerite
dal produttore ed evitare infusioni intravenose rapide o
associazioni di farmaci dannose. Utile risulta il monitoraggio della midriasi dei gatti ed evitare l’esposizione a
luce UVA durante i trattamenti.
quando le sostanze vengono somministrate assieme
a composti che aumentano la concentrazione di fluoroquinolone nel plasma. Ciò avviene, ad esempio, in
presenza di cimetidina, che riduce l’escrezione renale
dei fluoroquinoloni, aumentandone così la concentrazione nel plasma.
A una reazione fototossica è riportabile la degenerazione retinica che si osserva nel topo albino a seguito
della somministrazione di una singola dose di quinoloni in combinazione con raggi ultravioletti (UVA).
L’assorbimento della luce UVA nella struttura del fluoroquinolone è seguita da degradazione della molecola
e formazione di prodotti citotossici che si ritengono
responsabili del danno retinico. Alte dosi della sostanza,
trattamenti prolungati con esposizione alla luce del sole
aggravano la degenerazione.
I fattori predisponenti al rischio di degenerazione retinica
da fluoroquinoloni nel gatto sono: 1) grandi dosi o alta
Wiebe V. and Hamilton P. (2002) Fluoroquinolone-induced retinal degeneration in cats.
JAVMA 221 (11), 1568
Inattivazione termica di Escherichia coli O157:H7
nella carne tritata
E
raccomandato che la carne tritata e pressata sia cotta
ad una temperatura di almeno 68,3°C per 15 secondi,
mentre il Dipartimento dell’Agricoltura ha suggerito che
i consumatori usino un termometro per assicurarsi che la
carne tritata venga cotta a 71,1°C. Difficile pensare che
i consumatori si adeguino all’uso di un termometro per
la cottura al grill della carne tritata; in genere, la cottura
viene giudicata idonea sulla base del colore e della consistenza della carne sottoposta a cottura.
Da qui la necessità di intraprendere una sperimentazione
mirata a valutare l’inattivazione termica di E. coli O157:
H7 nella carne tritata e pressata (hamburger di 100 gr),
cotta fino ad una temperatura interna di 71,1°C, utilizzando tecniche di cottura simili a quelle impiegate dai
consumatori. Più precisamente:
a) su un grill a piastra doppia (GPD)
b) su un grill a piastra singola, rigirando la carne
quando la temperatura interna raggiungeva i 40°C
(GPS-40°C) o in alternativa rigirando la carne ogni
30 secondi (GPS-30 sec.).
La carne utilizzata nella sperimentazione era stata pre-
scherichia coli O157:H7 è un patogeno alimentare
enteroemorragico di primaria importanza. Esso è
causa di colite emorragica che si manifesta con forti
dolori addominali e diarrea sanguinolenta. Possono
seguire complicazioni molto gravi, la più comune delle
quali è la sindrome uremica emolitica.
Gravi focolai di questa infezione sono risultati legati al
consumo di carne di bovino tritata e pressata insufficientemente cotta. Infatti, E. coli O157:H7 può sopravvivere ad una cottura inadeguata e la dose infettante del
microrganismo è particolarmente bassa (da 2 a 2000
cellule).
E. coli O157:H7 è presente nell’intestino e nelle feci dei
bovini e può contaminare le carni nel corso della macellazione. La tritatura della carne porta ad una diffusione
del microrganismo all’interno del preparato.
Varie strategie sono state suggerite per ridurre la presenza di E. coli O157:H7 nei bovini e nella carne tritata, ma
il fattore più importante per prevenire questa infezione
risiede in una adeguata cottura.
Negli USA, la FDA (Food and Drug Administration) ha
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Escherichia coli O157:H7 è un patogeno alimentare
enteroemorragico di primaria importanza. Esso è causa
di colite emorragica che si manifesta con forti dolori
addominali e diarrea sanguinolenta. Possono seguire
complicazioni molto gravi, la più comune delle quali è la
sindrome uremica emolitica.
Gravi focolai di questa infezione sono risultati legati al
consumo di carne di bovino tritata e pressata insufficientemente cotta. Infatti, E. coli O157:H7 può sopravvivere ad una cottura inadeguata e la dose infettante del
microrganismo è particolarmente bassa (da 2 a 2000
cellule).
E. coli O157:H7 è presente nell’intestino e nelle feci dei
bovini e può contaminare le carni nel corso della macellazione. La tritatura della carne porta ad una diffusione
del microrganismo all’interno del preparato.
Varie strategie sono state suggerite per ridurre la presenza di E. coli O157:H7 nei bovini e nella carne tritata, ma
il fattore più importante per prevenire questa infezione
risiede in una adeguata cottura.
Negli USA, la FDA (Food and Drug Administration) ha
raccomandato che la carne tritata e pressata sia cotta
ad una temperatura di almeno 68,3°C per 15 secondi,
mentre il Dipartimento dell’Agricoltura ha suggerito che
i consumatori usino un termometro per assicurarsi che la
carne tritata venga cotta a 71,1°C. Difficile pensare che
i consumatori si adeguino all’uso di un termometro per
la cottura al grill della carne tritata; in genere, la cottura
viene giudicata idonea sulla base del colore e della consistenza della carne sottoposta a cottura.
Da qui la necessità di intraprendere una sperimentazione
mirata a valutare l’inattivazione termica di E. coli O157:
H7 nella carne tritata e pressata (hamburger di 100 gr),
cotta fino ad una temperatura interna di 71,1°C, utilizzando tecniche di cottura simili a quelle impiegate dai
consumatori. Più precisamente:
a) su un grill a piastra doppia (GPD)
b) su un grill a piastra singola, rigirando la carne
quando la temperatura interna raggiungeva i 40°C
(GPS-40°C) o in alternativa rigirando la carne ogni
30 secondi (GPS-30 sec.).
La carne utilizzata nella sperimentazione era stata preventivamente addizionata di una coltura di E. coli O157:
H7.
Dai risultati di tale sperimentazione si è potuto dedurre
che il tempo di cottura necessario per raggiungere la
temperatura di 71,1°C era: per “GPD” 2,7 minuti, per
“GPS-30 sec” 6,6 minuti e per “GPS 40°C” 10,9 minuti.
Il metodo più rapido nel raggiungere la temperatura
voluta (“GPD”) fu anche quello che risultò più efficiente nel distruggere E. coli O157:H7, seguito dalla
tecnica“GPS-30 sec.”. Non idonea a distruggere totalmente la carica batterica addizionata alla carne risultò la
tecnica “GPS 40°C”.
Questi risultati suggeriscono che i consumatori dovrebbero cuocere la carne tritata e pressata in un grill a doppia piastra, in grado di cuocere contemporaneamente le
due superfici del preparato, o in caso si usi un grill ad
una sola piastra è necessario rivoltare la carne frequentemente (ogni 30 secondi).
M. Rhee, S. Lee, V.H. Hillers, S.M. McCurdy and D. Kang (2003)
Evaluation of consumer-style cooking methods for reduction of Escherichia coli O157:
H7 in ground beef. J. Food Protection 66, 6, 1030-1034
L’asma dei felini
L’
asma è una malattia caratterizzata da un restringimento delle vie respiratorie inferiori, che colpisce
circa l’1% della popolazione felina. Come nell’uomo,
i gatti asmatici presentano vie respiratorie particolarmente sensibili, per cui, a seguito dell’esposizione a un
irritante, si ha degranulazione dei mastociti con liberazione, tra l’altro, di istamina, serotonina e altri mediatori
associati al processo infiammatorio acuto, a cui segue
un’immediata broncocostrizione. La liberazione di queste
sostanze attiva i linfociti-T che, a loro volta, liberano le
citochine, soprattutto l’interleukina (IL)-5, che favorisce
la sopravvivenza degli eosinofili, la loro attivazione e il
loro ammassarsi nelle vie respiratorie. Gli eosinofili liberano i loro granuli contenenti sostanze che danneggiano
l’epitelio e rendono i muscoli lisci più sensibili, predisponendo a una costrizione a seguito di una debole stimolazione (ipersensibilità delle vie respiratorie). Si stabilisce
pure una stasi delle ciglia con conseguente diminuizione
della clairance mucocigliare e un aumento del muco a
livello di vie respiratorie.
L’asma è in genere idiopatica, anche se fattori come gli
irritanti, gli allergeni e le infezioni sono rilevatori della
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patologia. Colpisce gatti di tutte le età e non sembra vi
sia predisposizione di razza, anche se l’incidenza sembra
maggiore nei siamesi e negli himalaiani.
La sintomatologia dell’asma è variabile. La tosse e la
dispnea con respirazione a gola aperta sono i sintomi più
frequenti; la tosse viene erroneamente interpretata dal
proprietario come un tentativo di vomito. L’auscultazione
può non rilevare alcunchè di particolare o, nei casi cronici, crepitii secondari alla presenza di muco. Certi gatti
colpiti da asma cronica possono presentare un torace a
forma di barile a causa dell’iperinsufflazione.
Difficile risulta la diagnosi perché non esistono sintomi
patognomonici. Importanti sono l’anamnesi e l’esame
clinico. Ausilii possono pervenire dall’ematologia, da
una radiografia toracica, da un’ecografia cardiaca, dal
lavaggio broncoalveolare, con conseguenti esami citologici e batteriologici.
Il trattamento richiede il riposo in contenitori arricchiti
di ossigeno nonché la somministrazione, anche per via
inalatoria, di corticosteroidi ad azione rapida e di broncodilatatori. Nei casi cronici, risulta importante prevenire
l’infiammazione, per evitare che il problema degeneri in
bronchite cronica. Il ricorso agli antibiotici è raramente
necessario, a meno che gli esami batteriologici non mettano in evidenza forme batteriche, quali Micoplasma sp.
Il ricorso ad antiistaminici è discutibile. Il pronostico è
generalmente buono, ma certi animali possono presentare episodi ricorrenti e la malattia può progredire.
Caron I., Carioto L. (2003) Can. Vet. J. 44, 654-656
Disinfezione continua dei pollai
L’
efficacia di un programma di disinfezione continua
dei pollai fu valutata sia in condizioni sperimentali
che nella pratica di alcuni allevamenti commerciali di
broiler. Il programma consisteva essenzialmente nella
disinfezione dei pollai eseguita durante le operazioni di
pulizia che precedevano l’introduzione dei polli, nella
disinfezione dell’acqua da bere e nella disinfezione tramite spray dei polli durante la produzione. Per le disinfezioni si ricorse ad un prodotto del commercio a base
di ammonio quaternario, a bassa tossicità e dotato di
elevata efficacia verso batteri e virus dei polli. Il prodotto
è registrato in Sud Africa non solo come disinfettante
ambientale, ma anche per l’uso nell’acqua da bere e
come spray sui polli.
Un esperimento analogo fu condotto in un allevamento commerciale di polli, nelle condizioni della pratica.
L’allevamento consisteva in 12 capannoni contenenti
ciascuno 3500 animali di diversa età. L’esperimento fu
condotto in tre capannoni al momento vuoti, ma prossimi all’introduzione dei polli. Un capannone di controllo
venne lavato e disinfettato, quindi fu introdotta la lettiera
e poi i polli. Negli altri due capannoni si eseguirono gli
stessi interventi preventivi di lavaggio e disinfezione, a
cui si aggiunse una disinfezione continua dell’acqua da
bere, nonché uno spray disinfettante giornaliero.
Nel corso degli esperimenti furono condotti controlli dei
parametri di crescita dei polli, nonché esami di laboratorio sui polli deceduti e conteggi batteriologici su prelievi
eseguiti sulle pareti e sulle attrezzature dell’allevamento.
In condizioni sperimentali, si operò su tre gruppi di polli,
due dei quali funsero da controlli. Ogni gruppo era
costituito da 300 animali. In uno dei gruppi di controllo
non si eseguì alcun tipo di disinfezione. Nell’altro gruppo
di controllo, fu eseguito il lavaggio e la disinfezione del
pollaio prima dell’introduzione dei polli. Nel gruppo in
esperimento fu eseguito un lavaggio e una disinfezione
dell’ambiente prima dell’introduzione degli animali e, in
aggiunta, i polli furono trattati di continuo con il disinfettante sia nell’acqua da bere, sia tramite uno spray diretto
sugli animali, per 2 volte al giorno fino a due settimane
di età, in seguito una volta al giorno.
Risultati e conclusioni
Nelle condizioni sperimentali, il programma di disinfezione continua portò ad una più bassa mortalità causata
da agenti infettivi, nonché ad una riduzione dei valori
relativi ai conteggi batterici rilevati negli ambienti.
Nelle condizioni della pratica, l’esperimento fu complicato dalla comparsa nell’allevamento di un grave focolaio
di malattia di Newcastle. Risultò tuttavia evidente che il
programma di disinfezione continua controllò la diffusione della malattia in ambedue i capannoni in cui venne
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applicato, a fronte della gravità con cui la malattia si
diffuse nei capannoni non trattati di continuo, quello di
controllo incluso. Nessun effetto negativo sui parametri
di crescita fu osservato nei gruppi di polli trattati. La
disinfezione continua non ebbe alcun effetto sui livelli di
mortalità riferibili a cause non-infettive.
Valori significativamente più bassi furono rilevati dai conteggi batterici eseguiti nei capannoni sottoposti a disinfezione continua, rispetto a quelli non trattati.
Sulla base dei risultati ottenuti sembra poter concludere che l’applicazione di un programma di disinfezione
continua negli allevamenti di broiler è in grado di fornire
risultati particolarmente interessanti, senza nuocere al
normale accrescimento dei soggetti trattati. Il concetto di
disinfezione continua negli allevamenti dei polli è certamente nuovo, ma restano da chiarire alcune problematiche, prima che si possa raccomandare tale intervento in
tutti gli allevamenti.
Bragg R.R. and Plumstead P. (2003) Continuous disinfection as a means to control infectious diseases in poultry.
Evaluation of a continuous disinfection programme for broilers. Onderstepoort J. Vet. Res. 70, 219-229
Vaccinazione contro Taenia solium
I
suini sono ospiti intermedi obbligati di Taenia solium.
Questo loro ruolo nel ciclo di vita del parassita offre la
possibilità di intraprendere una qualche misura di controllo, interferendo sulla trasmissione del parassita stesso. Diversi gruppi di ricercatori hanno tentato di sviluppare vaccini efficaci contro la cistercecosi, ricorrendo a
diverse preparazioni, quali estratti di cisticerchi di Taenia
solium, vaccini sub-unitari o vaccini da acido nucleico.
Oggi, sono soprattutto quest’ultimi che destano il maggiore interesse. Si tratta di plasmidi DNA ricombinante
codificanti antigeni specifici che inoculati direttamente
nel muscolo, nella pelle o in altri siti di un ospite inducono risposte antigene-specifiche umorali o cellulari. Negli
ultimi tempi, sono stati sviluppati diversi vaccini DNA,
diretti soprattutto verso virus e batteri, ma anche verso
parassiti, vermi piatti inclusi.
Ricorrendo a sieri suini e umani di soggetti infetti da
Taenia solium, è stato isolato da metacestodi del parassita un antigene (cC1), identificato come candidato per
la costruzione di un vaccino in grado di minimizzare la
trasmissione della malattia all’uomo e ai suini. Per controllarne la capacità immunizzante, un vaccino (pcDNA3cC1) fu costruito inserendo il cDNA della proteina cC1
in un plasmide d’espresssione eucariotico (pcDNA3). Il
controllo delle capacità immunizzanti di questo vaccino
fu eseguito sia in topi che in suini.
Topi BALB/c vennero inoculati nei quadricipiti, per tre
volte a distanza di due settimane, con pcDNA3-cC1.
Per potenziare la fissazione del plasmide DNA da parte
delle cellule muscolari, una soluzione di glucosio venne
inoculata nei muscoli 15 minuti prima dell’inoculazione
del plasmide. Sieri furono in seguito raccolti a diversi
intervalli dopo l’ultima immunizzazione. Gli animali svilupparono alti livelli di anticorpi IgG e IgG2a, specifici
per cC1; essi comparvero alla seconda- terza settimana
e persistettero per alcune settimane. I risultati nel loro
complesso indicarono che l’immunizzazione DNA aveva
indotto una forte e persistente risposta anticorpale verso
la proteina cC1.
Suini spf di un mese di età furono inoculati per via intramuscolare, per due volte a distanza di due settimane,
con pcDNA3-cC1. Come per i topi, l’immunizzazione fu
preceduta dall’inoculazione di una soluzione di glucosio.
Una settimana dopo l’ultima inoculazione, ai suini vennero somministrate uova infettanti di Taenia solium. I suini
vennero sacrificati 90 giorni dopo l’infezione. Cervello,
fegato, polmoni, cuore e vari muscoli vennero esaminati
per la presenza di cisticerchi vitali. Seguì un conteggio dei
metacestodi di Taenia solium, che venne paragonato a
quello di suini di controllo, non vaccinati, ma ugualmente
infettati. I conteggi evidenziarono nei suini immunizzati
una significativa riduzione (-73,3%) del numero di metacestoidi, rispetto ai suini di controllo non vaccinati.
I risultati sopra esposti sembrano indicare come possibile una vaccinazione contro Taenia solium, mediante
l’utilizzo di un vaccino DNA. Tuttavia, resta da chiarire
l’esatto meccanismo d’interazione tra risposta immunitaria e parassita, cioè come la risposta immunitaria
indotta dall’inoculazione del vaccino DNA influisce sui
metacestodi.
Q. Wang, S. Sun, Z. Hu, D. Wu, Z. Wang (2003)
Immune response and protection elicited by DNA immunisation against Taenia cysticercosis. Vaccine 21, 1672-1680
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L’infezione da virus west nile: una zoonosi emergente
L
’infezione da virus West Nile (WNV) è nota da oltre
60 anni, tuttavia è negli ultimi tempi che è andata
acquisendo un carattere preoccupante di “zoonosi emergente”, a seguito di un numero sempre crescente di casi
evidenziati in Nord America, sia nell’uomo che negli
animali, a partire dal 1999 ad oggi. WNV appartiene
ai Flavivirus. È normalmente trasmesso dalle zanzare del
genere Culex, che succhiano il sangue degli uccelli infetti
e quindi alimentandosi con il sangue di mammiferi, fra
cui l’uomo e i cavalli, trasmettono l’infezione a queste
specie.
WNV fu isolato per la prima volta nel 1937 in Uganda
da una donna colpita da blanda forma febbrile. La
presenza dell’infezione fu in seguito accertata sia negli
animali che nell’uomo in altre regioni africane, in Medio
Oriente, in Asia, in Australia, nonché in alcuni Paesi
europei. Nell’ambito dell’Unione Europea, le principali segnalazioni provengono dall’Italia (1998) e dalla
Francia (2000); si tratta di casi che hanno coinvolto solo
i cavalli e non l’uomo. Per quanto riguarda in particolare
l’Italia, l’infezione fu evidenziata in Toscana, in 14 cavalli
con sintomi neurologici, di cui 6 vennero a morte. Il virus
venne isolato dalle biopsie del cervello e istologicamente
tutti i cavalli morti presentavano un’encefalomielite non
suppurativa, di grado lieve o moderato.
Nel settembre del 1999, WNV fu isolato per la prima
volta nel continente americano, a New York. Il focolaio
fu responsabile di 62 casi di encefalite nell’uomo (di
cui 7 mortali) e 20 casi di encefalite nei cavalli (di cui 9
mortali). Peculiare di questo focolaio fu l’alta mortalità
osservata negli uccelli (soprattutto corvi e ghiandaie),
che facilitò la diffusione del virus ad altri Stati circostanti.
WNV persistette durante l’inverno 1999-2000 e da agosto a ottobre 2000 ne fu rilevata la presenza in 12 Stati,
in cui si verificarono 8 casi di encefalite umana, 60 casi
di encefalite equina e la mortalità di migliaia di uccelli.
In seguito il virus diffuse ulteriormente negli USA (20 Stati
nel 2001 e 39 nel 2002), colpendo nel contempo anche
il Canada e i Caraibi. Nel 2002, WNV è stato ritenuto
responsabile di 3893 casi d’infezione nell’uomo (di cui
254 mortali), 14.717 casi negli equini (4.500 mortali)
e della morte di 13.000 uccelli. Questi episodi in Nord
America mostrano che WNV ha trovato una nicchia
ecologica che gli ha permesso di sopravvivere durante
l’inverno e di diffondersi poi progressivamente.
Epidemiologia
I ceppi di WNV fino ad oggi isolati sembrano appartenere a due linee principali, che divergono fra loro per
il 30% delle sequenze nucleotidiche. Da questi studi
sembrerebbe emergere che le epidemie europee hanno
avuto origine dall’introduzione di varianti africane, pervenute in Europa tramite gli uccelli.
Gli ospiti pricipali di WNV sono gli uccelli, l’uomo e gli
equini (principalmente i cavalli). Tuttavia, WNV è stato
evidenziato in altri animali quali gatti, cani, cammelli,
pipistrelli, scoiattoli, moffette, conigli e alligatori. In Nord
America, il virus è stato isolato da uccelli morti appartenenti ad almeno 138 specie. Alcuni di essi soccombono
all’infezione, ma altri possono sopravvivere.
Il ciclo vitale di WNV appare piuttosto complesso e coinvolge come ospiti primari gli uccelli e come vettore primario le zanzare. Il virus si amplifica nel corso della fase
adulta della zanzara, quando questa si nutre di sangue,
attraverso una continua trasmissione tra la zanzara vettore e gli uccelli. Le zanzare ospitano le particele virali nelle
ghiandole salivali e infettano le specie sensibili di uccelli
cibandosi di sangue. Gli uccelli immunocompetenti sviluppano viremia per 1-4 giorni dopo l’esposizione, quindi si instaura un’immunità che persiste per tutta la vita.
L’uomo, i cavalli e la maggior parte degli altri mammiferi
sono ospiti accidentali finali (dead-end hosts) e non contribuiscono al ciclo di trasmissione. Tuttavia, per quanto
riguarda l’uomo, non bisogna trascurare la possibilità di
trasmissione attraverso le trasfusioni di sangue o cellule, i
trapianti d’organo, nonché la trasmissione verticale dalla
madre al feto.
Programmi di sorveglianza
Nel contesto europeo, tutti i Paesi dovrebbero mettere in
atto una strategia di sorveglianza passiva, basata sulla
diagnosi differenziale di ogni caso di encefalite, sia nell’uomo che negli animali.
Nei Paesi in cui siano stati evidenziati focolai di infezione da WNV, è possibile che il virus circoli di continuo,
magari a livelli bassi o difficilmente rilevabili, finchè non
insorga un focolaio. In questo caso, in aggiunta a quanto
sopra (diagnosi differenziale) risulta particolarmente utile
un’attiva sorveglianza degli animali sentinella, facendo
ricorso a tutte le metodiche di laboratorio disponibili per
evidenziare WNV o i corrispondenti anticorpi.
I cavalli e gli uccelli occupano i primi posti come animali
sentinella dell’infezione da WNV.
I cavalli si infettano a seguito di una morsicatura da parte
di una zanzara infetta . Dopo 5-15 giorni dalla morsicatura possono comparire i primi sintomi clinici. La viremia
raggiunge titoli molto bassi e pertanto i cavalli non sono
in grado di trasmettere il virus ad altre zanzare. La maggioranza dei cavalli esposti a WNV non si ammalano,
pur presentando quadri sierologici positivi. La malattia
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selezione della stampa internazionale
si manifesta quando il virus supera la barriera sanguecervello, causando encefalite, o quella sangue-midollo
spinale, causando mielite. I cavalli possono considerarsi
buone sentinelle nell’ambito di un piano di sorveglianza
dell’infezione da WNV, sia esso passivo (basato sulla diagnosi clinica) che attivo ( rete diagnostica specifica per
l’isolamento e l’identificazione di virus o anticorpi WNV).
La sorveglianza attiva appare particolarmente indicata in
quelle aree dove si siano in precedenza verificati focolai
da WNV, nonché nelle aree considerate a rischio per le
condizioni geografiche (delta dei fiumi, stagni, laghi,
marcite) o climatiche.
Gli uccelli rivestono un ruolo importante, in quanto
potenziali serbatoi di virus. Gli effetti dell’infezione da
WNV sugli uccelli varia considerevolmente da specie a
specie, da malattia fatale a infezione lieve o anche subclinica. Indagini epidemiologiche possono essere condotte su uccelli selvatici morti, su uccelli tenuti in cattività
come sentinelle, su uccelli selvatici catturati, ma anche
su polli domestici. Il ricorso a quest’ultimi, specialmente
se pulcini, rappresenta una soluzione che permette di
superare molti dei problemi associati ai volatili selvatici.
Infatti, i polli possono essere di età conosciuta, di essi
può essere accertato lo stato sierologico iniziale, possono
essere utilizzati in grande numero e diffusi su vaste aree,
incluse quelle urbane.
European Commission-Scientific Committee on Veterinary Measures to Public Health (2003) West Nile Virus (WNV).
Report adopted 14-15 April 2003. http://europa.eu.int/comm/food/committees/scientific/index_en.htm
Potenzialità zoonosica degli spumavirus dei non-primati
G
li Spumavirus, detti anche Spumaretrovirus o Foamy
viruses (FV) sono virus oggetto di studi recenti.
Appartengono alla famiglia Retroviridae e destano
particolare interesse per vari motivi: (i) ben si prestano
quali vettori di geni da utilizzare nella terapia genica, (ii)
hanno ripetutamente superato la barriera di specie passando dalla scimmia all’uomo, (iii) differiscono per vari
aspetti replicativi e morfologici dagli altri retrovirus.
Negli ospiti naturalmente infetti, FV causano un’infezione
che persiste per tutta la vita, senza sintomi di malattia.
Per questa loro persistenza apparentemente benigna FV
vengono considerati apatogeni. Tuttavia, le infezioni sperimentale e naturale inducono una forte risposta umorale verso differenti proteine strutturali e non-strutturali,
una reattività indicativa di un’espressione genica virale,
probabilmente associata ad una produzione continua di
infettività virale. Si tratterebbe quindi di una persistenza
produttiva di FV e non di una classica latenza virale.
Il più studiato dei FV è il c.d human foamy virus (HFV),
che fu il primo retrovirus scoperto nell’uomo. Oggi viene
accettata l’ipotesi che HFV sia originario dagli scimpanzé
e che tutte le infezioni da HFV registrate nell’uomo siano
zoonosiche, derivate da primati non-umani. Poco si sa,
invece, dei FV isolati da non-primati , cioè da bovini (
BFV=bovine foamy virus), da equini (EFV=equine foamy
virus) o da felini (FFV=feline foamy virus). BFV e FFV sono
molto diffusi tra i loro ospiti naturali: dal 30 al 70% di
questi risultano positivi, mentre dati relativi a EFV non
sono al momento disponibili.
Per quanto riguarda FFV, il contatto diretto con cani e
gatti infetti appare come la più probabile via potenziale
di trasmissione zoonosica del virus. FFV viene isolato
regolarmente dalla saliva dei gatti e la morsicatura o il
leccarsi è considerata la via di trasmissione più comune
tra gatto e gatto. Studi condotti su veterinari o altre persone esposte ai gatti non hanno rilevato alcun indizio di
trasmissione zoonosica di FFV. Tuttavia, questa apparente
resistenza alla trasmissione potrebbe non sussistere nei
bambini, il cui sistema immunitario è ancora in via di
sviluppo, o negli individui immunocompromessi.
Una potenziale infezione zoonosica da EFV appare limitata agli individui che hanno contatto con i cavalli. Non
è, tuttavia, noto se EFV sia presente nella cavità orale,
un prerequisito per un’infezione attraverso la morsicatura. Non si può escludere però la possibilità di contrarre
un’infezione nel corso della macellazione o attraverso il
consumo alimentare di carne equina.
Per quanto riguarda BFV, esso è presente nella saliva dei
bovini infetti e pertanto può venire trasmesso all’uomo
tramite morsicatura, ma anche per aerosol o gli usuali
contatti con l’animale. La presenza di particelle FV-like è
stata dimostrata nel latte bovino così come nelle carni e
in altri organi utilizzati come alimenti. Non trascurabile,
infine, l’eventuale presenza di BFV nei prodotti medicali
derivati da colture cellulari supplementate con siero
bovino, nei prodotti terapeutici derivati direttamente da
bovino o nei vaccini costruiti partendo da vettori FV.
Bastone P., Truyen U. and Lochelt M. (2003)
Potential of zoonotic transmission of non-primate foamy viruses to humans. J. Vet. Med. B 50, 417-423
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