Gesamtkunstwerk L`Opera d`Arte Totale

Gesamtkunstwerk
L’Opera d’Arte Totale
« L’opera lirica è una tortura
masochista della musica. »
Egome, 2015
‘Gesamtkunstwerk’ è un neologismo tedesco di Richard Wagner, che si è dilungato nella sua spiegazione
poiché sapeva fare tutto.
Si tratta, tuttavia, di una cosa vecchia come il mondo, di qualcosa che esiste fin da quando l’Uomo nero,
rosso, giallo o bianco che sia, balla da solo, a coppia o in gruppi, misti o meno, con costumi e ornamenti,
canta su tutti i tipi di ritmi e musiche, in tutte le lingue del mondo, con o senza scenografia naturale o
artificiale, per onorare le divinità, sacrificare gli Uomini, celebrare la guerra e la pace, cantare l’amore,
biasimare l’odio, rispettare e portare avanti le tradizioni, crearne di nuove, in tutti in continenti, in tutte le
civiltà, in tutte le chiese, i castelli e i villaggi, nelle caverne e sotto le tende, di giorno e di notte, in tutte le
epoche, nei secoli dei secoli, amen.
Poi un bel giorno l’Uomo, che non è più selvaggio nel senso scientifico inteso da Claude Lévi-Strauss,
comincia a separare gli spettatori dagli attori, inventa il tempo libero e lo svago, rende lo spettacolo una
professione e lo vende, facendogli così perdere tutta la sua ferocia mitica, rituale, meravigliosa: poi, non
trovando altro che il vuoto al suo posto, crea l’Idea dell’Arte, costruzione intellettuale, presunzione da
demiurgo, ambizione di ateo religioso, leggenda futura senza storia, tentativo comunitario di affaristi.
Eccone una breve storia in occidente:
In occidente Lulli (1632-1687) inventa la ‘Tragedia in musica’ e il Balletto per il danzatore Luigi XIV:
così nasce l’opera lirica.
Johann Sebastian Bach (1685-1750) a quanto pare sarebbe stato tentato e fu pure accusato di farla entrare
nelle chiese tramite le sue Cantate.
Ma sarà Pergolesi (1710-1736) con il suo Adriano in Siria a riportarla in Italia dove sembra che sia stata
inventata.
Mozart (1756-1791) vi si dilettò gioiosamente e l’arricchì di vera, sublime musica per far divertire la
corte e guadagnarsi da vivere.
Beethoven (1770-1827) ci si prova appena (Fidelio) ma, da primo musicista-artista autoproclamato quale
è, preferisce creare il capolavoro dei capolavori della musica sinfonica (l’ultimo movimento della Nona
Sinfonia), con canti e cori, che sublima ogni futuro Wagner e perfino ogni Verdi, ancor prima che abbiano
l’età per comporre.
Berlioz (1803-1869) - Benvenuto Cellini – La dannazione di Faust – ma preferisce il Poema Sinfonico.
Poi esplode finalmente il Gesamtkunstwerk - l’Opera d’Arte Totale – Wagner (1813-1883).
Wagner, l’Omero teutonico. Wagner, l’architetto del Tempio Musicale di Bayreuth, inventa la buca
d’orchestra (1873) per nascondervi la sua magnifica musica. Peccato che non abbia pensato a nascondere in
modo analogo anche i cantanti.
Musica, poesie e leggende, canti, danza, costumi, scenografie, architettura – Wagner fa tutto da solo e da
solo decide di tutto il resto… Nietzsche (1844-1900) ne è entusiasta, ne è interessato, va e viene, da amico a
nemico.
…e il suo esatto contemporaneo italiano, così diverso da lui, fu Verdi (1813-1901), il totalitario del Bel
Canto, creatore di spettacoli assai complicati e costosi, il quale al tramonto della sua esistenza ha finalmente
l’ardire di affrontare Shakespeare - Falstaff e Otello, due drammi quasi wagneriani. La borghesia entra così
nell’Arte Totale all’italiana.
Nel corso del XX secolo alcuni artisti intellettuali, trascinati stavolta da non-musicisti, ricercano e
sperimentano una cooperazione totale nell’Arte Totale in cui si hanno tanti artisti quante forme d’arte:
- Apollinaire assente, Parade con Cocteau, Picasso e Éric Satie, balletto di Sergei Diaghilev
- Nicolas de Staël, con René Char e Olivier Messiaen - progetto
Si arriva a ben poco o ad un nulla di fatto.
E poi l’industria della cultura che realmente decolla per motivazioni legate alla propaganda e al dominio
sulle masse con Goebbels (si veda Adorno): finalmente si diffonde su tutto il pianeta grazie alle nuove
tecnologie del dopoguerra (strumenti musicali, sistemi di amplificazione, registrazione e diffusione,
televisione, telecomunicazioni, mass media, tutti gli aspetti della digitalizzazione del mondo che facilitano le
esperienze di arte totale, con i concerti-spettacolo negli stadi, Pink Floyd con ‘The Wall’ che danno vita
all’opera moderna dei giovani, cultura di massa nata a Woodstock (dove lo spettatore-ascoltatore era ancora
parte in causa) rapidamente recuperata dall’industria della cultura che organizza ‘eventi’ che non sono più di
massa ma per la massa. Le élite non sono da meno e prenotano i loro posti con anni di anticipo per i festival
che si moltiplicano, le regie si scatenano, da Verona a Taormina, da Salisburgo a Bayreuth, e gli eccessi, in
genere di dubbio gusto se non ridicoli, criticati o meno dalla stampa e dal pubblico, mandano avanti le
vendite. I due estremi, la gioventù del rock e gli spettatori dell’opera, decidono che possono aiutarsi a
vicenda, o per meglio dire, è l’industria che glielo chiede facendone intravedere i vantaggi (economici,
ovviamente): e così Pavarotti canta con i suoi amici che sono senza voce ma tuttavia habitué del microfono,
poi canta con i suoi competitor, i quali cantano in modo meno preciso di lui, in un antico edificio romano per
celebrare il calcio moderno degli stadi olimpici di acciaio e cemento. Perfino i circhi si acculturano per
rimpiazzare gli animali proibiti da una senescente Brigitte Bardot. Ovunque, in tutti i campi tradizionalmente
‘mono-artistici’, vengono sovrapposti contenuti drammatici, poi altri elementi puramente intellettuali,
politici, scientifici e filosofici si aggiungono pian piano al guazzabuglio con una caterva di immagini digitali
proiettate, che non fanno altro che abbagliare e far male agli occhi. I cavalli entrano in scena nell’architettura
Luigi XIV di scuderie trasformate in teatro. Il mondo intero si è piegato al Gesamtkunstwerk.
Torniamo ora a Wagner e all’opera.
Nel dizionario Littré troviamo alla voce ‘opera’ quanto segue:
« E’ in questo villaggio [Issy], vicino a Vaugirard, che fu rappresentata la prima opera francese nel
1659. » (Saint-Foix)
« Il cardinale Mazarino, per rendere solenne questo matrimonio [di Luigi XIV-1660], fece
rappresentare al Louvre l’opera italiana intitolata ‘Ercole amante’; questa non piacque ai francesi. »
(Voltaire)
« All’epoca, l’opera stava appena nascendo in Francia; ma l’arte incomparabile di Lulli portò presto
questo spettacolo a raggiungere tali vette di perfezione come non ne avevano viste nel loro paese
neppure gli italiani stessi, che ne sono gli inventori. » (D'Olivet)
« Non si può mai creare un’opera di qualità, perché la musica non è capace di narrare, le passioni
non possono esservi dipinte in tutta la vastità che richiedono e, oltretutto, essa spesse volte non sa
come mettere sottoforma di canto le espressioni davvero sublimi e coraggiose. » (Boileau)
« Non servono voli o carri, né cambiamenti da apportare alle varie Bérénice e alla Pénélope; ne
servono invece all’opera, poiché la natura di questo spettacolo è di mantenere lo spirito, gli occhi e le
orecchie in un medesimo stato di estasi. » (La Bruyère)
« Le affascinanti opere di Quinault delizieranno sempre chiunque sia sensibile alla dolce armonia
della poesia, alla naturalezza e all’autenticità dell’espressione, alle facili grazie dello stile, benché
queste stesse opere siano sempre state il bersaglio delle satire di Boileau, personale nemico di
Quinault. » (Voltaire)
« Ormai non conosco più altra musica al di fuori di quella degli usignoli e le civette della foresta mi
hanno ripagato dell’opera di Parigi. » (Rousseau)
« All’opera francese non potevo né ridere né sbadigliare poiché mai vi rimanevo e non appena sentivo
cominciare quella lugubre cantilena mi mettevo in salvo nei corridoi. » (Rousseau)
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« Per come la penso io, sono convinto che si applauda agli strilli di un’attrice all’opera come alle
gesta dei saltimbanchi a una fiera: la sensazione che suscitano è spiacevole e penosa, si soffre finché
sono in azione ma si è così lieti di vederli finire senza incidente alcuno che si manifesta volentieri la
propria gioia. » (Rousseau)
« L'opera mi sembra una bella festa, come nessun’altra nazione ne sa dare; è il divertimento di un
popolo ricco, illuminato, sensibile e amico dei piaceri di buon gusto. » (Saint-Lambert)
« Si va a vedere una tragedia per esserne commossi, all’opera invece si va per inoperosità e per
digerire. » (Voltaire)
« Agli antichi romani servivano solo panem et circenses; noi abbiamo soppresso il panem, ci bastano
i circenses, ovvero l’opera-comica. » (Voltaire)
Altre fonti:
Samuel Beckett nel suo saggio su Proust:
« Idealmente la musica esiste al di fuori dell’universo e noi la comprendiamo non nello spazio ma
solo nel tempo. Essa è dunque scevra da ogni ipotesi teleologica. Questa qualità fondamentale della
musica viene distorta dall’ascoltatore il quale, essendo un soggetto impuro, si accanisce a voler
attribuire una forma a ciò che è ideale e invisibile e si ostina ad incarnare l’Idea in ciò che crede
essere un paradigma adeguato. L’opera, quindi, è per definizione un’orrenda corruzione dell’arte più
disincarnata che esista. »
« Andare all’opera per godere della musica è come giocare a fare il contadino visitando il borgo di
Maria Antonietta. » (Egome)
Cosa curiosa nel caso di Wagner, nella buca d’orchestra la musica esce dallo spettacolo – sarebbe un
ammirevole segno di rispetto nei confronti della musica se anche i cantanti fossero invisibili: questi
avrebbero potuto tranquillamente essere doppiati da veri attori di mimo (poiché senza voce), cosa che
avrebbe incrementato la Totalità dell’Arte Lirica che oggigiorno si è ulteriormente arricchita delle tecnologie
di proiezione digitale nella scenografia, e anche per far scorrere il testo cantato su di uno schermo al di sopra
del palcoscenico, cosa che deploro perché conviene di più non capire nulla dei dialoghi idioti o
magniloquenti.
Poi però ci rifletto:
Perché non si fanno mai concerti nella buca d’orchestra?
Forse perché il pubblico non sa ascoltare senza vedere? Forse perché non sente bene nell’oscurità? Nessuno
chiude mai gli occhi! Si ha paura che ci accusino di dormire. Quando andavo ancora ai concerti chiudevo gli
occhi senza vergognarmene. O forse perché i direttori d’orchestra sono dei vanitosi frustrati, incompleti,
consapevoli di non essere capaci di scrivere ciò che dirigono (Karajan si assicurava che nei suoi film si
vedessero bene le sue mani, soprattutto la sinistra)?
Ahimè, anche il concerto sinfonico è diventato uno spettacolo in cui il medium (direttore o solista che sia) ha
completamente sostituito il messaggio (lo spartito ed il suo autore).
In Francia esiste un’orchestra sinfonica pensata e messa assieme dal violinista solista David Grimal che non
ha un direttore d’orchestra: i musicisti suonano dunque in una sorta di cooperazione disciplinata fino alle
sinfonie di Beethoven, si esibiscono per scopi caritatevoli alcune volte all’anno, le registrazioni vengono
vendute solo per beneficenza (quindi non c’è nessun commercio), eppure tutte le case editrici si rifiutano di
pubblicarle a scopo commerciale. Queste esigono un direttore d’orchestra altrimenti nessuno compra – è il
medium il prodotto che si vende! E i musicisti? Sono troppo sottopagati.
Questa vicenda esemplare mi fa pensare al ‘Liberated Management’ delle strutture industriali e
amministrative: si tratta di un nuovo approccio alla gestione del personale che si sta sviluppando in modo
lento ma evidente: niente controllo e niente capi a meno che vengano decisi dai collaboratori che a quel
punto scelgono in tutta autonomia il loro responsabile per un giorno, in ogni caso temporaneo e sempre
volontario e pronto a farsi da parte non appena ciò venga proposto – si tratta insomma di voto all’interno
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della gestione. Questo metodo viene sperimentato con indiscutibile successo sia nelle piccole-medie imprese
industriali (nel reparto Ricerca e Sviluppo di nuovi prodotti e mercati) sia a livello delle grandi
amministrazioni pubbliche (la Previdenza Sociale in Belgio).
Ma torniamo alla cultura e all’opera. In tutto questo, dove sono quindi l’arte e la cultura? Sicuramente sono
da qualche parte ma sono totalmente dipendenti dal commercio (negli Stati Uniti i musei e le orchestre
sinfoniche per lo meno non costano nulla ai contribuenti e d’altra parte manifestano tutta la loro qualità
rendendola inaccessibile ai poveri), o peggio, sono dipendenti dalla politica che tenta di combinare queste
idee mercantili insieme al sostegno esclusivo e incondizionato dei soli artisti amici del partito, ovvero la
peggiore di tutte le eventualità!
Perché ci sono così tanti dischi contenenti un pot-pourri di grandi arie famose, molto spesso strabelle, brani
estratti da varie opere che chiamiamo ‘pezzi forti’ (passaggi con virtuosismi, particolarmente brillanti)?...
Perché l’opera è soltanto una successione incoerente di alcune magnifiche arie, Lieder o canzoni perduti in
un’enorme accozzaglia musicale e spettacolare che invece gli amanti della musica preferiscono evitare!
Perché non si utilizza mai lo stesso procedimento commerciale con estratti di movimenti sinfonici o di
sonate? [Eccezion fatta per la Marcia Turca e Per Elisa!]
Di certo ci arriveremo presto con Lang Lang e altri ginnasti e avremo un disco pieno di ‘pezzi forti’ al piano!
Un ricordo: quando ero un giovane ingegnere andavo ogni tanto all’Opéra di Parigi: qui ho visto e sentito
molte opere di Wagner e, in un immenso teatro vuoto, l’Opéra Garnier in un palco vuoto, qui ho mangiato
parecchi sandwich innaffiati con della birra portati in un paniere da pic-nic. Questa cosa mi è accaduta più
volte. Poiché la mamma di uno dei miei migliori amici abitava di fronte al nostro appartamento, nella stessa
strada, mi chiamava verso le sei del pomeriggio per dirmi che lo spettacolo della sera era praticamente
invenduto e che io e gli altri soliti amici miei potevamo andarci pagando solo la marca da bollo, ovvero sui
€0,50. Questo era prima che i ministri della cultura, primo tra tutti Malraux, scoprissero negli Stati Uniti le
moderne modalità commerciali di gestire musei, teatri e sale concerti e come farvi accorrere tutti i borghesi
ancora e malgrado tutto incolti, nonché tutti i turisti con visite incluse nel prezzo del loro viaggio.
Vorrei rivolgere un pensiero alla grande, grandissima e dignitosissima Maria Callas, che una sera alla Scala
di Milano, davanti al Presidente della Repubblica e a tutto il jet set italiano, se ne va alla fine del primo atto
disgustata dalla sua voce – così dice – ma soprattutto disgustata da tutte quelle persone che non sono
minimamente interessate al suo canto – così crede – ma solo a guardare, essere guardati e ciarlare in modo
irrispettoso mentre ella continua ad offrirsi e a soffrire davanti a loro. Venne licenziata su due piedi in
violazione del contratto, ma siccome il suo spettacolo successivo era già stato programmato e la locandina
affissa, tutti i posti furono venduti in un sol giorno, l’indomani: fu la giusta ricompensa al coraggio di Maria
ma, ahimè, un’altra dimostrazione della stupidità culturale spontanea del pubblico che si accaparrava questi
posti non tanto per sentire la cantante ma per vedere la ribelle e vendicarsi di non essere stati invitati allo
spettacolo dello scandalo.
Bisognerebbe approfondire il ruolo della tecnologia nella cultura musicale. E’ esistenziale, nel senso
sartriano del termine. L’essenza della musica è ciò che si trova nella nostra testa, che siamo compositori,
interpreti o ascoltatori; la sua esistenza è ciò che noi udiamo per mezzo degli strumenti musicali. Forse
soltanto i compositori partono dall’essenza e ne scrivono l’esistenza, oppure gli improvvisatori la suonano
direttamente. Per noi semplici dilettanti o interpreti la musica parte dall’esistenza e solo qualcuno arriva alla
sua essenza, ma lo fa più per esperienza e paragone che per intuito. In effetti si tratta di un linguaggio sopranaturale che non sapremo mai mettere per iscritto, che pochi sapranno leggere, ma che tutti comprendono,
benché a livelli diversi. Coloro che impareranno a leggerlo e si sottoporranno alla ginnastica dello strumento,
quale che esso sia, diverranno interpreti, ma non andranno oltre. E’ per questo che inizialmente la tecnologia
è stata importante per gli interpreti. Nel XVII secolo si formava un’orchestra con fiati e ottoni scegliendo gli
strumenti prima di chi li suonava, affinché essi fossero tutti della stessa tonalità desiderata. Questa
tecnologia, i costruttori di strumenti musicali l’hanno sviluppata, amplificata, diversificata, rendendo tutti gli
strumenti accordabili e inventandone di nuovi, cosa questa che è stata sfruttata dai compositori. Infine,
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l’ascoltatore si è visto ricompensare dalle tecnologie di registrazione e diffusione, che hanno finalmente fatto
della musica un elemento sociale universale. Queste tecnologie sono criticate, sì, dai puristi (d’altronde è
facile farlo, visto che paragonano situazioni e contesti non comparabili tra loro) ma c’è da dire che
temporaneamente hanno salvato la vita di uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi (Glenn Gould), il quale
preferiva la quasi quotidiana, libera solitudine degli studi di registrazione, ove arrivava sempre di ottimo
umore pensando al suo programma del giorno, dopo aver abbandonato definitivamente le esibizioni a recital
o concerti (gesto, questo, ancora più risoluto ed eloquente di quello di Maria Callas). Grazie alla tecnologia
egli ci lascia un’opera fondamentale che forse altre nuove tecnologie ci permetteranno di conservare per un
tempo indeterminato.
Verdi vs Wagner: il Match
Non siamo allo stadio di Monaco di Baviera, bensì in una piazza con 10.000 spettatori; non si tratta di
giocatori di calcio, questo lo sanno tutti, anche se l’atmosfera è quella. Potrebbe essere un bello spettacolo
nell’intervallo di una finale di football americano. Il Match è tra lo spettacolo e lo sport, il teatro da giardino
e il circo, con gru da lavori pubblici che sollevano tutto ciò che si presenta, due marionette snodabili giganti,
high-tech, con la testa a rete metallica contenente uno schermo che mostra il viso filmato (in bianco e nero
come agli esordi del cinema) di ciascuno dei due ‘combattenti’, i quali mimano un ridicolo round di boxe con
enormi guantoni neri all’estremità di braccia snodabili, con cantanti e musicisti che si arrampicano verso
l’alto appesi ai cavi, trapezisti e paracadutisti che si dispongono in aria con petardi e fuochi d’artificio al
culo, il tutto con l’accompagnamento musicale di due orchestre che si rilanciano la palla, se la contendono,
talora si sovrappongono in una cacofonia riconoscibile, mentre il direttore d’orchestra è l’arbitro che fischia
le interruzioni di gioco e dà la palla a uno dei due campi affinché lanci il suo pezzo forte, con il risultato che
le due orchestre, tra l’altro, si ritrovano velocemente nella mischia.
E’ una creazione de La Fura dels Baus di Barcellona, una specie di Cirque du Soleil dell’opera lirica, per
festeggiare, nel 2013, i duecento anni dei due boxeur.
Insolito, talvolta divertente, talvolta di dubbio gusto, volgare, spesso noioso per la sua prevedibilità,
spesso ridicolo da far piangere, il trionfo di un enorme spreco di soldi che porta soltanto distrazione di falsa
cultura bizzarra e vuota. E poi dura solo 40 minuti – è già troppo!
[Nel documentario che ho visto a volte si vede passare qualche macchina davanti ad una delle scene dello
spettacolo, come se il traffico di automobili non fosse stato interrotto, o forse faceva semplicemente parte
dello spettacolo.]
Von Karajan e Bernstein a confronto
Herbert von Karajan e Leonard Bernstein, due giganti della direzione d’orchestra, si mettono a confronto
nell’esecuzione dell’ultimo movimento della Sinfonia n. 5 di Beethoven, Berliner contro Wiener. Molto
curiosa questa impresa commerciale high-tech di volgare volgarizzazione della musica sinfonica che non
sfugge più allo spettacolo di intrattenimento, raggiungendo qui l’opera lirica, campionessa indiscutibile della
categoria. La telecamera si concentra sulle mani di Karajan e sulla candida chioma del viso madido di sudore
di Bernstein, una quindicina di secondi ciascuno intervallati dall’immagine di qualche strumento, giusto per
segnare il passaggio da un ‘gigante’ all’altro. La continuità del passaggio dalla registrazione dell’uno a
quella dell’altro è impeccabilmente precisa e insospettabile: c’è solo una leggerissima differenza dovuta
probabilmente alla tecnologia di registrazione audio in momenti e luoghi diversi, la quale nasconde o
minimizza ogni differenza di stile dell’interpretazione personale dei ‘giganti’ che sembrano mimare la
musica piuttosto che dirigerla. Se fosse stato necessario dimostrare che i ‘giganti’ servono a ben poco (se
non al metronomo regolabile) allora sarebbe stato quasi perfetto, peccato che la cosa stupefacente sia che
l’obiettivo del confronto fosse certamente il contrario!
Osservazione necessaria: Bernstein, se non altro, merita il titolo di gigante come compositore.
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CO2 di Giorgio Battistelli
Una conferenza sul clima, sulla nostra terra ‘Gaia’, con numerose immagini e grafiche su un maxischermo
largo quanto l’intera scena della Scala di Milano, un climatologo in carne e ossa in giacca e cravatta come
conferenziere, noioso, che legge teoremi e banalità tecniche oppure sermoni autoflagellanti e incantesimi
sentimentali. Alcuni cantanti fanno lo stesso. Il pubblico applaude perché è una cosa nuova, completamente
nuova, facile da ascoltare, e tutti credono di aver fatto il loro dovere per risanare il clima con tanto di
ammissione di colpa e acquisto di indulgenze per poter essere perdonati per il fatto di non dedicare un solo
istante a riflettere davvero sull’argomento e a documentarsi senza divertirsi, e di poter continuare così…così
sia! Lo spettacolo, tuttavia, non ci dice qual è la sua impronta di CO 2, proprio quella del titolo…
In CO2 la musica non è più l’arte primordiale alla quale le altre si inchinano ma è un semplice mezzo, come
la musica dei film, solo che qui è musica da conferenza e questa è una cosa nuova, molto nuova, quindi
dovrebbe funzionare – intendo dal punto di vista commerciale – tanto più che si tratta anche di un ‘dogooder’ (‘che fa del bene’). Eppure, contrariamente a ciò che esprime la critica, almeno in questo caso il
messaggio resta il messaggio, per quanto banale e debole, e il medium, cioè la musica, non lo è (il
messaggio): di fatto non è nulla, è soltanto un mero accompagnamento – è il biglietto d’ingresso, poiché tutto
questo ha luogo alla Scala ed è prodotto dall’industria della cultura.
Ci sono così tanti altri esempi, da ‘Mozart in the jungle’, serie TV a puntate con orchestra sinfonica
newyorkese, vera musica classica, esatta (diceva Bernstein), veri musicisti doppiati da attori che non pensano
che a scopare e a fregarsi a vicenda, una nullità cosmica…eppure il magico nome ‘Mozart’ compare nel
titolo! Questo basta per attirare, ingannare e deludere coloro che non avrebbero guardato la serie se non
avesse avuto ‘Mozart’ nel titolo, senza contare tutti quegli altri che pensano addirittura che non si tratti
semplicemente di divertimento grossolano ma di un po’ di cultura!...
-…a ‘Lord of the Dance’, straordinario spettacolo che, ahimè, tenta di letterarizzare una drammaturgia
laddove per lei non c’è mai stato posto, cosa questa che complica tutto lo spettacolo, forza a falsificare la
musica, non porta nessun valore aggiunto, sottrae tempo al piacere della danza – forse anche per dare ai
ballerini il tempo di riprendere fiato – con luci e proiezioni high-tech che con i loro sbuffi incessanti di luci
colorate più che altro impediscono di vedere al meglio questi prodigiosi ballerini e ballerine irlandesi. Qui è
la danza, e non la musica, ad amalgamarsi ad altre cose, un misero tentativo di ‘arte totale’, un altro
inscatolamento di derrate, rare ma universali, dell’industria della cultura, impacchettata (‘packaged’) per
poter viaggiare in tutto il mondo e poi danzare sempre col tutto esaurito.
-…al serissimo festival internazionale di piano di La Roque d’Anthéron, Francia, che propone una
trascrizione wagneriana scritta per 8 o 10 pianoforti a coda (non ricordo il numero esatto) allineati sul palco,
tastiere e code alternate, 2 pianisti per piano per un totale di una ventina di pianisti. Il risultato è una ridicola
cacofonia ma allo stesso tempo un avvenimento indotto di pubblicità industriale della cultura che fa correre
tutti gli snob in vacanza in zona e che seduce o che manda in bestia – è lo stesso!
E per finire in un lago di disperazione sceglierei Maurizio Nannucci.
In realtà si tratta, tra i numerosi altri esempi già conosciuti dopo Andy Warhol, non tanto di un’arte o di un
artista sfruttati dall’industria della cultura, bensì di un artista (beh, un artigiano intellettuale a dir tanto) che
sfrutta lui l’industria della cultura, apportandole derrate non commercializzabili (aspetto esclusivo del caso
Nannucci) ma rese collezionabili dall’unanime approvazione dell’establishment industriale culturale.
Agli esordi Nannucci riusciva a vendere foto istantanee di lettere scritte sull’acqua con un bastoncino: ciò si
chiamava « scritto sull’acqua » ed egli ne parlava così bene mentre si filmava scrivendo
sull’acqua…Insomma basta un’acqua un po’ oleosa e sporca su cui i movimenti non scompaiano troppo
velocemente in modo da aumentare la persistenza della scrittura. Egli può quindi vendere qualsiasi cosa e
questa è una qualità fondamentale degli artisti contemporanei: in questo caso la vendita dell’oggetto consiste
in realtà nella vendita della sua spiegazione scritta o parlata corredata da fotomontaggi a illustrazione del
testo. Oggigiorno Nannucci è famoso e osannato, ricercatissimo per le sue lettere fatte con luci al neon
organizzate in brevi frasi che occupano ogni parete di una sala di esposizione, fabbricate in modo
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impeccabile secondo una geometria degna del tavolo da disegno e foriere di messaggi senza cui ci sarebbe
impossibile pensare in modo coerente, come ad esempio « ALL ART HAS BEEN CONTEMPORARY1 » o
« WHAT ABOUT THE TRUTH2 » …
…oppure questa immagine alta 3 metri,
una blu e l’altra gialla nella sala accanto – il tutto spiegato
esaurientemente (per molti minuti) da commentatori critici
d’arte, direttori di musei e altri parassiti dell’industria della
cultura.
Purtroppo, alcuni di questi testi di Nannucci sono anche molto
più lunghi (peccato che leggerli non aumenti l’interesse che
suscitano) e sono scritti con dei caratteri che si
rimpiccioliscono man mano che si allunga il testo. Sembra così
che la superficie occupata da ciascun capolavoro letterario e filosofico sia suppergiù sempre la stessa. Forse è
tutta questione di trasporto. Ma ciò che vale davvero oro quanto pesa sono i commenti dei maestri
dell’industria di cui parlavo prima. Una volta ne sentii uno che spiegò per 3 minuti di orologio il genio
contenuto ed espresso in:
« THE MISSING POEM IS THE POEM3 ».
Suggerisco a Nannucci, l’erudito lettrista, per la sua prossima serie di derrate, di esporre degli schemi
incompleti di parole crociate multilingui, di argomenti variegati e illuminanti (è proprio il caso di dirlo!) tipo il sesso (possibilmente tra omosessuali), le religioni, il gigantismo dei furti della finanza, l’inquinamento
industriale, la stupidità pubblica e privata, insomma tutti quegli argomenti che ormai non ci fanno più irritare
– con le definizioni delle parole mancanti nella stanza accanto.
I costi di fabbricazione delle derrate di Nannucci sono gli unici valori determinabili – Il prezzo?...Sta tutto
nell’arte di vendere…visto che chiunque (con una piccola ditta di tubi al neon) potrebbe tranquillamente fare
la stessa cosa usando degli aforismi sfuggiti al copyright per la loro età. Ne potete vedere a centinaia su
internet.
Il fatto che questo si faccia anche nell’architettura urbana (è comunque un po’ meglio delle colonne di Jack
Lang al Palais-Royal di Parigi, coi loro costi per il restauro che avviene ogni dieci anni, visto che
l’installazione di Nannucci non è permanente) mi può anche star bene se è completamente a carico
dell’imprenditore-tecnico-venditore, come Christo che ha impacchettato il Pont Neuf a Parigi o come fanno
compagnie quali la JCDecaux che offrono gratuitamente ai comuni gli arredi urbani di cui hanno bisogno,
affittando – guadagnandoci – gli spazi pubblicitari inseriti in questi arredi di buon gusto. Ma se questi arredi
entrassero alla Biennale di Venezia o in un museo Guggenheim, da qualche parte…? Eppure c’è anche di
peggio!
In realtà il Sig. Decaux ha avuto meno fortuna di Nannucci perché non è riuscito a completare la toilette di
Marcel Duchamp e a far entrare uno dei suoi orinatoi al Guggenheim – a meno che sia giusto per pisciarci
dentro e non costituisca un luogo di culto per gli amanti dell’arte contemporanea.
Nannucci mi obbliga a pensare a ciò che Schopenhauer scrive in merito all’arte plastica concettuale:
« Sappiamo che non è affatto permesso all’artista di attingere la sua ispirazione dai concetti.
…
L’espressione di un concetto ha tutt’altro obiettivo: è un piacevole divertimento, una semplice immagine
destinata a rivestire il ruolo di iscrizione, come i geroglifici; è un’invenzione fatta per coloro ai quali la vera
natura dell’arte non verrà mai rivelata. » …
1
“Tutta l’arte è stata contemporanea”, N.d.T.
“E la verità?”, N.d.T.
3
“La poesia mancante è la poesia”, N.d.T.
2
7
‘Il mondo come volontà e rappresentazione’ – Libro III, § 50
La cultura è diventata un susseguirsi di eventi con calendari, date, orari, prenotazioni online sul web, repliche
TV e interattività su Facebook o altri media, eventi programmati dall’industria per non minimizzare i
conflitti temporali tra questi e di questi con altri eventi di altre categorie di istupidimento e abbrutimento
universale come il calcio o il ciclismo.
Le grandi imprese industriali hanno creato il ruolo di ‘Vice Presidente Eventi Aziendali’, non solo per
evitare di programmare una riunione del Consiglio di Amministrazione in un paese musulmano durante il
Ramadan (che sarebbe come da noi a Natale) ma anche per sfruttare gli eventi esterni a fini promozionali.
‘Évènementiel’ (organizzazione di eventi) è il nome attribuito a questa attività, che adesso è perfino oggetto
di un corso di laurea e si sta rapidamente diffondendo in tutte le strutture sociali, locali, nazionali e globali e
perfino familiari al fine di organizzare un intrattenimento strutturato a matrimoni, fiere campagnole e
addirittura ai giochi olimpici.
Professione cruciale per ridurre la disoccupazione dei giovani e render loro accettabile, tramite questi eventi,
il fatto che essa persista.
Theodor Adorno ce lo spiega in « La dialettica dell'illuminismo » (Dialektik der Aufklärung, 1939-1944) e in
« Minima Moralia ».
Adorno inizia con il ricordare la distinzione operata da Marx tra ‘Valore d’uso’ degli ‘oggetti’ (Gegenstand)
o prodotti e ‘Valore di scambio’ delle ‘derrate’ (Ware) o merci. L’utilità di un oggetto nella soddisfazione di
un bisogno umano conferisce all’oggetto stesso il suo ‘valore d’uso’, di prodotto, che è una sua caratteristica
immanente, mentre il ‘valore di scambio’ si manifesta solo tra le persone che si scambiano l’oggetto. E’ a
questo punto che il ‘prodotto’ diventa ‘derrata’. Lo scambio, e quindi il valore di scambio, costituisce il
passaggio da oggetto a derrata. Il capitalismo marxista si fonda sulla produzione di valore di scambio. Gli
oggetti non vengono prodotti per creare un valore d’uso bensì dei potenziali acquirenti per il capitalista. Gli
oggetti vengono quindi prodotti per il mercato al fine di realizzare un valore di scambio – oggetti per mezzo
di cui può essere successivamente attribuito un valore d’uso.
Successivamente Adorno contrappone la ‘derrata culturale’ (valore di scambio) e l’’autentica opera d’arte’
(valore d’uso). Inizia qui la sua analisi dell’’industria della cultura’.
Ai tempi della borghesia liberale, arte e cultura sono sinonimi di emancipazione, danno un impulso critico,
resistono contro i potenti, restano relativamente autonome, si sviluppano sulle realtà sociali e propongono
idee di cambiamento.
Ai tempi del capitalismo moderno, con la sua industria della cultura, il loro contenuto è invece modificato, il
loro carattere autonomo diviene eteronomo, il mondo della cultura si divide in due ambiti: quello enorme
delle derrate dell’industria della cultura e quello piccolo dell’arte cittadina rimasta autentica. Le opere
dell’industria della cultura diventano così l’eredità della cultura cittadina al posto dell’arte rimasta ‘vera’.
Ai tempi della borghesia liberale l’arte era certamente elitaria e veniva venduta escludendo le classi inferiori,
però almeno si orientava al raggiungimento di un certo beneficio collettivo. Con il capitalismo moderno
questo ruolo di motore della società mosso dal valore in sé (nel senso di valore d’uso che soddisfa i bisogni
di una società equa) si è trasformato nel ruolo di produttore di un oggetto di mercato il cui valore deriva dal
volume degli scambi. Questa arte ha smarrito la sua autonomia passando da mezzo a obiettivo nel gioco del
capitale. Per raggiungere questi obiettivi si è resa necessaria una rete globale al fine di rimediare a questa
perdita di autonomia. Ciò implica la presenza di una struttura di base dell’industria della cultura per produrre
derrate culturali che possano essere distribuite in tutto il mondo. Il mercato della cultura crea il legame tra
derrata e consumatore culturali.
Ciascun prodotto culturale è strettamente dipendente dai mass media, i quali sono nelle mani dell’industria
della cultura e viceversa. L’industria e i prodotti della cultura sono legati tra loro a tal punto da essere
considerati un tutt’uno. Le motivazioni del profitto dell’industria dominano ormai la creatività mentale. Le
creazioni mentali dell’industria della cultura non sono più anche delle derrate, ormai sono solo questo.
Le derrate necessitano di consumatori che pensano di trovare in esse una qualche utilità. Gli artisti devono
trovare degli acquirenti e così l’opera culturale perde la sua funzione critica per divenire integrativa. Il
pubblico non si comporta più da attore di questo scambio e si lascia servire dalla cultura, che così entra a far
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parte della schiera dei divertimenti e del tempo libero. Questo tempo libero, però, non è altro che la fase
‘rigenerativa’ sottostante alla fase ‘laboriosa’ e, in quanto rigenerativa, questa fase deve consumare meno
energia possibile; ecco perché la cultura ricerca essa stessa un comportamento passivo di questo tipo.
L’industria della cultura non può far altro che manipolare l’Uomo. Questa manipolazione non è sempre
intenzionale e controllata, né cerca di imporre un orientamento. L’effetto manipolazione, secondo Adorno,
presenta due stati:
 L’industria della cultura riduce l’individuo al ruolo di consumatore
 L’industria della cultura nutre il consumatore con nullità banali e superficiali
Eppure è chiaro che si tratta di un’impronta culturale imposta da una ‘élite’ e non, come il termine ‘cultura di
massa’ suggerisce, di una cultura delle masse né di una cultura popolare. Di certo non è un movimento
culturale spontaneo di massa né una forma attuale di cultura popolare.
Secondo Adorno queste ‘élite’ non sarebbero gli attori di un complotto e non cercherebbero di dominare la
cultura a causa della sua influenza critica, né di spingerla verso la volgarità. Sarebbero invece attori del
capitalismo, che per la sua stessa struttura ‘prova’ a fare di tutto una derrata.
La degenerazione della cultura in ‘derrata’ da consumarsi senza sforzo nel tempo libero implica che al
consumatore venga servito ciò che egli vuole, desidera, capisce, qualcosa che non lo turbi e che lo diverta. E’
un circolo vizioso a cui non si può sfuggire, in cui non vi è alcuna uscita concepibile, prevedibile.
L’industria della cultura impedisce lo sviluppo delle capacità critiche e, in particolare, della capacità di
opporsi a questo stato di cose. Ed è così che l’industria della cultura contribuisce alla stabilizzazione del
dominio: non si tratta di un accompagnamento degli effetti di questa industria bensì della sua essenza stessa.
Essa influenza il pensiero del pubblico suggestionandolo a tal punto che può essa stessa definire il metro con
cui gli Uomini ne stimano il valore.
Adorno constata che « al posto di un piacere si insediano una semplice presenza e l’atto di informare ».
Egli cita poi un suo collega: « L’andare all’opera degenera in occasione sociale; il valore di scambio di
assistere ad una prima sta nel fatto di vedere ed essere visto. Lo spettacolo, l’opera, diventano una semplice
occasione per partecipare ad un evento ».
« Il divertimento è il prolungamento delle ore di lavoro a tutto vantaggio del capitalismo moderno ».
Ciò che conta davvero nell’industria della cultura è il dominio culturale che essa impone (o che impone a se
stessa), senza che vi sia alcun complotto, senza neanche volerlo coscientemente, ma per il solo fatto di
appartenere alla struttura industriale capitalista.
In ‘Minima Moralia’ Adorno fornisce questo esempio (ricordiamoci che siamo negli anni del nazismo):
« Fa parte dei meccanismi del dominio impedire che si evochino le sofferenze che esso provoca, ed è una via
più diretta quella che porta dal vangelo della gioia di vivere alla costruzione di mattatoi per uomini in
luoghi remoti della Polonia quando ogni compatriota può convincersi di non sentire più le grida di dolore. »
Oggi, con la situazione meno drammatica che viviamo, egli direbbe che la cultura offerta ed imposta alle
masse, questa gioia di vivere attraverso spettacoli e divertimento, serve anche a dimenticare le nostre
contraddizioni interiori e la nostra incapacità di costruire una società più giusta, proprio come gli slogan
sull’uguaglianza contribuiscono ad impedire la giustizia (John Rawl – ‘Una teoria della giustizia’).
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Conclusione ragionata
Tutto ha avuto inizio con la necessità dei musicisti e compositori che non volevano accontentarsi di
sopravvivere dando lezioni di musica di scrivere per il divertimento di aristocratici, Principi e Principesse,
Re e Regine, Imperatori e Imperatrici, Ministri e Consiglieri, sperando così di accompagnare dolcemente i
potenti da questo mondo a quello della musica, la loro musica. E fu così che nacque l’Opera Lirica.
Poi giunse l’ora di coloro che non si accontentavano più neanche di questo.
Arrivano Wagner e Verdi, immediatamente seguiti da numerosi imitatori.
Ma soltanto Wagner intellettualizza il movimento verso l’Arte Totale. Egli si rifiuta di intrattenere e questo
si percepisce! Verdi, invece, accetta ancora il compito – nonché l’opportunità economica –
dell’intrattenimento. Altri si metteranno alla ricerca di nuove strade verso l’Arte di tutte le Arti – e vi
rinunceranno. Altri ancora, senza neanche cercare, scopriranno qualcosa che si evolverà sempre più verso
mescolanze artistiche, tipo la musica spettacolo pop e il rock. Il jazz resisterà con successo alla
industrializzazione della cultura. Il jazz, l’ultima storica esperienza culturale occidentale tradizionale che
sorge tra musicisti dilettanti, spettatori ascoltatori danzatori, tutti insieme per le strade, i funerali e cimiteri,
prima di rifugiarsi nei bar e club, scappando ancora dalla morsa dell’industria culturale e dalla sua fatale
separazione tra attori e spettatori paganti, prima di soccombere a sua volta, non senza aver dimostrato che la
selezione dei migliori, dei geniali e delle opere da preservare, era possibile senza l’intervento del danaro
organizzatore di spettacoli per partecipanti passivi e senza giudizio, vale a dire senza l’industria.
Colpevole dell’arroganza di ambire all’Arte Totale - ‘Gesamtkunstwerk’ – o forse proprio per questo,
l’Opera Lirica ci ha tuttavia regalato numerosi brani isolati di grandissima musica, talvolta sublime,
orchestrale e vocale, che non vorrei rinunciare ad ascoltare; ma questo non può giustificare il fatto che
l’Opera dia una caccia disperata all’umanità stessa della musica provocandone una umanizzazione forzata,
artificiale, perpetrando dunque un crimine contro l’umanità della musica. In ultima analisi si tratta di un
crimine contro la musica.
James Joyce nel suo primo libro ‘A portrait of the artist as a young man’ già proponeva una
classificazione delle forme della bellezza nell’arte :
“ Stephen paused and, though his companion did not speak, felt that his words had called up around them a
thoughtenchanted silence.
- What I have said, he began again, refers to beauty in the wider sense of the word, in the sense which the word has in
the literary tradition. In the market place it has another sense. When we speak of beauty in the second sense of the term our
judgement is influenced in the first place by the art itself and by the form of that art. The image , it is clear, must be set
between the mind or senses of the artist himself and the mind or senses of others. If you bear this in memory you will see
that art necessarily divides itself into three forms progressing from one to the next. These forms are: the lyrical form, the
form wherein the artist presents his image in immediate relations to himself; the epical form, the form wherein he presents
his image in mediate relations to himself and to others; the dramatic form, the form wherein he presents his image in
immediate relations to others.”
“Stephen fece una pausa, e anche se il suo compagno non diceva niente, lui sentiva che queste
parole avevano chiamato intorno a loro un silenzio incantato di pensiero.
- Quanto ho detto, ribadisse, si riferisce alla bellezza nel senso largo della parola, nel senso della
parola nella tradizione letteraria. Nel mercato ha un altro senso. Quando parliamo della bellezza, nel
secondo senso del termine, il nostro giudizio è dapprima influenzato dall’arte stessa e dalla forma di
questa arte. E’ chiaro che l’immagine deve essere posta tra lo spirito o i sensi dell’artista stesso e lo
spirito ed i sensi degli altri. Tenendo conto di questo vedrete che l’arte si divide necessariamente in
tre forme che progrediscono dall’una alla seguente. Queste forme sono: la forma lirica, la forma nella
quale l’artista presenta la sua immagine in relazione immediata con se stesso; la forma epica, la
forma nella quale l’artista presenta la sua immagine in relazione mediata con se stesso e gli altri; la
forma drammatica, la forma nella quale l’artista presenta la sua immagine in relazione immediata
con gli altri.”
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Tale riflessione mi colpisce perché analizza, in maniera diversa dalla mia analisi, le ragioni che fanno
dell’aspetto lirico la forma meno evoluta della bellezza commerciale (in the market place). Con commerciale
Joyce intende semplicemente l’aspetto economico della vita dell’artista – non è peggiorativo.
L’opera lirica è anche epica in Wagner, ma sempre ben lontana dal dramma. Negli altri è soltanto
lirica.
Conclusione ottimista
Benché trovi la spiegazione di Adorno chiara e sempre attuale, non sono pessimista come lui.
Non ci dimentichiamo che le sue riflessioni risalgono al 1944.
Adorno non conosceva la genetica moderna e il suo adattamento ai fenomeni dell’evoluzione, in particolare
dell’evoluzione dei comportamenti nella scalata degli strumenti di dominio da parte degli strumenti di difesa
e viceversa, in una spirale perpetua del movimento. Qualsiasi attacco nei confronti della società provoca
l’insorgere di nuove difese che a loro volta verranno attaccate, e così via. Questo fa sì che il futuro resti
sempre ignoto ma che contenga al contempo la speranza di una prossima difesa da un prossimo attacco alla
società degli Uomini.
Le uscite di sicurezza da questa industria della cultura esistono.
Ne citerò giusto una: la Street Art, o arte di strada.
E ci sono anche dei veri e propri avvenimenti eccezionali, non programmati, come la scoperta dopo
trent’anni di ignoranza di Sixto Rodriguez, Sugar man, il quale è stato per 20 anni – a sua insaputa! – un eroe
dell’apartheid in Sudafrica.
Oppure la sublime fotografa franco-americana, baby-sitter di professione, Vivian Maier, o Mayer, o Meyer o
un altro cognome: le sue capacità artistiche sono state scoperte dopo la sua morte grazie al ritrovamento di
casse contenenti migliaia di rullini di pellicole non sviluppate e anche chili e chili di ritagli di giornale, di
ricevute di acquisto minuscole e altri documenti inutili. [Mi viene in mente una variante inconscia dello
‘Zettel’s Traum’ dello scrittore tedesco Arno Schmidt].
Traduzione italiana di Cristina Dei
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