amico, maestro e modello d`amicizia in Aelredo di

Padri cistercensi
Cristo:
amico, maestro e modello d’amicizia
in Aelredo di Rievaulx
don Simone M. Fioraso, Abate* o. cist.
d
a poco si è celebrato a tolosa un convegno a memoria di S. Aelredo e naturalmente in
quella sede sono state dati nuovi contributi per capirne meglio la personalità, l’umanità.
nel mio articolo mi soffermo in modo a parlare dell’amicizia spirituale un grande valore forse
ancora poco apprezzato nei nostri monasteri.
Biografia
Aelredo, abate di Rievaulx, santo. Nacque a Hexam (Northumberland, Inghilterra) nel 1109 o 1110 da nobile famiglia.
Trascorse la sua giovinezza come paggio
alla corte del re David I di Scozia, dove divenne compagno di studi e di giochi di Enrico, figlio del sovrano, dando meraviglioso
esempio di pazienza e di carità.
Durante una missione (1135) compiuta
a Rievaulx (Yorkshire) per incarico del re,
entrò, nonostante i consigli contrari degli
amici, in quel monastero cistercense, allora in pieno fiore e il secondo per importanza in Inghilterra, fondato (1131) dal nobile
* Abate emerito dell’Abbazia di Santa Croce in
Gerusalemme, Roma
signore Walter Espec sotto gli auspici di S.
Bernardo. Ne era allora abate Guglielmo,
discepolo di Bernardo.
Aelredo fece grandi progressi nella pietà, facendosi ammirare specialmente per
la carità pura e sincera verso i suoi confratelli. Come egli stesso scrisse nel suo
libro De spirituali amicitia, molto gli giovò
l’esempio e la conversazione del confratello Simone, morto nel 1142 in concetto di
santità nello stesso monastero.
Maestro dei novizi nel 1141, l’anno seguente Aelredo fu inviato quale primo abate con dodici compagni a Revesby (Lincolnshire), monastero appena fondato dal
conte William e dipendente da Rievaulx.
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Nel 1146 fu promosso abate di quest’ultimo monastero, che allora era già in piena
prosperità contando trecento monaci.
L’abate di Rievaulx era capo di tutti
gli abati cistercensi in Inghilterra, carica
che costrinse spesso il santo a intraprendere lunghi viaggi per visitare i monasteri
dell’Ordine nell’isola. Pare che grande fosse la sua influenza anche nella vita civile
di quel paese, specialmente sul re Enrico
II nei primi anni del suo regno. Si dice che
sia stato lui ad indurre il re ad unirsi a Luigi
VII di Francia per incontrare a Toucy, nel
1162, papa Alessandro III.
Sollecitato ad accettare l’episcopato,
al quale diverse volte era stato designato
anche per l’interessamento del re David e
di suo figlio Enrico, Aelredo costantemente
rifiutò per amore della vita religiosa. Partecipò in Francia al Capitolo generale del
suo Ordine, assistette il 13 ottobre 1163 al
trasferimento delle reliquie di S. Edoardo
il Confessore nell’abbazia di Westminster
e nel 1164 partì in missione per convertire i Pitti del Galloway, dove il 20 marzo di
quell’anno a Kirkcudbright lo stesso capo
di quei barbari, mosso dall’esortazione del
santo, entrò in monastero.
Affranto dalle malattie (gotta e calcoli),
che lo avevano afflitto negli ultimi dieci anni,
mori il 12 gennaio 1166 o 1167 in concetto di
santità e fu sepolto a Rievaulx. Il suo culto
iniziò subito dopo la morte. Fu canonizzato
probabilmente da Celestino III nel 1191. Il
Capitolo generale Cistercense del 1250 lo
iscrisse tra i santi dell’Ordine al 12 gennaio.
Aelredo scrisse molte opere, per la gran
parte giunte fino a noi. [...] Non è stata mai
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fatta un’edizione completa di tutte le opere del santo: le opere teologico-spirituali
sono state pubblicate la prima volta da R.
Gibbons (Douai 1631), con qualche frammento delle opere storiche. Una migliore
edizione fu fatta dal Tissier (in Bibliotheca
Cisterciensis, 1662, I), dalla quale furono
inserite nella P.L, CXCV.
Negli ultimi anni sono state fatte delle
traduzioni in inglese e in francese di alcune opere ascetiche ed è fiorita una letteratura piuttosto abbondante, che potrebbe
significare una rivalutazione o un maggiore
apprezzamento del pensiero ascetico del
santo, che grande influsso aveva nella vita
spirituale del Medio Evo.
Egli, del resto, è stato sempre conosciuto soprattutto per le sue opere ascetiche, pervase di profonda conoscenza della
S. Scrittura e delle opere di S. Agostino e
di S. Bernardo, dei quali, specialmente del
secondo, può considerarsi discepolo, a tal
punto da essere considerato in Inghilterra
e tra i cistercensi l’eguale di S. Bernardo
(Bernardo prope par Aelredus noster).
In tutte le sue opere si riconosce la sua
anima affettiva. Egli cerca di muovere il
sensibile per condurre ad amare ed imitare
il Cristo.
Un monaco, che porta in sé l’immagine
di Dio, si sforza di renderla sempre più visibile in se stesso; il suo scopo è di giungere
a una così profonda esperienza spirituale
che sia il preludio del possesso definitivo
di Dio nel cielo.
Perciò le opere ascetiche di Aelredo,
sebbene destinate ai monaci, possono
servire a qualunque fedele, per aiutarlo a
coltivare in se stesso questa rassomiglianza con Dio e ad evitare gli ostacoli che si
oppongono alla perfezione cristiana.
Qualche dato sull’antropologia in Aelredo
Non c’è in essa nulla di originale e l’essenziale lo troviamo nella tradizione patristica e in particolare in S. Agostino. Tuttavia malgrado questa assenza di originalità,
questa antropologia dà i fondamenti della
Teologia Spirituale di Aelredo tant’è vero
che non si può definire ciò che deve essere l’uomo per Dio senza sapere ciò che
è l’uomo in se stesso nella sua struttura
antropologica. La conoscenza che i nostri
padri cistercensi avevano al riguardo era
molto viva: per essi spiritualità e antropologia sono due realtà indissociabili.
In tutti i nostri padri cistercensi non troviamo alcuna preoccupazione di redigere
sotto una forma o sotto un’altra, un De natura Hominis o un De anima. Questa congiunzione resta sicuramente e deve essere costitutiva di tutta la dottrina spirituale,
anche se la prospettiva, nella quale è vista
oggi, è differente da quella a cui ricorrevano i nostri anziani. Infatti il primo piano
che occupa l’uomo nel pensiero contemporaneo, possiamo chiamarlo antropologia
ascendente, che parte dall’uomo prigioniero della sua condizione umana per elevarsi, nel migliore dei casi, all’uomo secondo
la sua vocazione spirituale e divina. I nostri
padri cistercensi, situano le loro riflessioni sul piano teologico e ci offrono di fatto
un’antropologia discendente: non si tratta
più di partire dall’uomo per elevarsi a Dio
(della sociologia, della psicologia, antropologia sociale e culturale), ma di determinare bene in che cosa la vocazione divina
dell’uomo – come è iscritta nella rivelazione cristiana – deve formare l’agire morale
dell’uomo.
a) L’uomo, un essere di desideri
Per rendere più naturale l’accesso al
pensiero di Aelredo, noi ci permettiamo di
rendere diritto alla mentalità contemporanea
e di percorrere in senso inverso l’analisi che
Aelredo propone nel libro primo Du miroir.
Alla questione di sapere ciò che è l’uomo
risponde che è un essere capace di beatitudine e che ordina l’insieme dei suoi desideri
e dei suoi atti alla quiete del suo fine ultimo.
Secondo i valori umani o mondani, questa
beatitudine può rivestire diverse forme: c’è
da una parte la ricerca della ricchezza, il desiderio degli amici del mondo, la soddisfazione immediata dei piaceri carnali: tutte forme
di beatitudine che non sono nella realtà ma
delle contraffazioni e lasciano nell’uomo un
sentimento di insoddisfazione perpetuo. In
ultima analisi bisogna dunque riconoscere
che l’uomo è più grande dei suoi desideri, o
meglio ancora, che è abitato da un desiderio
di infinito che non può trovare nei soli beni di
questo mondo.
Per raggiungere la condizione di beatitudine l’uomo instaura una battaglia e, ben lontano dal trovare il riposo che è scontato, si trova
nel vortice della molteplicità dei suoi desideri.
Egli instaura così ciò che Aelredo, dopo S.
Bernardo, chiama il circuito degli empi.
b) Ciò che è alla sommità
L’uomo deve ancora scoprire il bene
supremo, ciò che Aelredo definisce «ciò
che è alla sommità, ciò che è il meglio, ciò
che nulla sorpassa né in grandezza né in
splendore». Si tratta di determinare ugualmente la causa di questa cecità che impe-
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disce all’uomo di vedere ciò che deve fare
per arrivare alla beatitudine.
Per Aelredo la risposta è di una estrema
semplicità: questa cecità proviene dall’ignoranza sulla sua vera dignità nella quale l’uomo si trova. L’antichità classica ci ha lasciato diverse testimonianze di questa ricerca:
l’oracolo di Delfo «conosci te stesso», Platone nel trattato che consacra la questione
sull’immortalità dell’anima (Il Fedone).
Per Aelredo e per la tradizione cistercense questa istanza rivelatrice e creatrice
della libertà umana non è altro che la Sacra
Scrittura il cui ruolo consiste nel rafforzare
la memoria deficiente (ignoranza) dell’uomo. Siate santi, proclama il Levitico. Siate
perfetti, insegna il Cristo. Due formulazioni
differenti di una identica esortazione fondata
su un «come»: «Come il vostro Dio e come
il Padre celeste è perfetto». Questo «come»
per Aelredo stabilisce sotto una forma incantatoria una identità di natura e una parentela
tra Dio e l’uomo che non cesserà mai di affascinare. La beatitudine dell’uomo può dipendere dall’accoglienza che l’uomo stesso
riserverà a questo appello di Dio.
c) L’uomo: un’immagine di Dio
da restaurare
Il peccato originale, dice Aelredo, ha allontanato dall’uomo l’immagine di Dio alterandone la memoria, la conoscenza, la volontà e solo lo Spirito può riprodurre in lui la
vita divina per fare dell’uomo un solo Spirito
con Dio. Aelredo ricorda a diverse riprese
ciò che il desiderio di Dio, o questo amore
ordinato da Dio, è un amore inculcato per la
ratio: è essa che ci insegna (do-cere) e ci
spinge all’amore di Dio e del prossimo. Aelredo non esclude che si possa raggiungere
l’amore di Dio solo con la ragione, ma anche
con l’affectus spiritalis che rende dolce questa esigenza dell’amore di Dio e del prossimo. Aelredo sottolinea inoltre la conversione
dell’amore da cupiditas a caritas. Non posso non ricordare l’enciclica di Benedetto XVI
Deus caritas est. L’uomo – dice Aelredo – sa
che deve partecipare alla vita divina e con
l’aiuto della Grazia, è pronto a mobilitare tutte le sue energie per aderire a Dio. La questione per Aelredo è: come avverrà ciò? E
per questo l’uomo ha bisogno di un modello
da imitare.
La Cristologia in aiuto dell’antropologia
Le diverse scienze umane sottolineano
l’importanza del fenomeno di mimetismo o
di imitazione, ricordo semplicemente che
ciascuno di noi va alla ricerca di un idolo o
di un eroe nel quale identificare e incarnare
un ideale a cui egli stesso aspira. È a questo
punto che Aelredo propone l’idolo o l’eroe:
per noi – dice Aelredo – c’è l’incarnazione di
Cristo. «L’uomo deve seguire solo Dio, non
può seguire un altro uomo... Dio si fa uomo,
affinché l’uomo abbia un modello umano alla
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sua portata e il beneficio di divenire come
Dio. Il Cristo vero uomo e vero Dio ha rivestito con la sua incarnazione la similitudine
della nostra carne di peccato con la Gloria
del Padre (Col 2,9)». Aelredo, all’antropologia fondata sull’immagine e somiglianza,
risponde con una Cristologia fondata sulla
duplice natura di Gesù che lo rende partecipe e dell’umanità creata chiamata alla divinizzazione e della divinità (divinizzazione già
pienamente realizzata in lui).
Dalla devozione all’umanità di Cristo all’imitazione della croce
In ultima analisi, ciò che legittima dunque
la devozione all’umanità del Cristo, nella Spiritualità Cistercense primitiva, è la dottrina della
mediazione che le ricerche teologiche attualmente tendono a rimettere in valore, dottrina
fondata sul dogma Cristologico definito dal
Concilio di Calcedonia del 451. Tutta l’esistenza terrena di Gesù è in questo senso un sacramento offerto agli occhi della fede, Sacramentum Fidei, di questa immersione del divino
nell’umano. Questo Sacramentum – sottolinea
Aelredo – è l’exemplum da imitare. L’autore
dell’Epistola agli Ebrei sottolinea questa mediazione del Cristo sulla croce quale unica opera di salvezza per l’umanità. È il Sacramentumexemplum per eccellenza. Aelredo lo esprime
in una sola frase: «Che la croce di Cristo sia
come lo specchio del cristiano» e «la croce ingrandisce l’amore». Scrive Aelredo sulla contemplazione della croce: «Che il mio animo ti
contempli, crocifisso; che si abbeveri del tuo
dolcissimo sangue nell’attesa che la mia memoria sia occupata a meditare e ad assaporare queste cose... Non voglio conoscere altro
se non il mio Signore e il mio Signore crocifisso....». Questa è la pedagogia di salvezza di
Aelredo e questa prospettiva stabilisce l’ascesi
nelle sue dimensioni spirituali: «L’ascesi non si
giustifica – per Aelredo – né per la dottrina della sofferenza redentrice, né per una penitenza
riparatrice, né per una catarsis preparatoria
all’azione contemplativa, ma solamente con
l’amore al Cristo e la carità».
Dopo aver compreso l’antropologia di
Aelredo possiamo parlare di amicizia e condivisione affettiva che è la partecipazione ai
sentimenti di Cristo, quasi una identificazione
con il suo stesso modo di sentire, di amare, di
appassionarsi, di vibrare interiormente dinanzi
alle bellezze e bruttezze della vita, ma significa la nostra libertà di legarci profondamente
all’altro da provare i suoi stessi sentimenti al
punto dall’essere un cuor solo e un’anima sola.
Ritengo che solo la condivisione affettiva
con Cristo consente e favorisce la condivisione affettiva con i fratelli. Anzi la condivisione
fraterna, di per sé è un modo di partecipare
ai sentimenti di Cristo ed è vera e autentica
solo a partire dal coinvolgimento totale di essi.
Spesso i sentimenti rappresentano un’area
che resta ai margini della vita spirituale, a volte si contrappongono ad essa, quasi un’isola
spontanea dove regnano l’istinto e l’attrazione
spontanea. In realtà la nostra vita è un itinerario di progressiva assimilazione dei sentimenti
di Cristo ed è grazie a questa esperienza che
si può entrare nella vita del fratello, condividendo i suoi sentimenti. Per Aelredo per vivere
un’amicizia sono necessari alcuni passi:
• sblocco personale: avere un buon
rapporto con i propri sentimenti. Se non
liberate i vostri sentimenti non vi potrà essere nessun coinvolgimento, né con Cristo
né con i fratelli. Non dovete temere i vostri sentimenti, non dovete subirli, essi non
sono segno di debolezza, non dovete ucciderli in quanto venite uccisi anche voi.
• area comune: costituita da quell’insieme di valori e convinzioni che si possiedono
in comune e che sono strettamente legati
alla medesima realtà carismatica. Condividere il carisma significa avere in comune
la stessa identità ideale, lo stesso progetto
su di sé, gli stessi sogni sognati da Dio per
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ognuno e per tutti (creazione di affinità che
viene dall’alto, non fatta da mani d’uomo ma
da un misterioso progetto divino).
• stima: la stima è la carità dello spirito per Aelredo, è fare dono all’altro di un
giudizio estremamente positivo. Se non
giungete alla stima reciproca siete fuori
dalla verità e la stessa vita comunitaria è
una falsità. Il fratello è sempre amabile per
quel che è nel profondo della sua identità
ove è riconoscibile il piano di Dio su di lui,
responsabilità e bisogno dell’altro: siamo
responsabili l’uno della crescita dell’altro.
Lo siamo non per una forzatura, ma è una
conseguenza naturale e inevitabile del vivere insieme nel nome del Signore. C’è un
profondo vincolo nella professione che ci
lega di fronte a Dio, nel bene e nel male
nella santità da costruire assieme e nella
debolezza da portare assieme; su questo
vincolo saremo interrogati.
L’amicizia monastica
Aelredo
nel
parlarci dell’amicizia non ci parla
di amicizia di coppia, né di gruppi
scelti, omogenei,
ma di amicizia fra
coloro che coltivano la nostalgia
di essere e di
fare famiglia, radicata nella grande famiglia di Dio, e che
siano capaci di rendere sinceri, continui e
fecondi i rapporti reciproci, in modo che siano personali non esclusivi, permanenti non
episodici, condivisi non sospetti, pacificanti non conflittuali; protesi a comunione di
vita, che stimolano non appiattiscono, che
favoriscono la concentrazione del desiderio sul fine, non distolgono da esso, risvegliano la memoria della meta comune, non
la distraggono; liberano la generosità e lo
slancio missionario, non lo devitalizzano;
che non si sottraggono alla responsabilità
del vivere e alimentano la convinzione che
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l’amicizia che si coltiva è di tutti e per tutti e
l’amicizia mai lascia soli i suoi fedeli, li attira
e li dona gli uni agli altri. Dunque l’amicizia
fraterna nella vita monastica è vocazione
di tutti e per tutti, in quanto è strettamente
legata all’amicizia personale con il Signore
e proprio per questo porta alla condivisione
degli affetti.
Se siamo capaci di avere Gesù come
amico, ciò vuol dire che possiamo avere
come amici i nostri fratelli. Dobbiamo avere degli amici, è necessario possedere un
cuore esercitato nell’amicizia verso i fratelli,
per essere capaci della solitudine che porta
a Dio. Nessuno di voi resti solo con se stesso. Siate amici gli uni degli altri: non siate
soltanto fratelli, ma amici.
Non vi chiamo più… ma amici. Spartite
ciò che è in voi: desideri, difficoltà, gioie e
pene con un fratello che sia amico e siate
abbastanza attenti per permettere anche a
loro di spartire tutto con voi. Non credo che
possiamo trovare il Signore se viviamo separati dai nostri fratelli.
Esempio di amicizia nell’Antico Testamento
1 Sam 17,57-18,4: Nascere dell’amicizia tra Davide e Gionata: evento improvviso e totale, inaspettato e anche un po’
inspiegabile.
Prova dell’affetto di Gionata per Davide
1 Sam 19,1-7 (Gionata ama Davide perché
intercede presso il Padre); 1 Sam 20 (sfida
l’ira del padre favorendo la fuga di Davide
– testo molto bello pieno di vivacità, 14-17).
1 Sam 22,7-8: Amicizia dei due giovani:
oggetto di critica da parte del re, la risposta
è la fedeltà di Gionata a tutte e due.
1 Sam 23,15-18: Incontro segreto tra
Gionata e Davide. Nel primo incontro Gionata aveva ceduto a Davide i suoi indumenti e le armi. Gesto importante ma forse ci
dice semplicemente che Davide ne aveva
bisogno. Ora in questo nuovo patto c’è di
più, una specie di profezia di Gionata che
sa cogliere i disegni di Dio.
2 Sam 1,25-26: Amicizia non solo vissuta, ma cantata nella elegia pronunciata per
la morte di Gionata e Saul.
Faccio tre considerazioni:
• Caso di singolare amicizia nella
scrittura. Caso commovente in quanto tutte e due sono re: Gionata è l’erede legale,
Davide è il re eletto, grande amicizia tra
due grandi personaggi. Ciascuno considera l’altro più importante di sé. Esempio
di umanità in tempo di crudeltà e violenza.
•Da questa amicizia traspare il
motivo centrale della storia di Davide.
L’amore di Dio che lo ha amato e scelto
è così grande da riversarsi persino sui
suoi avversari. Gionata che avrebbe
dovuto essere l’avversario per eccellenza di Davide viene investito di amore
per lui. Stupenda intuizione profetica di
Gionata dell’economia di salvezza, della
messianicità davidica.
•Bellezza di un patto di amicizia che
rende le persone sensibili l’una all’altra,
capaci di sacrificarsi, di prevenire i desideri. Realtà buona agli occhi di Dio e
per questo raccontata con parole commoventi, belle. La possibilità di un patto
fatto tra persone, che non sia né politico, né economico, né coniugale è volutamente sottolineata dalla Bibbia come
una realtà autentica, un valore a sé.
Gesù ci ha voluto amici e i suoi stessi
discepoli sono suoi amici
Mc 10,17-22: Gesù intuisce la bellezza
profonda di quell’uomo e si è commosso. Difficile è capire perché l’uomo non ha risposto
a quello sguardo di amore. Questo sguardo
è il riflesso del primo sguardo che Dio posa
sull’uomo. L’uomo che non accoglie, che
non comprende di essere amato è un infelice
perché non conosce il suo destino.
Gv 11,3-5: Marta, Maria e Lazzaro
sono amici di Gesù. Siamo un po’ sorpresi
in quanto di Lazzaro non si è mai parlato
e tanto meno conosciamo perché Gesù lo
amasse e quale tipo di rapporto ci fosse tra
loro. Quello che conta è che Gesù piange
per l’amico Lazzaro, consola le sue amiche
Marta e Maria, che amava. Esse nell’amicizia affermano: «Se tu fossi stato qui Lazzaro non sarebbe morto» (Lc 10,38-42), ci
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dice che Gesù si trovava bene con loro e
l’ultimo banchetto prima della Pasqua Gesù
lo fa proprio lì a Betania. La grande familiarità di Gesù.
È interessante vedere come i tempi di
Gesù coincidono con la nostra vita: tempo
per Dio (la preghiera nelle lunghe notti),
tempo per l’azione pastorale ( tempo per gli
altri – la gente), tempo per l’amicizia (Gesù
risuscita Lazzaro esponendosi alla morte –
scribi e farisei si convincono della necessità
di ucciderlo amicizia fedele fino alla fine).
Gv 13,23-26: Tra Gesù e Giovanni amicizia piena di confidenza, senza segreti.
Gv 19,26-27 e Gv 20,2-4 e Gv 21,7: Il discepolo che Gesù amava. Amicizia entrata
pienamente in Cristo. Giovanni è il discepolo della prima ora, è colui che ha immerso lo
sguardo nella profondità del cuore di Cristo
e ha compreso come Gesù uomo amasse
gli uomini con il cuore di Dio. Questa esperienza di amicizia ha dato vita al vangelo
dell’amore.
Leggete ancora Lc 23,41-44: stupendo
patto di amicizia al momento della morte.
Gv 13,34-35 e Gv 15,12-15 Gesù si propone come esempio di amicizia. Chiamata
esplicita di Gesù a vivere l’amicizia.
Ho cercato in parole povere di suscitare in voi la conoscenza di Aelredo, ma soprattutto ho una speranza: essere riuscito a
farvi percepire quanto è bello crescere nella
vita umana e spirituale alla scuola di chi ci
ha preceduto: i Dottori della Chiesa, i Padri,
i Fondatori… che con tenacia, passione, sacrificio hanno messo nero su bianco tutto il
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loro mondo di esperienze, conquiste intellettuali e spirituali. E scoprire che cambiano
i secoli, cambiano i gusti, gli stili, le mode,
ma che gli uomini continuano a dare voce
alle stesse domande di senso e che belle
risposte lo Spirito ha dato nei secoli.
Si dice che l’Abate Aelredo non abbia
mai allontanato nessuno dal monastero,
credo che il segreto è proprio questo: la capacità di vedere ogni monaco come amico
di Cristo e disposto a seguire il grande amico di cui ha fatto esperienza.
Spunti di riflessione:
•Amicizia dono divino, gratuito, non
si può esigerla, programmarla rigorosamente. Dono dall’alto e va accolta con
atteggiamenti di bontà, benevolenza,
cortesia, umanità verso gli altri.
•L’amicizia è bella, dà sapore alla
vita, la illumina, arricchisce i rapporti,
cambia le persone. In questo senso è un
grandissimo valore.
•Amicizia è fedeltà nelle prove fino
alla morte. Gesù afferma che l’amicizia
è dare la vita. Per questo è un dono difficilissimo e raro. Non va confusa con il
cameratismo.
•L’amicizia va oltre la morte (2 Sam
9,1ss). L’Eucarestia segno dell’amicizia di Gesù nella morte e oltre la morte.
L’Eucarestia è il momento culminante
della contemplazione dell’amicizia: in
essa c’è fedeltà, perseveranza, rischio
della vita, amore.