unità
IX
L’Italia nella seconda
guerra mondiale
Riferimenti storiografici
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Nel riquadro Benito Mussolini e Adolf Hitler salutano la folla nel corso
di una parata militare in Germania.
Sommario
1
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Le motivazioni del comportamento delle
truppe tedesche verso gli italiani
Il campo di concentramento di Arbe
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
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La vicenda delle foibe: un inquietante
nodo storiografico
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Le motivazioni del comportamento
delle truppe tedesche verso gli italiani
UNITÀ IX
Dopo aver esaminato i principali episodi di violenza messa in atto dalle truppe tedesche in Italia, l’autore tenta di individuare le motivazioni in virtù delle quali l’uccisione di civili divenne una pratica di assoluta normalità. In genere, le unità che
si macchiarono delle stragi più feroci avevano prestato servizio sul fronte orientale e avevano completamente accettato l’idea della superiorità razziale germanica.
L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
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Per quanto riguarda i circa 7000 militari e gli oltre 9000
civili italiani assassinati, fra cui vi furono almeno 580 bambini innocenti di età inferiore ai quattordici anni, è stato dimostrato che essi non caddero vittime della violenza nazista solo per motivi legati a una particolare situazione
storica. La spiegazione del perché toccò loro un simile destino va piuttosto ricercata nella concomitanza di vari fattori, che complessivamente fecero venir meno il rispetto per
ogni vita umana che non fosse tedesca. In ciò si concretizzò un’affinità mentale dei colpevoli con l’ideologia nazionalsocialista, di cui essi introiettarono una visione dell’uomo improntata al razzismo.
In altre parole, la convinzione di appartenere a una
razza superiore, diffusa non soltanto fra le massime autorità dello Stato nazionalsocialista, influenzò in maniera
molto sfavorevole l’atteggiamento verso la popolazione
italiana e fece sì che nei confronti di quest’ultima si scatenasse quotidianamente un razzismo sconsiderato che,
pur avendo contorni molto vaghi, era ampiamente diffuso,
profondamente radicato e facile da innescare. Spesso tale
sentimento veniva poi esacerbato dall’odio che insorgeva
nelle situazioni concrete.
Di sicuro non si trattò di un razzismo paragonabile a
quello che causò lo sterminio degli ebrei, bensì di un atteggiamento razzistico che aveva come scopo il declassamento di una nazione. Dopo l’uscita dell’Italia dalla
guerra, questa disposizione ideologica contribuì a un abbassamento della soglia degli scrupoli morali nella pratica
della tortura o addirittura dell’omicidio nei confronti degli italiani, e falciò migliaia di vite umane. Le relazioni tra tedeschi
e italiani furono all’epoca, in buona sostanza, quelle tra un
Herrenvolk [popolo di signori – n.d.r.] e uno Sklavenvolk [popolo di schiavi – n.d.r].
Quel razzismo è, a nostro avviso, la chiave di volta per
comprendere e spiegare in modo adeguato perché la
Wehrmacht, le SS e la polizia reagirono con rappresaglie
sproporzionate, e più precisamente con stragi, alla Resistenza italiana. L’ideologia razzista non costituisce tuttavia l’unico fattore che può rendere ragione del comportamento inumano delle forze armate tedesche in
Italia. Dobbiamo anche considerare la particolare mentalità degli uomini in guerra, giacché l’incombente e costante presenza della morte induce in molti soldati una
profonda indifferenza morale. [...] Là dove la morte diventa la norma o una costante eventualità, la propria vita
e quella degli altri perde di stima, rispetto e di valore. Ma
ciò vale, probabilmente, per quasi tutti gli uomini in
guerra.
Particolarità germaniche che possono spiegare gran
parte di quello che è successo tra tedeschi e italiani dopo
l’8 settembre 1943 sono invece l’indottrinamento delle
truppe con idee contrarie al diritto internazionale, la tendenza
tradizionale delle autorità militari a combattere una mentalità umanitaria che veniva considerata inconciliabile con la cosiddetta «necessità bellica» e con il «carattere peculiare» della
guerra. Non a caso, entrambi questi termini tecnici – con cui
da parte tedesca si giustificò qualsiasi atto di terrore, soprattutto nel contesto della politica d’occupazione – rimasero
senza una precisa definizione. Del resto, nell’ambiente militare tedesco hanno sempre allignato un atteggiamento relativistico nei confronti del diritto internazionale e simpatie per
una cultura di violenza, e ben da prima della Grande Guerra.
Nella seconda guerra mondiale un ulteriore elemento
per la spiegazione dell’atteggiamento dei militari tedeschi
viene offerto dall’ideale del «soldato politico»: un soldato
della Wehrmacht (e non solo delle SS, come qualcuno ha
supposto erroneamente) che si identifica con l’ideologia nazista e gli obiettivi politici del regime. A questo scopo fu inculcato nei militari il dogma dell’indissolubile unità tra il popolo, la razza e lo Stato. L’idea della comunanza di sangue
e di destino di tutti i tedeschi doveva diventare il fondamento dell’agire personale. Come abbiamo dimostrato, fu
questa una delle principali richieste delle autorità militari tedesche nel teatro di guerra italiano. Infatti, per la Wehrmacht la seconda guerra mondiale diventò sempre più, anche
in Italia, una guerra essenzialmente nazionalsocialista.
Si deve inoltre accennare al fondamentale principio di
ordine e ubbidienza proprio della vita militare, che sicuramente favorisce un indebolimento del senso di responsabilità individuale. E non c’è dubbio che le direttive criminose
emanate dal comando supremo della Wehrmacht, nonché
gli ordini per la lotta contro le «bande» impartite dal comandante superiore del Sudovest o da altri comandi, che
davano in pratica carta bianca a qualsiasi arbitrio, abbiano
facilitato il gioco omicida dei vari von Hirschfeld, von Loeben, Peiper, Reder e dei loro superiori.
Esisteva anche una stretta correlazione tra lo svolgimento delle operazioni, la costante minaccia partigiana, la
frustrazione delle truppe tedesche in continua ritirata, il quadro strategico deprimente, la vendetta, spesso condizionata dalla situazione, e la disponibilità alla violenza estrema.
In un tale scenario, nessun militare tedesco considerava
l’innocente popolazione civile italiana degna di alcun riguardo. E non dimentichiamo, infine, che numerosi soldati
e ufficiali tedeschi impiegati in Italia avevano avuto una certa
esperienza della guerra di annientamento in Russia.
G. SCHREIBER, La vendetta tedesca. 1943-1945: le rappresaglie
naziste in Italia, Milano, Mondadori, 2001, pp. 232-234.
Traduzione di M. Buttarelli
Che cosa significano le due espressioni Herrenvolk e Slavenvolk?
In che modo questi concetti influenzarono il comportamento dei soldati tedeschi in Italia?
Che cosa significa l’espressione soldato politico?
In che modo questo concetto influenzò il comportamento dei soldati tedeschi in Italia
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
Alcuni tra gli episodi più gravi della violenza compiuta dagli italiani in Jugoslavia si svolsero in Slovenia. Allorché Mussolini decise di trasformare Lubiana in una provincia italiana a
tutti gli effetti, migliaia di sloveni furono condotti nell’isola di
Arbe e internati in un campo di concentramento.
All’inizio dell’estate 1942, tra gli alti comandi militari
italiani era ormai diffusa l’idea che fosse necessario
compiere il «salto qualitativo» che avrebbe dovuto trasformare le deportazioni parziali in «sgombero totalitario» della popolazione della «Provincia di Lubiana». Anche per questo sull’isola di Rab (per gli italiani Arbe), da
poco tempo annessa all’Italia, si stava predisponendo
un enorme lager che avrebbe dovuto accogliere 16000
internati. L’occasione per la presentazione al duce dell’imponente programma di deportazione fu data dal
summit politico-militare tenutosi il 31 luglio 1942 a Gorizia. In quella occasione, parlando alla folla dal palazzo
del Comando militare, Mussolini dichiarò apertamente
guerra alla popolazione slovena, minacciandola di deportazione e di sterminio. Poco dopo il generale Robotti
riferiva agli ufficiali che il progetto era stato superiormente approvato e che, quindi, si sarebbe dovuto «allargare il più possibile la macchia d’olio del dominio italiano», avviando «tutti gli uomini validi» nel campo di
concentramento di Arbe. [...]
La realizzazione del campo di Arbe era stata intrapresa alla fine di giugno del 1942 con l’allestimento, su
un terreno paludoso in località Kampor, di una tendopoli capace di «alloggiare» 6000 internati. Altri settori
(complessivamente ne erano previsti quattro, oltre al cimitero), costituiti da baracche e capaci di accogliere altre 10000 persone, dovevano essere realizzati prima
del sopraggiungere della stagione invernale. I civili deportati ad Arbe non furono sottoposti al lavoro obbligatorio; tuttavia la fame, le pessime condizioni igienicosanitarie, il dormire sotto piccole tende a contatto col
nudo terreno e la mancanza di qualsiasi tutela internazionale, resero la loro prigionia estremamente penosa. Secondo i dati forniti dal Supersloda, dall’apertura del campo sino alla metà di dicembre del 1942,
erano già morti 502 deportati.
Il nunzio papale presso il governo italiano, Monsignor
Francesco Borgognini Duca, che pure visitò quasi tutti
i campi di internamento della penisola, per i rischi connessi ad un eventuale lungo viaggio da Roma al golfo del
Quarnaro, non si recò dagli internati di Arbe. Lo fece, invece, monsignor Giuseppe Srebrnic, vescovo della vicina isola di Veglia (Krk), che rimase estremamente impressionato da quanto visto. «Ad Arbe, nel territorio
della mia diocesi, ove all’inizio del mese di luglio 1942 si
aprì un campo di concentramento nelle condizioni più
miserabili che si possono immaginare – scriveva il prelato il 5 agosto 1943 – morirono fino al mese di aprile
dell’anno corrente, in base agli esistenti verbali, più di
1200 internati; però testimoni vivi ed oculari, che cooperavano alle seplture dei morti, affermano decisamente
che il numero dei morti per il detto periodo ammonta almeno a 3500, più verosimilmente a 4500 e più».
La storiografia jugoslava ha definito «di sterminio» il
campo fascista di Arbe; quella italiana, invece, avendolo
quasi completamente ignorato, non si è posta alcun problema di definizione. Di fatto, i deportati vi cominciarono
a morire numerosi già nell’ottobre 1942, e il tasso di
mortalità andò aumentando sino al gennaio dell’anno
successivo. Il fatto che, sin dall’inizio, vi fosse stato
predisposto un ampio terreno per le sepolture (gli internati del campo lo definirono «quinto settore»), dimostra,
ad ogni modo, che un’alta mortalità tra i prigionieri rientrava tra le previsioni dell’Esercito italiano.
Da regolamento, il vitto avrebbe dovuto garantire ad
ogni deportato 1000 calorie al giorno; di fatto, però,
esso ne offriva meno della metà. Particolarmente grave
fu la condizione delle partorienti, che molto frequentemente diedero alla luce bambini già morti. All’inizio di novembre 130 internati avevano un’età inferiore ai dieci
anni, e nel volgere di un mese il numero dei minorenni
aumentò ad alcune centinaia. La notte del 29 ottobre
1942, nel corso di un violento nubifragio, un vicino torrente inondò il campo e spazzò via moltissime tende.
Negli ultimi mesi dell’anno, tra i deportati di Arbe la
mancanza di cibo era così grave e diffusa che anche i
giovani in pieno vigore fisico subivano in poco tempo il
dimezzamento del proprio peso corporeo: centinaia di
figure scheletriche, sfinite dalla fame si trascinavano
quotidianamente per il campo nell’improbabile ricerca di
qualcosa da poter mangiare.
C. S. CAPOGRECO, «Internamento e deportazione dei civili
jugoslavi (1941-’43)», in C. DI SANTE (a cura di), I campi di
concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione
(1940-1945), Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 149-151
La politica di internamento fu sconfessata da Mussolini?
Quale atteggiamento ha assunto la storiografia italiana, nei confronti del campo di Arbe?
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012
UNITÀ IX
Il campo di concentramento di Arbe
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RIFERIMENTI STORIOGRAFICI
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La vicenda delle foibe: un inquietante
nodo storiografico
UNITÀ IX
Per molti anni, i crimini compiuti dai partigiani jugoslavi in
Istria e in Venezia Giulia sono stati ignorati o minimizzati dalle
sinistre italiane. Scorretto è anche stato l’utilizzo strumentale
di questo episodio da parte dei neo-fascisti, che si servirono delle atrocità comuniste per far dimenticare le violenze commesse dagli squadristi e dall’esercito italiano a Trieste, in Istria e in
Slovenia. Quella delle foibe è una vicenda complessa: un microcosmo che riassume tutte le tragiche contraddizioni del Novecento.
L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
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Nulla sarebbe più sbagliato del credere che delle
foibe si sia cominciato a parlare solo di recente. Al contrario, l’argomento è stato frequentissimo, non solo nella
pubblicistica [sui giornali e, più in generale, sulla stampa
destinata ad un vasto pubblico – n.d.r.], che nel corso
di un cinquantennio ha dedicato al problema un vero diluvio di interventi, ma anche nella storiografia, seppur in
misura nettamente minore. Piuttosto, c’è da chiedersi
come mai i contributi sul tema delle foibe abbiano trovato un’enorme difficoltà a uscire da ambiti molto circoscritti: essenzialmente quello locale giuliano e quello,
del tutto speciale, degli esuli giuliano-dalmati.
Per tentare una risposta, conviene partire dalla constatazione che scarso interesse a livello nazionale non è
stato suscitato solo dal dramma delle foibe ma, più in
generale, da quasi tutte le vicende legate alla storia
della frontiera orientale italiana dopo la prima guerra
mondiale. [...]
Dietro tali rimozioni incrociate sta probabilmente il
fatto che la storia del confine orientale per un verso ha
potentemente favorito la nascita di veri e propri miti politici e storiografici, per l’altro, se rigorosamente investigata, offre pure tutti gli elementi per mettere in crisi quei
medesimi miti, oramai consolidatisi nelle diverse culture
politiche del nostro paese. Ciò vale, per esempio, per il
mito del buon italiano, che può uscire alquanto ridimensionato dalla conoscenza critica delle esperienze di occupazione italiane nei territori ex jugoslavi, oppure per
quello dell’innocenza della classe dirigente italiana della
Venezia Giulia e soprattutto di Trieste nei confronti del potere germanico nel biennio 1943-1945, se si tiene conto
della rete di silenzi e complicità di cui i nazisti poterono
avvalersi per portare a compimento il loro disegno di
morte. Ma ombre tutt’altro che lievi non possono che addensarsi anche sul mito del Movimento di liberazione jugoslavo, a lungo considerato un esempio per tutti i movimenti resistenziali europei, di fronte all’osservazione
delle violenze di massa – come, appunto, quella delle
foibe – attraverso le quali esso raggiunse i suoi obiettivi,
e cioè l’indipendenza del paese, l’annessione di territori
rivendicati ai confini e la costruzione del comunismo:
passaggi tutti di un progetto rivoluzionario che avrebbe
condotto alla formazione di un regime stalinista, anche
se destinato a scontrarsi con Stalin, al quale fra l’altro va
addebitata l’espulsione degli italiani dall’Istria. [...]
Nella primavera del 1945, a venire presi di mira non
furono tanto gli elementi di etnia italiana – che potevano
venire considerati buoni e onesti italiani se aderivano all’annessione alla Jugoslavia – quanto tutti coloro che, a
prescindere dalle loro origini etniche, si sentivano politicamente italiani, vale a dire desideravano il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Secondo la
medesima logica vennero perseguiti pure gli sloveni e i
croati contrari al comunismo. Anche la formula rituale
pertanto, secondo la quale molte delle vittime delle foibe
furono uccise soltanto perché italiane, risulta sostanzialmente ambigua: poco fondata, specie per quanto riguarda il 1945, se riferita all’origine etnica, appare invece
molto più significativa se declinata sul piano politico, con
l’avvertenza aggiuntiva che per italiani vanno intesi non
solo e non tanto quanti riconoscevano come italiana la
loro identità nazionale (lo facevano anche i comunisti che
si battevano per la Jugoslavia socialista) quanto piuttosto coloro che volevano l’Italia, con una scelta politica
in cui preminente era la dimensione statuale.
R. PUPO-R. SPAZZALI, Foibe, Milano, Bruno Mondadori,
2003, pp. 108-113
Che cosa sono e che funzione svolgono i miti politici e storiografici? Quali di essi la vicenda delle foibe mette
in discussione?
Spiegate l’espressione: «a venire presi di mira furono [...] tutti coloro che, a prescindere dalle loro origini etniche,
si sentivano politicamente italiani».
F.M. Feltri, Chiaroscuro – Nuova edizione © SEI, 2012